Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Federica Ceccaroni, assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa con un progetto sul tema dell’ordine del superiore nel diritto penale internazionale, vincitrice della quarta edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone era una giovane magistrata che, fino alla sua morte a soli 36 anni, ha prestato servizio presso il Tribunale di Roma, dove ha trattato tra l’altro il processo relativo ai depistaggi nel caso Cucchi, e che prima di entrare in magistratura aveva dedicato ampia parte delle sue energie intellettuali alla ricerca accademica in materia penalistica, con un percorso di ampio respiro internazionale. Aveva infatti effettuato periodi di tirocinio presso Istituzioni europee, vinto borse di studio e svolto periodi di ricerca presso importanti istituti stranieri, fino al dottorato di ricerca in cotutela internazionale tra l’Università La Sapienza di Roma e l’Università Paris II Panthéon Assas di Parigi. La comparazione, lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione, è lo strumento che Giulia ha scelto, convinta che fosse l’unico utile, nel diritto come nella vita.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatori che, con quello stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri. E il testimone è stato raccolto da Federica Ceccaroni, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso le università di Oxford e Stoccolma durante il corso di studi, nonché presso il Max Plank Institute for Comparative Public Law and International Law di Heidelberg e presso l’École Normale Supérieure di Parigi, nell’ambito del suo percorso di dottorato presso l’Università della Tuscia.
Accogliendo Federica tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Federica, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/gli-attori-della-giustizia/1350-giulia-cavallone-un-ricordo
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022
https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3005-premio-giulia-cavallone-anno-2023
Per una giustizia dell'inumano. Riflessioni sulla codificazione italiana dei crimini internazionali
di Federica Ceccaroni
Sommario: 1. La giustizia penale internazionale di fronte alle nuove guerre. – 2. Coordinate preliminari sull’adeguamento allo Statuto di Roma. – 3. La parabola discendente della complementarietà. Note su sanzioni, tipizzazione e criteri imputativi. 4. – La dimensione ascendente della complementarietà. La responsabilità dell’ente. – 5. Conclusioni.
1. La giustizia penale internazionale di fronte alle nuove guerre.
L’aggressione russa all’Ucraina, i massacri del 7 ottobre in Israele, come pure l’atroce sterminio della popolazione civile di Gaza sollevano un acuto interrogativo sul ruolo e l’efficacia della giustizia penale internazionale. In questo scenario, il sistema istituito dallo Statuto di Roma, imperniato sul principio di complementarietà, rivela una dinamica che colloca le giurisdizioni nazionali al centro del processo di giustizia globale. È infatti compito primario degli Stati perseguire penalmente i crimini internazionali di competenza della Corte penale internazionale (CPI). Tuttavia, in Italia, a quasi ventisei anni dall’adozione dello Statuto di Roma, si ravvisa una normativa in materia frammentata e lacunosa. Invero, la l. 20 dicembre 2012, n. 237, dall’ambiziosa rubrica “Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”, si è limitata a disciplinare gli aspetti procedurali degli obblighi di cooperazione con la Corte, tacendo sugli aspetti di natura sostanziale[1].
Del delicato compito di dare completa attuazione allo Statuto di Roma è stata investita, da ultimo, con decreto del 22 marzo 2022 della ministra della giustizia Marta Cartabia, una Commissione per la stesura di un progetto di «Codice dei crimini internazionali»[2]. L’articolato, unitamente a una meditata relazione di accompagnamento, è stato prontamente elaborato nel rispetto delle strette tempistiche assegnate[3]. L’auspicata riforma ha subito, però, una inattesa battuta d’arresto: il 16 marzo 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per l’introduzione del Codice che si limita a prevedere il crimine di aggressione e a estendere le condotte costituenti crimini di guerra[4]. I crimini contro l’umanità sono stati stralciati dal testo e ogni menzione al genocidio è stata dunque omessa. La virata del nuovo governo è difficilmente spiegabile in un contesto minacciato dalle ostilità che richiede l’urgente implementazione di strumenti in grado di supportare attivamente anche la raccolta e condivisione del materiale probatorio, essenziale per i futuri processi di fronte ai tribunali nazionali o internazionali (c.d. complementarity preparedness)[5]. Da più parti si sussurra che le denunce recentemente presentate al Procuratore della CPI per crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei migranti in Libia spiegherebbero la premura del Consiglio dei ministri di precludere alle procure e ai tribunali nazionali la possibilità di svolgere simili indagini e procedimenti. Ma si tratterebbe di una prospettiva estremamente miope, considerando che, proprio ai sensi dell’art. 17 ICC St, la Corte è invero dotata della potestà di agire in supplenza, avocando a sé casi che lo Stato non voglia (unwillingness) o non possa (inability) giudicare in modo serio ed effettivo (innanzitutto per lacune del sistema giuridico)[6].
Il diritto penale internazionale, del resto, presenta una spiccata proiezione politica, considerando che si tratta di giudicare i crimini commessi dal potere. Ecco, dunque, che anche la codificazione di questi crimini diventa un atto politico, così come la scelta di non codificarli. Al di là delle ragioni di opportunità come pure di considerazioni relative alla dimensione culturale, occorre stimolare la riflessione, tutta giuridica, sulla necessità di un Codice che dia completa attuazione allo Statuto di Roma. Questo processo, come si vedrà, vede la complementarietà come un principio che si manifesta in una duplice direzione: la prima è una parabola discendente (v. infra § 3), che comporta l’adeguamento del diritto interno allo Statuto; la seconda è una parabola ascendente (v. infra § 4), che prevede l’introduzione di nuovi istituti giuridici che non solo si allineano allo Statuto, ma lo superano, contribuendo così allo sviluppo del diritto internazionale.
2. Coordinate preliminari sull’adeguamento allo Statuto di Roma.
L’adeguamento del corpus delle norme sostanziali interne allo Statuto della CPI sollecita una riflessione sulla diversità genealogica e quindi di funzione del diritto penale internazionale rispetto a quello di matrice nazionale. Si tratta, infatti, di una complessa operazione di integrazione tra sistemi che presentano legittimazione, metodi e finalità politico-criminali non coincidenti. Il diritto penale interno nasce come congegno di garanzia della libertà dei cittadini, come Magna Charta del reo. Il diritto penale è innanzitutto una “scienza dei limiti” che circoscrive lo spazio dell’azione punitiva statale: è strumento di protezione contro l’arbitrio del potere.
D’altra parte, già dal Preambolo, il sistema delineato dallo Statuto di Roma [7] svela la sua autentica vocazione: evitare che continui a perpetuarsi la situazione storica di impunità che avvolge la barbarie dei core crimes, un’impunità altrimenti “cronica” che rappresenta insopportabile pietra di scandalo per un’architettura giuridica modellata sui diritti fondamentali dell’uomo.
È singolare assumere come finalità un obiettivo che la giustizia ordinaria disconosce: la tradizionale “cifra oscura” dei crimini che restano impuniti non rappresenta in ottica interna un fallimento della giustizia penale, ma è piuttosto il normale, tollerabile prezzo da pagare al garantismo[8].
Nell’ordinamento interno, il diritto penale come strumento di difesa dei diritti individuali (scudo) e come mezzo di repressione della criminalità (spada) è una dicotomia mal posta. Non può esistere un diritto penale senza il telaio delle garanzie individuali. Non vi è spazio nella Costituzione per un approccio punitivo che non sia al contempo garantista. La Costituzione non insegue il concetto di una lotta alla criminalità; piuttosto ci parla di una giustizia ancorata alla responsabilità dell’individuo, al rispetto del giusto processo, alla protezione inalienabile della libertà della persona.
In questo senso la giustizia penale internazionale presenta un afflato profondamente diverso: non c’è una necessità di limitare una potestà punitiva, ma al contrario si rivolge all’implosione di statualità. Al potere che, da garante o giustiziere, diventa carnefice.
Per ciò solo risulta impraticabile un’automatica trasposizione interna degli istituti presenti nello Statuto: il diritto penale nazionale esce inevitabilmente riscritto e riplasmato dall’incontro con la dimensione internazionale.
A ben vedere, anche la legalità, per contenuto e funzione, non sembra coincidere con l’idea che anima il principio che negli ordinamenti interni porta lo stesso nome. Per il diritto penale interno è vincolo alla fonte, funzione di garanzia; nel diritto penale internazionale assume i connotati di una tipicità differenziale, in quanto delinea i presupposti di attivazione della giurisdizione della Corte per reati che sono perlopiù previsti anche negli ordinamenti interni. Perimetra, insomma, i limiti di rilevanza del possibile intervento della CPI.
Il problema della determinatezza nella formulazione delle fattispecie nello Statuto di Roma acquista dunque una diversa luce: non è rivolto alla collettività ma ai giudici, segna i vincoli e criteri di esercizio della propria giurisdizione. Difatti, la selezione primaria dell’illiceità è, in realtà, presupposta dallo Statuto; l’attribuzione alla Corte della giurisdizione si basa su un fatto che costituisce reato in base a una fonte di qualificazione distinta e indipendente. In tal senso, può parlarsi di un principio di legalità processuale[9].
Questione che, è evidente, apre a possibili tensioni con il principio di tassatività con cui la Commissione si è effettivamente confrontata. Per fare un esempio, si pensi al crimine di guerra di “violazione della dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e degradanti” o al crimine contro l’umanità degli “altri atti inumani”: si è rivelato impossibile tradurre nel Codice interno simili previsioni perché gravemente indeterminate. Del resto, proprio la trasposizione dell’art. 8 (2)(b)(xxi) e (c)(ii) ICC St ha portato la recente giurisprudenza tedesca ad interpretare il termine “persona” protetta dal diritto umanitario del corrispondente § 8 (1) no. 9 Völkerstrafgesetzbuch (VStGB) come riferibile anche a un soggetto deceduto[10]. Esito ermeneutico che costituisce anche il frutto della mancanza di forza tipologica della fattispecie, di un tipo criminoso slabbrato e sfuggente.
3. La parabola discendente della complementarietà. Note su sanzioni, tipizzazione e criteri imputativi.
Questo diverso atteggiarsi della legalità si manifesta anche dal punto di vista sanzionatorio. Mentre nel diritto penale interno la legalità investe anche le sanzioni, nel diritto penale internazionale manca un analogo principio di prevedibilità della misura della pena.
Si deve rammentare come il sistema delle pene delineato nello Statuto di Roma sia delineato in modo sommario, lasciando al giudice una notevole discrezionalità nella determinazione della pena[11]. Non vengono definiti i fini, non si stabilisce un sistema edittale tipico degli ordinamenti di civil law, ma neppure si prevede che il precedente assuma rilevanza come negli ordinamenti di common law. Le uniche norme rilevanti sono l’articolo 77 ICC St, che indica come pena principale la pena detentiva nella forma della reclusione di massimo trent’anni o nella forma dell’ergastolo per i casi più gravi; l’art. 78 ICC St e la regola 145 del Regolamento di procedura e di prova, che si limitano a fare un elenco di fattori da considerare ai fini della valutazione della gravità del crimine e del grado di colpevolezza del reo. Questo si traduce in una pratica sanzionatoria internazionale che differisce significativamente da quella del diritto penale interno, dove esistono parametri ben definiti (artt. 23, 24 e 133 c.p.), che garantiscono la prevedibilità e la proporzionalità delle sanzioni.
In questo senso si è proceduto nella proposta di Codice dei crimini internazionali alla previsione di precisi limiti edittali. Operazione non semplice in quanto ci si confronta con crimini incommensurabili[12]. Il criterio, che trova numerosi corrispondenti a livello comparato, non da ultimo il Codice dei crimini internazionali tedesco, è stato quello di un confronto con le fattispecie “corrispondenti” di diritto interno ma con una scelta di fondo che spinge verso l’alto.
Ma anche a livello di fatto tipico è risultata necessaria una trasposizione delle fattispecie previste dallo Statuto. Occorre, invero, dare conto della peculiare tipizzazione delle fattispecie nello Statuto di Roma, strutturate attorno al c.d. elemento di contesto. Elemento cruciale per comprendere la complessità dei crimini internazionali che, in effetti, implicano una moltitudine di attori e forme di violenza istituzionalizzata e che funge da decisivo amplificatore del disvalore delle singole condotte. Il contesto, dunque, si erge a triste palcoscenico – la violenza di massa – all’interno del quale si colloca il giudizio di responsabilità individuale ed è centrale per decifrare la particolare struttura legale dei crimini, che si compongono di due livelli. Il primo è quello della commissione dei singoli reati-base (c.d. underlying offences, omicidio, lesioni personali, stupro, tortura, sequestro di persona, e via dicendo).
Il secondo livello è, per l’appunto, quello del contesto, la cornice entro cui si iscrivono le underlying offence: ad esempio, le condotte di omicidio, stupro o tortura divengono crimini contro l’umanità se commessi in connessione con un “attacco esteso o sistematico ad una popolazione civile”. Il contesto esprime quindi il disvalore tipico della dimensione macro-sistematica dei crimini internazionali, seleziona i beni giuridici tutelati dalla norma (pace o sicurezza internazionale), ontologicamente diversi rispetto a quelli di diritto penale interno e segna anche una precisa caratterizzazione dal lato degli autori del crimine. Tendenzialmente immancabile è, invero, il legame tra responsabilità degli individui e responsabilità degli Stati: la dimensione massiva di questi crimini, infatti, non può non coinvolgere più o meno direttamente strutture del potere statale. La perpetrazione di tali atrocità trascende le capacità individuali, suggerendo un’involuzione dello Stato da garante di diritto a partecipante attivo nelle violazioni.
Questa complicità statuale porta a riflettere sulla reale necessità di simili previsioni nell’ambito di uno Stato di diritto. Ovviamente la situazione tipica di applicazione del penale internazionale non è quella dello Stato che giudica sé stesso, ma trova un suo importante canale applicativo attraverso il grimaldello della giurisdizione universale[13]. Diventa però essenziale interrogarsi pure sui margini di responsabilità che possono ravvisarsi in operazioni più o meno autorizzate di sterminio, sulla legittimità della guerra preventiva, di eccidi consumati sotto il vessillo della democrazia e di altri valori assoluti. Lo Stato democratico di diritto non è per ciò solo immune dal pericolo di convertire il suo monopolio della forza, le sue strutture politiche, in un mezzo per la consumazione di massacri ammantati da un’apparenza legittima[14].
Tuttavia, occorre rilevare che per una tesi minimalista e conservatrice non vi è necessità di una ulteriore tipizzazione di fattispecie che sono già coperte dal diritto penale interno[15]. Difatti, alcune violazioni previste nel codice penale militare di guerra possono essere equiparate a “crimini di guerra” nel contesto internazionale e la legge n. 962 del 9 ottobre 1967 già punisce alcune forme di genocidio. Ancora, i “crimini contro l’umanità” sembrano essere la trasposizione a livello internazionale di reati contemplati nel nostro Codice penale, come omicidio (anche in forma multipla, per coprire situazioni di “sterminio”), lesioni personali, schiavitù, tortura, violenza sessuale, arresto arbitrario e violenza privata.
Se certamente molte fattispecie previste dallo Statuto trovano un corrispondente nel diritto interno, la necessità di introdurre nuove figure di reato emerge al fine di esprimere il particolare disvalore dei crimini internazionali. L’opzione nominalistica non è mai neutra, ma riafferma con forza i significati; il linguaggio veicola l’intensità della pregnanza simbolica punitiva, recepisce e costruisce la realtà. Non si tratta solo di dare il giusto nome alle cose: “sequestro di persona” non è “sparizione forzata” quale crimine contro l’umanità. Il diverso segno linguistico rimanda, invero, a una specifica fenomenologia criminosa che si apprezza dal punto di vista qualitativo, per via del carattere odioso di questi crimini in quanto costituiscono un attentato a quella dignità che è propria dell’umanità nel suo complesso, e quantitativo, in ragione della loro ampiezza, della dimensione massiva.
Le parole sono importanti, verrebbe da dire. Ma alla portata simbolica dell’intervento penale si accompagna – e non poteva essere altrimenti – quella strumentale. Invero, la necessità di simili previsioni a livello interno appare con evidenza laddove si consideri che il processo italiano al plan Cóndor si è chiuso con ben diciannove assoluzioni per intervenuta prescrizione con riguardo ai crimini commessi durante le dittature in America latina[16]. Non a caso, la proposta di Codice prevede, all’art. 16, l’imprescrittibilità dei crimini internazionali.
A favore di questo progetto di riforma milita altresì il fatto che non tutte le fattispecie trovano un corrispondente interno, almeno nella cornice tipologica prevista dallo Statuto: si pensi ai crimini di guerra di illecita deportazione e illecito trasferimento di popolazione[17] ma anche apartheid, reclutamento e impiego di bambini-soldato: lacuna che potrebbe portare alla attivazione della Corte al nostro posto.
Ad ogni modo, si pone il problema cruciale in questo particolare momento storico circa l’impossibilità di cooperazione investigativa con riguardo ai crimini internazionali commessi all’estero, ove non siano presenti i rigidi criteri di collegamento previsti dal Codice penale.
Ovviamente l’introduzione di un Codice ad hoc non è priva di elementi di criticità soprattutto laddove si vada ad incidere sulle categorie di parte generale: vi è il rischio di una flessibilizzazione delle garanzie nonché della propagazione di criteri imputativi meno stringenti dall’ambito dei macro-crimini ad ipotesi limitrofe (si pensi al terrorismo). Ipotesi non così remota se solo si considera l’esperienza del “doppio binario”, quel canale differenziato della giustizia penale originariamente destinato al solo fenomeno mafioso, che poi ha conosciuto una progressiva ed inesorabile espansione con riferimento a fenomeni del tutto eterogenei. Per questo la Commissione ha optato per valorizzare gli istituti già esistenti, preservando integrità e coerenza del sistema attraverso un equilibrio tra vincoli costituzionali, parametri di diritto internazionale e proiezione dei principi interni. Approccio che ha permesso di evitare le insidie delle pulsioni punitive che talvolta emergono nei sistemi di giustizia penale internazionale.
Ad esempio, in materia di command responsibility, la scelta è stata quella di codificare distintamente una forma di concorso doloso per omesso impedimento nel reato altrui, una corrispondente ipotesi omissiva colposa costruita secondo lo schema dell’art. 57 c.p., e alcuni reati omissivi propri di mancata denuncia e mancata punizione. Soluzione che perimetra adeguatamente i titoli per i quali il superiore gerarchico può essere ritenuto responsabile, fugando il rischio di una automatica ascrizione per posizione del crimine commesso dal subordinato, con inevitabile violazione dei principi costituzionali di responsabilità personale colpevole.
Emerge quindi lo sforzo della Commissione con riguardo alla strutturazione del nesso ascrittivo nell’ipotesi di concorso doloso per omesso impedimento nel reato altrui. In particolare, i termini dell’art. 40, cpv. c.p. sono stati integrati meditatamente con gli esiti dell’evoluzione giurisprudenziale che ha esteso la responsabilità omissiva impropria, alla luce di una lettura combinata con l’art. 110 c.p., anche al caso di omesso impedimento del reato (e non solo dell’evento come testualmente previsto nel Codice penale) che si «aveva l’obbligo giuridico di impedire». A ciò si aggiunga che le ipotesi colpose di command responsibility, sanzionate con pena diminuita, sono state ricostruite come una specifica ipotesi di punibilità dell’agevolazione colposa, ispirata all’art. 57 c.p. sulla responsabilità del direttore di una pubblicazione periodica.
Quanto alle altre ipotesi di responsabilità omissiva, sono state espunte dal titolo di responsabilità per il fatto del subordinato l’ipotesi della mancata adozione da parte del superiore di misure punitive o disciplinari a carico del primo, ovvero dell’omessa denuncia, in una fase successiva alla commissione del crimine, riprendendo una distinzione già fatta propria dal legislatore tedesco. La condotta del soggetto in posizione gerarchicamente sovraordinata rimane penalmente rilevante, ma assurge ad illecito autonomo – una omissione propria – la cui cornice edittale è nettamente inferiore rispetto a quella contemplata per il crimine internazionale del subordinato.
4. La dimensione ascendente della complementarietà. La responsabilità dell’ente.
Il principio di complementarietà che vede i sistemi nazionali di giustizia penale come the most appropriate forum for adjuticating international crimes[18], può ben essere declinato anche in una prospettiva proattiva, introducendo opzioni che vanno oltre la stessa disciplina dello Statuto di Roma. In questo senso, è significativa la scelta operata nella proposta di Codice di prevedere una responsabilità degli enti per crimini internazionali[19].
È noto, infatti, che il tentativo di introdurre tale forma di responsabilità naufragò nell’ambito della conferenza di Roma, principalmente a causa della resistenza degli ordinamenti giuridici romano-germanici che presagivano conseguenze sgradite per via del principio di complementarietà. Si temeva infatti che la sua applicazione potesse risultare in una mancata capacità o volontà da parte degli Stati di perseguire società per crimini internazionali, lasciando tale onere alla CPI secondo l’articolo 17 dello Statuto[20].
Tuttavia, l’evoluzione delle normative nazionali negli ultimi vent’anni ha visto una crescente adozione del modello di responsabilità per enti collettivi. Peraltro, specie laddove si sia fatto ricorso ad un modello generalizzante (senza numerus clausus) dei reati presupposto, i crimini internazionali risultano oggetto di applicazioni giurisprudenziali, sia pur episodiche: si osserva infatti un numero crescente di casi giudiziari per le responsabilità di soggetti di vertice di imprese per serious violations of human rights, talvolta con implicazioni per l’ente (casi in Francia, Olanda, Germania, Svizzera, Argentina, e di recente anche in Italia)[21].
A ciò si affianca la questione se non vi ostino argomenti di ordine ontologico, che discendono dall’identità nonché dalla base di legittimazione del diritto penale internazionale. Sin dal giudizio di Norimberga l’imputazione penale ruota attorno alla persona fisica; non vi è spazio, invece, per una responsabilità dell’ente, in senso proprio. Si tratta di un’opzione che, del resto, riflette il rivoluzionario cambio di paradigma maturato nell’ambito di quella esperienza storica, che può compendiarsi nelle parole della nota sentenza del 1° ottobre 1946 del Tribunale militare internazionale: «i crimini sono commessi da uomini, non da entità astratte, e soltanto punendo gli individui che commettono tali crimini si può dare effettivamente attuazione alle previsioni del diritto internazionale». Il carattere originario del diritto penale internazionale, quale meccanismo sanzionatorio, è la capacità di individualizzare le responsabilità nei contesti di macrocriminalità che connotano i crimini internazionali. L’introduzione di criteri di imputazione autonomi e in senso lato funzionali, come la «corporate culture», o la «colpa di organizzazione», potrebbe così costituire un punto di rottura.
Ad ogni modo, vi è da chiedersi se il coinvolgimento delle imprese nei crimini internazionali non rappresenti forse l’incarnazione di una moderna e antichissima banalità del male[22]. Significativi studi criminologici indicano nello State-corporate crime una nuova fenomenologia criminosa[23] che richiede un’adeguata evoluzione del rimprovero internazional-penalistico. Questo nuovo formante della macrocriminalità, costituito da attori economici e politici, impone così una rinnovata attenzione nella selezione e nell’analisi delle violazioni sistemiche ai valori fondamentali tutelati dalla comunità internazionale.
L’inclusione della responsabilità degli enti nella proposta di Codice italiano costituisce dunque un virtuoso esempio della dinamica innescata dal principio di complementarietà e apre anche all’auspicio di simili evoluzioni nel contesto dello Statuto di Roma[24]. È ampiamente riconosciuto che i sistemi giuridici nazionali esercitino un’influenza significativa sul nucleo duro del diritto penale internazionale, generando un flusso giuridico che promuove un dialogo multilivello tra differenti ordinamenti giuridici.
Quanto al contenuto della proposta italiana di Codice dei crimini internazionali, l’art. 67 integra il regime di responsabilità ex crimine degli enti collettivi all’interno del sistema stabilito dal d.lgs. n. 231/2001. La scelta è particolarmente significativa per ragioni di coerenza di sistema e per il potenziale preventivo nelle realtà di impresa dei Modelli di organizzazione e gestione (MOG) atti a contenere il rischio della commissione di condotte illecite, e nella specie di quelle che possano sfociare in crimini internazionali. Approccio che si distingue positivamente da quello adottato in precedenti tentativi di codificazione dei crimini internazionali in Italia, come il progetto Kessler, che prevedeva l’ipotesi estrema dello scioglimento dell’ente. La Commissione ha quindi adottato una strategia più misurata, tesa a prevenire eccessi punitivi e a salvaguardare lo svolgimento di attività economiche lecite che comportano intrinseche dimensioni di rischio. In particolare, ha limitato la rilevanza del contributo dell’ente ai casi in cui «il reato sia stato determinato da gravi carenze organizzative», così come previsto, in relazione alle sanzioni interdittive, dall’art. 13 d.lgs. n. 231/2001.
Deve, tuttavia, osservarsi che al comma 5 è stata inserita una causa di non punibilità dell’ente: «L’ente non risponde quando la condotta sia stata realizzata nel rispetto di provvedimenti dell’autorità». Si è dunque ritenuto di escludere la responsabilità dell’ente quando questo, ad esempio, abbia agito sotto l’egida di licenze o autorizzazioni amministrative. Si pensi al caso di una impresa di produzione di materiali bellici che abbia effettuato una cessione a una entità pubblica straniera, previo provvedimento permissivo degli uffici preposti, cessione cui sia poi seguito l’impiego della fornitura in un conflitto armato nel quale si ritiene vengano perpetrati crimini di guerra avvalendosi della stessa.
Su quest’ultimo aspetto, la soluzione proposta non convince. Si tratta, infatti, di un punto di equilibrio troppo sbilanciato a favore dell’impresa, traducendosi in una sorta di scudo penale per chi vanti provvedimenti autorizzatori dell’autorità. Permettere che l’impresa che esporta armi verso un regime dittatoriale, notoriamente coinvolto nella commissione di crimini internazionali, nulla possa temere in presenza di un provvedimento legittimante finisce per vanificare la meritevolezza della proposta. Del resto, il diritto penale internazionale trova il suo fondamento nonché una sua base di legittimazione proprio nel tentativo di rivolgersi alle perversioni del potere statuale: è la stessa base criminologica di riferimento, quella dello State-corporate crime, a pretendere uno scrutinio degli atti che promano dall’autorità.
5. Conclusioni
L’integrazione tra il diritto penale internazionale e il diritto penale interno è essenziale per affrontare i crimini di massa che turbano la coscienza collettiva. I nuovi conflitti mettono alla prova l’efficacia del sistema di giustizia penale internazionale, evidenziando la necessità di una dimensione solidale della complementarietà, un concetto che costituisce il sottotesto del progetto di Codice italiano dei crimini internazionali. Progetto che è senz’altro la sapiente canalizzazione del diritto penale internazionale nel tessuto del diritto nazionale. La ritirata di tale iniziativa appare dunque sorprendente, nell’attuale momento storico, e sollecita una rinnovata riflessione che trascende i meri aspetti tecnici per abbracciare anche questioni culturali e politiche.
Il Codice dei crimini internazionali può essere visto non solo come un mezzo di giustizia, ma anche come un simbolo dell’impegno di un paese a difendere i valori fondamentali dell’umanità contro le peggiori forme di barbarie, come la risposta – sia pure imperfetta – alla sofferenza, come l’arduo compito di ricondurre quel male a razionalità. Di fronte alle atrocità di massa il diritto. Il diritto penale dell’inumano[25], riprendendo la felice formula coniata da Mireille Delmas-Marty.
Se il diritto penale internazionale può essere visto come un tentativo di razionalizzare l’indicibile, di reazione all’etica del male, l’adattamento delle norme interne allo Statuto di Roma, ha anche l’indiscusso pregio di riaffermare l’umanità come valore comune da preservare.
[1] La legge include, in effetti, disposizioni sostanziali che mirano a modificare certi reati contro l’amministrazione della giustizia, come la falsa testimonianza e le false dichiarazioni al Pubblico Ministero, e contro la pubblica amministrazione, tra cui concussione e corruzione, al fine di assicurare la punibilità di tali condotte in danno della CPI. Nulla si dice però sui core crimes.
[2] Il testo dell’articolato e della relazione di accompagnamento è rinvenibile online alla seguente pagina: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS372730.
[3] Sulla proposta di Codice si vedano N. Selvaggi, The way forward. An overview on the draft “Palazzo-Pocar” of 2022, in C. Meloni, F. Jeßberger, M. Crippa (eds.), Domesticating International Criminal Law, Abingdon-New York, 2023; E. Fronza, C. Meloni, The Draft Italian Code of International Crimes, in J. Int. Crim. Justice, Volume 20, Issue 4, September 2022, p. 1027 ss.; A. Vallini, Il codice a pezzi. Ascesa e caduta della proposta di una legge organica sui crimini internazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2023, pp. 91-110; Id., “Una sola moltitudine”: le atrocità della guerra in Ucraina, la giustizia penale internazionale, la Commissione “Palazzo – Pocar” per un Codice dei Crimini Internazionali, lceonline, n. 2/2022, II/Osservatorio, p. 21 ss.; M. Crippa, L’approvazione di un codice dei crimini internazionali “dimezzato” Le ragioni di un (dis)atteso intervento normativo, in Quest. Giust., 21 marzo 2023, 8 ss.
[4] https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-25/22 114.
[5] F. Jeßberger, Towards a ‘Complementary Preparedness’ Approach to Universal Jurisdiction – Recent Trends and Best Practices in the European Union, Briefing, in Workshop: Universal Jurisdiction and International Crimes: Constraints and Best Practices, Directorate General for External Policies of the Union, Policy Department for External Relations, Settembre 2018, p. 9 ss.
[6] In questo senso il recepimento delle fattispecie dello Statuto, sollecitato dal principio di complementarietà, può essere considerato non tanto come un obbligo ma come un rilevante onere. Sul punto, e più in generale sul tema dell’adeguamento italiano allo Statuto, v., da ultimo, R. Lopez, L’Italia e la mancata repressione dei crimini internazionali, in Proc. pen. giust., n. 2/2024, p. 502 ss.
[7] Nel Preambolo dello Statuto di Roma, alinea 5, si legge testualmente «determined to put an end to impunity for the perpetrators of these crimes and thus to contribute to the prevention of such crimes».
[8] In termini pressoché coincidenti, L. Cornacchia, La funzione della pena nello Statuto della Corta Penale Internazionale, Milano, 2009, p. 89 ss.
[9] A. Di Martino, Postilla sul principio di legalità nello Statuto della Corte criminale internazionale, in M. Delmas-Marty, E. Fronza, E. Lambert Abdelgawad (a cura di), Les sources du droit international pénal: l'expérience des Tribunaux Pénaux Internationaux et le Statut de la Cour Pénale Internationale, Paris, 2004, p. 329 ss.
[10] Si veda, da ultimo, Bundesgerichtshof [BHG], Jan. 28, 2021, 3 StR 654/19, ECLI:DE:BGH:2021:280121U3STR564.19.0. Per un’analisi compiuta delle questioni sottese alla casistica citata cfr. K. Ambos, Deceased Persons as Protected Persons Within the Meaning of International Humanitarian Law: German Federal Supreme Court Judgment of 27 July 2017, in Journal of International Criminal Justice, Volume 16, Issue 5, December 2018, p. 1105 ss.; V. Bergmann, F. Blenk, N. Cojger, Desecration of Corpses in Relation to § 8(1) no. 9 German Code of Crimes Against International Law (VStGB): The Judgment of the German Federal Court of Justice (Bundesgerichtshof) of July 27, 2017–3 StR 57/17, in German Law Journal, 22(2), 2021, p. 276 ss.
[11] A. Riccardi, Sentencing at the International Criminal Court. From Nuremberg to the Hague, Roma, 2016, p. 113 ss.
[12] C. Meloni, Punire l’incommensurabile? Sulla difficile funzione e commisurazione della pena nel diritto penale internazionale, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta, (a cura di), La pena, ancora fra attualità e tradizione, Studi in onore di Emilio Dolcini, Milano, 2018, p. 389 ss.
[13] Si vedano le belle pagine di A. Garapon, Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner. Pour une justice internationale, Paris, 2002, 19 ss. per una riflessione sulla “compétence universelle”. Secondo l’A. “la competenza universale, oltre a rimarcare la supremazia di alcuni diritti fondamentali sulla sovranità, testimonia la deterritorializzazione estrema dell’idea di giustizia penale internazionale. Questa non si incarna più in una singola istituzione, ma è rinvenibile allo stato latente in qualsiasi organo di giustizia di tutti i paesi firmatari della convenzione. La giustizia sogna di realizzare la profezia del diritto cosmopolita immaginato da Kant nel suo progetto di pace perpetua: «con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti»” (tr. it. di S. Allegrezza). Attuali anche le considerazioni sull’intricato rapporto tra politica internazionale e giurisdizione universale, che ripropone a livello interno la tensione tra diritto e potere.
[14] Così ammoniva Palazzo nella magistrale introduzione al convegno “La dismisura del male: il diritto di fronte ai crimini di massa”, organizzato dall’Istituto italiano di Scienze Umane, Firenze, 3 marzo 2008. Per il testo della Relazione v. F. Palazzo, Il diritto penale di fronte ai crimini di massa. Introduzione, in Riv. it. dir. proc. pen, n. 2/2009, 750 ss.,
[15] In tal senso, A. Cruciani, Il progetto per un codice di crimini internazionali alla lente dei principi di complementarità e ne bis in idem dello Statuto della CPI, in Quest. Giust., 2 marzo 2023.
[16] Cass. pen., Sez. I, 09/07/2021, n. 43693.
[17] Qui il riferimento non può che andare alla contestazione inerente il mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin. Cfr. Situation in Ukraine: ICC judges issue arrest warrants against Vladimir Vladimirovich Putin and Maria Alekseyevna Lvova-Belova, in www.iccc-cpi.int, 17 marzo 2023.
[18] A. Cassese, The Role of Internationalized Courts and Tribunals in the Fight Against International Criminality, in C. Romano – A. Nollkaemper – J.K. Kleffner (eds.), Internationalized criminal courts and tribunals. Sierra Leone, East Timor, Kosovo and Cambodia, Oxford, 2004, p. 4.
[19] Il tema lambisce i confini disciplinari riconducibili alla nozione tedesca di Wirtschaftsvölkerstrafrecht, settore ancora in via di sedimentazione che indaga la risposta del diritto penale dinanzi ai gravi abusi di potere economico-politico. Cfr. F. Jessberger – W. Kaleck – T. Singelstein (eds.), Wirtschaftsvölkerstrafrecht, Baden-Baden, 2015; K. Ambos, International Economic Criminal Law: The Foundations of Companies’ Criminal Responsibility Under International Law, in Criminal Law Forum, 29, 2018, p. 499; P. Severino – J. Vervaele – A. Gullo (eds.), Criminal Justice and Corporate Business, Proceedings of AIDP – XX International Congress, 13-16 November 2019, Rome, 2021; F. Jeßberger, On the Origins of Individual Criminal Responsibility under International Law for Business Activity, IG Farben on Trial, in Journal of International Criminal Justice, vol. 8, 2010, pp. 783-802; S. Manacorda, Fragments’ of International Economic Criminal Law: Short Notes on Corporate and Individual Liability for Business Involvement in International Crimes, in F. Jeßberger, M. Vormbaum, B. Burghardt (eds.), Strafrecht und Systemunrecht, Festschrift für Gerhard Werle zum 70. Geburtstag, Tübingen, 2022, pp. 193-206.
[20] S. Manacorda, Codificare i crimini internazionali? Prospettive penalistiche nella cornice costituzionale, in Quad. cost., 4/2022, p. 797 ss.
[21] Temi non dissimili sono stati oggetto di communication alla CPI. In particolare, nel dicembre del 2019, è stata proposta una comunicazione relativa alla responsabilità di alcune imprese europee, registrate o attive negli Stati membri dello Statuto CPI, accusate di aver facilitato crimini di guerra in Yemen attraverso la vendita di armi alla coalizione guidata dagli Emirati Arabi Uniti. Già nel 2017, un’associazione di enti impegnati nella difesa dei diritti umani aveva formalmente sollecitato il Procuratore della CPI ex art. 15 dello Statuto CPI, ad avviare un’indagine riguardante il coinvolgimento della Chiquita Brands International in crimini contro l’umanità perpetrati da formazioni paramilitari in Colombia.
[22] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. it. P. Bernardini, Milano, 2014.
[23] Il crimine politico-economico è stato formalmente definito come «illegal or socially injurious actions that result from a mutually reinforcing interaction between (1) policies and/or practices in pursuit of the goals of one or more institutions of political governance and (2) policies and/or practices in pursuit of the goals of one or more institutions of economic production and distribution». Cfr. R.C. Kramer – R.J. Michalowski – D. Kauslarich, The Origins and Development of the Concept and Theory of State-Corporate Crime, in Crime & Delinquency, 48(2), 2002, pp. 263–282; R.J. Michalowski, R.C. Kramer (eds.), State-Corporate Crime. Wrongdoing at the Intersection of Business and Government, New Brunswick, 2006; K. Schlegel – D. Weisburd, White-Collar Crime Reconsidered, Boston, 1992, p. 215.
[24] In questo contesto, può osservarsi come la responsabilità degli enti per core crimes potrebbe ispirare rinnovato ottimismo nello strumento internazional-penalistico. Note sono le posizioni critiche di chi parla di una giustizia politicizzata, dipendente dai rapporti di forza tra Stati. In contrapposizione all’idea di un diritto penale portatore di valori universalmente condivisi, si agita da più parti il sospetto che tale strumento giuridico si riveli adatto piuttosto «ad imporre un’idea egemonica – e a dominanza occidentale – dell’ordine mondiale». La deviazione dell’interesse verso la responsabilità delle imprese, generalmente figlie dei paesi sviluppati, potrebbe dunque costituire un punto di rottura per la narrazione neocoloniale della giustizia penale internazionale. In tal senso anche J. Aparac, Business and Armed Non-State Groups: Challenging the Landscape of Corporate (Un)accountability in Armed Conflicts, in Business and Human Rights Journal, 2020, p. 274 ss.: «It would be timely for the ICC to investigate the socio-economic aspects, the root causes and the role of external actors to the conflict, which could help to correct the neo-colonial narrative that violence is specific to third world countries while reiterating the legitimacy of the ICC». In senso contrario v. G. Baars, Capital, corporate citizenship and legitimacy: The ideological force of ‘corporate crime’ in international law, in Baars, G. – Spicer, A. (eds.), The Corporation: A Critical, Multi-Disciplinary Handbook, Cambridge, 2017, pp. 419-433, che sostiene che la responsabilizzazione a livello internazionale delle imprese conferirebbe alle stesse legittimazione.
[25] M. Delmas-Marty, Violenza e massacri: verso un diritto penale dell’inumano?, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2009, p. 753 ss.