ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In ricordo di Gianfranco Ciani di Gabriella Luccioli
*Nella foto di copertina: al centro Gabriella Luccioli e Gianfranco Ciani, a sinistra Ernesto Lupo, a destra Ugo Vitrone. Montepulciano 1966.
1. Gianfranco Ciani è stato per l’ordine giudiziario un grande magistrato, per me anche un amico fraterno. Per questa ragione le mie parole non potranno prescindere da alcuni riferimenti personali.
Conobbi Gianfranco al primo anno di università alla Sapienza, uno studente modello, attento, studioso, gentile nel tratto.
Percorremmo in parallelo i quattro anni del corso universitario e ci laureammo entrambi a novembre del quarto anno, entrambi con una tesi in diritto penale, entrambi seguiti dal professor Vassalli.
Poi, subito dopo la laurea, ricordo Gianfranco proiettato con grande determinazione verso la preparazione del concorso in magistratura secondo un progetto da tempo coltivato. In questo impegno non potei seguirlo subito, non essendo consentito a me donna, all’ epoca, di accedere alle funzioni giurisdizionali. Ma poco dopo la legge del febbraio 1963 eliminò quell’orribile discriminazione, così che potei raggiungere Gianfranco nella preparazione del concorso, frequentando insieme a lui una piccola scuola di via della Mercede e seguendo le belle lezioni del consigliere di Stato Santoni Rugiu.
Superammo entrambi le prove di esame, svolgemmo insieme il tirocinio e poi avemmo le prime funzioni, lui alla pretura di Foligno, io al tribunale di Montepulciano.
E dopo qualche tempo di nuovo a Roma, ancora insieme alla pretura di Roma, ad occuparci di esecuzioni mobiliari.
In seguito i nostri percorsi professionali si divaricarono, perché Gianfranco andò alla Procura generale della Cassazione con funzioni di magistrato applicato e poi di sostituto procuratore generale; nel 2008, con voto unanime del CSM, fu nominato avvocato generale; nel 2011, sempre con voto unanime, procuratore generale aggiunto; infine nell’aprile 2012, ancora una volta con voto unanime, procuratore generale.
Continuammo a coltivare insieme la passione per lo studio del diritto in un piccolo gruppo di magistrati che sotto la guida del presidente Brancaccio si incontravano una volta la settimana per dibattere insieme di temi giuridici. Il presidente Brancaccio ci accompagnò per tutto il corso della sua prestigiosa carriera in un lungo cammino di studio e di maturazione professionale.
2. La storia di Gianfranco Ciani, tutta all’interno della giurisdizione, è quella di un magistrato di elevatissima professionalità, che ha testimoniato in ogni occasione la sua concezione della giustizia come servizio per il cittadino ed ha dimostrato come le funzioni di pubblico ministero, esercitate per gran parte della sua vita professionale, possono nutrirsi della cultura della giurisdizione.
Nell’intervento svolto il 25 gennaio 2013 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 affermò che per un pubblico ministero essere parte integrante della giurisdizione significa “imparare a misurare il valore dell’azione penale (e, prima ancora, della stessa attività di indagine) sul suo esito giurisdizionale” e precisava che “il sintagma cultura della giurisdizione significa proprio una progressiva attrazione delle ragioni dell’indagine nella futura prospettiva della sentenza: in uno scenario, cioè, che non si fermi al facile clamore mediatico delle cautele personali, ma che riesca a intravedere, prospetticamente, i presupposti dell’affermazione di responsabilità. La validità di un’inchiesta non è in un provvedimento custodiale ottenuto, ma solo nella definitiva condanna di un colpevole”.
Nello svolgimento dell’incarico di segretario generale della Procura generale, affidatogli nel 2003 e conservato sino alla nomina ad avvocato generale, procedette ad una radicale ristrutturazione dell’Ufficio tesa ad una sua maggiore efficienza ed avviò e portò a termine l’informatizzazione dei registri della segreteria penale.
Nella qualità di avvocato generale addetto al disciplinare dette corso ad una importante riorganizzazione del servizio nel segno della uniformità e della trasparenza, così da garantire la diffusione interna delle problematiche affrontate e l’omogeneità formale dei capi di incolpazione.
Nel corso della sua lunga esperienza di pubblico ministero si occupò di processi delicatissimi, che sfiorarono i palazzi del potere, svolgendo il ruolo dell’accusa con equilibrio e saggezza. Da segnalare il processo a carico dell’on. Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, in cui chiese ed ottenne l’assoluzione dell’uomo politico definendo mere congetture le accuse; quello a carico dell’avvocato inglese Mills, concluso con l’accoglimento da parte della Cassazione della sua richiesta di dichiarare la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari, ma non di prosciogliere nel merito; quelli contro importanti esponenti della criminalità terroristica, interna ed internazionale, tra i quali va ricordato il giudizio di cassazione originato da un provvedimento di cattura nei confronti del presidente dell’OLP Arafat, che poneva delicati problemi di diritto internazionale.
E poi processi che hanno segnato la storia del nostro Paese, come quelli a carico di Annamaria Franzoni e di Angelo Izzo, o quello relativo all’attentato dell’Addaura.
Dopo la nomina a Procuratore generale continuò a partecipare alle udienze dinanzi alle Sezioni unite penali, così rompendo una tradizione risalente negli anni di disimpegno del capo dell’Ufficio dall’esercizio dell’attività giurisdizionale in senso stretto.
Nelle funzioni di titolare dell’azione disciplinare esercitò il relativo potere con forte senso dell’istituzione ed equità, non disgiunta dal necessario rigore lì dove si trattava di censurare comportamenti di particolare gravità. A tale riguardo osservò nel richiamato intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 che “il controllo sul versante della responsabilità disciplinare è requisito coessenziale all’indipendenza della magistratura, nella ricerca del punto di equilibrio tra autonomia della funzione e garanzia della qualità del servizio reso, senza derive né verso la tutela corporativa, né verso un conformismo burocratico”.
Ancora si impegnò attivamente, sia a livello nazionale che internazionale, per la istituzione del pubblico ministero europeo al quale affidare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Intensa la sua partecipazione a convegni ed incontri internazionali in Paesi europei ed extraeuropei, nonché a conferenze mondiali dei procuratori generali.
Fece parte di numerose commissioni ministeriali per la riforma del codice di procedura penale, nonché della commissione di studio per la riforma del CSM, dei consigli giudiziari e del consiglio direttivo della Cassazione istituita con d.m. 12 agosto 2015.
Fu collaboratore de Il Foro Italiano e componente del comitato di direzione di Cassazione penale. Curò vari commenti ai codici penale e di procedura penale.
La misura dei toni, il tratto gentile e la straordinaria umanità hanno segnato la figura di un magistrato che non ha mai fatto sfoggio della sua cultura e della sua preparazione, ma ha assunto sobrietà e compostezza come suo habitus professionale e mentale. Ogni suo ragionamento era frutto di riflessione e di ponderazione.
I reiterati richiami, nel ruolo di Procuratore generale, al dovere di riserbo, gli inviti a sottrarsi alle lusinghe dell’immagine e della notorietà, a non coltivare rapporti privilegiati con la stampa, a non ricorrere in modo disinvolto a provvedimenti di custodia cautelare, il costante riferimento alla necessità di una adeguata organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in rapporto alle complesse funzioni loro demandate, con la sollecitazione a costituire in ogni Procura gruppi di lavoro specializzati ed a fissare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, non solo consentono di delineare l’immagine di un magistrato a tutto tondo, portatore dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia e attento alla qualità del servizio, ma esprimono una visione estremamente attuale dei problemi sul tappeto e delle possibili soluzioni.
Altrettanto lucide ed attuali appaiono le sue considerazioni sulla necessità di interventi legislativi volti ad un’efficace opera di depenalizzazione, che limiti la sanzione penale alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, e ad una seria modifica della disciplina della prescrizione, secondo una visione che poneva le due linee di intervento normativo come sfide immediate per la garanzia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Nell’intervento svolto il 23 gennaio 2015 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, l’ultimo prima del suo pensionamento, denunciò l’errore diffuso nella società di individuare nel giudice penale il metronomo assoluto dei comportamenti esigibili sul piano etico dai consociati, così consegnando esclusivamente a detto giudice la percezione della antisocialità di talune condotte e affidando alla giurisdizione il peso di distorte incombenze culturali ed ideologiche.
La consapevolezza dei pericoli insiti in tale fenomeno, diretto a caricare la giurisdizione di enormi aspettative etiche e sociali destinate a rimanere deluse, non gli impedì di lanciare, in detta occasione, un segnale di ottimismo con parole che in questo momento così difficile è bello richiamare: “è venuto il momento di reagire al pessimismo dilagante, divenuto una sorta di alibi dell’immobilismo e dell’improvvisazione, e di creare le condizioni per contrastare una situazione che è certamente grave, ma può essere superata se prevalgono l’ottimismo della volontà e l’impegno della magistratura e delle istituzioni interessate, in spirito di coesione, per adeguare l’amministrazione della giustizia al livello dei Paesi più avanzati”.
3. Gli anni dopo il pensionamento non sono stati facili per Gianfranco: lo tormentavano seri problemi alla vista, con le inevitabili limitazioni alla lettura e alla vita di relazione. Ed era proprio questo che più lo angosciava: l’impossibilità di continuare a leggere, a studiare, ad occuparsi dei temi che avevano interessato tutta la sua vita professionale e di impiegare pienamente il suo tempo. Da ultimo la malattia che lo ha stroncato e che rendeva la sua voce al telefono sempre più debole, ma sempre carica di amicizia, una voce in cui pur nella sofferenza era possibile percepire una nota di sollievo per il piacere di risentirci.
Ai due splendidi figli Stefania e Giancarlo che hanno seguito la sua strada professionale resta il conforto di aver vissuto accanto ad una persona eccezionale e la prospettiva di seguirne l’esempio.
A noi resta la testimonianza autorevole di un modo alto di essere magistrato.
Il ruolo dell’inerzia del curatore ai fini della legittimazione straordinaria del contribuente insolvente ad impugnare atti impositivi
di Ginevra Iacobelli
La quinta sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25373 del 25 agosto 2022, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per valutare il rinvio della causa alle Sezioni Unite Civili, per le seguenti questioni:
- Se, al fine di ritenere sussistente la legittimazione straordinaria del contribuente insolvente ad impugnare atti impositivi, rilevi la mera inerzia del curatore, intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale o, invece, occorra accertare se l’inerzia sia frutto o meno di valutazione ponderata degli organi della procedura concorsuale;
- Quali siano gli effetti della soluzione alla predetta questione sulla natura, relativa o assoluta, dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese del contribuente, e le possibili ripercussioni al di fuori della materia tributaria.
La questione oggetto dell’ordinanza interlocutoria in commento origina dall’impugnazione di due avvisi di accertamento, con i quali venivano disconosciuti costi non documentati e recuperata IVA, per i quali il contribuente ha fatto valere la propria legittimazione straordinaria ad impugnare, stante il disinteresse dimostrato dal curatore del fallimento della società di cui egli era legale rappresentante, società nelle more dichiarata fallita.
La CTP di Napoli ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo il contribuente privo di legittimazione. La CTR della Campania ha rigettato l’appello del contribuente ritenendo che non vi fosse stato disinteresse della curatela ad impugnare l’atto impositivo, ma che la rinuncia fosse stata oggetto di specifica valutazione del giudice delegato.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione specificando che l’atto impositivo riguardava crediti concorsuali insorti prima della dichiarazione di fallimento e considerandosi – quale soggetto passivo del rapporto di imposta – legittimato ad agire in costanza di fallimento. Secondo il ricorrente l’inerzia del curatore ad impugnare gli atti impositivi relativi a crediti concorsuali rileva, ai fini della insorgenza della legittimazione straordinaria del soggetto dichiarato fallito, per il solo fatto che il curatore ometta tout court di adire la tutela giurisdizionale. Di conseguenza, il difetto di legittimazione passiva non può essere rilevato di ufficio, in assenza di eccezione sollevata dal curatore.
1. La legittimazione ad impugnare atti impositivi in caso di fallimento del contribuente
L’indagine viene incentrata sulla legittimazione del debitore a far valere la tutela giurisdizionale avverso atti impositivi, che astrattamente e potenzialmente impattano sullo stato passivo del fallimento e che, pertanto, tendono a incrementare la massa dei creditori che concorrono sul ricavato dell’attivo ripartibile.
La Suprema Corte richiama il principio secondo cui, stante il trasferimento al curatore della legittimazione a far valere rapporti di diritto patrimoniale che facevano capo al debitore (artt. 43 l. fall., 143 d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) - il debitore è privo, in linea generale, della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.
A questa regola fanno eccezione i seguenti casi:
i) il debitore dichiarato fallito (insolvente) che agisce per la tutela di diritti di natura strettamente personale ex artt. 46 l. fall., 146 d. lgs. n. 14/2019 (Cass., Sez. III, 9 maggio 2019, n. 12264);
ii) inerzia degli organi della procedura (Cass., Sez. Lav., 5 dicembre 2019, n. 31843; Cass., Sez. II, 4 dicembre 2018, n. 31313).
Con la specifica che fa a sua volta, eccezione a quest’ultimo principio – secondo cui il debitore, in caso di inerzia degli organi della procedura concorsuale, è legittimato a impugnare provvedimenti che impingono nei rapporti patrimoniali che facevano capo al debitore e che incrementano il passivo concorsuale - il decreto di esecutività dello stato passivo, provvedimento che non è in alcun modo impugnabile dal debitore, attesa anche l’estraneità del debitore al novero dei soggetti legittimati ad impugnare il suddetto decreto, a termini degli artt. 98, terzo comma, l.f., art. 206, comma 3, d. lgs. n. 14/2019 (Cass., Sez. I, 21 gennaio 2020, n. 1197; Cass., Sez. VI, 25 marzo 2013, n. 7407; Cass., Sez. I, 29 marzo 2012, n. 5095).
Nel caso di impugnazione di atti impositivi i cui presupposti si fossero determinati prima dell’apertura della procedura concorsuale – impugnazioni che si svolgono davanti al giudice tributario e che indirettamente incidono sullo stato passivo – si riafferma il principio che il contribuente dichiarato fallito (insolvente) è legittimato ad impugnare gli atti impositivi in caso di inerzia degli organi della procedura.
2. Il ruolo dell’inerzia del curatore nel riconoscimento della legittimazione straordinaria del contribuente fallito
Come è evidente, l’inerzia degli organi del fallimento è considerata, in ogni caso, il presupposto per attribuire legittimazione al debitore. È evidente l’importanza che assume comprendere cosa debba intendersi per inerzia del curatore del fallimento e quando si manifesta.
Il problema è che tipo di inerzia permetta al contribuente fallito di agire personalmente in giudizio.
Sul punto la Corte specifica che, nel tempo, si sono formati due orientamenti:
L’orientamento tradizionale (i) sostiene l’impugnabilità degli atti impositivi da parte del contribuente, giustificata dal diverso interesse che ha il contribuente insolvente rispetto al curatore del fallimento.
Il curatore ha interesse ad opporsi ad una pretesa tributaria, in sede giurisdizionale, solo se il contenzioso possa incidere astrattamente sulla ripartizione dell’attivo; il contribuente ha un interesse diverso che gli deriva da riflessi anche di carattere sanzionatorio. L’interesse ad adire del contribuente, inoltre, rileva anche in forza di eventuali effetti positivi che potrebbero derivargli al momento della chiusura del fallimento, ad esempio nel giudizio di esdebitazione, anche ai fini IVA.
Dal riconoscimento della legittimazione straordinaria in capo al contribuente dichiarato fallito discendono i seguenti corollari:
- il difetto di legittimazione straordinaria può essere rilevato solo dal curatore che non sia rimasto inerte e abbia adito l’autorità giudiziaria (l’eccezione è, quindi, di natura relativa non rilevabile né dalla controparte, né d’ufficio);
- il contribuente, in costanza di fallimento, non ha l’onere di dimostrare l’interesse ad agire visto che né il giudice né la controparte potrebbero rilevare il difetto di interesse.
Più chiaramente, secondo l’orientamento richiamato la regola è che il contribuente sia legittimato ad impugnare gli atti impositivi (salvo l’eccezione del curatore), presumendosi l’inerzia degli organi concorsuali in caso di mancato avvio dell’azione giurisdizionale. Unica eccezione è il caso in cui il curatore resti inerte dopo aver instaurato un giudizio tributario, ritenuto successivamente inopportuno da coltivare.
Si afferma, cioè, che l’avvio di un giudizio tributario da parte del curatore fallimentare sia idoneo a escludere il realizzarsi del presupposto dell’inerzia e precluda la legittimazione straordinaria del contribuente. Si delinea la presunzione secondo cui la mancata prosecuzione del giudizio o l’omessa impugnazione della sentenza che lo conclude derivano da una specifica valutazione degli organi della procedura che ne escludono l’inerzia. In tal caso l’eccezione di difetto di legittimazione diviene assoluta, rilevabile anche d’ufficio.
All’orientamento tradizionale si è opposto, di recente, un diverso orientamento (ii) che ritiene che non ricorra l’inerzia in ogni caso in cui vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore, sfociata nella mancata impugnazione dell’atto impositivo. L’inerzia, pertanto, non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia impugnato l’atto impositivo, ma solo se la mancata impugnazione sia stata causata da un totale disinteresse. Così, però, occorrerebbe volta per volta esaminare l’omessa proposizione dell’azione di impugnazione da parte del curatore per comprendere se sia frutto di ponderata valutazione.
L’ordinanza sembra non appoggiare la predetta soluzione sottolineando che:
1. in tal caso, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del contribuente diventerebbe assoluta e potrebbe essere rilevata anche d’ufficio dal giudice;
2. la legittimazione straordinaria per pura inerzia diventerebbe, così, inapplicabile in caso di normale operare degli organi della procedura, visto anche che il curatore, quando non intende agire, non procede a farsi autorizzare, ma si limita a sottoporre al visto del giudice delegato il proprio operato.
L’unico spazio di operatività del principio di pura inerzia sarebbe fatto salvo solo nel caso in cui il curatore non si fosse accorto della pendenza del termine per impugnare, lasciando spazio all’iniziativa del debitore.
Si finirebbe, così, per pregiudicare l’operato dei contribuenti insolventi che si trovino al cospetto di curatori attenti e si favorirebbero, viceversa, i contribuenti che si trovino al cospetto di curatori disattenti in relazione ai contenziosi pendenti;
3. l’interesse ad agire del contribuente verrebbe in qualche modo legato alla valutazione operata dal curatore, la quale è del tutto slegata dall’interesse del contribuente.
Se l’irrilevanza dell’interesse del debitore fallito sembra essere alla base dell’esclusione della legittimazione del debitore per quanto riguarda le impugnazioni dei crediti ammessi allo stato passivo, ove si esclude la legittimazione del debitore, l’estensore sottolinea che non si rinviene una analoga norma nel procedimento tributario.
Questa limitazione «di fatto» della legittimazione straordinaria del contribuente potrebbe, peraltro, apparire distonica con la persistenza del rapporto di imposta – in costanza di fallimento - in capo al contribuente e con l’interesse alla tutela giurisdizionale in materia tributaria, la quale rientra tra i diritti fondamentali dell’ordinamento (artt. 24, 53 Cost.).
Il reclamo/mediazione all’indomani della riforma della giustizia tributaria
di Giuseppe Corasaniti*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Brevi cenni in merito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina del reclamo e della mediazione tributaria. – 3. Le (inattuate) proposte di riforma del reclamo/mediazione a seguito della c.d. Manovra Correttiva. – 4. Il “nuovo” reclamo/mediazione e la “conciliazione d’ufficio proposta dalla corte di giustizia tributaria”. – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Il 31 agosto 2022 è stata emanata la l. n. 130, rubricata “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”[1] che, dopo il fallimento di diverse iniziative legislative proposte negli ultimi anni, ha finalmente attuato l’auspicata riforma della giustizia tributaria.
Il provvedimento legislativo in discorso, sebbene permangano talune criticità[2], deve tuttavia essere accolto con favore, avendo introdotto novità di pregio ed essendo intervenuto su profili – specie per quanto concerne la fase istruttoria del processo tributario[3] – di particolare rilievo.
Nonostante il giudizio in merito alla menzionata riforma sia dunque, complessivamente, positivo, si è però dell’opinione che ad alcuni istituti sarebbe stato opportuno dedicare un’attenzione più ampia. Il riferimento è, in particolare, al reclamo e alla mediazione tributaria disciplinati dall’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, norma che, sin dalla sua introduzione, pare non aver soddisfatto gli obiettivi che avrebbe dovuto contribuire a realizzare. La disposizione in discorso, sebbene interessata da continue modifiche che hanno certamente condotto a parziali miglioramenti rispetto alla sua primaria formulazione, fatica infatti, anche a seguito delle più recenti novità contemplate dall’art. 4, co. 1, lett. e), l. n. 130 del 2022, a trovare un’adeguata collocazione che le consenta realmente di adempiere alle finalità per cui era stata introdotta, ovvero quella di fungere da «efficace rimedio amministrativo per deflazionare il contenzioso»[4].
2. Brevi cenni in merito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale del reclamo e della mediazione tributaria
Come poc’anzi accennato, il testo attuale dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 si discosta sotto molteplici aspetti dalla sua originaria formulazione, essendo il risultato di una profonda trasformazione che gli istituti del reclamo e della mediazione tributaria[5] hanno conosciuto negli anni successivi alla loro introduzione, tanto ad opera del Legislatore, quanto della Corte Costituzionale[6], che attraverso una serie di interventi “correttivi” hanno tentato di porre rimedio ad alcuni fra i profili maggiormente “critici” che ne caratterizzavano l’originaria disciplina[7].
Come noto, le prime modifiche apportate alla norma si rinvengono già in occasione dell’approvazione della l. 27 dicembre 2013, n. 147 (“Legge di stabilità 2014”), emanata nelle more del relativo giudizio di legittimità costituzionale, e testimoniano l’intento del Legislatore di «“mettere in sicurezza” il reclamo e la mediazione nella prospettiva dell’imminente pronuncia della Consulta» e di «minimizzare le eventuali conseguenze di una pronuncia di illegittimità costituzionale[8]».
A breve distanza di tempo, tuttavia, la disciplina dell’istituto, così come risultante a seguito delle novità apportate dal Legislatore con la l. n. 147 del 2013, nonché a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 17-bis, co. 2, d.lgs. n. 546 del 1992, ha conosciuto un’ulteriore e significativa evoluzione che ha condotto ad una sostanziale riformulazione della norma, all’interno della quale l’art. 9, co. 1, lett. l), d.lgs. n. 156 del 2015[9] ha introdotto alcune novità di pregio, senza però risolvere tutte le perplessità sorte negli anni precedenti[10]. Il citato art. 9, più precisamente, ha integralmente “riscritto” il previgente art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, contemplando novità di notevole rilevanza nel dichiarato intento di potenziare l’istituto del reclamo/mediazione e, conseguentemente, di incentivare ulteriormente rispetto al passato la deflazione del contenzioso tributario[11].
Di minor pregnanza, seppur degne di approfondimento, si sono rivelate invece le modifiche normative operate dall’art. 10, d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (conv. con mod. dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, c.d. “Manovra Correttiva”), che rappresenta l’ultimo intervento legislativo che ha interessato gli istituti del reclamo e della mediazione prima delle recenti novità introdotte dalla l. n. 130 del 2022.
A tal riguardo, si ritiene dunque opportuno ricordare brevemente come la novella del 2015 abbia anzitutto confermato l’impostazione adottata in sede di prima revisione dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, senza riproporre l’originaria sanzione dell’inammissibilità del ricorso giurisdizionale in caso di mancata previa proposizione dell’istanza di reclamo e mantenendo altresì inalterato il limite di valore di ventimila euro. L’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, come risultante a seguito della predetta modifica normativa, ha inoltre confermato che il ricorso diviene procedibile solo una volta trascorso il termine di novanta giorni previsto al fine di esperire la procedura amministrativa volta alla composizione della lite; tuttavia, diversamente rispetto alla disposizione precedentemente vigente, questo meccanismo è stato attuato prevedendo che il ricorso, proposto nelle forme di rito, produce anche gli effetti del reclamo, che può contenere una proposta di mediazione, con rideterminazione dell’ammontare della pretesa[12]. Ne consegue che la proposizione dell’impugnazione produce, nelle controversie di valore non superiore (originariamente) a ventimila (attualmente cinquantamila) euro, oltre agli effetti sostanziali e processuali tipici del ricorso, anche quelli del reclamo/mediazione: in concreto, dunque, si è previsto che il procedimento amministrativo in esame fosse introdotto automaticamente con la presentazione del ricorso[13].
Sotto il profilo soggettivo, è inoltre importante sottolineare come la novella del 2015 abbia decisamente esteso l’ambito di applicazione dell’istituto, ricomprendendo infatti nell’ambito delle controversie reclamabili anche quelle riguardanti tributi di competenza dell’Agenzia delle dogane, dell’Agenzia del territorio, dei Monopoli di Stato, degli Enti locali, nonché quelle di competenza dell’Agente della riscossione e dei Concessionari della riscossione. In queste ultime due eventualità, peraltro, l’art. 17-bis, co. 9, d.lgs. n. 546 del 1992 ha disposto che il reclamo possa applicarsi solo ove compatibile.
Come sottolineava espressamente la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 156 del 2015, «la ratio sottesa all’estensione del reclamo risiede[va] nel principio di economicità dell’azione amministrativa diretta a produrre effetti deflativi del contenzioso, anche alla luce del proficuo abbattimento riscontrato nel contenzioso contro gli atti emessi dall’Agenzia delle entrate». E sempre alla medesima ratio rispondeva altresì l’estensione del procedimento di reclamo/mediazione ai tributi di competenza comunale o di altri Enti locali.
Da ultimo, il già citato art. 10, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, ha apportato ulteriori modifiche all’impianto dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, prevedendo, fra l’altro, l’innalzamento del valore delle liti reclamabili da ventimila a cinquantamila euro per tutti gli atti impugnabili notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018[14].
3. Le (inattuate) proposte di riforma del reclamo/mediazione a seguito della c.d. Manovra Correttiva
A seguito delle (contenute) novità introdotte ad opera della Manovra Correttiva, nel 2017, i tentativi di riformare gli (imperfetti) istituti del reclamo e della mediazione non si sono sopiti, ragion per cui si ritiene opportuno, specie al fine di comprendere il motivo per cui la recente novella appaia di certo “deludente” rispetto alle originarie aspettative, ripercorrere brevemente i tratti salienti delle principali proposte di modifiche normative formulate nel corso degli ultimi anni.
A tal riguardo, occorre in particolare menzionare il progetto di “Codice della Giustizia tributaria” predisposto dal prof. Glendi e del dott. Labruna, all’interno del quale si prevedeva la soppressione dell’istituto del reclamo e la “sostituzione” della mediazione con un “nuovo” strumento, avente sempre funzione deflativa del contenzioso, ma collocato nell’ambito dei “riti speciali” (titolo quinto del progetto), in specie, nel capo primo relativo alle “procedure conciliative”, denominato “conciliazione preliminare per le liti minori” (art. 114 del progetto). Tuttavia, seppur qualificata come “procedura conciliativa” e pur avendo alcuni profili disciplinari comuni con le (diverse) forme di “conciliazione in udienza” (art. 115 del progetto) e di “conciliazione fuori udienza” (art. 116 del progetto), la “nuova” “conciliazione preliminare delle liti minori”, avrebbe parzialmente conservato i tratti caratteristici dell’attuale istituto della mediazione, pur differenziandosene per taluni aspetti procedurali di non poca rilevanza[15].
Fra i profili maggiormente caratterizzanti il “nuovo” istituto della “conciliazione preliminare per le liti minori” figurava, senza dubbio, la “facoltatività”. Difatti, la scelta di attivare la relativa procedura avrebbe dovuto essere rimessa, in via esclusiva, al ricorrente, a fronte, invece, dell’obbligatorietà dell’attuale procedura del reclamo e della facoltatività – ad iniziativa del ricorrente oppure dell’Ufficio – della mediazione (ex art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992).
Si prevedeva, altresì, diversamente da quanto previsto dalla normativa attualmente vigente, un obbligo, a carico dell’Ente fiscale, di formulare al ricorrente una “controproposta di conciliazione novativa della controversia”, ma solo nel caso in cui ritenesse di non accogliere la proposta conciliativa formulata nel ricorso. In tal senso, la “conciliazione preliminare per le liti minori” avrebbe dovuto rappresentare uno strumento deflativo del contenzioso destinato a condurre solo ed esclusivamente ad una “rideterminazione novativa” dell’ammontare complessivo della pretesa formulata nell’atto impugnato non potendo, al contrario, mai condurre ad un suo annullamento integrale.
Alla luce di quanto illustrato può dunque osservarsi che il progetto, da un lato, abbandonava l’attuale strumento del reclamo quale istanza amministrativa volta all’annullamento totale o parziale dell’atto ovvero (più correttamente) quale “ricorso amministrativo in opposizione” (volto a provocare un riesame giustiziale dell’atto), ravvisabile ex lege nel ricorso tutte le volte in cui il valore della lite non superasse la soglia normativamente predeterminata (con attivazione, in ogni caso, di una procedura amministrativa della durata di novanta giorni, che è condizione di procedibilità del ricorso quale atto processuale); mentre, dall’altro, conservava lo strumento della mediazione, pur modificandone la “veste”, la “denominazione” e alcuni tratti disciplinari[16].
Un ulteriore interessante (e condivisibile) profilo disciplinare del “nuovo” istituto della “conciliazione preliminare per le liti minori” era rappresentato dalle modalità di perfezionamento. Difatti, ai fini del perfezionamento dell’“accordo conciliativo”, non sarebbe stato necessario il pagamento dell’intero o della prima rata dell’importo dovuto, in quanto l’“accordo conciliativo” si sarebbe perfezionato con la relativa sottoscrizione e produzione in giudizio, in modo sostanzialmente analogo a quanto previsto dalla disciplina vigente per la conciliazione giudiziale ex artt. 48 ss., d.lgs. n. 546 del 1992.
Di minor interesse rispetto all’ambizioso progetto di “Codice della Giustizia tributaria” che, come visto, per gli istituti del reclamo e della mediazione prospettava soluzioni condivisibili e normativamente impeccabili, a conclusioni senz’altro diverse si giungeva con riferimento alla proposta n. 2283 di disegno di legge delega di iniziativa parlamentare presentata il 29 novembre 2019 presso la Camera dei Deputati, all’interno della quale era prevista la soppressione delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali e l’attribuzione delle relative competenze al Giudice ordinario, con l’istituzione di sezioni specializzate in materia tributaria presso i principali Tribunali e le Corti d’appello. In tale proposta di disegno di legge delega, inoltre, era previsto che ai procedimenti in materia tributaria fossero applicabili le disposizioni previste dagli artt. 702-bis e ss., c.p.c. (fatta eccezione per l’art. 702-ter, co. 3, c.p.c.) e che le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi in materia tributaria fossero proposte, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., al Giudice dell’esecuzione del Tribunale competente.
Ciò posto, tra i principi e criteri di delega era prevista anche l’applicazione delle procedure di mediazione tributaria vigenti alla data di entrata in vigore della legge delega. Ciò significava che, nelle intenzioni dei promotori della suddetta riforma, nel “nuovo” processo tributario innanzi al Giudice ordinario avrebbe potuto essere applicabile la sola procedura (facoltativa) di mediazione tributaria disciplinata dall’attuale art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, ma non anche l’istituto (obbligatorio) del reclamo.
Come già espresso in un precedente contributo, al di là di qualsiasi giudizio in merito ad una simile riforma del processo tributario[17] (che, fortunatamente, è rimasta priva di seguito), ci si limiti ad osservare che l’applicazione sic et simpliciter dell’attuale procedura di mediazione tributaria (ex art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992) avrebbe implicato un “innaturale” innesto di una procedura di natura prettamente amministrativa nella fase inziale di un giudizio svolto con rito ordinario. Ed in effetti, si sarebbe passati da un giudizio (quello attuale) che si attiva mediante impugnazione di provvedimenti amministrativi tributari, che ha ad oggetto un rapporto giuridico (quello tributario) di natura pubblicistica, ad un giudizio svolto non già sul modello (ovvero con il rito) del (più similare) processo amministrativo, bensì svolto con le modalità previste per la risoluzione delle controversie di stampo privatistico, con tutte le anomalie che ciò avrebbe implicato.
4. Il “nuovo” reclamo/mediazione e la “conciliazione d’ufficio proposta dalla corte di giustizia tributaria”
Il disegno di legge di iniziativa governativa di riforma della giustizia tributaria AS 2636, concretizzatosi nell’approvazione della l. n. 130 del 2022, è giunto al termine di un lungo percorso di approfondimento delle complessità concernenti la giustizia tributaria nel suo complesso, con l’obiettivo primario di realizzare una riforma strutturale che consentisse, in particolare, di far fronte al contenzioso arretrato e di ridurre la durata dei processi. Il disegno di legge in parola ha affrontato numerose tematiche di considerevole rilevanza, soffermandosi altresì su taluni istituti – quali quelli del reclamo e della mediazione tributaria – che per la loro natura di “strumenti deflativi del contenzioso” rivestono evidentemente un ruolo essenziale per il raggiungimento delle suddette finalità. Tuttavia, come accennato in premessa, le novità che la l. n. 130 del 2022 ha contemplato con specifico riguardo al reclamo/mediazione appaiono piuttosto contenute.
Ebbene, per comprendere le ragioni che hanno indotto il Legislatore a mantenere sostanzialmente inalterata la configurazione degli istituti in discorso, si è dell’opinione che non possa prescindersi da una, seppur breve, ricognizione del dibattito sorto sul tema nell’ambito della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro della giustizia del 12 aprile 2021, e presieduta dal prof. Giacinto della Cananea.
Nella Relazione finale della Commissione, pubblicata il 30 giugno 2021, non si è mancato di porre in evidenza come, nel corso delle audizioni, sulla struttura del reclamo/mediazione così come disciplinata dall’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 fossero state sollevate diverse perplessità in merito alla concreta efficacia dell’istituto ai fini della deflazione del contenzioso tributario, specie a motivo dell’assenza di terzietà dell’organo competente all’esame delle relative istanze.
Sul punto, come correttamente osservato dal prof. Franco Gallo, l’affidamento del reclamo e della mediazione ai medesimi Uffici che hanno notificato gli atti e, di conseguenza, dato origine alle controversie «appesantisce indubbiamente la procedura, la rende di scarsa utilità, dilata inutilmente i tempi del giudizio ed è di fatto sovrapponibile all’accertamento con adesione»[18]. Proprio per tale ragione, il prof. Gallo suggeriva di abolire tanto il reclamo quanto la mediazione, proponendo quali alternative all’istituto, la “conversione” della mediazione in una «conciliazione “forte”, presieduta dal giudice monocratico o relatore» ovvero, in alternativa, l’affidamento del tentativo di mediazione «ad un apposito organismo terzo ed imparziale, mediante la creazione di un albo dei mediatori presso il Ministero di Grazia e Giustizia (avvocati e commercialisti)»[19].
Nonostante le manifestate critiche ed insoddisfazioni riguardo all’istituto del reclamo/mediazione, la Commissione della Cananea non ha giudicato opportuno né procedere alla sua soppressione, né, tantomeno “stravolgere” la struttura disegnata dall’art. 17-bis. Anzitutto, la Commissione ha ritenuto “significativa” la percentuale di controversie tributarie definite secondo la procedura di cui alla norma in discorso[20], circostanza che dunque avrebbe giustificato la sopravvivenza dell’istituto, tenuto altresì conto del fatto che (ma sul punto sia consentito sollevare qualche dubbio) «esso induce nell’Ente impositore una rimeditazione complessiva dell’atto impugnato ai fini dell’eventuale esercizio del potere di autotutela». In secondo luogo, la Commissione riteneva necessario che per tutte quelle controversie di valore non superiore a 50.000 euro «che “sopravvivono” al tentativo di mediazione» e che, di conseguenza, non vengono definite in via amministrativa, fossero potenziati altri istituti deflativi. In altre parole, nell’intento della Commissione l’eventuale fallimento della mediazione avrebbe dovuto essere “temperato” dalla possibilità di usufruire di ulteriori rimedi extraprocessuali, con l’obiettivo, quindi, di avvalersi di altri strumenti di natura amministrativa per scongiurare il deposito del ricorso e l’avvio del giudizio dinanzi alla Commissione tributaria.
Anche con specifico riferimento all’opportunità di affidare la procedura di reclamo/mediazione ad un organismo terzo e indipendente rispetto all’Ufficio responsabile dell’emanazione dell’atto impositivo, la Commissione ha ritenuto di non accogliere le istanze e gli auspici formulati in tal senso. Ciò, per ragioni senz’altro comprensibili da un punto di vista strettamente “pratico”, ma non del tutto condivisibili sotto il profilo della necessità di assicurare una reale tutela per il contribuente che, si ritiene, sarebbe maggiormente garantita solo nel caso in cui l’istanza di reclamo/mediazione fosse esaminata da un soggetto imparziale e privo di interessi nel caso concreto. Difatti, le motivazioni addotte dalla Commissione a sostegno del proprio convincimento risiedevano: i) nella difficoltà di creare ex novo un organismo di mediazione, terzo rispetto all’Ente impositore, «anche considerati i costi ed i tempi amministrativi necessari»; ii) in una (presunta) ambiguità circa la natura delle funzioni che avrebbero dovuto essere attribuite al suddetto organismo, «tra la pura mediazione e l’attività decisoria»; iii) «i costi ed i tempi per il contribuente, certi a fronte dell’incertezza dell’esito».
Ebbene, le conclusioni espresse dalla Commissione della Cananea nella propria Relazione finale paiono aver influenzato in maniera determinante la sorte degli istituti del reclamo e della mediazione di cui all’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, il quale, nonostante gli emendamenti proposti a seguito della presentazione in Senato del d.d.l. AS 2636[21], ha sostanzialmente mantenuto la sua precedente formulazione. La l. n. 130 del 2022, difatti, si è limitata a contemplare l’aggiunta di un ultimo comma alla norma in parola, il 9-bis, che prevede quanto segue: “In caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione formulata ai sensi del precedente comma 5, la soccombenza di una delle parti, in accoglimento delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione, comporta per la parte soccombente la condanna al pagamento delle relative spese di giudizio. Tale condanna può rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione”.
In aggiunta alla suddetta modifica, occorre tuttavia fare presente un’altra novità introdotta dalla l. n. 130 del 2022 che, sebbene non abbia ulteriormente scalfito la lettera dell’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, risulta comunque connessa all’istituto del reclamo/mediazione e trae anch’essa origine dalle considerazioni svolte dalla Commissione della Cananea in merito alla necessità di consentire il ricorso ad ulteriori rimedi di natura extra-processuale in caso di fallimento della mediazione.
Nella Relazione finale del 30 giugno 2021, difatti, si ipotizzava di “rafforzare” e di dare una diversa configurazione all’istituto della conciliazione giudiziale, con specifico riferimento alle controversie di valore non superiore a 50.000 euro. Più precisamente, si proponeva di introdurre una nuova forma di conciliazione giudiziale su proposta del giudice, così mutuando quanto previsto nell’ambito del processo civile dall’art. 185-bis c.p.c. In questo modo, secondo quanto osservato dalla Commissione, il tentativo di conciliazione avrebbe potuto essere esperito anche «per le controversie per le quali l’Ente impositore è rimasto inerte nella fase di reclamo/mediazione, ovvero ha opposto dinieghi in qualche misura non giustificati, con il decisivo ausilio del giudice chiamato a formulare un’equilibrata proposta». Inoltre, si riteneva che l’efficacia deflativa della nuova conciliazione “d’ufficio” sarebbe stata «potenziata» dall’istituzione di una magistratura tributaria di ruolo.
Evidentemente accogliendo le istanze della Commissione della Cananea, la l. n. 130 del 2022 ha inserito nel d.lgs. n. 546 del 1992 il nuovo art. 48-bis.1, rubricato “Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria”, il cui co. 1 prevede espressamente che: “Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”.
La norma chiarisce, inoltre, che la proposta di conciliazione può essere formulata in udienza o fuori udienza e si perfeziona con la redazione di un processo verbale all’interno del quale dovranno essere indicati le somme dovute, i termini e le modalità di pagamento e che costituirà titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il per il pagamento delle somme dovute al contribuente[22].
5. Osservazioni conclusive
Il dibattito in merito al reclamo e alla mediazione tributaria, a distanza di undici anni dalla loro introduzione all’interno del d.lgs. n. 546 del 1992, fatica ancora ad attenuarsi e, a parere di chi scrive, non troverà definitiva soluzione a seguito delle recenti novità introdotte dalla l. n. 130 del 2022.
Diversi sono ancora i profili, come si è tentato di illustrare nei paragrafi precedenti, che non consentono all’istituto in discorso di soddisfare appieno gli obiettivi che hanno originariamente condotto alla sua introduzione, né si ritiene che la previsione di una “seconda possibilità” di risolvere la controversia in via “extra-processuale”, grazie all’introduzione della nuova conciliazione su proposta del giudice ex art. 48-bis.1, d.lgs. n. 546 del 1992, rappresenti la scelta più adeguata a risolvere quelle criticità cui non hanno posto rimedio i numerosi interventi legislativi che hanno interessato l’art. 17-bis nel corso degli anni.
La nuova conciliazione ex art. 48-bis1 si pone invero come una sorta di rimedio di seconda istanza che potrebbe avere quale possibile effetto (indesiderato) quello di dilatare ulteriormente i tempi di conclusione della controversia senza peraltro soddisfare l’esigenza di deflazionare il contenzioso tributario. A tal riguardo, si è dell’opinione che sarebbe stato preferibile sposare la soluzione, proposta dal prof. Glendi e dal dott. Labruna nel progetto di Codice della Giustizia tributaria, di introdurre sì una nuova forma di conciliazione, ma con l’obiettivo (più ragionevole) di sostituire il reclamo/mediazione e non di (tentare di) potenziarne gli effetti in caso di suo fallimento.
*Professore ordinario di Diritto tributario Università degli Studi di Brescia
[1] Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 204 del 1° settembre 2022.
[2] Al riguardo, come correttamente sottolineava il prof. Giuseppe Melis all’indomani della presentazione in Senato del d.d.l. A.S. 2636, una più ampia e «meditata riforma dell’intero processo tributario, ordinamentale e processuale, sarebbe risultata incompatibile con i tempi di urgenza dell’intervento dettati dal PNRR». Si veda, al riguardo, la testimonianza fornita dal prof. Melis in data 28 giugno 2022 nell’ambito del Ciclo di audizioni informali nell'ambito dell’esame del disegno di legge n. 2636 sulla riforma della giustizia tributaria. Si veda inoltre, sempre G. Melis, Liti tributarie, una riforma a danno dei contribuenti, in Il Sole-24 Ore, 24 giugno 2022; Id., Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia insieme, 30 giugno 2022.
[3] Sul punto si vedano le riflessioni di C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Ipsoa Quotidiano, 24 settembre 2022, il quale ha sottolineato che «Rispetto al Ddl, il testo di legge fornito dal Parlamento presenta modifiche molto significative e migliorative» e ha osservato, con particolare riguardo alla disciplina dell’istruttoria del processo tributario, che le modifiche introdotte rappresentano «Nell’insieme (…) una vera e propria “rivoluzione copernicana”, che trasforma profondamente tale disciplina in termini di maggiore affidabilità e funzionalità operativa».
Particolarmente critico, invece, si dimostrava il prof. Glendi a seguito della presentazione in Senato del d.d.l. A.S. 2636. Cfr. C. Glendi, “At ille murem peperit” (ovvero del tormentato parto governativo sulla riforma della giustizia tributaria), in GT – Riv. giur. trib., 2022, 6, 473, il quale ha correttamente posto in evidenza come le scarne novità contemplate dal d.d.l. A.S. 2636 rappresentassero «una sorta di “minimo sindacale” (…) che sembra studiato apposta per evitare incidenti di percorso in sede assembleare nei termini ormai prossimi a scadere onde acquisire gli agognati benefici unionali».
[4] In questi termini si esprimeva la Relazione di accompagnamento al d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, il cui art. 39 ha originariamente introdotto l’art. 17-bis all’interno del d.lgs. 546 del 1992.
[5] Per un’analisi degli istituti del reclamo e della mediazione, oltre che per maggiori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali sul tema, si consenta il rinvio a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, Padova, 2013, passim; Id., Mediazione e conciliazione nel processo tributario: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., 2020, 3, 965 ss.
[6] Il riferimento è, in particolare, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 16 aprile 2014.
[7] La disposizione in esame è stata inoltre oggetto, sin dalla sua originaria introduzione nel nostro ordinamento, di giudizi contrastanti da parte della dottrina che ne ha accuratamente studiato i profili sostanziali e procedurali. Difatti, a chi considerava «sicuramente apprezzabile l’intento di creare un filtro con finalità conciliative» (cfr. F. Pistolesi, Il reclamo e la mediazione nel processo tributario, in Rass. trib., 2012, 89), si contrapponeva chi, considerando la procedura un’inutile e fuorviante sovrastruttura (cfr. M. Basilavecchia, Reclamo, mediazione fiscale e definizione delle liti pendenti, in Corr. trib., 2011, 2492), esprimeva notevoli perplessità sia perché essa determinava il totale disvelamento della strategia processuale del contribuente, sia in quanto la disciplina del reclamo era mal coordinata con quella dell’accertamento con adesione. Sotto questo ultimo profilo, appariva singolare la scelta di imporre lo svolgimento di un’ulteriore fase amministrativa, pur avanti ad una struttura diversa dell’ufficio – quella deputata alla gestione del contenzioso – dopo che non fosse andata a buon fine quella avviata ex art. 6, d.lgs. n. 218/ del 1997 (sulla mancanza di coordinamento tra la disciplina in esame e l’accertamento con adesione concordava, comunque, anche F. Pistolesi, op. cit., 73).
[8] In questi termini A. Marinello, Reclamo e mediazione tributaria: i limiti costituzionali della giurisdizione condizionata, in Dir. prat. trib., 2014, 4, 628 ss. Si consenta inoltre il rinvio a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, cit., 123 ss.
[9] Emanato in attuazione dell’art. 10 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23.
[10] Con riferimento alle citate modifiche, Autorevole dottrina rilevava che, in realtà, «alla stregua della nuova normativa sembra ormai del tutto improprio parlare di mediazione, non avendo comunque il congegno normativamente previsto più nulla a che fare con la mediazione di stampo processualcivilistico». Cfr. C. Glendi, Il reclamo e la mediazione, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, (a cura di) Glendi – Consolo – Contrino, Milano, 2016, 182.
[11] Cfr. Circolare n. 38/E del 29 dicembre 2015.
[12] Lo precisa l’art. 17-bis, co. 1., d.lgs. n. 546 del 1992.
[13] Cfr. Circ. n. 38/E del 2015.
Al riguardo, si sono peraltro sempre condivisi gli orientamenti interpretativi di quella parte della dottrina che ravvisa nella disciplina del reclamo (nella sua veste amministrativa) «aspetti dei veri e propri rimedi giustiziali» (cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2012, 413) ovvero, in modo ancora più specifico, che sembrerebbe assimilare il reclamo (nella sua veste amministrativa) al ricorso amministrativo in opposizione, affermando che il reclamo, essendo «volto all’annullamento totale o parziale dell’atto», da questo punto di vista «altro non è che un ricorso in opposizione amministrativa» (cfr. A. Giovannini, Reclamo e mediazione tributaria: per una riflessione sistematica, in Rass. Trib., 2013, 54 ss.; Id., Giurisdizione tributaria condizionata e reclamo amministrativo, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 915 ss.). Al riguardo si consenta inoltre il rinvio, per una più approfondita trattazione sul tema, a G. Corasaniti, Il reclamo e la mediazione nel sistema tributario, cit., 4; Id., L’incessante evoluzione del reclamo/mediazione: pregi e difetti di un istituto in continuo rinnovamento, in Dir. prat. trib., 2017, 21, 1639 ss.
In merito, si ricordino inoltre le parole con cui Autorevole dottrina ha sottolineato «l’alto tasso di scadimento confusionale sul piano della tecnica legislativa» osservando come risulti pressoché inutile che la nuova norma continui a parlare di “reclamo” e, a maggior ragione, di “reclamo” quale effetto del ricorso (cfr. C. Glendi, Il reclamo e la mediazione, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, cit., 175.)
Per una più approfondita riflessione in merito alla natura giuridica degli istituti del reclamo e della mediazione si consenta inoltre il rinvio a G. Corasaniti, La mediazione e la conciliazione nel processo tributario, in La riforma della giustizia tributaria, C. Glendi (a cura di), Milano, 2021, 42 ss.
[14] Per una disamina delle più recenti modifiche apportate all’art. 17-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, sia consentito il rinvio a G. Corasaniti, Dall’Agenzia delle Entrate istruzioni sul reclamo/mediazione: una riforma ancora incompleta, in Corr. trib., 2018, 600 ss.
Si veda inoltre: Agenzia delle Entrate, Circolare 22 dicembre 2017, n. 30.
[15] Per una più completa disamina del “nuovo” istituto contemplato nel progetto di “Codice della Giustizia tributaria” si consenta il rinvio a G. Corasaniti, La mediazione e la conciliazione nel processo tributario, cit., 65 ss.
[16] Il progetto disciplinava espressamente, inoltre, l’ipotesi dell’“accordo conciliativo parziale” che avrebbe determinato una separazione del processo: si sarebbe estinta la parte del processo che aveva ad oggetto la parte della pretesa formulata nell’atto impugnato “definita” con lo strumento della “conciliazione preliminare”; sarebbe proseguita, invece, la parte del processo che aveva ad oggetto la parte residua non conciliata. Senza dubbio, l’espressa previsione (e disciplina) dell’“accordo conciliativo parziale” avrebbe potuto rappresentare un ulteriore “stimolo” per il ricorrente ad attivare il “nuovo” strumento deflativo del contenzioso.
[17] Al riguardo si sono condivise appieno le dure critiche formulate da C. Glendi, Verso l’ecatombe della giustizia tributaria (e di quella civile), in Ipsoa Quotidiano del 12 ottobre 2020, il quale, tra l’altro, sottolineava come un simile progetto di riforma si ponesse «in aperta contraddizione con l’attuale assetto ordinamentale costituzionalmente guarentigiato dove, piaccia o non piaccia, così come congegnato e formatosi dopo i ben noti dibattiti in sede di Assemblea costituente, non è prevista una sola giurisdizione (quella ordinaria), ma sono previste più giurisdizioni e cioè varie giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile e anche tributaria), che dunque non possono essere soppresse con una legge ordinaria, richiedendosi, perché ciò, malauguratamente possa trovare ingresso, una disposizione normativa di rango costituzionale (come, tra l’altro, già in altre occasioni sostenuto e affermato dalla Corte costituzionale e dalle stesse SS.UU. della Corte di cassazione)».
[18] Ciò è vero, secondo il parere del prof. Gallo cui si ritiene di aderire, sebbene le procedure di reclamo/mediazione siano affidate a strutture interne differenti rispetto a quelle che procedono alla notifica degli atti impositivi.
[19] «La prima soluzione», osservava il prof. Gallo, «avrebbe il vantaggio di incidere maggiormente sulle scelte delle parti, perché la proposta del giudice monocratico potrebbe essere in qualche modo indicativa dell’orientamento della Commissione adita», generando inoltre «un trait d’union diretto con la condanna alle spese in caso di mancato raggiungimento dell’accordo». In concreto, adottando una soluzione di tal genere, la procedura avrebbe dovuto concludersi attraverso la conclusione di un vero e proprio accordo conciliativo, il cui perfezionamento si sarebbe realizzato con la redazione di un processo verbale volto a dare atto dell’accordo raggiunto, delle somme dovute, nonché dei relativi termini e modalità di pagamento.
La seconda soluzione proposta, invece, avrebbe avuto quale primario vantaggio quello della terzietà dell’organo competente ad esaminare l’istanza (cfr. pagg. 53 ss. della Relazione finale)
[20] Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, e riportati nella Relazione finale della Commissione, nei primi anni di applicazione del reclamo/mediazione i ricorsi definiti in via amministrativa rappresentavano una percentuale (di poco) superiore al cinquanta per cento. Tale percentuale è poi diminuita negli anni successivi, sebbene la Commissione l’abbia ritenuta, in ogni caso, «nel complesso molto elevata» (cfr. pagg. 39 ss. della Relazione finale).
[21] Gli emendamenti proposti, in particolare, testimoniavano la necessità di rafforzare quanto più possibile la terzietà e l’indipendenza dell’organo deputato all’esame dell’istanza di reclamo e mediazione formulata dal contribuente. Si suggeriva, altresì, di innalzare il limite di valore delle controversie reclamabili sino a 100.000 euro (il riferimento è all’emendamento proposto dagli On.li Pittella, Comincini e Mirabelli) ovvero a 250.000 euro e alle liti di valore indeterminabile (il riferimento è all’emendamento proposto dagli On.li Ferro e Boccardi).
Per maggiori approfondimenti si vedano gli Emendamenti proposti nel Fascicolo Finale del 19 luglio 2022 con riferimento al d.d.l. AS 2636.
[22] Nel dettaglio, l’art. 48-bis.1 prevede quanto segue: “1. Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione. 2. La proposta può essere formulata in udienza o fuori udienza. Se è formulata fuori udienza, è comunicata alle parti. Se è formulata in udienza, è comunicata alle parti non comparse. 3. La causa può essere rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo. Ove l’accordo non si perfezioni, si procede nella stessa udienza alla trattazione della causa. 4. La conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, nel quale sono indicati le somme dovute nonché i termini e le modalità di pagamento. Il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente. 5. Il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. 6. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice.”
L’accesso civico e la reinterpretazione della trasparenza amministrativa. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo e il suo ‘affievolimento’ (nota a Cons. St., sez. III, sent. non definitiva 10 giugno 2022, n. 4735)
di Flavio Valerio Virzì
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’accesso civico generalizzato alla prova di alcune prassi interpretative - 2.1. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo - 2.2. …il suo ‘affievolimento’ - 3. Il tentativo di reinterpretazione dell’accesso civico semplice - 3.1. La sentenza del TAR Lazio - 3.2 La sentenza del Consiglio di Stato - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
La vicenda giuridica da cui scaturisce la sentenza in commento trae origine dal diniego opposto dal Ministero dell’interno all’istanza di accesso civico a un accordo di cooperazione, concluso tra Italia e Gambia nel 2010, e al Memorandum of Understanding, sottoscritto dalle stesse parti nel 2015. Tale istanza era stata presentata assumendo che si trattasse di documenti soggetti a pubblicazione obbligatoria, presupposto che però era stato ritenuto insussistente dal Ministero, nonché dal Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, intervenuto in sede di riesame ([1]).
L’accesso ai documenti rappresenta l’istituto d’elezione per l’attuazione del principio di trasparenza amministrativa ([2]); nelle sue diverse forme esso conferisce a tale principio funzioni di volta in volta diverse, che vanno dal rafforzamento dei diritti di partecipazione nel procedimento e di difesa nel processo, al rafforzamento del controllo democratico, al contrasto della corruzione ([3]). L’accesso civico, com’è noto, è disciplinato dal d.lgs. n. 33 del 2013, contenente il Testo unico sulla trasparenza, che finalizza il principio di trasparenza verso «forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche», prevedendo, all’art. 5, comma 1, l’accesso civico semplice, che consente «a chiunque» e senza alcuna limitazione di accedere ai documenti e ai dati oggetto di un obbligo di pubblicazione, al comma 2, l’accesso civico generalizzato, che consente invece di accedere ai documenti e ai dati ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ([4]). Tale ultima forma di accesso, introdotta dal d.lgs. n. 97 del 2016, è stata ispirata al Freedom of Information Act (FOIA), già da tempo vigente nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea e della gran parte degli altri Stati membri, oltre che degli Stati Uniti, dando ingresso a un vero e proprio diritto alla conoscibilità (right to know), il cui esercizio però non è illimitato ([5]).
La relativa istanza, infatti, può essere denegata, ai sensi dell’art. 5-bis, al ricorrere di un’eccezione “relativa”, correlata alla valutazione di un interesse pubblico o privato alla riservatezza, legislativamente individuato, ovvero al ricorrere di un’eccezione “assoluta”, correlata alla sussistenza di un segreto di Stato o di un altro divieto di accesso o di divulgazione previsto dalla legge ([6]).
L’intervento di riforma è stato accolto non senza riserve da una parte della scienza giuridica ([7]). Alcuni studiosi rimproverano allo stesso di aver puntato su una forma di accesso non del tutto effettiva, soprattutto in ragione della formulazione eccessivamente vaga e generica delle numerose limitazioni legislativamente previste. Altri, pur apprezzando l’importante passo in avanti compiuto, auspicano interventi correttivi, al fine di superare prassi interpretative che riducono l’effettività del nuovo diritto ([8]). Quella in base alla quale lo stesso incontrerebbe dei limiti di tipo soggettivo, desumibili dalla sua funzionalizzazione a un interesse pubblico alla conoscibilità. Quella in base alla quale i limiti di tipo oggettivo determinerebbero un ‘affievolimento’ di detto interesse ogni volta in cui vi sia esposizione a pregiudizio per l’interesse pubblico alla segretezza o per l’interesse privato alla riservatezza ([9]).
La sentenza in commento, tuttavia, sembrerebbe avvalorare posizioni più caute in merito alla portata del d.lgs. n. 97. Essa, infatti, pur vertendo sull’accesso civico semplice, consente di pervenire a conclusioni che, a maggior ragione, possono valere per l’accesso civico generalizzato: il fatto che il Ministero dell’interno, dinanzi a un’istanza poco gradita, estenda alla prima forma di accesso gli stessi limiti soggettivi e oggettivi finora sperimentati per la seconda, per un verso, conferma che la funzionalizzazione e l’affievolimento dell’interesse conoscitivo non vanno imputate alla volontà legislativa o alle lacune del testo di legge del 2016, ma a interpretazioni distorsive, per altro verso, informa del rischio che eventuali interventi correttivi restino esposti allo stesso tipo di interpretazioni, che sottendono una certa riluttanza a una piena adesione alla cultura della trasparenza.
2. L’accesso civico generalizzato alla prova di alcune prassi interpretative
La vicenda giuridica in commento, si diceva, trae origine dal diniego opposto dal Ministero dell’interno a un’istanza di accesso civico, avente a oggetto un accordo di cooperazione concluso tra Italia e Gambia in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare. Tale istanza, occorre ora precisare, era stata presentata ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33, e solo limitatamente all’ostensione di alcune parti dell’accordo, ai sensi del comma 2. L’opzione tra l’accesso civico semplice e generalizzato, operata dall’istante, rappresenta il primo aspetto saliente della vicenda, poiché, sottendendo una precisa valutazione in ordine alle possibilità di ottenere i documenti menzionati, sembrerebbe avvalorare le riserve manifestate nei confronti del FOIA. Il ricorso all’accesso civico generalizzato, infatti, è stato osteggiato in alcune vicende assimilabili e ciò potrebbe aver scoraggiato il ricorso allo stesso da parte dell’amministrato: viene in rilievo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1121 del 2020, che, oltre a essere stata resa nei confronti della stessa ricorrente, è accomunata a quella qui in commento per l’oggetto dell’istanza di accesso (il contenuto di accordi conclusi con Paesi terzi) per gli interessi coinvolti (l’interesse alla conoscibilità dei documenti concernenti la politica di contrasto dell’immigrazione irregolare e l’interesse alla riservatezza a tutela delle relazioni internazionali coinvolte in detta politica) nonché per aver legittimato quelle prassi interpretative che fondano le tesi sulla funzionalizzazione e sull’affievolimento alle quali si è accennato. Ma queste ultime trovano riscontro nella volontà legislativa e nel dettato legale? ([10]).
2.1. La funzionalizzazione dell’interesse conoscitivo
Le prassi sopra descritte, è necessario sin d’ora segnalare, originano tutte dalla tendenza di una parte dell’amministrazione a valorizzare, sia pure, per così dire, al rovescio, la ratio delle previsioni contenute all’interno del l. n. 241 del 1990 per l’interpretazione del d.lgs. n. 33 del 2013. Così, se quella impone di opporre diniego alle istanze di accesso documentale funzionali a un controllo generalizzato sull’azione amministrativa, questa impone di denegare istanze di accesso civico, che, al contrario, non siano finalizzate a un controllo di tal tipo. Se quella prefigura per l’amministrato un interesse all’accesso in grado di far fronte agli interessi alla riservatezza contrapposti, questa non può che configurare un interesse conoscitivo, che, dinanzi alle esigenze di riservatezza, tende ad affievolire ([11]).
Le tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento, segnatamente, vengono giustificate, oltre che facendo leva sul dettato legale, proprio sull’esigenza di risolvere il problematico rapporto tra accesso documentale e accesso civico, come declinato nella formula stereotipata della «diversa profondità ed estensione» dei due istituti ([12]). Tale formula, non a caso, ricorre anche all’interno della sentenza del Cons. St. 2020/1121, in cui si afferma che la fondamentale differenza tra accesso documentale ed accesso civico consiste in ciò, «il primo consente […] un’ostensione più approfondita, in ragione della sua strutturale correlazione con un interesse privato del richiedente (generalmente a fini difensivi)»; il secondo invece «è funzionale ad un controllo diffuso del cittadino, al fine specifico, da un lato, di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa per l’ipotesi in cui non siano stati compiutamente rispettati gli obblighi al riguardo già posti all’amministrazione da una norma di legge, nonché – dall’altro – per operare un più incisivo e preventivo contrasto alla corruzione»; questo, in quanto tale, «consente sì una conoscenza potenzialmente più estesa rispetto a quella accordata dalla l. n. 241 del 1990 ai soggetti privati per la tutela dei propri interessi, ma d’altro canto meno approfondita, in quanto concretamente si traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati, documenti ed informazioni, fermi però ed in ogni caso i limiti posti dalla legge a salvaguardia di determinati interessi pubblici e privati che in tali condizioni potrebbero essere messi in pericolo» ([13]).
La tesi della funzionalizzazione è stata fondata sul testo dell’art. 5, comma 1, specificamente nella parte in cui fa riferimento allo «scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» ([14]). Tale riferimento, infatti, è stato sfruttato per giustificare la verifica sull’effettiva rispondenza dell’istanza di accesso generalizzato alle finalità legislativamente prescritte e, conseguentemente, l’eventuale diniego di accesso nei confronti di chi intende far valere un interesse di tipo ‘egoistico’ ([15]).
La tesi riportata è stata condivisa, di nuovo, nella sentenza del Consiglio di Stato n. 2020/1121. Il giudice, in tale occasione, rammentato che «uno solo è il presupposto imprescindibile di ammissibilità dell’istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità alla tutela di un interesse generale» e che tale istanza dev’essere «disattesa ove tale interesse generale della collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato ed individuale», aveva ribaltato le conclusioni del TAR, che aveva ritenuto illegittimo il diniego, opposto dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’istanza di accesso a documenti contenenti informazioni su talune operazioni di Search and Rescue. Il collegio, infatti, aveva ritenuto non fosse dato ravvisare nella stessa «gli specifici interessi generali – ossia, direttamente riferibili alla comunità dei cittadini o ad una parte significativa di essi – alla cui promozione e tutela sarebbero state preordinate le istanze medesime», arrivando, per tale via, a negare ciò che pure era stato conclamato nella sentenza di primo grado, vale a dire, che l’interesse generale all’accesso ai documenti sulle operazioni di ricerca e salvataggio in mare dei migranti, può essere di per sé rinvenuto nell’indubbio rilievo civico e nell’ampio risalto sociale del fenomeno migratorio ([16]).
La funzionalizzazione, nella prospettiva esposta, deriverebbe dalla previsione legislativa. Tuttavia, se è vero che il legislatore all’interno del comma 2 fa espresso riferimento alla funzione propria dell’accesso civico generalizzato, è altrettanto vero che lo stesso legislatore all’interno del comma 3 si preoccupa di specificare che la presentazione dell’istanza non può essere sottoposta «ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente», ma anche di far venir meno le condizioni per un’eventuale verifica sul rispetto di dette finalità, affermando che tale istanza «non richiede motivazione» ([17]).
I due commi, pertanto, andrebbero letti coordinatamente, in maniera tale da conciliare la prospettiva solidaristica dell’uno con la prospettiva individualistica dell’altro: le istanze di accesso potranno pure essere poste a presidio delle garanzie democratiche, ma di detta funzione – come precisato dal legislatore – non deve farsi carico il singolo istante, poiché ciò sarà il fine ultimo cui l’ordinamento vuole tendere attraverso la sommatoria di molteplici condotte individuali. Tale lettura è stata condivisa anche dalla Adunanza plenaria nella sentenza 10/2020, secondo cui il riferimento legislativo alla necessità di favorire forme diffuse di controllo sull’azione dell’amministrazione varrebbe a evidenziare la volontà di superare il limite funzionalistico previsto per l’accesso documentale e non a sottoporre a verifica le finalità per cui viene richiesto l’accesso civico generalizzato. Essa, pur definendo tale ultimo accesso come «dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull’attività amministrativa», rinviene sotteso allo stesso «un interesse individuale alla conoscenza […] protetto in sé» ed esorta a non confondere «la ratio dell’istituto con l’interesse del richiedente, che non necessariamente deve essere altruistico o sociale né deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, per quanto […] certamente non deve essere pretestuoso o contrario a buona fede» ([18]).
2.2. …il suo ‘affievolimento’ ([19])
La tesi dell’affievolimento, fondata sull’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 33, si manifesta sotto un duplice e diverso profilo ([20]). Il primo inerisce all’opzione tra l’harm test e il public interest o public interest ovveride test, da effettuarsi in vista dell’eventuale diniego di accesso ([21]). L’amministrazione, infatti, tende a rappresentare l’interesse alla conoscibilità dell’amministrato come necessariamente recessivo dinanzi alla valutazione sull’esposizione a pregiudizio concreto dell’interesse pubblico o privato alla riservatezza, escludendo di dover dare luogo a un bilanciamento. Il secondo inerisce proprio a tale valutazione. L’amministrazione tende a ritenere l’interesse alla conoscibilità recessivo dinanzi all’interesse alla riservatezza, a prescindere dalla sua esposizione a un pregiudizio concreto ([22]).
La tesi, in entrambi i suoi profili, viene anch’essa condivisa nella sentenza n. 1121 del Consiglio di Stato, che, riconosciuto al diniego di accesso civico natura «eminentemente discrezionale, che non di rado può involgere […] insindacabile merito politico», circoscrive il suo sindacato alla mera «logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria», salvo poi rinunciare di fatto persino allo stesso ([23]). Il collegio, infatti, ritiene «adeguatamente motivata e coerente con l’assolvimento delle loro funzioni istituzionali» la motivazione con cui il Ministero, senza preoccuparsi di attribuire rilievo all’interesse alla conoscibilità, si limita a valutare l’esposizione a pregiudizio dell’interesse pubblico alla riservatezza, reputando sufficiente l’apodittica affermazione per cui «l'eventuale accesso alle comunicazioni/documentazioni relative agli eventi SAR di cui trattasi, comporterebbe un pregiudizio concreto ai rapporti che intercorrono tra Stati ed alle relazioni tra soggetti internazionali, in particolare con il Governo libico e quello maltese» ([24]). Lo scostamento rispetto alla sentenza del TAR Lazio è evidente. Il giudice di primo grado, infatti, si era fatto apprezzare proprio per aver spostato l’attenzione sull’interesse alla conoscibilità, prospettando un vero e proprio bilanciamento con il contrapposto interesse alla riservatezza: per esso, «L’importanza e la frequenza delle operazioni [di salvataggio in mare], nonché la natura dei diritti fondamentali coinvolti non possono risultare esclusi dall’attuazione del principio di trasparenza, come concepito e disciplinato dalla normativa vigente»; l’istanza di accesso, pertanto, può pure porre ragioni di ordine pubblico, difesa militare o repressione di reati, ma «l’eventuale concorso di fattori, meritevoli di riservatezza» non possono di per sé «soverchiare totalmente il principio di trasparenza, in un settore di indubbio rilievo civico e ampio risalto, peraltro, anche nei mass-media» ([25]).
Ma la tesi dell’affievolimento trova veramente riscontro nel testo legislativo? L’art. 5-bis, in effetti, sembrerebbe avvalorare l’harm test, per la mancanza nel dettato legale della clausola tipica del public interest test, esemplificata nella formula europea «a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione» ([26]). Tale previsione, tuttavia, nel disporre che l’accesso civico «è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto», sembrerebbe introitare un principio di proporzionalità, la cui applicazione logicamente presuppone un balancing test, da intendersi rettamente, non già nel senso che l’interesse all’accesso possa prevalere dinanzi all’interesse alla riservatezza, bensì nel senso – proprio della «regola del mezzo più mite» – che il primo interesse non debba soccombere del tutto allorché non sia strettamente necessario per evitare un pregiudizio al secondo, ciò che, peraltro, trova riscontro nella definizione dell’accesso parziale e dell’accesso differito, di cui ai commi successivi ([27]). Essa, soprattutto, non depone in alcun modo nel senso di far ritenere l’interesse all’accesso come recessivo dinanzi all’astratta prospettazione di un interesse alla riservatezza; in disparte l’insinuazione di chi ritiene che l’affievolimento deriverebbe di per sé dalla sua formulazione, per prevedere essa un’elencazione di interessi-limite eccessivamente vaga e generica, apparendo invece tale elencazione perfettamente in linea con i FOIA europei e internazionali, occorre sottolineare che la stessa attribuisce rilievo all’interesse alla riservatezza non già di per sé, ma in ordine al pregiudizio «concreto» che a esso ne potrebbe derivare ([28]).
L’Adunanza Plenaria sembrerebbe dello stesso avviso. Il collegio, infatti, soffermandosi sul «delicato bilanciamento tra il valore, fondamentale, dell’accesso e quello, altrettanto fondamentale, della riservatezza» afferma che «la circostanza che l’accesso possa prevedibilmente soccombere di fronte alle ragioni normativamente connesse alla riservatezza dei dati dei concorrenti non può condurre a un’aprioristica esclusione dell’accesso». Esso, soprattutto, sia pure sovrapponendo i termini dei due test descritti, conferma che «Tutte le eccezioni relative all’accesso civico generalizzato implicano e richiedono un bilanciamento da parte della pubblica amministrazione, in concreto, tra l’interesse pubblico alla conoscibilità e il danno all’interesse-limite, pubblico o privato, alla segretezza e/o alla riservatezza, secondo i criteri utilizzati anche in altri ordinamenti, quali il cd. test del danno (harm test) […] o il c.d. public interest test o public interest override […], in base al quale occorre valutare se sussista un interesse pubblico al rilascio delle informazioni richieste rispetto al pregiudizio per l’interesse-limite contrapposto»; per poi specificare che tale valutazione debba essere svolta di volta in volta sulla base del principio di proporzionalità ([29]).
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che le interpretazioni che fondano la funzionalizzazione e l’affievolimento dell’interesse conoscitivo vanno non già imputate alla volontà legislativa o alla scarsa perspicuità del dettato legale, bensì addebitate a una deliberata scelta dell’interprete e a una certa riluttanza da parte dello stesso ad aderire alla cultura della trasparenza. Tanto pare a maggior ragione avvalorato dalla vicenda da cui origina la sentenza in commento, su cui occorre ora tornare.
3. Il tentativo di reinterpretazione dell’accesso civico semplice
L’opzione per l’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33, da parte dell’istante, non vale a evitare gli atteggiamenti ostruzionistici del Ministero, che tenta di riparare in un’operazione interpretativa inedita, volta a estendere gli stessi limiti soggettivi e oggettivi sperimentati nell’ambito del comma successivo.
L’istante, segnatamente, si rivolgeva al Ministero, assumendo che l’accordo di cooperazione dovesse considerarsi oggetto di un obbligo di pubblicazione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 839 del 1984, che pone in capo al Ministero degli affari esteri, Servizio del contenzioso diplomatico, trattati e affari legislativi, l’onere di trasmettere tutti gli atti internazionali cui la Repubblica italiana si obbliga nelle relazioni estere, ivi compresi i trattati, le convenzioni, lo scambio di note, gli accordi e gli altri atti diversamente denominati, per la loro pubblicazione trimestrale. Il Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere, tuttavia, rifiutava di esibire i menzionati documenti, giustificando la propria determinazione in ragione della carenza di un interesse pubblico all’accesso e della prevalenza dell’interesse alla riservatezza, derivante dalla necessità di evitare un pregiudizio alla sicurezza pubblica e all’ordine pubblico, nonché alle relazioni internazionali. Esso, in altre parole, giustificava il proprio rifiuto facendo leva proprio sulla tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento dell’interesse conoscitivo, ai sensi dell’art. 5-bis.
Tali tesi neppure stavolta trovano riscontro, eppure, come si sta per vedere, vengono condivise in sede giurisdizionale.
3.1. La sentenza del TAR Lazio
Il TAR Lazio, il cui intervento viene sollecitato dall’istante, infatti, considera sufficientemente motivato il rifiuto del Ministero dell’interno e lo fa rinviando proprio alla sentenza n. 1121/2020, dalle cui statuizioni il collegio «non ravvede ragioni per discostarsi»; ragioni, che, però, a uno sguardo più attento, avrebbero potuto agevolmente essere rintracciate nella diversa causa petendi, l’illegittimità del diniego di accesso civico semplice qui, l’illegittimità del diniego di accesso civico generalizzato lì ([30]).
Quanto alla tesi della funzionalizzazione, innanzitutto, il TAR, assumendo che l’istanza debba essere finalizzata alla tutela di un interesse pubblico, conclude nel senso della mancanza di tale carattere: «L’interesse della ricorrente è – per sua stessa ammissione – un interesse legato alla sua attività professionale di difensore di cittadini gambiani trattenuti presso di centri di rimpatrio. Pertanto, non si ravvisa – né è stato allegato – un interesse proprio della generalità dei cittadini al riguardo». Esso, tuttavia, così argomentando, commette tre errori contemporaneamente, trascurando, in primo luogo, che il dettato dell’art. 5, comma 1, appare chiaro nel correlare all’obbligo di pubblicare i documenti e i dati previsti dalla normativa vigente, il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, allorché sia stata omessa la loro pubblicazione; in secondo luogo, che la giurisprudenza menzionata si è formata con specifico ed esclusivo riferimento all’art. 5, comma 2; quindi, che detta giurisprudenza deve ritenersi comunque inammissibile, tanto più che, come detto, l’art. 5, comma 3, prevede che «L'esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente» e che l’istanza di accesso civico «non richiede motivazione» ([31]).
Quanto alla tesi dell’affievolimento, invece, occorre osservare che il TAR, anziché verificare la riferibilità dei documenti oggetto dell’istanza agli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 4 della l. n. 839 del 1984, al fine di stabilire la sussistenza o meno del diritto di richiedere gli stessi, si sofferma sui limiti che a tale diritto deriverebbero dall’art. 5-bis, comma 1, lett. a) e d), nonché dall’art. 24, comma 2, l. n. 241 del 1990 e dagli artt. 2, comma 1, lett. a), b) e 3, comma 1, lett. a) e d), del D.M. 415/94, peraltro, senza preoccuparsi di attribuire rilievo all’interesse alla conoscibilità e ritenendo sufficiente una motivazione superficiale, in cui il pregiudizio all’interesse pubblico alla riservatezza, per come prospettato, appare tutt’altro che concreto. La premessa del suo ragionamento è che «l’articolo 5-bis, comma primo del d.lgs. n. 33 del 2013, […] il legislatore individua una serie di interessi – di rilievo costituzionale – la cui tutela è imprescindibile per la funzionalità dell’apparato dello Stato, in quanto attenenti all’essenza stessa della sua sovranità (interna ed internazionale)» e che «la valutazione che l’Amministrazione è tenuta a fare sulla prevalenza di tali interessi rispetto all’interesse all’accesso, ha natura discrezionale e come tale è sindacabile solo ove manifestamente illogico o irragionevole, affetto da difetto di istruttoria o travisamento». La conclusione è che il diniego risulta adeguatamente motivato, rappresentando la circostanza per cui «La pubblicazione dell’accordo di cui sopra andrebbe a minare l’integrità dei rapporti internazionali intrattenuti dal nostro Paese con il Gambia, su quello che è il tema del contrasto all’immigrazione illegale, la lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata ed al traffico di esseri umani (cooperazione internazionale operativa di Polizia)» e correlativamente per cui «L’ostensione degli atti richiesti, […] oltre a minare la sicurezza di una attività operativa di cooperazione di polizia, produrrebbe un concreto e diretto pregiudizio all’integrità dei rapporti con un paese che rappresenta uno snodo fondamentale per gli equilibri euro-mediterranei, anche in ragione dei flussi migratori all’interno del continente africano»; per il giudice, la motivazione deve ritenersi legittima, pur prospettando solo dei «possibili pregiudizi concreti» ([32]).
L’errore in cui incorre il TAR stavolta è duplice, posto che esso estende all’accesso civico semplice dei limiti legislativamente previsti per il solo accesso civico generalizzato e lo fa facendo recedere l’interesse conoscitivo dinanzi all’astratta prospettazione di un interesse pubblico alla riservatezza. Il primo errore, invero, è talmente grave da offuscare il secondo, facendo sorgere il dubbio che si tratti di un vero e proprio travisamento dei fatti processuali, anche perché il giudice non si preoccupa neppure di esporre le ragioni che lo inducono a reinterpretare il combinato disposto tra l’art. 5, comma 2, e l’art. 5-bis, del cui significato non pare potersi affatto dubitare. Tali ragioni, che forse il Ministero rappresenta in atti, ma che non vengono riprodotte dal collegio, tuttavia, saranno esternate nell’ambito del giudizio di secondo grado, per essere finalmente censurate.
3.2 La sentenza del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, torna sui limiti soggettivi e oggettivi che il Ministero dell’interno pretende di opporre all’accesso civico semplice, ribaltando le conclusioni del tribunale.
Sotto un primo profilo, il collegio si sofferma sulla pretesa funzionalizzazione dell’accesso civico semplice e lo fa riferendosi anche al riflesso che la stessa provocherebbe sul piano dell’identificazione dei documenti ostensibili. Per un verso, infatti, il collegio si limita a rammentare il dettato del d.lgs. n. 33 e l’interpretazione dello stesso fornita dall’Adunanza plenaria per accogliere il motivo di gravame: «Sulla base dei riferiti dati normativi, che hanno completato l’evoluzione, nel nostro ordinamento, “della visibilità del potere” pubblico, segnando il “passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere”, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio – con affermazioni relative all’accesso civico “generalizzato” di cui all’art. 5, comma 2, citato, ma valevoli, a fortiori, per quello “semplice” di cui all’art. 5, comma 1 – ha chiarito che esso “non è sottoposto ad alcun limite quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e senza alcun onere di motivazione circa l’interesse alla conoscenza”» ([33]). Per altro verso, esso si premura, sia pure per il tramite di un obiter dictum, a escludere che la finalità propria dell’accesso civico, identificata nel controllo sulle funzioni amministrative, possa valere a estromettere i documenti aventi natura politica, in considerazione del fatto che il Testo unico «nell’enucleare i principi di trasparenza e conoscibilità sottesi all’intero decreto» fa riferimento «non già agli atti amministrativi ma ai dati, alle informazioni e ai documenti detenuti dalla pubblica amministrazione» ([34]). Sotto il secondo profilo, il giudice si sofferma invece sul tentativo di far ‘affievolire’ l’accesso civico semplice, sia pure a seguito di un riposizionamento strategico, di tipo metodologico, che gli consente di affrontare il problema della sussumibilità degli accordi tra Italia e Gambia negli obblighi legali di pubblicazione, per censurare il tentativo di riqualificazione degli stessi effettuato dall’amministrazione ministeriale, secondo la quale la natura tecnico-amministrativa del loro contenuto avrebbe dovuto indurre a escludere la loro natura di accordi internazionali e con ciò l’obbligo di pubblicazione ai sensi della l. n. 839 del 1994 ([35]).
Il Consiglio di Stato, infatti, rilevato l’obbligo di pubblicazione, passa a verificare che non sussistano altre ragioni ostative all’accesso, soffermandosi specificamente «sui rapporti tra gli obblighi di pubblicazione degli accordi internazionali, l’accesso civico semplice e quello generalizzato, e le cause di esclusione di quest’ultimo» e specificamente sull’opzione interpretativa secondo cui all’accesso civico semplice sarebbero estensibili le cause di esclusione che l’art. 5-bis del d.gls. n. 33 riferisce espressamente al solo accesso civico generalizzato ([36]). Il collegio finalmente palesa il fondamento dell’anzidetta opzione, che approfitterebbe di un’incongruenza generata dalla riforma dello stesso Testo unico della trasparenza a opera del d.lgs. n. 97 del 2016 e, segnatamente, del fatto che, mentre l’art. 5, comma 1, definisce il suo ambito di applicazione facendo riferimento agli obblighi di pubblicazione previsti «ai sensi della normativa vigente», l’art. 5, comma 2, definisce il suo ambito applicativo facendo invece riferimento agli atti ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione «ai sensi del presente decreto». Tale incongruenza, secondo il Ministero, ridurrebbe la portata operativa dell’accesso civico semplice, facendo così rispandere quella dell’accesso civico generalizzato e quindi delle clausole di esclusione per esso prescritte all’interno dell’art. 5-bis, comma 1; questo perché tale ultima forma di accesso opererebbe non soltanto rispetto agli atti non oggetto di pubblicazione obbligatoria, ma anche rispetto a quegli atti oggetto di pubblicazione obbligatoria in forza di norme esterne al Testo unico e, tra questi, degli atti assoggettati a pubblicazione dalla l. n. 839 del 1994 ([37]).
Il giudice, tuttavia, ritiene di dover avversare tale interpretazione, ritenendola del tutto incompatibile sia con il tenore letterale dell’art. 5, comma 1, sia con la ratio sottesa all’art. 5, comma 2, che introduce l’accesso civico generalizzato «per ampliare e non per ridurre la trasparenza dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». La presa di posizione, del resto, trova conforto anche nell’art. 5-bis, comma 4, nella parte in cui si fanno salvi gli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, la cui «unica funzione logica» non potrebbe che essere «di ulteriormente segnalare all’interprete che le cause di esclusione dall’accesso civico generalizzato – e quindi lo stesso accesso civico generalizzato – riguardano atti e documenti non oggetto di pubblicazione obbligatoria»([38]).
L’accesso civico semplice, in definitiva, deve intendersi esteso a tutti gli atti oggetto di un obbligo di pubblicazione, a prescindere dal fatto che la fonte che lo preveda sia interna o esterna al Testo unico. Tale accesso, soprattutto, non può essere in nessun caso negato; l’unica possibilità che residua in capo all’amministrazione per sottrarre allo stesso un documento oggetto di pubblicazione obbligatoria è l’apposizione del segreto di Stato, ovvero, si potrebbe forse aggiungere, la classificazione delle informazioni in esso contenute, ai sensi della l. n. 124 del 2007: «[n]onostante infatti, il d.lgs. n. 33 del 2013 non indichi espressamente il segreto di Stato quale clausola d’esclusione dall’accesso civico semplice (a differenza di quanto avviene per quello generalizzato), il principio di trasparenza, sotteso ad entrambe le forme di accesso, non può certamente rendere inoperante l’istituto del segreto, che resta strumento irrinunciabile per tutelare supremi ed insopprimibili interessi dello Stato […] quali la “integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali”, la “difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento”, la “indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi” e “la preparazione” e “la difesa militare dello Stato”» ([39]).
Il Consiglio di Stato accoglie così anche il secondo motivo gravame, ma le conclusioni cui perviene in generale, non gli consentono di definire la sua pronuncia in merito alla sussistenza del diritto di accesso civico semplice nel caso di specie. Tanto perché il giudice ritiene di non essere in grado di appurare se con gli accordi internazionali oggetto di accesso l’Italia si sia effettivamente impegnata nei confronti del Gambia, ciò che, in linea con i passaggi argomentativi riportati, diviene indispensabile determinare, per poi poter affermare la riferibilità di tali accordi alla l. n. 839. La ricorrente, infatti, riporta una serie di circostanze che farebbero deporre per l’assunzione di impegni di tal tipo. Il Ministero dell’interno, dal canto suo, affermato che gli accordi sarebbero stati stipulati da un organo della pubblica amministrazione «che non rappresenta un soggetto di diritto internazionale», non prende poi una specifica posizione a riguardo, anche in ragione delle dedotte esigenze di tutela della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico e delle relazioni internazionali con la controparte gambiana.
Il collegio, pertanto, emette una sentenza non definitiva, che veicola l’ordine, rivolto al Ministro dell’interno, di produrre, entro sessanta giorni, una relazione a firma congiunta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, in cui si chiariscano tutti i pertinenti profili di interesse, anche in merito all’opposizione del segreto di Stato.
4. Conclusioni
La vicenda giuridica da cui scaturisce la sentenza commentata, si diceva in apertura, verte essenzialmente sull’accesso civico semplice, ma consente di pervenire a conclusioni, che, a maggior ragione, possono valere per l’accesso civico generalizzato. L’estensione alla prima forma di accesso degli stessi limiti soggettivi e oggettivi sinora sperimentati per la seconda conferma, infatti, che la tesi della funzionalizzazione e dell’affievolimento dell’interesse conoscitivo non vanno imputate alla volontà legislativa o alla scarsa perspicuità del d.lgs. 97/2016. Tali tesi, infatti, sono state riferite pure all’art. 5, comma 1, della cui portata testuale non pare potersi dubitare, a meno di non voler rimettere in discussione, accanto all’art. 5, comma 2, e all’art. 5-bis, l’intero disegno legislativo e il significato proprio delle parole in esso contenute. La sentenza commentata, soprattutto, conforta le riserve in ordine all’efficacia di eventuali interventi correttivi, non perché il Testo unico non sia perfettibile, ma per l’impossibilità di prevedere le effettive ricadute di detti interventi a fronte delle descritte prassi interpretative; ebbene, proprio su dette prassi, nelle ultime battute del presente scritto, si propone di agire ([40]).
La riforma del 2016 esprime un sicuro favor per la trasparenza amministrativa. Tale favor potrebbe essere valorizzato proprio nell’interpretazione delle sue previsioni normative, come fa l’Adunanza Plenaria in molti passaggi della sentenza sopra riportati, e come fa altresì lo stesso Ministero per la pubblica amministrazione all’interno della circolare n. 2/2017, che, nell’enunciare ciò che esso stesso definisce come principio della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo, esorta a dare prevalenza a tale ultimo interesse ogni volta in cui emergano dubbi in ordine alla portata delle suddette previsioni. Esso, si intende dire, potrebbe valere a risolvere i contrasti interpretativi in ordine al dettato legale, avvalorando, tra due o più letture plausibili, la soluzione che maggiormente conviene alla realizzazione del right to know. Il principio della tutela preferenziale, elevato a vero e proprio canone interpretativo, vanificherebbe in origine i tentativi di rilettura del Testo unico, costringendo le amministrazioni più riluttanti a recepire il cambio di paradigma culturale veicolato dallo stesso e proteggendo gli amministrati dai rivolgimenti giurisprudenziali ([41]).
([1]) Cfr. Cons. St., sez. III, sent. (non definitiva) 10 giugno 2022, n. 4735, resa su ricorso avverso TAR Lazio, sez. I-ter, sent. 22 luglio 2021, n. 8838.
([2]) Sulla rilevanza e sull’evoluzione storico-giuridica del principio di trasparenza nell’ordinamento italiano, cfr. almeno M. D’ALBERTI, La trasparenza amministrativa tra progressi e incertezze, in Lo sguardo del giurista e il suo contributo all’amministrazione in trasformazione. Scritti in onore di Francesco Merloni, Torino, 2021; A. CORRADO, Il principio di trasparenza, in M.A. SANDULLI, (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 104; M. OCCHIENA, I principi di pubblicità e trasparenza, in M. RENNA - F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, p. 141 ss.; E. CARLONI, La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa, in Dir. Pubbl., 2009, n. 3, p. 779 ss.; F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in Id. (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, p. 9 ss.; G. ARENA, Trasparenza amministrativa, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. VI, Milano, 2006, e Id., Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur., vol. XXX, Roma, 1995.
([3]) Sulla declinazione del principio di trasparenza in relazione ai diversi istituti dell’accesso ai documenti amministrativi, cfr. F. MANGANARO, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. Amm., 2019, n. 4, p. 793 ss.; C.E. GALLO, S. FOA, Accesso agli atti amministrativi, in Dig. Disc. Pubbl., Torino 2011; M. D’ALBERTI, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2000, n. 1, p. 5 ss.; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., IV agg., 2000.
([4]) L’introduzione dell’accesso civico semplice all’interno del nostro ordinamento è stata commentata da G. GARDINI, Il codice della trasparenza: un primo passo verso il diritto all’informazione amministrativa?, in Giornale di diritto amministrativo, 2014, n. 8-9, 875 e M. SAVINO, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giornale di diritto amministrativo, 2013, n. 8-9, 801 ss.
([5]) Il FOIA dell’Unione europea è disciplinato dal Reg. CE n. 1049 del 30 maggio 2001; sullo stesso D.U. GALETTA, La trasparenza, per un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione: un’analisi storico-evolutiva, in una prospettiva di diritto comparato ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, n. 5, 1019 ss.; G. SGUEO, L’accessibilità ad atti e informazioni nell’Unione europea: un percorso in divenire, in A. NATALINI, G. VESPERINI (a cura di), Il big bang della trasparenza, Napoli, 2015, 163 ss; sull’esperienza degli ordinamenti europei e internazionali, in prospettiva comparata, cfr. B.G. MATTARELLA - M. SAVINO (a cura di), L’accesso dei cittadini. Esperienze di informazione amministrativa a confronto, Napoli, 2018.
([6]) Il d.lgs. n. 97 del 2016 è stato commentato, tra gli altri, da E. CARLONI, Se questo è un FOIA. Il diritto a conoscere tra modelli e tradimenti, in Rassegna Astrid, 2016, n. 4, D.U. GALETTA, Accesso civico e trasparenza della Pubblica Amministrazione alla luce delle (previste) modifiche alle disposizioni del Decreto Legislativo n. 33/2013, in federalismi.it, 2016, n. 5, G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 2017, n. 1, M. SAVINO, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giornale di diritto amministrativo, 2016, n. 5, p. 593; S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 2016, n. 23. L’accesso civico generalizzato, si noti, sottende il riconoscimento di una vera e propria libertà individuale, che rinviene copertura costituzionale nel combinato disposto tra l’art. 117, comma 1, Cost. e l’art. 10 CEDU. La rappresentazione dell’accesso civico generalizzato come libertà induce a ritenere che esso non possa essere funzionalizzato e che, pertanto, il suo esercizio non possa essere denegato in ragione del fine precipuo perseguito (cfr. però infra § 2.1.). La rappresentazione di tale libertà come fondamentale indica invece che tale diniego possa essere opposto soltanto in ragione di eccezioni legislativamente previste, nel rispetto del principio di riserva di legge (cfr. però infra 2.2. e nota 17 e 40).
([7]) Per una ricostruzione del dibattito, cfr. M. SAVINO, Il FOIA italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Dir. Amm., 2019, n. 3, p. 453 ss.; per un’analisi delle tendenze giurisprudenziali, cfr. invece A. MOLITERNI, La via italiana al “FOIA”: bilancio e prospettive, in Giornale di diritto amministrativo, 2019, n. 1, p. 23 ss.
([8]) Le due prassi sono analizzate in A. CORRADO, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, in federalismi.it, 2021, n. 11.
([9]) Il termine “affievolimento” riporta alla mente dell’amministrativista la nota teoria con cui una parte della scienza giuridica e della giurisprudenza spiega la natura delle situazioni giuridiche soggettive. Tale termine, è allora necessario precisare, nel presente scritto non vuole alludere in alcun modo all’anzidetta teoria, né connotare l’accesso civico come diritto soggettivo o interesse legittimo. Esso, più semplicemente, viene inteso come sinonimo di “recessività” e utilizzato per rappresentare la tendenza ad applicare le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, assumendo che l’interesse alla conoscibilità debba necessariamente recedere dinanzi alla mera prospettazione di un pregiudizio per l’interesse alla riservatezza.
([10]) Cons. St., sez. V, sent. 12 febbraio 2020, n. 1121, resa su TAR Lazio, sez. III, sent. 1° agosto 2019, n. 10202.
([11]) Cfr. A. MOLITERNI, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato nel sistema di trasparenza nei confronti dei pubblici poteri, in Dir. Amm., 2019, n. 3, p. 577 ss., e in particolare p. 597 ss.: «L’istituto dell’accesso civico generalizzato è stato […] letto e interpretato attraverso le tradizionali e consolidate “lenti di osservazione” dell’accesso documentale» e proprio in ragione del confronto con tale disciplina, si è, tra l’altro, «eccessivamente valorizzato l’elemento teleologico volto ad assicurare un “controllo generalizzato sull’attività amministrativa” (poiché invece espressamente escluso dalla l. n. 241 del 1990)» e «sottolineata l’assenza di una posizione giuridica qualificata in grado di fronteggiare “ad armi pari” gli interessi pubblici e privati contrapposti (in quanto vero asse portante di tutta la disciplina sull’accesso documentale)».
([12]) Il problema inerente al coordinamento tra le diverse forme di accesso presenti nel nostro ordinamento è stato approfondito da F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in federalismi.it, 2019, n. 10, che avverte come «per il principio dell’eterogenesi dei fini, il moltiplicarsi degli interventi legislativi, anziché aumentare l’effettività della garanzia di trasparenza, abbia finito o potrebbe finire con il ridurre a mera declamazione il diritto di accesso». Lo stesso A. si sofferma proprio sulla formula della “diversa profondità ed estensione” delle due forme di accesso, denunciando la tendenza della scienza giuridica «a descrivere esteriormente la differenza e a parlare di maggiore o minore profondità dell’accesso nell’uno e nell’altro caso, senza attribuire alcun preciso significato giuridico alla suddetta diversa profondità». Sullo stesso problema si sofferma anche G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 2017, n. 1 e S. VILLAMENA, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 2016, n. 23.
([13]) Cons. St., 2020/1121, cit.
([14]) La tesi della funzionalizzazione può essere fatta risalire alla sentenza del TAR Lazio, sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326, ove per la prima volta si afferma che «per quanto la legge non richieda l’esplicitazione della motivazione della richiesta di accesso, deve intendersi implicita la rispondenza della stessa al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica e non resti confinato ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, rischierebbe di compromettere le stesse istanze alla base dell’introduzione dell’istituto»; da allora alcuni giudici amministrativi si sono espressi nello stesso senso, cfr. TAR Lazio, sez. I, 23 luglio 2018, n. 8302-8303, TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 22 novembre 2018, n. 347, TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 6 marzo 2019, n. 2019; TAR Lazio, sez. I-quater, 28 marzo 2019, n. 4122. La sua prospettazione, si noti, era stata anticipata da E. CARLONI, Se questo è un FOIA, cit. e F. FRANCARIO, Il diritto di accesso, cit., p. 5, ove si avvertiva come la confusione tra le diverse forme di accesso avrebbe potuto «portare a riferire anche all’accesso civico, e non solo all’accesso procedimentale, l’affermazione per cui il diritto di accesso non si sostanzierebbe in un’azione popolare e neppure potrebbe tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, con l’effetto di consentire la introduzione di filtri della più varia natura finalizzati a circoscrivere, comunque sotto il profilo soggettivo, l’interesse ad agire nelle forme dell’accesso civico»; sulla funzionalizzazione dell’accesso civico cfr. altresì G. GARDINI, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, in G. GARDINI e M. MAGRI (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, Santarcangelo di Romagna, 2019, p. 54 ss.
([15]) La funzionalizzazione è alla base del tentativo di assimilazione del diritto di accesso civico alla c.d. azione popolare; in merito, oltre a G. GARDINI, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, cit., p. 19 ss., cfr. G. TROPEA, Forme di tutela giurisdizionale dei diritti d’accesso: bulimia dei regimi, riduzione delle garanzie?, in Il Processo, 2019, n. 1, p. 20 ss., e V. PARISIO, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale, in federalismi.it, 2018, n. 11.
([16]) Cfr. Cons. St. 2020/1121, cit., secondo cui «Lo strumento in esame può […] essere utilizzato solo per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a singoli individui od enti associativi particolari». Il collegio, peraltro, consapevole del fatto che il tentativo di funzionalizzazione esperito non trova riscontro all’interno del d.lgs. n. 33 del 2013, tenta di giustificare la propria presa di posizione sul piano processuale; secondo lo stesso «non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza. Nel giudizio amministrativo la sussistenza dell'interesse e della legittimazione ad agire è infatti valutabile d'ufficio in qualunque momento del giudizio. La mancanza dei presupposti processuali o delle condizioni dell'azione è rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (art. 35, comma primo, Cod. proc. amm.), poiché essi costituiscono i fattori ai quali la legge, per inderogabili ragioni di ordine pubblico, subordina l'esercizio dei poteri giurisdizionali». Il giudice, tuttavia, così trascura che la titolarità della situazione giuridica soggettiva ai sensi – e alle condizioni – di cui all’art. 5, comma 2 e 3, è strettamente correlata alla legittimazione ad agire in giudizio a cui egli stesso fa riferimento.
([17]) La funzionalizzazione, peraltro, in mancanza di un fondamento legislativo, sarebbe incompatibile con il right to know, oltre che ontologicamente, per la natura di tale diritto, che, in quanto fondamentale, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 117, comma 1, Cost. e l’art. 10 CEDU, non tollererebbe limitazioni finalistiche, giuridicamente, perché violerebbe la riserva di legge, che, proprio ai sensi del suddetto combinato disposto, dovrebbe presiedere alle anzidette limitazioni.
([18]) Cfr. Cons. St., Ad. Plen., sent. 2 aprile 2020, n. 10. La pronuncia è stata commentata da F. MANGANARO, La funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria in materia di accesso agli atti amministrativi, in federalismi.it, 2021, n. 20 A. CORRADO, L’accesso civico generalizzato, diritto fondamentale del cittadino, trova applicazione anche per i contratti pubblici: l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato pone fini ai dubbi interpretativi, in federalismi.it, 2020, n. 16; A. MOLITERNI, Pluralità di accessi, finalità della trasparenza e disciplina dei contratti, in Giornale di diritto ammnistrativo, 2020, n. 4
([19]) Il termine “affievolimento”, occorre ribadire, nel presente scritto è inteso come sinonimo di “recessività”, ed è utilizzato esclusivamente per rappresentare la tendenza ad applicare le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis come se l’interesse alla conoscibilità dovesse necessariamente recedere dinanzi alla mera prospettazione di un pregiudizio per l’interesse alla riservatezza (cfr. supra nota 9).
([20]) Cfr. A. MOLITERNI, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato, cit. La tesi dell’affievolimento interroga l’effettività dell’accesso civico generalizzato di fronte alla tendenza dell’amministrazione alla segretazione di “diritto” o di “fatto” dei documenti e dei dati da essa detenuti; in proposito, sia consentito rinviare a F.V. VIRZÌ, L’effettività dell’accesso civico generalizzato: il caso degli accordi in forma semplificata, in Giornale di diritto amministrativo, 2019, n. 5, p. 641 ss.
([21]) L’harm test, segnatamente, richiede che, in vista dell’eventuale diniego, si valuti soltanto se l’accesso danneggi uno degli interessi-limite; il public interest o public interest ovveride test richiede di considerare, in aggiunta, il danno che il diniego comporterebbe per l’interesse all’accesso, nell’ambito di una valutazione comparativa (c.d. balancing test).
([22]) L’opzione tra l’harm test e il public interest test, peraltro, reca con sé un ulteriore riflesso, inerente alla qualificazione dell’accesso generalizzato quale “diritto soggettivo” in senso stretto. La questione, a lungo dibattuta, non può essere qui adeguatamente trattata, è d’uopo però sottolineare che il test dell’interesse pubblico, postulando un bilanciamento di interessi e quindi l’esercizio di un potere discrezionale, sembrerebbe prefigurare una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, che peraltro, occorre precisare, non sarebbe di per sé incompatibile con la connotazione fondamentale del right to know.
([23]) TAR Lazio, 2019/10202, cit.
([24]) Cons. St. 2020/1121, cit.
([25]) TAR Lazio, 2019/10202, cit.
([26]) Cfr. Reg. CE n. 1049/2001, art. 4, par. 2.
([27]) La sentenza del Cons. St. 2020/1121, cit., in proposito, appare tutt’altro che isolata. La giurisprudenza di recente è intervenuta sul tema dell’accesso generalizzato alle politiche migratorie con le pronunce del Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 2 settembre 2019, n. 6028 e del TAR Lazio, Sez. I ter, sent. 7 agosto 2018, n. 8892, rese sul diniego di accesso al Memorandum d’intesa con lo Stato della Libia, e del TAR. Lazio, Sez. III ter, sent. 16 novembre 2018, n. 11125, resa sul diniego di accesso all’accordo di cooperazione con la Repubblica del Niger, su cui cfr. F.V. VIRZÌ, L’effettività dell’accesso civico generalizzato, cit. L’accesso civico generalizzato nei suddetti casi era volto a rendere conoscibile il contenuto di accordi bilaterali, la cui sottoscrizione in forma semplificata (o semi-semplificata) aveva consentito al Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale di mantenere il riserbo su alcune pratiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Le tre sentenze lasciano tutte trapelare una certa superficialità da parte del giudice nella valutazione della motivazione allegata al diniego, che – in linea con l’art. 5-bis, commi 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 33 del 2013 – dovrebbe rendere conto non soltanto della rilevanza dell’interesse alla riservatezza, ma anche della rilevanza dell’interesse all’accesso e della prevalenza dell’uno interesse sull’altro, all’esito di una valutazione comparativa condotta nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel caso del Memorandum libico, il giudice non censura il diniego nonostante nella motivazione non si facesse alcun riferimento all’interesse all’accesso. Nel caso dell’accordo nigerino, si accontenta invece di una motivazione in cui ci si limita ad affermare di aver tenuto in considerazione tale interesse. L’atteggiamento di deferenza del giudice dinanzi alle esigenze di riservatezza, probabilmente, può essere spiegato in ragione della sensibilità degli interessi pubblici che l’accesso generalizzato, nell’ambito delle politiche migratorie, può esporre a pregiudizio (nelle sentenze citate si richiama l’interesse sotteso alle relazioni internazionali, alla difesa, alle questioni militari, all’ordine e alla sicurezza pubblica). Tale atteggiamento, tuttavia, reca con sé il rischio di legittimare, nella prassi, l’integrale sottrazione delle suddette politiche al principio di trasparenza e la surrettizia introduzione, in luogo del diritto di accesso generalizzato, di un diniego generalizzato di accesso rispetto ai documenti che le riguardano.
([28]) Cfr. A. CORRADO, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, cit., p. 8, «Deve considerarsi che il richiamo normativo al “pregiudizio concreto”, da scongiurare da parte dell’amministrazione, impone che si proceda a valutare il rischio del pregiudizio non come astratta possibilità, ma come conseguenza realistica dell’ostensione», nonché F. FRANCARIO, Il diritto di accesso, cit., p. 16 ss., «[è]l’amministrazione che deve decidere se la conoscenza pregiudichi un contrapposto interesse, pubblico o privato che sia; il che significa apprezzare e ponderare i diversi interessi per giungere alla conclusione che il diniego è necessario per evitare il pregiudizio dell’interesse ritenuto prevalente dal legislatore». Il ruolo attivo dell’amministrazione nella valutazione sul pregiudizio dell’interesse, pubblico o privato, alla riservatezza, peraltro, secondo l’A., non può non retroagire sulla tesi della funzionalizzazione, confermandone la sua inadeguatezza: «Il fatto che l’interesse alla conoscenza venga fatto dipendere dall’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione ha conseguenze significative sulla comprensione della natura di un tale interesse e delle modalità e dei limiti della sua protezione. Spiega e si correla al fatto che non è necessario vantare la titolarità di una situazione soggettiva qualificata per poter agire e che si può agire uti cives perché le forme e i limiti della protezione di tale interesse sono quelle consentite e riconosciute nei confronti del merito delle decisioni amministrative, ovvero quelle proprie dell’interesse semplice. Salva sempre la possibilità che nello specifico del caso concreto il mancato rispetto delle garanzie procedimentali o la violazione dei limiti intrinseci alla spendita della discrezionalità amministrativa consentano di sostanziare la situazione in termini d’interesse legittimo, in presenza di interessi sufficientemente differenziati».
([29]) L’Ad. Plen., 2020/10, facendo riferimento all’interesse privato alla riservatezza, afferma in particolare che la tutela dello stesso «può e deve essere conseguito appunto, in una equilibrata applicazione del limite previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d. lgs. n. 33 del 2013, secondo un canone di proporzionalità, proprio del test del danno (c.d. harm test), che preservi il know-how industriale e commerciale dell’aggiudicatario o di altro operatore economico partecipante senza sacrificare del tutto l’esigenza di una anche parziale conoscibilità di elementi fattuali, estranei a tale know-how o comunque ad essi non necessariamente legati, e ciò nell’interesse pubblico a conoscere, per esempio, come certe opere pubbliche di rilevanza strategica siano realizzate o certi livelli essenziali di assistenza vengano erogati da pubblici concessionari».
([30]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit., «Il Collegio non ravvede ragioni per discostarsi da quanto statuito dal Consiglio di Stato, Sezione III, in altro caso sovrapponibile a quello sub judice e deciso con sentenza n. 1121/2020, cui rinvia ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, comma 2, lett. d) c.p.a.», ove, com’è noto, è previsto che la sentenza del giudice amministrativo debba contenere una concisa esposizione in fatto e in diritto della decisione «anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi».
([31]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit. La prospettazione della tesi della funzionalizzazione rispetto all’accesso civico semplice, si diceva, appare inedita essendosi la stessa formata con specifico riferimento all’accesso civico generalizzato. Tale esito, tuttavia, era stato pronosticato da F. FRANCARIO, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva, cit., sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 2019: «la motivazione di una decisione sostanzialmente giusta, laddove garantisce e limita l’obbligo di trasparenza alla conoscenza di come vengano impiegate le risorse pubbliche, scivola sul terreno del sindacato sulle finalità perseguite dall’accesso civico, avallando la possibilità di limitazioni d’ordine generale sotto questo profilo. Apprezzamento della possibile esposizione al rischio corruttivo e effettiva utilità dell’informazione diventano in tal modo presupposti che condizionano l’esercizio del diritto di accesso civico». Lo stesso A., in proposito, non manca di ribadire come sia «indubbio che in ambedue i casi il diritto d’accesso venga configurato come diritto civico, azionabile cioè da qualsiasi cittadino uti cives». La sentenza della Corte Costituzionale citata è stata commentata, tra gli altri, da F. CAPORALE, La parabola degli obblighi di pubblicazione, in Riv. trim. dir. pub., 2021, n. 3, pag. 853.
([32]) TAR Lazio, sent. 2021/8838, cit.
([33]) Cons. St., 2022/4735, §7 ss. e in particolare §7.3., ove si conclude statuendo che «L’impugnata sentenza del Tar Lazio, che ha ritenuto necessarie l’allegazione e la prova di un interesse “proprio della generalità dei cittadini”, non essendo in linea con il dato normativo e con la riferita interpretazione dell’Adunanza plenaria, va pertanto riformata in parte qua».
([34]) Cons. St., 2022/4735, § 8.1. La tesi della funzionalizzazione è stata sfruttata in tal senso dal TAR Lazio, sez. III-bis, 30 marzo 2018, n. 3598, in cui, facendo leva sull’art. 5, comma 2, dlgs. n. 33/2013, si è ritenuto illegittimo il diniego all’istanza di accesso sulle «relazioni, appunti, informative ecc. che non hanno assunto natura provvedimentale né si sono trasfusi in atti ufficiali, neppure in fase istruttoria», poiché tali atti «non esprimono attività di gestione dell’amministrazione»; contra, TAR Emilia-Romagna, sez. I, 28 novembre 2018, n. 325: «non è possibile sostenere che le finalità identificate dall’art. 5, comma 2, […] debbano trovare diretta declinazione nella tipologia di documenti richiesti, innanzitutto perché è arduo individuare un atto pubblico che, in un regime di trasparenza e democraticità delle istituzioni, debba restare interno e non conoscibile – al di fuori dei limiti di tutela riconosciuti agli interessi pubblici e privati ‘sensibili’».
([35]) Cons. St., 2022/4735, § 8.2. Il collegio censura proprio tale tentativo, sottolineando come ai sensi della l. n. 839, «ciò che rileva ai fini dell’obbligo di pubblicazione degli accordi internazionali, compresi quelli in forma semplificata, non è […] la loro natura amministrativa o politica, quanto piuttosto l’assunzione, da parte dello Stato italiano, di impegni nei confronti di uno Stato estero»; e come tale interpretazione letterale possa trovare riscontro nella stessa ratio della l. n. 839, con cui il legislatore «ha inteso perseguire il duplice obiettivo di consentire il controllo democratico, dei cittadini e delle Camere, sulla politica estera del Governo e, per tale via, di contrastare il fenomeno, ben noto alla dottrina costituzionalistica, della “fuga” dall’autorizzazione parlamentare alla ratifica prevista dall’art. 80 della Costituzione per il caso di trattati “di natura politica”». La conclusione che ne deriva è che ove si ravvisi l’obbligo di pubblicazione ai sensi della menzionata previsione normativa, il suo inadempimento comporta che gli accordi in discussione possano essere oggetto di accesso civico semplice.
([36]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([37]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([38]) Cons. St., 2022/4735, § 8.3.
([39]) Cons. St., 2022/4735, § 8.4.
([40]) L’intervento legislativo, d’altra parte, è auspicabile rispetto a un’altra causa di affievolimento dell’accesso civico, vale a dire, l’identificazione dell’interesse alla riservatezza all’interno delle previsioni regolamentari, adottate per escludere determinate categorie di atti dall’accesso documentale. L’art. 5-bis, comma 3, in effetti, tra le cause di esclusione dell’accesso civico generalizzato annovera i «casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990». Tale previsione andrebbe modificata al fine di rafforzare il suddetto interesse, anche in considerazione del carattere fondamentale del diritto alla conoscibilità, che, ai sensi dell’art. 10 CEDU, è coperto da riserva di legge; è significativo, infatti, come lo stesso Ministero per la pubblica amministrazione, all’interno della circolare n. 2/2017, Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)– su cui cfr. infra nel testo e in nota successiva – si appunti su tale riserva di legge per tentare di mitigare le conseguenze dell’incauto riferimento contenuto nel Testo unico: per essa «ciascuna amministrazione può disciplinare con regolamento, circolare o altro atto interno esclusivamente i profili procedurali e organizzativi di carattere interno. Al contrario, i profili di rilevanza esterna, che incidono sull'estensione del diritto (si pensi alla disciplina dei limiti o delle eccezioni al principio dell'accessibilità), sono coperti dalla suddetta riserva di legge» di modo che «diversamente da quanto previsto dall'art. 24, comma 6, legge n. 241/1990 in tema di accesso procedimentale, non è possibile individuare (con regolamento, circolare o altro atto interno) le categorie di atti sottratti all'accesso generalizzato».
([41]) Il principio della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo è enunciato nella circolare del Ministero della pubblica amministrazione n. 2/2017, cit., al § 2.2., let. i), ove si legge «Nei sistemi FOIA, il diritto di accesso va applicato tenendo conto della tutela preferenziale dell’interesse a conoscere. Pertanto, nei casi di dubbio circa l’applicabilità di una eccezione, le amministrazioni dovrebbero dare prevalenza all’interesse conoscitivo che la richiesta mira a soddisfare». Lo stesso principio, peraltro, è condiviso anche all’interno delle Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013, adottate dall’A.N.A.C. con delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016, che al § 2.1. sollecitano a valorizzare i principi delineati dal Testo unico come «canone interpretativo in sede di applicazione della disciplina dell’accesso generalizzato da parte delle amministrazioni e degli altri soggetti obbligati, avendo il legislatore posto la trasparenza e l’accessibilità come la regola rispetto alla quale i limiti e le esclusioni previste dall’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013, rappresentano eccezioni e come tali da interpretarsi restrittivamente».
Il riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie
di Antonella Manzione
Sommario: Premessa. - 1. Il quadro normativo. - 2. La natura sanzionatoria di un provvedimento. -3. La decadenza. - 4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico. - 5. Le sanzioni di natura non pecuniaria - 6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza della città. - 7. Problematiche di ne bis in idem. - Conclusioni.
Premessa.
La tematica del riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie costituisce una delle questioni più dibattute nell’ambito del c.d. diritto punitivo, malgrado l’apparente chiarezza della norma che da tempo ne declina in maniera esplicita i confini. L’art. 6 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, infatti, nel riprendere l’elencazione delle materie per le quali la sanzione è opponibile al tribunale civile, per lo più già contenuta nell’art. 22-bis della l. 24 novembre 1981, n. 689, contestualmente riscrivendone l’art. 22, continua a demandare all’interprete sia il compito di tracciare l’esatto confine della natura sanzionatoria del provvedimento, sia quello, ancor più arduo, di collocarne con precisione il regime delle tutele laddove lo stesso sia intervenuto autonomamente, quale unico rimedio avverso il comportamento del destinatario ovvero in aggiunta ad altro, di natura pecuniaria o meno, finanche a carattere penale.
La lacuna di disciplina che interessa le sanzioni non pecuniarie, infatti, accessorie o meno, consegue alla formulazione letterale della richiamata l. 24 novembre 1981, n. 689, ambiziosamente riferita dal legislatore dell’epoca a tutto l’illecito amministrativo, ma letteralmente riferibile solo a quello conseguito al corposo intervento di decriminalizzazione di originarie fattispecie di reato operato dalla stessa.
Il successivo sviluppo delle legislazioni speciali ha determinato poi il proliferare di rimedi alternativi, aggiuntivi o meno, al pagamento di una somma di danaro per lo più ricompresa in una forbice edittale predeterminata, di ancor più difficile inquadramento proprio in ragione del loro “reagire” ad un comportamento lato sensu illecito sostanzialmente identico, seppure astrattamente lesivo di una pluralità di interessi pubblici diversi[1]. Ciò chiama in causa l’ulteriore tematica, alternativa a quella del concorso formale di illeciti e del relativo regime, del rispetto del principio del ne bis in idem, a maggior ragione laddove il provvedimento limitativo dell’altrui sfera giuridica sopraggiunga a distanza di tempo dalla commissione del presunto illecito, con riferimento al quale sono già stati adottati altre e più tempestive misure, con quanto ne consegue in termini di potenziale pregiudizio del diritto di difesa. In taluni casi addirittura il contenuto della “sanzione” o comunque la si voglia denominare, si palesa esso stesso identico, tanto da rendere difficile l’individuazione del procedimento da seguire, spesso rimessa alla scelta discrezionale dell’Amministrazione procedente, in una logica di ricercata efficacia del provvedimento, ovvero, al contrario, di diluizione dei suoi tempi di attuazione[2].
Le esigenze di semplificazione da sempre invocate in primo luogo a livello di riduzione delle fonti non può non passare dunque dalla razionalizzazione delle stesse anche con riferimento alla fase per così dire patologica delle reazioni dell’ordinamento a condotte ritenute “scorrette” degli operatori economici, a maggior ragione laddove le stesse si risolvano in provvedimenti ablatori o interdittivi della relativa attività. Speculari cioè alle lamentate difficoltà di avvio di un’attività produttiva correlate alla proliferazione dei titoli di legittimazione, e tuttavia meno scrutinate dall’interprete, si palesano infatti quelle riconducibili alla pluralità dei “rimedi” a fronte di accertate violazioni delle singole discipline di settore[3]. Emblematico al riguardo il tentativo di imporre a livello normativo un coordinamento delle attività di controllo, essendo indubbio il danno all’attività economica, finanche in termini di immagine e tutela dell’avviamento, riconducibile alla loro atomistica reiterazione. Con l’art. 14 del d.l.9 febbraio 2012, n.5, convertito, con modificazione, dalla l. 4 aprile 2012, n. 35, recante «Semplificazione dei controlli sulle imprese», vennero dunque individuati i criteri ispiratori comuni all’attività di vigilanza, statuendo che «fermo quanto previsto dalla normativa dell’Unione europea», essa si attenga «ai principi della semplicità, della proporzionalità dei controlli stessi e dei relativi adempimenti burocratici alla effettiva tutela del rischio, nonché del coordinamento dell’azione svolta dalle amministrazioni statali, regionali e locali» (comma 1), demandandone la concreta declinazione ad apposite Linee guida, da adottare in sede di conferenza unificata per quanto attiene agli enti locali. La mancanza di sanzioni ovvero di qualsivoglia tipologia di deterrenza o, al contrario, di incentivo al coordinamento, ha fatto sì che l’intento sia rimasto sostanzialmente sulla carta, dopo che peraltro ciascuna amministrazione aveva tentato in via ermeneutica di svuotare la portata precettiva della norma in difesa della rivendicata specificità di competenze connotante l’intervento di ogni singola forza di polizia.
1. Il quadro normativo.
La cornice normativa in materia di riparto di competenze giurisdizionali sulle sanzioni è dunque oggi contenuta nel d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69». In particolare, l’art. 34 ha riscritto l’art. 22, comma 1, della l. 24 novembre 1981, n. 689, abrogando gli ulteriori commi della norma, nonché l’art. 22-bis, che era stato introdotto dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, così da adeguare il sistema all’avvenuta soppressione della figura del pretore, cui la normativa originaria faceva necessariamente riferimento. Con l’art. 6 del d.lgs. n. 150/2011, dunque, è stata ripresa la ripartizione di competenze contenuta nell’art. 22-bis della l. n. 689/1981 tra giudice di pace e tribunale in composizione monocratica, cui ci si rivolge in opposizione all’ordinanza-ingiunzione secondo le regole del rito del lavoro. Da un lato, quindi, il novellato art. 22 continua a rappresentare la norma cardine all’interno della legge sull’illecito amministrativo, con un’attribuzione in termini generali della competenza a conoscere delle sanzioni amministrative pecuniarie e della confisca al giudice ordinario, fatti salvi i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 del c.p.a. nel frattempo approvato; dall’altro, il nuovo art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, cui l’art. 22 della l. n. 689/1981 fa espresso rinvio, in una cornice sistematica più ampia, si appropria della precedente ripartizione tra tribunale e giudice di pace, estendendola a qualsivoglia sanzione, anche chiaramente estranea al contesto di decriminalizzazione, replicando la metodica dell’elencazione analitica dei soli casi di spettanza del primo, con individuazione in via residuale di quelli attribuiti all’altro. In maggior dettaglio, rispetto al previgente art. 22-bis della l. n. 689 del 1981, che operava il medesimo distinguo, l’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011 elimina alcune materie. Spiccano, per il tema odierno, l’urbanistica ed edilizia (lett. c), ma anche società e intermediari finanziari (lett. f), nonché il diritto tributario (lett. g, prima parte). Si ritiene di poter escludere che si tratti di una dimenticanza del legislatore, poiché dal combinato disposto delle norme citate si evince chiaramente, ad esempio, che con riferimento alle espunte sanzioni in materia urbanistico-edilizia si è inteso fare espresso riferimento con la clausola di salvaguardia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo contenuta nell’art. 22 della l. n. 689 del 1981. E’ indubbio quindi, ad esempio, che le sanzioni amministrative previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 (si pensi a quanto previsto dagli artt. 24 in materia di agibilità, 31, comma 4-bis, per il caso di inottemperanza all’ingiunzione a demolire un abuso edilizio, 37, per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla s.c.i.a.), rientrando nella materia edilizia ed urbanistica in quanto ulteriore strumento afflittivo per la tutela dell’ordinato sviluppo del territorio, sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo[4].
2. La natura sanzionatoria di un provvedimento.
La disciplina del c.d. diritto punitivo amministrativo o, secondo altra denominazione, del diritto penale amministrativo, distinto dal diritto amministrativo della prevenzione e da quello disciplinare, ha trovato nella l. 24 novembre 1981, n. 689 una sua prima organica razionalizzazione, sia sostanziale che processuale. Tuttavia l’art.12 della stessa, concernente il relativo ambito di applicazione, include nel proprio perimetro solo le sanzioni (e conseguentemente, gli illeciti puniti con le stesse) pecuniarie, con ciò rischiando di svuotare sensibilmente la portata della riforma, finalizzata anche a dar vita ad un vero e proprio “codice” dell’illecito amministrativo.
La dottrina pressoché unanime ha tentato da subito in vario modo di svalutare la portata delimitatrice dell’art. 12, seppur di difficile lettura, sottolineandone la pluralità di interpretazioni possibili, per addivenire ad una diversa ricostruzione in via interpretativa della rilevanza ratione obiecti della legge.
In particolare, si sono individuati all’interno dell’articolato normativo tre nuclei fondamentali: a) i principi in materia di tutela giurisdizionale (originariamente contenuti negli artt. 22-25, oggi riconducibili, come sopra detto, all’art. 6 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che si occupa in maniera esplicita anche delle sanzioni non pecuniarie; b) i principi sul procedimento (artt. 13-21); c) i principi sostanziali sull’illecito e la sanzione. Mentre le regole procedimentali, con l’esclusione secondo taluni dell’art. 13, invocato come modello generale per ogni caso di applicazione di una sanzione amministrativa, paiono attagliarsi solo a quelle pecuniarie; quelle sostanziali, pur con talune eccezioni (si pensi alla previsione della forbice edittale di cui all’art. 10 ovvero alle regole sulla prescrizione, che peraltro sono collocate nella sez. II del capo I, all’art. 28), non possono non trovare applicazione ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto, ancorché non pecuniaria[5]. La giurisprudenza amministrativa ha da subito ricondotto alle norme di principio anche quelle procedurali relative all’immediatezza della contestazione o comunque ad una non irragionevole dilatazione dei suoi tempi. Ciò riconoscendo quale intento del Legislatore «quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati sia che conseguano ad illeciti qualificati “ab origine” come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie»[6]. La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l’indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell’interessato), viene ricondotta ai principi del contraddittorio, e per tale ragione si ritiene pacificamente che il termine per la contestazione delle violazioni amministrative abbia natura perentoria.
La l. n. 689/1981, dunque, finisce per avere un ambito di applicazione elastico, in quanto investe un genus di sanzioni (principalmente, ma non esclusivamente pecuniarie) comprensivo di una pluralità di species, solo in alcuni casi dotate di una disciplina speciale (si pensi, ad esempio, alle già ricordate sanzioni pecuniarie in senso stretto in materia urbanistico-edilizia).
Una lettura sistematica e costituzionalmente orientata, non può tuttavia non condurre all’estensione applicativa dei principi fondamentali di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. 689/1981 ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto e quindi ad ogni illecito amministrativo, anche se la sanzione prevista non è pecuniaria. Restano fuori dall’applicabilità degli stessi solo quei provvedimenti che, seppur pregiudizievoli per il destinatario, assumono carattere primariamente riparatorio, tra i quali, come è evidente, non può rientrare la chiusura temporanea di un’attività commerciale quale conseguenza (ulteriore) dell’avvenuto accertamento della commissione al suo interno di specifiche ipotesi di illecito, anche penale[7]. Solo integrando, pertanto, il dato testuale dell’art. 12 con considerazioni ispirate in ambito sanzionatorio ad ineludibili esigenze di garanzia, emerge chiaramente tutta l’importanza di sistema dei principi sostanziali e procedimentali fissati nella l. n. 689/1981, intorno alla quale è possibile costruire l’edificio della repressione amministrativa[8].
La problematica sopra delineata vale, ovviamente, per le sanzioni diverse da quelle pecuniarie, vuoi che le si possa qualificare come “accessorie” ad altre, di regola consistenti nel pagamento di una somma di danaro, ma talvolta anche di natura penale[9]; vuoi che intervengano in via autonoma.
La l. n. 689/1981 si occupa delle cd. Sanzioni “accessorie” diverse dalla confisca all’art. 20, prevedendone la possibile applicazione da parte dell’autorità amministrativa competente qualora esse già conseguissero al reato soggetto a depenalizzazione ad opera della medesima legge. Anche in questo caso, dunque, il dato letterale è legato al contesto di generalizzata decriminalizzazione di precedenti illeciti operata dalla normativa sulla base della tipologia di pena per gli stessi prevista. Sotto tale profilo, quindi, solo nel caso in cui un reato, divenuto illecito amministrativo, già prevedesse l’applicazione, in via accessoria, di sanzioni consistenti nella privazione o sospensione di diritti e facoltà derivanti da provvedimenti dell’amministrazione, esse possono facoltativamente essere applicate dall’amministrazione con l’ordinanza ingiunzione che commina anche la sanzione amministrativa pecuniaria.
La lacunosità del riferimento letterale spiega dunque il tentativo di alcuni autori di sottrarre dall’ambito sanzionatorio le misure consistenti nella privazione o nella sospensione di diritti e facoltà (le sanzioni interdittive, appunto) che non siano accessorie rispetto ad un illecito amministrativo da depenalizzazione, individuandone la ratio nella protezione e realizzazione diretta degli interessi dell’Amministrazione in quanto permetterebbero l’ “interdizione” di un soggetto o di una sua attività in ragione della ritenuta inidoneità a soddisfarli, avuto riguardo alla condotta preventivamente tenuta[10].
L’art. 20, co.2, della l. 689/1981 prevede che le sanzioni accessorie ad una sanzione amministrativa pecuniaria non siano applicabili - rectius, esecutive - fino a che sia pendente il giudizio di opposizione contro il provvedimento di condanna o, nel caso di connessione con un reato, fino a che il provvedimento stesso non sia divenuto esecutivo. Ciò da un lato ne conferma la natura afflittiva e la funzione deterrente, dall’altro evidenzia l’attenzione del legislatore al principio - sebbene fortemente temperato- di colpevolezza del destinatario del provvedimento. L’applicazione della sanzione accessoria, infatti, avviene, almeno di regola solo al momento in cui il soggetto è riconosciuto responsabile, a seguito di un giudizio a cognizione piena, della violazione amministrativa[11].
La normativa consente invece l’immediata esecuzione della sanzione pecuniaria, che per la sua fungibilità comporta effetti pregiudizievoli più facilmente rimediabili, nonché, si ritiene, delle sanzioni amministrative non pecuniarie autonome, quanto meno in assenza di un’esplicita deroga di legge. Per contro, proprio nell’immediatezza del rimedio può ravvisarsi un indice della sua natura cautelare o riparatoria, giusta la necessità, cui esso fa fronte, di cauterizzare nel più breve tempo possibile la lesione che l’ordinamento giuridico ha subito a causa del comportamento del presunto trasgressore[12].
La natura sanzionatoria di un provvedimento va ricercata anche nei confini delineati dal diritto europeo. La Corte di Strasburgo ha infatti elaborato propri e autonomi criteri (i notissimi cd. Engel criteria) al fine di stabilire la portata “penale” o meno di un illecito e della relativa sanzione, laddove il relativo termine ha una connotazione diversa rispetto a quella attinta dal diritto nazionale. A ciò consegue che essi non si risolvono affatto in un’indebita ingerenza nella scelta di politica criminale tra qualificazione di un fatto illecito come amministrativo o penale, rimessa al legislatore nazionale (di particolare interesse il dialogo tra le Corti sviluppatosi al riguardo in tema di confisca, quale tipica sanzione amministrativa accessoria al reato di lottizzazione abusiva, su cui v. da ultimo Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49). Ma impongono una valutazione estensiva del concetto per non sottrarre l’applicazione di vere e proprie “sanzioni” ad ineludibili requisiti sostanziali, prima ancora che a precise garanzie procedurali.
Perché possa parlarsi di sanzione “sostanzialmente penale”, dunque, i requisiti vanno ricercati: nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta comunque la valenza “intrinsecamente penale” della misura; nella natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; nel grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, Grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non a quella concretamente applicata. La Corte EDU, dunque, per evitare la c.d. “truffa delle etichette”, impone di guardare al di là dell’inquadramento formale e ricercare la «realtà della procedura in questione» (Corte EDU, 27 febbraio 1980, caso 6903/75, Deweer v. Belgium, par. 44). In tale ottica, assume rilievo la circostanza che la previsione sanzionatoria si rivolga ad una generalità di soggetti –il che è escluso, ad esempio, per la sanzione disciplinare- e che abbia un contenuto afflittivo e una funzione deterrente, requisiti questi che secondo la costante giurisprudenza di Strasburgo sono tra loro alternativi e non cumulativi. Sicché, da un lato, la gravità (severità) può non rilevare, ove la sanzione abbia in sé stessa una inequivoca funzione deterrente e punitiva; dall’altro, entro certi limiti, anche una misura nella quale il carattere afflittivo non sia prevalente (o addirittura manchi), ma che comporti conseguenze di una certa gravità per il destinatario, può essere considerata di natura penale e, quindi, rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 6 CEDU, che costituisce la cartina di tornasole alla stregua della quale è stata evidentemente delineata la cornice sopra tratteggiata. Pertanto, anche provvedimenti di carattere interdittivo o ripristinatorio comunemente ritenuti espressione di un generico potere ablatorio possono, a certe condizioni, ricadere nella nozione di «accusa penale» di cui a ridetto art. 6 della Carta EDU (Corte EDU, 24 aprile 2012, caso n. 1051/06, Mihai Toma v. Romania, par. 26; id., 30 maggio 2006, caso n. 38184/03, Matyjec v. Polland, par. 58)[13].
Di particolare sensibilità il tema della necessità dell’elemento psicologico dell’illecito, ovvero della necessaria colpevolezza del suo autore o comunque del soggetto individuato come destinatario della sanzione, affinché la stessa possa essergli legittimamente imposta.
La questione ha assunto un notevole rilievo ancora una volta in materia di illecito urbanistico-edilizio, con riferimento in particolare alla confisca quale conseguenza della lottizzazione abusiva, ma non solo.
Attingendo ancora ai suggerimenti della Corte EDU riferiti, questa volta, all’art. 7 della Convenzione, va ricordato come pronunciandosi sull’affaire di Punta Perotti, si sia fatta leva sulla presenza del sintagma «persona colpevole» nelle versioni inglese e francese della norma per richiedere comunque un criterio d’imputabilità soggettiva dell’illecito laddove soggetto a sanzione penale (Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, caso n. 75909/01, Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, par. 116).
La natura “reale” delle sanzioni amministrative edilizie[14]ha tuttavia portato la giurisprudenza nazionale a prescindere dallo scrutinio dell’elemento psicologico, ritenendo, ad esempio, che la fattispecie di lottizzazione abusiva rilevi in modo oggettivo e indipendentemente dall’animus dei proprietari interessati, i quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni e di natura civilistica con i propri danti causa (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n. 4320). Si è così arrivati a distinguere sul piano sistematico tra ablazione della proprietà che consegua alla decisione del giudice penale ovvero ai provvedimenti dell’autorità comunale, relegando l’applicazione dei principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai trasgressori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato solo alla prima, ovvero all’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 (che in base alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828 viene ritenuta in ogni modo compatibile con l’art. 7 CEDU). L’argomento medesimo non è stato invece ritenuto utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 1 e 8, ovvero dall’art. 31 del medesimo T.U.E., in quanto atti vincolati[15]. I profili sollevati riguardano le garanzie inerenti alla titolarità del diritto di proprietà e, in particolare, all’aspetto dell’acquisizione della titolarità delle aree dei privati in capo all’Amministrazione quale conseguenza delle misure sanzionatorie previste dall’art. 30, comma 1 ed 8, del D.P.R. n. 380/2001, con un effetto sostanzialmente espropriativo per il proprietario inciso. La Corte Costituzionale con sentenza 24 luglio 2009, n. 239 (riguardante la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 44, co. 2, del medesimo d.P.R. n. 380/2001, sollevata in riferimento agli art. 3, 25, comma 2, e 27, comma 1, della Costituzione, nonché ai principi dettati dalla CEDU, nella parte in cui la norma impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti) ha dichiarato l’inammissibilità della questione anche sotto il profilo dell’omissione da parte del giudice a quo della sperimentazione della possibilità di un’interpretazione conforme alla disposizione internazionale, quale interpretata dalla predetta Corte europea dei diritti dell’uomo. Spetta infatti «agli organi giurisdizionali comuni l’eventuale opera interpretativa dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo; a tale compito, infatti, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità, con esiti la cui valutazione non è ora rimessa a questa Corte. Solo ove l'adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge».
Non osta, dunque, al disposto della norma in questione un’interpretazione che tenga conto, in linea con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dei profili soggettivi di assenza di colpa e buona fede, che, anzi, si impone alla luce della natura di sanzione amministrativa della misura acquisitiva prevista dai suddetti comma in quanto nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
A ben guardare in effetti mentre l’accertamento dell’ipotesi di reato, nella sua forma materiale o negoziale, presuppone necessariamente la prova dell’elemento psicologico, l’acquisizione al patrimonio del Comune consegue al decorso di 90 giorni senza avere ottemperato all’ingiunzione di sospensione dei lavori, evidentemente ancora in corso, ovvero di non cedere il bene con atto tra vivi.
L’indifferenza in ordine alla sussistenza o meno di un comportamento colposo è stata interpretata nel senso di porre una presunzione iuris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, spettando allo stesso l’onere della prova della propria incolpevolezza[16]. L’aspetto relativo alla necessità della sussistenza di un elemento soggettivo, quale indice di rimproverabilità, può recedere dinanzi alla funzione concretamente ripristinatoria della sanzione che in quanto tale «ha l’attitudine di imporsi, per il suo carattere reale, anche nei confronti di soggetti in stato di incolpevole buona fede, in quanto misura necessaria al ripristino del bene. In base a tale interpretazione, che tiene conto del profilo soggettivo di responsabilità nella condotta, la sanzione acquisitiva di cui all’art. 30 (commi 1, 7 e 8) si palesa in linea con i principi espressi dalla Corte di Strasburgo ed a quest’ultimo riguardo, il dovere di dare all'ordinamento interno una interpretazione conforme alla CEDU, come esplicitata dalla Corte di Strasburgo, deriva dall'art. 117 Cost., comma 1, ed è stato affermato in modo generale dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 e, con riferimento specifico al citato art. 44, comma 2, con la sentenza 24 luglio 2009 n. 239» (v. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380).
3. La decadenza.
Con il termine “decadenza” si può intendere sia un provvedimento di natura sanzionatoria, sia più in generale un atto di esercizio del potere di autotutela, sia un distinto istituto di natura rimediale che fa cessare gli effetti dell’atto precedente con effetto ex nunc o per il venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto, o per inadempimento di obblighi imposti dal provvedimento o per mancato esercizio per un determinato periodo di tempo delle facoltà che derivano dallo stesso[17].
La distinzione ha trovato implicita consacrazione nelle affermazioni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che ha così perimetrato “in negativo”, evidenziando gli elementi di affinità e quelli di divergenza, il provvedimento con il quale il Gestore Servizi Energetici (GSE), a conclusione di un procedimento di verifica condotto ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011 e del D.M. 31 gennaio 2014 in relazione ad un impianto fotovoltaico, ha dichiarato la decadenza, appunto, dal diritto alle tariffe incentivanti fruite da un operatore economico, con conseguente recupero integrale degli incentivi percepiti. Ciò essendo emerso nel caso di specie dall’istruttoria, con riferimento all’attestazione dell’origine dei pannelli fotovoltaici, che era stato presentato un documento (Factory Inspection Attestation) non conforme a quello che lo stesso ente aveva originariamente emesso. Secondo l’Adunanza plenaria, dunque, la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, «ex tunc (o in alcuni casi ex nunc)»[18], di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio) se rientra nell’esercizio dell’autotutela, si connota per la sottoposizione ai presupposti, condizioni ed effetti statuiti a livello generale dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990; se ha carattere sanzionatorio, richiede l’elemento soggettivo del dolo o della colpa e l’effetto ablatorio prodotto al massimo coincide con l’utilità concessa attraverso il pregresso provvedimento ampliativo sul quale viene ad incidere; se istituto autonomo (quale ritenuto quello in esame non presenta alcun tratto comune con il diverso istituto della sanzione, della quale non condivide i due richiamati requisiti, ma «pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 […];b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti;[…]»[19]. La giurisprudenza ha già avuto modo di confermare tale distinzione tra decadenza e autotutela avuto riguardo ai provvedimenti del G.S.E. anche dopo la modifica dell’art. 42, comma 3, d.lgs. 28/2011 introdotta dall’art. 56, comma 8, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, il quale ha esteso alla prima i presupposti di cui all’art. 21 nonies l. 241/1990, anche allo scopo di circoscriverne nel tempo l’irrogazione, ma non ha mutato la natura del potere (che rimane di decadenza), né il carattere vincolato dello stesso. La titolarità del potere di verifica e controllo, pertanto, non consente l’indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista. Ne discende che «anche l’esercizio di poteri di revisione del precedente assenso regolatorio debbano essere esercitati nel rispetto dei principi dettati, in generale per le tradizionali autorità, con riferimento al potere di autotutela. Ciò non solo con riferimento al formale rispetto dei presupposti, ma anche relativamente alla verifica istruttoria e motivazionale degli elementi forniti dai soggetti passivi, sia in relazione ai presupposti iniziali sia rispetto alle alternative che le stesse società avrebbero potuto perseguire, in specie dinanzi al mutamento di interpretazione dell’autorità». (Cons. Stato, sez. VI, 29 luglio 2019, n. 5324, nonché, più di recente, sez. II, 17 giugno 2022, n. 4983)[20]. Sotto il profilo del regime delle tutele non si pongono a tale riguardo particolari problematiche giusta la riconducibilità della materia ad una di quelle di competenza esclusiva del giudice amministrativo.
Ma traslando le relative affermazioni al più generale quadro delle decadenze previste nell’ordinamento, si viene così ad imporre all’interprete un distinguo, appunto, su funzione “punitiva” della stessa e funzione meramente ripristinatoria, di non sempre agevole individuazione.
A titolo di esempio, la previsione nominativa, nonché la finalità di tutela di prescrizioni amministrative imposte dalla legge per giustificare il perdurante godimento del beneficio parrebbe attrarre nella sfera di competenza del giudice amministrativo la decadenza di cui all’art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (a vario titolo riprodotta nelle discipline regionali di settore) che consegue al mancato utilizzo del posteggio in concessione per un lasso di tempo predeterminato[21]. Né pare condurre a soluzione opposta la circostanza che della stessa si faccia menzione in una norma rubricata “sanzioni”, stante che la sanzione ivi prevista consegue alla decadenza (revoca del titolo), laddove la stessa, proprio in quanto non sanzionatoria, non consente giustificazioni alternative rispetto a quelle tassativamente individuate dal legislatore (malattia, gravidanza e servizio militare).
4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico.
Il “suolo pubblico” è quella porzione di territorio non coperta da edificazioni suscettibile di occupazione per varie finalità, per lo più economiche[22], previa concessione o autorizzazione da parte dell’Ente proprietario. Trattandosi per lo più di strade o piazze, esso è riconducibile alla nozione di demanio stradale, la cui disciplina è rinvenibile ancora oggi negli artt. 822 e 824 c.c., a seconda che appartengano allo Stato, ovvero a Province e Comuni. La richiamata sistematica ha assunto oggi connotazioni più sfumate, laddove il suolo (e più in generale il bene pubblico) sia utilizzato da una specifica collettività, sì da essere ancorato alla tutela dell’interesse pubblico che fa capo alla stessa. Emblematica al riguardo la vicenda giuridica delle lagune venete, che non solo in quanto non menzionate come tali nell’elencazione dei beni demaniali (che contempla spiagge, rade dei porti, lidi) sono state ricondotte alla più moderna dizione di “bene comune” da due ormai famose sentenze “gemelle” della Corte di Cassazione, che hanno fornito lo spunto per lo sviluppo di una teoria giuseconomica della proprietà pubblica laddove affermano che «il solo aspetto della demanialità non appare esaustivo per individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un godimento collettivo o [..] risultano funzionali ad interessi della stessa collettività», di fatto valorizzando l’utilizzo, piuttosto che la titolarità [23].
Ciò ha consentito nel tempo la valorizzazione di istituti, quali il c.d. ‘baratto amministrativo”, che fondano il rapporto sinallagmatico tra privato e pubblica amministrazione proprio sul coinvolgimento dei cittadini, singoli o associati, nella gestione del “bene comune”, in un’ottica di recupero di contenitori degradati, politiche di sicurezza delle periferie, ovvero più semplicemente perequazione tra diretta presa in carico di servizi pubblici, quali il mantenimento del verde o la pulizia e assunzione dell’onere economico degli stessi[24].
La fruizione del suolo pubblico, sottraendolo all’uso della collettività, è soggetta a concessione[25], per l’attribuzione della quale operano i principi di evidenza pubblica come ormai definitivamente chiarito nell’organica evoluzione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale della materia, diretta a ricondurre l’attribuzione di tutte tali fattispecie al rispetto dei principi di matrice comunitaria di imparzialità e di trasparenza[26]. In sintesi, pur avendo avuto la vicenda minore risonanza, anche mediatica, le medesime affermazioni riferite alla sottrazione all’uso collettivo di aree del demanio marittimo si attagliano anche alla mera concessione di “preselle” di suolo pubblico (posteggi e simili), tanto che l’affermazione della diretta applicabilità dei principi eurounitari da parte anche del singolo funzionario chiamato a gestire la normativa di settore ha da tempo determinato la preoccupazione degli operatori economici e l’inerzia degli uffici comunali competenti. Non a caso, nel parere espresso dall’AGCOM in sede di audizione parlamentare, si richiamano la giurisprudenza nazionale e comunitaria in materia di concessioni demaniali marittime per evocarne i principi anche con riferimento alle concessioni per l’esercizio del commercio su aree pubbliche[27]. La materia peraltro è stata ulteriormente complicata dal fatto che in alcune Regioni molti Comuni hanno comunque provveduto ai rinnovi delle concessioni in base alla legislazione in vigore, “sfruttando” le norme emergenziali relative all’epidemia da Covid-19 che consentono la conclusione dei procedimenti entro novanta giorni dalla cessazione dello stato di emergenza[28]. Quanto detto mentre cominciano a farsi strada le prime sentenze nelle quali si riconosce espressamente la riferibilità della disciplina comunitaria al settore del commercio in aree pubbliche sulla base del percorso argomentativo dell’Adunanza Plenaria laddove afferma che «la tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, una “materia” trasversale, che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di “sostegno”: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia. Altrimenti, si dovrebbe paradossalmente ritenere che anche le direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni non potrebbero trovare applicazione ai contratti diretti a procurare risorse strumentali all’esercizio di attività riservate alla sovranità nazionale degli Stati». In altri termini, la direttiva impone l’indizione di gare pubbliche a tutela della concorrenza per il mercato, materia “trasversale” che è suscettibile di trovare applicazione in vari settori dell’ordinamento nazionale, tra cui deve senz’altro farsi rientrare quello delle concessioni di parcheggi a rotazione per l’esercizio del commercio su aree pubbliche per altro caratterizzati anch’essi, come già detto, dalla scarsità delle concessioni assentibili[29].
In linea di massima, le controversie che attingono alle concessioni di suolo pubblico sottostanno alle regole generali individuate dalla giurisprudenza per il riparto di giurisdizione. Spettano dunque al giudice ordinario quelle concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, in quanto a contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere d’intervento della P.A. a tutela di interessi generali (ex plurimis, Cass., SS.UU., ord. 30 luglio 2020, n. 16459).
Con riferimento al canone, solo quando venga in contestazione - come, nel caso dell’impugnazione del regolamento – l’esercizio di poteri valutativo-discrezionali nella sua determinazione «sia in punto di an debeatur sia in punto di individuazione dei criteri di determinazione del quantum debeatur, e non già il suo mero calcolo aritmetico sulla base di criteri già predeterminati», la competenza è del giudice amministrativo[30].
Giova rammentare il quadro normativo: l’art. 42 del d.lgs. n. 507 del 1993, concernente la «Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei Comuni e delle Province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale Ecologia», ha introdotto la distinzione tra occupazioni di spazi ed aree pubbliche “permanenti” o meno, considerando tali quelle «di carattere stabile, effettuate a seguito del rilascio di un atto di concessione, aventi, comunque, durata non inferiore all’anno, comportino o meno l’esistenza di manufatti o impianti» (comma 1, lett. a), per le quali era dovuta una tassa, a tariffa - variabile - «graduata a seconda dell’importanza dell’area sulla quale insiste l’occupazione» e«commisurata alla superficie occupata»; l’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n.446, in attuazione della delega, conferita al Governo dalla legge del 23 dicembre 1996, n. 662, ha demandato alle Province ed ai Comuni il potere di adottare un regolamento per assoggettare il titolare della concessione di occupazione, permanente o temporanea, appunto, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al demanio o patrimonio indisponibile dell’ente, comprese le aree destinate a mercati, anche attrezzati, all’obbligo del pagamento di un canone «con riferimento alla durata dell'occupazione» e maggiorabile «di eventuali oneri di manutenzione derivanti» dall’occupazione stessa, commisurato alle esigenze del bilancio dell’ente, al valore economico delle aree e all’entità del sacrificio imposto alla collettività con la rinuncia all’uso pubblico generalizzato degli spazi occupati. Inizialmente, era stata prevista anche l’abolizione, con decorrenza dal primo gennaio 1999, delle tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 50 (TOSAP), ma l’art. 31, comma 14, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 ha poi ripristinato il precedente assetto normativo, anche ai fini della giurisdizione, sicché si è stabilito che l’obbligo del pagamento del canone (COSAP) poteva coesistere con l’obbligo del pagamento della tassa per l’occupazione di aree pubbliche (TOSAP), stante la diversità della natura delle prestazioni dovute dal concessionario, essendo il canone COSAP, per l’appunto, non un tributo ma il corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici. La medesima norma, infine, al comma 20, nel modificare il comma 1 dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, stabilì che «i comuni possono», adottando appositi regolamenti, «escludere l’applicazione nel proprio territorio della TOSAP», e in alternativa «prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, degli spazi e delle aree», elencati nella norma sostituita, sia assoggettata ad un canone di concessione (COSAP) determinato in base a tariffa, con relativa giurisdizione in capo al giudice ordinario e non tributario, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale sull’art. 3-bis, comma 2, lett. b), della legge 2 dicembre 2005, n. 248, intervenuto a novella, dato atto della diversa natura giuridica del COSAP rispetto alla TOSAP. Al fine di evitare che le scelte concessorie dipendessero da decisioni estemporanee degli Enti territoriali contrarie anche ad un ordinato governo del territorio, l’art. 63 del d.lgs. 446 del 1997 demandava al regolamento comunale anche la disciplina delle condizioni di rilascio e di rinnovo delle autorizzazioni, nonché degli ambiti sanzionatori, facendo salve peraltro le previsioni del sopra richiamato art. 20 del Codice della strada. Tale principio ha trovato consacrazione in numerose pronunce dei giudici di legittimità e amministrativi, in particolare a far data dalla decisione del 7 gennaio 2016, n.61, delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha ribadito la natura di corrispettivo del Cosap per la concessione dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici, e non per la sottrazione al sistema della viabilità di un’area o spazio pubblico. Da ultimo, il Capo I del d.lgs. n. 507 del 1993 è stato formalmente abrogato con l’art. 1, comma 847 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, salvo essere ripristinato dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2020, n. 8, che all’art. 4, comma 3-quater ha disposto che l’abrogazione non operi per l’anno 2020. E’ stato infatti introdotto un “canone unico” di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria, che assorbe anche quello di cui all’art. 27, commi 7 e 8, del Codice della Strada, limitatamente alle strade di pertinenza dei comuni e della province, con portata comprensiva di qualunque canone ricognitorio o concessorio previsto da norma di legge o di regolamento, fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi. Il potere regolamentare dei Comuni resta tuttavia anche nella nuova cornice normativa, giusta le previsioni in tal senso contenute ai commi da 816 a 836 del richiamato art. 1 della legge di bilancio 2020, che ne demanda al Consiglio comunale, specificando tra i contenuti obbligatori anche le condizioni di rilascio della concessione e il regime sanzionatorio, il cui importo non può superare il 50 % del canone dovuto, ferme restando le sanzioni previste dal codice della strada stesso. Il canone può essere maggiorato di eventuali effettivi e comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall’occupazione del suolo e del sottosuolo che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni. Il comma 822 pone a carico dell’Ente proprietario la rimozione dell’occupazione abusiva previa redazione di processo verbale di constatazione redatto da competente pubblico ufficiale, con oneri derivanti dalla rimozione a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni.
In relazione alle impugnative degli avvisi di pagamento, la loro contestazione dedotta in via derivata rispetto al regolamento Cosap (ora del canone unico), è stata fatta rientrare nella giurisdizione del Giudice amministrativo. Diverse considerazioni valgono, invece, in ordine a eventuali profili di censura in via autonoma (si veda, in proposito, Cass. SS. UU. Sentenza n. 21950 del 2015, ove si legge: «le controversie relative ai canoni per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, perché l’obbligo di pagamento di un canone per l'utilizzazione del suolo pubblico non ha natura tributaria, esulando dalla doverosità della prestazione e dal collegamento di questa alla pubblica spesa»)[31]. Si consideri, peraltro, che la stretta correlazione tra l’atto amministrativo generale presupposto "a monte" e l’atto applicativo "a valle" non ha una rilevanza circoscritta ai profili giurisdizionali; esso incide, altresì, sull’accertamento del momento in cui possa dirsi integralmente manifestata la lesività del medesimo regolamento.
Avuto riguardo al delicato settore delle concessioni demaniali marittime – ma il principio può essere esteso ad ogni ambito - si è altresì affermato che spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sul contenzioso concernente i provvedimenti di rideterminazione del canone, adottati in applicazione dell’art. 1, comma 251, della legge finanziaria n. 296 del 2006, qualora non si tratti della sua mera quantificazione, ma la controversia riguardi anche altri aspetti comportanti una valutazione tecnico-discrezionale da parte dell’Amministrazione (es., l’integrale revisione previa ricognizione tecnico-discrezionale del carattere di pertinenze demaniali marittime delle opere realizzate in precedenza dal concessionario, anche in considerazione dell’inamovibilità o meno delle stesse; la questione se le opere realizzate sul suolo demaniale divenissero di proprietà dello Stato soltanto alla scadenza della concessione; l’applicabilità della normativa sopravvenuta alle concessioni in corso)[32].
5. Le sanzioni di natura non pecuniaria.
Individuare la natura sanzionatoria della misura applicata può non essere sufficiente a individuare anche il giudice competente in relazione alla sua impugnazione. Ciò nello specifico laddove essa venga irrogata autonomamente, ovvero costituisca l’unica conseguenza della condotta illecito oppure l’ulteriore conseguenza della stessa, già sanzionata in via amministrativa, pecuniaria e non solo, ovvero penale. L’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, infatti, con riferimento alla competenza del tribunale, parla di “sanzione di natura diversa” applicata “congiuntamente” a quella pecuniaria, ovvero “da sola”.
In passato, sulla base della formulazione letterale dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, si era affermata la giurisdizione amministrativa per tutte le sanzioni accessorie diverse dalla confisca, purché irrogate autonomamente. La questione è stata ancora di recente oggetto di una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione (ordinanza 21 settembre 2020, n. 19664), che pronunciandosi sul regolamento di giurisdizione sollevato in relazione alla sanzione della chiusura per dieci giorni dell’esercizio destinato al gioco sportivo e alle lotterie irrogata dall’Agenzia delle Dogane e dei monopoli per l’accertata violazione, da parte della Questura, dell’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, convertito con modificazioni dalla l. n. 11 del 2011, ha ritenuto di individuare l’elemento di discrimine nella mancanza di discrezionalità applicativa. In tal modo il giudice ha inteso discostarsi dal precedente orientamento che ravvisava, appunto, nell’autonomia della sanzione l’elemento diversificante, giusta la stretta connessione di quella irrogata contestualmente ad altra pecuniaria con i presupposti di quest’ultima. Al contrario, l’autonomia era considerata quasi ex se indizio di un contenuto conformabile dalla pubblica amministrazione, mediante l’esercizio del proprio potere discrezionale, alla violazione concretamente posta in essere ed espressione dell’esercizio del potere, anch’esso discrezionale, di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa.
Al contrario, il perno della questione viene ora a spostarsi propria sulla sussistenza o meno di discrezionalità applicativa, a prescindere dal momento in cui si addivenga alla scelta, rilevando caso mai lo stesso quale vizio del procedimento sanzionatorio in qualunque sede rilevato. La discrezionalità va dunque effettivamente accertata e costituisce la cartina di tornasole non della natura sanzionatoria o meno del provvedimento, ove comunque afflittivo, ma della sua portata doverosa nell’an e necessitata nel quomodo. Solo laddove, quindi, non vi è alcuna possibilità di scelta da parte della P.A. procedente, la giurisdizione in materia di sanzione di natura non pecuniaria è del giudice ordinario[33].
La natura esclusivamente afflittiva e il potere interamente vincolato della norma che definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione determinandone in via esclusiva e non alternativa il contenuto anche in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili. A quel punto l’applicazione della sanzione consegue ad un obbligo di legge, derivante dalla commissione del fatto illecito, accertata dall’autorità di polizia, e non costituisce il risultato di un’autonoma attività di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa irrogante.
Questo importante ripensamento giurisprudenziale ci consente oggi di azzardare qualche conclusione sulla giurisdizione, venendo a specificarsi (attraverso qualche grossa semplificazione) che, eccezion fatta per i casi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, le sanzioni non pecuniarie, comminabili in carenza di discrezionalità, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla loro specifica afflittività.
Una interessante applicazione dei ridetti principi è dato ravvisare nelle numerose pronunce di primo grado (inappellate) nelle quali il giudice amministrativo ha declinato la propria competenza avuto riguardo a talune sanzioni previste dalla legislazione emergenziale per fronteggiare l’epidemia da COVID-19. Con riferimento, ad esempio, alla disciplina di cui all’art. 4, comma 2, del d.l.ec n. 19 del 2020, convertito in l. n. 35 del 2020 – che prevede espressamente quale sanzione accessoria non alternativa la chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni nei casi di cui all’art. 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa) – si è infatti riconosciuto che trattasi indiscutibilmente di fattispecie in cui risultano predeterminate sia la condotta sia la sanzione minima e massima, così che «la sanzione accessoria ha natura esclusivamente afflittiva al pari di quella pecuniaria alla quale si aggiunge ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale». Ne discende «che non venga in tal caso, in rilievo alcun potere discrezionale, in quanto l’autorità è priva del potere di stabilire se applicare la sanzione, né può articolarne il contenuto come nelle sanzioni ripristinatorie della situazione modificata a causa della condotta illecita» e in considerazione del fatto che non risulta ascrivibile all’esercizio di un potere propriamente discrezionale la mera determinazione dei giorni di chiusura del locale aperto al pubblico, da effettuarsi dalla stessa tra un minimo e un massimo, rigorosamente predeterminati dalla norma[34]. A tutto ciò consegue che la afflittività della misura irrogata ne implica la portata “sanzionatoria” e le conseguenti garanzie anche procedurali nella irrogazione; ma è l’obbligo applicativo e contenutistico a sancirne il regime delle tutele.
6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza delle città.
Con la legge 15 luglio 2009, n. 94, è stato inserito un particolare tipo di rimedio avverso occupazioni abusive di suolo pubblico che va ad aggiungersi a quelli già previsti e che ha dato luogo a un interessante contenzioso che attinge i principi poco sopra enunciati. Trattasi dell’art. 13, commi 16, 17 e 18. La norma prevede dunque che fatta salva l’applicazione dei provvedimenti dell’autorità per motivi di ordine pubblico (per esempio, ordinanze contingibili e urgenti), in tutti i casi di indebita occupazione di suolo pubblico riconducibile o al reato di cui all’articolo 633 del codice penale o alla fattispecie di cui all’articolo 20 del codice della strada, il sindaco per le strade urbane e il prefetto per quelle extraurbane o per ogni luogo quando ricorrono motivi di sicurezza pubblica, possono ordinare il ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti[35].
In caso di accertamento di tali illeciti, peraltro, è prevista sempre la trasmissione di copia del verbale di accertamento alla Guardia di finanza (art. 1, comma 18), ai sensi dell’art. 36 della del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Come affermato da subito dai primi commentatori, la tipologia di provvedimento previsto da questa disposizione non è riconducibile al genus delle ordinanze contingibili ed urgenti, pur nascendo da esigenze di sicurezza, lato sensu intesa. Con tale norma si generalizza caso mai una specifica sanzione accessoria riferita a due diverse tipologie di illecito, penale (art. 633 c.p.) e amministrativo (art. 20 Codice della strada), in quanto esplicitamente richiamati[36]. Il tema è stato affrontato nuovamente dal dal d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito dalla l. 18 aprile 2017, n. 48, che ha inteso peraltro valorizzare in termini più generali la potestà regolamentare del comune in materia di “sicurezza delle città”, e dunque in una visione prospettica ben diversa da quella a carattere economico comunque sottesa alla riscossione del canone. Il legislatore dunque da un lato ha riscritto per l’ennesima volta il potere di ordinanza del sindaco per la tutela della “sicurezza urbana”[37]; dall’altro, ha delimitato inediti spazi di intervento per i regolamenti comunali. Si è cercato in tal modo di porre rimedio ad una delle principali contraddizioni sorte a seguito della novella dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attuata con l’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. In primo luogo, mediante l’inserimento del comma 7-ter nell’art. 50, dunque, concernente il potere di ordinanza del Sindaco quale capo del governo locale, è stata attribuita ai comuni la potestà di dotarsi di appositi regolamenti nelle medesime materie per le quali gli è riconosciuto di provvedere in via d’urgenza. Si tratta delle «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». In secondo luogo, si è demandata ai regolamenti comunali di polizia urbana la possibilità di «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli ovvero adibite a verde pubblico», nell’ambito delle quali applicare a chi ponga in essere condotte che ne impediscono l’accessibilità e la fruizione, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300 e il contestuale ordine di allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto[38]. Va peraltro precisato che l’art. 5, comma 1, lett. c) del decreto rimette ai patti per l’attuazione della sicurezza urbana la “valorizzazione” di forme di collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti quale tipico strumento di sicurezza partecipata anche l’eventuale supporto all’ente locale nell’individuazione delle aree urbane da sottoporre alla particolare tutela di cui all’articolo 9, comma 3 dello stesso.
Nel complicato gioco di rimandi riveniente dalle numerose clausole di rinvio agli illeciti previsti dalle varie norme richiamate (ad esempio, l’art. 29 del d.lgs. n. 114 del 1998 per quanto concerne il commercio su aree pubbliche, senza peraltro distinguere all’interno dello stesso le varie tipologie di violazioni), il richiamato comma 3 dell’art. 9 fa salva anche l’applicazione dell’art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) e dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività -SCIA-, silenzio assenso e comunicazione di inizio lavori e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124)[39]. La prima di tali disposizioni, al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, avoca al livello statale (i competenti uffici territoriali del ministero per i beni e le attività culturali, id est le Soprintendenze), seppure d’intesa con la regione e i comuni, l’adozione di determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti –recte, itineranti - senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico[40]. L’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, egualmente prevede, a riprova della ribadita necessità di porre alcuni argini al processo di liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito delle scelte di governo, un invertito assetto delle competenze, per cui è il comune, d’intesa con la regione, sentito il competente soprintendente del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ad adottare le deliberazioni volte a individuare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione, l’esercizio di una o più attività, in quanto ritenuta non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Come si vede da un’analisi comparata delle disposizioni richiamate, le finalità di tutela finiscono per essere sovrapponibili, laddove al Comune è consentito in maniera più ampia riservarsi l’imposizione del titolo abilitativo espresso, così da demandare al momento del relativo rilascio la verifica della compatibilità con l’assetto dei luoghi che si vogliono tutelare. La possibilità, cioè, di imporre un titolo di legittimazione che non sia la segnalazione certificata di inizio di attività, prevista in tutte le altre aree del territorio, anche per reintrodurre surrettiziamente il controllo della tipologia o categoria merceologica e valutarne la compatibilità con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, diviene strumento per controllarne l’insediamento. Ovviamente, affinché ciò non si risolva in una limitazione indiscriminata della concorrenza in dispregio delle disposizioni europee recepite nelle d.lgs. 59/2010, si prevede un costante monitoraggio da parte del ministero dei provvedimenti adottati. Allo scopo, le deliberazioni adottate sulla base di tale norma devono essere trasmesse alla competente soprintendenza del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e al ministero dello sviluppo economico per il tramite della regione. La digressione intrapresa, tuttavia, mette in luce la astratta sovrapponibilità di assetti regolatori diversi, anche a livello locale, giusta le variegate possibilità di intervento, in ragione dei diversificati interessi pubblici evidenziati, previste dal legislatore.
Limitandosi, dunque, ad alcuni dei possibili strumenti di eliminazione di un’occupazione abusiva, va rimarcato come il provvedimento (scritto) del Sindaco o del Prefetto previsto dalla normativa del 2009 è rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione; al contrario, l’ordine di allontanamento è doveroso al ricorrere delle condizioni date, come dimostrato dalla perentorietà dei termini utilizzati dal legislatore, al pari, del resto, dell’attivazione della sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi prevista dall’art. 20 del Codice della Strada e della rimozione dell’abuso cui fa riferimento, da ultimo, la legge n. 160 del 2019. Sicché a parità di effetto afflittivo, utilizzando il paradigma da ultimo fornito dalle Sezioni unite della Cassazione, le relative opposizioni vanno ricondotte alla competenza del giudice ordinario, salva la prima ipotesi richiamata, pur incidendo comunque la misura su diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di movimento[41].
Le sentenze del Consiglio di Stato aventi ad oggetto il provvedimento di chiusura dell’attività commerciale che ha posto in essere un’occupazione abusiva di suolo pubblico sono moltissime, e per lo più già andavano nella direzione da ultimo tracciata dai giudici di legittimità: avendo il legislatore utilizzato il verbo “possono”, a sottolineare il discrezionale esercizio del potere, la competenza a decidere sui ricorsi va attribuita al giudice amministrativo.
Occorre se mai chiedersi se siano ancora attuali le stesse affermazioni ove riferite alla determina dirigenziale che dà attuazione ad una previsione regolamentare a monte, non impugnata, che ne ha imposto l’adozione a presupposti dati, addirittura indicando l’entità dei giorni di chiusura nell’ambito del tetto massimo fissato dal legislatore. Ciò laddove evidentemente, mutatis mutandis quanto richiamato a proposito degli avvisi di accertamento, non si intenda attraverso l’atto conseguente censurare vizi dell’atto regolamentare presupposto. Per contro, la giurisprudenza ha al riguardo affermato con riferimento alla scelta regolamentare attuata dal Comune di Roma Capitale: «La norma attributiva del potere conferisce al sindaco una facoltà discrezionale di chiusura dell’attività commerciale per un termine non inferiore a cinque giorni. Nella specie, il sindaco di Roma, in assenza di vincoli normativi in ordine alle modalità di esercizio del potere discrezionale, lo ha legittimamente esercitato, all’esito di una complessiva comparazione degli interessi rilevanti, mediante l’adozione di un atto di natura generale. In particolare si è ritenuto che per le ragioni indicate nell’atto in tutti i casi in cui fosse stata accertata l’occupazione abusiva di suolo pubblico, in determinate zone storiche della città di Roma, sarebbe stato necessario applicare anche la sanzione della chiusura dell’attività commerciale. La particolare situazione in cui versavano ampie zone della parte storica ha pertanto giustificato l’adozione di un provvedimento di valenza generale con il quale si è disposta l’applicazione delle sanzioni previste» (Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2015, n. 1611). Per completezza, è interessante ricordare come in relazione alla potenziale violazione delle disposizioni in materia di liberalizzazione, si è comunque affermato che l’esercizio di un potere di tipo sanzionatorio può sempre legittimamente limitare l’iniziativa economica garantita dall’articolo 41 della Costituzione. Nel caso di specie, la sua riconducibilità al potere di ordinanza ordinario, oltre a renderlo rispettoso delle indicazioni rivenienti dalla sentenza della Corte costituzionale 7 aprile 2011, n. 115, che, come noto, ha inciso sul comma quattro dell’articolo 54 del T.u.e.l. laddove aveva inserito la possibilità di adottare anche provvedimenti ordinari per ragioni di sicurezza urbana, ben si concilia con la sua riconduzione allo strumento regolamentare tipicamente espressivo del potere normativo dell’organo elettivo del Comune. Viene infatti ritenuto «conforme a costituzione la previsione normativa attributiva di un potere sindacale ordinario che contenga sia il fine pubblico da raggiungere (cosiddetta legalità-indirizzo) sia contenuto in modalità di esercizio del potere (cosiddetta legalità-garanzia)». Ciò anche relativamente alla scelta di elevare a livello generale il potere sanzionatorio stabilito dalla norma, fissandone appunto i presupposti con apposito regolamento e con ciò trasformando in verità una mera facoltà, correlata alla valutazione dei singoli interessi in gioco, ivi compresa, si ritiene, la concomitante attivazione di diversi procedimenti sanzionatori, in obbligo di irrogazione[42]. Spetterebbe dunque al giudice ordinario valutare la legittimità della sopravvenienza del provvedimento a distanza di molto tempo dalla commessa violazione, laddove al contrario il giudice amministrativo ha ritenuto ininfluente finanche l’avvenuto ripristino della situazione di legalità, proprio in ragione della portata “ineludibile” della sanzione prevista. La cessazione dell’illegittima occupazione, il ripristino dei luoghi e il pagamento delle sanzioni irrogate da parte del contravventore non fanno venire meno, infatti, gli «indefettibili presupposti» per l’adozione del provvedimento di chiusura dell’esercizio, «dal momento che quei fatti sopravvenuti all’accertato abuso non possono avere natura di eliminazione dell’abuso stesso, laddove il provvedimento di chiusura ha natura sanzionatoria e va comunque adottato, la chiusura dell’esercizio per un periodo di cinque giorni rappresentando la misura minima della sanzione in caso di occupazione indebita di suolo pubblico per fini commerciali »[43].
7. Problematiche di ne bis in idem.
La astratta applicabilità di una pluralità di sanzioni impone di domandarsi anche se le stesse concorrano tra di loro ovvero si elidano a vicenda, giusta la applicabilità del principio del ne bis in idem, che costituisce il limite negativo alla disciplina del concorso formale di illeciti, seppure mitigato in termini di proporzionalità dal regime del cumulo giuridico[44].
Va ricordato brevemente come il principio del ne bis in idem ha subito negli ultimi anni una radicale trasformazione, perdendo la propria connotazione – esclusivamente processuale – di baluardo contro la sottoposizione, per il medesimo illecito, a due distinti procedimenti, originariamente penali, e divenendo garanzia sostanziale di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
Preliminarmente, esso si declina dunque nel divieto di instaurare o proseguire un nuovo procedimento sugli stessi fatti o circostanze già oggetto di un precedente giudizio ovvero di un diverso procedimento. La ratio tutela, quindi, l’autorità della cosa giudicata e la certezza del diritto.
Tale divieto è codificato, nell’ordinamento interno, dall’art. 649 c.p.p., con implicita copertura costituzionale negli artt. 24 e 111 Cost. A livello internazionale, invece, il principio in esame è stato positivizzato dall’art. 4 p. 1 del VII Protocollo addizionale della CEDU e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (dotata di efficacia vincolante al pari dei Trattati).
Astrattamente, tuttavia, come si evince dalle statuizioni delle Corti EDU e UE e dalle conclusioni della Suprema Corte di Cassazione, esso non si pone in contrasto con la tendenziale legittimità del c.d. doppio binario sanzionatorio[45].Una recente pronuncia dei giudici di legittimità aveva già tentato di mitigare la portata di tale ricostruzione, basata sulla sostanziale possibilità di duplicare i regimi sanzionatori. Si è dunque affermato che ai fini del divieto di bis in idem di cui all’art. 4, §1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i cd. “Engel criteria”, ma la violazione non sussiste nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale. In tali casi deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata. Ne consegue che in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 c.p., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo. Il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo[46].
La Corte costituzionale tuttavia si è spinta assai più avanti con la sentenza n. 149 del 10 maggio 2022, i cui effetti sul piano pratico nell’ambito del diritto punitivo sono ancora da scrutinare. I giudici della Consulta hanno dichiarato la illegittimità costituzionale proprio dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato, al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo non legato a quello penale da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, una sanzione avente carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dei relativi protocolli, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), apporta nuova linfa propulsiva alla tematica di riferimento. Nel caso di specie la Corte ha censurato la norma in quanto non impone al giudice di pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsto dall’art. 171-ter della l. n. 633 del 1941, sulla tutela del diritto d’autore, il quale, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della legge medesima. Ciò si pone infatti in contrasto con la ratio del principio delne bis in idem, ovvero «quella di evitare che un soggetto sia sottoposto ad un’ulteriore sofferenza nonché a costi economici, ovvero a quelle che sono le conseguenze naturali di un nuovo processo a fronte di fatti per i quali esso sia già stato giudicato. Sono presupposti per la configurazione del ne bis in idem: la sussistenza di un medesimo fatto, la sussistenza di una previa decisione (che concerna il merito della responsabilità penale dell’imputato e che sia divenuta irrevocabile) nonché la sussistenza di un secondo procedimento o processo di carattere penale per quei medesimi fatti». Laddove tuttavia la nozione di sanzione “penale” attinge largamente all’elaborazione europea, piuttosto che alla codifica di diritto positivo nazionale.
La Corte conclude affermando la propria consapevolezza dell’insufficienza della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in parte qua, rivolgendo un monito in senso correttivo al legislatore «nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio».
Conclusioni.
La necessità di realizzare in Italia una radicale semplificazione normativa, accompagnata da quella amministrativa, viene unanimemente indicata dagli analisti, da rapporti internazionali e nazionali, nonché dalle forze politiche e dai settori produttivi, come un elemento essenziale per il rilancio del Paese. E ciò, sia in termini di competitività delle imprese, sia in termini di qualità della vita dei cittadini, favorendo l’accesso ai servizi e la tutela dei diritti. L’efficienza e la competitività del sistema produttivo, la crescita economica e la stessa qualità della vita risentono della qualità della regolazione, non meno che della semplificazione amministrativa: la deflazione normativa, la migliore e più coerente produzione e manutenzione delle regole scongiurano infatti il rischio di un’incertezza del diritto che alligna nell’eccesso di norme, soprattutto se confuse e contraddittorie, la quale può condurre alla negazione del diritto stesso e a porre le premesse per comportamenti illegali.
Quanto detto, tuttavia, come vale necessariamente nella fase di avvio delle attività economiche, non può non valere anche con riferimento alla eventuale patologia del relativo esercizio, sì da rendere la sanzione afflittiva in maniera commisurata al comportamento tenuto, e comunque non radicalmente ostativa, per reiterazione e non per intensità, alla loro prosecuzione.
L’interprete dunque, nel dipanare la intricata matassa di norme, nazionali e locali mal coordinate e sovrapposte, deve comunque tenere conto di tali elementari principi di garanzia, evitando la duplicazione di procedimenti sanzionatori, volti a censurare sotto l’egida della apparente diversità del valore giuridico tutelato la medesima condotta, addirittura con sanzioni di identico contenuto. Evidenti ragioni di sintesi non consentono di attingere anche le problematiche urbanistico-edilizie, igienico-sanitarie, ovvero ambientali connesse alla realizzazione in ampliamento di locali preesistenti della superficie destinata alla vendita o alla somministrazione di alimenti e bevande[47].
Se si eccettuano i profili di natura tributaria, dunque, la consistenza dell’abuso, tale da farlo assurgere a edificazione sine titulo, con quanto ne consegue in termini di rispetto delle eventuali disposizioni vincolistiche vigenti, dovrebbe indurre a riflettere sulla sua riconducibilità anche a tutte le ulteriori fattispecie di illecito astrattamente configurabili, laddove non sia ravvisabile un elemento certo di specialità di ciascuna di esse. A titolo di esempio, l’avvenuta attivazione del procedimento di cui all’art. 211 del Codice della strada, dovrebbe essere valutato al fine dell’applicazione di ulteriori misure della rimozione immediata dell’illecito, a maggior ragione ove introdotta più volte e con distinte finalità in distinti regolamenti comunali, di fatto riproducendo a livello locale le brutte abitudini regolatorie che affliggono la legislazione nazionale. E comunque, ancora una volta, è la Consulta a farsi da propulsore verso una razionalizzazione normativa che guidi a maggior ragione le scelte di politica punitiva, evitando di affidarle a spinte emozionali del momento e comunque imponendo la consapevole messa a sistema di tutte le possibili conseguenze di una condotta astrattamente contra ius.
[1] Con riferimento al caso in cui la medesima condotta violi diverse disposizioni normative, l’art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ha introdotto nel sistema sanzionatorio amministrativo il cumulo giuridico corrispondente a quello previsto per le pene dall’art. 81 del codice penale, ossia il concorso formale al primo comma, e successivamente, al secondo comma, la continuazione, ma limitatamente alle violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie. L’introduzione dell’istituto del concorso formale omogeneo o eterogeneo nel testo della legge ha avuto un andamento altalenante, indice della complessità della materia e del dibattito conseguitone: previsto nel disegno di legge 339 approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 18 settembre 1980, venne poi soppresso dal Senato (v. il testo trasmesso alla Camera il 17 giugno 1981) essendo stato, a quanto si legge nel resoconto della seduta della IV commissione della Camera del 22 luglio 1981, ritenuto superfluo perché la disposizione era ricavabile dai princìpi generali; ma fu ripristinato dalla richiamata commissione della Camera, nella seduta del 10 settembre 1981. A livello di disciplina generale non è stato invece previsto un regime mitigato in caso di concorso materiale di illeciti, che comporta pertanto la sommatoria “aritmetica” delle sanzioni, salvo il ricordato regime della continuazione introdotto dall’art. 1-sexies della legge 31 gennaio 1986, n. 11, di conversione in legge del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, limitatamente alle violazioni in materia previdenziale e contributiva, nel quadro della lotta all’evasione, con la dichiarata finalità di evitare una pesantezza delle sanzioni che avrebbe potuto scoraggiare gli autori degli illeciti evasori a mettersi in regola (seduta della Camera del 24 gennaio 1986). Sul tema v. Cons. Stato, sez. I, 15 aprile 2014, n. 1264.
[2] Basti ricordare, a mero titolo di esempio, le varie disposizioni (legislazione tributaria, regolamenti comunali, a loro volta riferiti alle varie materie destinate ad impattare sulla tematica, Codice della Strada, normativa urbanistico-edilizia ovvero vincolistica), da ultimo conseguite anche all’esigenza di fronteggiare l’emergenza pandemica e gli obblighi di distanziamento sociale ad essa correlati, che prevedono la rimozione dell’occupazione di suolo pubblico abusiva strumentale allo svolgimento di un’attività economica, determinando di fatto la sovrapposizione di procedure, per lo più connotate da modalità e tempistiche diverse. Sulla sopravvenienza della sanzione della chiusura dell’attività commerciale a distanza di anni dall’illecito, v. Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3548, riferita alla previsione dell’art. 5, comma 2, della l. 18 gennaio 1994, n. 50, quale conseguenza dell’accertamento del reato (per il quale era peraltro intervenuta estinzione per oblazione) di cui agli artt. 291-bis e 291-ter del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, relativo alla detenzione di tabacchi lavorati di contrabbando. La sentenza affronta anche il tema degli effetti del subingresso nell’attività commerciale intervenuto medio tempore, che può comportare l’estraneità dell’acquirente all’illecito originario, non potendoglisi certo imporre un onere di informativa sui procedimenti sanzionatori, di qualsiasi tipologia, pendenti o pregressi, vuoi in ragione della inesistenza di un’effettiva banca dati al riguardo, vuoi per non incorrere in violazione del divieto di gold platingnelle transazioni commerciali.
[3] Alla logica di semplificazione nell’accesso agli uffici pubblici rispondono, come noto, l’art. 24 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, di istituzione dello sportello unico delle attività produttive (S.U.A.P.) - la cui concreta operatività non a caso è stata tuttavia oggetto di disciplina regolamentare solo a distanza di molti anni (si veda da ultimo il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160) - nonché l’art. 5 del d.P.R. 30 giugno 2001, n. 380 (T.u.e.) concernente l’analoga struttura deputata all’istruttoria, anche informativa, delle sole pratiche edilizie di diversa natura. La prassi ha da subito evidenziato difficoltà di coordinamento finanche tra ridette articolazioni organizzative, in particolare negli Enti territoriali di dimensioni ridotte, anche laddove ci si avvalga dei previsti strumenti di gestione associata, per uno solo o per entrambi gli sportelli, con quanto ne è conseguito in termini di individuazione della effettiva titolarità delle competenze e, a cascata, delle conseguenti responsabilità). V. in proposito Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2020, n. 7773; sez. II, 27 febbraio 2020, n. 4774.
[4] L’elencazione delle sanzioni in materia urbanistico-edilizia riportata nel testo è volutamente limitata ad alcuni dei casi più frequenti di irrogazione di sanzioni pecuniarie individuate in una forbice edittale predeterminata. Più complesso l’inquadramento –ma di certo non il regime delle tutele, per quanto qui di interesse- delle medesime sanzioni pecuniarie, ove previste in alternativa alla demolizione, resa impossibile dal pregiudizio che ne deriverebbe alla parte “lecita” del manufatto (v. art. 34, comma 2, per il caso di realizzazione di un intervento in parziale difformità dal permesso di costruire), commisurate pertanto al valore venale del bene. Come è stato sottolineato dalla dottrina più rigorosa, il provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, infatti, non ha natura propriamente sanzionatoria, ma è finalizzato a ripristinare la legalità oggettiva violata dall’abuso, tant’è che finisce per operare in maniera necessitata a prescindere dai profili di colpevolezza del proprietario dell’immobile. La stessa finalità finirebbe per condizionare anche le misure pecuniarie previste, per alcune fattispecie, proprio in alternativa alla demolizione stessa. Queste misure patrimoniali, inaugurate dalla legge-ponte del 1967, costituirebbero cioè uno strumento di riequilibrio patrimoniale diretto ad evitare che la violazione di norme urbanistico-edilizie possa determinare, in assenza della demolizione, un vantaggio patrimoniale in capo al titolare dell’immobile interessato, assumendo pertanto una finalità più propriamente perequativa, che ontologicamente sanzionatoria. Sul punto v. A. Albé, Provvedimenti repressivi di abusi e onere di motivazione, in Urbanistica e appalti, 2013, 12, 1329 (nota a Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3182); D. Lavermicocca, Le sanzioni in edilizia. Atto vincolato e legittimo affidamento, in Urbanistica e appalti, 2019, 5, 641 (nota a Cons. Stato, sez. VI, 14 maggio 2019, n. 3133).
[5] Sul punto, v. ancora Cons. Stato, sez. II, n. 3548 del 2020, cit. sub nota 2. In dottrina, cfr. soprattutto gli studi di M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 (e ivi specifici capitoli sulla confisca e sulle sanzioni edilizie); Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983; Sanzione amministrativa, voce dell’Enc. giur. Treccani, Roma; Sanzioni non pecuniarie della P.A., in Libro dell’anno del dirittoTreccani, Roma, 2015; e di A. TRAVI, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1984; Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm. 2014.
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 512, ove si è esclusa la portata precettiva del termine per la contestazione delle violazioni solo nel caso in cui esista una diversa regolamentazione da parte di fonte normativa pari ordinata che per il suo carattere di specialità si configuri idonea ad introdurre deroga alla norma generale e di principio. La fattispecie esaminata dai giudici di Palazzo Spada concerneva le sanzioni irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia antitrust, con riferimento alle quali la tesi propugnata trova conforto anche nella previsione dell’art. 31 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, che richiama le norme generali di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689 «in quanto applicabili», laddove il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 non reca alcuna indicazione alternativa sulla scansione temporale del procedimento sanzionatorio.
[7] In taluni casi, tuttavia, la chiusura dell’attività sembra assumere proprio tale carattere riparatorio. Si pensi a quanto previsto a livello generale dall’art. 17-ter del r.d. 18 giugno 1931 (T.U.L.P.S.) per talune violazioni quali l’attivazione di un pubblico esercizio in assenza di titolo (violazione art. 86, sanzionata ai sensi dell’art. 17-bis): la previsione della cessazione dell’attività da disporsi entro 5 giorni costituisce un tipico esempio di misura cautelare riparatoria, al pari della sospensione per il tempo necessario ad adeguarsi alle prescrizioni, la cui durata non a caso viene scomputata dalla analoga sanzione accessoria (art. 17-quater). Solo nel primo caso si prescinde da qualsivoglia verifica sulla colpevolezza dell’autore della violazione, stante la finalità cautelare dell’intervento. La circostanza che per talune tipologie di pubblici esercizi, quali quelli di somministrazione di alimenti e bevande, sia da tempo intervenuta una distinta legislazione di settore, anche a livello nazionale (l. n. 287 del 1991) rende a questo riguardo particolarmente sensibile la scelta del legislatore di non abrogare comunque il sistema sanzionatorio previsto dal T.u.l.p.s., per la evidente finalità di conservare una qualche rilevanza alla vecchia categoria della autorizzazioni di polizia, tipicamente riconducibili allo stesso: pretermettendo tuttavia le conseguenti problematiche di potenziale duplicazione di sanzioni, anche accessorie, in tal modo previste, in dispregio del principio del ne bis in idem.
[8] Si pensi al recente revirement della giurisprudenza amministrativa in materia di perentorietà dei termini dei procedimenti sanzionatori facenti capo all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come tale, esso va necessariamente inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo ha opportunamente portato a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa, non adeguatamente tutelate dal generico richiamo ai principi sul giusto procedimento di cui alla l. n. 241 del 1990. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità - Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; sez. VI, n. 512 del 2010, cit. sub nota 6, con riferimento all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha tuttavia precisato come il termine di 90 giorni previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981 per la contestazione dell’illecito, inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in ragione della complessità della fattispecie, l’attività amministrativa intesa a verificare l’esistenza dell’infrazione, comprensiva dei suoi elementi oggettivi e soggettivi.
[9] Il sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, c.d. Nuovo Codice della Strada, costituisce un caso paradigmatico di coesistenza di sanzioni accessorie ad illeciti penali e ad illeciti amministrativi, essendo previste condotte punite con sanzioni amministrative pecuniarie ed altre costituenti reato, con riferimento a ciascuna delle quali sono fornite anche importanti indicazioni procedurali per l’organo di polizia stradale chiamato ad intervenire.
[10] Sul punto v. G. Napolitano, Manuale dell’illecito amministrativo, Sant’Arcangelo di Romagna, 2021, p. 318 ss.; G. Crespaldi - E. Comi, Le sanzioni amministrative accessorie, in La sanzione amministrativa, principi generali, Torino, 2011.
[11] Costituiscono una generalizzata eccezione le già ricordate violazioni in materia di circolazione stradale, caratterizzate da una sorta di anticipazione immediata degli effetti della sanzione, che talvolta ne esauriscono la portata afflittiva, talaltra necessitano di formalizzazione nell’atto di concreta irrogazione da parte dell’autorità competente.
[12] Si pensi a quanto già detto sub nota 7 in ordine agli illeciti conseguiti alla depenalizzazione del T.U.L.P.S. ad opera del d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480. In taluni casi peraltro l’inquadramento del provvedimento interdittivo in termini cautelari o sanzionatori è tutt’affatto agevole. Si pensi ancora a quanto previsto dall’art. 666 c.p. con riferimento alle attività di spettacolo senza autorizzazione (originario reato ora depenalizzato dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) per le quali è prevista la cessazione, senza ulteriori esplicitazioni procedurali, sicché se ne può immaginare l’irrogazione anche con ordine verbale ovvero formalizzato nel relativo atto di accertamento. La sua obbligatorietà, per quanto sviluppato nel prosieguo nel testo, finirebbe per impattare anche sul regime delle competenze, laddove lo si inquadri quale sanzione e non quale misura cautelare, come invece ritiene chi scrive.
[13] Sul tema v. fra i tanti M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in federalismi, n. 4/2017..
[14] In materia, da ultimi, in dottrina, S. Lucattini, Le sanzioni a tutela del territorio, Torino, 2022 e M.A. SANDULLI, voce Edilizia, in Funzioni amministrative, volume de “I tematici” dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 2022, leggibile anche, in versione più ampia e aggiornata, in Riv. giur. edil. 2022.
[15] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380; id., 3 febbraio 2020, n. 864; in senso contrario, v. Cons. Stato, sez.VI, 20 settembre 2017, n. 4400. Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte Costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area sulla quale insiste l'opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del D.P.R. 380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.
[16] Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area sulla quale insiste l'opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del d.P.R. n.380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.
[17] Sulla distinzione tra revoca in senso proprio e le altre figure così impropriamente qualificate nella prassi delle amministrazioni pubbliche e negli stessi testi legislativi, che in realtà hanno carattere sanzionatorio o decadenziale, appunto, in quanto trovano la loro fonte nella disciplina propria del rapporto o comunque connessa al rilascio del titolo (norma di legge, o regolamento, capitolato, convenzione, disciplinare, ecc.), v. V. Domenichelli, La revoca del provvedimento, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, con aggiornamento di M. Sinisi, in particolare p. 1062.
[18] A ben vedere la sistematizzazione della complessa materia della decadenza da parte dell’Adunanza plenaria risente forse dell’eccesso di sintesi con la quale si intende delimitare quella di specifico interesse, sicché non è da condividere il richiamo all’evenienza di una decadenza quale provvedimento di secondo livello con efficacia ex tunc, anziché ex nunc, come tipico della stessa. Per la distinzione tra tale ulteriore revoca in senso atecnico, meglio definita quale rimozione o caducazione, che tende a rimuovere con effetto ex tunc un atto inopportuno ab origine e abrogazione, con effetto ex nunc, avuto riguardo ai provvedimenti ad efficacia durevole, v. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, p. 702 ss.; Benvenuti F., Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1987, p. 157.
[19] L’esatto inquadramento delle misure adottate dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA e della disciplina ad esse applicabile è tutt’affatto che semplice e ne è riprova il recente – e condivisibile – revirement giurisprudenziale in materia di perentorietà dei termini del relativo procedimento “sanzionatorio”. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come perentorio, il termine va inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, tuttavia la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo conduce a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità - Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
[20] Sui poteri di controllo del GSE cfr. da ultimo lo studio critico di A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile, in Federalismi, n. 17/2022 e ivi ampi richiami di e di giurisprudenza.
[21] Vero è che nel caso di specie il legislatore finisce per attribuire rilievo all’inerzia protratta nel tempo dell’operatore economico, sì da attribuirle il significato di rinuncia implicita al titolo, al pari di quanto avviene, mutatis mutandis, in caso di mancato avvio dei lavori entro il termine normativamente dato dal rilascio del permesso di costruire. La stretta connessione, tuttavia, esistente fra titolarità della concessione di suolo pubblico e legittimazione all’esercizio della vendita fa sì che a tale decadenza/rinuncia consegua automaticamente la revoca/sanzione dell’autorizzazione, astrattamente riferibile, peraltro, anche ad altri posteggi ovvero all’esercizio dell’attività in forma itinerante.
[22] Ma non necessariamente: si pensi all’occupazione temporanea per l’effettuazione di un trasloco, o per l’installazione di un ponteggio funzionale all’effettuazione di lavori edilizi sull’immobile prospiciente.
[23] Cfr. Cass., SS.UU., 11 febbraio 2011, n. 3811 e 3813. Partendo dal richiamato assunto che supera ampiamente la tradizionale sistematica codicistica, i giudici di legittimità reinterpretano il concetto di demanialità e auspicano politiche amministrative di tipo orizzontale che coinvolgano i cittadini nella gestione dei beni funzionali al soddisfacimento degli interessi della collettività. A monte, sotto il profilo testuale, l’art. 822 c.c. ricomprende nel cosiddetto demanio marittimo il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti ma nulla dice delle lagune, ossia gli specchi d'acqua in immediata vicinanza al mare, la cui natura demaniale è stata riconosciuta ogni qual volta vi sia la libera comunicazione con esso. Per un approfondimento sulla tematica si veda G.P. Cirillo, Il diritto di accesso al mare, in www.giustizia.amministrativa.it.
[24]Cfr. art. 190 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 del 2016, Codice dei contratti pubblici, che ha assorbito, in particolare dopo il così detto “correttivo”, d.lg. 19 aprile 2017, n. 56, la disposizione già contenuta nell’art. 24 del d.l. 12 settembre 2014, n.133, cosiddetto ‘sblocca Italia’, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164. Al riguardo v. A. Manzione, “Dal baratto amministrativo al partenariato sociale e oltre nel solco della atipicità”, in AA.VV., La co-città, a cura di P. Chirulli e C. Iaione, Iovene ed., 2018.
[25] Per quanto, infatti, talvolta si utilizzi in maniera impropria il riferimento all’autorizzazione, correttamente la legislazione nazionale, anche tributaria, riconduce il relativo titolo a siffatta dizione, con quanto ne consegue in relazione all’applicabilità dei medesimi principi elaborati con riferimento alle concessioni demaniali marittime in applicazione della c.d. Direttiva Bolkestein.
[26] Sulla materia è ormai nota la ricostruzione dei principi comunitari, seppure con specifico riferimento al tema delle concessioni demaniali marittime, contenuta nelle sentenze della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 9 novembre 2021, n. 17 e 18, cui ha fatto seguito un corposo dibattito dottrinario (v. ex multis i contributi di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R. Rolli - D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di Toritto - G. Carlomagno. In Diritto e Società, n. 3 del 2021 dedicato a La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria. Per una valorizzazione della tutela storico-identitaria delle attività economiche ospitate nei relativi locali della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, v. ex multis Cons. Stato sez. V. 3 novembre 2021, n. 7340, nonché, nella stessa direzione, 3 settembre 2018, n. 5157, secondo cui «il principio della concorrenza deve recedere a fronte dell’interesse imperativo generale della tutela delle attività storiche e di tradizione che occupano immobili di proprietà pubblica, le quali contribuiscono a salvaguardare ed a conservare il patrimonio storico e artistico delle città». In tali circostanze si è ritenuto altresì legittimo il criterio oggettivo scelto dal Comune per la determinazione del canone, non determinato a seguito di una procedura concorsuale, ove l’offerente più forte avrebbe prevalso, ma « necessaria secondo le risultanze di una dinamica di mercato di cui non può non tenersi conto, anche nell’ottica di valorizzazione virtuosa dei beni pubblici, il rendimento dei quali contribuisce ad incrementare il bilancio dell’amministrazione». In tali fattispecie il Comune ha dunque garantito agli esercenti le attività storiche il rinnovo senza gara delle loro concessioni demaniali, applicando un canone più che equo e nettamente inferiore rispetto a quello che si sarebbe determinato in seguito ad una procedura concorsuale.
[27] Parere AS1721 del 15 febbraio 2021 dell’AGCOM, che opera anche un’accurata ricostruzione della normativa di settore, connotata, al pari di quanto avvenuto per le concessioni demaniali marittime, da un regime di reiterata proroga basato sull’assunto che la materia fosse estranea all’ambito di applicabilità della direttiva servizi. In particolare ha ricordato come con l’articolo 1, comma 686, della legge n. 145/2018 (c.d. legge di bilancio 2019) è stato modificato il d.lgs. n. 59 del 2010, di recepimento della Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva Servizi o Bolkestein), sottraendo espressamente l’intero settore del commercio al dettaglio su aree pubbliche dall’applicazione della stessa (artt. 7, lett. f-bis, e 16, comma 4-bis, del d.lgs. n. 59/2010, che escludono l’applicazione delle disposizioni normative che imponevano di individuare i prestatori all’esito di una procedura selettiva, secondo criteri trasparenti e non discriminatori, stabilendo una durata dei titoli autorizzatori limitata e non soggetta a rinnovo automatico). Il d.l. n. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio), convertito in legge n. 77/2020, ha poi prorogato al 2032 le concessioni di posteggio per il commercio su aree pubbliche in scadenza (articolo 181, comma 4-bis), nonché previsto che eventuali posteggi liberi, vacanti o di nuova istituzione andassero assegnati «in via prioritaria e in deroga a qualsiasi criterio» agli aventi titolo, senza l’espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica (articolo 181, comma 4-ter). Tali previsioni hanno poi trovato ulteriore conferma nei punti 6, 7 e 9 dell’Allegato A al Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 novembre 2020, recante le previste Linee Guida.
[28] Dell’intera materia si occupa l’art. 2 del d.d.l. concorrenza 2021, AS 2469.
[29] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 18 gennaio 2022, n. 530, ove peraltro si mutua anche il regime transitorio ideato dall’Adunanza plenaria, in quanto «consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni». Il giudice di prime cure ha dunque affermato che « Alla stessa stregua, il Collegio ritiene di dover modulare gli effetti di questa pronuncia di rigetto, precisando che le concessioni cui si riferiscono i provvedimenti impugnati mantengono efficacia fino al 31 dicembre 2023, previo accertamento degli ulteriori presupposti richiesti dalla normativa vigente, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. e fermo restando che, nelle more, l’amministrazione ha il potere/dovere di avviare le procedure finalizzate all’assegnazione delle concessioni nel rispetto dei principi della normativa vigente, come delineati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 17 e n. 18 del 2021». In pari data vedi anche nn. 537 e 539. Cfr. altresì nella stessa direzione T.A.R. Sardegna, sez. II, 28 dicembre 2021, n. 865. Per tutte e quattro le sentenze è pendente appello.
[30] Cfr. Cons. Stato, sez. V. 12 maggio 2016, n. 1926.
[31] Cfr. Cass. Ord. Sez. 5 n. 2552 del 2018; Cass. Ord. SS.UU. n. 24967 del 2017; id. n. 61 e n. 11134 del 2016; id. n. 21950 del 2015; Corte Costituzionale n. 64/2008.
[32] V. Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 336.
[33] L’ordinanza richiama anche la assai più risalente Cass., n. 134 del 2001, che ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in ragione del paradigma normativo applicabile, ovvero l’art. 22 della l.r. Emilia Romagna n. 17 del 1991, nonché n. 14633 del 2011, ove è precisato che in caso di sanzione alternativa o autonoma rispetto a quella pecuniaria è rilevante, ai fini della qualificazione della natura e funzione della sanzione, verificare se essa sia «il mezzo prioritario per attuare la legge violata».
[34] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 25 marzo 2021, n. 3699; id., 22 dicembre 2020, n. 13868; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 12 ottobre 2020, n. 2559.
[35] La disposizione opera un non del tutto chiaro distinguo tra le esigenze di “ordine pubblico”, che necessitano l’intervento dell’apposita Autorità preposta alla relativa tutela e quelle di “sicurezza pubblica”, che invece consente sempre al Prefetto di intervenire. Il concetto di ordine pubblico scompare peraltro con il d.l. n. 14 del 2017, (che viene richiamato solo nell’art. 11, ma limitatamente al settore delle occupazioni arbitrarie di immobili) a favore della diversa nozione di sicurezza pubblica, sub specie di sicurezza urbana. In passato la Corte costituzionale aveva più volte precisato come la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza).
[36] Ragioni di sintesi inducono a non approfondire oltre la tematica del rapporto tra le due fattispecie, che la giurisprudenza penale ha talvolta ritenuto sussistere in concorso tra di loro, essendo diversa l’obbiettività giuridica delle due norme, la prima in quanto posta a tutela del patrimonio, l’altra della sicurezza della circolazione stradale.
[37] Per la ricostruzione della genesi e dei contenuti all’attualità della dizione di sicurezza urbana si veda A. Manzione, Potere di ordinanza e sicurezza urbana, in Fedarlismi.it, 13 settembre 2017, n. 17.
[38] La possibilità di applicare l’ordine di allontanamento alle aree destinate a fiere, mercati o pubblici spettacoli è stata inserita con il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132. Per completezza va ricordato che l’ordine di allontanamento è previsto anche, senza necessità di apposita previsione regolamentare:
· quando lo stazionamento avviene nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze;
· in “aggiunta” alle sanzioni previste per le fattispecie di cui agli artt. 688 c.p. (Ubriachezza), 726 c.p. (Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio), 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (Violazioni in materia di commercio su aree pubbliche), 7, comma 15-bis, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (parcheggiatore o guardiamacchine abusivo), 1-sexies del d.l. 24 febbraio 2003, n. 28, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2003, n. 88 (c.d. “bagarinaggio”).
[39] Con il risultato che l’ordine di allontanamento “accede” a tutte le ulteriori fattispecie di illecito esplicitamente menzionate, ovvero a generici comportamenti impeditivi della fruizione collettiva del suolo, quale tipicamente la sua occupazione nei luoghi individuati a livello regolamentare, ove potrebbe addirittura trovare spazio una procedimentalizzazione operativa della relativa applicazione.
[40] La disposizione si completa con la riconosciuta possibilità di “riesame” ex art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico non ritenute più compatibili con le esigenze di tutela fatte proprie dalla norma, anche in deroga alla disciplina regionale.
[41] Diversa è la questione con riferimento al c.d. DASPO urbano, ovvero il divieto di accesso indirizzato ad una singola persona in alcune zone su ordine del Questore. Esso viene definito come fattispecie a formazione progressiva, nel senso che l’ordine man mano che passa il tempo assume caratteristiche diverse. Dopo una prima fase necessaria in cui il contravventore è raggiunto dal provvedimento di allontanamento dell’organo accertatore e dalla sanzione amministrativa irrogata dal sindaco, si apre una fase eventuale, con finalità preventiva e non punitiva, in cui il Questore, in presenza di determinati presupposti può confermare il divieto di ingresso in una zona urbana estendendolo fino a 2 anni. Si tratta di un provvedimento collegato strumentalmente con quello dell’organo accertatore ma autonomamente impugnabile perché autonoma è la sua natura.
[42] Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2892.
[43] Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2017, n. 2198.
[44] L’art. 8 della l. n. 689 del 1981, tuttavia, pare limitarlo ai soli casi di sanzioni amministrative pecuniarie, almeno secondo la lettura restrittiva dell’intero sistema dell’illecito amministrativo di cui ampiamente nel testo.
[45] V. A. Procaccino, Ne bis in idem: un principio in evoluzione- Assestamenti e osmosi nazionali sul bis in idem in Giur. It., 2019, 6, 1957; D.Cimadomo, Ne bis in idem: un principio in evoluzione-Illecito amministrativo e reato: un’apparente ipotesi di bis in idem, in Giur. It., 2019, 6, 1457; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem; la crisi del “doppio binario”, in Dir. Pen. E Processo, 2014, 12, Supplemento, 82 (commento alla normativa).
[46] Cass., sez. III penale, 20 gennaio 2022, n. 2245.
[47] Per un’interessante ricostruzione della disciplina vigente con riferimento alle strutture lato sensu denominate dehors utilizzate per lo più per la somministrazione di alimenti e bevande all’aperto, v. Cons. Stato, sez. VI, 4 gennaio 2022, n. 32, relativo alle c.d. “pergotende”. L’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001 elenca una serie di opere eseguibili senza alcun titolo abilitativo, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali: tale elencazione, consentendo la realizzazione di interventi edilizi che non comportano/consentono alcun tipo di controllo da parte dell’autorità pubblica, deve ritenersi in sé tassativo, ferma restando l’eventuale elasticità delle definizioni utilizzate, che può richiedere un’opera interpretativa del giudicante. In particolare va ricordata la definizione di opera stagionale (lett. e-bis), che presuppone un tempo di installazione correlato all’utilizzo e comunque non superiore a 180 giorni, incluso montaggio e smontaggio; lett. e-ter), consistenti in opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, che non può mai ricomprendere le strutture soprastanti una pedana, i cui elementi portanti sono costituiti da pilastri, travi e tetto; lett. e-quinquies), ovvero “area ludica senza fini di lucro” o “elemento di arredo” di area pertinenziale all’edificio, cui non è mai riconducibile un’area destinata ad ospitare la clientela dell’esercizio, perciò destinata ad un fine non ludico né di mero arredo, ma invece di lucro. Quanto sopra trova conferma nelle previsioni del D.M. 2 marzo 2018, pubblicato nella G.U. 7 aprile 2018 n.81, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d. lgs. 222/2016, il quale individua tra le principali opere di edilizia libera, riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), singoli arredi (quali barbecue, fioriere, fontane, muretti, panche), giochi per bambini, pergolati di limitate dimensioni, ricoveri per animali domestici e da cortile, ripostigli per attrezzi, sbarre d’accesso, separatori, stalli per biciclette, elementi divisori e “tende, tende a pergola, pergotende, coperture leggere di arredo”; e tra le opere riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), i gazebo, gli stand fieristici, i servizi igienici mobili, elementi di esposizione vari, aree di parcheggio, tensostrutture, pressostrutture e assimilabili. La norma va integrata con le previsioni dell’art. 3, comma 5, che definisce gli interventi di nuova costruzione, dai quali sono stralciati quelli volti ad edificare manufatti “diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”, nonché “tende” e “ unita' abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti”.
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