ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Rosario Livatino oggi avrebbe compiuto settant’anni
di Fernando Asaro
Quando la Chiesa beatifica una vita intende consegnare alla memoria comune i percorsi umani e spirituali di persone che diventano Santi allo scopo di suscitare l’imitazione dei valori vissuti e delle azioni da loro compiute.
La beatificazione del magistrato Rosario Livatino è un modello che la Chiesa addita al mondo dei viventi, credenti e non; se ciò determina per la magistratura italiana un motivo di gaudio e stimolo nel quotidiano operare, impone altresì l’assunzione di una precisa responsabilità nel saper trarre ispirazione dal magistrato Livatino.
Il riconoscimento del martirio del Servo di Dio ripercorre i tratti salienti della sua vita professionale e dei suoi provvedimenti, da cui attingere insegnamenti di Diritto ed allo stesso tempo, Rosario Livatino diviene un riferimento di etica professionale che può guidare non solo la magistratura italiana ma tutti coloro – avvocatura compresa – che sono i costruttori del valore Giustizia.
La beatificazione del magistrato stride con gli scandali, i processi, le degenerazioni e gli abusi di chi ha indossato o indossa la toga al solo scopo di creare gruppi di potere dediti alla spartizione di ogni forma di esercizio della giurisdizione, premiando la fedeltà degli immancabili lacchè al padrone di turno; stride con la modestia etica a cui si assiste e che determina una crescente perdita di credibilità - cara a Livatino - della magistratura imponendo certamente una seria e costruttiva autocritica, ma anche un rispettoso recupero e riscatto dei principi costituzionali del nobile servizio del magistrato. Ed in tale tumultuoso contesto va respinta al contempo, ogni forma di strumentalizzazione, cavalcata da varie componenti della società, con l’unico scopo di ridimensionare l’autonomia e l’indipendenza da ogni forma di potere della magistratura così da controllarne e dirigerne le scelte.
Rosario Livatino si è reso credibile perché ha svolto scrupolosamente il suo servizio in favore dello Stato.
Egli diviene modello di etica professionale perché ha indossato la toga per presentarsi, preparato e puntuale, in udienza; per celebrare i processi senza rinvii pretestuosi o scansando la fatica del decidere; per redigere sentenze motivando, senza condizionamenti o vanità, la condanna o l'assoluzione nel rispetto dei termini processuali; per svolgere le indagini in modo completo nel rispetto della legge, con tempestività, privo di influenze, esitazioni o personalismi; per esercitare l’azione giudiziaria svelando sacche di impunità e facendo emergere reti di protezione o clientele locali; per abbattere "l'arretrato"; per essere presente in ufficio al mattino e al pomeriggio, ben distante dalla ricerca del lavoro “agile” o peggio, “agilissimo”; per essere magistrato autonomo e indipendente senza tatticismi o titubanze, senza contare il numero di udienze o processi o turni del collega della porta accanto per confrontarlo con il proprio ruolo.
Il magistrato Livatino non ha inopportunamente chattato (o comunicato coi mezzi di quei tempi); non ha frequentato salotti, circoli per tramare o per relazionarsi indebitamente con potentati estranei alla magistratura allo scopo di cercare vacui consensi.
Rosario Livatino è stato magistrato e non ha semplicemente "fatto" il magistrato.
“...L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”.
Lo scorso anno una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha stabilito la legittimità del vincolo amministrativo posto alla “Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino” in quanto bene di straordinario valore storico e culturale; in motivazione si legge “In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato…nell’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la sua “normalità”, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione dal predominio mafioso”.
Il modello Rosario Livatino è fondamentale per ripristinare la credibilità della magistratura e tutelare il capitale reputazionale, patrimonio dell’essere magistrato, davanti a comportamenti che - prima ancora di integrare profili penali o disciplinari - intaccano la fiducia che i cittadini devono avere nei costruttori dell’amministrazione della Giustizia.
“È importante che egli (il magistrato) offra di se stesso l'immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire”.
Il suo vissuto ci invita a rifuggire dal magistrato-burocrate appiattito al formale rispetto delle ore lavorative, non un magistrato isolato nella sua torre eburnea ma neanche un magistrato che gareggia all'interno di una scenografica arena accogliendo o incoraggiando tifoserie, dimenticando di “essere” un servitore dello Stato.
I valori vissuti da Rosario Livatino sono fruibili da tutti coloro – non solo dai magistrati – che condividono la responsabilità di compiere il valore Giustizia ed è auspicabile, nel recupero dell’etica professionale, trovare la presenza convinta e consapevole dell’Avvocatura, voce autorevole e composta dei diritti violati e cardine tra le domande di giustizia e lo Stato; insieme, per non disperdere – ciascuno per la propria parte – i principi dei rispettivi codici deontologici nell’esercizio quotidiano della Giustizia che, ascoltando Livatino, richiede "persone serie, persone equilibrate, persone responsabili ma anche persone comprensive ed umane, capaci di capire".
Donne, vita e libertà di Maria Teresa Covatta
È questo lo slogan chiave delle proteste che in questi giorni stanno dilagando in tutto l'Iran, compreso il tormentato Kurdistan.
Gli arresti sono centinaia, almeno dalle notizie diffuse dalle Ong che indirettamente operano sul territorio (molte sono costrette ad aver sede all'estero) e che si battono per i diritti delle donne. Tra questi anche l'arresto di Niloufar Hamedin, la giornalista che per prima ha dato la notizia della morte di Mahsha Amini e da sempre si batte per i diritti delle donne.
Mahsha è solo la punta dell'iceberg. La denuncia di ragazze multate, arrestate, picchiate e "punite" per colpe connesse alla loro moralità, che comprende anche aver indossato il velo in modo "inadeguato", ci sono da anni, purtroppo inascoltate.
Tante sono anche le morti causate dalla protesta. L'ultima, diffusa oggi dalla stampa internazionale, è quella di Hadith Najafi, una giovano donna simbolo delle proteste. Gli attivisti e i giornalisti locali dicono che è stata freddata a colpi di pistola. Ma le notizie sono poche e arrivano con il contagocce.
Tutte le dittature hanno imparato (la guerra russo ucraina ce lo ha insegnato) che Internet è il loro nemico e che va bloccato.
E' accaduto anche in Iran, "per evitare il caos creato dalle proteste", anche se all'Assemblea Generale ONU il presidente iraniano aveva assicurato accurate misure per accertare le cause del delitto di Mahsha .
Bella ciao in lingua persiana. Una mattina mi sono alzata e ho trovato l'invasor...
Ma le proteste di questi giorni, i capelli rasati in pubblico e i veli bruciati in piazza, ci dicono che una mattina le donne iraniane si sono alzate e davanti al delitto efferato di una donna perchè velata inappropriatamente, davanti a questa ennesima invasione brutale delle loro esistenze, hanno deciso che per la libertà vale la pena di dare anche la vita.
E hanno deciso di urlarlo al mondo con ogni mezzo possibile.
E' questo il senso del video diffuso su Twitter. Questa la sua grandissima utilità.
Donne, vita e libertà. Non lasciamole sole
La testimonianza scritta nel processo tributario riformato
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa. - 2. I limiti di ammissibilità della prova. - 3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta. - 4. Conclusioni.
1. Premessa.
Una significativa novità della riforma del processo tributario è rappresentata dall’introduzione della prova testimoniale in forma scritta ad opera del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, applicabile ai giudizi introdotti con ricorsi notificati dopo l’entrata in vigore della L. n. 130/2022 (ossia dal 16 settembre 2022 in poi)[1].
Anzitutto, è apprezzabile, di per sé, la rimozione del divieto di prova testimoniale che finora ha limitato il diritto di difesa e violato il principio, di rilevanza costituzionale ed europea, del giusto processo.
Infatti, nel giudizio tributario hanno sempre trovato ingresso elementi probatori aventi natura analoga alla prova testimoniale ma non acquisiti con le cautele e le garanzie del rispetto del contraddittorio che invece caratterizzano, nel processo civile, l’assunzione della prova finora vietata.
Si tratta delle dichiarazioni di terzi sulle vicende di causa raccolte – generalmente prima e comunque fuori del giudizio – essenzialmente dall’ente impositore e talora pure dal contribuente.
La giurisprudenza[2] ritiene che tali dichiarazioni siano meri indizi, dovendosi perciò a esse affiancare prove ulteriori per dimostrare quanto ne forma oggetto; inoltre, occorre che il giudice ne disponga la verificazione se sorgono contestazioni in proposito.
Pertanto, il giudice, che se ne voglia servire per risolvere la lite, deve riscontrarne l’attendibilità, nel rispetto del contraddittorio: per l’esattezza, stando alla sentenza n. 18\2000 della Corte Costituzionale, ove le dichiarazioni introdotte dall’ente impositore siano messe in discussione, la Commissione tributaria – se non reputi la pretesa controversa confortata da altri mezzi di prova – “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l’attività istruttoria svolta dall’ufficio”.
Tuttavia, siamo ben lungi dall’acquisizione di una prova che offra le garanzie di quella testimoniale. Basta pensare che solo il giudice individua i soggetti da sentire e formula le richieste di chiarimenti.
Non può, quindi, che essere salutata con favore la possibilità per le parti del processo tributario di avvalersi della prova testimoniale: esse vedono così significativamente rafforzato il loro diritto di tutela giurisdizionale.
Non v’era alcun motivo, d’ordine sistematico o logico, che sorreggesse il divieto di assunzione della prova per testi.
Non solo, al posto di questo mezzo istruttorio se ne è sempre impiegato un altro – la dichiarazione del terzo, appunto – che ne è una sorta di succedaneo, del tutto inadeguato alla luce dei ricordati valori del diritto di difesa e del giusto processo.
Se poi si considera quanto è diffuso nella prassi il ricorso alle presunzioni semplici, ci si avvede facilmente che la prova testimoniale potrà essere utilmente impiegata dalla parte – di regola, il contribuente – contro cui dette presunzioni vengono fatte valere per contrastarne la valenza probatoria.
Resta ferma, invece, l’inammissibilità del giuramento, nelle varie forme che può assumere nel processo civile. E ciò è ben comprensibile, siccome incompatibile con la natura non disponibile – per la parte pubblica – del credito tributario controverso.
Inoltre, la scelta per la forma scritta è adatta al giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, stante la natura spiccatamente documentale dell’istruttoria processuale medesima.
Va altresì condivisa l’eliminazione del limite, presente nel disegno di legge di iniziativa governativa che ha condotto all’adozione della L. n. 130/2022, rappresentato dall’ammissibilità della prova qualora la pretesa tributaria fosse “fondata su verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso”.
Ora, questa prova può trovare ingresso in ogni giudizio. Ed è corretto, potendo essa risultare necessaria anche nelle cause che non traggano origine dall’impugnazione di atti basati sui menzionati verbali.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova testimoniale emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente, recepite nei menzionati verbali e atti facenti fede fino a querela di falso.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze.
Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe avere rilevanza decisiva chiamare a teste il dipendente dell’acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Oppure si pensi alla controversia relativa alla determinazione sintetica del reddito, nel cui ambito potrebbe risultare essenziale la testimonianza del familiare del contribuente che ha provveduto a sostenerne determinate spese o gli ha elargito denaro contante. O, ancora, si consideri la causa vertente sulla pretesa di collocare in Italia la residenza fiscale di una persona fisica, traente origine – come, di nuovo, l’esperienza insegna – da corrispondenza o documenti che ne collocherebbero nel nostro Paese il centro dei relativi interessi personali e/o economici: anche qui potrebbero assumere dirimente rilievo le testimonianze di coloro che hanno avuto continuativi rapporti all’estero con tale individuo.
Gli esempi potrebbero proseguire, ma è agevole rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato contraddittorio porre una limitazione del genere di quella che si leggeva nel ricordato disegno di legge.
In sintesi, si è soppresso un limite di esperibilità della prova che sarebbe stato in contrasto con i ricordati valori della tutela giurisdizionale e del giusto processo.
2. I limiti di ammissibilità della prova.
Residuano, invece, due limiti oggettivi, uno processuale e l’altro sostanziale.
In virtù del primo, la Corte di giustizia tributaria può ammettere la prova “ove lo ritenga necessario ai fini della decisione”.
Nel disegno di legge, ciò sarebbe potuto accadere solo se la prova fosse stata ritenuta “assolutamente” necessaria.
Adesso, si è opportunamente soppresso l’avverbio “assolutamente”, evitando così le difficoltà interpretative che avrebbe suscitato ed elidendo altresì un palese e ingiustificato indice di ostilità nei riguardi di questa prova.
L’attuale versione coincide con quella recepita dall’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, per cui “il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione”.
Cosicché, per ammettere la prova testimoniale, si potrà fruire dell’interpretazione offerta all’art. 58, comma 1 e ritenere, quindi, che il giudice possa avvalersene ove essa sia l’unica – poiché non surrogabile con altri mezzi istruttori – idonea a dirimere l’incertezza sui fatti decisivi per risolvere la lite.
In sostanza, in difetto di questo mezzo istruttorio, il giudizio sul fatto imporrebbe il ricorso alla regola dell’onere della prova.
Pertanto, la prova testimoniale può dirsi “straordinaria” poiché ammissibile solo in mancanza di altri elementi istruttori.
Sarebbe stato preferibile consentirne l’impiego senza il limite della “necessità”, ossia quando il Giudice l’avesse ritenuta semplicemente rilevante per provare il fatto controverso. Detta “necessità” può comprendersi nell’istruttoria in appello per evitare che le parti riservino indebitamente al secondo grado l’esercizio delle facoltà esperibili nel primo, ma non per rendere più ardua l’ammissibilità della prova testimoniale.
Il secondo limite, sostanziale, consiste nell’ammettere la prova “soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale” quando “la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso”.
Si tratta di una previsione ovvia. Per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale occorre la querela di falso.
Né può ipotizzarsi che la norma intenda altro.
È impensabile – poiché sarebbe eversivo della disciplina delle prove legali nel nostro ordinamento – che questo precetto, circoscrivendo la prova testimoniale ai fatti diversi da quelli attestati dal pubblico ufficiale, possa assegnare valore probatorio privilegiato al contenuto intrinseco di quanto il pubblico ufficiale afferma di aver compiuto.
Per esemplificare, il processo verbale di constatazione fa prova fino a querela di falso della veridicità del rinvenimento di un documento, di cui dà conto il pubblico ufficiale, ma non della veridicità del relativo contenuto. Potrà quindi ammettersi ogni prova, compresa quella testimoniale, per contrastare quanto rappresentato in tale documento.
Da segnalare, per terminare, che il nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 impiega, in termini innovativi, l’espressione “pretesa tributaria”.
Ciò potrebbe indurre a pensare che il legislatore abbia inteso assecondare l’interpretazione per cui il processo tributario ha quale oggetto il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, a meno che il contribuente non abbia dedotto uno o più vizi di legittimità del provvedimento impugnato.
Tale indicazione ermeneutica, tuttavia, è smentita da un’altra norma introdotta dalla L. n. 130/2022.
Si tratta del secondo periodo del nuovo comma 5-bis dello stesso art. 7, D.Lgs. n. 546, in base al quale “Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Questa disposizione, pur menzionando nuovamente la “pretesa impositiva”, prevede che il giudice annulli l’atto impugnato quando difetta la prova della pretesa medesima. E questo contraddice l’idea che l’oggetto del giudizio sia il rapporto sostanziale, assecondando invece la diversa impostazione secondo cui il provvedimento opposto rappresenti, sempre e comunque (ossia anche quando non vengano dedotti motivi di sua illegittimità), l’oggetto del processo tributario.
Infatti, non ravvisando vizi dell’atto impugnato e ritenendo non provata la contestazione ivi recepita, il giudice, lungi dall’annullare l’atto, dovrebbe limitarsi a dichiarare priva di fondamento la pretesa con esso avanzata, disattendendola a ogni effetto.
Quanto precede dimostra come sia, il più delle volte, arduo trovare puntuale conferma nel dettato normativo di determinate impostazioni teoriche.
Ciò non toglie che il complessivo e sistematico apprezzamento della disciplina processualtributaria conduca alla riconduzione del nostro giudizio fra quelli di “impugnazione – merito”, per usare un’efficace espressione di frequente impiegata dalla giurisprudenza, “in quanto non diretto alla mera eliminazione dell’atto impugnato ma alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria”[3].
3. La disciplina dell’assunzione della testimonianza scritta.
Ora, merita esaminare le modalità di assunzione di questa prova.
In proposito, il comma 4 dell’art. 7 richiama l’art. 257-bis cod. proc. civ[4].
Tale rinvio va inteso in termini compatibili con il regime processualtributario.
In particolare, la Corte di giustizia tributaria potrà ammettere la testimonianza, pur in difetto dell’accordo delle parti previsto dall’art. 257-bis: infatti, nel processo civile la testimonianza scritta è alternativa rispetto a quella orale, mentre nel nostro giudizio essa è l’unica forma in cui risulta ammessa.
Ben ha fatto, quindi, il legislatore – nel riformare il comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 – a precisare che non occorre l’accordo delle parti affinché questa prova sia ammessa.
Né si può pensare che il mancato accordo dei contraddittori possa pregiudicare la legittimità della disciplina testé introdotta dal punto di vista del rispetto del diritto di difesa e del principio del giusto processo.
Sebbene il contraddittorio sia attenuato nella fase di formazione della prova in ragione delle relative modalità di assunzione (sulle quali fra breve ci soffermeremo), è indubbio che il contraddittore possa opporsi all’ammissione del mezzo istruttorio invocato dall’altra parte e, nel caso in cui la deposizione testimoniale sollevi dubbi, possa chiedere al giudice di convocare il teste affinché renda oralmente le risposte ai quesiti postigli. Si aggiunga, come subito vedremo, che la controparte può chiedere che il medesimo teste si pronunci sugli stessi o su altri fatti, necessitanti di prova.
Vuol dire, allora, che il contraddittorio è posticipato, ma non disatteso. Ed è innegabile come sia ben più conforme ai menzionati principi della tutela giurisdizionale e del giusto processo la testimonianza scritta disciplinata dal comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546 rispetto all’invalsa consuetudine di immettere nel processo tributario dichiarazioni di soggetti terzi, rese in difetto del benché minimo controllo da parte del giudice e senza alcun coinvolgimento dei contraddittori.
Sempre con riferimento alle parti, occorre segnalare che, rispetto alla proposta dello scorso anno della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria (ma non al disegno di legge di iniziativa governativa), questa prova può essere invocata da ciascun contraddittore e non solamente dal ricorrente in primo grado, ossia dal contribuente.
Vi è da chiedersi se, tramite la testimonianza, l’ente impositore possa sviluppare la propria attività istruttoria nella fase processuale, contravvenendo la regola, che si ritrae dal vigente quadro normativo, per cui l’avviso di accertamento rappresenta – in linea di principio e con le eccezioni dell’atto “parziale” e della sopravvenuta conoscenza di elementi precedentemente non conoscibili, che ammette l’adozione dell’avviso “integrativo o modificativo” – l’espressione compiuta e tendenzialmente definitiva della funzione di controllo degli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Non solo, se si riconoscesse questa facoltà all’ente impositore, si violerebbe il principio, di rilevanza costituzionale, di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa di repressione degli illeciti tributari.
Viene così da pensare che tale ente possa chiedere l’assunzione della testimonianza solo nei giudizi di rimborso per provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi della domanda avanzata dal privato, indicati nelle proprie controdeduzioni. E ciò a condizione che non li abbia già dedotti nell’eventuale provvedimento di diniego del rimborso, dovendo in tal caso aver previamente svolto la relativa attività istruttoria.
In casi eccezionali, nei processi generati dall’impugnazione di atti impositivi, l’ente impositore potrebbe invocare questa prova solo per dimostrare fatti dedotti a fronte di quelli impeditivi, estintivi o modificativi addotti dal contribuente per respingere la pretesa tributaria, purché essi non siano qualificabili come costitutivi di detta pretesa. Difatti, la deduzione dei fatti costitutivi della pretesa si “cristallizza” nell’atto impugnabile e non può esserne più consentita l’introduzione e la prova.
Questo mezzo istruttorio non potrà essere acquisito d’ufficio dal giudice, cui non è consentito svolgere un ruolo di supplenza o di assistenza della parte che non si è adeguatamente difesa.
L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio è ristretto ai casi nei quali le parti abbiano almeno fornito, oltre ai fatti rilevanti per la decisione, pure i relativi temi di prova.
In tali occasioni, prima di risolvere la lite ricorrendo alla regola di giudizio dell’onere della prova, il giudice deve acquisire d’ufficio i mezzi istruttori ai quali le parti abbiano fatto riferimento e che non siano in grado di fornire.
Quindi, i poteri istruttori d’ufficio sono utilizzabili solo quando (a) sia impossibile o assai difficile acquisire, da parte di chi vi è tenuto, la prova, (b) quest’ultima sia stata indicata e (c) si prospetti un’oggettiva incertezza sui fatti di causa.
Un esempio è quello del contribuente che ha dedotto un fatto risultante da un documento che non rientra nella sua disponibilità e tale fatto non sia accertabile grazie ad altre prove acquisite agli atti di causa. In tale evenienza, la Corte può ordinare, d’ufficio, l’acquisizione di siffatto documento.
Emerge, quindi, come sia da escludere l’assunzione d’ufficio della prova testimoniale. Anche ove la parte abbia indicato il potenziale testimone, il giudice non può sostituirsi ad essa, superandone inerzia, per acquisire la relativa deposizione scritta.
Una conferma in tal senso si ritrae dalla formulazione letterale del nuovo comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546. Ivi si legge che la Corte di giustizia tributaria “può ammettere” la prova di cui trattasi. L’espressione, diversa da quelle che si rinvengono nei precedenti commi 1 e 2 (ove, rispettivamente, si prevede che le Corti di giustizia tributaria “esercitano” le facoltà istruttorie e “possono richiedere” determinati mezzi probatori), lascia chiaramente intendere che debba essere la parte a promuovere l’assunzione della prova per testi e spetti, poi, al giudice deciderne l’ammissibilità.
Per altro verso, la scelta della Corte di non ammettere questa prova è censurabile sia in appello che nel giudizio di legittimità.
Applicando l’art. 257-bis, il giudice, ritenuta ammissibile la prova e individuati con ordinanza i relativi capitoli, disporrà che la parte istante predisponga il modello di testimonianza sui fatti necessitanti di essere accertati e lo notifichi al testimone.
Tale modello dovrà precisare gli elementi identificativi del processo e dell’ordinanza, nonché il termine entro cui la risposta dovrà essere resa.
Il Giudice indicherà alla parte istante un termine per la notifica del modello al teste unitamente – è ragionevole ritenere – all’ordinanza di ammissione della prova. Il mancato rispetto di detto termine comporterà la decadenza – pronunciabile d’ufficio dal giudice – dal diritto di acquisire questa prova, a meno che la controparte dichiari di volerla comunque assumere o la Corte reputi giustificata – si pensi a un impedimento legittimante la remissione in termini – tale omissione. Si deve, infatti, applicare anche nel processo tributario l’art. 104 disp. att. cod. proc. civ., che sancisce quanto precede.
Il teste, poi, compilerà il modello, rispondendo separatamente a ciascuno dei quesiti ammessi dal giudice e indicando, chiarendone la ragione, a quali non potrà rispondere.
Nel processo civile, la disciplina del modello di testimonianza e delle relative istruzioni di compilazione si rinviene nell’art. 103-bis disp. att. cod. proc. civ. e nel d.m. 17 febbraio 2010: occorrerà adattare tali disposizioni attuative al giudizio tributario con un apposito regolamento.
Nel rispetto del principio del contraddittorio e come poc’anzi anticipato, se più parti intendano rivolgere diversi quesiti al medesimo teste (anche su circostanze di fatto diverse), ognuna di esse dovrà notificare un apposito modello di testimonianza recante le domande, previamente ammesse dal giudice, di rispettiva pertinenza. Non solo, potrà accadere che la richiesta di assunzione della prova testimoniale ad opera di una parte induca l’altra o le altre a formulare analoga istanza affinché siano acquisite le deposizioni di altri soggetti.
Ciò, ovviamente, avendo riguardo ai limiti, sopra evidenziati, entro i quali l’ente impositore può valersi di questo strumento istruttorio.
Il teste, poi, sottoscriverà la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ogni facciata del modello di testimonianza e lo spedirà in busta chiusa con plico raccomandato o lo consegnerà alla segreteria della Corte.
Laddove intenda astenersi, ai sensi dell’art. 249 cod. proc. civ. (che, a sua volta, richiama gli artt. 200, 201 e 202 cod. proc. pen., relativi alla facoltà di astensione dei testimoni nel processo penale), il teste dovrà comunque compilare il modello di testimonianza, indicando le proprie complete generalità e i motivi di astensione.
Secondo il comma 7 dell’art. 257-bis, se la testimonianza avrà ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, l’assunzione avverrà in termini semplificati. Ossia mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al menzionato modello. Trattasi, peraltro, di un’ipotesi che sembra di ardua verificazione nella nostra materia, essa concernendo la deposizione testimoniale volta a confermare i menzionati documenti di spesa, per tali dovendosi intendere i documenti che rappresentano l’esborso di somme di denaro sostenuto da una parte processuale e formante oggetto della materia del contendere.
Qualora il testimone non spedisca o non consegni le risposte scritte nel termine stabilito, la Corte potrà condannarlo alla pena pecuniaria non inferiore a euro 100 e non superiore a euro 1.000, contemplata dall’art. 255, comma 1, cod. proc. civ.
Se il teste non risponderà nel termine indicato dal giudice, non vi sarà alcuna conseguenza sulla possibilità di acquisirne la deposizione scritta. Il mancato rispetto del termine da parte di un soggetto terzo, infatti, non può pregiudicare la posizione della parte che ha fatto istanza per l’acquisizione del mezzo istruttorio.
Se la Corte, a seguito dell’esame delle risposte, lo riterrà opportuno, potrà sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre oralmente dinanzi a essa: ciò potrà verificarsi ove le risposte appaiano ambigue, contraddittorie o incomplete oppure se sussistano elementi che facciano sospettare dell’attendibilità del teste o dell’integrità o veridicità della deposizione resa per scritto.
Dunque, l’introduzione della testimonianza scritta tramite il richiamo all’art. 257-bis non esclude che la Corte, seppur nella sola (eccezionale) evenienza descritta, possa assumere questo mezzo istruttorio attraverso la diretta audizione del testimone, applicando – per quanto di ragione – gli artt. 244 e ss., cod. proc. civ.
L’istanza per l’acquisizione della testimonianza scritta potrà essere contenuta nel ricorso introduttivo della lite tributaria, nelle controdeduzioni della parte resistente o anche in un successivo atto difensivo, non ostandovi alcuna preclusione.
Peraltro, qualora tale istanza venga avanzata con la memoria di cui all’art. 32, comma 2, d.lgs. n. 546 o in occasione della discussione in pubblica udienza e la controparte non abbia la possibilità di svolgere i conseguenti rilievi o iniziative istruttorie, il giudice dovrà disporre un differimento della trattazione della controversia, onde consentire l’adeguato svolgimento del contraddittorio.
Nel caso in cui la parte non formuli l’istanza nel primo grado del processo, bisogna tener presente che l’art. 58, comma 1, d.lgs. 546 permette l’assunzione della nuova prova in appello solo se si dimostri di non averla potuta fornire nella precedente fase per causa non imputabile oppure qualora il giudice la ritenga “necessaria” per decidere la lite.
In ragione della coincidenza della “necessità” della prova nell’art. 7, comma 4 e nell’art. 58, comma 1, si potrebbe pensare che la condizione di ammissibilità della testimonianza sia identica nei due gradi del giudizio.
Però, se così fosse, si tradirebbe la ratio dell’art. 58, comma 1, che ha inteso comprimere lo svolgimento dell’istruttoria in appello.
Pertanto, non solo la testimonianza in appello dovrà risultare l’unica prova in grado di risolvere le incertezze sussistenti su un fatto decisivo per risolvere la causa, ma occorrerà anche dimostrare di non averla potuta invocare in primo grado per un motivo scusabile.
In pratica, si può ipotizzare che le due condizioni poste dall’art. 58, comma 1 in via alternativa per ammettere nuove prove in appello debbano, per la sola testimonianza e in via eccezionale, ricorrere congiuntamente.
Ancora, nel giudizio di rinvio cosiddetto “prosecutorio”, a seguito dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza impugnata per i motivi enunciati dall’art. 360, comma 1, n. 3) (violazione o falsa applicazione di norme di diritto) e n. 5) (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio formante oggetto di discussione tra le parti) cod. proc. civ., la testimonianza scritta non richiesta nelle pregresse fasi di merito non potrà essere acquisita. Lo si ritrae dall’art. 63, comma 4, D.Lgs. n. 546, che preclude nel processo di rinvio la formulazione di richieste diverse da quelle prese nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza cassata. Unica eccezione può essere rappresentata dal caso in cui la Corte Suprema fornisca una diversa impostazione giuridica della controversia che renda rilevanti fatti diversi da quelli precedentemente allegati dalle parti nelle fasi di merito. In tale peculiarissima circostanza potrebbe ipotizzarsi l’assunzione della testimonianza scritta non richiesta precedentemente.
Diverso è il discorso per il giudizio di rinvio cosiddetto “restitutorio”, allorché la sentenza impugnata sia stata cassata per uno degli altri motivi di ricorso per cassazione, ossia per ragioni attinenti alla giurisdizione, per violazione delle norme sulla competenza e per nullità della sentenza o del procedimento. In questo caso, le parti possono avvalersi di tutte le facoltà di cui non hanno potuto fruire nel giudizio di merito a causa del vizio riscontrato dalla Corte di Cassazione. Pertanto, volendo fare un esempio, se – a seguito dell’esame preliminare del ricorso in primo grado – fosse stato rilevato il difetto di giurisdizione del giudice tributario e la Corte di secondo grado lo avesse confermato, la cassazione della sentenza di appello non escluderebbe, nel conseguente giudizio di rinvio, la proposizione dell’istanza di acquisizione della testimonianza scritta.
4. Conclusioni.
In conclusione, la prova testimoniale è senz’altro benvenuta, sia pur con l’evidenziata nota critica sulla “necessità” della relativa assunzione.
Si tratta di una previsione avente il deliberato fine di circoscrivere la facoltà delle parti di disporre di questo mezzo istruttorio, di cui non si avvertiva l’esigenza.
Le cause nelle quali si porrà la concreta possibilità di ammettere la testimonianza saranno relativamente poche. Saranno, però e con ogni probabilità, quelle più complesse da decidere – per la molteplicità e la complessità dei fatti controversi – e, come l’esperienza insegna, quelle aventi ad oggetto le pretese impositive o le richieste di rimborso più cospicue.
Perché, allora, ostacolare il pieno esercizio delle facoltà difensive delle parti nelle liti più delicate prevedendo il menzionato limite processuale?
Oltretutto, tale eccessiva parsimonia nel consentire l’ingresso di questa prova può essere letta come un messaggio di sfiducia nelle capacità del giudice di discernere i mezzi istruttori ammissibili e di apprezzarne correttamente gli esiti. Messaggio contraddittorio se si tiene presente che, nel contesto del medesimo disegno riformatore, ha finalmente trovato spazio l’istituzione di una Magistratura tributaria professionale.
Ad ogni modo, l’esperienza dimostrerà se e in quale misura la prova per testi sarà apprezzata dal giudice tributario nel perseguire la doverosa aspirazione di appurare la verità reale delle vicende controverse in una materia di così decisiva rilevanza economica e sociale qual è quella su cui è chiamato a statuire.
Se questa esperienza sarà positiva, non potrà escludersi l’estensione, in via pretoria o grazie a un intervento legislativo, delle maglie troppo strette di ammissibilità della prova in oggetto.
Da ultimo, con l’introduzione della prova per testi, quale sarà la sorte delle dichiarazioni dei terzi, da tempo ammesse nel giudizio tributario?
Nulla osterà alla loro acquisizione e non potrà che trovare conferma il rammentato indirizzo giurisprudenziale che ad esse assegna valore indiziario, stante la piena efficacia probatoria che invece avrà la testimonianza scritta.
Questa, in ultima istanza, è la profonda e incolmabile differenza fra la prova testimoniale e tali dichiarazioni: la prima, a differenza delle seconde, non necessiterà di altre risultanze istruttorie per consentire al giudice di accertare la verità dei fatti controversi.
In sostanza, grazie alla riforma, si arricchisce la platea dei mezzi istruttori utilizzabili dai contraddittori senza comprimere alcuna delle facoltà finora esperibili.
[1] Sull’argomento, v. G. Melis, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in Giustizia Insieme, 30 giugno 2022 e A. Giovanardi, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo avanti o disastrosa iattura?, in Riv. dir. trib., 8 luglio 2022.
[2] Cfr. Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18 e, più di recente, Cass., sez. V, 2 ottobre 2019, n. 24531 e Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903.
[3] V. Cass., sez. V, 6 agosto 2008, n. 21184; questo indirizzo ha trovato costante conferma nella giurisprudenza successiva.
[4] Sulla testimonianza scritta nel processo civile, fra gli altri, v. G. Balena, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della Legge sul processo civile n. 69/2009, Milano, 2009, pp. 77 ss.; G. Palmieri – M. Angelone, La testimonianza scritta nel processo civile, in Judicium 2009; U. Berloni, Commento all’art. 257-bis cod. proc. civ., in AA.VV., Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di C. Consolo e M. De Cristofaro, Milano, 2009, pp. 175 ss.; R. Crevani, L’istruzione probatoria, in AA.VV., Il processo civile riformato, diretto da M. Taruffo, Bologna, 2010, pp. 325 ss.; E. Fabiani, Note sulla nuova figura di testimonianza (c.d. scritta) introdotta dalla legge n. 69 del 2009, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 823 ss.
Prime riflessioni sulla nuova conciliazione proposta dalla Corte di giustizia tributaria
di Antonio Perrone
Sommario: 1. La disciplina normativa del novello istituto. - 2. La matrice processualcivilistica, il riferimento all’art. 185-bis cod. proc. civ. e le questioni problematiche del novello istituto. - 3. La veste giuridica ed il ruolo del giudice tributario nella sua funzione conciliativa. – 3.1. (segue) iudex statutor e iudex mediator. - 4. Il criterio della «facile e pronta soluzione» nella conciliazione del giudice tributario. - 5. Il criterio del «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta conciliativa. - 6. Il riferimento al comportamento tenuto dalle parti in mediazione come strumento del giudice per valutare il canone della ragionevole accettabilità della proposta conciliativa. - 7. Due questioni conclusive.
1. La disciplina normativa del novello istituto
A trent’anni dalla promulgazione dei decreti delegati n. 545 e n. 546 del 1992, e dopo diversi interventi sezionali e parziali modifiche del loro impianto normativo, la legge 31 agosto 2022, n. 130, ha operato una riforma del rito fiscale che, seppur sotto il limitato profilo della professionalizzazione del giudice tributario, non dovrebbe esitarsi a definire epocale[1], atteso che, a regime, esso sarà togato, a tempo pieno, selezionato per pubblico concorso ed equiparato al giudice ordinario. E, del resto, la circostanza che si tratti di riforma, non solo di sostanza, ma anche di sistema, traspare, semanticamente, dalla diversa denominazione degli organi che saranno chiamati d’ora innanzi ad amministrare la giustizia tributaria: non più commissioni tributarie provinciali e regionali, ma corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado.
Se, indubbiamente, il maggior precipitato della riforma è ordinamentale poiché attiene, per l’appunto, alla figura ed alla natura del giudice tributario, non poche sono però le innovazioni che attengono al processo in sé e financo al regime della prova all’interno di esso[2]. Fra tali innovazioni un ruolo di spessore assume il nuovo istituto della «Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria», previsto dall’art. 4, comma 1, lett. g), della legge del 2022, che inserisce – nel corpo del novellato d.lgs. n. 546 del 1992 - l’art. 48-bis.1 e che, d’ora innanzi, per brevità verrà indicato come “conciliazione del giudice”.
La scelta della nomenclatura dell’articolo è già indicativa di una volontà del conditor legum di creare una sorta di fil rouge con i precedenti istituti (tutt’ora vigenti) della conciliazione “fuori udienza”, prevista dall’art. 48, e della conciliazione “in udienza”, prevista dall’art. 48-bis. E’ una scelta che, però, lascia perplessi, poiché – come vedremo – la novella conciliazione ha tratti peculiari e caratteristici che, se non sotto il profilo procedurale, soprattutto in ragione del ruolo che in essa vi gioca il giudice, ne avrebbero suggerito una configurazione in termini di maggiore autonomia che non in linea di continuità con i precedenti istituti.
Quanto all’impianto normativo, trattandosi di norme dal recentissimo conio, e non potendosi quindi dare per scontato che il lettore le conosca, si ritiene utile riportare i tratti salienti dell’art. 48-bis.1.
Indubbiamente la norma di maggiore importanza (così come di maggiore impatto) è il comma 1, il quale prevede che «[p]er le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione».
La nuova conciliazione del giudice, dunque, non riguarda tutte le controversie fiscali, ma solo quelle reclamabili e soggette a mediazione, che – allo stato – sono le liti di valore non superiore a cinquantamila euro. Atteso, però, l’espresso richiamo all’art. 17-bis (del medesimo decreto) nella sua interezza, e non al solo valore della controversia che esso definisce al primo comma, saranno escluse dal nuovo istituto della conciliazione del giudice anche le liti che non rientrano nel perimetro di applicazione di quella norma e cioè quelle di valore indeterminabile (fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 2, comma 2, d.lgs. n. 546/92), quelle in tema di aiuti di stato (di cui all’art. 47-bis del d.lgs. n. 546 del 1992) e quelle aventi per oggetto i tributi costituenti risorse proprie tradizionali di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014.
La novella conciliazione, poi, non è obbligatoria, poiché la littera legis dispone che la proposta può essere dal giudice (id est: dalla corte di giustizia tributaria) formulata; e tale formulazione è soggetta ad una, non meglio precisata, condizione di fattibilità («ove possibile») ed è subordinata alla ricorrenza di (invero assai vaghi) criteri (che verranno più compitamente analizzati nel prosieguo del presente scritto) di cui il giudice dovrà tener conto: l’«oggetto del giudizio» e l’esistenza di «questioni di facile e pronta soluzione».
Quanto alla procedura, essa, mutatis mutandis, richiama quella del vigente art. 48-bis. I commi da 2 a 5 dell’art. 48-bis.1, in particolare, prevedono:
- che la proposta del giudice può essere formulata in udienza o fuori udienza. Nel primo caso è comunicata alle parti, nel secondo è comunicata alla sola parte (o alle sole parti) non comparsa in udienza;
- nel caso di formulazione della proposta, che la causa sia rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo e, ove l’accordo non si perfezioni, la trattazione della controversia nella stessa udienza (a cui la causa è stata rinviata per consentire la conciliazione);
- che la conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, nel quale sono indicate le somme dovute nonché i termini e le modalità di pagamento, aggiungendo che il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente. Disposizioni, queste, identiche a quelle già previste per la conciliazione “fuori udienza” (art. 48-bis);
- che, nel caso di intervenuta conciliazione, il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere (anche in questo caso le previsione è identica a quella contenuta nell’art. 48-bis).
Il novello articolo si chiude poi con la previsione del comma 6, il quale stabilisce che «[l]a proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice». Norma che, come del resto il primo comma dell’articolo, ha radice processualcivilistica e che (al pari del primo comma) merita gli approfondimenti ulteriori che appresso vi dedicheremo.
Il recentissimo impianto normativo non si compone, però, del solo art. 48-bis.1. Difatti, la legge n. 130 del 2022, all’art. 4, comma 1, lett. d), ha previsto altresì di inserire nell’art. 15 del d.lgs. n. 546/92, il comma 2-octies, che, invero, non riguarda soltanto il novello istituto della conciliazione giudiciale, ma la conciliazione in genere. La norma prevede, infatti, che, se la proposta conciliativa del giudice, o di una della parti (e cioè una proposta che rientra negli attuali artt. 48 e 48-bis), non sia accettata dall’altra parte «senza giustificato motivo», la parte rifiutante subirà una maggiorazione del 50 per cento delle spese del giudizio quante volte «il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata». Dunque, se il giudice o alcuna delle parti formula una proposta conciliativa ed essa non è accettata (senza giustificato motivo), il rifiutante subirà l’indicato aggravio di spese qualora, poi, il contenuto della sentenza dovesse, per esso, essere maggiormente sfavorevole rispetto al contenuto della proposta.
Quest’ultima disposizione, ispirata dall’evidente scopo di indurre le parti a ben meditare un eventuale rifiuto della proposta, rivela – invero – qualche imprecisione terminologica che, tuttavia, non sembra inficiarne più di tanto la portata esegetica (se si fa eccezione per l’inciso «senza giustificato motivo», di cui si cercherà di seguito di ben comprendere il significato).
In primo luogo, la mancata accettazione è letteralmente riferita all’altra parte; il che è corretto allorché la proposta sia formulata dal contribuente o dall’Amm. fin. Ma se la proposta sia di matrice giudiciale (proprio in base al novello istituto qui in commento) la mancata accettazione non andrebbe riferita all’altra parte, ma ad “una delle parti”, atteso che possono rifiutare tanto il contribuente quanto l’amministrazione.
In secondo luogo, la previsione dell’aggravio di spese è letteralmente riferita alle «pretese» che in sentenza siano dal giudice riconosciute in misura inferiore rispetto alla proposta conciliativa (rifiutata). Il soggetto destinatario dell’aggravio, dunque, dovrebbe essere il pretendente, è cioè nella stragrande maggioranza dei casi l’Amm. fin, atteso che, nel rito tributario, il contribuente pretende alcunché solo nelle liti di rimborso. Se così fosse, la norma risulterebbe evidentemente sbilanciata a sfavore della parte pubblica, poiché una rigida esegesi della stessa, ancorata al dato letterale, indurrebbe a ritenere che laddove la sentenza rigetti in tutto la pretesa o determini l’ammontare di tale pretesa in misura superiore a quanto previsto nella proposta conciliativa rifiutata (provenga essa dalla parte o dal giudice), l’aggravio di spese opererà solo se ciò riguardi la parte pretendente, e quindi, nella maggior parte dei casi, l’Amm. fin. Non riteniamo, però, che l’imprecisione terminologica conduca a siffatto, invero irragionevole, risultato. Forse l’intendimento del legislatore, nell’utilizzare il termine “pretese”, era quello di fugare ogni dubbio circa l’applicabilità del nuovo istituto anche alle liti di rimborso. In ogni caso, il termine di cui si discute, nella logica e nella ratio della disposizione dovrebbe essere inteso non solo con riferimento alle pretese avanzate dall’amministrazione nell’atto impositivo, di irrogazione delle sanzioni o nel provvedimento di riscossione (o alle pretese avanzate dal contribuente nella richiesta di rimborso), ma anche con riguardo alle “richieste” delle parti in genere. Talché, laddove sia stata formulata una proposta conciliativa di parte e l’altra l’abbia rifiutata (senza giustificato motivo), se la sentenza disporrà a sfavore del rifiutante in misura deteriore rispetto al contenuto della proposta, quest’ultimo subirà l’aggravio di spese. Analogamente, laddove sia la corte di giustizia tributaria a formulare la proposta, e una delle due parti (contribuente o amministrazione) l’abbia rifiutata (senza giustificato motivo), qualora la sentenza risulti, per essa, di contenuto maggiormente sfavorevole rispetto alla proposta, opererà l’aggravio di spese.
Sul punto non è superfluo sottolineare che, se la proposta conciliativa del giudice non è obbligatoria, lo è invece la condanna alle spese maggiorate per la parte che l’eventuale proposta abbia rifiutato senza giustificato motivo. Il novello comma 2-octies dell’art. 15, infatti, non dà facoltà al giudice di maggiorare le spese, ma prevede che esse, incrementale del 50 per cento, «restano a carico» del rifiutante senza giustificato motivo. Dunque, ricorrendo le condizioni già analizzate (rifiuto della proposta e contenuto della sentenza maggiormente sfavorevole rispetto a quello della proposta stessa), il giudice non sembra abbia facoltà nell’addebito delle spese maggiorate, salvo che non ricorra quel «giustificato motivo» di cui dovrà ben intendersi la portata.
La stessa norma prevede, invece, che laddove la conciliazione vada a buon fine, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.
L’ultima previsione dell’art. 4 della legge n. 130/2022, con riferimento al nuovo istituto della conciliazione del giudice, è contenuta al primo comma, lett. h), il quale prevede che nell’art. 48-ter del d.lgs. n. 546/92, in tema di definizione e pagamento delle somme dovute, al comma 2, è inserito il rifermento anche all’art. 48-bis.1. In sostanza, quindi, anche per la conciliazione del giudice il versamento delle somme dovute, ovvero, in caso di rateizzazione, della prima rata, deve essere effettuato entro venti giorni dalla data di redazione del relativo processo verbale.
A riguardo si rammenta che il primo comma dell’art. 48-ter stabilisce la misura di applicazione delle sanzioni ridotte in caso di conciliazione tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio. Pertanto, la circostanza che nel secondo comma di tale articolo sia stato inserito il riferimento all’art. 48-bis.1, dovrebbe deporre nel senso che le modalità di pagamento ivi disciplinate si riferiscono alla conciliazione del giudice tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio. Se a ciò si aggiunge la sedes materie di tale ultima disposizione (che, come detto, segue gli articoli 48 e 48-bis) e la circostanza che il primo comma di essa si riferisca alla «corte di giustizia tributaria», non altrimenti aggettivata con riferimento al primo o al secondo grado, ne consegue che il nuovo istituto della conciliazione del giudice, al pari delle altre forme conciliative allo stato vigenti, si applica anche in grado di appello.
2. La matrice processualcivilistica, il riferimento all’art. 185-bis cod. proc. civ. e le questioni problematiche del novello istituto.
Così analizzata la novella normativa, non può sottacersi che essa suscita diverse questioni problematiche, che pertengono non solo lo studioso del processo tributario ma anche l’operatore pratico e, soprattutto, la neo istituita corte di giustizia tributaria, che quella norma sarà chiamata ad applicare.
Intanto va detto che l’art. 48-bis.1 rivela una chiara matrice processualcivilistica, essendo fondamentalmente modellato sull’istituto previsto dall’art. 185-bis cod. proc. civ., rubricato «proposta di conciliazione del giudice», ed il cui primo comma dispone: «[i]l giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».
Com’è evidente un quasi testuale richiamo alla formulazione della norma del codice di rito è presente nel comma 1 e nel comma 6 del novello art. 48-bis.1 del d.lgs. n. 546/92. Vi è, invero, una sensibile differenza, poiché la conciliazione del giudice nel processo civile si applica alle sole questioni di facile e pronta soluzione «di diritto»; limite – che aveva indotto attenta dottrina processualcivilistica ad affermare che «la ricostruzione dei fatti, come ben vedesi, non interessa più a nessuno»[3] - non presente nella norma tributaria, talché è da ritenersi che quest’ultima possa riguardare anche le questioni di fatto.
La norma del codice di rito, poi, nel circoscrivere il perimetro delle liti conciliabili, raccomanda al giudice di tener conto della «natura del giudizio» e del «valore della controversia», senza identificare, in quest’ultimo caso, una soglia ben precisa. Il parametro del valore è invece – come già detto – ben identificato dalla norma tributaria che, nel richiamare l’art. 17-bis del d.lgs. n. 546/92, lo circoscrive (con scelta, a mio sommesso avviso, opinabile) ai cinquantamila euro. Di contro, sostanzialmente sovrapponibile, nella vaghezza dell’espressione, a quello del codice di rito ci sembra il primo criterio che pone la norma tributaria, che in luogo della “natura” fa riferimento all’“oggetto” del giudizio. Nell’un caso e nell’altro, non è ben chiaro in quale misura il criterio che ne occupa possa influenzare (recte: indirizzare) la scelta del giudice di proporre o meno la conciliazione. Cosa vuol dire, infatti, che – nel valutare la possibilità di formulare una proposta conciliativa – il giudice dovrà tenere conto, nell’un caso (rito civile) della “natura” del giudizio, e nell’altro (rito tributario) dell’“oggetto” del giudizio, se non che questa valutazione è sostanzialmente rimessa alla sua discrezionalità? Altrimenti detto: in che modo potrebbe sindacarsi la scelta della corte di giustizia tributaria di proporre la conciliazione assumendo che l’oggetto del giudizio non la consentiva? Ci sembra, invero, di essere in presenza di una disposizione “in bianco” che né vincola (che forse sarebbe stato eccessivo), né indirizza (che invece sarebbe stato auspicabile) la scelta del giudicante. Per non dire, poi, che il concetto e l’ampiezza dell’“oggetto” del giudizio tributario è questione così tanto dibattuta ancor oggi nella dottrina[4], che forse sarebbe stato meglio evitare del tutto ogni riferimento normativo al tema, piuttosto che adattare al processo tributario una disposizione che già nel codice di rito lasciava gli interpreti insoddisfatti.
Se a ciò si aggiunge la genericità dell’espressione «questioni di facile e pronta soluzione» (che nel nostro processo, come già detto, a differenza di quanto avviene nel rito civile, attiene al fatto come al diritto), che è l’altro criterio che il giudice dovrà valutare nel formulare (ove possibile) la proposta conciliativa, è difficile non condividere, e rilanciare in materia fiscale, il tranciante giudizio che la dottrina processualcivilistica ha dato dell’art. 185-bis, primo comma, cod. proc. civ.: non si tratta, invero, di una norma effettuale, ma di un «suggerimento al giudice»[5]. Talché, verrebbe da chiedersi se effettivamente v’era la necessità di modellare la conciliazione del giudice tributario su quella del giudice civile o non sarebbe stato, invece, più opportuno tener conto degli strali critici che quell’istituto aveva suscitato negli operatori della giustizia civile per confezionarne, nel rito tributario, uno di miglior finitura. Ciò, soprattutto, ove si considerino taluni emendamenti (che successivamente analizzeremo) che pur erano stati proposti per migliorarne la fattibilità.
Ciò posto, il presente contributo non vuole però limitarsi alla critica, ma avere un intendimento propositivo per cercare di comprendere se e come le evidenziate problematiche possano essere risolte.
3. La veste giuridica ed il ruolo del giudice tributario nella sua funzione conciliativa
La circostanza che il primo comma dell’art. 48-bis.1 restituisca la posizione di un giudice le cui coordinate di indirizzo per la formulazione della proposta non possono essere, se non in maniera estremamente vaga, ravvisate nella legge, ci sembra impatti sulla questione, di massima importanza, della concreta attuabilità del novello istituto e quindi della sua reale efficacia. Altrimenti detto: quale condizionamento (e quale utilità) potrà trarre il giudice dal sapere che la sua proposta potrà essere formulata soltanto laddove essa sia compatibile con l’oggetto del giudizio e laddove si verta su questioni di facile e pronta soluzione? In particolare, cosa la corte di giustizia tributaria dovrà intendere con quest’ultima espressione? Sebbene, infatti, la formula sia stata tralaticiamente riportata dal rito civile a quello fiscale, essa dovrà certamente essere adattata alle particolarità di quest’ultimo e, prima fra esse, la circostanza che una delle parti è pubblica ed è portatrice delle funzione istituzionale di attuare la norma tributaria e di amministrare i tributi[6].
Invero, le risposte a tali quesiti parrebbero a portata di mano. Facile e pronta soluzione, infatti, altro non dovrebbe significare se non che è chiaro chi abbia ragione e chi torto o che (in diritto) si tratta di una questione che ha una tale sedimentazione giurisprudenziale (magari in un costante orientamento della Corte di cassazione) – da cui il giudice non ravvisa ragioni per discostarsi – che la soluzione della controversia non potrà che ancorarsi alla stessa, o che ancora – ma ci sembra un’ipotesi di difficile fattura – una delle parti abbia ipotizzato l’applicazione di una norma palesemente inconferente con la fattispecie o abbia dato una valutazione palesemente errata di una disposizione. Insomma, la locuzione in esame, nella sua forma letterale, indurrebbe a ritenere che la corte di giustizia tributaria abbia facoltà di formulare la proposta conciliativa quante volte risulti indubbiamente evidente, al di là di ogni dubbio, come la controversia debba essere decisa perché è chiaro dove sta la ragione e dove il torto.
A questo punto, però, l’inevitabile domanda che sorge nella mente dell’interprete è perché mai un giudice, che abbia così chiara contezza su come la controversia debba essere decisa, dovrebbe formulare una proposta conciliativa. Ma soprattutto occorre chiedersi come potrebbe quegli formulare la proposta senza, di fatto, anticipare la sua decisione, così compromettendo quell’imparzialità che non è solo principio di civiltà giuridica ma è anche canone di rilevanza costituzionale (art. 111 Cost.)[7]. Pertanto, se si dovesse attribuire all’inciso facile e pronta soluzione il significato letterale che ha tale espressione, non solo si porrebbe un’evidente questione di legittimità costituzionale della norma, ma si dovrebbe ammettere che il novello istituto della conciliazione del giudice è stato introdotto nel rito fiscale con il solo scopo di scoraggiare liti temerarie, in cui il ricorrente (recte: il suo difensore) è conscio della scarsa probabilità di successo, ma impugna per prender tempo. Un istituto che opererebbe quindi a senso unico e di cui, a mio sommesso avviso, non si sentiva davvero il bisogno.
Le superiori riflessioni rimandano, invero, alla questione, di ben ampio spessore, di quale sia la funzione della conciliazione del giudice e di quale veste egli assuma nel formulare la proposta.
È indubbiamente vero che funzione precipua del novello istituto è quella di deflazionare il contenzioso tributario, ma il perseguimento di tale obiettivo non sembra possa spingersi fino a sacrificare il ruolo che è istituzionalmente (e costituzionalmente) proprio del giudice: amministrare giustizia (in nome del popolo). Pertanto, nessuna proposta conciliativa dovrebbe il giudicante formulare ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia (anche parzialmente) torto e chi (anche parzialmente) ragione, poiché in quel caso egli dovrebbe subordinare l’obiettivo della deflazione delle liti al compito che primariamente gli compete, attribuendo giustizia a chi (evidentemente) merita di averla.
Ciò, peraltro, si intreccia con la questione del ruolo che il giudice assume allorché formuli una proposta conciliativa in un giudizio che egli è chiamato dirimere con sentenza. Questione che investe l’amplissimo tema della imparzialità del giudicante, che è stata già dibattuta dalla dottrina processualcivilistica a fronte del richiamato art. 185-bis cod. proc. civ. e che, in questa sede, può essere richiamata solo per sommi capi[8].
3.1. (segue) iudex statutor e iudex mediator
Alla sua radice il complesso tema si riduce nello stabilire se il giudice che formula la proposta di conciliazione vesta i panni di un iudex statutor (decisorio), di un iudex mediator o una via di mezzo fra i due[9]. E cioè se quegli, in sede conciliativa, possa adottare lo stesso habitus mentale e la medesima intime convinction che caratterizzano il suo ruolo decisorio e la sua funzione di dispensare giustizia, o – (parzialmente) svestiti i panni del decidente – debba invece operare con funzione mediatoria per trovare una soluzione che possa essere accettata da entrambe le parti, poiché ognuna di essa avrebbe più da perdere nel rifiutarla che nell’accettarla (o, in altri termini, avrebbe più da perdere seguitando nel giudizio).
Diversi sono gli argomenti che inducono ad escludere che il giudice della conciliazione possa essere un iudex statutor, ma il primo e più importante di essi attiene a quel principio generale di giustizia, riconnesso al canone dell’imparzialità, che impedisce a colui che sia chiamato a dirimere una controversia con sentenza di formulare, in corso di causa, “anticipazioni di giudizio”.
La dottrina processualcivilistica, nel commentare l’art. 185-bis del codice di rito, con il precipuo scopo di escludere che il giudice “conciliatore” possa operare in qualità di iudex statutor, ha cercato, in primo luogo, un appiglio normativo nell’art. 51, comma 4, cod. proc. civ., che notoriamente individua una serie di circostanze – che rappresentano altrettanti obblighi di astensione del giudice – che dimostrano una sua “precognizione” dei fatti di causa[10]. L’aver quegli dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o l’aver deposto in essa come testimone, l’avere conosciuto della stessa come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o, infine, l’aver prestato assistenza come consulente tecnico, impongono al giudice di astenersi dal decidere poiché sono circostanze che dimostrano che egli ha avuto aliunde conoscenza dei fatti di causa – donde l’elemento della “precognizione” – e su essi si è espresso, in un modo o in un altro. Ciò che inevitabilmente pregiudica l’imparzialità del suo operato.
E tuttavia le ipotesi dell’art. 51, comma 4, cod. proc. civ. attengono ad elementi “esterni” al giudizio[11] e quindi configurano casi in cui il giudice ha avuto una previa conoscenza dei fatti di causa per averli acquisiti in una veste diversa da quella di giudicante nel medesimo processo (consulente, perito, testimone, arbitro, ecc.), tant’è che l’obbligo di astensione, qualora la conoscenza dei fatti di causa sia avvenuta nella qualità di “magistrato”, opera soltanto laddove sia avvenuta in altro grado del giudizio[12].
Ben diversa è l’ipotesi in cui sia la legge stessa a prevedere la possibilità per il giudice di aver contezza dei fatti di causa alla scopo di formulare una proposta conciliativa all’interno del processo[13], come avviene nelle ipotesi disciplinate tanto dall’art. 185-bis del codice di rito, quanto dal novello art. 48-bis.1 del rito fiscale. E, d’altro canto, è ben noto che, per il naturale progredire del processo, è giocoforza necessario che il giudicante conosca, in via interinale, questioni di rito e di merito[14]. Così come, laddove sia la stessa legge a prevederlo, il giudice potrà pronunciarsi in via cautelare e provvisoria (come notoriamente avviene nel rito tributario, ai sensi dell’art. 47 del d.lgs. n. 546/92), senza che ciò comporti forme di indebita anticipazione di giudizio[15].
Se vuol sostenersi che il giudice “conciliatore” non possa operare in funzione decisoria, anticipando, attraverso la formulazione della proposta, quale sarà l’esito del giudizio, non sembra dunque possa trovarsi appiglio normativo nel richiamato art. 51, comma 4, cod. proc. civ.
Forse quell’appiglio lo si può invece trovare nella stessa disciplina normativa della conciliazione del giudice. Di fatti, l’art. 48-bis.1 (così come, del resto, l’art. 185-bis cod. proc. civ.), pur nella sua vaghezza formulatoria, sembra dettare talune coordinate di riferimento. Segnatamente, l’ultimo comma dell’articolo, nello stabilire che la proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice, non pare abbia solo portata precettiva ma di indirizzo (e monito) nei confronti del giudicante.
Indubbiamente la norma è stata dettata dal pur lodevole intento di evitare che ogni proposta conciliativa possa paralizzare il rito, determinando una richiesta di ricusazione operata dalla parte che, rifiutata la proposta, assuma che il giudice non è più parziale perché, mercé la formulazione della stessa, ha già chiarito come intenderà decidere. Tale comprensibile premura, però, non sembra possa spingersi fino a paralizzare del tutto un’eventuale azione di ricusazione di parte quale che sia il contenuto della proposta. Se quest’ultima è una chiara anticipazione del giudizio e quindi un abuso del potere del giudice, alle parti (recte: a quella che dovesse risultare sfavorita dalla proposta) dovrà pur essere consentito di censurare tale operato.
La norma di cui si discute, dunque, va avvolta nella sua ratio di conformità al principio generale, di civiltà giuridica, che impedisce al giudice di formulare “anticipazioni” del suo decidere in corso di causa (pena la sua ricusabilità). Essa, dunque, è comprensibile (e costituzionalmente accettabile) solo in quanto si sia disposti ad ammettere che dice più di quanto non appaia, operando come un monito per il giudice: la sua proposta conciliativa non costituisce motivo di ricusazione o di suo obbligo di astensione proprio perché (e nella misura in cui) essa non è, e non deve essere, anticipazione di giudizio. La norma che ne occupa, dunque, andrebbe letta come disposizione che, al contempo, conferisce il potere (conciliativo) e ne sottintende il limite che deriverebbe dal suo abuso. Limite che, in altro contesto processuale, il legislatore ha sentito la necessità di esplicitare, affermando – all’art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. – che il giudice è ricusabile se nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, abbia manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione.
Mutatis mutandis, nel rito fiscale, l’avverbio indebitabimente, e con esso la ricusabilità del giudice, dovrebbe ricorrere quante volte quegli abbia sconfinato dal suo potere, formulando una proposta conciliativa che in effetti tale non è, perché lasica chiaramente intendere come egli deciderà (o come, di fatto, ha già deciso).
È allora proprio questa lettura ragionevolmente (e costituzionalmente) orientata dell’ultimo comma del novello art. 48-bis.1, che può chiarire quale debba essere il ruolo e la natura del giudice “conciliatore” nel rito fiscale. Quando egli formula la proposta, dovrebbe parzialmente svestire gli abiti del decisore per operare, altrettanto parzialmente, come mediatore (altamente) “qualificato” che, avendo la sua guida pure e sempre nella legge, valuta se, in conformità alla stessa, e iuxta alligata et probata partium, vi sia lo spazio per una composizione delle reciproche posizioni. E’ per questa ragione che la collocazione sistematica dell’art. 48-bis.1 lascia perplessi, poiché non sembra che esso possa allinearsi a quell’ideale fil rouge che vorrebbe accomunarlo alla conciliazione “fuori udienza” (art. 48) e alla conciliazione “in udienza”, (art. 48-bis) ove non v’è alcun giudice che, almeno per un momento, veste l’habitus mentale del mediatore.
Se così è, allora, dovrebbe conseguirne che nessuna proposta conciliativa il giudicante può formulare ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia torto e chi ragione, poiché in quel caso sarà per lui arduo esprimersi senza formulare anticipazioni di giudizio. Piuttosto, ove le condizioni (in fatto ed in diritto) del contendere lo consentano, poiché torti e ragioni si dividono fra i due contendenti, egli dovrà (recte: potrà) cercare di trovare quel punto di giuntura che accontenta (o che troppo non scontenta) le parti. Si condivide, quindi, quanto affermato da attenta dottrina processualcivilistica, la quale ha ritenuto che allorché il giudice formuli la proposta, deve «mediare tra le posizioni delle parti e ispirarsi, anche solo per un istante, alla logica dell’aliquid datum et aliquid retentum propria d’ogni amichevole accordo su lite pendente, giudiziale (come la conciliazione) o stragiudiziale (come la transazione) che sia»[16].
È in questi termini, che a mio sommesso avviso, dovrebbe intendersi il ruolo del giudicante nel neo-introdotto istituto dell’art. 48-bis.1.
E, d’altro canto, una conferma, ancora una volta normativa, di tale soluzione parrebbe trarsi dalla circostanza – propria della disciplina fiscale – che il perimetro di applicazione della conciliazione del giudice coincide con quello del reclamo e mediazione (art. 17-bis d.lgs. n. 546/92).
Si badi, con ciò non si intende sostenere l’identità giuridica dei due istituti, né che il giudice possa qualificarsi quale mediatore “esterno”, ma che, in sede conciliativa, la sua attitudine dovrebbe essere parzialmente diversa da quella usuale e che gli è connaturale per legge. Egli, conscio che la lite non ha certa soluzione unilaterale (a favore del contribuente o dell’Amministrazione), che ragioni e torti possono distribuirsi fra le parti, e che – soprattutto – il suo convincimento è ancora fluido, dovrebbe far prevalere, anche sol per un attimo, l’aninums mediandi sull’aninums decidendi e formulare quindi quella soluzione che, ragionevolmente, gli sembra possa essere accettata da entrambi.
Quanto ciò sia praticabile non è preconizzabile, poiché attiene né alla norma, né (almeno per il momento) alla prassi, ma alla sensibilità dell’uomo giudice.
4. Il criterio della «facile e pronta soluzione» nella conciliazione del giudice tributario
L’aver tracciato il perimetro del ruolo e delle funzioni della corte di giustizia tributaria in sede conciliativa dovrebbe ora consentire di gettar maggior luce sulla vaga formula facile e pronta soluzione, che – come anticipato – sebbene identica a quella contenuta nell’art. 185-bis cod. proc. civ., deve essere adattata alla specificità del rito fiscale.
Chiarito, allora, che essa (a mio sommesso avviso) non descrive le ipotesi in cui il giudice tributario ha assoluta certezza di come, ed a favore di chi, la lite possa essere integralmente definita, poiché in questi casi il iudex statutor deve prendere il sopravvento (ed amministrare giustizia) e la formulazione della proposta si ridurrebbe inevitabilmente (ed indebitamente) nell’anticipazione del suo giudizio (poiché egli ha già deciso), si dovrebbe riconoscere, quasi paradossalmente, che facilità e prontezza di soluzione attengono ad una lite che è ancora fluida nella mente del giudicante, nel senso che egli non ritiene di essere in possesso di una verità certa, puntuale, ma di una verità suscettibile di composizione[17].
Si badi, con ciò non si intende dire che il giudice non sa cosa decidere, poiché in tal caso (ed ovviamente) non sarebbe neanche in grado di formulare una (ragionevole) proposta conciliativa, ma che la sua decisione si può muovere all’interno di un intervallo in cui la verità dei fatti (id est: delle ricostruzioni e delle allegazioni di parte) non è né A né B, ma un punto fra A e B che non è suscettibile di immediata e certa individuazione. In questo senso, e solo in questo senso, deve essere intesa la fluidità del decidere.
La materia tributaria è ricca di siffatte ipotesi. Per voler fare soltanto alcuni esempi, si pensi agli accertamenti induttivi in cui la ricostruzione dell’imponibile, per assenza delle scritture contabili o inattendibilità delle stesse, è basata su elementi presuntivi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza; si pensi all’utilizzo di percentuali di ricarico, di redditività, di stime di settore, ecc.; o agli accertamenti redditometrici, alle ipotesi di ricostruzione delle rimanenze di magazzino ed alla loro incidenza sul costo del venduto, alla determinazione della percentuale di incidenza dei costi sui maggiori ricavi accertati, all’accertamento di maggior ricavi attuato mediante l’utilizzo dei dati di acquisto delle materie prime, percentuali di sfrido, prezzi medi praticati, ecc.
Si tratta, per lo più di questioni in fatto che evidenziano quel grado di incertezza che è tipico della ricostruzione del fatto fiscale: un accadimento del passato su cui l’Amm. fin. opera delle enunciazioni fattuali, scontando un’inevitabile inferiorità conoscitiva (poiché essa non sa come sono andati i fatti che deve ricostruire) che è la ragione prima del diffuso utilizzo delle presunzioni nella materia tributaria[18].
E, d’altro canto, il concetto di incertezza è ben noto al legislatore tributario che individua proprio nella «incertezza delle questioni controverse» uno dei criteri che l’amministrazione deve valutare in sede di mediazione, ai sensi dell’art 17-bis, comma 5, d.lgs. n. 546/92; norma, peraltro, espressamente richiamata dal novello art. 48-bis.1 e che può, dunque, influenzarne l’esegesi.
Sono queste ipotesi di incertezza sul (indeterminatezza del) fatto che maggiormente sembrano abbisognare della figura di un giudice con funzione conciliativa[19] ed è quindi a tali ipotesi che, in prima battuta, dovrebbe riferirsi il criterio della facile e pronta soluzione nella misura in cui circoscrive il perimetro delle fattispecie suscettibili di conciliazione giudiciale. Ipotesi che certamente rientrano nello spazio di applicazione dell’art. 48-bis.1, opportunamente non limitato dal legislatore fiscale alle questioni in diritto, ma che, per paradosso, non sembrano recare né il requisito della facilità né quello della prontezza di soluzione.
Come dovremmo intendere allora il criterio di cui si discute?
A mio sommesso avviso la lite di facile e pronta soluzione è quella in cui il giudice possa ragionevolmente ritenere di comporre una verità processuale all’interno di quell’intervallo di incertezza di cui si è detto. Altrimenti detto, quegli potrà formulare la proposta allorché ritiene che, stante un certo grado di indeterminatezza che impedisce la certezza, si possa comunque addivenire ad una composizione della lite poiché, sulla base delle allegazioni e delle prove fornite, è ragionevolmente giusto che ciascuna parte possa rinunciare ad una porzione della sua “pretesa” (nel senso sopra indicato); nel far ciò il giudice dovrà altresì, specificare quanta e quale parte della pretesa ciascuna parte dovrà essere disposta a rinunciare.
Ma non è tutto. Poiché la corte di giustizia tributaria non dovrà limitarsi soltanto a stabilire in che misura sia ragionevolmente giusto che ciascuna parte rinunci ad una porzione della sua pretesa, ma dovrà altresì valutare, nel formulare la proposta, in che misura quest’ultima possa essere ragionevolmente accettata dalle parti. E’ in ciò che, probabilmente, si richiede al giudice uno sforzo maggiore, poiché tale modus operandi implica che, per almeno un momento, egli non agisca secondo il suo naturale ed istituzionale habitus di amministratore giustizia ma ponendo innanzi a sé anche valutazioni di economia processuale (che sono tipiche di un mediatore), sforzandosi di conciliare il giusto con l’accettabile. A poco servirebbe, infatti, quantomeno nell’ottica deflattiva che è propria dell’istituto che ne occupa, una proposta che si sa non potrà essere ragionevolmente accettata da una delle parti (a meno che non si ritenga possibile formulare la proposta non perché essa sia accettata, ma per valutare successivamente il comportamento della parte rifiutante, così ricadendo, però nel vizio di anticipazione del giudizio).
In sintesi, dunque, lite di facile e pronta soluzione (e quindi la lite suscettibile di proposta giudiciale) dovrebbe essere quella in cui il giudicante, all’interno di un intervallo di incertezza, individua una composizione delle antagoniste pretese ritenendo: (i) che possa essere ragionevolmente giusto che ciascuna parte rinunci ad una porzione delle stesse e (ii) che ciascuna parte possa ragionevolmente accettare la misura della riduzione proposta.
Bilanciando siffatte istanze, il giudice non anticiperà la sua decisione, poiché, qualora una o entrambe le parti dovessero non accettare la proposta conciliativa, quegli sarà comunque e sempre libero, nell’emettere sentenza, di muoversi all’interno di quell’intervallo, modificando, re melius perpensa, i propri convincimenti anche in ragione di ciò che le parti addurranno ed allegheranno nel rigettare la sua proposta. Per cui, sino al termine della lite, e cioè sino a quando non depositerà la sua sentenza, il giudicante potrà liberamente formarsi un convincimento diverso rispetto al contenuto della proposta, ritenendo ragionevolmente giuste le osservazioni e le allegazioni di una o di entrambe le parti.
In ultima analisi, gli aggettivi facile e pronta non dovrebbero essere sinonimo di certezza nella soluzione, ma descrivere quella condizione in cui il giudice riesce a ravvisare una composizione della lite che ritiene ragionevolmente giusta e ragionevolmente accettabile, salva la possibilità di mutare il proprio intendimento (allorché la proposta non sia accettata) sulla base delle successive allegazioni e argomentazioni di parte.
5. Il criterio del «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta conciliativa
La soluzione prospettata, se condivisa, ci sembra getti luce su quell’altra (eccessivamente generica) formula che è contenuta nel novello comma 2-octies dell’art. 15 del d.lgs. n. 546/92 e cioè quel «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta alla cui mancanza è collegato l’aggravio di spese nella misura del cinquanta per cento.
Letteralmente giustificato motivo (che deve accompagnare il rifiuto) altro non dovrebbe significare se non che la parte rifiutante ritiene la proposta non confacente ai propri interessi e che essa rimane convinta di meglio poterli soddisfare in giudizio. Anche qui par di essere in presenza di una norma “in bianco”, poiché – in assenza di maggiori coordinate di indirizzo – ogni allegazione ed osservazione della parte rifiutante potrebbe, al contempo, essere o meno un giustificato motivo.
La vaga formula, però, potrebbe ricondursi a concretezza laddove si ritenga che il giudice debba (recte: possa) formulare la proposta conciliativa nelle sopra richiamate ipotesi in cui egli cerca di comporre la lite all’interno di quell’intervallo di incertezza (o incertezza “intervallare”) di cui si è detto, lasciandosi guidare dai criteri della ragionevole giustezza della misura delle rinunce proposte alle parti e della ragionevole accettabilità della proposta da parte delle stesse.
In questo caso, il “non accettante” (quale che egli sia: parte pubblica o privata) non potrà limitarsi ad addurre che la proposta non si confà ai propri interessi (che ritiene di poter meglio perorare in giudizio), ma dovrà ben spiegare i motivi per cui la porzione di rinuncia alle proprie pretese che il giudice gli prospetta non è ragionevolmente giusta, adducendo e dimostrando altresì che non vi è alcun grado di incertezza “intervallare” nella soluzione della controversia che possa indurlo ad accettare, poiché è assolutamente chiaro dove sta la ragione (evidentemente dalla sua parte) ed il torto (evidentemente dall’altra parte). Si osservi, infatti, che la littera legis sembra consentire alla parte soltanto di “non accettare” la proposta, ma non di “rilanciare” con una proposta modificata (a meno che, poi, nella prassi e nella concreta applicazione dell’istituto si ammetta la possibilità per le parti in udienza di chiedere modifiche alla proposta conciliativa del giudice); per cui la parte che rifiuta dovrebbe in primo luogo sostenere che la lite non è di facile e pronta soluzione (nel senso sopra prospettato) poiché non vi è alcun intervallo di incertezza e dunque la prospettazione della “corte” non può essere ragionevolmente giusta. Il rifiutante, poi, potrebbe rigettare la proposta non perché essa non sia ragionevolmente giusta, ma perché la misura della rinuncia prospettata dal giudice non è ragionevolmente accettabile.
Peraltro, qualora la corte di giustizia tributaria dovesse ritenere fondate tali doglianze, potrebbe in sentenza adeguarsi (in tutto o in parte) alle stesse, poiché - come detto - se essa utilizza i parametri in questa sede ipotizzati (ragionevole giustezza e ragionevole accettabilità) non rimane ancorata alla propria proposta, ma ha piena libertà di modificare i propri intendimenti fino al deposito della sentenza.
Insomma, se si condivide che il criterio della facile e pronta soluzione ricorra quante volte il giudice sia in grado di ipotizzare una composizione della lite utilizzando i canoni del ragionevolmente giusto e del ragionevolmente accettabile, dovrebbe conseguirne un più chiaro significato della locuzione «giustificato motivo». Una volta formulata la proposta, il giustificato motivo nel rifiuto della stessa dovrebbe consistere nel dispiegare convincenti argomentazioni atte a dimostrare che essa non è ragionevolmente giusta o non è ragionevolmente accettabile. Laddove il giudicante riterrà le argomentazioni di parte non convincenti, disporrà l’aggravio di spese a carico del rifiutante.
6. Il riferimento al comportamento tenuto dalle parti in mediazione come strumento del giudice per valutare il canone della ragionevole accettabilità della proposta conciliativa
La soluzione dianzi prospettata sembra però prestare il fianco ad almeno una critica puntuale: se la corte di giustizia tributaria, mercé l’analisi delle allegazioni e probazioni di parte, può essere in grado di individuare quel punto di composizione della lite per cui è ragionevolmente giusto che ciascun contendente rinunci ad una porzione delle proprie pretese (in fatto o in diritto), come farà invece a stabilire che la rinuncia richiesta è ragionevolmente accettabile?
La norma dell’art. 48-bis.1, infatti, non prevede la possibilità per il giudice di “sentire” previamente le parti allo scopo di comprendere se alcuna o entrambe ravvisino alcunché a cui siano disposte a rinunciare, perché lo ritengono accettabile. Certo, potrebbe anche sostenersi che, allorché il proponente (nel nostro caso il giudice) ritenga ragionevolmente giusta la prospettata composizione della lite, possa altresì ritenere ragionevolmente accettabile la rinuncia che detta (giusta) composizione comporta. I due criteri della ragionevole giustezza e ragionevole accettabilità finirebbero così con il compendiarsi. Ma come si è cercato di argomentare nelle pagine precedenti, se si vuol attribuire reale efficacia al nuovo istituto, non può ritenersi soddisfacente che il giudice formuli una proposta “al buio”, anzi lo sforzo maggiore che gli è richiesto dovrebbe consistere proprio nel cercare di comprendere se la proposta che egli formulerà abbia dei margini di accettabilità. Il canone della ragionevole accettabilità, dunque, non dovrebbe compendiarsi con quello della ragionevole giustezza, ma godere di una sua autonomia.
Ritengo, quindi, che sarebbe stata indubbiamente d’aiuto al gravoso compito del giudice, ed elemento di propulsione della concreta efficacia dell’istituto, la proposta di emendamento 2.36 (del 19 luglio 2022, a firma De Bertoldi, Balboni, Calandrini) al d.d.l. A.S. 2636, che prevedeva la possibilità per il giudice di “esplorare” gli intendimenti delle parti, chiedendo d’ufficio alle stesse di «tentare un accordo conciliativo», prima di formulare la sua proposta (pur sempre limitata a questioni di facile e pronta soluzione). Mercé tale richiesta “d’ufficio”, il giudice avrebbe potuto desumere dal comportamento tenuto dalle parti, non elementi valutabili ai fini del giudizio (come prevede l’art. 420, primo comma, c.p.c., in sede di rito del lavoro), ma informazioni circa il margine di disponibilità delle stesse a conciliare e quindi elementi di valutazione del criterio della ragionevole accettabilità.
L’emendamento, tuttavia, non ha avuto buon sorte, per cui si dovrà analizzare la vigente normativa per comprendere se sussistano disposizioni che consentano alla corte di giustizia tributaria di reperire aliunde i necessari elementi di valutazione del canone dell’accettabilità.
Forse una soluzione si può trovare, ancora una volta, nel richiamo che l’art. 48-bis.1 opera all’art. 17-bis. Le liti conciliabili, come detto, sono quelle “reclamabili”. Orbene, in sede di reclamo il contribuente può prospettare una mediazione, l’Amm. fin. è tenuta ad esaminare il reclamo (e l’eventuale proposta di mediazione) e, ove ritenga di non accoglierlo, deve d’ufficio formulare una propria proposta, avuto riguardo ai ben noti criteri dell’eventuale incertezza delle questioni controverse (già sopra richiamato), del grado di sostenibilità della pretesa e del principio di economicità dell’azione amministrativa.
Giova, peraltro, ricordare che, con la stessa legge n. 130 del 2022, il legislatore è intervenuto anche sull’art. 17-bis, introducendovi il comma 9-bis, a mente del quale se il reclamo o la proposta di mediazione (formulata dall’Amm. fin. ai sensi del comma 5) non è accettata e la parte rifiutante risulterà poi soccombente sulla base di una sentenza che accoglierà «le ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione», essa subirà la condanna alle spese. La norma, peraltro, si spinge a statuire che siffatta condanna potrà «rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione». Anche se non è questa la sede per commentare siffatta ulteriore novella, è comunque da ritenere che, d’ora innanzi, le parti (soprattutto quella pubblica) ben mediteranno l’eventuale rifiuto di una proposta di mediazione.
Ciò posto, seppur il giudice non gioca alcun ruolo, né può in alcun modo intervenire nella fase della mediazione, può comunque trarre argomenti dal comportamento delle parti, non certo ai fini del decidere, ma ai fini della formulazione della proposta conciliativa, nel senso che la novella “corte” potrà dall’analisi del comportamento dei contendenti stabilire se vi è un margine di rinuncia alla proprie pretese che essi possano considerare ragionevolmente accettabile.
7. Due questioni conclusive
In conclusione di queste brevi riflessioni, appare opportuno quantomeno accennare a due ulteriori questioni: una specifica, rivolta al novello istituto, e l’altra di sistema.
La pima questione, quella specifica, attiene ancora una volta al ruolo del giudice nella conciliazione.
Non può sottacersi, infatti, che allorché venne introdotto l’art. 185-bis nel codice di rito (su cui, come detto, si modella il neo-introdotto art. 48-bis.1 del d.lgs. n. 546/92), la dottrina processualcivilistica ebbe ad osservare che «il cumulo di funzioni facilitative, valutative e aggiudicative a un tempo in capo alla medesima persona, come avviene nell’art. 185 bis c.p.c., non è mai un buon metodo per ricercare un’equa composizione della lite»[20]. Ed, invero, tutte le considerazioni dianzi fatte in ordine al complesso equilibrio che il giudice deve cercare di mantenere nel formulare una proposta conciliativa che sia, al contempo, idonea a suscitare la composizione della lite senza però manifestare anticipazioni del suo giudizio, dimostrano che in effetti il ruolo di conciliatore si addice maggiormente ad un organo “terzo”, diverso dal giudicante. Per cui - probabilmente - la soluzione migliore sarebbe stata quella di ipotizzare la figura di un giudice “conciliatore” esterno al giudizio che avrebbe così goduto di un più ampio margine di manovra senza avere il timore di compromettere la sua imparzialità.
Soluzione – questa – che pure era stata prospettata con la proposta di emendamento 2.38 all’A.S. 2636 (del 19 luglio 2022, a firma Pittella, Comincini, Mirabelli), che prevedeva di aggiungere dopo l’art. 48-bis.1, il 48-bis.2, a mente del quale le parti avrebbero potuto presentare al giudice una richiesta di apertura di una procedura conciliativa che, se accolta, sarebbe stata «curata da un apposito collegio giudicante» (composto da un presidente magistrato, da un membro designato dell’Amm. fin. e da un membro individuato dal contribuente fra gli avvocati e i commercialisti iscritti in un apposito albo).
Seppur l’intendimento dell’emendamento era in linea di massima condivisibile, la procedura prevista appariva però troppo complessa ed eccessivamente articolata. La conciliazione dell’apposito collegio giudicante (organo terzo), infatti, non era alternativa a quella del giudice, ma ad essa si cumulava (come detto l’emendamento prevedeva di aggiungere l’art. 48-bis.2 e non di sostituire il 48-bis.1), compromettendo eccessivamente il necessario requisito della celerità del giudizio. D’altro canto è difficile comprendere il motivo per cui, una volta che sia prevista l’apposita figura di un collegio di conciliazione esterno, debba essere mantenuta la funzione conciliativa anche in capo al iudex statutor.
Meglio sarebbe stato, forse, escludere la figura del “giudicante-conciliatore”, attribuire esclusivamente ad organo terzo la funzione conciliatrice e mantenere soltanto la previsione per cui, laddove la sentenza finale fosse risultata per la parte non accettante più sfavorevole rispetto alla proposta conciliativa, il giudicante avrebbe ad essa addebitato le spese in misura maggiorata.
La seconda questione attiene al valore-soglia delle liti conciliabili.
Le riflessioni versate in queste pagine (se condivise) ci convincono che il valore della lite poco ha a che fare con la sua conciliabilità. Un lite di modico valore, infatti, potrebbe non avere alcun grado di incertezza solutoria, essendo immediatamente chiaro chi abbia torto e chi ragione. Di contro una lite di valore elevato potrebbe avere tutte quelle caratteristiche, dianzi individuate, che comportano la necessità per il giudice di cercare una composizione adottando i canoni della ragionevole giustezza e della ragionevole accettabilità.
La questione, pertanto, si riduce ancora una volta all’individuazione del corretto perimetro delle liti conciliabili.
Se si ritiene che liti di facile e pronta soluzione siano quelle in cui il giudicante ha ben chiaro dove sta la ragione (anche parziale) e dove il torto (anche parziale), può avere un senso fissare un valore-soglia, poiché l’intendimento del legislatore sarebbe stato esclusivamente quello di concepire un istituto che possa sveltire la soluzione di queste ultime controversie, con esclusivo scopo deflattivo del contenzioso. Altrimenti detto, per le liti di modico valore, o comunque di valore contenuto (entro i cinquantamila euro), l’esigenza di amministrare giustizia cederebbe il passo all’esigenza deflattiva, per cui il giudice, anche se ha chiaro come decidere, può formulare una proposta conciliativa con il solo scopo di indurre la parte che riterrà (in tutto o in parte) soccombente ad accettarla, con l’obiettivo di chiudere la lite quanto prima. Rimane, però, il pesante fardello del vulnus al principio costituzionale d’imparzialità – che non viene certamente meno in ragione del valore contenuto della lite – poiché una siffatta proposta conciliativa suonerebbe più o meno come una vera e propria anticipazione di giudizio.
Viceversa, se si ritiene, come pensiamo debba farsi, che la conciliazione debba riguardare tutte le liti che presentano le caratteristiche che abbiamo cercato di descrivere in queste pagine (fluidità del decidere, margine di incertezza all’interno di un intervallo che è suscettibile di essere composto mediante una proposta che il giudice considera ragionevolmente giusta e ragionevolmente accettabile, ecc.), il valore della lite non sembra parametro che possa impattare su quelle caratteristiche, per cui la conciliabilità o meno della controversia non dovrebbe dipendere da un valore-soglia.
Invero, mutatis mutandis, analoghe considerazioni potrebbero farsi per l’istituto della mediazione, soprattutto in ragione del collegamento che il legislatore del 2022 ha creato fra la novella conciliazione del giudice e (l’ormai tradizionale) istituto del reclamo-mediazione. Considerazioni che, però, non attengono all’oggetto del presente contributo e che si rimandano pertanto ad ulteriori riflessioni.
[1] Di «storica introduzione di una magistratura tributaria di ruolo costituita da giudici a tempo pieno» parla M. BASILAVECCHIA, Riforma del processo tributario. Adesso ci siamo! (quasi)…, in IPSOA Quotidiano, 3 settembre 2022. Con toni fortemente critici avverso il disegno di legge di riforma si era invece espresso C. GLENDI, Riforma della giustizia tributaria. PNRR a rischio?, in Ipsoa Quotidiano, 4 giugno 2022, definendolo come «mini controriforma» con un contenuto che «risulta improntato, nell’insieme, in una proiezione di stampo ideologicamente verticistico ed autoritaristico, se non addirittura, vagamente totalitaristico e illiberale o, comunque, nient’affatto democratico».
[2] G. MELIS, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in questa rivista, 30 giugno 2022, definisce il d.d.l. AS 2636 (sostanzialmente recepito nella legge n. 130 del 2022) come «una riforma “ordinamentale” con talune innovazioni processuali». Anche A. GIOVANARDI, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo in avanti o disastrosa iattura?, in Riv. telematica di dir. trib., 8 luglio 2022, definisce il d.d.l. in questione come una «riforma ordinamentale» che contiene la «riscrittura di alcune regole del processo». Sulle innovazioni in tema di prova apportate dalle riforma si veda S. MULEO, Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in questa rivista, 20 settembre 2022.
[3] Così A. TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator: proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., precognizione e ricusazione del giudice, in Riv. dir. proc., 2015, 983 ss.
[4] Sul tema la letteratura tributaria è ricchissima e non è possibile, in questa sede, indicarla compiutamente. Si richiamano, dunque, due recenti interventi in materia, rimandando all’amplia bibliografia ivi citata. In particolare si veda C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, in Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele (a cura di A. Guidara), Torino, 2021, 424 ss.; A. GUIDARA, Gli “oggetti” del processo tributario, in Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele cit., 436 ss.
[5] Così A. TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator cit., 985.
[6] Proprio in ragione ciò è da ritenere che il nuovo art. 48-bis.1 avrà un notevole impatto sulla vexata quaestio (che in questa sede non può essere esaminata) della natura giuridica della conciliazione in ambito fiscale e dei suoi rapporti con il principio di indisponibilità del tributo. Per un essenziale riferimento a tale questione si veda G. CORASANITI, Mediazione e conciliazione nel processo tributario: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., n. 3/2020, 965 ss., e la bibliografia ivi richiamata.
[7] Sul tema dei rapporti fra imparzialità del giudice e conciliazione giudiziale nel rito civile, senza alcuna pretesa di esaustività, si veda V. CAVALLONE, «Un frivolo amor proprio». Precognizione e imparzialità del giudice civile, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, Milano 2005, 45 ss; L. BREGGIA, Il tentativo di conciliazione e l’imparzialità del giudice, in Giur. merito, 2008, 571 ss.; A. TEDOLDI, op. cit., 987 ss.
[8] Per qualche essenziale riferimento al tema nella dottrina processualcivilistica, si veda F. FERRARI, sub art. 185 bis, in Consolo (diretto da), C.p.c. commentato, I, Milano, 2013; P. BONETTI, Nuovi orizzonti applicativi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. dopo l’introduzione della conciliazione giudiziale ex art. 185 bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ. 2015, 1047 ss.; A. TEDOLDI, op. e loco cit. Si vedano anche i riferimenti bibliografici della nota precedente.
[9] Il tema è ampiamente trattato da A. TEDOLDI, op. cit. 983 ss.
[10] Cfr. A. TEDOLDI, op. cit. 990 ss. ed i richiami bibliografici ivi citati.
[11] Come osserva A. TEDOLDI, op. cit., 994, «[i]n ogni caso, la “precognizione” impediente un secondo giudizio, come gli altri motivi di astensione obbligatoria e di ricusazione, nasce di regola ab extra rispetto al singolo processo assegnato a quel giudice-persona, per aver egli conosciuto aliunde del thema decidendum sottoposto al suo giudizio, in una delle molteplici vesti che il n. 4 dell’art. 51 c.p.c. individua, nel solco di ultrasecolare tradizione».
[12] A riguardo, la dottrina processualcivilistica ha chiarito che il divieto di «precognizione» ha la medesima ratio ispiratrice del divieto di scienza privata. In tal senso V. CAVALLONE, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. dir. proc. 2009, 861 ss.
[13] Cfr. ancora TEDOLDI, op. cit., 994, il quale osserva che «[l]a cognizione acquisita all’interno del processo, di regola, non può esser causa di astensione o di ricusazione, salvo che il giudice, abusando dei proprii poteri, non abbia manifestato un anomalo pregiudizio verso una parte, tale da far sorgere in questa un fondato timore di prevenzione […]».
[14] Come osserva F. CIPRIANI, Come si istruisce senza conoscere e come si giudica senza istruire (l’istruttore, il collegio e le sezioni distaccate di tribunale), in Foro it. 1999, I, 3376 ss., «non vi è ostacolo, anzi è perfettamente logico, che il giudice il quale ha pronunziato nella causa un provvedimento preparatorio o di istruzione, o una sentenza interlocutoria, conosca anche delle questioni incidentali successive e del merito; poiché la pronunzia dei detti provvedimenti è parte di attuazione di quel potere giurisdizionale che a lui compete di esercitare sulla controversia; e quand’anche il contenuto del provvedimento anteriore vincoli il giudizio, in tutto o in parte, ciò avviene per conseguenza legale e naturale dell’esercizio della funzione giudiziaria e non può dar luogo a ricusazione».
[15] Sul punto cfr. C. GLENDI, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato (articolo 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari), in dir. prat. trib., 1999, I, 99 ss.
[16] Così A. TEDOLDI, op. cit., 985.
[17] Su queste tematiche, quanto alla dottrina tributaria, il riferimento non può che correre a M. VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007; ID. Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, Perugia, 1996; Id., Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001.
[18] Su questi temi sia consentito il riferimento ad A. PERRONE, Fatto fiscale e fatto penale: parallelismi e convergenze, Bari, 2012.
[19] Con ciò non si intende sostenere che, nel rito tributario, l’istituto in commento sia applicabile alle sole questioni in fatto, ma che esse, proprio in ragione delle modalità di ricostruzione del fatto fiscale, sono quelle che maggiormente si prestano all’applicazione della conciliazione del giudice.
[20] Così A. TEDOLDI, op. cit., 988.
Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti
Convegno del Dottorato di ricerca in «Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali»
Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Giurisprudenza – Sede di Rovigo, Palazzo Angeli, c.so del Popolo 149, Rovigo 13 e 14 ottobre 2022
Ai sensi dell'art. 19, par. 3, del Trattato istitutivo dell'Unione europea, la Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale «sull'interpretazione del diritto dell'Unione europea o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni [dell'Unione]». I relativi procedimenti, disciplinati dall'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e comunemente designati con l'espressione «rinvio pregiudiziale», possono (o debbono) essere attivati su domanda di una giurisdizione di uno degli Stati membri.
Nelle parole della Corte di giustizia, il rinvio pregiudiziale è «la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati», che permette all’ordinamento dell’Unione di mantenere la propria autonomia e peculiarità.
Per la Corte costituzionale italiana, il rinvio pregiudiziale «concorre ad assicurare e rafforzare [quel]l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali», ovvero il primato stesso del diritto dell’Unione.
La rilevanza del rinvio pregiudiziale, dunque, lungi dall’esaurirsi nel perimetro dei profili squisitamente “comunitari”, investe il sistema giuridico nazionale nella sua interezza. Esso costituisce il meccanismo che ha permesso, e tutt’ora permette, di sancire i più importanti principi dell’ordinamento dell’Unione europea, nonché di tutelare i diritti dei singoli attraverso un continuo adattamento e dialogo tra le legislazioni nazionali e quella dell'Unione europea.
A dimostrazione del suo rilievo “sistemico”, la dottrina è arrivata a definire il rinvio pregiudiziale una «procedura di infrazione dei cittadini», «un élément sacro-saint de l’héritage juridique européen», nel contempo però non esitando a considerarlo «victime de son succès», alla luce delle tensioni di cui la sua proposizione è sovente espressione, tensioni che vengono ora superate e sopite, ora acuite ed accentuate, dalle sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia per rispondere ai quesiti che i giudici nazionali le sottopongono.
Si dice che la Corte di giustizia temesse che la procedura pregiudiziale – nata sulla scorta di diversi modelli, ma certamente su forte impulso della delegazione diplomatica italiana, almeno con riguardo al rinvio interpretativo – potesse risolversi in un fallimento, rimanendo sostanzialmente disapplicata; e che il timore fosse così forte e sentito che il deposito del primo quesito, proposto da un giudice olandese nel 1961, fu festeggiato commissionando l'acquisto di una cassa di champagne. Vero o falso che sia l’aneddoto, quel che è certo è che, da allora, il contenzioso pregiudiziale non si è più fermato, con oltre 11.000 procedimenti complessivamente instaurati su iniziativa di giudici appartenenti a tutti gli Stati membri dell’Unione (di cui più di 1.400 promossi da giudici italiani), costituenti attualmente il 67% del carico di lavoro della Corte di giustizia.
A sessant’anni esatti dalla sentenza che si pronunciò su quel primo, storico, rinvio, il Dottorato ferrarese in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali dedica il convegno annuale al rinvio pregiudiziale e all'impatto che esso ha avuto e continua ad avere sull’ordinamento italiano, in ossequio alle proprie salde radici “comunitarie” e alla sua vocazione a indagare i diversi settori dell’ordinamento nazionale e le loro intersezioni con il diritto dell’Unione europea.
L’evento congressuale è stato preceduto da un’ampia attività di ricerca e catalogazione di tutti i rinvii pregiudiziali italiani dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona (1° dicembre 2009) al 31 dicembre 2021, compiuta dalle dottorande e dai dottorandi attualmente iscritti.
Esso vede la partecipazione di accademici, giudici e professionisti e mira a riflettere, in termini interdisciplinari, sulla disciplina presente e futura del rinvio pregiudiziale, nonché sulla sua capacità di far evolvere i diversi settori del diritto interno.
La prima sessione sarà dedicata allo studio dell’istituto giuridico, dalle sue origini ai suoi più recenti (e futuri) sviluppi, con particolare attenzione alla sua attitudine a stimolare il dialogo ed il confronto tra Corti supreme, nonché ad ispirare la creazione di analoghi modelli a livello nazionale.
La seconda sessione volgerà lo sguardo ai singoli settori del diritto interno, per misurare in concreto il suo impatto sistematico e la sua influenza sull'interpretazione e sull'applicazione giurisprudenziale dei principi, degli istituti, delle disposizioni normative che tali settori concorrono a comporre, nonché la sua effettiva capacità di vincolare l’agire di giudici, dell’Amministrazione, del legislatore e, più in generale, di cittadini e imprese.
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