ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Abuso d’ufficio e “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge”. In margine a Cassazione Sez. VI n. 37341/2022, osservazioni sul problema della integrazione della norma penale con l’ordinamento amministrativo
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Posizione del problema - 3. I fatti - 4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema - 5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale.
1. Introduzione
La sentenza in esame è di un certo interesse, perché riconosce che vi sia abuso d’ufficio nel rilascio di un permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore comunale e, in continuazione (art. 81 c.p.), nell’atto di rifiuto di accesso ai documenti, adottato al di fuori delle ipotesi in cui si potrebbe escludere l’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
In questo modo, la sentenza contribuisce a individuare le “specifiche regole di condotta” che oggi figurano nel nuovo testo dell’art. 323 del c.p., riformato dall’art. 23 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
L’esame della sentenza offre dunque l’occasione di riflettere sulla nuova versione, nella parte che più interessa il diritto amministrativo.
2. Posizione del problema
Oggi il testo dell’art. 323 è il seguente “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni” [i].
Come si vede, al centro della nuova norma figura l’espressione per cui l’abuso è in violazione di “specifiche regole di condotta”. Questa formula costituisce la parte essenziale dell’abuso e pertanto è fondamentale per intenderne la fattispecie. Pone all’interprete il problema di identificare con esattezza la norma violata. In questa prospettiva, la norma è chiara nell’escludere i “margini di discrezionalità” e dunque la giurisprudenza di esordio esclude il vizio di eccesso di potere; altresì, poiché l’art. 323 c.p. menziona regole “espressamente previste dalla legge”, si tende ad escludere tutte le norme secondarie e, talora, i principi[ii].
L’interpretazione prevalente, dunque, si va ispirando a una lettura restrittiva.
In questa prospettiva, che significa “specifica regola di condotta” ?
E quale norma dell’ordinamento amministrativo può venire a costituirla come “specifica”, integrandosi nella norma penale, con un certo valore e significato, restituendo all’abuso d’ufficio un senso compatibile con i principi dell’ordinamento penale e di quello amministrativo?
Sono i problemi dell’integrazione. Affiorano dal nuovo testo e sono ben esemplificati nei due casi particolari decisi dalla sentenza in commento.
3. I fatti
Un funzionario comunale rilasciava un permesso di costruire in sanatoria e poi rifiutava la domanda di accesso ad un soggetto terzo, controinteressato, poi “denunciante” [iii].
In particolare, quanto al primo fatto, il permesso veniva rilasciato in violazione dell’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale, in assenza di un piano di recupero e in contraddizione con un parere comunale interlocutorio, che consigliava di approfondire la questione.
Il permesso di costruire riguardava la costruzione di un portico, che ricade in una zona di “antica formazione”, nella quale, per l’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del p.r.g., l’edificazione è sottoposta alla adozione di un piano di recupero e ad un parere comunale. Nei fatti, il piano di recupero non è stato adottato e il parere manca (al suo posto c’è solo una sorta di parere sospensivo, che consiglia di approfondire la questione). Ne consegue, per la sentenza, che il permesso è adottato in “assenza” del piano e in assenza del parere, e, dunque, che è in “contrasto con le norme di piano”. Precisamente, risulta in contrasto con l’art. 13 delle norme tecniche e, di conseguenza, con l’art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001. Difatti, secondo la sentenza, la disposizione del piano regolatore “integra la disciplina di legge relativa alla concessione del permesso di costruire”. Si ricorda che nel testo unico dell’edilizia l’art. 12 è norma legislativa e prevede che “Il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.”
Si tratterebbe dunque di un caso di eterointegrazione, sul quale si tornerà, perché potrebbe rappresentare un problema, con più soluzione aperte, rispetto ai principi di legalità e di interpretazione della legge penale e della norma extrapenale.
Quanto al secondo fatto, il rifiuto di accesso era motivato per esigenze di privacy, ma in appello si accertava che “non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti”. Dunque, secondo la sentenza, non si applica l’ipotesi prevista dall’art. 24, secondo comma, lett. d), della legge n. 241 del 1990, che permette di escludere il diritto di accesso quando i documenti riguardino la “vita privata o la riservatezza”. Di conseguenza, l’atto di rifiuto che non risponde ai casi dell’art. 24 è “integralmente privo di una base legale”. La regola specifica che poi la sentenza ricava è che l’accesso era consentito, il che deriva dal principio per cui al di fuori del limite tutto è visibile, ai sensi dell’art. 22. Anche su questo aspetto si tornerà.
4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema
I problemi specifici che sorgono dal caso di specie sono in fondo comuni alle questioni decise dalle prime sentenze rese sul nuovo testo e manifestano tutta la difficoltà di identificare le “specifiche regole” utili a integrare la fattispecie dell’art. 323 c.p. Per esempio, la prima decisione nota è Cassazione sez. VI 8 gennaio 2021 n. 442, che sembra importante per i principi e i limiti che imprime all’abuso. Anzitutto, il fatto è costituito da un atto di un commissario straordinario che riorganizza una Ausl, riducendo una struttura da complessa a semplice, ma con l’effetto di demansionare il direttore della struttura; nella specie, la Cassazione stabilisce che non vi è responsabilità, perché l’atto in questione è discrezionale e, soprattutto, non viola una regola “cogente” e “puntuale”; più ampiamente, in obiter dictum, la Sezione stabilisce che la nuova fattispecie è più restrittiva di quella precedente, sottraendo al giudice penale la “inosservanza dei principi generali” e di “ogni fonte normativa di tipo regolamentare”, escludendo persino “il classico schema della eterointegrazione, cioé della violazione mediata di norme di legge interposte”. Questa prima sentenza della Cassazione fa dunque trasparire con immediatezza anche i due problemi che sono specifici alla decisione presa con la sentenza in commento.
Può la “specifica regola” essere costituita da un principio ?
Può la specifica regola di condotta essere costituita dalla eterointegrazione di una norma di legge che viene interposta ?
Per esempio, quanto ai principi e sempre osservando le prime decisioni, Cass, Sez. VI 15 aprile 2021 n. 14214 esclude la violazione dell’art. 97 Cost., nel caso di un concorso bandito dall’Università per il conferimento di un incarico, pur davanti ad uno “sbilanciamento” a favore di un candidato (cd. “favoritismo privato”), emergente da vari indizi nella redazione dei criteri e nella valutazione delle domande; la sentenza riconosce che ad essere violato potrebbe essere, in astratto, il principio di imparzialità, ma che esso non rientra nell’art. 323 c.p., perché nell’oggetto dell’art. 97 Cost. non sono contemplate regole di condotta.
Si pone dunque un problema di esatta identificazione della norma violata. Su questo punto, sembra pertinente Cass. Sez. VI, 1 marzo 2021 n. 8057. E’ il caso di un funzionario che affida un appalto senza gara, dichiarando un importo sottosoglia, che però veniva appositamente alterato, omettendo il calcolo di alcune componenti; in questo caso la Cassazione identifica la noma violata nell’art. 125 del codice degli appalti pubblici e quindi ne trae la violazione di una “specifica regola di condotta”.
Il problema emerso consente alcune osservazioni teoriche.
5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale
Come si vede, la giurisprudenza di esordio rivela tutte le difficoltà e le incongruenze della nuova norma. Ne coglie però lo spirito: quello di intendere l’abuso in un senso restrittivo. Quello della restrizione è un criterio utile per identificare la “specifica regola di condotta”, il più grande interrogativo dell’abuso odierno.
In questa prospettiva, il caso deciso dalla sentenza rappresenta un buon esempio. Il caso, come visto, pone due problemi specifici e distinti: il problema della eterointegrazione della specifica regola di condotta e quello del rapporto tra regola e principio. In comune ai due termini- regola specifica e principio- c’è il problema generale della integrazione della norma penale con un elemento extrapenale, che deriva dall’ordinamento amministrativo. Sullo sfondo, dunque, c’è un problema di interpretazione e di legalità, in senso sostanziale.
Si svolgono qui alcune brevi osservazioni, al solo scopo di mostrare la dimensione dei problemi e di far intravedere alcune soluzioni.
Aprendo il capitolo della integrazione in materia penale, bisogna separare il caso dell’art. 323 c.p. dalle altre specie di integrazione, come la norma penale in bianco o il caso dell’illecito penale che stabilisce il rinvio esplicito a disposizioni extrapenali, come regolamenti, atti amministrativi, leggi regionali, e, nel contenuto, richiama standard, criteri, soglie, parametri, ovvero misure integrative di un precetto già determinato dalla legge penale, nella misura ristretta riconosciuta dalla logica della prevalente giurisprudenza della Corte costituzionale, per cui l’integrazione è ammissibile solo se la norma incriminatrice rinvia ad una disposizione precisamente denominata e soprattutto solo se la norma penale determina il nucleo essenziale della condotta, mentre la disposizione diversa può solo determinare un particolare della condotta[iv]. In ogni caso, si tratta di un rinvio a un termine eterogeneo e quindi spesso presuppone un concorso di fonti, molto visibile per esempio nelle sanzioni amministrative, in cui però il fondamento costituzionale cambia, spostandosi dall’art. 25 Cost. all’art. 23 Cost., dove la riserva di legge è relativa.
Rispetto a queste figure, la specie giusta in cui inserire il caso delle “specifiche regole di condotta” del nuovo art. 323 è la categoria dell’elemento normativo extrapenale. E’ contemplato dalla stessa norma penale. La norma lo assume in sé, quale sua parte integrante, a costituire direttamente il precetto penale; è il caso dei fatti di reato che sono costituiti dalla mancanza di un provvedimento amministrativo o dalla violazione di un provvedimento amministrativo o infine dalla violazione di una norma amministrativa; per esempio i reati ambientali o la precedente versione dell’abuso, che prevedeva la “violazione di norme di legge o di regolamento”. Questo caso, dunque, è diverso dagli altri: mentre quelli visti prima designano un rinvio ad altro ordinamento e spesso provocano un concorso di fonti, questo caso, concettualmente, presuppone che la norma penale assuma in sé l’elemento extrapenale[v]. Questo elemento diventa una parte del precetto. Rappresenta una forma di integrazione o, talvolta, si vedrà, di incorporazione.
Il caso dell’art. 323 c.p. può dunque appartenere a questa categoria, con una precisazione: qui l’elemento che viene incorporato, l’elemento normativo extrapenale, è la specifica regola di condotta ed è di rango legislativo, perché l’art. 323 vuole “specifiche regole”, “espressamente previste dalla legge”. La norma dell’art. 323 c.p. sembra dunque conforme all’art. 25 Cost. e alla riserva assoluta di legge.
Può dirsi lo stesso dal punto di vista della determinatezza e del principio di legalità in senso sostanziale?
Qui l’interprete è sfiorato dal dubbio che l’art. 323 c.p. non abbia quella “autonomia precettiva” richiesta dalla Corte costituzionale per soddisfare il principio di legalità sostanziale (C. cost. n. 199/1993). Certo è che la nuova formulazione dell’art. 323 ha un difetto, perché allude a “specifiche regole di condotta” e le nomina senza indicarle: l’art. 323 non è autosufficiente. E infatti ha bisogno di una integrazione extrapenale, che si trae dalle norme dell’ordinamento amministrativo. Il che significa, sul piano dell’interpretazione, che la norma penale va integrata con la norma amministrativa, nel senso che “l’una non può vivere senza l’altra” (C. cost. n. 199/1993). Dunque l’art. 323 c.p. non è una norma autonoma e suppone una certa integrazione. Per questo lascia aperto un interrogativo di fondo: quale è la “regola specifica”?
E ancora: il suo essere specifica che senso o valore può acquistare nel momento della integrazione tra norme?
Le norma penale, in sé considerata, non dà una risposta a questo problema di integrazione. Pertanto, si può leggere questa integrazione non come relazione tra norme ma come relazione tra due ordinamenti, tra ordinamento penale e ordinamento amministrativo, considerando che il bene giuridico protetto è comune ed è l’art. 97 Cost.; dunque non resta che vedere come quella relazione si possa atteggiare e questo, secondo la teoria generale, può avvenire solo in due modi: come dipendenza o come indipendenza dell’ordinamento penale, ovvero, si vedrà, come integrazione o come incorporazione dell’art. 97 Cost.
Prima ipotesi, l’integrazione: se si ritiene che l’ordinamento penale sia dipendente dall’ordinamento amministrativo, è possibile tutelare l’art. 97 Cost. integrando l’ordinamento amministrativo nell’ordinamento penale e allora il giudice penale – per un principio di collateralità con l’ordinamento di riferimento- può ragionare come il giudice amministrativo e quindi può trasfondere i principi in regola specifica o trasfondere una regola amministrativa in una norma di legge, ovvero, nel caso deciso, può trasfondere in regola il principio di trasparenza oppure può trasfondere l’art. 13 del piano regolatore nell’art. 12 del Testo unico dell’edilizia, compiendo una eterointegrazione. Ovvero: la regola extrapenale vive nell’abuso come regola amministrativa, perché in ogni caso è un riflesso dell’art. 97 Cost.
Seconda ipotesi, l’incorporazione: se la relazione di base si atteggia a indipendenza dell’ordinamento penale, la norma penale protegge l’art. 97 Cost. a modo suo e quindi incorpora la norma amministrativa e la trasfigura, la rende omogenea, come se fosse una norma penale e, così, la assoggetta alla regola della stretta interpretazione e la determina come “specifica regola” dell’abuso. Il che significa che qui l’interpretazione deve generare sempre una regola che sia “specifica” nel senso che deve essere ben visibile, già in anticipo. Il che porta a determinarne il senso con un criterio preciso: quello di scoraggiare una lettura dell’art. 323 c.p. che faccia uso di una ulteriore eterointegrazione, come quella di una norma legislativa edilizia con una disposizione di p.r.g che è secondaria; e lo stesso può valere per il principio di trasparenza che diventa regola specifica dell’accesso. Una interpretazione del genere, in eterointegrazione ed in estensione, potrebbe risolversi in un risultato contrario al principio di legalità sostanziale: quello di non fare comprendere in anticipo quale sia il fatto punito dalla legge penale; ovvero, nell’art. 323, quale sia la “specifica regola” espressamente prevista dalla legge. Per questo motivo, sembra preferibile un’interpretazione che dia un risultato netto. Così, nella incorporazione penale, nella scelta e nella interpretazione della norma amministrativa e del suo ordinamento, par meglio identificare ed elaborare una regola che sia adeguata alla legge penale, una regola che dia il precetto della condotta, che si risolva in un preciso dovere giuridico, senza alternative; e non a caso l’art. 323 c.p. esclude la discrezionalità. Sarebbe solo questa la scelta interpretativa che l’incorporazione dell’art. 323 c.p. permette di realizzare. Ovvero, in altro piano, il margine di creatività insito in questa interpretazione, alla luce del principio di legalità sostanziale.
Quest’ultima tesi sembra a chi scrive maggiormente aderente al principio di legalità sostanziale, per un motivo molto semplice, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Nel principio, infatti, vi è tutta l’idea della determinatezza, un ’idea di precisione semantica e di rispondenza alla realtà, anche alla realtà normativa extra penale.
La lunga storia dell’abuso nelle sue precedenti versioni invita a questa prudenza ermeneutica.
[i] Sulla nuova fattispecie, limitatamente ai profili di diritto amministrativo, a livello monografico, v. S. PERONGINI, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020”, Torino, 2020, e, nella dottrina più recente, per una impostazione teorica del problema della responsabilità penale, v. G. BOTTINO, Il conflitto tra il legislatore e la giurisprudenza come causa della “burocrazia difensiva”, la responsabilità penale per “abuso d’ufficio” come paradigma, Il lavoro nelle pubbliche Amministrazioni, n. 2/2022, pag. 242 ss. In questa Rivista: v. R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio eclettico, Giustiziainsieme, 22 luglio 2020. A livello di studi e seminari, v. M.A. SANDULLI (a cura di), Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, Webinar del 13 luglio 2020.
[ii] v. C. cost. sentenza 8/2022: “La norma censurata, infatti, richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare margini di discrezionalità, nega rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere, con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale - specie nel raffronto con la "norma vivente" come disegnata dalle interpretazioni giurisprudenziali -, operanti, come tali, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi).”; v. anche Cass. Sez. VI 8 gennaio 2021 n. 424, meglio analizzata nel par. 4.
[iii] “in violazione dell'articolo 13 delle Norme Tecniche di Attuazione al P.G.T. del Comune di Marone, rilasciava indebitamente (e con tempi insolitamente rapidi, domanda del 5 febbraio 2015), il permesso di costruire in sanatoria n. 4979 del 23 febbraio 2015 a (OMISSIS), nonostante il parere sospensivo emesso dalla commissione edilizia nella seduta del 5 febbraio 2015 in ragione di una piu' attenta valutazione delle opere edilizie oggetto delle difformita'; - in violazione della L. n. 241 del 1990, articolo 22 perche' negava accesso alle pratiche edilizie delle quali il denunciante (OMISSIS) aveva richiesto copia, in mancanza di motivi ostativi, atteso che non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti, come confermato dalla sentenza del Tar Lombardia Brescia sentenza 009904/2016, rifiutava indebitamente un atto del suo ufficio, che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo, cagionando un ingiusto profitto a (OMISSIS), nel mantenere le opere edili abusive, e un danno ingiusto a (OMISSIS), consistito nel ricevere un ingiustificato e illegittimo diniego di accesso alla documentazione di cui aveva diritto di accedere e prenderne copia.”
[iv] v. C. cost. Sent. n. 199/1993, C. cost. Sent. n. 282/1990, C. cost. Sent. n. 58/75 e, di recente, C. cost. Sent. n. 5/2021, C. cost. sentenza n. 134/2019.
[v] Cfr. A. CIOFFI, Eccesso di potere e violazione di legge nell’abuso d’ufficio. Profili di diritto amministrativo, Milano, 2001, 38 ss.
Scheda n. 1 - Sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato (art. 420 quater c.p.p. e ss.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’obiettivo della riforma è quello di prevedere che, quando non sono soddisfatte le condizioni per procedere in assenza dell'imputato, il giudice pronunci sentenza inappellabile di non doversi procedere, stabilendo, altresì, che, fino alla scadenza del doppio dei termini individuati nell'articolo 157 c.p., una volta rintracciata la persona ricercata, ne sia data tempestiva notizia all’autorità giudiziaria e che questa revochi la sentenza di non doversi procedere e fissi nuova udienza per la prosecuzione del procedimento.
SENTENZA DI NON DOVERSI PROCEDERE PER MANCATA CONOSCENZA DELLA PENDENZA DEL PROCESSO DA PARTE DELL’IMPUTATO (ART. 420-QUATER C.P.P.)
TESTO RIFORMATO |
Art. 420-quater c.p.p. - Sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. 1. In caso di regolarità delle notificazioni e fuori dei casi previsti dagli articoli 420-bis e 420-ter, se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. 2. La sentenza contiene: a) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata; b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo, nonché le generalità delle altre parti private; c) l’imputazione; d) l’indicazione dell’esito delle notifiche e delle ricerche effettuate; e) l’indicazione della data fino alla quale dovranno continuare le ricerche per rintracciare la persona nei cui confronti la sentenza è emessa; f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati; g) la data e la sottoscrizione del giudice. 3. Con la sentenza il giudice dispone che, fino a quando per tutti i reati oggetto di imputazione non sia superato il termine previsto dall’articolo 159, ultimo comma, del codice penale, la persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza sia ricercata dalla polizia giudiziaria e, nel caso in cui sia rintracciata, le sia personalmente notificata la sentenza. 4. La sentenza contiene altresì; a) l’avvertimento alla persona rintracciata che il processo a suo carico sarà riaperto davanti alla stessa autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza; b) quando la persona non è destinataria di un provvedimento applicativo della misura cautelare degli arresti domiciliari o della custodia in carcere, l’avviso che l’udienza per la prosecuzione del processo è fissata: 1) il primo giorno non festivo del successivo mese di settembre, se è stato rintracciato nel primo semestre dell’anno; 2) il primo giorno non festivo del mese di febbraio dell’anno successivo, se è stato rintracciato nel secondo semestre dell’anno; c) l’indicazione del luogo in cui l’udienza si terrà; d) l’avviso che, qualora la persona rintracciata non compaia e non ricorra alcuno dei casi di cui all’articolo 420-ter, si procederà in sua assenza e la stessa sarà rappresentata in udienza dal difensore. 5. Alla sentenza si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 546. 6. Decorso il termine di cui al comma 3 senza che l’imputato sia stato rintracciato, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata. 7. In deroga a quanto disposto dall’articolo 300, le misure cautelari degli arresti domiciliari e della custodia in carcere perdono efficacia solo quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6. In deroga a quanto disposto dagli articoli 262, 317, 323, gli effetti dei provvedimenti che hanno disposto il sequestro probatorio, il sequestro conservativo e il sequestro preventivo permangono fino a quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6. |
La nuova pronuncia di cui all’art. 420-quater definisce il procedimento, sicché il destinatario della medesima non è più imputato.
Con la pronuncia della sentenza si apre un periodo di ricerca del prosciolto, che è stato determinato nella misura del doppio dei termini stabiliti dall’art. 157 c.p. ai fini della prescrizione.
Decorso tale periodo, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata, ponendo fine alle ricerche. Per questo motivo, si prevede che la sentenza debba dare indicazione della data di prescrizione di ciascun reato.
Sul punto, è stato effettuato un connesso intervento sulle norme sostanziali in materia di prescrizione, per chiarire che per il tempo necessario alle ricerche -con il limite massimo del doppio dei termini previsti dall’art. 157 c.p.- la prescrizione resta sospesa.
Il destinatario della sentenza di non doversi procedere deve essere avvisato che il provvedimento sarà revocato e il processo sarà riaperto. Si è, quindi, previsto che la sentenza di non doversi procedere contenga l’espresso avviso della riapertura del processo. Per evitare il rischio che una volta rintracciato l’imputato e notificatagli la sentenza, alla successiva ripresa del procedimento, possano presentarsi problematiche analoghe a quelle che hanno impedito di procedere, si è previsto che nella sentenza sia anche già dato avviso all’imputato della data in cui si terrà l’udienza per la riapertura. Il destinatario, grazie alla notifica della sentenza, conosce, quindi, l’imputazione a suo carico, è informato dalla pendenza del processo, è informato che il procedimento riprenderà il suo corso ed è già messo nelle condizioni di sapere la data in cui il procedimento riprenderà. Per questo aspetto si è previsto che nella sentenza sia specificato che l’udienza per la prosecuzione del processo è da intendere sempre fissata: a) il primo giorno non festivo del successivo mese di settembre, se l’imputato è stato rintracciato nel primo semestre dell’anno; b) il primo giorno non festivo del mese di febbraio dell’anno successivo, se l’imputato è stato rintracciato nel secondo semestre dell’anno.
In ragione della circostanza che la sentenza di non luogo a procedere è una pronuncia del tutto sui generis, in quanto destinata, nella sua fisiologia, ad essere revocata, è divenuto necessario disciplinare gli effetti della sentenza sui provvedimenti cautelari, reali e personali, nonché su quei provvedimenti che sono adottati proprio in considerazione di una loro strumentalità all’accertamento in corso (come i sequestri probatori). Peraltro, rispetto all’ipotesi più grave (quella in cui sia stata emessa ordinanza di custodia cautelare e non ricorrano i presupposti per la dichiarazione di latitanza) sono state previste opportune deroghe alla disciplina della sentenza di non luogo a procedere. In ragione di ciò, si è stabilito che, in deroga a quanto disposto dall’articolo 300 c.p.p., le misure cautelari degli arresti domiciliari e della custodia in carcere non perdano efficacia, se non quando la sentenza non è più revocabile e parimenti che non perdano efficacia i provvedimenti che hanno disposto il sequestro probatorio, il sequestro conservativo e il sequestro preventivo, anch’essi fino a quando la sentenza non è più revocabile. In modo connesso si è dovuto disciplinare con un’apposita modalità la ripresa dell’udienza, almeno per il caso in cui ad essere rintracciato sia un soggetto ricercato (anche) per l’applicazione di una misura custodiale.
ATTI URGENTI (ART. 420-QUINQUIES C.P.P.)
TESTO RIFORMATO |
Art. 420-quinquies c.p.p. – Atti urgenti. 1. Finché le ricerche della persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater sono in corso, il giudice che l’ha pronunciata assume, a richiesta di parte, le prove non rinviabili nelle forme di cui all’articolo 401. Del giorno, dell’ora e del luogo stabiliti per il compimento dell’atto è dato avviso almeno ventiquattro ore prima al pubblico ministero, alla persona offesa e ai difensori già nominati nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza. 2. Per lo stesso periodo di tempo indicato nel comma 1, il giudice che ha pronunciato la sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater resta compente a provvedere sulle misure cautelari e sui provvedimenti di sequestro fino alla perdita di efficacia prevista dal comma 7 dell’articolo 420-quater. |
Si prevede che, mentre le ricerche sono in corso, il giudice che ha pronunciato la sentenza debba assumere, a richiesta di parte, eventuali prove non rinviabili. A tal fine si è previsto di fare rinvio alla disciplina dell’incidente probatorio.
REVOCA DELLA SENTENZA DI NON DOVERSI PROCEDERE PER MANCATA CONOSCENZA DELLA PENDENZA DEL PROCESSO (ART. 420-SEXIES C.P.P.)
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 420-sexies c.p.p. - Revoca della sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo. 1. Quando rintraccia la persona nei cui confronti è stata emessa sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater, la polizia giudiziaria le notifica la sentenza e le dà avviso della riapertura del processo, nonché della data dell’udienza, individuata ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lettera b), nella quale è citata a comparire davanti all’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza. 2. La polizia giudiziaria comunica alla persona rintracciata che sia rimasta priva del difensore che lo assisteva nel giudizio concluso con la sentenza, e che non provveda alla nomina di un difensore di fiducia, le generalità di un difensore d’ufficio, nominato ai sensi dell’articolo 97, comma 4, e provvede ai sensi dell’articolo 161. In ogni caso avvisa la persona rintracciata che al difensore sarà notificata la data dell’udienza individuata ai sensi del comma 1. Di tutte le attività e gli avvisi ciò è redatto verbale. 3. La polizia giudiziaria trasmette senza ritardo al giudice la relazione di notificazione della sentenza e il verbale di cui al comma 2. 4. Il giudice con decreto revoca la sentenza e, salvo quanto previsto al comma 6, fa dare avviso al pubblico ministero, al difensore dell’imputato e alle altre parti della data dell’udienza fissata ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lett. b) i). L’avviso è comunicato o notificato almeno venti giorni prima della data predetta. 5. Nell’udienza fissata per la prosecuzione ai sensi dell’articolo 420-quater comma 4, lettera b) i), il giudice procede alla verifica della regolare costituzione delle parti. Salva l’applicazione degli articoli 420 e 420-ter, si procede sempre ai sensi dell’articolo 420-bis, comma 1, lettera a). 6. Nei casi di cui all’articolo 420-quater, comma 7, quando la sentenza è revocata nei confronti di un imputato sottoposto a misura cautelare, il giudice fissa l’udienza per la prosecuzione e dispone che l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza sia notificato all’imputato, al difensore dell’imputato e alle altre parti, nonché comunicato al pubblico ministero, almeno venti giorni prima. All’udienza il giudice procede alla verifica della regolare costituzione delle parti. Si applicano gli articoli 420, 420-bis e 420-ter. |
Nel caso in cui la polizia giudiziaria rintracci il destinatario della sentenza, procederà alla notifica della stessa, fornendo ulteriori informazioni sulla riapertura del processo e dando avviso della data effettiva dell’udienza, individuata nei termini predetti.
FISSAZIONE DELL’UDIENZA PER LA RIAPERTURA DEL PROCESSO (ART. 132-TER DISP. ATT. C.P.P.)
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 132-ter disp. att. c.p.p. - Fissazione dell’udienza per la riapertura del processo. 1. I dirigenti degli uffici giudicanti adottano i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la celebrazione, nella medesima aula di udienza, il primo giorno non festivo del mese di febbraio e il primo giorno non festivo del mese di settembre di ogni anno delle udienze destinate alla riapertura dei procedimenti definiti con sentenza resa ai sensi dell’articolo 420-quater del codice, nonché alla celebrazione dei processi nei quali è stata pronunciata l’ordinanza di cui all’articolo 598-ter, comma 2, del codice. |
ADEMPIMENTI IN CASO SENTENZA DI NON DOVERSI PROCEDERE PER MANCATA CONOSCENZA (ART. 143-BIS DISP. ATT. C.P.P.)
TESTO RIFORMATO |
Art. 143-bis disp. att. c.p.p. - Adempimenti in caso di sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. 1. Quando il giudice dispone la trasmissione ai sensi dell’articolo 420-quater del codice, la relativa ordinanza e il decreto di fissazione dell’udienza preliminare ovvero il decreto che dispone il giudizio o il decreto di citazione a giudizio sono trasmessi Quando il giudice emette la sentenza di cui all’articolo 420-quater del codice, ne dispone la trasmissione alla locale sezione di polizia giudiziaria, per l’inserimento nel Centro elaborazione dati, di cui all’art. 8 della legge 1 aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni. |
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva entrata in vigore di questa parte della riforma, è stato previsto - dall’art. 89 del D.L.vo n. 150/2022 - che le nuove disposizioni relative alla disciplina della sentenza di non luogo a procedere, trovino applicazione quando il procedimento era già sospeso prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni e l’imputato non è stato ancora rintracciato. In questi procedimenti, in luogo di disporre nuove ricerche ai sensi dell’articolo 420-quinquies del codice di procedura penale vigente prima dell’entrata in vigore del decreto, il giudice provvederà ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale come modificato, con applicazione delle norme conseguenti.
Si chiarisce che, nei procedimenti che proseguono con il “vecchio rito”, si continuerà ad applicare anche la disposizione sostanziale di cui all’articolo 159, primo comma, numero 3-bis), del codice penale nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo, in relazione all’effetto sospensivo del corso della prescrizione conseguente alla sospensione del procedimento per effettuare le ricerche.
Si è anche disciplinata l’ipotesi di quei procedimenti, aventi ad oggetto reati commessi dopo il 18 ottobre 2021, che, pur proseguendo con il “vecchio rito”, non godono del limite massimo della sospensione della prescrizione previsto dal regime precedente, perché abrogato con la legge 134/2021 (entrata in vigore il 19 ottobre 2021). Per questi casi si fissa il limite massimo di durata della sospensione del corso della prescrizione oggi introdotto con il nuovo ultimo comma dell’art. 159.
Identica previsione è stata estesa alle ipotesi di sospensione già disposta alla data di entrata in vigore del presente decreto, sempre che, naturalmente, il procedimento abbia ad oggetto reati commessi dopo il 18 ottobre 2021.
La Stranezza. Recensione di Dino Petralia
In questo film della maturità Roberto Andò, non a caso regista pure di opere musicali e di teatro, realizza un prodotto che, per cast e trama prescelti, potrebbe dirsi all’apparenza ardito, ma che poi a luci spente si sostanzia nettamente come artificio vincente per spiegare con abile alchimia scenica il senso e l’efficacia del teatro.
E così, chiamando in campo uno dei geni della drammaturgia moderna, Luigi Pirandello, alle prese con l’ispirazione dei Sei personaggi in cerca d’autore, e affidando la trama al connubio recitativo composto dalla nota coppia comica Ficarra e Picone e dalla tempra interpretativa ugualmente nota di Toni Servillo, quest’ultimo nei panni del Maestro agrigentino, prende forma un accattivante mosaico narrativo, esso stesso a carattere teatrale, in cui il dominio degli eventi scenografici, a cavallo tra commedia degli equivoci e reality show, risiede tutto nel contrasto tra umorismo e tragicità.
Ed infatti, è proprio tra l’istintiva vis comica di Salvatore Ficarra e Valentino Picone - rispettivamente nel film Onofrio Principato e Sebastiano Vella - e l’elegante e meditabondo profilo scenico di Servillo (Pirandello) che prende vita un mix indistinto capace di illuminare di divertente ironia la severità di un tema così caro e irrisolto, l’ispirazione vitale dello scrittore, quella ricerca interiore che nei panni di un ormai maturo Pirandello, gravato nella vita familiare dalla condizione di squilibrio mentale della moglie Antonietta, aveva assunto i termini di una vera estenuante ossessione.
E il migliore spunto giunge al Maestro proprio dall’incontro con i due becchini - Sebastiano e Nofrio della ditta girgentana Vella & Principato - per via di un servizio funebre loro affidato in occasione della morte della sua vecchia balia. Il paradosso - che è poi la bizzarra e geniale trovata del film, ben potendo essa stessa fondare la stranezza propria del titolo - si compie nel dialogo a tre sul tema del teatro e nell’enfasi con cui i due comici, teatranti per diletto e animatori a loro volta del pittoresco contesto paesano, garbatamente arringano l’ignoto e (ai loro occhi) sprovveduto cliente, accusandolo con altrettanta ironica bonomia e cordiale presunzione di saperne davvero poco di teatro.
Paradosso che raggiunge infine il suo culmine quando Pirandello, invitato ad assistere alla scalcagnata e sostanzialmente fallita esibizione dell’altrettanto raffazzonata compagnia paesana, personalmente coinvolta in sala in uno scambio di accuse/difese col pubblico, conquista invece l’illuminazione che cercava e che darà vita al capolavoro dei Sei personaggi; un’ispirazione suscitata dall’ormai compiuta consapevolezza che il vero teatro è quello che vive nella coscienza della sua finzione, frantumando l’immaginaria quarta parete che lo separa dal pubblico e interagendo con questo in una realistica e suggestiva combinazione scenica.
Da inconsapevoli suggeritori di quel prodotto di visionaria drammaturgia, Nofrio e Sebastiano, invitati a spese di Pirandello alla prima romana al teatro Valle, non sapranno mai che la “fantasia” che aveva sollecitato il Maestro, e alla quale questi darà poi veste burlesca di “servetta” nella straordinaria prefazione che anni dopo premetterà al testo per renderne più agevole la comprensione, si agitava già nei palchi del rudimentale teatro paesano e che proprio il loro goffo insuccesso era stata occasione e ragione di una rivoluzionaria stranezza dello scrittore, fonte di un capolavoro in grado di condizionare l’intera poetica letteraria e teatrale del novecento.
Ritornati in sala a fine commedia per sfuggire alla turbolenta calca di un pubblico inferocito per ciò che era apparsa come un’insulsa e cervellotica messinscena, i due becchini si ritrovano da soli in teatro al cospetto di un palcoscenico ormai spoglio. Ed è lì che con sottile ironia si consuma la terza e ultima stranezza del film: quella scalcinata coppia non esiste né è mai esistita e lo stupefatto e perplesso Pirandello - in un Servillo al culmine della sua magistrale espressività - ne prende atto facendo consultare invano la lista degli invitati.
Erano anch’essi personaggi in cerca d’autore, fantasmi vaganti nella tormenta creativa dello scrittore che, all’unisono col vero Pirandello - cosi ne scrive nella sua fenomenale prefazione - “posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro…”.
Un film colto, dallo spunto geniale, sapientemente intrecciato nella sua stessa iperbole rappresentativa; un film siciliano, scritto da un siciliano e con veri siciliani, nel dialetto, nelle attraenti tortuosità e funamboliche intelligenze dei siciliani.
Intervista a Ciro Sesto a cura di Valentina Busiello
L’Avvocato Ciro Sesto, civilista, ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Nola. Consigliere e Segretario del COA di Nola, è stato Assessore agli Affari Sociali del Comune di Ottaviano.
Benvenuto Avvocato Ciro Sesto, ci illustra nel suo percorso professionale di Avvocato civilista, e dopo la sua carica da Presidente dell’Ordine, il suo impegno costante al servizio dei colleghi, soprattutto in termini di formazione?
Sono Avvocato Civilista a tutto tondo. Dopo la mia carica da Presidente dell’Ordine degli Avvocati del foro di Nola, continuo ad impegnarmi nella politica forense, costantemente al servizio dei colleghi per ciò che posso dare all’avvocatura. Sono Consigliere dell’Ordine degli avvocati di Nola, ed intendo continuare a mettere il mio impegno e soprattutto la mia esperienza nell’ambito della formazione, che è fondamentale per i giovani avvocati, al servizio dell’avvocatura. La mia è una visione aperta verso la politica forense, non soltanto verso il Consiglio dell’Ordine, ma soprattutto verso gli altri organi ai quali si può comunicare in sinergia, dare il proprio contributo per l’esperienza acquisita in questi anni.
Parlando della formazione, è fondamentale per i nostri giovani colleghi aggiornarsi su temi della giurisdizione che solo fondamentali. Ho ottenuto, con la mia Presidenza, il riconoscimento della Fondazione forense per la quale mi sono molto impegnato considerandola uno strumento fondamentale per la formazione non solo per gli avvocati, ma anche per la società, poiché come avvocati possiamo dare molto. Immaginiamo la formazione soprattutto dei dipendenti, degli enti locali, ecc., credo che gli avvocati possano e debbano fornire il loro contributo per la crescita sociale. La Fondazione è uno strumento importante ed il riconoscimento ottenuto è motivo di grande soddisfazione.
Avvocato Ciro Sesto, ci parla della Giustizia Civile, le varie problematiche, e le soluzioni secondo lei per arrivare ad una risoluzione?
Nel settore della giustizia civile c’è bisogno di investire risorse. Abbiamo delle difficoltà enormi. Un esempio; ad oggi nel nostro circondario ci sono situazioni di uffici del Giudice di Pace come quello di Sant'Anastasia, che sono stati chiusi per oltre 3 mesi poiché mancava il personale, una situazione inaudita, un fatto gravissimo, un diniego di giustizia. È inaccettabile che al Giudice di Pace di Sant'Anastasia ci siano oltre 1000 sentenze da pubblicare, il che significa, che sono state già redatte dal Giudice, ma che manca il cancelliere che le sottoscriva per poi pubblicarle. È una situazione che è stata portata da parte del, e come Consiglio dell’Ordine all’attenzione del Ministro della Giustizia, e del Presidente della Corte D’Appello.
Per quanto riguarda la funzionalità, si sarebbero dovute investire maggiori risorse sui cancellieri e sui giudici soprattutto, e non sul contorno, come l’ufficio del processo; so che circa 2 miliardi sono stati investiti per i neo assunti che ne fanno parte, e che probabilmente saranno anche stabilizzati, ma non credo che sia questo che possa risolvere i problemi della giustizia civile. Magari una Riforma diversa che investisse maggiormente nella digitalizzazione e nell’informatizzazione sarebbe la migliore soluzione.
Avvocato Sesto, il futuro è una evoluzione proprio nella digitalizzazione del processo sia civile che penale. Cosa ne pensa delle Riforme, e soprattutto della Riforma Cartabia?
Penso che sia uno degli elementi positivi, soprattutto quando parliamo della Riforma Cartabia. Per parlare di situazioni negative, invece, che vengono alla luce, un esempio; abbiamo un processo civile che, soprattutto nella prima fase che porta a fissare il thema decidendum, si è consolidato ed è collaudato nel tempo perché le Norme sono state passate al vaglio della Giurisprudenza. Le nuove Norme porteranno inevitabilmente al rallentamento di tutto il sistema, poiché tutte le volte che si introduce una Norma nuova c’è bisogno che passi tempo affinché possa avere applicazione uniforme ed omogenea. Ad oggi, con la Riforma del processo si addossano nuove responsabilità, nuovi adempimenti alle parti e agli avvocati, per lasciare poi ai Magistrati l’onere successivo di fare le sentenze. Quello che non è stato previsto, è il fatto che ad oggi abbiamo il cosiddetto “collo di bottiglia”, nel senso che, arriviamo all’ultima udienza in cui ci sono le conclusioni, e il Magistrato magari non è pronto per fare la sentenza poiché ha tanti fascicoli e non riesce ad incamerarli tutti, quindi cosa fa? Dispone un nuovo rinvio per la sentenza dando precedenza ai fascicoli più antichi. Un esempio: una causa dell’anno 2017 pronta per la sentenza già nell’anno 2019, ha avuto 4 lunghi rinvii perché il Magistrato aveva molte altre sentenza da emettere per fascicoli più datati, e così, probabilmente, sarà decisa solo nel 2023.
Si vuole velocizzare la prima fase del processo, per poi rimanere sempre bloccati poiché il Magistrato non riesce ad emettere le sentenze. Questo per quanto riguarda il processo di cognizione. Nel processo esecutivo, invece, vediamo delle Norme abbastanza positive, tipo la sburocratizzazione. Ad esempio: oggi per ottenere la cosiddetta “formula esecutiva”, che sarebbe il visto del Magistrato e del cancelliere per potere mettere in esecuzione il provvedimento, occorrono oltre 30 giorni. Quindi, con la Riforma, sarà l’avvocato a poter attestare la conformità ed andare avanti con le esecuzioni. È vero che la prima soluzione è maggiormente garantista a favore dell’esecutato. Però bisogna mettere sulla bilancia anche la possibilità che i tempi di esecuzione debbano essere altrettanto veloci e accessibili, per chi magari vede il suo diritto essere negato, il cittadino in questo caso.
Sulla Riforma Cartabia, credo ci potranno essere degli effetti positivi, ma come tutte le Riforme non si è tenuto conto dei pareri dell’avvocatura, anche se questo c’era stato promesso. Il punto è, quando capita che non vengono digerite le Riforme, non vengono concertate, poiché anche la Magistratura è stata critica su certi versi su queste Riforme, e quando non c’è la volontà, o meglio non vengono ben accolte da chi deve poi applicarle, le Riforme spesso lasciano irrealizzato quel progetto che le aveva ispirate. Ritornando come esempio all’ufficio del processo introdotto con la Riforma possiamo verificare che, se non c’è la collaborazione massima della Magistratura, questi nuovi addetti all’ufficio del processo probabilmente saranno utilizzati per far le fotocopie, gli effetti della loro attività ancora non li vediamo, e speriamo che magari con il passare del tempo possano integrarsi e dare dei risultati maggiormente positivi di quelli che abbiamo avuto fin ora. È soprattutto un problema burocratico, ma il punto è, se abbiamo cause che durano 8-9 anni, non si può pensare di ridurre questi tempi con la modifica del Codice di procedura civile, c’è bisogno di investire in risorse, informatizzazione, cancellieri, ma soprattutto magistrati che possano arrivare a ridurre i tempi, distribuendosi i ruoli.
La digitalizzazione, l’informatizzazione è fondamentale nella giurisdizione, cosa ne pensa è favorevole?
La mia generazione è quella che ha imparato ad usare i sistemi informatici, e sono pienamente favorevole alla digitalizzazione nella giustizia. Da quando ho iniziato da Segretario dell’Ordine degli Avvocati di Nola, ho sempre guardato con attenzione e animo favorevole alla digitalizzazione che ci permette di guadagnare tempo e risultati nel processo ma anche nel lavoro. Se la società va verso la digitalizzazione, certamente il sistema giustizia non può rimanere indietro, anzi noi avvocati dovremo governare il cosiddetto cambiamento, cioè prevenire quello che sarà. Quindi, guardo sempre di più con favore ad un digitalizzato sistema informatico nella giurisdizione. Una ricognizione della digitalizzazione del processo civile e penale e della transizione digitale del Ministero della giustizia per i sistemi informativi automatizzati, soprattutto l’intelligenza artificiale come tecnologia abilitante nel processo giurisdizionale. Ci sono cose che ovviamente non possono essere digitalizzate, ma per il resto poi credo che sia importante soprattutto per noi avvocati avere una visione aperta ad una giustizia digitalizzata.
Nella Giustizia civile una causa si sviluppa dopo anni, pensi nella Giustizia Penale, una prima udienza per esempio si celebrerà nel 2026 in alcuni Tribunali?
Sono situazioni assurde, poiché questo significa negare la giustizia. Allora se pensiamo a casi come questi, dovremmo ripensare anche alle risorse da destinare. Magari non in un’unica direzione ma verificare caso per caso quali sono i Tribunali, o gli uffici giudiziari che hanno bisogno di risorse, attraverso un monitoraggio che comporti la distribuzione di queste risorse nei posti in cui sono maggiormente necessari.
Le diverse stagioni dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: dal paradigma della reintegrazione al disincanto della tutela economica. Quasi un racconto
Recensione di Vincenzo Antonio Poso a Giovanni Amoroso
1. Il libro di Giovanni Amoroso (ARTICOLO 18 STATUTO DEI LARORATORI. Una storia lunga oltre cinquant’anni, Cacucci Editore, Bari, 2022), pubblicato nella prestigiosa Collana “Biblioteca di cultura giuridica”, diretta da Pietro Curzio, ci consente di ripercorrere le tappe fondamentali, anche delle politiche sociali ed economiche del nostro paese, della norma più amata e più contestata del nostro diritto del lavoro, guidati, come in un inedito viaggio sentimentale, da un osservatore non fazioso, studioso e magistrato rigoroso, ora giudice costituzionale.
Ma parlare, con riferimento al libro recensito, solo di articolo 18 è riduttivo, perché l’Autore, con la filigrana di questa norma, ha scritto un piccolo “trattato” sulle tutele dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, diverse nel tempo, un tempo lungo oltre cinquant’anni, e nelle situazioni date, che il nostro legislatore ha costruito, talvolta con evidenti compromessi e sbavature, non sempre nel rispetto della grammatica costituzionale ( artt. 3, 4 e 35) ed europea ( art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 24 della Carta sociale europea).
Mai come in questo caso, torna molto utile leggere il libro dalla fine, dalla « Nota conclusiva » ( pagg. 299 e ss.), dove l’Autore individua tra i punti fermi, oltre al principio della «necessaria causalità del licenziamento che, salvo le residuali ipotesi di libera recedibilità ad nutum, deve essere assistito da giusta causa o giustificato motivo, soggettivo o oggettivo» ( da cui consegue la giustiziabilità delle ragioni del licenziamento), la « “reintegrazione” nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato quale fattispecie tipica e paradigma speciale delle conseguenze dell’inefficacia o dell’invalidità dell’atto datoriale di recesso», nonostante la ridotta area di applicazione della c.d. tutela reale e la differenziazione, per presupposti e caratteristiche, delle tutele.
Mentre molti studiosi si attardano a individuare il “peccato originale” dell’articolo 18, Giovanni Amoroso, senza enfasi, ma con una chiara opzione interpretativa, che si percepisce sin dalla ricostruzione del contesto storico e politico-sociale in cui è nato lo Statuto dei Lavoratori ( cap. I, pagg. 19 e ss.), riconosce nell’articolo 18 degli anni ’70 e nella tutela reale dallo stesso delineata l’archetipo iniziale dal quale non si può prescindere, nonostante il ridimensionamento della sua applicazione dopo la c.d. riforma Fornero e il Jobs Act, in una linea di continuità della legge sulla giusta causa e sul giustificato motivo che ha sostanzialmente retto negli anni, dichiarando ( come del resto ha fatto in più occasioni la Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 183 del 22 luglio 2022), in chiusura del volume (pag. 304) « che c’è ormai una ( non più procrastinabile) esigenza di coerenza intrinseca, che chiama il legislatore a rivedere la disciplina dei licenziamenti, individuali e collettivi, in termini globali per assicurare organicità e sistematicità della regolamentazione».
Corsi e ricorsi storici.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 27 gennaio 1958, n. 7, dichiarando non fondata la q. l. c. di una legge della regione siciliana che, in contrasto con la norma statale dell’art. 2118 cod. civ., aveva previsto la stabilità dell’impiego in caso di licenziamento illegittimo dei dipendenti delle esattorie comunali, aveva affermato, con un monito al legislatore rimasto senza risposta per molti anni, la tendenziale estensione del principio della stabilità del rapporto di pubblico impiego anche ai dipendenti privati il cui licenziamento doveva essere giustificato e non arbitrario.
Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza 9 giugno 1965, n. 45 ( sempre richiamata dalla giurisprudenza costituzionale, anche recente),pur dichiarando non fondata la q. l .c. dell’art. 2118 cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 4, Cost, riconobbe il diritto al lavoro come « fondamentale diritto di libertà della persona umana », invocando l’intervento del legislatore per tutelare i lavoratori incisi da illegittimi licenziamenti, così aprendo la strada alla l. 15 luglio 1966, n. 604.
Con la sentenza 20 novembre 1969, n. 143 ( specificamente richiamata dalla sentenza della Corte di Cassazione 6 settembre 2022, n. 26246 – confermata dalla recente pronuncia 20 ottobre 2022, n. 30957 - che, a seguito delle riforme in materia di licenziamento del 2012 e del 2015, ha affermato il principio della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi solo a far data dalla cessazione del rapporto), la Corte Costituzionale ha evocato la «particolare forza di resistenza » del pubblico impiego, che assicura normalmente la continuità del rapporto di lavoro.
Sono, queste, solo alcune delle pronunce della Consulta, che l’Autore prende in considerazione, per descrivere, insieme alle leggi precedenti, il contesto in cui nasce, nell’epoca delle grandi riforme - quelle possibili – nel periodo che va dalla seconda metà degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70 (che vide in Gino Giugni la mano ferma dello scultore, in una stagione politica favorevole), la l. 20 maggio 1970 e l’art. 18 che disciplinava la reintegrazione nel posto di lavoro e l’integrale risarcimento del danno in conseguenza di un illegittimo licenziamento (cap. I, pagg. 33 e ss.).
Particolarmente significative sono le pagine (cap. I, pagg. 36 e ss.) che Giovanni Amoroso dedica alla portata innovativa dell’art. 18, st. lav., che fa «sistema» con la disciplina introdotta dalla l. n. 604/1966 (lo dice anche la Corte Costituzionale nella sentenza 12 dicembre 1972, n. 174, che riconobbe alla stabilità reale dello statuto dei lavoratori la forza di resistenza tipica del regime di pubblico impiego, tale da consentire la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei dipendenti privati in costanza di rapporto), alla natura dell’ordine di reintegrazione ma anche alla garanzia del diritto al lavoro e alla non indefettibilità, sul piano costituzionale, del regime della reintegrazione, in base agli apporti della giurisprudenza costituzionale ( v., tra le tante, le sentenze n. 46 del 7 febbraio 2000; n. 303 dell’11 novembre 2011; n. 194 dell’8 novembre 2018; n. 125 del 19 maggio 2022).
Con riferimento specifico a quest’ultimo profilo, l’Autore certamente riconosce che la reintegrazione non costituisce l’unico paradigma attuativo dei principi e dei valori costituzionali, ma per un corretto bilanciamento degli stessi deve essere realizzato un equilibrato sistema che assicuri tutele adeguate ai lavoratori illegittimamente licenziati e dissuasive della commissione di atti illeciti o comunque illegittimi da parte dei datori di lavoro.
2. La prima fase di applicazione dell’art. 18, sino alla fine degli anni ’80, viene analizzata (cap. II, pagg. 45 e ss.) sulla base dei significativi arresti delle Sezioni Unite che hanno disegnato il perimetro della tutela reintegratoria, in chiave estensiva, con riferimento al limite dimensionale dell’azienda ( prevalenza del criterio dimensionale dell’unità produttiva, senza dare rilievo anche al concorrente criterio dell’organico complessivo oltre i 35 dipendenti: interpretazione non conforme al dato testuale delle norme, che però anche l’Autore condivide per l’impatto sociale della tutela); e, soprattutto per gli apporti della giurisprudenza costituzionale, sempre in chiave estensiva ( con interpretazione adeguatrice al canone costituzionale dell’eguaglianza ), con riferimento all’applicazione della tutela reintegratoria in ogni caso di licenziamento illegittimo ( pur nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi).
La specialità del vizio del licenziamento arretra di fronte al regime delle tutele, generalizzate; mentre è la differenziazione delle tutele la cifra identificativa delle riforme del 2012 e del 2015.
Non mancano approfonditi riferimenti alle problematiche riguardanti l’esecuzione dell’ordine di reintegrazione (che rappresentava il banco di prova della effettività della tutela apprestata dalla norma statutaria); l’autonomia della tutela risarcitoria (che si affianca, senza sostituirla, alla tutela reintegratoria); la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto (ma solo in ragione della sua stabilità reale).
3. Le cinque iniziative referendarie, dal 1981 al 2017, che dimostrano l’interesse suscitato dall’art. 18 - sia per l’estensione della sua applicazione, che per la sua abrogazione - sono rimaste tutte senza esito, tranne quella del 1989 che porterà il legislatore a recepire le modifiche proposte con i quesiti referendari adottando, con una forte accelerazione dei lavori parlamentari, la l. 11 maggio 1990, n. 108, così impedendo la consultazione popolare.
L’Autore, che affronta tutti questi temi nel cap. III, pagg. 71 e ss. ( esaminando anche alcuni aspetti tecnici del referendum e delle sentenze in punto di ammissibilità pronunciate dalla Corte Costituzionale), mette bene in evidenza che la tutela reintegratoria fu ampliata in maniera significativa dalla l. n. 108/1990, con una impronta di complessiva razionalizzazione del sistema – coniugando il limite dimensionale complessivo dell’azienda con le minime unità produttive – anche se l’obiettivo del Comitato promotore era molto più ambizioso, perché mirava ad imporre una generalizzazione della tutela statutaria ( in questa stessa direzione, peraltro, si era mossa la precedente iniziativa referendaria del 1981, relativa a tre diverse norme – art. 28, comma primo; art. 35, comma primo; art. 37 – che però fu bocciata dalla Corte Costituzionale non essendo omogeneo il quesito proposto).
Le vicende che contrapposero il Comitato promotore del referendum all’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ( che videro, anche, dopo la seconda decisione negativa, un inedito conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale) dimostrano quanto fosse rilevante la questione che avrebbe potuto portare – e l’Autore (pagg. 81-82) sembra propendere per questa soluzione – l’organo centrale per il referendum a spostare sulle nuove disposizioni normative il quesito referendario, in applicazione dell’art. 39, l. 25 maggio 1970, n. 352.
In un mutato contesto politico - e in controtendenza rispetto al passato -, si inserisce l’iniziativa referendaria del 1999 per l’abrogazione tout court dell’art. 18, disattesa dall’elettorato l’anno successivo. In questo caso Giovanni Amoroso (pagg. 83 e ss.) si dilunga sulla sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale, 7 febbraio 2000, n. 46, che affermò con nettezza che la garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 della Costituzione può essere attuata anche con strumenti diversi dalla reintegrazione, secondo una scelta affidata alla discrezionalità del legislatore.
Resta indefettibile, quindi, anche per l’Autore (pagg. 84-85) il controllo giurisdizionale delle ragioni del licenziamento e la tutela indennitaria od obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo, quale «nucleo costituzionalmente irrinunciabile» della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato.
Tralasciando, qui, l’esame del referendum del 2002, diretto, nuovamente, ad ampliare l’area di applicazione dell’art. 18, Giovanni Amoroso prende più diffusamente in considerazione l’iniziativa referendaria del 2016 per contrastare gli effetti della riforma c.d. Fornero, con riferimento all’art. 18 novellato, utilizzando la tecnica del ritaglio e dell’intero Jobs Act (pagg. 87 e ss.), entrando nel merito della sentenza 27 gennaio 2017, n. 26 ( condivisa dall’Autore, pagg. 87 e ss.) che si era pronunciata per l’inammissibilità del quesito referendario che da una parte manifestava un carattere parzialmente propositivo ( con riferimento alla riforma del 2012), che contraddiceva la funzione meramente abrogativa affidata dal legislatore all’istituto di democrazia diretta; e dall’altra difettava dei necessari requisiti di univocità e omogeneità.
In buona sostanza, come scrive Giovanni Amoroso (pag. 91): «La saldatura in un unico quesito ha comportato l’inammissibilità della complessiva richiesta referendaria».
4. Nella trattazione della seconda fase, dal 1990 al 2012 (cap. IV, pagg. 93 e ss.) l’Autore descrive puntualmente le novità introdotte dalla l. n. 108/1990, che, con la riscrittura dell’art. 18, ha comportato una più ampia applicabilità della tutela reale, ma ha anche riformulato il testo dell’art. 8, l. n. 604/1966, nei termini che conosciamo.
Come abbiamo già detto, l’intervento del legislatore ha evitato lo svolgimento dell’iniziativa referendaria del 1989.
Gli aspetti rilevanti in questa fase, secondo l’Autore, sono tre.
Innanzitutto, una chiara affermazione, a partire dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 12 aprile 1976, n. 1268, degli oneri probatori delle parti con riferimento al requisito dimensionale del datore di lavoro, rilevante anche ai fini della sospensione della prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro caratterizzati dalla stabilità reale, nei termini descritti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972; con una successiva presa di posizione sempre delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 4 marzo 1988, n. 2249, che ha posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale per l’applicazione del regime di tutela reale che consentiva la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, comunque restando a carico del lavoratore l’onere della prova dello stesso requisito ai fini della invocata tutela reintegratoria ( o dello stesso datore di lavoro, per escluderla).
Sta di fatto, però, che con le modifiche apportate dalla l. n. 108/1990, che avevano comportato anche una generalizzata tutela obbligatoria, sganciata dai requisiti dimensionali, il problema della ripartizione dell’onere della prova, che sembra sopito, si ripropone, con contrastanti opzioni interpretative assunte dalla Sezione Lavoro della Cassazione, che, con la pronuncia a Sezioni Unite 10 gennaio 2006, n. 141, ha riportato l’onere della prova del requisito dimensionale in capo al datore di lavoro - richiamando anche il principio della c.d. vicinanza della prova – affermando un principio di civiltà giuridica ribadito anche in successive pronunce.
L’Autore spiega bene il cambio di passo della giurisprudenza di legittimità (pag. 102): «Il risultato complessivo è stato quello di costruire la tutela reale come fattispecie generale, seppur condizionata alla ricorrenza del requisito dimensionale, e invece la tutela obbligatoria, come fattispecie speciale, applicabile come eccezione alla regola».
Il secondo profilo rilevante della riforma è l’unificazione, in chiave risarcitoria, del regime delle conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, dall’intimazione del licenziamento alla effettiva reintegrazione.
Il terzo profilo rilevante è rappresentato dalla indennità sostitutiva della reintegrazione., che giustamente l’Autore considera una novità assoluta, che ha trovato, peraltro, il giudizio positivo del legislatore anche dopo le riforme del 2012 e del 2015 (con piccole differenze, relative, essenzialmente, alla base di calcolo), che viene a qualificarsi come istituto di natura sostanziale e processuale.
Questa previsione, però, dimostra, ad avviso di chi scrive, lo scivolamento della tutela reale verso quella meramente indennitaria, compensativa e risarcitoria, con la previsione di un “prezzo”, uniforme, della reintegrazione.
Nel perimetro disegnato, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 4 marzo 1992, n. 81, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 27 agosto 2014, n. 18353, l’Autore si dimostra favorevole alla monetizzazione della reintegrazione, risultando, comunque, del tutto evidente l’incoerenza del regime delineato dal legislatore con la costruzione dell’indennità sostitutiva, da parte della Corte Costituzionale, come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, venendosi così a creare incertezza nella posizione del datore di lavoro, condizionato dalla scelta del lavoratore. È la richiesta della indennità sostitutiva che determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
L’Autore individua, anche, un problema, che potrebbe essere affrontato e risolto (in termini di ragionevolezza intrinseca ma anche di violazione del principio di eguaglianza) dalla Corte Costituzionale, perché, dopo la sua pronuncia n. 194 dell’8 novembre 2018, l’indennità compensativa del licenziamento ingiustificato in regime di Jobs Act è di importo pari, nella misura massima di 36 mensilità, ad oltre il doppio dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
5. Nella trattazione dei licenziamenti è la terza fase relativa alla c.d. riforma Fornero, introdotta dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che assume importanza fondamentale, anche per l’attualità della norma rivisitata (cap. V, pagg. 113 e ss.), ormai applicata da un decennio.
La considerazione iniziale dell’Autore (pagg. 114 e ss.), che pone l’esordio di questa nuova fase nella l. 4 novembre 2010, n. 183, c.d. collegato lavoro (art. 30: limitazione della discrezionalità del giudice nella valutazione delle motivazioni dei licenziamenti: art. 31: agevolazione delle soluzioni conciliative e di arbitrato; art. 32: restrizione dei tempi di impugnazione dei licenziamenti) è del tutto lineare e condivisibile.
È una riforma, quella del 2012, che nasce prima – nelle intenzioni dei riformatori, dentro e fuori il Parlamento – del Governo Monti.
Meno condivisibile è la tesi dell’Autore che, seppure non espressamente così esplicitata, considera le due riforme del 2012 e del 2015 facce della stessa medaglia (pagg. 116 e ss.), perché esse, ad avviso di chi scrive, sono ispirate da diverse e non convergenti intenzioni del legislatore: non foss’altro perché con il Jobs Act si mette fine all’applicazione dell’art. 18 per come lo abbiamo conosciuto (anche se qualcosa della vecchia norma resta).
L’archetipo dell’art. 18 abbandona il suo ruolo (anche se non è del tutto rinnegato) di istituto normativo storicamente posto a tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati e lascia il posto ad una diversa disciplina, che rompe con il passato, applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. È il tempo che marca due tutele differenti.
Certamente, come scrive Giovanni Amoroso, resta confermato il principio del recesso causale, che marginalizza la libera recedibilità ad nutum, in base a quanto stabilito dalla l. n. 604/1966, che pone i presupposti del licenziamento giustificato e non arbitrario, rafforzati dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 24 della Carta sociale europea.
Con la c.d. riforma Fornero l’unitaria previsione della reintegrazione ( termine che scompare anche nella rubrica del novellato art. 18 a favore della «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento», con una scelta lessicale che è la dimostrazione plastica della rilevante modifica sostanziale apportata) lascia il posto alla frammentazione delle tutele ( pagg. 120 e ss.); quattro distinti regimi – due di tutela reintegratoria e due di tutela indennitaria – senza una netta linea di demarcazione tra di loro, che secondo l’Autore rappresenta il vizio di origine di questa disciplina, tanto complessa, quanto ( inutilmente) complicata, perseguendo il legislatore della riforma il fine, nemmeno tanto celato, di rendere meno stabile il rapporto di lavoro in alcuni casi di licenziamento illegittimo, per rendere definitive ( ma non insindacabili) le scelte datoriali di risoluzione del rapporto di lavoro.
In controtendenza con quanto recentemente affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 26246/2022 e n. 30957/2022, più sopra citate, l’Autore ( riprendendo un discorso svolto anche nelle pagine precedenti) propende per la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto, anche in caso di applicazione dell’art. 18 novellato, che, seppure nella forma attenuata, prevede in alcune ipotesi ( ma non in tutte) la reintegrazione, restando relegata la diversa soluzione solo all’area della tutela obbligatoria e della libera recedibilità ( pagg. 129-130).
Tralasciando, in questa sede, l’esame della questione ( con i tanti problemi, non tutti risolti) del rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti, messo da parte prima dal legislatore del Jobs Act e poi dalla recente riforma del processo civile, si passa alle specifiche tutele sostanziali, che l’Autore analizza puntualmente secondo lo schema differenziato e frammentato che prima abbiamo messo in evidenza: «tutela piena reintegratoria» ( pagg. 132 e ss.), «tutela reintegratoria attenuata» ( pagg. 139 e ss.), «tutela indennitaria attenuata» ( pagg. 146 e ss.), «tutela indennitaria ridotta» ( pagg. 149 e ss.).
Su questi temi, solo alcune brevi osservazioni di lettura.
Per quanto riguarda le tutele reintegratorie, l’Autore, mentre vede una netta linea di demarcazione tra il licenziamento nullo o inefficace per difetto di forma scritta nella sua comunicazione e licenziamento ingiustificato, individua ( pag. 135) «un punto di criticità essenzialmente nella contiguità tra il licenziamento nullo perché discriminatorio e il licenziamento ( disciplinare) annullabile per insussistenza del fatto contestato o per tipizzata non proporzionalità dell’addebito» con la conseguenza che: «Quando è radicalmente insussistente la ragione posta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento disciplinare , o per colpa, il recesso datoriale si avvicina, come fattispecie, a quello qualificabile come discriminatorio».
Nella «tutela reintegratoria attenuata» di cui al quarto comma dell’art. 18, secondo l’Autore, lo scostamento dalla tutela reintegratoria piena è segnato dal fatto che l’indennità risarcitoria consegue non più all’ “ordine di reintegrazione” ( come nel primo comma), ma alla “condanna alla reintegrazione” ( pag. 139); mentre la limitazione dell’indennità risarcitoria per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale si pone in controtendenza rispetto al precetto dell’art. 614- bis cod. proc. civ., che prevede misure di coercizione indiretta in caso di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro (pag. 141): rappresentando, comunque, questo limite una criticità perché «non dà rilevanza al protrarsi dell’inottemperanza del datore di lavoro alla condanna alla reintegrazione e, prima ancora, alla durata del giudizio, che potrebbe, esso solo, superare i dodici mesi» (sempre pag. 141).
È nelle ipotesi della tutela indennitaria ordinaria di cui al quinto comma dell’art. 18 (pagg. 146 e ss.) e della tutela indennitaria ridotta di cui al successivo sesto comma (pagg. 149 e ss.) che si riscontra il vero cambio di passo del legislatore della riforma del 2012 che riporta, nei confini della vecchia norma novellata, la tutela obbligatoria, sebbene con presupposti e limiti diversi rispetto a quella disciplinata dall’art. 8, l. n. 604/1966.
Sull’indennità risarcitoria, ma omnicomprensiva (quindi compensativa di ogni danno?) traspare l’opinione dell’Autore favorevole alla limitazione solo al danno patrimoniale, potendo non essere ricompresi anche i danni ulteriori di natura non patrimoniale (biologico, morale, all’immagine), che resterebbero risarcibili secondo i criteri ordinari, dando comunque conto dell’orientamento interpretativo restrittivo, anche recente, della Corte di Cassazione (pag. 148).
L’insussistenza del fatto contestato nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo (pagg. 152 e ss.) si deve misurare con l’osservazione, non di poco conto, dell’Autore secondo la quale «l’inadempimento – e con esso l’illiceità – sussiste sia se di “scarsa importanza” (art. 1455 c.c.), sia se, superata questa soglia, sia “notevole” (art. 3 legge n. 604/66)» (pag. 156).
Non meno problematica è l’ipotesi dell’insussistenza del fatto ( non più manifesta, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 1° aprile 2021, n. 59) posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ( pagg. 157 e s..), che l’Autore correttamente riferisce, nei presupposti non solo materiali, ma anche giuridici, alla previsione dell’art. 3, l. n. 604/1966, considerando, comunque, la mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento sussumibile nella nozione di insussistenza del fatto.
Degna di segnalazione è l’osservazione ( da chi scrive condivisa) secondo la quale, dopo che l’insussistenza del fatto è stata depurata dalla sua natura manifesta, nella cui nozione si faceva rientrare anche il mancato assolvimento dell’onere del repêchage, questo orientamento interpretativo deve essere ripensato: «In realtà – scrive l’Autore – il repêchage viene in rilievo solo dopo che si sia esclusa la fattispecie dell’insussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; quindi sembra essere esterno alla fattispecie stessa. Conseguentemente, una volta verificata la sussistenza di un fatto idoneo nel senso sopra specificato, il mancato assolvimento dell’onere probatorio del repêchage rende applicabile la tutela indennitaria e non già quella reintegratoria» (pagg.158-159).
Su questo punto l’Autore ritorna anche successivamente, a pag. 274, quando prende in esame, specificamente, la giurisprudenza costituzionale.
Acquisita come autonoma (per gli approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) la fattispecie del licenziamento disciplinare, Giovanni Amoroso passa ad esaminarla (pagg. 161 e ss.), con dovizia di particolari (anche con riferimento al preventivo procedimento disciplinare), differenziandosi le tutele nei diversi casi di vizi sostanziali e vizi formali o procedurali.
L’Autore non sembra esprimere riserve sulla coerenza sistematica delle fattispecie che si riferiscono ai vizi sostanziali del licenziamento disciplinare (insussistenza del fatto contestato e previsione di condotte punibili per contratto collettivo o codice disciplinare con una sanzione conservativa), ritenuto, peraltro, positivamente recuperato il canone di proporzionalità tra inadempimento e sanzione.
Viene, in proposito, espressa, seppure indirettamente, adesione al recente orientamento interpretativo dei giudici di legittimità (Cass. n. 11 aprile 2022, n. 11665), che, proprio sul versante della proporzionalità, hanno affermato, in controtendenza rispetto a precedenti decisioni, che il giudice può procedere alla sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale della punizione con sanzione conservativa, anche nel caso di clausole elastiche o generali (pag. 170).
Una decisione, quella della Cassazione, discutibile, a parere di chi scrive, perché ci riporta al passato, senza tenere in debito conto la norma espressa e le intenzioni del legislatore che hanno valorizzato il perimetro di applicazione delle sanzioni conservative; e comunque impone alle parti sociali di procedere con maggiore accortezza e consapevolezza alla tipizzazione delle fattispecie disciplinari.
La frammentazione delle tutele si ripercuote anche sui licenziamenti collettivi illegittimi (pagg.183-184), che in questa sede non posiamo specificamente analizzare.
6. Alla riforma introdotta dal Jobs Act del 2015 (d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23), modificato, in parte, dal c.d. decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv., con mod., dalla l. 9 agosto 2018, n. 96) è dedicato il capitolo VI (pagg. 185 e ss.).
Qui Giovanni Amoroso conferma la sua tesi, esposta anche nelle pagine precedenti, secondo cui, nonostante la disciplina derogatoria introdotta dal legislatore del 2015, non c’è una effettiva fuga dall’art. 18, anche se la nuova disciplina si affianca a quella precedente, dell’art. 18 novellato dalla c.d. riforma Fornero, applicandosi solo ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015.
Apprezzabile è la ricostruzione da parte dell’Autore del complessivo contesto riformatore in diretta applicazione delle deleghe poste con la l. 10 dicembre 2014, n. 183 (pagg. 188 e ss.).
Resta confermata la tutela differenziata nei quattro regimi, due reintegratori e due indennitari, secondo lo schema legislativo precedente, ma con alcune differenze che l’Autore mette bene in evidenza (pagg. 199 e ss.).
Solo alcune osservazioni.
Il riferimento all’art. 15, st. lav. (e non anche all’art. 3, l. n. 108/1990), caratterizza il licenziamento discriminatorio, per il quale vale la tutela reintegratoria piena.
In controtendenza con la precedente disciplina, che prevede la reintegrazione attenuata, è piena la tutela reintegratoria del lavoratore licenziato senza giustificazione per motivo di disabilità.
Nel perimetro della tutela solo indennitaria rientrano i licenziamenti economici, individuali o collettivi; mentre all’insussistenza del fatto materiale del licenziamento disciplinare consegue la reintegrazione attenuata (v., sul punto, pagg. 207 e ss.).
Per la tutela indennitaria è assorbente il richiamo delle c.d. tutele crescenti, con l’intervento demolitorio della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 e l’incremento della soglia minima e massima, da sei a trentasei mensilità, introdotto dal c.d. decreto dignità.
7. Degno di interesse è il Cap. VII che affronta il delicato tema della reintegrazione nell’impiego pubblico privatizzato (pagg. 217 e ss.), da ultimo prevista dalla c.d. riforma Madia del 2017 (pagg. 224 e ss.), a superamento della incerta applicazione dell’art. 18, st. lav., nel testo precedente alla c.d. riforma Fornero.
La disciplina speciale per i dipendenti pubblici, che assicura maggiore certezza per le conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, accentua, secondo l’Autore, la sensibile divaricazione rispetto al regime applicabile ai dipendenti privati (pagg. 228 e 229), essendo applicabile solo ai primi la stabilità reale assicurata dall’art. 18 anteriforma, sebbene mediante la previsione di una specifica norma che riprende il contenuto di quella statutaria ( art. 63, comma 2, d. lgs 30 marzo 2001, n. 165, così come modificato dall’art. 21, comma 1, lettera a), d. lgs. n. 75 del 25 maggio 2017).
A fondamento di questa differenziazione di trattamento, che l’Autore condivide (anche sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che da ultimo ha affrontato queste tematiche: v., ad es., le sentenze 30 luglio 2021, n. 180 e 3 ottobre 2019, n. 218), c’è il principio del buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall’art. 97, comma 2, Cost., che, finalizzando ad esso l’attività del pubblico dipendente, lo tutela maggiormente in caso di licenziamento illegittimo.
Ma è sufficiente, il suddetto principio, a giustificare questa disparità di trattamento, che sembra contraddire anche le finalità perseguite dal legislatore che ha posto le basi della privatizzazione del lavoro pubblico, in aderenza alle norme che regolano il lavoro dei dipendenti privati espressamente richiamate?
È un punto di domanda che forse la Corte Costituzionale, se chiamata a decidere, potrebbe sciogliere, se non il legislatore.
8. Nel cap. VIII (pagg. 231 e ss.), l’Autore, da par suo, propone ai lettori un completo quadro della più recente giurisprudenza costituzionale che si è pronunciata sui licenziamenti dal 2018 al 2022, che, con alcune sentenze storiche, conseguenti alla c.d. riforma Fornero e al Jobs Act, hanno aumentato le tutele dei lavoratori licenziati senza giustificazione, entrando anche nel merito della ragionevolezza, in termini di coerenza del legislatore degli ultimi dieci anni.
Il problema non riguarda solo l’alternativa tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria (significativamente valorizzata (soprattutto) dal d. lgs. n. 23/2015, ma anche come il legislatore è intervenuto sulla tutela indennitaria.
È il caso della sentenza 8 novembre 2018, n. 194 ( pagg. 233 e ss.), che ha severamente criticato, dichiarandolo illegittimo, il rigido criterio automatico, basato sull’anzianità di servizio, di determinazione della indennità risarcitoria previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 ( anche nel testo migliorativo, per i limiti minimo e massimo, introdotto dal c. d. decreto dignità del 2018 a partire però, dalla data del 14 luglio 2018), posto a fondamento delle c. d. tutele crescenti, che comportava l’applicazione di una misura inadeguata e non dissuasiva del licenziamento illegittimo.
Si riespande, quindi, nella sua massima discrezionalità, il potere di valutazione della fattispecie del licenziamento e di determinazione dell’indennità compensativa da parte del giudice, privo di limiti quantitativi, fermi restando quello minimo e quello massimo (anche con riferimento ai lavoratori di considerevole anzianità di servizio).
Come è noto sono stati disattesi altri profili di illegittimità costituzionale per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, che in questa sede non possiamo prendere in considerazione.
L’Autore dimostra condivisione rispetto alla pronuncia costituzionale (con il richiamo dei criteri di cui agli articoli: 8, l. n. 604/1966, testo vigente e precedente; 30, comma 3, l. n. 183/2010; 18, c.5, st. lav., testo vigente), evocando il principio della personalizzazione del danno, ed esprimendo questo principio che , in sintesi, rappresenta bene la sua opinione : «L’incidenza multifattoriale sull’indennità risarcitoria costituisce, del resto, una costante della normativa di settore, avendo il legislatore sempre valorizzato la molteplicità dei parametri che rilevano al fine della determinazione dell’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente della misura del risarcimento».
Tra i parametri della normativa sovranazionale interposti trova rilievo solo l’art. 24 della Carta sociale europea (che, al primo comma, lettera b), prevede una tutela in termini di congruo indennizzo o altra adeguata riparazione), nel testo riveduto nel 1996 regolarmente ratificato dall’Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30, non essendo, comunque, configurabile, secondo l’Autore, una “fattispecie europea” del licenziamento individuale ingiustificato.
Con riferimento allo ius superveniens del 2018, la Corte avrebbe potuto emettere una pronuncia di illegittimità costituzionale conseguenziale; cosa che non ha fatto, accomunando, invece, nello stesso dispositivo, sia la norma direttamente applicabile nel giudizio a quo, sia quella sopravvenuta ad esso non applicabile, ritenendo rilevante il criterio di determinazione dell’indennità compensativa e non la sua diversa quantificazione nei limiti minimo e massimo.
A questa sentenza è conseguente la simmetrica sentenza n. 150 del 16 luglio 2020 relativa alle conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo per vizi formali e procedurali ( pagg. 247 e ss.) con riferimento all’art. 4, d.lgs. n. 23/2015, venendo meno, anche in questo caso, il rigido criterio dell’anzianità di servizio nella determinazione dell’indennità risarcitoria, che, tra il limite minimo di due mensilità e quello massimo di dodici mensilità, sarà quantificata dal giudice con ampia discrezionalità.
L’analisi di questa sentenza è l’occasione per Giovanni Amoroso di esaminare, in maniera approfondita, il perimetro dei vizi formali e procedurali incisi dalle riforme del 2012 e del 2015, optando per la costruzione di una fattispecie di licenziamento inefficace solo con riferimento alla mancanza di forma scritta nella sua comunicazione.
Mette bene in luce, l’Autore, il cambio di passo della legislazione delle ultime riforme che fa arretrare la rilevanza della violazione delle regole formali e procedurali rispetto ai vizi di sostanza, che comportano, comunque la risoluzione del rapporto di lavoro e chiarisce che la Corte, nel rispetto della q. l. c. sollevata dai giudici rimettenti, si è limitata a dichiara incostituzionale il criterio automatico dell’anzianità di servizio, senza potersi pronunciare sulle disparità del trattamento sanzionatorio conseguente ai vizi di forma e di sostanza.
Resta il carattere meramente residuale dell’indennità compensativa stabilita dal legislatore delle due riforme in questi casi.
Emerge, già in questa sentenza, il monito “ordinario” al legislatore a ricomporre, in maniera sistematica, le discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari, che troviamo ripetuto – con maggiore forza, in forma “pressante” - nella recente sentenza n. 183 del 22 luglio 2022 ( pagg. 257 e ss.), che abbiamo già richiamato nelle pagine precedenti, analizzata anche con una precisa ricostruzione della tutela, meramente indennitaria, a fronte dei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.
Oggetto di critica da parte del giudice rimettente è il limite massimo di sei mensilità dell’indennità risarcitoria, che riduce in maniera sensibile l’efficacia dissuasiva della sanzione, rendendo la tutela del tutto inadeguata, anche alla luce delle due precedenti pronunce della Corte Costituzionale che ha rimesso al legislatore la regolamentazione sistematica della materia, preannunciando, in difetto, un intervento additivo ( ma senza dettare, come in altre occasioni è stato fatto, un tempo per poter legiferare).
Con riferimento alla tutela reintegratoria, la prima sentenza costituzionale è la n. 59 del 1° aprile 2021 (pagg. 263 e ss., e, più specificamente, pagg. 268 e ss.) che ha reso dovuta e non discrezionale la reintegrazione in caso di accertata “manifesta insussistenza” del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 18, comma 7, st. lav.), con un dispositivo additivo di tipo sostitutivo.
Dei diversi profili di illegittimità rilevati dalla Corte Costituzionale, l’Autore individua, correttamente, l’intrinseca irragionevolezza della disposizione normativa censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, che, richiamando il criterio dell’eccessiva onerosità, di fatto ha comportato l’arretramento della tutela da reintegratoria attenuata a indennitaria, come tale inferiore e non certo equivalente rispetto alla prima. Scrive l’Autore (pag. 270): «La predicata riduzione di tutela del lavoratore non può dipendere da fattori contingenti o comunque determinati da scelte del datore di lavoro, responsabile dell’illecito, ossia di un licenziamento pretestuoso per essere (manifestamente) insussistente il fatto su cui si fonda».
L’Autore non fa velo che la discrezionalità di valutazione attribuita al giudice del caso concreto da questa sentenza contraddice con il pronunciato delle due precedenti sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020; e tuttavia si tratta di una contraddizione solo apparente perché nei due precedenti casi «si trattava di riequilibrare il quantum dell’indennità al diverso e mai uniforme disvalore del licenziamento», mentre nel caso del licenziamento economico «la discrezionalità del giudice è priva di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento e guarda invece a scelte dello stesso datore di lavoro, autore dell’illecito, o a fattori contingenti» (pag. 271).
Conseguente a questa sentenza è la successiva pronuncia n. 125 del 19 maggio 2022 (derivata da una seconda, successiva, q. l. c. sollevata dal medesimo giudice rimettente, con una singolarità del caso, bene stigmatizzata dall’Autore), che ha eliminato anche il riferimento alla natura “manifesta” dell’insussistenza (pagg. 271 e ss.).
L’osservazione dell’Autore, su questo specifico punto, è tranchant, perché: «… il fatto, nella sua positiva esistenza, è tale in ogni caso in una logica inevitabilmente binaria: o sussiste o non sussiste; certo che il carattere manifesto tende ad indentificarsi con la prova e con l’apprezzamento che ne fa il giudice» (pagg. 272-273), in base al canone tradizionale dell’art. 116 cod. proc. civ.
Con questa sentenza, la Corte Costituzionale crea un parallelismo tra le tutele previste in caso di insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento disciplinare e del licenziamento economico, in un quadro di coerenza sistematica, che secondo l’Autore prescinde dal considerare o no la tutela reintegratoria come extrema ratio rispetto a quella indennitaria ritenuta “normale” (pag. 274).
Non del tutto convincente è invece l’opzione interpretativa dell’Autore che, in ossequio alle pronunce della Corte Costituzionale, considera legittimo il “doppio binario” in caso di licenziamento ingiustificato che differenzia i lavoratori in base alla data di assunzione, 7 marzo 2015, in regime di Jobs Act ( pagg. 275 e ss.), sul crinale del tempo, il cui fluire, ad avviso di chi scrive, non può giustificare uno spartiacque, denso di conseguenze ( sino ad oggi ritenuto legittimo), se si considera il sostanziale fallimento dello scopo perseguito dal legislatore del 2015 di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione ».
Tralasciando, qui, per evidenti ragioni, la trattazione delle due pronunce costituzionali in materia processuale ( n. 86 del 23 aprile 2018, sulle conseguenze dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione nel corso del giudizio, e n. 212 del 14 ottobre 2020, sulla rilevanza della tutela d’urgenza al fine di evitare la decadenza dall’azione giudiziaria), la disciplina differenziata, in ragione del tempo di assunzione riferito alla data del 7 marzo 2015 (reintegrazione e tutela indennitaria limitata nel massimo a dodici mensilità, per i “lavoratori anziani”; tutela meramente indennitaria, secondo i criteri dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, come riformulata dalla sentenza costituzionale n. 194/2018, per i “lavoratori giovani”), dei licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta viene esaminata con riferimento alla sentenza n. 254 del 26 novembre 2020 (pagg. 283 e ss.).
La Corte Costituzionale, in perfetto parallelismo con la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea , 4 giugno 2020, causa C-32/20 (che aveva dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte con rinvio pregiudiziale dalla Corte di Appello di Napoli, essendo la materia dei licenziamenti collettivi estranea alla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998; in assenza, peraltro, di un collegamento tra un atto di diritto eurounitario e la disciplina nazionale, così da poter richiamare i principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), ha dichiarato inammissibile la q. l. c. sollevata non avendo il giudice rimettente individuato i vizi del licenziamento collettivo, per il quale si denunciava, in via principale, l’inosservanza dei criteri di scelta, e in via subordinata il mancato rispetto delle procedure.
A fronte di una corretta formulazione del quesito sarebbe stato interessante verificare, nel merito, la decisione della Consulta sulla differenziazione delle tutele in ragione del tempo di assunzione.
9. Completa la rassegna la trattazione della sospensione e del blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo nel periodo dell’emergenza del Covid-19 (Cap. IX, pagg. 287 e ss.), tema particolarmente delicato e discusso nella giurisprudenza, che si è espressa con decisioni diverse e non sempre coerenti con i limiti della interpretazione letterale delle norme, anche per il succedersi di tortuosi interventi legislativi, con modifiche e nuove regolamentazioni a fatica sovrapponibili (pagg. 288 e ss.).
L’Autore, venendo in essere la violazione di una norma imperativa in caso di licenziamenti intimati durante il regime del blocco, non mette in discussione la tutela reintegratoria, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda (per i licenziamenti individuali: art. 18, comma 1, st. lav. e art. 2, d.lgs. n. 23/2015), nemmeno per i licenziamenti collettivi, in questo caso facendo riferimento alla nullità civilistica di diritto comune (pagg. 294 e ss.).
È degna di attenzione (e condivisione da parte di chi scrive) la tesi dell’Autore (pag. 295) che parla di inefficacia temporanea, piuttosto che di nullità, del licenziamento, «… perché il blocco dei licenziamenti è una circostanza esterna all’atto giuridico negoziale – il recesso datoriale – che condiziona l’efficacia dell’atto stesso in un determinato e limitato periodo di tempo». Siamo di fronte, pertanto, ad una «circostanza che opererebbe come condizione sospensiva del potere datoriale di recesso unilaterale».
Non viene affrontato, invece, il tema che ha molto diviso i giudici di merito, e anche la dottrina, sul campo di applicazione del divieto che, essendo ancorato testualmente alle ipotesi previste dall’art. 3, l. n. 604/1966, lascerebbe fuori i lavoratori esclusi dal perimetro di operatività di detta legge, come, ad es., i dirigenti.
10. Alla fine della (non facile) recensione del libro di Giovanni Amoroso, condotta, forse, con una esposizione lunga e particolareggiata (ma, ci auguriamo, non piatta), chi scrive, come capita ad ogni lettore d’occasione, ritorna padrone della materia trattata, quella dei licenziamenti, che (come spesso capita per i temi di notevole impatto sociale ed economico, che, per questo motivo, scontano anche una marcata caratterizzazione ideologica) resta assai controversa e soggetta a contrastanti interpretazioni, non sempre coerenti con i materiali delle leggi che la disciplinano e le intenzioni del legislatore delle riforme.
Il pregio di opere come quella recensita è l’occasione che viene offerta al lettore di rimeditare il tema dei licenziamenti, anche alla luce dei felici approdi (o derive, secondo alcuni) della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, per come si è sviluppato in un tempo lungo oltre cinquant’anni.
Ulteriori considerazioni personali (oltre a quelle, essenziali, espresse nelle pagine precedenti) risulterebbero del tutto avulse dall’opera recensita, con il rischio di sovrapporre alle tesi dell’Autore, meritevoli di analisi e segnalazione, le opzioni interpretative di chi scrive.
L’unica osservazione, conclusiva, che sembra opportuno svolgere, va nella direzione di quanto espresso, anche da ultimo, dalla giurisprudenza costituzionale: è avvertita l’esigenza, concreta, che il legislatore provveda ad una generale rivisitazione della materia dei licenziamenti, portando a sistema le riforme, nel rispetto delle tutele differenziate – se questo è il definitivo intendimento da perseguire e realizzare – che devono, però, essere rese coerenti non solo tra di loro ma anche con riferimento alle diverse fattispecie di licenziamento e ai diversi tipi di rapporto di lavoro.
Il vento fa il suo giro ed ogni cosa, prima o poi, ritorna; ma la stagione dell’articolo 18, per come lo abbiamo conosciuto ed è stato applicato per oltre quarant’anni, sembra definitivamente tramontata. È una norma che non ha più l’attrazione fatale di una volta, anche se in molte occasioni viene rievocata.
Resta, comunque, la necessità di garantire, per tutti i licenziamenti illegittimi, una tutela adeguata e dissuasiva, secondo i principi ribaditi, a più riprese, anche dalla Corte Costituzionale.
Riuscirà la politica dei fatti ad imporre al legislatore nuove scelte di politica del diritto coerenti con questi principi?
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