ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La risposta giudiziaria all’emergenza della violenza di genere e la sfida della formazione
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. Introduzione: il fenomeno della violenza di genere e i diversi livelli di contrasto - 2. L’azione di contrasto di breve periodo: la repressione delle singole condotte di reato - 3. La risposta nel medio periodo: le recenti modifiche legislative - 4. Lo stato attuale dell’azione repressiva: miglioramenti e persistenti criticità - 5. La pronuncia della Corte EDU del maggio 2021 e la decisione del Comitato Cedaw del gennaio 2022 - 6. Il terzo livello del contrasto: la formazione dei magistrati in tema di violenza domestica e Codice Rosso - 7. Riflessioni conclusive.
1. Introduzione: il fenomeno della violenza di genere e i diversi livelli di contrasto
È fuori di dubbio che i reati riconducibili alla cosiddetta violenza di genere si sono negli ultimi anni moltiplicati in maniera esponenziale, sino a dare al fenomeno caratteristiche di vera e propria emergenza nazionale.
Secondo un dato recentemente pubblicato dal Servizio centrale anticrimine della Polizia di Stato, nel 2021, ogni giorno, si sono registrate presso gli uffici di polizia 89 vittime di violenza di genere[1].
Non si tratta, come è noto, di una forma delittuosa tipica del nostro Paese, essendo questo tipo di reati diffusi endemicamente in tutto il pianeta: da uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità emerge che più di una donna su tre in tutto il mondo è stata vittima di questo tipo di reati e che “la prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo è l’uccisione di persone conosciute, in particolare del partner o ex partner”[2].
Si tratta di numeri e dati impressionanti, soprattutto considerando che si tratta di reati spesso connotati da violenza efferata; lo scenario appare ancora più inquietante se si considera che le condotte in esame sono rivolte nei confronti di vittime a cui il responsabile è legato da rapporto diretto (affettivo, verrebbe da dire se non stridesse in maniera evidente con le azioni delittuose in argomento) e non di rado risalente negli anni, quando non addirittura di convivenza.
Il comprensibile allarme sociale destato dal fenomeno ha fatto maturare la consapevolezza della necessità di una risposta straordinaria da parte dello Stato, conseguenza della constatazione della impossibilità di farvi fronte con gli strumenti apprestati dal codice penale e da quello di procedura penale per la repressione degli altri delitti.
In particolare, come sempre è avvenuto ogni volta che i numeri o la percezione dell’opinione pubblica hanno imposto la consapevolezza dell’esistenza di un fenomeno criminale particolarmente allarmante[3], è stata elaborata una risposta articolata in più livelli.
Un primo livello, che potremmo definire emergenziale o di breve periodo, è consistito nel rafforzamento della repressione delle singole condotte di reato, la cui realizzazione è affidata alle forze dell’ordine e alla magistratura, soprattutto inquirente, oggi sicuramente più preparate e consapevoli di quanto avvenisse in passato nell’affrontare questa emergenza criminale.
Al fine di rendere maggiormente incisiva l’azione repressiva sopra descritta sono state poi apportate modifiche legislative alle norme sostanziali e di procedura, affiancando dunque alla risposta nel breve periodo una reazione al fenomeno più meditata e destinata ad agire in una prospettiva temporale di maggior respiro (risposta di secondo livello o di medio periodo).
Infine, si sta affermando negli ultimi tempi la consapevolezza della necessità di agire in maniera più profonda e duratura, facendo leva sulla formazione di magistrati ed operatori del diritto al fine di dotare gli stessi di strumenti tecnici e culturali più adeguati a fronteggiare il fenomeno: è la risposta di terzo livello o di lungo periodo, destinata ad incidere in profondo e con risultati irreversibili per sradicare il fenomeno alla base.
Questo terzo livello di contrasto alla violenza di genere è oggetto specifico del presente breve scritto.
Naturalmente i tre livelli di intervento vanno coordinati e devono agire in sinergia e devono essere considerati tre aspetti della medesima risposta dello Stato all’emergenza criminale.
Pertanto, prima di approfondire gli aspetti culturali e formativi dell’azione dello Stato nel campo in esame, appare opportuna una brevissima panoramica dei primi due livelli, soprattutto per evidenziarne le refluenze sull’offerta formativa e quindi i legami con la risposta di lungo periodo.
2. L’azione di contrasto nel breve periodo: la repressione delle singole condotte di reato
La risposta immediata e quotidiana deve essere attuata attraverso un intervento sul territorio della Polizia Giudiziaria e l’attuazione di adeguate misure cautelari a protezione della vittima da parte della magistratura il più possibile tempestivi.
È noto che si tratta nella maggior parte dei casi di condotte di reato ingravescenti, dove l’autore reitera gli atti aumentandone progressivamente il tasso di aggressività. La violenza dei responsabili di queste condotte si alimenta di se stessa e quasi sempre si accompagna ad un senso di impunità che contribuisce a diminuire i freni inibitori e la sensazione di disvalore del fatto.
Occorre dunque sensibilizzare magistrati e forze dell’ordine in ordine alla necessità di agire presto e con fermezza, anche attraverso un incremento dell’azione della formazione degli operatori.
In questo senso vanno peraltro molte delle modifiche legislative introdotte negli ultimi anni, di cui parleremo di qui a breve.
Un ulteriore sforzo di sensibilizzazione dovrebbe essere rivolto ad evitare di lasciare la vittima sola con il peso di dover rappresentare alle forze dell’ordine ciò che le sta accadendo, ricercando con attenzione riscontri estrinseci e dichiarazioni di terzi.
Tale sforzo investigativo è necessario sia per l’ esigenza di rafforzare il compendio probatorio - che è comune ad ogni procedimento penale - che per evitare che il futuro dibattimento si risolva nella contrapposizione tra le dichiarazioni della vittima e quelle dell’imputato che è a volte fonte di uno dei più ricorrenti bias cognitivi in materia, costituito dalla implicita tendenza a svalutare le prime in presenza delle seconde, nonostante la chiara indicazione contraria agevolmente ricavabile dai principi generali del nostro codice di rito.
Ancora, un compendio accusatorio che non si accontenta delle sole dichiarazioni della vittima (anche se alle stesse, giova ricordarlo, la giurisprudenza unanime assegna da sempre valore sufficiente a considerare provato il reato, in presenza di congrua motivazione della sentenza di condanna) protegge dal rischio, sempre ricorrente in questo tipo di processi, che la vittima sia esposta ai tentativi del reo di condizionarne le condotte proprio in virtù della vulnerabilità e del legame personale con quest’ultimo.
È infatti tristemente noto a chiunque si sia occupato di questa materia nelle aule giudiziarie l’esorbitante numero delle ritrattazioni delle accuse da parte delle vittime di violenza, che portano in moltissimi casi al verificarsi del binomio misura cautelare - sentenza di assoluzione, spia evidente di un andamento non fisiologico del procedimento penale.
Questi dunque i settori in cui la formazione (di magistrati e forze dell’ordine) può migliorare e rendere più efficace (anche) il primo livello della risposta alla tipologia di delitti in esame.
3. La risposta nel medio periodo: le recenti modifiche legislative
Sulla scorta dell’esperienza maturata sul campo dagli operatori giudiziari, sono state realizzate negli ultimi anni diverse modifiche legislative destinate a rendere più efficace l’azione giudiziaria stessa.
In particolare, si è agito in un primo tempo mediante rafforzamento del presidio sanzionatorio, con inasprimento delle pene per le fattispecie di reato già esistenti e la creazione di nuove fattispecie di delitto (fondamentale l’istituzione del delitto di atti persecutori o stalking).
Contestualmente, sono state introdotte nel codice di procedura penale due misure cautelari pensate specificamente per questo tipo di reati[4]. Con la successiva modifica all'articolo 275, terzo comma del codice di procedura penale ad opera della legge 47 del 2015 è poi stata attribuita al giudice la possibilità di adottare misure cautelari anche cumulativamente[5].
È dunque ora possibile adeguare la risposta repressiva al caso concreto, coniugando massima efficacia con il minimo sacrificio della libertà personale del soggetto indagato per questo tipo di reati.
Anche su questo punto la formazione può giocare un ruolo importante, sottolineando come i presidi approntati, proprio perché comportano una compressione quasi irrilevante della libertà personale (in particolare l’ordinanza volta ad impedire a taluno di avvicinarsi ad un certo luogo), devono essere chiesti ed adottati senza indugio in presenza di una denuncia, convincente ed attendibile intrinsecamente, inerente una condotta violenta.
Per altro verso, l’adozione di una misura cautelare anche minima costituisce un deterrente rivelatosi in molti casi efficace, proprio perché fa cessare quel senso di impunità di cui si è detto in precedenza.
Infine, vanno menzionate le modifiche legislative adottate con la legge del 2019 (c.d. Codice Rosso), su cui basti rilevare che esse sembrano adeguatamente realizzare il principio di necessaria immediatezza dell’azione repressiva di cui si è detto in precedenza.
4. Lo stato attuale dell’azione repressiva: miglioramenti e persistenti criticità
Le innovazioni legislative sopra sommariamente descritte e la loro pronta metabolizzazione da parte degli organi di Polizia Giudiziaria e della magistratura inquirente (sia pure con le inevitabili eccezioni e le difficoltà dovute soprattutto alle croniche carenze di organico che affliggono la maggior parte delle Procure del nostro paese) ha comportato un indubbio aumento della repressione al fenomeno della violenza di genere.
Tuttavia, la risposta giudiziaria è sembrata non sempre all’altezza delle aspettative, soprattutto in considerazione del carattere endemico assunto dal fenomeno di cui si è detto.
In particolare, da più punti si è messo l’accento sulla difficoltà di tradurre l’intervento immediato in una repressione dagli effetti duraturi e tale da eliminare effettivamente il pericolo di recidiva in capo ai responsabili dei fatti criminosi.
In altri termini, gli interventi legislativi del 2009, 2013 e 2019 sembrano avere determinato un amento degli interventi in sede cautelare, cui – in percentuale esorbitante rispetto ad altre tipologie di reati - non è seguito il riconoscimento degli elementi raccolti da parte dei Tribunali chiamati a pronunciarsi sull’accertamento processuale dei fatti ipotizzati.
Va ovviamente rilevato che una quota parte di sentenze di assoluzione a fronte di decreti di rinvio a giudizio e persino di ordinanze cautelari deve ritenersi fisiologica ed è conseguenza del modello accusatorio adottato (sia pur con le note limitazioni) dal nostro processo penale.
È infatti logico e persino auspicabile che vi sia uno scollamento tra le decisioni assunte illico et immediato da parte del Giudice delle Indagini preliminari in sede cautelare e quelle adottate dal Tribunale dopo lo svolgimento pieno del contraddittorio. Se così non fosse, lo stesso processo penale come delineato dal nostro legislatore, con la divisione in fasi e la formazione della prova solo nella fase dibattimentale, non avrebbe ragion d’essere.
Tuttavia, come innanzi si diceva, il binomio misura cautelare – sentenza di assoluzione non può considerarsi pienamente fisiologico e comporta la necessità di una riflessione, soprattutto laddove si constati che in questo tipo di reati ricorre molto più di quanto non avvenga normalmente.
In altri termini, in presenza del ripetersi di fenomeni siffatti deve logicamente rilevarsi che o nei reati connotati da violenza di genere si ha un uso eccessivo dello strumento cautelare o si verifica un’anomala percentuale di sentenze di assoluzione, di cui occorre approfondire le cause.
In questo ultimo senso vanno le riflessioni di alcuni giuristi che da tempo rilevano una sottovalutazione delle particolari dinamiche relazionali tra vittima e reo in questo tipo di reati da parte di una certa magistratura giudicante, poco incline ad esempio – secondo questa ricostruzione – all’utilizzo dell’incidente probatorio, unico strumento processuale in grado di evitare i casi di vittimizzazione secondaria e le innumerevoli ritrattazioni in dibattimento delle accuse da cui è scaturito il procedimento penale.
A ciò si aggiungono le voci, sempre più numerose ed autorevoli, degli studiosi della violenza di genere (giuristi e non) che da tempo si interrogano sull’esistenza di un tipo particolare di bias cognitivo nelle decisioni dei giudici che si occupano di reati di violenza di genere, causa diretta di una rilevante parte delle pronunce di assoluzione registrate, non a caso (come meglio si dirà di qui a breve) nei processi di Appello.
Secondo la definizione più comune, i bias cognitivi sono processi di distorsione che intervengono, deviandole, nella valutazione dei fatti ed avvenimenti. Queste distorsioni portano a ricreare una propria visione soggettiva non corrispondente, in tutto o in parte, alla realtà.
In altri termini, si tratta di percorsi mentali indotti che alterano la capacità di giudizio. Come tali, essi possono influenzare le decisioni allontanandole da canoni di logica ed imparzialità. E’ evidente dunque il motivo per cui se ne studiano le applicazioni ai processi mentali che sono alla base delle decisioni dei giudici nei processi[6].
La peculiare categoria di bias cognitivi che affliggerebbe una parte dei giudici penali impegnati nelle decisioni nei processi relativi a reati nella materia in esame sarebbe data dall’esistenza di pregiudizi culturali derivanti dalla millenaria cultura maschilista che affliggerebbe, secondo questa ricostruzione, ancora oggi una rilevante parte della magistratura e che porterebbe ad una svalutazione del compendio probatorio nei processi, diretta responsabile delle sentenze di assoluzione.
Queste cause di distorsione dei giudizi in tema di violenza di genere sono indicate con il nome collettivo di stereotipi di genere.
Un recente studio su un significativo campione di sentenze dei giudici del nostro Paese, ad opera peraltro di un’esponente della categoria, ha messo in luce la persistente pervasività del fenomeno, evidenziando decine di sentenze emesse dai Tribunali e (soprattutto) delle Corti di Appello del nostro paese in cui la decisione appare viziata dalla presenza di questi stereotipi[7].
Con due pronunce emesse a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, il dibattito sull’esistenza degli stereotipi di genere è improvvisamente uscito dal circuito dottrinario per irrompere nelle aule giudiziarie, coinvolgendo altresì il mondo della formazione dei magistrati (ed è questo il motivo per cui si ne parla in questa sede).
5. La pronuncia della Corte EDU del maggio 2021 e la decisione del Comitato Cedaw del gennaio 2022
Il primo provvedimento è stato emesso nel maggio del 2021 dalla Corte EDU, che all’esito di un procedimento per violenza sessuale che riguardava il nostro paese ha qualificato come “deplorevoli ed irrilevanti” i riferimenti alla vita non lineare della vittima.
Nella motivazione la Corte ha altresì ammonito la magistratura italiana ad evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni.
A distanza di pochi mesi da questo primo “ammonimento”, l’Italia è stata oggetto di una decisione di un organismo dell’ONU, che presenta forti analogie con quella della Corte EDU menzionata.
Va premesso che nel dicembre del 1979 l’assemblea Generale dell’ONU ha adottato la “Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione delle donne” (CEDAW); la Convenzione è stata ratificata dall’Italia nel 1985 con legge.
Nell’ambito delle iniziative connesse alla Convenzione è stato istituito un Comitato (c.d Comitato CEDAW) con il compito di esaminare i progressi realizzati dagli stati aderenti nell’adempimento degli obblighi della Convenzione e dunque operare un monitoraggio della situazione esistente in tema di discriminazione contro le donne. Tra le attribuzioni del Comitato riveste particolare interesse l’esame delle denunce di violazione della Convenzione presentate da singoli, all’esito del quale il Comitato emette delle Comunicazioni agli Stati contraenti.
Tali comunicazioni non hanno valore vincolante ma costituiscono raccomandazioni destinate al singolo Stato.
Il 18 luglio del 2022 il Comitato CEDAW ha formulato una importante Comunicazione nei confronti dello Stato italiano, dopo avere esaminato un processo per violenza sessuale, su impulso della denunciante.
Nell’esaminare il caso discusso davanti ai magistrati italiani, la CEDAW ha infatti concluso che le decisioni della Corte di Appello (che aveva assolto l’imputato dalle accuse, riformando la sentenza di condanna emessa dal Tribunale in primo grado) e della Corte di Cassazione (che aveva rigettato il ricorso confermando dunque e rendendo definitiva la pronuncia di assoluzione) sono state viziate da stereotipi di genere.
In particolare, ha affermato che “la decisione della Corte di annullare la condanna di C.C. per mancanza di prove che dimostrassero gli elementi del reato imputato, nonostante le significative prove forensi, mediche e testimoniali, possa essere attribuita solo a stereotipi di genere profondamente radicati che hanno portato ad attribuire un peso probatorio maggiore al racconto dell'imputato, che è stato chiaramente preferito, senza alcun esame critico delle argomentazioni della difesa, senza alcun riesame o revisione delle prove per consentire ai testimoni di spiegare eventuali incongruenze percepite. Il Comitato ritiene che questa decisione non segua una linea logica di ragionamento se misurata rispetto a qualsiasi criterio oggettivo e non risponda agli obblighi procedurali dello Stato parte”.
Si tratta dunque di un pronunciamento importante, da parte dell’organo dell’ONU addetto al monitoraggio sulla esistenza di discriminazioni contro le donne: questo organo ha formalmente rilevato l’esistenza di stereotipi di genere nelle decisioni di una Corte di Appello e della Corte di Cassazione del nostro paese.
I due provvedimenti emessi dalle Corti italiane dimostrano infatti, ad avviso del Comitato CEDAW, “una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell'abuso di autorità, compreso l'uso e l'abuso di fiducia, dell'impatto dell'esposizione a traumi consecutivi, dei complessi sintomi post-traumatici, tra cui la dissociazione e la perdita di memoria, e delle specifiche vulnerabilità e necessità delle vittime di abusi domestici”.
In altri termini, siamo di fronte ad un problema culturale che coinvolge l’approccio (di parte) dei magistrati italiani inficiandone l’imparzialità di giudizio.
Ed infatti, all’esito della Comunicazione, il Comitato ha emesso diverse raccomandazioni allo Stato italiano, tra le quali alcune implicano la necessità di promuovere iniziative per aumentare la consapevolezza da parte degli operatori del diritto dell’esistenza degli stereotipi di genere e i mezzi culturali per combatterli[8].
Non è stata recepita nella Comunicazione l’esplicita chiamata in causa della ricorrente, che aveva indicato come causa diretta degli stereotipi la mancata previsione di una formazione obbligatoria dei magistrati sul punto da parte degli organi addetti alla loro formazione[9].
Ciò nonostante, appare imprescindibile un esame delle iniziative intraprese e da intraprendere nel campo della formazione dei magistrati per realizzare l’ineludibile cambio di passo culturale in tema di violenza di genere (il terzo livello di contrasto di cui si è detto).
6. Il terzo livello del contrasto: la formazione dei magistrati in tema di violenza domestica e Codice Rosso
Le pronunce esaminate chiamano dunque in causa, con autorevolezza, quello che in principio di trattazione è stato indicato come terzo livello di intervento: quello che si propone di provocare un vero e proprio mutamento culturale nell’approccio alla materia da parte degli operatori di giustizia.
Come si è visto, da più parti è stato più o meno esplicitamente sollecitato un intervento in tal senso degli organismi di formazione di magistrati, avvocati e forze dell’ordine.
Indubbiamente ricade sulla Scuola Superiore della Magistratura il compito di assicurare una formazione dei magistrati che renda pubblici ministeri e giudici attrezzati per affrontare i delicati processi in tema di violenza domestica e sulle donne evitando le trappole dei bias cognitivi – e gli stereotipi di genere – evidenziati.
Va rilevato sul punto che, sin dalla sua istituzione (avvenuta nel 2012), la Scuola ha dedicato particolare attenzione al fenomeno in oggetto, dedicando all’argomento della violenza di genere e dei reati sessuali almeno due corsi l’anno nell’ambito della formazione cosiddetta permanente, quella cioè dedicata all’aggiornamento periodico dei magistrati.
Si tratta di corsi che hanno rivestito un’importanza centrale nella programmazione annuale della Scuola, testimoniata dall’alto livello di relatori selezionati e che ha trovato una rispondenza nel gradimento sempre crescente dei partecipanti.
È stato favorito in ciascuno dei corsi un dialogo costante sia con gli enti occupati nella prevenzione e nel contrasto contro questo tipo di reati, sia alle istituzioni pubbliche, con il coinvolgimento dei Presidenti di Camera e Senato, dei componenti la Commissione Parlamentare per le Pari Opportunità ed i Ministri competenti, istituzioni con le quali la Scuola ha da sempre un proficuo scambio di informazioni utili a monitorare in tempo reale il fenomeno.
Di recente, sono stati organizzati corsi interdisciplinari, per aumentare il dialogo tra magistrati penali e giudici civili specializzati in diritto di famiglia e tutela dei minori, al fine di aumentare anche in questo caso gli scambi di informazioni tra i diversi protagonisti dei procedimenti giudiziari.
Se si considera che in ogni anno solare non è possibile organizzare più di 70-75 corsi di formazione permanente[10], e che in questo numero devono essere ricompresi tutti i corsi di civile e procedura civile, penale e procedura penale, i corsi comuni e quelli aventi ad oggetto temi etici, ordinamentali eccetera, appare evidente il motivo per cui molto raramente si riesce ad organizzare un corso ogni anno per ciascun argomento e che il numero di due corsi mantenuto costante negli anni per il tema della violenza di genere attesta che nessun argomento riceve attualmente maggiore attenzione di quello in esame da parte degli organi di formazione.
Ciò nonostante, nella consapevolezza del carattere eccezionale della situazione in atto, di cui si è ampiamente detto nei paragrafi precedenti di questo scritto, il Comitato Direttivo ha cercato di rafforzare l’offerta formativa sul tema agendo essenzialmente in due direzioni: attraverso l’impulso alle Strutture Territoriali presenti nei distretti di Corte di Appello e inserendo approfondimenti ad hoc sulla violenza di genere in corsi dedicati ad altri argomenti.
Quanto alle Strutture Territoriali (veri e propri organismi di formazione dislocati in ciascuna Corte di Appello e dedicati alla formazione dei magistrati che ne fanno parte), il Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura ha fortemente raccomandato l'organizzazione in sede locale di ulteriori approfondimenti su questo specifico tema, con una risposta oggettivamente eccellente da parte dei formatori decentrati.
Nel triennio 2016-2018, sono stati infatti organizzati in sede decentrata 25 corsi sul tema in esame, che hanno coinvolto pressocché tutte le Corti di Appello; lungi dall’essere iniziative di formazione “minori”, si è trattato di preziose occasioni di confronto tra magistrati appartenenti ad un medesimo territorio (e portatori a volte di specifiche esigenze operative in relazione al contesto culturale di appartenenza) e relatori, sia colleghi che esponenti del mondo accademico, in uno scambio altamente proficuo proprio perché calato nelle singole realtà concrete dei Tribunali e delle Corti di Appello dislocati sul territorio.
Altrettanto importanti le iniziative intraprese per approfondire il tema della violenza di genere nell’ambito di corsi dedicati ad altri settori del diritto penale. Si riportano di seguito alcuni esempi.
- Nell’ultimo corso sulle scriminanti è stato previsto un gruppo di lavoro (dunque non una relazione ma un intero pomeriggio) dedicato alla “legittima difesa dalla violenza domestica”;
- Nel corso sui reati in tema di immigrazione del 2021 uno dei gruppi di lavoro è stato dedicato a “lo straniero e i delitti culturalmente motivati in ambito domestico”;
- Nel corso sul “Le indagini preliminari dall’apertura delle indagini alla formazione della prova” è stata inserita una relazione su “l’escussione dei testimoni vulnerabili”;
- altri approfondimenti sulle vittime vulnerabili sono stati inseriti nel corso su “Lo statuto della prova dichiarativa” ed in quello denominato “I discorsi d’odio”.
Sul versante processuale, devono altresì ritenersi pertinenti al tema in esame le relazioni e i gruppi di lavoro dedicati all’esame del testimone nei processi di violenza sessuale e domestica, alle tecniche di conduzione dell’incidente probatorio ed al particolare statuto della ripetibilità della prova previsto dall’articolo 190 bis del codice di procedura penale, nonché alla peculiare disciplina della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale a cui è stato dedicato apposito spazio nel corso sulle impugnazioni.
Si tratta di alcuni dei numerosi esempi di quella che, nelle intenzioni del Comitato Direttivo della Scuola, è divenuto oggetto non di specifici approfondimenti ma di una sorta di “formazione continua”.
Ancora, vanno menzionati in tema i numerosi approfondimenti dedicati all’argomento nel corso del tirocinio iniziale, sia generico che mirato, molti dei quali sovrapponibili agli argomenti già menzionati in tema di formazione permanente, altri (come gli spazi dedicati ai bias cognitivi nei processi di violenza di genere nella relazione sulla “psicologia del giudicare”) specificamente immaginati per il percorso formativo dei MOT. Altri specifici approfondimenti sono riservati alla gestione processuale delle vittime vulnerabili. Tra di essi, una delle esercitazioni che i MOT sono tenuti a redigere per la valutazione finale del tirocinio.
Parimenti, appositi corsi sono stati specificamente dedicati al tema nei corsi di formazione onoraria, mentre sono allo studio implementazioni nei corsi di preparazione ai direttivi e semidirettivi (c.d. formazione dirigenti).
Occorre infatti promuovere piena consapevolezza del tema anche nei dirigenti degli uffici, con particolare attenzione al linguaggio utilizzato dai magistrati dell’ufficio diretto nella redazione dei provvedimenti ed ai comportamenti da loro stessi tenuti nei confronti delle colleghe e dei colleghi.
In risposta alle sollecitazioni provenienti dagli organismi comunitari, la Scuola ha inoltre aderito al primo dei “laboratori di Strasburgo”, in particolare a quello dedicato a “La tutela dei diritti della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni: la giurisprudenza italiana e della Corte europea dei diritti dell'uomo”.
L’evento, realizzato in dialogo con la Rappresentanza permanente d'Italia presso il Consiglio d’Europa, inaugura il progetto “Laboratori Strasburgo”, volto a realizzare approfondimenti tematici di tipo seminariale in relazione alle questioni controverse sull'applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e della tutela dei diritti fondamentali.
7. Riflessioni conclusive
Può fondatamente concludersi che, come detto innanzi, a nessun argomento la Scuola Superiore della Magistratura dedica la stessa attenzione riservata al tema della violenza di genere e domestica.
Certamente si tratta di un piano formativo migliorabile e che la Scuola intende implementare ulteriormente: nella programmazione del 2023 è pressocché certo che si darà spazio per la prima volta, sia in sede di formazione permanente che iniziale, ad una riflessione sugli stereotipi di genere, in conseguenza dei provvedimenti sopra menzionati.
In questo modo la formazione intende raccogliere la sfida di portare la risposta giudiziaria al fenomeno violenza di genere sul piano culturale e formativo.
Appare parimenti ineludibile che il “terzo livello” della risposta si raccordi con gli altri due, con iniziative legislative ed ordinamentali ad hoc.
Il nuovo approccio culturale ha infatti bisogno di consapevolezza e professionalità: sarebbe auspicabile ad esempio che all’operatività di pool altamente specializzati esistenti nelle Procure corrispondesse una speculare specializzazione negli uffici dei Giudici delle Indagini preliminari e nei Tribunali (non tutti possono permettersi una sezione dedicata a questo tipo di reati, che richiede invece sensibilità e competenze del tutto peculiari).
L’auspicato cambio di passo culturale non può, in altri termini, essere delegato solo all’attività di formazione in senso stretto ma deve potersi giovare del dialogo tra formatori, legislatori e operatori del diritto.
[1] “www.Polizia di Stato.it”, periodico on line, “Violenza di genere”, 2022.
[2] P. DI NICOLA TRAVAGLINI – F.MENDITTO, Codice Rosso, Milano 2020, pag. 2.
[3] Si pensi, per rimanere a tempi recenti, al terrorismo internazionale di matrice islamica o ai furti in appartamento che hanno dato origine alle modifiche legislative in tema di “legittima difesa domestica” o, risalendo più indietro, agli omicidi stradali fino ad arrivare ai delitti contro la Pubblica Amministrazione o alla criminalità organizzata, senza trascurare il fenomeno degli infortuni sul lavoro, oggetto di attenzione carsica ed incostante da parte di opinione pubblica e legislatore.
[4][4] L’allontanamento dalla casa familiare (282 bis) e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (282 ter).
[5] il primo periodo dell’articolo 275, 3° comma, dopo la modifica menzionata, dispone ora che “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”.
[6] Come noto, sempre più frequenti sono gli studi sulla “psicologia del giudicare”, oggetto anche di attenzione da parte della Scuola Superiore della Magistratura, che dedica da qualche anno all’argomento corsi di formazione permanente ed approfondimenti destinati ai MOT.
[7] P.DI NICOLA, “La mia parola contro la tua”, Harper Collins, 2018.
[8] In particolare, il Comitato ha raccomandato che l’Italia debba “fornire adeguati programmi di sviluppo delle capacità per giudici, avvocati, funzionari delle forze dell'ordine, personale medico e tutte le altre parti interessate, per spiegare le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e della discriminazione di genere; e (...) Sviluppare, attuare e monitorare strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza di genere”
[9] Nel riassumere il ricorso, il Comitato CEDAW così si è espresso: “L'autrice sostiene che questi stereotipi sono il risultato della mancata attuazione da parte dello Stato parte di misure volte a modificare, trasformare ed eliminare gli stereotipi di genere, imponendo una formazione obbligatoria a tutti i livelli della magistratura sugli effetti di tali stereotipi sulla gestione imparziale della violenza di genere, per garantire alle donne un accesso paritario alla giustizia, e quindi non affrontando le norme culturali che hanno un impatto sulla cultura giuridica interna e portano a impatti negativi sull'interpretazione degli elementi soggettivi del diritto penale. La donna sostiene quindi di non essere stata protetta dalla discriminazione da parte delle autorità pubbliche, compresa la magistratura, e di non aver esercitato la dovuta diligenza nel punire gli atti di violenza contro le donne, in particolare lo stupro.”
[10] Il numero è conseguenza della divisione delle settimane disponibili tra corsi di formazione permanente, iniziale, corsi per onorari, corsi di formazione dei direttivi, scambi internazionali e le altre attività dell’ente e tiene conto altresì dei limiti strutturali derivanti dalla cronica carenza di organico che affligge il personale amministrativo della Scuola, al pari degli uffici giudiziari di tutto il territorio.
25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne - Editoriale
Una recente pubblicazione della Direzione Centrale della Polizia Criminale, Servizio Analisi Criminale – Dipartimento di Pubblica Sicurezza segnala come nel periodo 1° gennaio 2022 – 20 novembre 2022 in Italia “sono stati registrati 273 omicidi, con 104 vittime donne, di cui 88 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 52 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner".
Analizzando i numeri, rispetto all’anno precedente, si registra, sul dato aggregato, un aumento del 2% (5 episodi in più), mentre diminuisce il numero delle vittime di genere femminile, che da 109 diventano 104 (-5%). Diminuiscono i delitti commessi in ambito familiare/affettivo, che da 136 scendono a 120 (-12%), di cui 88 di genere femminile (da 96, con -6%). Ancora, sono in flessione sia il numero di omicidi commessi dal partner o ex partner, che da 68 scendono a 56 (-18%), di cui 52 donne (-16%).
Il dato emergenziale, seppur con una tendenza in calo, permane; riprova ne è l’approvazione in Senato, in data 24/11/22, dell’istituzione di una commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere.
Si rende pertanto necessaria una riflessione che consenta di individuare modelli culturali di intervento che siano in grado di comprendere la complessità del fenomeno della violenza di genere.
In tale prospettiva la rivista Giustizia Insieme ha da tempo inteso avviare un percorso[i] – oggi inaugurando una nuova sezione – che possa, attraverso un approccio multidisciplinare, ampliare il punto di osservazione su discipline extra giuridiche, dalla sociologia, alla psicologia, alla linguistica.
Il Legislatore, negli anni, si è fatto carico di arginare quella che, a tutti gli effetti è una piaga sociale. Lo ha fatto attraverso l’introduzione di numerosi istituti che consentono, pur a mente l’imponderabilità del comportamento umano, sia alla magistratura che alle forze di polizia presenti sul territorio, di intervenire tempestivamente con misure che, di frequente, sono idonee a tutelare l’incolumità della persona offesa.
Ciò nondimeno, affrontare le peculiarità del fenomeno della violenza di genere richiede una comprensione che non si limita al fatto storico ed alla sequenziale applicazione di norme sostanziali e processuali ma che, aprendosi ad altri settori della conoscenza, consenta di giungere ad una valutazione ponderata, articolata ma, al contempo, frutto di una sintesi che sia in grado di tratteggiare le vicende dell’agire umano nella sua complessità.
Con tale auspicio, si avvierà questa sezione della rivista proprio muovendo da un contributo sul ruolo della Scuola Superiore della Magistratura nella formazione del magistrato chiamato a confrontarsi, quotidianamente, con fatti di violenza di genere.
[1] La violenza di genere e misure di prevenzione: la valutazione della pericolosità nel contesto delle relazioni familiari Nota a Corte d’Appello di Bari n. 27405 del 01.06.2022 di Rita Russo
"Il Braccialetto elettronico” e protezione vittima di violenza di genere di Maria Monteleone
Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria di Maria Monteleone
Il “codice rosso”: quando la legge diventa propaganda di Marco Imperato
Edipo, la giustizia e le relazioni familiari di Rita Russo
Alcune riflessioni intorno all’idea di legge nell’opera e nei processi di Pier Paolo Pasolini
di Barbara Castaldo
Tra il 1949 e il 1977 (dunque anche post-mortem) Pier Paolo Pasolini e la sua opera sono stati sottoposti a più di trenta processi con accuse di corruzione di minori, oscenità, diffamazione a mezzo stampa, apologia di reato, favoreggiamento, furto, rapina a mano armata, vilipendio alla religione di stato, incauto affidamento, invasione d’edificio e propaganda antinazionale, per citare alcuni dei capi d’imputazione. Quanto più le vicende giudiziarie travolsero la vita e l’arte di Pasolini con un’intensità proporzionale all’aumento di popolarità e di esposizione mediatica dell’autore, tanto più significativo è il suo silenzio creativo in merito al campo giuridico e giudiziario: infatti le narrazioni legate alla legge e alla giustizia sono quantitativamente esigue rispetto a una produzione letteraria e cinematografica assai vasta. Questo saggio intende fornire alcuni spunti sull’idea di legge che si delinea sia nell’opera che nei procedimenti giudiziari di Pasolini. L’analisi mira anche a proporre un’interpretazione dei processi come l’attuazione concreta di alcuni punti chiave della poetica dell’autore trasferiti nel reale contesto biografico. Nonostante i processi rappresentarono uno dei momenti più opachi e tormentati della sua vita, attraverso di loro Pasolini realizzò alcuni aspetti fondamentali del suo discorso artistico. Nelle opere giovanili dell’autore e fino alle poesie della raccolta La religione del mio tempo (composta tra il 1955 e il 1959),1 si affacciano ideali di giustizia pieni di speranza che sono tuttavia rinnegati a partire dagli anni ’60 quando le considerazioni sulla legge si inseriscono nel più vasto ritratto pessimista della cultura e società moderne, per essere infine associate al discorso sul potere. Negli anni in cui si intensificarono i processi, tra il 1960 e il 1975, l’opera e gli scritti autobiografici dell’autore manifestano un progressivo nichilismo nei confronti della legge e della possibilità di una giustizia umana. Gradualmente, l’autore arrivò a concepire il settore giuridico come dissociato dall’etica e di conseguenza lo estraniò dal suo universo creativo o lo incluse come simbolo negativo. I valori universali della giustizia e della verità sono custoditi solo dalla poesia, quindi dall’arte, perché “la Poesia è Giustizia. Giustizia che cresce / in libertà, nei soli dell’anima”.2 Chi dovrebbe garantire il rispetto di questi ideali, cioè il diritto e le istituzioni, scende a patti con il contesto storico e sociale e soprattutto si compromette con il potere di cui diviene strumento.
L’organo legislativo si uniforma alle esigenze pratiche della società anche al costo di negare valori sacri: si pensi alla reazione inorridita dell’autore ai referendum indetti dal Partito Radicale sull’aborto, la cui eventuale legislazione (poi approvata nel 1978) fu da lui definita una “legalizzazione dell’omicidio”.3
L’arte di Pasolini acquistò nel tempo una dimensione normativa derivante dall’etica: la sua opera lancia infatti una provocatoria sollecitazione morale, compila al suo interno un rigoroso idealismo, dalle aspirazioni potenzialmente enciclopediche, attraverso un inventario che affronta tutti gli ambiti della cultura umana, da quello sociale al politico, dal contesto religioso al giuridico, dall’economia alla sessualità. Nelle rappresentazioni letterarie e cinematografiche incombe un senso prescrittivo che mostra parallelamente come dovrebbe essere la realtà e come purtroppo è. Il contrasto tra il modello ideale e la banalità del reale è spesso esibito anche visivamente: si pensi alla doppia iconografia delle ricostruzioni pittoriche della Deposizione dalla croce di Pontormo e Rosso Fiorentino nel film La ricotta, in cui vengono affiancate una perfetta resa cinematografica dell’antico dipinto sacro e la sua trasposizione blasfema nella realtà contemporanea.4
Anche nel settore giuridico l’idealismo incontra il suo opposto nella raffigurazione svalutata del ‘paese legale’: l’incertezza e il relativismo della giustizia terrena, la sfiducia nelle istituzioni legali e politiche sono alcuni motivi nell’opera di Pasolini che portano alla contrapposizione del sublime ideale di giustizia alla misera realtà della sua comprensione e amministrazione. Poiché solo l’arte è profondamente etica in senso oggettivo e universale, deve potersi muovere libera in uno spazio al di fuori della legge e del controllo dello Stato, preservando l’ordine interiore e la giustizia che le sono congeniti. La censura e in generale l’ingerenza legale di Stato nel campo artistico sono delegittimate poiché l’arte è di proprietà ideologica esclusiva dell’autore (si veda l’articolo di Pasolini, Le mostruosità della censura).5 Dal momento in cui l’autore svuotò la censura di significato, ribadì un’incondizionata libertà espressiva creando ogni opera in modalità sempre più provocatoria, o come preferirebbe esprimersi Pasolini, “scandalosa”. Tra il 1966-67 l’autore sviluppò in maniera compiuta e centrale il suo pensiero giuridico con il dramma teatrale Pilade.6 Ispirato all’antica trilogia greca dell’Orestiade, il dramma esplora filosoficamente le origini del diritto: la storia racconta la rivolta del protagonista Pilade contro le nascenti istituzioni legali e in ultimo il suo rifiuto del moderno contratto sociale. Il personaggio di Pilade è l’alter ego di Pasolini e la tragedia ne mette in scena l’abiura definitiva della legge e l’isolamento sociale causato dall’abbandono dello stato di diritto.
Tra i vari contenuti della tragedia si trova un motivo frequente nell’opera di Pasolini, il passaggio del mondo antico alla modernità, il soccombere della visione sacra alla razionalità laica del presente. Questo soggetto è esplorato ampiamente nelle varie figurazioni nostalgiche delle civiltà pre-capitalistiche identificate nelle società contadine, poi nel sottoproletariato urbano, e infine nei popoli del cosiddetto “Terzo Mondo” (Pasolini usava la classificazione colonialista all’epoca diffusa). Anche in Pilade si racconta l’evoluzione, o meglio l’involuzione, di una civiltà umana: si tratta del passaggio dall’antico stato di natura al moderno stato di diritto, un’allegoria della stipula del contratto sociale secondo le idee sviluppate nelle riflessioni filosofiche di Hobbes, Locke, e Rousseau.7 Al centro del dramma c’è la nascita del primo tribunale umano: la dea Atena ordina infatti che i reati degli ateniesi siano giudicati dai cittadini stessi riuniti in un tribunale e che la legge e la giustizia siano da questo punto amministrate dagli uomini e non più dalle divinità. In Pilade è rappresentata la separazione del diritto dalla religione, il sopravvento delle leggi scritte sull’istinto naturale e sul buon senso della tradizione orale. Tuttavia il protagonista Pilade, ancorato al passato e alle tradizioni, si ribella a quello che considera un falso progresso e rifiuta di riconoscere la legittimità del patto sociale stipulato tra uomini e dei. Di fronte al tribunale ateniese, riunito per giudicare il suo dissenso, egli profetizza il futuro ritorno del caos e della violenza (personificati nelle Erinni, le divinità della vendetta), solo apparentemente allontanati. Piuttosto che sottostare alle nuove leggi, Pilade preferisce abbandonare il consorzio civile e vivere in solitario esilio.
L’insegnamento di questo bellissimo dramma costituisce il punto di partenza per comprendere sia i processi che i temi giuridici nell’opera di Pasolini. Come Pilade non crede al tribunale umano perché ritiene che solo gli dei possano giudicare la complessa interiorità dell’uomo e le sue oscurità, anche l’autore non aveva fiducia nella capacità valutativa dei giudici. Pilade dimostra che solo l’individuo può preservare correttamente il principio etico nel senso kantiano di “legge morale dentro di me”.8 L’antagonismo tra le restrizioni razionali della civiltà e le sue leggi e i desideri repressi dell’individuo, costretto a obbedire alle leggi, ricorda il conflitto nevrotico studiato da Freud nel Disagio della civiltà. Il nichilismo di Pilade rispetto al giudizio e alle leggi umane da questo momento informa ogni futura rappresentazione legale nell’opera di Pasolini, ispirando alcuni personaggi minori e brevi immagini artistiche, e da ultimo plasmando l’incubo di natura ontologica del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, la riflessione finale dell’autore sulla legge e il potere.9
Il grande affresco allegorico di Salò trae ispirazione dal racconto immaginario di De Sade (Les Cent Vingt Journées de Sodome ou l'École du libertinage) e dagli eventi storici della Repubblica Sociale di Salò. I quattro Signori a capo dei poteri economico, ecclesiastico, nobiliare e legale della Repubblica escogitano e codificano oltraggi e violenze da eseguire sui loro prigionieri attraverso rituali rigorosi. Tra i quattro potenti c’è anche Sua Eccellenza il Presidente della Corte d’Appello, simbolo dei due poteri legislativo e giudiziario dello Stato. La ritualità con cui i Signori esercitano il loro sadismo è l’equivalente del protocollo giudiziario: la repressiva legge di Salò con i suoi codici e riti mima la prassi socialmente accettata del sistema giuridico, il quale limita la libertà umana fino a offenderla e abusarne al pari dei corpi offesi e abusati dei prigionieri. La violenza di questo potere totalitario è legittimata dal conformismo dei prigionieri che scelgono di adeguarvisi piuttosto che ribellarsi, e questa acquiescenza crea un legame particolare fra chi codifica ed esercita la legge e chi la subisce. La storia di Salò racconta appunto di questa sottile dinamica e dello scambio di ruoli tra carnefici e vittime, guardie e prigionieri. La legge e gli organi che la amministrano, nati storicamente e filosoficamente per arginare l’anarchia sociale in un ordine normativo, sono presentati piuttosto come la legalizzazione del sopruso, istituzionalmente nelle mani di chiunque detenga il potere. Il film dimostra drammaticamente come il potere sia per sua natura autocratico e anarchico perché fa ciò che vuole, e codificato in leggi gestite dal sadismo di pochi individui e accettate dal masochismo dei molti. Mentre in Pilade il primo tribunale umano è concepito dall’ingegno della sapiente Atena, dunque ancora fondato sulla ratio (anche se subito negato di senso e legittimità), e avallato dalla collaborazione di Oreste e degli altri cittadini, in Salò il binomio legge-potere è il prodotto delle menti di maniaci e assassini e caratterizzato da una compartecipazione sadomasochistica.
Tra il pensiero conclusivo di Salò e quello iniziale di Pilade si incontrano fugaci visioni e personaggi che confermano l’importanza emblematica di entrambi nell’opera di Pasolini. Ad esempio nel film Porcile c’è un imputato che siede in un tribunale aspettando la sentenza.10 Si tratta di una breve sequenza in cui si osservano le labbra del giudice muoversi ma non ci sono suoni, e la sentenza di condanna è resa manifesta non da parole ma dalle reazioni degli astanti che urlano di dolore o piangono, sempre nel silenzio assoluto. In Appunti per un film su San Paolo (un progetto di film concepito tra il 1968 e il ’74 e mai realizzato) l’origine della legge è indagata attraverso incessanti dialoghi filosofici in cui San Paolo la collega ai concetti religiosi di peccato originale e trasgressione, colpa e castigo.11 Non siamo lontani dal paradigma di Pilade sull’armonia originaria di religione e diritto. Per San Paolo la legge è definita da simboli di morte, mentre lo stato pre- legale è associato alla vita (come nel messaggio di Salò). Va anche ricordato che il film avrebbe dovuto iniziare con la scena di un tribunale composto da fascisti che uccidono il “martire adolescente” santo Stefano durante un processo farsa.
I tribunali spaventosi e i diversi processi farsa trovano analogie e precedenti letterari nell’opera di Franz Kafka. Entrambi gli autori Kafka e Pasolini sono stati artisticamente affascinati dall’archetipo dell’innocenza travisata come colpevolezza: numerosi loro personaggi, erroneamente giudicati colpevoli, muoiono come dei martiri, si pensi alle condanne assurde e senza regolare processo dei protagonisti kafkiani di Nella colonia penale o Il processo, ma anche alle morti innocenti, incomprese, raccontate in La metamorfosi e Un digiunatore; similmente, nella poesia di Pasolini ci sono diversi soggetti lirici dal forte tessuto autobiografico che muoiono ingiustamente torturati (il più noto è nel poemetto Una disperata vitalità scritto nel 1964).12 A questi esempi si allineano le morti dei vari ladri o ladroni innocenti nei film Accattone, Mamma Roma, La ricotta, o del corvo parlante in Uccellacci e uccellini che, nonostante la sua saggezza e anzi proprio per quella, viene divorato dai personaggi Totò e Ninetto. L’accanimento persecutorio contro innocenti raggiunge un simbolismo estremo nel film Salò dove il potere viola la naturale innocenza dei corpi. Queste inquietanti rappresentazioni artistiche traevano ispirazione dall’esperienza diretta dell’autore con la legge e la società italiana.
I procedimenti legali contro Pasolini furono avviati, a seconda del caso, dalle istituzioni giudiziarie, dall’opinione pubblica o da alcune cariche politiche, vi compare persino la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’autore fu vittima di un’incessante inquisizione giudiziaria e linciaggio collettivo e fu spesso ingiustamente condannato: le prove di un accanimento persecutorio e degli equivoci giudiziari affollano le carte processuali. È tuttavia altrettanto utile e interessante individuare nelle opere incriminate gli elementi ispirati a quella vocazione scandalistica che è un altro archetipo artistico importante nell’arte di Pasolini. Fu il critico Gianfranco Contini a introdurre sin dal 1942 la categoria interpretativa dello “scandalo” nella sua positiva recensione di Poesie a Casarsa: sul soggetto lirico della raccolta poetica e il suo modo di raccontare la terra friulana Contini parla di “narcissismo” (sic) e di “posizione violentemente soggettiva”.13 Questa propensione comporta la necessità di un confronto drammatico con l’altro, muove da posizioni di attacco, provocazione e sfida, genera contenuti di contestazione, usa lo stile espressivo dell’invettiva. Dunque i due archetipi del capro espiatorio e del pirata corsaro, della persecuzione e della provocazione coesistono l’uno accanto all’altro nell’opera di Pasolini – e potremmo dedurre, anche nei processi -, in una interscambiabilità di ruoli che alimenta un ossimoro, un’iconografia doppia. L’ossimoro o la sineciosi è stato identificato come il tratto caratteristico dell’arte di Pasolini (lo individuò per primo Franco Fortini).14 Se in alcuni testi l’autore disegna l’io lirico come un “misero e impotente Socrate”,15 o come il filosofo inquisito ed espulso dalla collettività (Pilade), altre volte il soggetto lirico è combattivo, come l’artista provocatore delineato in Poeta delle ceneri: in questo poemetto il poeta che provoca incendi aspira a diventare “vivente contestazione”, “contestazione pura e azione”, si dichiara pronto per “gettare il […] corpo nella lotta”.16 Nell’articolo Gli studenti di «Ombre Rosse» si legge anche: “l’intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo «esserci» della faccia di un nero o dell’opera di un autore”.17 Non si può fare a meno di notare che alle numerose udienze processuali con cadenza spesso mensile l’autore appariva con il proprio corpo e mettendoci la “faccia”, oltre che l’opera. Le controversie legali in cui Pasolini fu coinvolto divennero così il contesto concreto in cui trasformare in realtà un progetto artistico ispirato ai concetti fecondi di scandalo e contestazione.
È possibile interpretare la conflittualità con le istituzioni giudiziarie come la traduzione sul piano dell’esperienza biografica dell’arte di Pasolini, che è di natura oppositiva, polemica e dialettica: come già notava Contini, l’identità dell’autore è difatti spesso incorporata nel prodotto estetico, cifra espressiva di una personalità artistica di cui autobiografismo e narcisismo sono spiccati tratti costitutivi. Teorie come scandalo, poesia-azione, legge-potere, contestazione, nonché i personaggi associati all’ambito legale (Pilade, De Sade, San Paolo, Socrate) assumono un significato più chiaro se rivisti alla luce del contesto autobiografico dei processi. Lo scandalo era la testa d’ariete con cui l’opera irrompeva all’interno dei tribunali e veniva diramata nella società attraverso il tam tam pubblicitario dei mass media e dell’opinione pubblica. Nei processi l’autore perorava il suo discorso artistico di fronte ai magistrati come il personaggio Pilade: per le sue testimonianze preparava lunghi promemoria con spiegazioni tecniche e interpretazioni critiche dei suoi lavori, esponeva sofisticate riflessioni di natura estetica nelle aule dei tribunali come faceva nei saggi o nei documentari. Alcune udienze processuali divennero persino strumentali per l’ideazione di teorie artistiche, fornendo all’autore l’occasione per una loro prima stesura poi messa a punto nei saggi critici.18 Se le tematiche giuridiche non sono molto frequenti nell’opera, sono tuttavia approfondite nei documenti legali scritti personalmente dall’autore, che si potrebbero dunque utilmente includere nel corpus di Pasolini al pari della saggistica. La popolarità che derivava dai processi era una potente cassa di risonanza in grado di diffondere le posizioni dell’autore (e la sua icona) ben oltre i libri o i film. Il canale giudiziario fu forse scelto di fianco a quelli più tradizionali per restituire centralità all’opera d’arte e per farla circolare estensivamente nella società. Eccetto D’Annunzio, che ricorse ai discorsi pubblici e alle azioni militari, nessun autore italiano è riuscito in una tale massiccia diffusione pubblica e mediatica.
Per concludere, entrambi gli scenari legali, quelli fittizi dell’opera e quelli reali dei processi, raccontano di archetipi doppi e ossimorici entro i quali è inscenato lo scontro tra i tribunali, il diritto e i costumi della società, e l’individuo portatore di una legge interiore e di libero arbitrio. Impossibile ricompattare in epoca moderna l’unione armoniosa tra la legge e l’uomo o tra le regole della comunità e i bisogni dell’individuo. La finzione legale nell’opera dell’autore si è nutrita abbondantemente degli eventi della realtà, e una conferma di ciò è negli esiti delle sue vicende giudiziarie. Rileggerle oggi trasmette un senso di profonda incomprensione tra le parti e addirittura di incomunicabilità tra le istituzioni e l’artista. Stupisce come le provocazioni e lo scandalo lanciati dall’opera e processati per oscenità o vilipendio racchiudano punti di vista tradizionali, una nostalgia di valori passati, posizioni antiquate o oggi addirittura superate: ciò conferma il relativismo del diritto e l’universalità dell’etica, secondo la filosofia del diritto di Pasolini-Pilade. Come nei tribunali immaginati dall’artista, anche nella realtà non ci furono quasi mai piene assoluzioni. Tristemente, Pier Paolo Pasolini non ha ancora oggi ottenuto verità e giustizia per il suo efferato omicidio.
1 Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961.
2 Pasolini, Pietro II, in Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964.
3 Pasolini, Sono contro l’aborto, in «Corriere della Sera», 19 gennaio 1975.
4 Pasolini, La ricotta, in Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello, Arco Film/Cineriz/Lyre Film, 1963.
5 Pasolini, Le mostruosità della censura, in «Vie Nuove», n. 17, 29 aprile 1961.
6 Pasolini, Pilade, in «Nuovi Argomenti», nn. 7-8, luglio-dicembre 1967.
7 Si vedano le discussioni sul “Patto” in Thomas Hobbes, Il Leviatano (tr. it. di Raffaella Santi, Milano, Bompiani, 2001); sulla “legge di natura” e lo “stato di diritto” in John Locke, Due trattati sul governo (tr. it. di Brunella Casalini, Pisa, Plus, 2007); sul “Contratto sociale” nell’opera omonima di Jean-Jacques Rousseau (tr. it. di M. Garin, Bari, Laterza, 1997).
8 Immanuel Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Riga, Johann Friedrich Hartknoch, 1788 (tr. it. di Francesco Capra,
Critica della ragion pratica, Bari, Laterza, 1909, p. 202).
9 Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, PEA / Les Productions Artistes Associés, 1975.
10 Pasolini, Porcile, Gianni Barcelloni Corte / BBG cin. s.r.l. / Gian Vittorio Baldi e IDI Cinematografica / I film dell’Orso / C.A.P.A.C. Filmédis, 1968.
11 Pasolini, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977.
12 Pasolini, Una disperata vitalità, in Poesia in forma di rosa, cit.
13 Gianfranco Contini, Al limite della poesia dialettale, in «Corriere del Ticino», 24 aprile 1943.
14 Franco Fortini, Le poesie italiane di questi anni, «Menabò», n. 2, 1960.
15 Pasolini, Versi sottili come righe di pioggia, in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Einaudi, 1975.
16 Pasolini, Poeta delle ceneri [1966-67], «Nuovi argomenti», luglio-dicembre 1980.
17 Pasolini, Gli studenti di «Ombre Rosse», «Tempo», n. 51, 14 dicembre 1968.
18 Un esempio è la prima elaborazione scritta della teoria del discorso libero indiretto durante lo svolgimento del processo al romanzo Ragazzi di vita (cfr. Barbara Castaldo, Processo a Ragazzi di vita: il discorso libero indiretto entra nelle aule del Tribunale, in «Studi pasoliniani», n. 16, novembre 2022).
La “transizione” come ordinamento giuridico[i]
di Giuseppe Severini (Presidente di Sezione emerito del Consiglio di Stato)
Sommario: 1. Il paradigma giuridico della “transizione” – 2. Sulla relazione tra resilienza, transizione e sostenibilità – 3. Su natura e latitudine del PNRR – 4. La consistenza giuridica della “transizione” – 5. Il risultato tempestivo come principio dell’ordinamento della “transizione” – 6. La normativa sulla “transizione” e l’ordinamento generale – 7. Insidie e incongruenze normative.
1. Il paradigma giuridico della “transizione”
Nel linguaggio del diritto, l’alternarsi di paradigmi giuridici è segnato – com’è in genere per i mutamenti prospettici - dall’ingresso attraverso i “cancelli delle parole”[ii] di nuove formule che relativizzano quelle finora egemoni.
Si tratta di solito, almeno in origine, di espressioni dal significato non preciso ma di cui è manifesto l’orientamento – il c.d. valore, di cui esprimono il “punto di attacco” - e che sintetizzano indirizzi, principi, obiettivi, modelli organizzativi nuovi, tesi a ridurre o modificare gli spazi di quelli ancora dominanti, cui si addebitano incoerenze e disfunzionalità[iii]. Il passaggio successivo, di consolidamento, è che il loro nuovo “diritto fondato sui valori” venga mediante congrue fonti di diritto specificato attraverso, finalmente, un “diritto fondato sulle norme”[iv]. Il che, però, avviene spesso in modo meno coerente e compiuto di quanto ci si potrebbe attendere in nome della sicurezza giuridica.
Così oggi, a guardare al punto di attacco, il paradigma della transizione è segnato dall’ingresso di nuove formule linguistiche quali resilienza, transizione, sostenibilità, e così via. Si direbbero parole-chiave utili a una rilevazione formale di novità ma in realtà recano nel mondo del dover essere nuovi concetti[v], seppur in attesa di più compiuti significati giuridici dal reale valore precettivo: per il che occorre una sufficiente determinatezza di oggetto e una definita e adeguata strumentazione organizzativa e procedimentale.
Già nel linguaggio comune, del resto, il loro ingresso, nel senso che oggi si intende, non pare ancora di accezione precisa. Sono espressioni per lo più mutuate dall’inglese (resilience, transition, sustainability, …) e già la non perfetta corrispondenza semantica all’apparenza fonetica (c.d. false friends: omonimi ma non sinonimi) genera indeterminatezze e malintesi. Per noi, ad es., lo accentua quanto è mostrato da, tertium comparationis, la traduzione dall’inglese al francese (résilience, transition, durabilité, …): lì il significato di sustainability meglio si misura, più che con una tollerabilità nell’equilibrio complessivo del pianeta, con la sua costanza nella dimensione temporale, come sarebbe più efficace per noi con il parlare di stabilità o durevolezza o simili[vi]. Quanto alla transition, è espressione di cui venne fatto ampio uso nel dopo-Guerra Fredda a indicare la transizione alla democrazia liberale e al mercato del mondo ex-sovietico e più ancora la convergenza globale, con la “fine della storia”, nell’immaginato nuovo ordine mondiale[vii].
2. Sulla relazione tra resilienza, transizione e sostenibilità
Questo paradigma ha un modello in scala nell’esperienza, concretizzata circa dal 2005, delle c.d. Transition Towns (dapprima Kinsale, in Irlanda e Totnes, in Inghilterra, poi diffusa altrove) promossa dall’ambientalista Rob Hopkins nell’assunto di preparare quelle comunità alle sfide del riscaldamento globale e del picco dei costi e delle disponibilità energetiche tradizionali, e in vista della generale prevenzione di conseguenze irreparabili provenienti da inquinamento, distruzione della biodiversità, ecc.. Dal che l’incentrarsi sulla resilienza – cioè adattività: la capacità di adattarsi flessibilmente ai cambiamenti che impattano dall’esterno, senza attendere di degenerare – da orientare, mediante appunto i mezzi della transizione, verso il nuovo equilibrio durevole concretato nella sostenibilità: anzitutto verde ma anche digitale, cioè tecnologica. Come dire: la resilienza è la condizione di presa di conoscenza del disequilibrio generato e di formazione di una nuova visione e volontà di reazione; la sostenibilità è l’obiettivo da allora raggiungere mediante un percorso uniforme pianificato e guidato, sinteticamente chiamato transizione.
In questa prospettiva, la transizione non viene assunta a mero effetto, ma considerata un insieme complesso di programmi, di piani, di norme e di risorse dedicate; e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è – in termini definitori[viii] e delimitatori – viene indicato a suo strumento di base, organizzativo e pianificatorio, sul quale essa si incentra[ix].
3. Su natura e latitudine del PNRR
Il PNRR, per il vero, è un atto di non ben definita natura[x] e delimitazione, oltre che di non facile lettura anche per la sua dimensione (attualmente, 271 pagine) e soprattutto per il linguaggio spesso atecnico ed estraneo ai canoni di chiarezza e precisione, essenziali alla sicurezza giuridica, evidentemente non assunta nel suo consapevole valore. È, nell’ordinamento interno, lo strumento di attuazione dell’insieme degli atti di diritto derivato UE relativi al Green Deal: atti essenzialmente della Commissione UE, anzitutto il Recovery Plan UE o “Piano per la ripresa dell'Europa”, basato sulla strumentazione finanziaria Next generation EU, finalizzata a una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa”[xi]. È importante rilevare che, in quanto oggetto di sostanziale negoziazione con, e approvazione da parte della, Commissione europea, in virtù del regolamento UE n. 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, “che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza”, può essere modificato; e che ciò vale anche per gli accordi operativi (operational arrangements) che a valle di esso dettagliano per contenuti e meccanismi di verifica le sue tabelle (mediante milestonee target). Si tratta insomma di un complesso di atti essenzialmente politico-programmatici, di loro non normativi, che può sempre essere rinegoziato – specie al mutare delle circostanze - con la stessa Commissione europea.
Quel che importa qui rilevare è che ci si trova di fronte alla transizione intesa non come mero risultato di passaggio da una situazione ad un’altra, idealmente istantaneo pur se articolato e frammentato; ma come situazione di durata che si articola e sviluppa mediante vari strumenti dedicati e lungo prestabilite e cogenti coordinate temporali: un processo complesso, in parte decentrato e articolato in varie competenze: comunque una situazione intermedia che muove verso obiettivi assunti a valori primari di policy generale (essenzialmente, transizione ecologica e transizione digitale, ma anche – a quanto vi viene assunto - recupero di vari “ritardi che storicamente penalizzano il Paese, relativi ai giovani, alla parità di genere e al divario territoriale”). È perciò – suggerisce la stessa matrice del termine – una fase attiva di trasformazione complessiva, permanente lungo un tempo stabilito e stimato necessario alla sua implementazione, governato da istituti particolari rispetto a quelli ordinari, che nondimeno permangono parallelamente.
4. La consistenza giuridica della “transizione”
Per il giurista cui compete affrontare operativamente il tema con il suo proprio strumentario e alla luce delle categorie che caratterizzano e compongono lo Stato di diritto, la conseguenza di questa rilevazione porta anzitutto a ricercare i fondamenti del nuovo paradigma che così si delinea. La transizione, in questa prospettiva, non è solo un obiettivo di politica generale: essa concretizza di suo, per quel tratto di tempo, un ordinamento giuridico, come sembra suggerire in nuce l’esperienza proattiva di quelle piccole città – metafora dell’ordinamento giuridico[xii] -, con suoi propri principi e sue proprie regole, che coesiste a fianco di quello ordinario e con quello variamente interagisce, in proporzione agli obiettivi suoi propri e alle invarianze di quello.
Non solo: si direbbe che la pretesa sia quella di un ordinamento giuridico - è da rilevare - non di semplice deroga episodica ma di tendenziale eccezione: non, cioè, una serie incoerente di regole speciali rispetto a quelle ordinarie; bensì formule organizzative e procedimentali specifiche ed orientate a una loro referenzialità che tendono a porsi come un insieme di eccezioni.
Il fondamento di questo carattere poggia sull’assetto orientato che l’UE, facendo leva coercitiva sulle cinquantuno condizionalità di utilizzazione[xiii] che ha posto alle sue capacità di finanziamento, figura - in vista di una prospettiva globale - per gli Stati membri a fronte dell’emergenza ambientale e climatica: ciò sulla scorta di quanto già assunto progettualmente con le politiche proposte dalla Commissione tra 2019 e 2020 e sintetizzate appunto in European Green Deal, ovvero Patto Verde per l’Europa, che assume l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano trascende tuttavia questo obiettivo generale perché si sviluppa intorno a tre assi strategici: non soltanto transizione ecologica ma anche digitalizzazione e innovazione, e inclusione sociale. E a tal fine, con un’evidente ampiezza di latitudine, si articola in sei missioni(digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute). Queste sono figurate corrispondere ai sei pilastri posti dall’art. 3 del regolamento (UE) 2021/241 (“che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza”) del 12 febbraio 2021: a)transizione verde [dove centrale è il principio di “non arrecare un pregiudizio significativo” (“Do No Significant Harm” (DNSH) all’ambiente, sulle cui basi - da sviluppare da noi anzitutto sulla base di fonte primaria – va tecnicamente valutata la compatibilità effettiva delle singole iniziative]; b)trasformazione digitale; c) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, che comprenda coesione economica, occupazione, produttività, competitività, ricerca, sviluppo e innovazione, e un mercato interno ben funzionante con PMI forti; d) coesione sociale e territoriale; e) salute e resilienza economica, sociale e istituzionale, al fine, fra l'altro, di rafforzare la capacità di risposta alle crisi e la preparazione alle crisi; e f) politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l'istruzione e le competenze.
In effetti, se si guarda alle varie e molteplici formule in cui il PNRR declina la transizione, con i suoi traguardi e obiettivi, parrebbe conseguenziale constatare che il principio ispiratore di questo diritto della transizione tenda a porsi come eccezione al carattere generale dello Stato di diritto quale democrazia procedurale che impronta, nel diritto amministrativo, la prevalenza della struttura del procedimento, metodo acquisitivo e dialettico per produrre di volta in volta la miglior cura degli interessi pubblici.
5. Il risultato tempestivo come principio dell’ordinamento della “transizione”
È nondimeno da rammentare l’assunto, formulato da Schumpeter[xiv], Kelsen[xv],Bobbio[xvi], Dahl[xvii] e ampiamente ripreso, che la democrazia acquisti ormai crescente carattere procedurale piuttosto che sostanziale. Come proiezione dello Stato di diritto, si incentra ben più sul come che sul cosa; sul rispetto di regole e procedure, improntate a confronto, partecipazione e trasparenza, piuttosto che sul conseguimento comunque di risultati prefigurati una volta per tutte intorno a un progetto. Da questa connotazione discende, nella formulazione operativa, la concezione garantistica del procedimento amministrativo sviluppata nella seconda metà del sec. XX che ha dato corpo all’impianto della legge n. 241 del 1990[xviii].
Avviene invece che in quest’ordinamento della transizione sia affiancata alla dimensione procedurale un’accentuazione sostanziale, e non soltanto arricchendo di norme speciali, essenzialmente semplificatorie, quelle ordinarie. ciò in vista dell’esigenza di fondo di raggiungere – resistendo anche al mutamento dell’indirizzo politico parlamentare - entro un tempo prefissato gli obiettivi stabiliti di sostenibilità, vista la loro indefettibilità una volta considerata la non sostenibilità dell’impiego delle risorse sinora praticato.
Il risultato parrebbe dunque, in buona parte, entrare nel metodo e condizionarlo, andando oltre le implicazioni della democrazia rappresentativa, che ha nelle norme poste dal legislatore la centrale fonte del diritto e nel costrutto delle fonti che ne deriva il suo corollario[xix]. Il principio fondamentale cui fare riferimento e che tende a innervare le previsioni discendenti dal PNRR è, in questa prospettiva, ancorato all’effetto risolutivo del mancato rispetto delle condizionalità imposte dalla Commissione UE. Diviene perciò centrale il conseguimento del risultato prestabilito[xx]. Questa convergenza si potrebbe sintetizzare in un enunciato prescrittivo che vale al tempo stesso come metodo e come criterio interpretativo: il conseguimento tempestivo del risultato stabilito dal PNRR.
Questo principio del risultato tempestivo si pone dunque come il precipitato reale della coercitività di fatto del supporto finanziario UE e delle inerenti condizionalità, in rapporto al quale il cosa va a orientare il come. È agevole rilevare che domina la scena del PNRR: o mediante norme ad hoc (ad es., le norme processuali acceleratorie del contenzioso sui contratti pubblici poste dapprima dal d.-l. 7 luglio 2022, n. 85 e poi definite dall’art. 12-bis del d.-l. 7 luglio 2022, n. 85, come conv. dalla l. 5 agosto 2022, n. 108) o – in un’asistematicità di fonti che talora sembra quasi echeggiare tratti di quella dell’emergenza sanitaria, e comunque poco apprezzabile dall’operatore pratico – additando comunque con norme di chiusura soluzioni che, ove ragionevole, fronteggino le non poche contraddizioni e lacune delle norme ad hoc. È in questo complesso scenario che si pone anche la questione del rilievo da attribuire a non-norme, pur copiosamente prodotte al riguardo (come ad es. le ormai numerose circolari della Ragioneria Generale dello Stato).
6. La normativa sulla “transizione” e l’ordinamento generale
Così, se si ha riguardo al c.d. “decreto semplificazioni-bis”, cioè al decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 (Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure), conv. dalla l. 29 luglio 2021, n. 108 – probabilmente il principale strumento normativo per definire modi e forme organizzative con cui dar seguito al PNRR[xxi] – queste considerazioni conducono a rilevare che l’interpretazione va affrontata alla luce, seppur in misura proporzionata, non soltanto delle forme procedimentali (come normalmente sarebbe e che comunque per le ragioni di sistema ricordate rimangono prevalenti), ma anche del risultato tempestivo cui sono funzionali. Del resto, è lo stesso art. 1, comma 2, a esplicitarlo quando stabilisce, appunto con norma di chiusura, che «ai fini del presente decreto e della sua attuazione assume preminente valore l'interesse nazionale alla sollecita e puntuale realizzazione degli interventi inclusi nei Piani indicati al comma 1, nel pieno rispetto degli standard e delle priorità dell'Unione europea in materia di clima e di ambiente». Il che vale in particolar modo per quel Titolo III, che introduce procedure speciali per alcuni progetti PNRR, appunto di eccezione a quelle ordinarie, come ad es. all’art. 44, dedicato a semplificazioni procedurali in materia di nominate opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto[xxii].
Con queste tendenziali coordinate di base il giurista si trova ad affrontare in termini operativi le forme della transizione e i suoi istituti, pur senza poter deflettere da proporzionalità e ragionevolezza che restano immanenti all’intero ordinamento e dimenticare le implicazioni del fondamento rappresentativo della democrazia. Di più: benché ordinamento particolare, il diritto della transizione è pur sempre componente dell’ordinamento generale e di quello partecipa a muovere dall’esigenza indeclinabile di gerarchia delle fonti: in primis i principi e le norme costituzionali, che permangono ineludibili, ma anche i caratteri generali dell’ordinamento, nel quale resta iscritto il carattere di democrazia procedurale. Nei fatti, l’esperienza degli addetti già dà conto della gravosità della ricognizione delle fonti e del loro coordinamento per risolvere adeguatamente antinomie e affrontare lacune.
Ne viene che - in un contesto amministrativo dove incautamente, nella formulazione del PNRR, non pare essere stato dato il rilievo necessario alla dimensione giuridica, anche linguistica – passa ad essere fatale compito dell’interprete, sia amministrativo che giurisdizionale, definire compiutamente il rapporto tra strumentazione ed obiettivi. Nell’attendere a ciò, è bene che egli presti attenzione alle insidie che si annidano nella mera attenzione al risultato della transizione, se vi si è guardato prescindendo dalla strumentazione procedimentale o dalla sua adeguatezza. Guardare al mero risultato è piuttosto compito del livello politico. L’onere del giurista operativo o decidente sarà invece, e in misura non indifferente, prendere sì in debita considerazione il risultato tempestivo, perché entra in termini capitali in questo ordinamento: ma anche rapportarlo ai termini, da vagliare, in cui nelle late sei missioni del PNRR, oltre che nelle riforme “orizzontali” (p.a. e giustizia) e “abilitanti”(semplificazione e concorrenza) - vi è congruenza con l’assunto emergenziale; e, con questi riferimenti, affrontare le questioni della coerenza e della sufficiente specificazione dei nuovi principi e precetti recati anzitutto dal Green Deal[xxiii].
7. Insidie e incongruenze normative
È qui il caso di porre attenzione all’insidia insita nella dilatazione, che viene avanzata all’interno di più d’una delle ricordate missioni, della strumentazione PNRR a temi che esulano dell’oggetto proprio dell’emergenza ambientale che lo giustifica, cui vengono associati temi assunti come “ritardi che storicamente penalizzano il Paese” e perciò solo emergenziali anch’essi. Il Recovery Plan è infatti strumento di eccezione e come tale non può essere ampliato per essere portato a base di una sorta di New European Order, di decostruzione in tutti questi ampi spazi del sistema della democrazia rappresentativa, della sua forma costituzionale di governo e della sua proiezione oggettiva nel sistema delle fonti del diritto. Tanto più ci si discosta con questi temi eccentrici dalle strette esigenze del Green Deal, tanto più le basi della ricordata coercitività che vi è immanente entrano in una tale, seria sofferenza, non potendo la democrazia essere commissariata e divenire indifferente alla sua intima dinamica. Non è plausibile ravvisare nel PNRR un’implicita abrogazione – al di fuori del confronto rappresentativo proprio del procedimento legislativo - degli àmbiti normativi che quei temi regolano, pena una eccezione radicale a quei riguardi dell’ordinamento stesso.
Analogamente, è il caso di rilevare, proprio dal punto di vista dell’incoerenza delle fonti, l’effetto paradossale dell’elevazione del grado di insicurezza giuridica da incompiutezza delle norme, con il suo riflesso inevitabile di crescente giudiziarizzazione a supplenza, che pure è di suo assunto come un assai serio fattore di “ritardo” (e non solo di “ritardo”, a quei propositi, si tratta). È facile infatti immaginare che – a dispetto degli snellimenti così dettagliatamente immaginati o presunti per la riforma “orizzontale” della giustizia – molte, com’è conseguente quando il dato normativo è malcerto, saranno le nuove questioni che verranno portate davanti ai giudici: e che tra queste le conclamate finalità particolari costituiranno un parametro di rilievo nel figurare inediti profili di eccesso di potere e sospetti di nuove irragionevolezze.
Ne viene in sintesi che, fermo che le condizionalità pongono una coercitività di fatto del risultato tempestivo, permane compito del giurista riportare nel giusto equilibrio le clausole incongrue di questo ordinamento e ricomporre le incertezze che gli presenterà in itinerel’incoerenza con cui, ad oggi, si è in più parti inteso procedere nel disegnarlo.
[i] elaborazione dell’introduzione all’incontro “Diritto amministrativo e PNRR”, organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Perugia e dalla Camera Amministrativa dell’Umbria, 23 settembre 2022.
[ii] è la nota immagine di N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Milano 2016, 57.
[iii] Il mutamento di paradigma (paradigm shift) è fenomeno concettualizzato dal filosofo della scienza statunitense Thomas Samuel Kuhn in The Structure of Scientific Revolutions (1962) per indicare, in filosofia della scienza e in sociologia, il nuovo complesso di regole metodologiche, modelli esplicativi, criterî di soluzione di problemi che connota una comunità scientifica in una fase particolare dell’evoluzione della loro disciplina: es. il passaggio dalla concezione copernicana a quella tolemaica, o dal creazionismo all’evoluzionismo, ecc.; ma vale anche in economia per il passaggio dal monetarismo al keynesismo e da questo al neoliberismo e così per il diritto: cfr., in relazione alle trasformazioni del mondo contemporaneo e al loro impatto sui sistemi giuridici, G. ZACCARIA, Postdiritto. Nuove fonti e nuove categorie, Bologna 2022. Nel diritto, appunto, quell’ultimo passaggio, nel diritto, agli inizi degli anni ’90 ha condotto alla rivoluzione reticolare e diffusiva delle privatizzazioni e alla tendenziale decostruzione del diritto amministrativo classico: cfr. F. OST e M. V. DE KERCHOVE, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles 2002; S. CASSESE, La crisi dello Stato, Roma-Bari 2002; B. SORDI, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, Bologna 2020, 211 ss.; F. BOTTINI, Le néolibéralisme et l'“utilitarisation du droit public. Avant-propos, in Néolibéralisme et droit public, a cura di F. Bottini, Paris 2017, 23; A. ZOPPINI, Il diritto privato e i suoi confini, Bologna 2020, 239 ss.; G.P. CIRILLO, Sistema istituzionale di diritto comune, Padova 2021; F. DENOZZA, Regole e mercato nel diritto neoliberale, in n Rispoli Farina M., Sciarrone Alibrandi A. e Tonelli E., Regole e mercato, Torino2017, XV; O. GIOLO, Il diritto neoliberale; Napoli 2020.
[iv] secondo la nota rilevazione critica di C. SCHMITT, La tirannia dei valori, Milano 2008 [Die Tyrannei der Werte, Stuttgart 1967], 53 ss..
[v] Su resilienza, v. ad es. J. RIFKIN, L'età della resilienza. Ripensare l'esistenza su una terra che si rinaturalizza, Milano 2022, che contrappone all’Età del Progresso, incentrata sul principio di efficienza, l’Età della Resilienza, incentrata sull’adattività.
[vi] È questo uno slittamento tralaticio, data dagli anni ’90 con il consolidarsi della traduzione di sustainable development in sviluppo sostenibile anziché durevole(cioè in vista e a beneficio delle le future generazioni) come appunto in francese è grazie a développement durable. È comunque acquisito che questa sostenibilità dev’essere comune ai suoi tre pilastri, le tre dimensioni: ambientale, economica e sociale e che ciò dev’essere stabile. Sicché non c’è autentica sostenibilità se tale non è, in una, da tutti i tre punti di vista.
[vii] La c.d. “Transition to a New World Order”. Cfr. da ultimo A. COLOMBO, Il governo mondiale dell'emergenza. Dall'apoteosi della sicurezza all'epidemia dell'insicurezza, Milano 2022, 7 ss..
[viii] L’art. 2, lett. b), del regolamento (Ue) 2021/241 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza, definisce la resilienza come « la capacità diaffrontare gli shock economici, sociali e ambientali e/o i persistenti cambiamenti strutturali in modo equo, sostenibile e inclusivo».
[ix] Il che, del resto, era ormai già nelle prospettive attuali originate dall’innovazione tecnologica e digitale: cfr. A. BARTOLINI; voce Urbanistica, in Enc. Dir.- i Tematici III 2022, Milano 2022, in particolare il paragrafo di chiusura dedicato a “L’urbanistica della transizione”, dove si collega la transizione digitale all’idea di «smart city» (o «città intelligente»).
[x] Cfr., per un’attenta ricostruzione del procedimento e di alcune criticità di contenuti, G. MONTEDORO, Il ruolo di Governo e Parlamento nell'elaborazione e nell'attuazione del PNRR, in www.giustizia-amministrativa.it, 13 ott. 2021. Sulle prospettive ancora incipienti del PNRR, cfr. M.A. SANDULLI, Sanità, misure abilitanti generali sulla semplificazione e giustizia nel PNRR, in
www.federalismi.it, Osservatorio di diritto sanitario, 28 luglio2021.Sulla natura del PNRR, cfr. N. LUPO, Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e alcune prospettive di ricerca per i costituzionalisti, in www. ivfederalismi.it, n. 1/2022, V, che evidenzia come nella dottrina si parli di atto di “indirizzo politico ‘normativo’”. Questo impegnerebbe anche governi e parlamenti futuri, anche a prescindere dal responso elettorale [così A. SCIORTINO, PNNR e riflessi sulla forma di governo italiana. Un ritorno all’indirizzo politico «normativo»?, in www.federalismi.it, 18/2021, 235 ss., spec. 260]; ovvero di “una sorta di “commissariamento”, di una “vera e propria intromissione nella struttura politica, istituzionale e sociale dei Paesi che hanno richiesto l’assistenza finanziaria del Recovery, che potrebbe portare a una sorta di omologazione strutturale degli Stati membri potendo arrivare persino a cambiarne significativamente forma di Stato e di governo” [così F. SALMONI, Piano Marshall, Recovery Fund e il containment americano verso la Cina. Condizionalità, debito e potere, in www.costituzionalismo.it, 2/2021, p. 51, spec. 77 ss.]; ovvero di “una pianificazione a valenza principalmente se non esclusivamente politica, perciò “con un grado di vincolatività diretta piuttosto limitata per i soggetti istituzionali coinvolti nella sua attuazione” [così M. CLARICH, Il PNRR tra diritto europeo e nazionale: un tentativo di inquadramento giuridico, in Astrid-Rassegna, n. 12/2021, 11 ss.]; ovvero un atto sostanzialmente legificato che impegna, quanto ai risultati indicati, “non solo l’amministrazione chiamata ad eseguire il Piano, ma anche gli altri operatori giuridici, gli interpreti tutti, inclusa la giurisdizione ovviamente”, imponendo una decisa valorizzazione della discrezionalità amministrativa e della sua efficacia al fine di assicurare il conseguimento tempestivo dei risultati in questione” [così F. CINTIOLI, Risultato amministrativo, discrezionalità e PNRR: una proposta per il Giudice, in www.lamagistratura.it, 13 novembre 2021]; ne viene “una compressione della funzione legislativa” perché il PNRR “s’inserisce […] nel nostro sistema delle fonti […] in modo dirompente condizionandone il contenuto, i tempi ed i soggetti che avranno la possibilità di elaborare ed approvare i testi. L’unica strada percorribile, per un’attuazione celere della normativa richiesta dal PNRR, è data da atti normativi di provenienza governativa, decreti legge, leggi delega e conseguenti decreti legislativi, sui quali lo spazio per l’influenza degli altri interlocutori istituzionali, Parlamento e Regioni, è assai compresso” [così E. CATELANI, Profili costituzionali del PNRR, in www. https://www.associazionedeicostituzionalisti.it, n. 5/2022, che mette in evidenza quanto e come l’assetto del PNRR incida sulla forma di governo e sulla stessa forma di Stato; cfr. Id., P.N.R.R. e ordinamento costituzionale: un’introduzione, in https://www.rivistaaic.it, n. 3/2022]; in questo contesto, ci si è chiesti “se la disciplina di esecuzione del PNRR presenti una differente capacità sostitutiva del diritto UE rispetto ai parametri costituzionali, dato che il PNRR fa corpo con norme UE” [E. CAVASINO, L’esperienza del PNRR: le fonti del diritto dal policentrismo alla normazione euro-governativa, ibidem].
[xi] Sia consentito rinviare a G. SEVERINI e U. BARELLI, Gli atti fondamentali dell’Unione europea su “transizione ecologica” e “ripresa e resilienza”: prime osservazioni, in Riv- giur. ambiente, https://rgaonline, aprile 2021 e in www.giustizia-amministrativa.it.
[xii] cfr. A. ROMANO, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. disc. pub., II, 1987, 32. Il concetto origina, sull’esperienza comunale, dal De Regimine Civitatis di Bartolo da Sassoferrato (tra il 1355 e il 1357).
[xiii] Il concetto di condizionalità (cross-compliance / écoconditionnalité) come rispetto di regole per accedere a sostegni UE, finalizzate allo sviluppo sostenibile, nasce nel contesto della Politica Agricola Comune (PAC): introdotto dal Consiglio europeo nel 1997, ripreso dall’AGENDA 2000 ed istituito dal regolamento (CE) n. 1782/2003 del Consiglio del 29 settembre 2003.
[xiv] J. A. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, 1942; trad. it. Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano 1955.
[xv] H. KELSEN, Foundations of Democracy, in Ethics, 1955, 66, 1, 2, trad. it. I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna 1966, 186.
[xvi] N. BOBBIO, Democrazia, in Dizionario di politica a cura di N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino 1990, 287-297.
[xvii] R. DAHL, On Democracy, Yale 1998, trad. it. Sulla democrazia, Bari 2002.
[xviii] lo evidenzia M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, IV ed., Bologna 2013, 237. Sulle origini, v. M. NIGRO, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (Il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in L'azione amministrativa tra garanzia ed efficienza, Napoli 1981, 21 ss..
[xix] Il che è di immediato e serio riflesso sulle garanzie costituzionali inerenti le libertà e i diritti fondamentali, oltre che riguardo agli equilibri istituzionali, al riparto delle competenze ed alla separazione dei poteri: G. CERRINA FERONI, PNRR, digitale: gli impatti su diritti e ordinamento costituzionale, in https://www.agendadigitale.eu.
[xx] cfr. F. CINTIOLI, Risultato amministrativo, discrezionalità e PNRR: una proposta per il Giudice, cit., spec.te § 7.
[xxi] L’art. 1, comma 1, dice che il decreto-legge «definisce il quadro normativo nazionale finalizzato a semplificare e agevolare la realizzazione dei traguardi e degli obiettivi stabiliti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».
[xxii] Per un quadro più ampio sulle fonti normative primarie di attuazione del PNRR, v. il dossier del Servizio studi del Senato della Repubblica, n. 4 della XIX legislatura e, sull’attuazione del PNRR, v. il dossier del Servizio studi della Camera dei Deputati (reperibili, rispettivamente, in https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/19/DOSSIER/0/1361099/index.html e https://temi.camera.it/leg18/temi/piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza.html).
[xxiii] Riguardo a uno di questi temi non congruamente specificato, benché di urgente importanza perché la previa dimostrazione del suo rispetto (non è chiaro su quali parametri tecnici e su quali evidenze) condiziona l’accesso ai finanziamenti previsti dal PNRR, cfr. U. BARELLI, Il PNRR ed il principio "Do No Significant Harm" (DNSH)., in corso di pubblicazione.
La Cassazione civile-tributaria alla sfida del PNRR, in sintesi ed in prospettiva
di Enrico Manzon
Sommario: 1. Per introdurre - 2. Primo livello (breve periodo): le misure deflative - 3. Secondo livello (medio periodo): le misure processuali - 4. Terzo livello (medio-lungo periodo): le misure ordinamentali. L’opzione per la nuova giurisdizione speciale dei magistrati professionali - 5. Segue. La Sezione specializzata tributaria della Corte di Cassazione - 6. Per concludere.
1. Per introdurre
La milestone M1C1-35 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) prevede che ≪La riforma del quadro giuridico deve avere l'obiettivo di rendere più efficace l'applicazione della legislazione tributaria e ridurre l'elevato numero di ricorsi alla Corte di Cassazione≫.
Sia pure con una previsione alquanto generica, appena dettagliata dalla relazione al Piano, l’esercizio della funzione nomofilattica in materia fiscale è stata dunque inserita nel perimetro di attuazione della principale misura di programmazione economico-sociale progettata per i prossimi anni dal Governo italiano, di concerto con la Commissione dell’Unione europea.
Conseguentemente, nell’aprile 2021 i ministri direttamente responsabili (economia-finanze/giustizia) hanno istituito un’apposita Commissione di studio per analizzare, in termini generali, le questioni afferenti la riforma degli organi e delle procedure della giustizia tributaria nel suo complesso; è noto che questo gruppo di esperti, nonostante un lavoro di notevole ampiezza e profondità, a differenza che le coeve analoghe Commissioni per la riforma delle procedure di giustizia penale e civile, non è giunto a determinazioni unitarie, lasciando aperte le prospettive di riforma a più soluzioni, anche antitetiche, sia per la giurisdizione di merito che per quella di legittimità.
In composizione più ristretta, sempre su incarico dei ministri dell’economia-finanze e della giustizia, il lavoro di studio è proseguito nella primavera del 2022, trovando concretizzazione in un disegno di legge governativo approvato dal Cdm a giugno, quindi deliberato - con profonde modificazioni- dal Parlamento nella prima decade di agosto, divenendo la legge n. 130 del 31 agosto 2022.
Tale fonte normativa attua la citata milestone (a quanto è dato sapere, con buona soddisfazione degli organi unionali di verifica) con disposizioni che sia direttamente sia indirettamente attengono alla Corte di Cassazione. Peraltro è significativamente integrata da alcune scelte operate dal legislatore delegato alla riforma del rito civile (v. d.lgs. 149/2022).
Si tratta di un complesso normativo, non particolarmente ampio, ma senz’altro rilevante, che merita di essere ben riflettuto e valutato, cosa che sta già accadendo e che accadrà, anche perché già si intravedono varie problematiche che renderanno necessaria un’attività “manutentiva” non solo ermeneutica, ma anche direttamente legislativa. Del resto il tempo della discussione parlamentare è stato inevitabilmente contratto dalla fine anticipata della legislatura, sicché l’“ultimo miglio”, per così dire, è stato percorso a ritmo di carica. Mentre con questo tipo di interventi sarebbe più opportuno un “passo da montagna”. E la differenza si è vista e si vedrà, anche abbastanza presto, come in questo scritto, si proverà a spiegare.
Tuttavia, siccome - molto “a caldo”, da poco alzata la polvere della battaglia - si tratta di fare una prima analisi e niente di più, la scelta necessitata, oltre alla sintesi delle questioni, è la schematizzazione.
Nel plesso delle norme in esame possono quindi distinguersi tre livelli di intervento: primo livello (breve periodo): le misure deflative; secondo livello (medio periodo): le misure processuali; terzo livello (medio-lungo periodo): le misure ordinamentali.
Di seguito le relative considerazioni
2. Primo livello (breve periodo): le misure deflative
Che la Sezione tributaria della Corte e quindi la Corte avessero sulla schiena uno “zaino” troppo pesante (giacenza media dei ricorsi tributari negli ultimi dieci anni: 50 mila circa) era ed è fatto notorio. Tuttavia, a causa di veri e propri pregiudizi (ideologici), la previsione di un, pur limitato, alleggerimento di questo pesantissimo fardello (la metà circa della coeva pendenza dell’intera Cassazione civile) ha visto la luce solo in articulo mortis ossia alla fine del percorso di studio e di legislazione.
Che si trattasse (e si tratti) di pregiudizi non fondati lo dimostra la scelta legislativa fatta (pur perfettibile, v. appena oltre), tanto prudente, quanto, almeno in astratto, foriera di un buon risultato rispetto alla sua ratio.
Non un condono, ma una definizione agevolata, mirata su due, chiarissimi targets: da un lato, coprire un’area potenziale di applicabilità idonea a far conseguire un risultato “quantitativo” (il peso dello zaino, nella metafora) di rilievo; da un altro lato, incidere sull’“alea” del giudizio di legittimità, nel versante dello jus litigatoris, specificamente del contribuente.
Di qui le due soglie valoristiche di accesso alla definizione e, contestualmente, il loro collegamento con i diversi esiti dei gradi di merito (una o due vittorie del contribuente, almeno parziali); quindi una misura pensata, esclusivamente, per sbloccare il contenzioso di legittimità ed in termini essenzialmente processuali. Per l’appunto fuori dalla “logica condonistica” (in relazione alla quale si può effettivamente sollevare molte obiezioni, anche in relazione ai principi di cui agli artt. 3-53, Cost.).
L’aspettativa, chiara, è dunque quella di scendere molto sotto detto livello del contenzioso tributario di legittimità - anche e soprattutto questo, abnorme per una Corte suprema occidentale - rendendo il fardello meno pesante e quindi la scalata più veloce, ancorchè comunque impegnativa.
Certo, ragionando –finalmente- in termini pratici (non ideologici o almeno astratti), si poteva e dunque si può fare qualcosa di più, non per bulimia deflativa, ma per ragioni logiche e di equità.
In primo luogo si possono alzare le soglie di accessibilità, portandole ad almeno 200.000 euro per la “doppia conforme” (almeno parzialmente) favorevole al contribuente ed a euro 100.000 in caso di una sola, almeno parziale, decisione a lui favorevole.
Si tratterebbe comunque di valori rispettivamente di 4 ed 8 volte inferiori a quello medio delle cause tributarie di cassazione (la media di valore è infatti di 800 mila euro circa), quindi per il contenzioso di legittimità comunque non elevati; con la prima modifica si porterebbe il “definibile” ai due terzi della pendenza, pertanto con tutte e due il potenziale deflativo aumenterebbe sensibilmente (con la normativa attuale è intorno alla metà della pendenza).
In secondo luogo, nella logica stretta della - mera - “deflazione processuale”, tale potenzialità potrebbe vieppiù ampliarsi con la previsione della definibilità anche delle cause in cui il contribuente abbia avuto una “doppia conforme” di merito sfavorevole, ovviamente alzando il “prezzo” della definizione. Oltre che per detta ragione di target, non si comprende infatti la ragionevolezza dell’esclusione di tale ipotesi, soprattutto a fronte del dato statistico - consolidato - dell’alta percentuale di accoglimenti dei ricorsi, quindi di cassazione (con o senza rinvio) delle sentenze di appello, il che induce addirittura a profilare una possibile questione di legittimità per violazione quantomeno dell’art. 3, Cost.
A elezioni politiche fatte, senza dunque la pressione del consenso da acquisire, può auspicarsi che il Governo ed il Parlamento, anche, su questo piano intervengano con spirito pragmatico e costruttivo.
Per chiudere sul punto con la metafora iniziale, sull’Everest si può andare senza il respiratore, ma lo zaino deve essere sostenibile. Se poi c’è in ballo il conseguimento del disposition time della Corte, se quindi bisogna accelerare, allora diventa di fondamentale importanza che lo zaino sia il più leggero possibile.
Al di là dei risultati attesi dagli altri livelli di intervento, il dimensionamento corretto/efficace di questo primo livello rappresenta, indiscutibilmente, una conditio sine qua non, di breve periodo, essendo gli altri livelli proiettati/proiettabili più sul medio/lungo.
3. Secondo livello (medio periodo): le misure processuali
La legge 130 del 2022 non contiene disposizioni processuali direttamente disciplinanti il giudizio di cassazione, diversamente dal ddl governativo, che invece ne conteneva due e di notevole rilievo: il rinvio pregiudiziale ed il ricorso del Procuratore generale presso la Corte nell’interesse della legge.
Può senz’altro affermarsi che la mancata approvazione parlamentare ha delle buone ragioni.
Quanto alla prima misura (rinvio pregiudiziale) va detto che è sicuramente molto più opportuna la sua introduzione quale istituto di diritto processuale comune (art. 363 bis, cod. proc. civ.). A scanso di ogni equivoco teorico ovvero interpretativo/applicativo: il processo civile di Cassazione è e deve essere uno soltanto, indipendentemente dalla materia trattata, poiché il giudice civile di legittimità è uno soltanto e non ha nessun senso differenziare la disciplina processuale applicabile, così evitandosi in radice ogni possibile distonia giuridica. Basti in tal senso pensare al delicato rapporto tra sub-procedimenti (per decreto, camerale e di udienza pubblica) nonché tra l’attività delle Sezioni semplici e quella delle Sezioni Unite, sede massima, unitaria, della nomofilachia civile, processuale e sostanziale.
Quanto alla seconda misura, come si è anche fatto notare da più parti, si trattava di una “fuga in avanti” o forse meglio di un passo davvero troppo spinto verso la de-processualizzazione, quindi è stato opportuno ripensarci e non vararla.
Questo sul piano storico. Su quello della prospettiva, dalla riforma generale del processo rinviene uno strumento - il rinvio pregiudiziale, appunto - che pare avere una sede “di elezione” proprio per le cause in materia tributaria, per due, essenziali e coesistenti ragioni.
La prima riguarda i tempi della nomofilachia, del tutto decisivi in un settore dell’ordinamento giuridico così centrale quale quello delle discipline fiscali. Troppe volte nel passato si è dovuto riscontrare la sostanziale inutilità degli interventi orientatori della Corte essenzialmente a causa della loro tempistica, spesso superata in velocità dall’attività legislativa, a complicazione di un quadro operativo già di per sé non semplice.
La seconda, conseguenziale alla prima, attinge direttamente i “volumi” del contenzioso, tanto più rilevanti quanto meno efficace è la funzione di indirizzo ermeneutico della Cassazione (piano del c.d. jus costitutionis). In altri termini, nella "latitanza" della nomofilachia il contenzioso –inevitabilmente- si espande.
Il saldarsi storico delle due situazioni ha creato il circolo vizioso che nel tempo, nonostante la - meritoria - creazione della sezione specializzata nel 1999 per via “tabellare” (organizzativa interna), ha messo la Corte nelle critiche condizioni attuali, con una forte riduzione dell’impatto - necessario - della giurisprudenza sulla attuazione dei tributi. Troppe cause nel merito, troppe di legittimità, limitazione dell’effetto globale della giurisdizione, come tutela primaria dei diritti e come concretizzazione della legge (jura litigatorum/jura costitutiones).
Ed infatti l’esigenza di porre rimedio è divenuta la milestone citata all’inizio.
Ora, pare chiaro che, se il rinvio pregiudiziale avrà successo presso il giudici tributari di merito (ora Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado), se verrà utilizzato con “sapienza” e quindi integrato secondo i suoi canoni normativi nel sistema processuale del giudizio di legittimità, potrà diventare uno strumento di nomofilachia preventiva davvero importante ed efficace.
Sia per lo jus dei litiganti sia per il diritto (tributario) oggettivo.
Bisogna superare anche qui dei pregiudizi, che astraggono colpevolmente dalla realtà qual è stata e qual è ossia quella di una risposta di giustizia insoddisfacente, pur per ragioni diverse, tra merito e legittimità. Non si può prescindere dalla constatazione che –a “Costituzione invariata” (art. 111, settimo comma, Cost.)- la Corte Suprema italiana è investita da una domanda di giustizia assolutamente sconosciuta nel Mondo. Quindi i rimedi, come quello in esame, vanno necessariamente trovati sul piano di una normazione primaria costituzionalmente compatibile, ma efficace.
In termini concreti, qualsiasi modalità che, senza toccare i principi di cui agli artt 24, 111, Cost., induca ad una riduzione prospettica del flusso di ricorsi, per quanto qui interessa, tributari, quindi ad una velocizzazione/miglioramento della funzione di nomofilachia, deve affermarsi come realmente conforme allo spirito della Costituzione, in parte qua.
Ed il rinvio pregiudiziale “promette” di essere funzionale a questo fine.
Che pure è “servito” da altre nuove previsioni del d.lgs. 149/2022, particolarmente dalla introduzione del rito accelerato, conseguente all’abolizione della “apposita Sezione” civile deputata all’esame preliminare dei ricorsi ed alla decisione di quelli di pronta definizione.
Misure anch’esse di razionalizzazione, che non possono che dare risultati positivi, anche se, ovviamente, tutti da verificare.
Quanto peseranno positivamente le, parziali, modifiche del rito tributario speciale (d.lgs. 546/1992) contenute nella legge 130/2002 è poi tutto da vedere e qui le stime diventano davvero difficili, quindi meglio astenersi dal farle.
4. Terzo livello (medio-lungo periodo): le misure ordinamentali. L'opzione per la nuova giurisdizione speciale dei magistrati professionali
La legge 130/2022 mantiene l'attuale assetto ordinamentale "duale" della giurisdizione tributaria - merito, giudice speciale/legittimità, giudice ordinario - anzi lo consolida ancor più, tendenzialmente lo "cristallizza" in via definitiva.
Che questa fosse l'unica scelta possibile, che fosse quella migliore è lecito dubitare, anche volendo al netto di qualche -nient'affatto peregrina - riserva sul piano della costituzionalità, semplicemente, e non è/non sarà poco, sul piano della praticabilità e dei tempi di attuazione della scelta legislativa nel versante della costituzione della "nuova" (la quinta) magistratura professionale italiana.
La via "maestra", la più costituzionalmente compatibile, quella di meno complessa realizzazione, era sicuramente quella dell'assorbimento della giurisdizione tributaria di merito in quella ordinaria. Pur non potendosi nascondere le difficoltà di questa - radicalmente diversa - prospettiva, a partire dalla necessità di implementare considerevolmente l'organico della magistratura ordinaria (operazione per nulla semplice e veloce) per proseguire con le ulteriori per nulla semplici misure logistiche (edilizia giudiziaria) e complementari (personale ausiliario), tuttavia essa appare indiscutibilmente meno accidentata e sicuramente meno lunga di quella di assumere oltre 700 magistrati tributari speciali per concorso.
Peraltro si potevano anche trovare soluzioni intermedie, quali ad esempio lasciare il primo grado al giudice speciale, ancora di tipo onorario, accentuandone la funzione arbitrale/conciliativa, e portare il grado di appello nell'ambito del giudice ordinario, accentrando le sedi, secondo un modello analogo a quello del tribunale per i minorenni e del tribunale di sorveglianza (quindi anche con l'associazione di giudici non togati).
Ma tant'è, nell'agosto 2022, in una convulsa fase di fine legislatura, con la pressione del PNRR (che, va detto, non imponeva affatto una via riformatrice precisa), si è fatta una scelta diversa, le cui criticità si stanno già evidenziando e che verosimilmente si paleseranno sempre più, forse costringendo il legislatore a ritornare, almeno parzialmente, sui "suoi passi". Questa però è un valutazione da sfera di cristallo, dunque va subito abbandonata all'ambito del vaticinio.
Presa pertanto la realtà normativa per quello che è, senza entrare funditus nel merito del -complicato- compito della costruzione della nuova giurisdizione di merito, si tratta qui essenzialmente di cogliere i profili di "congiunzione" tra essa e quella di legittimità, appunto in relazione alle previsioni che la legge 130/2022 contiene.
Vengono in tal senso in rilievo due determinazioni legislative: lo speciale regime di opzione per i magistrati professionali che siano anche attuali giudici tributari (art. 1, commi 4 ss.) e l'istituzione della sezione specializzata tributaria presso la Corte di Cassazione (art. 3).
La prima previsione ha una ratio evidente: creare subito un "corpo solido" di magistrati formati ed esperti, anche in campo tributario, all'interno della nuova magistratura, in considerazione dei tempi lunghi di costituzione della medesima. Qui c'è una risposta razionale e potenzialmente efficace alla milestone del PNRR, pur latamente intesa.
Tuttavia, la disposizione legislativa de qua sconta la fretta ed ha più di una zona d'ombra. Anzitutto non è del tutto chiara in relazione al trattamento economico degli "optanti", in secondo luogo pone un limite di età troppo basso ed un limite di flusso per i magistrati ordinari altrettanto eccessivamente compresso.
Di per sé, secondo le considerazioni di cui appena oltre, il numero 100 può considerarsi tuttosommato una determinazione quantitativa congrua, ma è piuttosto improbabile che 50 possano affluire dalle magistrature professionali speciali, per un complesso di ragioni (bacini di riferimento ristretti; possibilità di carriera). Tale circostanza, unitamente alle altre due condizioni poste dalle disposizioni legislative in oggetto (trattamento economico, limite di età) rendono perciò alquanto incerto il successo effettivo della misura ordinamentale de qua (lo si sostiene da più parti, da ultimo -con particolare autorevolezza- anche dal Vice Ministro Maurizio Leo).
Peraltro l'interpretazione dell'avverbio «prioritariamente» utilizzato dal legislatore nell'individuare la destinazione degli optanti (alle Corti di giustizia tributaria di secondo grado) data dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (v. delibera n. 1559/2022) affossa definitivamente ogni effettiva potenzialità "di sistema" della misura in esame.
Con tale delibera infatti il CPGT ha determinato in 70 gli optanti destinati alle Corti di primo grado ed in 30 quelli destinati alle Corti di secondo grado, assegnandoli secondo un criterio, non reso palese dai consideranda, che in ogni caso -di fatto- oblitera il tratto indubbiamente saliente della scelta normativa ossia, come detto, quello di creare immediatamente "massa critica" nel grado di appello.
Il collegamento (“da PNRR”) tra questa necessità ed il giudizio di legittimità risulta invero del tutto evidente. Come più volte indicatosi nella relazione inaugurale dell'anno giudiziario ordinario dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, la prima misura per decrementare e qualificare il contenzioso tributario di legittimità è indubitabilmente quella di migliorare la qualità media delle pronunce di appello. Che questo sia un profilo problematico lo evidenza, oltre ogni ragionevole dubbio, la percentuale degli annullamenti, che per le sentenze di appello tributarie è "storicamente" (ultimi 10 anni, dati dell'Ufficio di statistica della Cassazione) doppio a quella delle sentenze di appello civili.
Ammesso, ma non concesso, che 30 optanti vadano nelle Corti di secondo grado, sparsi sul territorio, come detta delibera prevede, non si capisce come detto obiettivo possa essere raggiunto in termini minimamente soddisfacenti.
In realtà gli optanti in appello servono (e sono appena appena sufficienti) tutti e 100. Solo a questa condizione ed a quella ulteriore di una razionale distribuzione territoriale il miglioramento - immediato - della media qualitativa delle decisioni di secondo grado può essere ragionevolmente conseguito.
Sotto quest'ultimo profilo (assegnazione degli optanti alle Corti di giustizia tributaria di secondo grado) vi è comunque da considerare che, a legislazione vigente, già esiste un pregnante potere organizzativo dell'organo di autogoverno della giurisdizione tributaria speciale la cui portata complementare/integrativa risulta del tutto evidente. L'art. 6, comma 1, d.lgs. 545/1992 infatti prevede che «Con provvedimento del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria sono istituite sezioni specializzate in relazione a questioni controverse individuate con il provvedimento stesso». Il Consiglio potrebbe quindi agevolmente attuare tale previsione normativa appunto con l'assegnazione a queste «sezioni specializzate» (per materia: es. tributi armonizzati; per valore: es. da 100.000 euro) gli optanti. E così il "cerchio" della riforma in parte qua si chiuderebbe "virtuosamente".
Per queste ragioni la delibera CPGT appare pertanto radicalmente miope e sostanzialmente errata. L'unico rimedio che si prospetta - di poco momento, ma di decisivo impatto - è che la disposizione della legge 130/2022 in esame venga emendata con la soppressione dell'avverbio «prioritariamente», sicché non possa esservi alcun dubbio interpretativo circa la destinazione -esclusivamente- in appello dei magistrati professionali optanti. Chiaro è tuttavia che bisogna accompagnare questa modifica normativa con altre -sempre di modesto impegno politico legislativo, ma anch'esse decisive- che riguardino il trattamento economico ed il limite di età.
Si potrebbe anche, aggiuntivamente, prevedere il mantenimento della possibilità di opzione, fino al completamento dell'organico di giudici speciali previsto dalla legge, qualora, per qualsiasi causa, la presenza degli optanti nella giurisdizione speciale scenda sotto un certo limite (es. 90).
In questi, modificati, termini l'opzione può diventare una vera "chiave di volta" della riforma (così com'è, non lo è e la delibera del CPGT già lo dimostra) sia sul versante del giudizio di merito sia sull'interfaccia di legittimità.
E non è affatto una questione secondaria. Con una corretta soluzione della stessa infatti si può correggere e limitare l'incongruenza, detta all'inizio di questa parte della riflessione, del permanere della cesura ordinamentale/funzionale tra merito e legittimità, creando una zona di - immediata - omogeneità qualitativa, ma in prospettiva anche soggettiva.
L'art. 1, comma 9, legge 130/2022 prevede infatti espressamente che gli optanti possano rientrare nelle magistrature di provenienza, secondo le rispettive norme ordinamentali. Questa è l'unica possibilità, a Costituzione vigente, che la Sezione specializzata tributaria della Corte di Cassazione venga, nel medio-lungo periodo, arricchita dall'esperienza professionale specialistica dei magistrati ordinari transitati alla giurisdizione tributaria di merito. Ed è questa una chance che non deve essere assolutamente trascurata.
5. segue. La Sezione specializzata tributaria della Corte di Cassazione.
L'art. 3 della legge 130/2022 prevede che «1. Presso la Corte di cassazione e' istituita una sezione civile incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia tributaria. 2. Il primo presidente adotta provvedimenti organizzativi adeguati al fine di stabilizzare gli orientamenti di legittimità e di agevolare la rapida definizione dei procedimenti pendenti presso la Corte di cassazione in materia tributaria, favorendo l'acquisizione di una specifica competenza da parte dei magistrati assegnati alla sezione civile di cui al comma 1».
Non si tratta affatto di una disposizione pleonastica, esornativa, come fosse soltanto una "etichetta". Essa infatti contiene non solo l'istituzione per legge, come fatto negli anni '70 per la Sezione lavoro della Corte, ma rispetto proprio a questo precedente normativo, anche l'attribuzione di precisi poteri di indirizzo organizzativo del Primo Presidente, con altrettanto precise indicazioni teleologiche.
È dunque una misura che impone delle scelte, ma nient'affatto soltanto del Capo dell'ufficio interessato, che è pur sempre soltanto il "terminale" del sistema del governo autonomo della magistratura. Sono infatti evidenti le responsabilità al riguardo del Consiglio direttivo della Corte, ma, anche di più, del Consiglio Superiore della Magistratura.
L'organo principale dell'autogoverno dovrà dare attuazione alla disposizione legislativa primaria con la normazione secondaria sia tabellare sia concorsuale, trovando i modi più appropriati per implementare l'afflusso di risorse, anche specialistiche, alla Cassazione, giacché altrimenti le attribuzioni presidenziali ne risulterebbero fortemente limitate e sostanzialmente la scelta riformatrice ne verrebbe vanificata.
Oltre ai magistrati ordinari, bisogna peraltro sottolineare che, in base alla previsione di cui all'art. 106, terzo comma, Cost., come attuata dalla legge 303/1998, alla Corte possono essere destinati i c.d. "meriti insigni" (professori universitari ed avvocati) ed è sicuramente anche questa una via che il CSM può e deve potenziare per le finalità di rafforzamento della nuova Sezione specializzata come configurate dal legislatore («stabilizzare gli orientamenti di legittimità»; «acquisizione di una specifica competenza da parte dei magistrati assegnati...»).
Ed ancora, esercitando il proprio di indirizzo, il CSM può dare alla Scuola Superiore della magistratura l'input di rafforzare l'offerta formativa nella materia tributaria.
Insomma, risulta chiaro che vi sono concrete misure attuative di questa parte, rilevante, della riforma (che è attuazione diretta della milestone del PNRR) che vanno adottate al più presto dai centri decisionali competenti.
6. Per concludere
Tra luci ed ombre la legge 130/2022 presenta comunque delle nuove opportunità per la nomofilachia tributaria, ad impatto evidentemente frazionato nel tempo.
Già ripartire più "leggeri" può, anzi deve, indurre una contrazione dei tempi di giustizia (il disposition time del PNRR) e migliorare la qualità della produzione giurisprudenziale di legittimità.
A regime, le misure processuali, soprattutto esterne alla legge di riforma (in particolare, art. 363 bis, cod. proc. civ.), a loro volta promettono miglioramenti di flusso nonché di prontezza ed efficacia della giurisprudenza di legittimità.
Ad un livello più complesso, ma strutturale, dunque nel medio-lungo periodo con il maggior valore aggiunto, le misure ordinamentali, se opportunamente modificate ed accompagnate, possono indurre una migliore, più adeguata, strutturazione del nesso di collegamento appello/Cassazione e nella parte terminale del circuito giurisdizionale (Sezione specializzata della Corte) un upgrade di notevole, diretto, impatto sulla funzione demandata alla Cassazione dagli artt. 111, settimo comma, Cost., 65, legge di ordinamento giudiziario.
Queste sono soltanto brevi considerazioni ed auspici. Vedremo i fatti dove porteranno la riforma, anche nel segmento, fondamentale, della giurisdizione di legittimità.
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