ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La legge 27 settembre 2021, n. 134, che recava delega al Governo “per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, è stata attuata con il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (cd. legge “Cartabia”).
Si tratta di un provvedimento di ampio respiro, che apporta rilevanti modifiche al codice penale (artt. 1-3), al codice di rito (artt. 4-40), alle relative norme di attuazione (art. 41), oltre a contenere la disciplina della giustizia riparativa (artt. 42-67) e a disporre ulteriori interventi e modifiche ad alcune leggi speciali (artt. 68-84), tra cui spicca l’intervento effettuato dall’art. 71 in materia di sostituzione delle pene detentive brevi già disciplinate dalla legge 24.11.1981, n. 689.
L’entrata in vigore della riforma è stata fin da subito contrassegnata da svariate manifestazioni di protesta e da numerose contestazioni, anche di ordine tecnico, che hanno acceso l’attenzione dei media su alcuni aspetti particolarmente delicati (si pensi alla polemica di stampa sulle “scarcerazioni per mancanza di querela”, ecc.).
La polemica, per fortuna, non ha però riguardato più di tanto quella parte della riforma che riguarda l’introduzione delle pene sostitutive.
Si tratta per l’appunto di pene sostitutive del carcere, non essendosi trovato il coraggio di introdurle nell’elenco edittale delle pene principali, il cui catalogo (art. 17) è rimasto dunque immutato; si è invece pensato di creare - accanto alle tradizionali “misure alternative” previste dall’ordinamento penitenziario[1] - quattro figure di “pene sostitutive”, alle quali è stata però riconosciuta la dignità di essere nominate nel codice penale (art. 20 bis).
Si tratta di un’innovazione importantissima (per chi, ben s’intende, saprà coglierne le opportunità: qui serve la duplice concorrente volontà del giudice ed anche del suo imputato, eccezion fatta per la multa sostitutiva), destinata, almeno negli intenti, a cambiare il volto della penalità nel nostro Paese e ad avvicinare la data del processo al momento dell’effettiva esecuzione della sanzione penale, la quale non è né sospendibile condizionalmente (art. 61 bis l.n. 689/1981), né assoggettabile al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656 c.p.p.[2] per il chiaro disposto di cui all’art. 62 l.n. 689/1981.
È con un po’ di rammarico che osservo come l’intento, sostenuto dai fondi del PNRR, di rendere più veloce ed efficiente il processo penale non abbia però riguardato la magistratura di sorveglianza, che opera nel settore dell’esecuzione penale: dai “procedimenti giudiziari” di cui parla la rubrica del decreto legislativo n. 150/2022 è risultato infatti escluso proprio il procedimento di sorveglianza, il quale ha lo scopo di portare a compimento il complesso iter processuale che, partendo dalla notizia di reato, non si conclude con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, trovando invece il suo esito naturale nella compiuta espiazione della pena irrogata in cognizione [3].
Della velocizzazione dei procedimenti di sorveglianza, quasi non si trattasse di veri e propri procedimenti giudiziari, il legislatore sembra dunque non essersi preoccupato: il settore della sorveglianza è stato conseguentemente escluso dalla distribuzione delle risorse del PNRR e non ha ricevuto in dotazione le risorse umane destinate alla costituzione dell’ufficio per il processo previsto dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 151, il cui art. 1, 1° comma prevede comunque che tale ufficio si costituisca anche presso gli Uffici e i Tribunali di sorveglianza.
Ennesima dimostrazione - questa - della situazione di vera marginalità del settore della sorveglianza, considerato quasi come la cenerentola del sistema penalistico stricto sensu considerato[4].
La conseguenza è che, ammesso e non concesso che i procedimenti giudiziari di cognizione subiscano una spinta acceleratoria grazie alla riforma Cartabia, nulla o quasi è destinato a mutare per i processi di sorveglianza, i quali sono deputati a portare a compimento l’intero iter di cui ho parlato.
Qualcuno potrebbe obiettare che un beneficio, sia pure di riflesso, la sorveglianza avrà nell’immediato futuro per il fatto che, avendo la legge Cartabia attribuito al giudice di cognizione il potere di irrogare le nuove pene sostitutive, il lavoro dei Tribunali di sorveglianza sarà destinato a diminuire.
Osservo però che la nuova legge, oltre a non occuparsi dell’ingente mole di lavoro che schiaccia il settore della sorveglianza, appesantito come noto (oltre al resto) dalla presenza di quasi 100.000 condannati “liberi sospesi”, che restano anche per anni in attesa dell’udienza di sorveglianza, prevede che la gestione in executivis delle pene sostitutive gravi comunque (eccezion fatta per il lavoro di pubblica utilità) sui magistrati di sorveglianza.
Altra evidente controindicazione, destinata a limitare gli effetti della riforma sotto il profilo quantitativo (e dunque dello sgravio “a valle” del carico della sorveglianza), deriva dall’impossibilità per il giudice della cognizione di sostituire la pena detentiva con l’affidamento in prova al servizio sociale: appare infatti evidente che l’imputato ben difficilmente sarà indotto a prestare il proprio consenso alle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare ove possa coltivare la ragionevole aspettativa di chiedere e di ottenere dal Tribunale di sorveglianza la più favorevole misura dell’affidamento una volta che il pubblico ministero abbia sospeso l’esecuzione della condanna ex art. 656, 5° comma c.p.p. (fanno ovviamente eccezione i reati di cui alla lett. a) del 9° comma dell’art. 656 c.p.p. che non siano ricompresi nel catalogo “proibito” di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, i quali non consentono la sospensione dell’esecuzione e rispetto ai quali dunque vi sarà la massima convenienza a prestare senza remore il consenso pur di non finire in carcere).
Se fosse stata accolta la proposta della Commissione Lattanzi, che aveva incluso anche tale misura alternativa tra le pene sostitutive irrogabili in cognizione, sarebbe stato finalmente chiaro a tutti che anche l’affidamento in prova rappresenta una forma di espiazione della pena detentiva, sia pure sostitutiva.
Quanto alla valutazione relativa all’esistenza di apprezzabili chances di ottenere tale misura in sede esecutiva, i difensori del Distretto in cui è stata pronunciata la sentenza di condanna, che sono veri abitués della sorveglianza, sono generalmente ben informati circa i criteri adottati in materia dai singoli Tribunali di Sorveglianza, e dunque più che in grado di suggerire ai loro assistiti le scelte più convenienti[5].
Faccio però presente che analoga considerazione dovrebbe valere per lo stesso giudice di cognizione: perchè mai questi dovrebbe irrogare la semilibertà sostituiva o la detenzione domiciliare sostitutiva (nel range di una pena detentiva tra i tre ed i quattro anni) ove egli ritenga che nel caso di specie il suo imputato appaia fin d’ora meritevole di avere un domani l’affidamento in prova al servizio sociale?
Diverso discorso è ovviamente a farsi ove la pena sostituiva “offerta” sia il lavoro di pubblica utilità, il quale appare certamente misura ben più favorevole rispetto all’affidamento in prova.
Qualcosa di buono per la sorveglianza c’è però anche nel decreto legislativo n. 150/2022.
C’è di buono che i colleghi della cognizione sono chiamati (ovviamente purchè lo vogliano e ne avvertano la predisposizione) a prendere confidenza con pene sostitutive il cui contenuto è quasi esattamente coincidente[6] con almeno due delle più importanti misure alternative (semilibertà e detenzione domiciliare) che sono invece il pane quotidiano della sorveglianza.
Non si poteva immaginare nulla di più propizio per l’innesto di un processo osmotico tra due culture tradizionalmente considerate come tra loro antagoniste.
Troppe volte abbiamo sentito ripetere che il settore della sorveglianza è chiamato di fatto a sgretolare il giudicato e a porre nel nulla il lavoro svolto e le risorse impiegate per giungere all’individuazione e alla condanna del colpevole.
Troppe volte si è ripetuto che si tratta di una giurisdizione strabica, che guarda con un occhio di riguardo al reo, disinteressandosi però della posizione delle sue vittime.
Si tratta di diffidenze e di incomprensioni destinate oggi a venir meno.
La distanza, anche culturale, venutasi a creare nei decenni tra cognizione e sorveglianza è oggi chiamata a ricomporsi grazie alla legge Cartabia.
E’ giunto il momento del dialogo e dell’osmosi delle culture, e dunque degli atteggiamenti, se è vero che sarà lo stesso giudice di cognizione a dover rendere “virtuali” i due sostantivi “reclusione ed arresto”[7], trasformandoli egli stesso nelle pene sostitutive volute dalla legge.
Il processo osmotico sarà poi facilitato dalla circostanza che saranno comuni i problemi pratici da affrontare: dalla scarsità delle risorse di cancelleria disponibili[8] fino all’insufficienza degli organici degli uffici di esecuzione penale esterna[9].
Ma sono soprattutto i criteri cui il giudice di cognizione dovrà attenersi per decidere la sostituzione della pena detentiva a contribuire alla progressiva assimilazione delle diverse culture giurisdizionali.
Il novellato art. 58 l.n. 689/1981, richiamati i criteri di cui alla norma-cardine sulla dosimetria della pena (art. 133 c.p.), stabilisce che il giudice possa applicare le pene sostitutive “quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, anche attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati”.
Rieducazione e special-prevenzione: sono questi i termini oscillatori nei quali si rifugia la clausola legale che si risolve nei fatti in una sorta di delega in bianco fondativa dell’amplissimo potere discrezionale del quale viene oggi a godere il giudice della cognizione.
Si tratta di quello stesso potere da sempre riconosciuto alla magistratura di sorveglianza.
La clausola generalissima è infatti del tutto paragonabile a quella dettata in materia di misure alternative alla detenzione: per l’affidamento in prova al servizio sociale, il 2° comma dell’art. 47 o.p. prevede che esso sia concedibile “nei casi in cui si può ritenere che, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”; per la detenzione domiciliare: il comma 1 bis dell’art. 47 ter o.p. dispone che esso sia concedibile “quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova servizio sociale e sempre che tale misura sia idonee ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati”; per la semilibertà, il 4° comma dell’art. 50 o.p. prevede che la misura sia disposta “in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società”.
Anche la clausola del “minor sacrificio”, di cui all’art. 58, 2° comma l.n. 689/1981, il quale indica, tra i criteri di scelta possibile, anche quello che predilige la pena sostitutiva che comporti “il minor sacrificio della libertà personale”, trova la sua lontana eco nella norma di ordinamento penitenziario che, in materia di controlli, prevede che essi siano svolti “con modalità tali da recare il minor pregiudizio possibile al processo di reinserimento sociale e la minore interferenza con lo svolgimento di attività lavorative” (art. 58, 3° comma, o.p.).
Un altro importante elemento destinato ad avvicinare, assimilare e compenetrare la giurisdizione esecutiva con quella di cognizione è costituito dal 2° comma dell’art. 545 bis c.p.p., che orienta l’attività istruttoria necessaria per la sostituzione della pena detentiva con quella sostitutiva.
La prevista acquisizione presso l’Uepe e le forze dell’ordine di “tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali del soggetto” corrisponde esattamente all’attività istruttoria cui sovrintende la cancelleria del Tribunale di sorveglianza sui fascicoli contenenti istanze di concessione di misure alternative (vi si aggiungono l’acquisizione dei certificati dei carichi pendenti ex art. 60 c.p.p e delle iscrizioni ex art. 335 c.p.p.).
C’è dunque da chiedersi se non valesse allora la pena di finalmente decidersi per l’introduzione nel nostro ordinamento del processo bifasico: probabilmente sì, perché se avessimo fatto del Tribunale di sorveglianza un vero e proprio Tribunale “della pena”, destinandogli però un bel pò di risorse per assicurare anche al suo processo il rispetto della ragionevole durata (art. 111, 2° comma Cost.), avremmo risparmiato energie e valorizzato professionalità.
Se forse i tempi non erano ancora maturi per una riforma di tal fatta, ci resta solo da dire
che, fino all’entrata in vigore della legge Cartabia, il magistrato di sorveglianza poteva essere considerato l'ultimo anello della catena in grado di applicare il canone di proporzionalità della pena: canone da applicarsi a quella particolare persona, a quel particolare carcere, a quella particolare sezione, a quella particolare risposta alle offerte trattamentali, usando dunque di un criterio quam suis.
Ma lo iato temporale, che a volte dura lunghi anni, tra il momento del processo ed il momento dell’esecuzione rendeva e rende estremamente difficile l’applicazione del canone di proporzionalità: ciò a causa dei mutamenti medio tempore eventualmente intervenuti nella persona del condannato.
La discesa in campo anche del giudice della cognizione è oggi in grado di garantire risultati migliori proprio in forza della possibile contiguità tra i due momenti: c’è solo da augurarsi che le difficoltà organizzative, la scarsità delle risorse ed il timore del raddoppio delle udienze non renda sterile la riforma.
Comminare all’imputato giudicato colpevole la pena che gli serve, ritagliata su di lui, e nel momento in cui gli serve, rappresenta la sfida cui oggi è chiamato ogni giudice penale che desideri respirare nel futuro.
Un’ultima osservazione: il successo di questa sfida non potrà prescindere dal nuovo ruolo cui sono chiamati gli avvocati, i quali non solo dovranno saper accompagnare i loro assistiti “in un percorso di seria informazione tecnica, in vista di una scelta approfondita e responsabile, in modo da evitare il rischio di adesioni apparenti o scarsamente consapevoli”[10], ma soprattutto dovranno far emergere tutti gli elementi indispensabili per la costruzione della “pena-programma”, la più adatta possibile alle esigenze di vita e familiari dell’imputato.
[1] Mi sembra che il termine “misura alternativa” non compaia mai nel codice penale, se non per quanto riguarda la circostanza aggravante comune di cui al n. 11 quater dell’art. 61 c.p. (“l'avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere”).
[2] L’avvicinamento della data del processo a quella dell'effettiva esecuzione è incentivato, nel caso di giudizio abbreviato, dal disposto dell’art. 442, comma 2 bis c.p.p., secondo cui, in caso di mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato o del suo difensore, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di 1/6 dal giudice dell'esecuzione.
[3] Va a tal proposito ricordato che la necessità di una visione globale ed unitaria della giurisdizione penale è sottolineata da Corte cost. n. 313/1990, secondo cui “la necessità costituzionale che la pena debba tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue ….deve essere dunque espressamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per il giudice della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie”.
[4] Non trovo nulla di più efficace delle espressioni usate a questo proposito da M. Bortolato: “Lo stigma penitenziario è la differente considerazione che si ha di un <piano superiore>, ove è situato il processo di cognizione, figlio prediletto della giustizia, e i suoi protagonisti, rispetto ad uno <scantinato> ove è collocata l'esecuzione ed i suoi umili attori. La dicotomia tra fase del giudizio e fase dell’esecuzione sta in buona parte tra la giustizia del processo, ove si concentra ogni attenzione, esempio di sacralità e garantismo, e la pena eseguita, che è quasi un “figlio illegittimo” di cui vergognarsi e che si tenta di nascondere” (Lezione tenuta al corso della Scuola Superiore della Magistratura “Applicazione ed esecuzione della pena: giudice della cognizione e della sorveglianza”, Napoli, Castel Capuano, 16 febbraio 2023).
[5] Non si intende con ciò affermare che la giustizia predittiva, che tanta fortuna sta avendo nel campo del diritto civile, specialmente nei settori del lavoro e della previdenza sociale, abbia diritto di cittadinanza anche sul terreno dell'esecuzione penale, in quanto le singole decisioni della magistratura di sorveglianza sono tarate sulla singola persona e sulla sua particolare storia.
[6] Parlo di quasi-coincidenza perché le due pene sostitutive, restrittive della libertà personale, sono state disegnate a maglie assai più larghe di quelle delle corrispondenti figure previste dall'ordinamento penitenziario: la semilibertà sostitutiva, il cui programma di trattamento è predisposto non dal Direttore dell’istituto ma dall’Uepe, è presidiata dalla garanzia (tutelabile ex art. 35 bis o.p. lo si vedrà) della territorialità ed obbliga a trascorrere in istituto “almeno otto ore al giorno”, lasciando dunque ben 16 ore da riempire con le attività extra-murali di cui al 1° comma del novellato art. 55 l.n. 689/1981; la detenzione domiciliare sostitutiva obbliga a stare in casa non meno di 12 ore al giorno, ed è caratterizzata dal diritto soggettivo perfetto del detenuto domiciliare di uscire “per almeno quattro ore al giorno” (di qui l'incomprimibilità di tale spazio di libertà, siccome appartenente allo statuto della “pena legale”, da parte del magistrato di sorveglianza in sede di modifica delle prescrizioni). Per entrambi gli istituti è poi previsto che non trovi applicazione l’art. 120 del Codice della strada (“Requisiti soggettivi per ottenere il rilascio della patente di guida”). Per il resto, le pene sostitutive trovano una disciplina largamente comune a quella dei corrispondenti istituti di ordinamento penitenziario: ciò in forza dei rinvii disposti dal novellato art. 76 l.n. 689/1981 (liberazione anticipata, estendibilità della pena sostitutiva ai titoli sopravvenuti, disciplina delle pene accessorie e scomputabilità in caso di mala gestio dei periodi trascorsi in licenza). Anche il regime prescrittivo obbligatorio (art. 56 ter l.n. 689/1981) è praticamente identico a quello che ordinariamente accompagna quasi tutte le misure alternative disciplinate dall'ordinamento penitenziario. Lo stesso dicasi per il sistema delle preclusioni oggi disciplinato dal novellato art. 59.
[7] In realtà, già nel vigore del previgente testo dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il giudice della cognizione era dotato di siffatto potere, essendogli consentita la sostituzione delle pene detentive contenute nel limite di due anni con la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria delle specie corrispondente: tale istituto, specie in relazione alla semidetenzione e alla libertà controllata (che alcuni studiosi hanno considerato aboliti “per desuetudine”), ha però trovato scarsa applicazione nella pratica a causa della perfetta coincidenza tra l'area della concedibilità della sospensione condizionale della pena (due anni) e l'area della sua sostituibilità (due anni).
[8] È facile prevedere che l’art. 545 bis c.p.p. (“Condanna a pena sostitutiva”) obbligherà quasi sempre alla duplicazione delle udienze, con relativo incremento sia dei ruoli del giudicante sia del lavoro di cancelleria.
[9] Gli Uffici di esecuzione penale esterna sono oggi chiamati a redigere il programma di trattamento della semilibertà sostitutiva (art. 55, 3° comma, l.n. 689/1981), come pure della detenzione domiciliare sostitutiva (art. 56, 2° comma, l.n. 689/1981). Ricordo che trattasi di Uffici che, specialmente dopo l'introduzione dell'istituto della messa alla prova, che ne ha distolto l'impegno per circa il 50% a favore dei giudici della cognizione, non sono in grado di riscontrare tutte le richieste di indagini socio-familiari provenienti dalla magistratura di sorveglianza, al punto che quest'ultima si è vista costretta quasi dappertutto a stipulare dei protocolli di intesa che esonerano gli Uepe da tale incombenza nel caso di condanne a pene, anche residue, inferiori ad una determinata soglia (sei mesi, un anno, ed anche più, a seconda delle diverse realtà locali).
[10] Non posso che rimandare a tal proposito all’illuminante contributo di A. Calcaterra: “Le novità introdotte dalla riforma Cartabia. Le nuove soluzioni sanzionatorie e il rinnovato ruolo dell'avvocatura”, in Questione Giustizia, 15.2.2023, ove si sottolinea ad esempio l'importanza di alcune informazioni: all'assistito va chiarito che al consenso prestato al lavoro di pubblica utilità consegue l’inappellabilità della sentenza (art. 593, 3° comma c.p.p.); l’assistito va del pari informato sui tempi di attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza in caso di scelta della “strada tradizionale”.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria. – 3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive. – 3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione. - 4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali. – 5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust.
1. Premessa
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato, ritenendo infondate le censure avanzate dagli appellanti, compie un’interessante ricognizione di principi già espressi in materia di regime probatorio delle intese anticoncorrenziali.
Al contempo, il giudice amministrativo svolge talune precisazioni circa le modalità di quantificazione delle sanzioni Antitrust, prendendo le mosse dalla loro qualificazione in termini di sanzioni sostanzialmente penali.
2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria
La vicenda giudiziaria ha origine dal ricorso presentato al Tar Lazio con cui la ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento dell’AGCM che, avendo rilevato un’intesa restrittiva della concorrenza nell’ambito del mercato della produzione e commercializzazione di fogli in cartone ondulato, ha comminato alla ricorrente la sanzione pecuniaria pari ad € 3.658.077,00[i].
Più specificatamente, nell’ambito di quel procedimento l’AGCM ha intrapreso un’istruttoria volta ad accertare la partecipazione, da parte di una serie di società, a due distinte intese anticoncorrenziali: da un lato, nel mercato della produzione e commercializzazione di cartone ondulato (cd. intesa-fogli); dall’altro, in quello della produzione e commercializzazione di imballaggi in cartone ondulato (intesa-imballaggi).
Con una serie di successive delibere, il procedimento è stato poi esteso tanto sotto il profilo soggettivo, mediante il coinvolgimento di altre società[ii]; tanto sotto l’aspetto oggettivo delle condotte oggetto di accertamento, allargate alla limitazione o al controllo della produzione dei fogli in cartone ondulato nonché alla ripartizione di specifici clienti[iii].
Nel corso dell’istruttoria particolarmente rilevanti sono state le dichiarazioni rese da diverse imprese partecipanti alle intese oggetto di accertamento, nell’ambito del programma di clemenza (c.d. leniency).
In ragione della ritenuta fondatezza della contestazione in merito alla realizzazione delle due intese, l’Autorità ha concluso l’iter con il provvedimento sanzionatorio oggetto di impugnazione.
Il T.a.r. Lazio ha rigettato il ricorso con sentenza n. 6040/2021; detta sentenza è stata impugnata dalla società appellante, la quale ha prospetta una serie di motivi, alcuni dei quali anche piuttosto articolati.
Innanzitutto, con il primo motivo l’appellante deduce il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti, lamentando la mancata valutazione degli elementi istruttori che escludono la propria partecipazione da qualsiasi intesa, oltre che l’adesione acritica alla ricostruzione prospettata dall’AGCM.
In particolare, l’unico elemento utilizzato a sostegno della partecipazione dell’impresa appellante all’asserita intesa consisterebbe nella presunta partecipazione del responsabile commerciale della società alle riunioni intercorse in attuazione dell’intesa. Al riguardo, il T.a.r. Lazio si sarebbe limitato a ritenere che gli elementi riportati nel provvedimento fossero idonei a fornire un quadro univoco in ordine alla partecipazione anche dell’impresa appellante all’intesa-fogli.
Sul punto, l’appellante sostiene invece che il responsabile commerciale avrebbe partecipato alle riunioni in questione non come rappresentante della società ma “in proprio”[iv]; tant’è che, a seguito del suo decesso, nessun altro rappresentante avrebbe preso parte ad altre riunioni. In altri termini, non sarebbe provata l’adesione dell’appellante all’intesa, basandosi questa solo sulle dichiarazioni di un leniency applicant da ritenersi prive di qualsiasi valenza istruttoria in quanto non corroborate da ulteriori elementi di prova.
Né, sempre secondo l’appellante, ci sarebbe stato alcuno scambio di informazioni commerciali con le altre imprese concorrenti. A riprova di ciò, allega la circostanza di aver mantenuto una politica di prezzo totalmente autonoma dal Listino 2004, con risultati economici ben peggiori di quelli delle altre imprese di settore. Tali aspetti non sarebbero stati presi in considerazione dall’Autorità che, nell’esaminare la posizione di ciascuna impresa, si sarebbe limitata a prendere atto dei ricavi medi di settore, senza considerare le variazioni rilevantissime tra i ricavi dei singoli concorrenti.
Ancora, lo schema delle riunioni incriminate di cui si fa menzione nella sentenza di primo grado sarebbe del tutto inattendibile, in quanto privo di chiarezza in ordine alla partecipazione e alle eventuali tempistiche con cui il responsabile commerciale dell’appellante avrebbe partecipato alla maggioranza delle riunioni attuative dell’asserita impresa; risultando invece evidente, dalla documentazione raccolta in sede istruttoria, l’assenza dalle predette riunioni oltre che l’estraneità allo scambio documentale.
Con il secondo motivo l’appellante deduce nuovamente l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti sotto il diverso profilo della errata definizione da parte del T.a.r. del Lazio dei limiti temporali della partecipazione all’intesa. Anche ad ammettere un coinvolgimento d’appellante per il tramite del più volte menzionato responsabile commerciale, tale partecipazione, ad avviso dell’appellante, sarebbe limitata ad un arco temporale di gran lunga inferiore rispetto a quello contestato[v].
Con il terzo motivo l’appellante fa valere l’eccesso di potere per travisamento dei fatti, lamentando l’erronea valutazione da parte del T.a.r. in ordine alla impossibilità di procedere alla riqualificazione dell’asserita intesa in abuso di posizione dominante. Invero, secondo la prospettazione dell’appellante, i contenuti dell’intesa in questione sarebbero stati definiti solo da una quota di larghissima maggioranza sul mercato che, congiuntamente, detiene una posizione dominante sul mercato della carta. Tali imprese dominanti avrebbero imposto agli operatori minori – tra cui l’appellante stessa - le condizioni alle quali operare sul mercato, cui si sarebbero aggiunti meccanismi di controllo e di verifica oltre che di ritorsione nei confronti di quanti non si fossero adeguati[vi].
Con il quarto ed ultimo motivo l’appellante lamenta l’erronea determinazione della sanzione, sotto diversi profili.
Innanzitutto, per quanto attiene alla illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza dell’intesa: il carattere segreto dell’intesa, infatti, non potrebbe mai dirsi insito nella violazione in sé o nella natura riservata con cui essa viene posta in essere[vii], dovendo semmai l’AGCM fornire prova di circostanze idonee a far ritenere la precisa e determinata volontà delle parti di occultare ogni contatto avvenuto per dare luogo all'intesa sanzionata.
In secondo luogo, la determinazione della sanzione sarebbe erronea in relazione all’illegittima omissione da parte del T.a.r. della valutazione degli effetti dell’intesa, avendo registrato l’impresa appellante – diversamente dalle imprese dominanti - un quadro non di crescita, ma semmai di stabilità e a tratti di contrazione, sia in termini di ricavi che di margine operativo.
Sotto un terzo profilo, l’appellante lamenta l’illegittima mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti, avendo essa dimostrato «di aver svolto un ruolo marginale alla partecipazione dell’infrazione, provando altresì di non aver di fatto concretamente attuato la pratica illecita», in ossequio alla previsione contenuta nel § 23 delle Linee Guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Da ultimo, un ulteriore profilo attiene al ricalcolo della sanzione, avendo l’Autorità interpretato l’art. 15, co. 1, l. 287/1990, nella parte in cui stabilisce che l’AGCM può applicare una sanzione «fino al 10% del fatturato», come mera soglia di contenimento della sanzione. Tale interpretazione conduce alla conseguenza che l’importo calcolato secondo le Linee guida, nei passaggi sanzionatori intermedi, possa eccedere il massimo di legge, purché tale limite venga poi rispettato nel risultato finale.
Un simile approccio, ad avviso dell’appellante, solleverebbe forti perplessità nella misura in cui finisce per determinare un “appiattimento” di tutte le sanzioni irrogate verso il massimo, in violazione dei principi di legalità, proporzionalità, individualità e uguaglianza. Il superamento della soglia del 10% nei passaggi intermedi di calcolo comporta infatti un innalzamento artificioso ed indebito della sanzione sulla quale calcolare le eventuali attenuanti, che rischiano così di divenire, di fatto, irrilevanti ai fini sanzionatori[viii].
3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive
Il Consiglio di Stato reputa il primo motivo infondato. Per giungere a tale conclusione compie una preliminare ed efficace sintesi dei principi enunciati in materia di prova dell’esistenza e della partecipazione ad una intesa restrittiva della concorrenza, richiamando una serie di propri precedenti.
Innanzitutto, l’accertamento de quo non richiede che l’intesa risulti da documenti o da altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali, essendo sufficienti anche indizi purché gravi, precisi e concordanti[ix]; a tal fine, occorre procedere ad una valutazione globale delle prove acquisite, onde dare evidenza dell'intero assetto dei rapporti intercorrenti tra le imprese[x], predisponendo un'analisi complessa ed articolata che tenga conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nella loro interezza e nella correlazione reciproca[xi].
In altri termini, la prova di accordi bilaterali assume valenza sufficiente a dimostrare l'esistenza dell'intesa, non essendo necessario accertare la partecipazione ad ogni singolo episodio contestato dall'Autorità[xii]. Ne consegue allora che un elevato numero di indizi e riscontri, unitariamente considerati, possono costituire la prova di una violazione delle regole di concorrenza solo se manchi una spiegazione alternativa lecita della condotta delle imprese coinvolte[xiii]; in tal caso, grava sulle imprese l'onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti[xiv].
Ancora, la sola partecipazione di un'impresa alle riunioni nel corso delle quali sono stati definiti gli elementi dell'intesa vietata non consente all’impresa in questione di invocare la propria estraneità rispetto alla fattispecie oggetto di sanzione; a meno che essa non si sia manifestamente opposta alla pratica ovvero riesca a dimostrare che la sua partecipazione alle riunioni non si sia connotata di alcuno spirito anticoncorrenziale[xv]. E ciò in quanto si deve presumere che le imprese partecipanti alla concertazione e che rimangono presenti sul mercato tengano conto degli scambi di informazioni con i loro concorrenti per decidere il proprio comportamento sul mercato stesso[xvi], restando così superfluo, al fine dell'an della responsabilità, indagare se il singolo partecipante all'intesa vietata abbia avuto un ruolo maggiore o minore, attivo o meramente passivo[xvii].
Nel caso di specie, l’accertamento in ordine all’esistenza delle due intese emerge dalla circostanza che numerose imprese hanno confessato la propria partecipazione agli illeciti, rendendo all’Autorità dettagliate dichiarazioni, il cui contenuto è confluito nel provvedimento.
Inoltre, tramite l’istruttoria svolta dall’AGCM è stato documentalmente accertata la partecipazione dell’appellante ad un numero significativo di riunioni, specie nel periodo intercorrente dal 1998 al 2013. Nel corso del procedimento l’appellante non ha fornito neppure un principio di prova riguardo alla sua eventuale opposizione alla pratica che si andava in modo evidente delineando. Né può assumere valore il tentativo di creare un discrimen tra i ruoli ricoperti dal responsabile commerciale, per un verso, dipendente dell’impresa appellante e, per altro verso, esponente di spicco del GIFCO, non essendo emerso nessun elemento a supporto di tale ricostruzione.
Neppure il secondo motivo di appello, concernente l’arco temporale della contestata partecipazione dell’appellante all’asserita intesa, può essere accolto. Posto che l’azione di contrasto ai cartelli deve essere effettiva, per il carattere segreto o riservato degli accordi di cartello la prova della c.d. “pistola fumante” è evenienza rarissima. In questo caso, evidenze individualizzanti relative alla partecipazione a determinati segmenti temporali del cartello unitario protrattosi per lungo tempo, in presenza di una mancata dissociazione significativa o della prova positiva di una spiegazione alternativa, sono sufficienti a ritenere concretizzata la prova della partecipazione all’intesa per tutto il periodo individuato dall’Autorità.
Ancora, infondato è il terzo motivo di appello concernente la riqualificazione dell’asserita intesa in termini di abuso di posizione dominante. Al riguardo, la VI Sez. richiama un proprio precedente in cui ha dettagliatamente chiarito come i singoli comportamenti delle imprese devono essere considerati quali «tasselli di un mosaico» e dunque come elementi di una fattispecie complessa, «significativi non di per sé ma come parte di un disegno unitario»[xviii] qualificabile come intesa restrittiva della libertà di concorrenza o abuso di posizione dominante.
Rispetto ad esso, è sufficiente che l'AGCM tracci - come avvenuto nel caso di specie - un quadro indiziario coerente ed univoco, oltre che privo di salti logici. Viceversa, spetta ai soggetti interessati fornire spiegazioni alternative alle conclusioni tratte nel provvedimento accertativo della violazione concorrenziale; in questo caso, tuttavia, l’ipotesi prospettata dall’appellante appare meramente ipotetica e non suffragata da alcun supporto probatorio.
3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione
Con riferimento al quarto motivo, il Consiglio di Stato giunge ad esiti differenziati in relazione ai singoli profili evidenziati dall’appellante. Anche in questo caso, al fine di meglio inquadrare le questioni sottese, il giudice si preoccupa preliminarmente di riassumere i principi già sanciti dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni.
Innanzitutto, nell'esercizio del proprio potere sanzionatorio l'Autorità persegue un duplice obiettivo: da un lato, un effetto dissuasivo specifico nei confronti delle imprese che si sono rese responsabili di una violazione delle norme in materia di intese; dall’altro, un effetto dissuasivo generale nei confronti degli altri operatori economici dall'assumere o continuare condotte contrarie alle norme di concorrenza[xix]. L'elevato grado di severità che caratterizza le sanzioni Antitrust ne determina la natura sostanzialmente penale delle stesse[xx], sebbene questo non determini un’automatica applicazione di tutti i principi garantistici previsti dal processo penale[xxi]. Per quanto qui d’interesse, la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell'applicazione delle sanzioni penali anche alle sanzioni amministrative punitive[xxii].
L’art. 15, l. n. 287/90[xxiii], ferma la qualificazione dell'illecito come grave ai fini della punibilità con sanzione pecuniaria, consente inoltre al giudice un apprezzamento di gravità in ordine alla graduazione della pena[xxiv]. A tal fine, i provvedimenti dell'Autorità devono recare l'indicazione di una serie di dati come: qualificazione dell'infrazione come grave o molto grave; durata dell'illecito; importo della sanzione per ciascuna impresa; eventuali circostanze attenuanti o aggravanti applicate; rapporto percentuale tra importo della sanzione e fatturato complessivo dell'impresa; eventuali altri criteri di quantificazione utilizzati[xxv].
All’esito di siffatta qualificazione, la determinazione dell'importo della sanzione costituisce espressione di un potere discrezionale dell'Autorità, e ciò in quanto il valore finale della sanzione va determinato assumendo quale principale parametro di riferimento l'effettiva idoneità del quantum della sanzione a tenere conto nel modo più adeguato possibile della specifica gravità della condotta contestata all'impresa[xxvi].
Tanto chiarito, la VI Sez. reputa infondata la doglianza relativa all’illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza. Le intese in questione sono state correttamente considerate segrete, sia perché esse non erano palesate al pubblico sia perché ai fini della prova si è dovuto ricorrere a plurime dichiarazioni dei leniency applicants, oltre che all’acquisizione di documenti come la corrispondenza delle imprese coinvolte, normalmente coperta dal segreto epistolare.
Neppure può essere accolta la tesi secondo cui il provvedimento non avrebbe accertato gli effetti che l’intesa ha prodotto sul mercato, e ciò in quanto le intese hanno un oggetto di per sé vietato e, quindi, sono per loro stessa natura dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, senza che occorra dimostrare in concreto la sussistenza di effetti dannosi sul mercato.
Al contrario, la VI Sez. reputa fondate le censure con cui si lamentano per un verso, la mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti e, per altro verso, i criteri di calcolo della sanzione che si risolvono in una violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e individualità della pena.
Per giungere a tali conclusioni, ricostruisce il quadro normativo vigente in materia, prendendo le mosse dall’art. 11 della l. 689/1981[xxvii] che, al fine di modulare la sanzione in ragione delle specificità del caso concreto, individua come parametri di riferimento «la gravità della violazione, l'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché la personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».
Inoltre, le Linee Guida ai punti 7 e ss. dispongono che la sanzione venga calcolata moltiplicando una percentuale del valore delle vendite determinata in funzione della gravità dell’infrazione, per la durata dell’intesa contestata (espressa in anni, mesi e giorni); l’importo assunto quale base di calcolo è quindi ancorato ad un dato oggettivo. Quest’ultimo importo viene considerato solo per una quota percentuale, fissata in funzione della gravità dell’infrazione e fino alla misura massima del 30% del valore delle vendite; con l’ulteriore precisazione che in presenza di violazioni particolarmente rare tale percentuale non possa essere inferiore al 15%.
In ogni caso, l’importo risultante all’esito del descritto procedimento di calcolo, secondo quanto previsto dal menzionato art. 15 della l. n. 287/1990, non deve eccedere il tetto del 10% del fatturato. Ancora, ulteriori riduzioni sono riconoscibili in applicazione di un programma di clemenza[xxviii] o delle circostanze concrete[xxix].
Nel caso di specie, l’Autorità, sul rilievo dell’indisponibilità di elementi certi circa l’effettivo impatto dell’intesa sul mercato, ha applicato a tutte le partecipanti il predetto valore percentuale minimo del 15%; il quantum così parametrato viene rimodulato (in aumento) in relazione alle responsabilità del singolo operatore, tenuto conto di eventuali circostanze aggravanti/attenuanti rinvenibili nella fattispecie[xxx].
Tuttavia, lo scarto esistente fra il minimo valore percentuale (vale a dire il 15% del coefficiente di calcolo) e il massimo valore percentuale (rappresentato dal 10% del fatturato), determina in concreto un appiattimento della sanzione su quest’ultimo valore, frustrando la ratio della disciplina di settore, astrattamente improntata ad una differenziazione della sanzione in funzione delle specificità delle condotte e dei ruoli imputabili a ciascun singolo operatore[xxxi].
Ne consegue che la ratio sottesa all’art. 15, individuabile nella necessità di contenere l’entità della sanzione entro limiti di sostenibilità finanziaria, se così interpretata limita - quando non esclude - la possibilità di graduare la stessa adeguandola alle effettive responsabilità degli autori delle condotte illegittime. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, una simile discrasia deve essere eliminata, dovendosene fare l’Autorità in sede di ridefinizione degli importi delle sanzioni.
4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali
Le considerazioni svolte dal Consiglio di Stato con riferimento alla sufficienza di elementi indiziari ai fini dell’accertamento delle intese restrittive della concorrenza non lasciano di certo sorpresi.
Si tratta infatti di un orientamento piuttosto consolidato che, in ragione dei caratteri peculiari degli illeciti anticoncorrenziali[xxxii] – quali lo svolgimento in modo segreto e clandestino, talvolta in territorio estero e con una documentazione in genere piuttosto minimale –, si è interrogato sulle regole probatorie da seguire in ambito procedimentale e in sede di successivo controllo giurisdizionale.
Le principali tematiche affrontate (e risolte) sono state essenzialmente due: la prima, concernente gli elementi necessari per fornire la prova della partecipazione all'intesa anticoncorrenziale; la seconda, relativa agli elementi probatori invocabili dalle imprese a testimonianza della loro dissociazione dalle intese in questione.
Con riferimento al primo aspetto, l’approccio seguito è stato quello di dedurre l’asserita condotta illecita della singola impresa da una valutazione unitaria e complessiva di un significativo numero di indizi e riscontri. Tanto si giustifica proprio in ragione del fatto che gli elementi probatori attestanti in modo esplicito una condotta illegittima sono normalmente frammentari, sporadici, sforniti di taluni dettagli ricostruibili solo in via deduttiva[xxxiii]. Così, sono reputati elementi indiziari, la cui rilevanza deve essere valutata globalmente: l'elevato numero di riunioni e contatti tra le imprese coinvolte, la sostanziale stabilità delle quote di mercato, l'elevato grado di fidelizzazione della clientela, oltre che la confessione proveniente dagli altri soggetti partecipanti all’intesa vietata, riscontrata nel caso di specie.
Per quanto attiene poi al secondo profilo, laddove l’Autorità abbia provato - con le modalità appena indicate - la partecipazione ad una intesa anticoncorrenziale, l’impresa può fornire ulteriori elementi probatori a supporto della propria estraneità all'illecito. In dettaglio, tali elementi si identificano nella dimostrazione di una dissociazione significativa, tale da rivestire i caratteri di una opposizione alla pratica, o nella prova positiva di una spiegazione alternativa.
Su questo fronte, forte è stata l’influenza di quella giurisprudenza sovranazionale che ha elaborato una vera e propria "dottrina della dissociazione pubblica". In base ad essa, l’accertamento non può dirsi avvenuto laddove l’impresa, rispetto alla quale la Commissione abbia provato la condotta illecita, abbia manifestato in maniera inequivocabile la volontà di dissociarsi, portando tale volontà a conoscenza degli altri partecipanti all’accordo[xxxiv].
Un simile rigore si giustifica in ragione del fatto che la sola partecipazione di un'impresa a riunioni aventi un oggetto anticoncorrenziale ha obiettivamente l'effetto di creare o rafforzare l'intesa stessa, nella misura in cui fornisce l’impressione di volersi conformare ad essa. Pertanto, la mera circostanza che l’impresa non abbia dato seguito alle riunioni, né - come nel caso di specie - abbia tratto specifici vantaggi da esse, non è sufficiente ad ad escludere la sua responsabilità, essendo necessario che questa prenda pubblicamente le distanze dal contenuto delle riunioni.
Lungi dal rappresentare un’inversione dell’onere della prova, un approccio del genere si pone nel solco del dettato normativo: la dissociazione può essere dimostrata dall’impresa solo dopo che l’Autorità, assolvendo correttamente al proprio onere probatorio, abbia dimostrato la partecipazione della singola impresa all’intesa vietata; in mancanza, la prova non può dirsi raggiunta.
Si tratterebbe, in altri termini, di configurare un mero alleggerimento dell’onere probatorio posto in capo all’AGCM - anche in ragione della complessità dell’indagine investigativa cui la stessa è tenuta - che, almeno in astratto, appare rispettoso del principio di presunzione di innocenza.
Tuttavia, non è peregrino evidenziare come un siffatto modus agendi, a seconda di come declinato nella prassi, rischi di disattendere il predetto principio proprio in una materia in cui questo assume una particolare rilevanza, non solo per la natura “paragiurisdizionale” delle attività poste in essere delle Authorities, ma anche in ragione del carattere sostanzialmente penale delle sanzioni de quibus.
5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust
In tema di quantificazione della sanzione, al di là del tecnicismo delle norme di settore, il presupposto del ragionamento seguito dal Consiglio di Stato è rappresentato dal riconoscimento della natura punitiva delle sanzioni irrogate dall’AGCM, cui consegue l’estensione di taluni principi propri delle pene in senso stretto.
Più in dettaglio, si tratta dell’adesione alla tesi sostanzialista, elaborata dalla giurisprudenza sovranazionale e ormai ampiamente sdoganata anche in ambito interno, in base alla quale ai fini della individuazione delle “pene” cui applicare le garanzie riconosciute a livello costituzionale e convenzionale, non occorre fermarsi al dato formale ma è necessario esaminare la sostanza delle singole sanzioni. In quest’ottica, il nomen iuris rappresenta solo il primo dei criteri da seguire ai fini del riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione, collocandosi accanto a questo, in un rapporto di alternatività, anche quelli della natura della disposizione punitiva e del grado di severità della sanzione stessa[xxxv].
Nel caso di specie, è stato proprio quest’ultimo il criterio dirimente che in passato aveva portato il Consiglio di Stato a riconoscere la natura punitiva delle sanzioni pecuniarie de quibus[xxxvi], con conseguente applicazione delle garanzie proprie del settore penale.
Ed in particolare, il profilo qui attenzionato dal Consiglio di Stato è quello della proporzionalità della sanzione amministrativa, già oggetto di riconoscimento da parte del giudice amministrativo[xxxvii], in aderenza alla linea interpretativa seguita dalla Consulta.
Al riguardo, ebbene precisare che il principio in esame è da tempo applicato nel diritto amministrativo, anche grazie al contribuito interpretativo della Corte di Giustizia che lo ha elevato al rango di principio generale del diritto comunitario[xxxviii].
Nel diritto nazionale, tale principio ha assunto una particolare valenza all’indomani della l. 15/2005 che, incidendo sul testo dell’art. 1 della l. 241/1990, ha assoggettato l’attività amministrativa al rispetto di tutti i principi procedimentali di diritto comunitario[xxxix]. In conseguenza della novella, il rispetto del principio di proporzionalità è stato evocato dalla giurisprudenza italiana in maniera costante in diversi settori, dalla materia ambientale, alla concorrenza, al commercio, agli appalti pubblici e alle sanzioni[xl].
Purtuttavia, allorquando vengano in considerazione sanzioni sostanzialmente penali, il medesimo principio si declina in termini diversi e più pregnanti, non dissimili da quelli che lo connotano nel diritto penale.
È questa la conclusione cui è giunta qualche anno fa la Consulta che ha esteso il principio di proporzionalità – inteso in senso forte – alle sanzioni sostanzialmente penali, ammettendo così un sindacato condotto secondo uno schema autonomo, vale a dire sganciato dal raffronto con un tertium comparationis e reso possibile in virtù dell’applicazione dell’art. 49, par. 3 Carta di Nizza[xli].
Tali approdi sono fatti propri dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che, in sede di ricognizione dei principi enunciati dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni, richiama un proprio precedente il quale, a sua volta, fa rinvio alla sentenza della Corte Costituzionale[xlii].
L’interesse per la sentenza, pertanto, deriva anche dalla circostanza che la stessa conferma il ruolo attivo svolto dal giudice amministrativo nel processo di assimilazione tra la figura delle sanzioni amministrative e quella delle sanzioni penali, in adesione al filone sostanzialista inaugurato da Strasburgo e in linea di continuità con l’orientamento patrocinato dalla Corte Costituzionale.
[i] In dettaglio, si allude al provvedimento n. 2784 adottato nell’adunanza del 17 luglio 2019.
[ii] Cfr. delibere AGCM del 5 luglio 2017, del 5 dicembre 2017 e del 9 maggio 2018.
[iii] Cfr. delibera AGCM del 31 ottobre 2018.
[iv] Nello specifico, costui avrebbe agito al fine di incentivare il proprio prestigio all’interno del Gruppo Italiano Fabbricanti Cartone Ondulato – GIFCO di cui era stato membro del Consiglio Direttivo per più di un decennio.
[v]In particolare, tale partecipazione non si estenderebbe a tutto il periodo compreso dal 5.11.2009 al 30.3.2017 come asserito nella sentenza impugnata, ma al più dal 2011 (data a partire dalla quale nei file ci sarebbe prova della partecipazione alle riunioni dell’impresa appellante) al 20.10.2015 (data di morte del responsabile commerciale per il cui tramite si ritiene che l’appellante abbia preso parte alle intese).
[vi] A sostegno di questa ricostruzione, vengono allegate una serie di circostanze, quali: vantaggio economico concentrato nelle sole imprese in posizione dominante; convenienza dell’intesa immaginata dall’AGCM unicamente per le grandi imprese titolari di più stabilimenti e non anche per quelle dotate di un unico stabilimento come l’appellante; mantenimento di una politica autonoma da parte dell’appellante.
[vii] Nella specie, documenti ad uso interno o scambi di mail intercorsi tra le parti e non conoscibili all’esterno.
[viii] Per superare questa aporia, l’appellante ha proposto una interpretazione alternativa della norma, in base alla quale il limite di cui all’art. 15 della l. n. 287/1990 deve essere inteso come massimo edittale in senso proprio, tale da imporre all’AGCM di determinare l’importo della sanzione entro il massimo di legge anche nei passaggi di calcolo intermedi.
[ix] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[x] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[xi] Cons. Stato, Sez. VI, 03/01/2020, n. 52.
[xii] Cons. Stato, Sez. VI, 02/09/2019, n. 6022.
[xiii] Cons. Stato, Sez. VI, 14/01/2019, n. 321.
[xiv] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2015, n. 4123.
[xv] Cons. Stato Sez. VI, 02/07/2015, n. 3291.
[xvi] Cons. Stato, Sez. VI, 24/10/2014, n. 5274.
[xvii] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2014, n. 4506.
[xviii] Cons Stato, Sez. VI, 01/06/2016, n. 2328.
[xix] Cons. Stato, Sez. VI, 15/07/2019, n. 4990.
[xx] Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164, Corte di Giustizia dell'Unione europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08.
[xxi] Cons. Stato, Sez. VI, 10/07/2018, n.4211.
[xxii] Cons. Stato sez. VI, 09/06/2022, n. 4696.
[xxiii] Art. 15, comma 1-bis: «Tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o associazione di imprese nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione. Se l'infrazione commessa da un'associazione di imprese riguarda le attività dei suoi membri, l'Autorità dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento della somma dei fatturati totali a livello mondiale realizzati nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida di ciascun membro operante sul mercato interessato dall'infrazione commessa dall'associazione. Tuttavia, la responsabilità finanziaria di ciascuna impresa riguardo al pagamento della sanzione non può superare il 10 per cento del fatturato da essa realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida».
[xxiv] Cons. Stato, Sez. VI, 24/06/2010, n. 4013.
[xxv] Cons. Stato, Sez. VI, 20/05/2011, n. 3013.
[xxvi] Cons Stato, Sez. VI, 26/03/2020, n.2111.
[xxvii] Applicabile in virtù del rinvio che l’art. 31 della l. n. 287/1990 compie alle disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II della legge 24 novembre 1981, n. 689.
[xxviii] V. art. 30 Linee Guida.
[xxix] V. art. 34 Linee Guida.
[xxx] Sulla scorta di quanto previsto dall’art. 25 delle Linee Guida.
[xxxi] Circostanza del resto confermata anche dal provvedimento impugnato, nella parte in cui la stessa AGCM precisa che le sanzioni applicate alle imprese partecipanti «eccedono per la maggior parte delle aziende coinvolte, il limite massimo previsto dall’art. 15, comma 1, della legge n. 287/1990». In altri termini, il beneficio del tetto massimo riconosciuto ad ogni azienda si determina in funzione dell’entità dello scostamento della sanzione (calcolata come sopra descritto) dal tetto legale, determinando il paradossale risultato che maggiore è la gravità della condotta, maggiore può rivelarsi il vantaggio che il trasgressore ricava.
[xxxii] Per un’analisi più approfondita della materia, si rinvia a A. PAPPALARDO, Il diritto comunitario della concorrenza - Profili sostanziali, Utet, Torino, 2007.
[xxxiii] In tal senso, oltra ai precedenti più recenti citati nella parte motiva della sentenza in commento, v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2008, n. 424 in cui, per la prima volta, vengono chiariti i criteri di valutazione del giudice amministrativo in ordine all'assolvimento da parte dell'AGCM dell'onere probatorio circa l'esistenza di un'intesa.
[xxxiv] Sul punto, v. in Corte di Giustizia, sentt. 8 luglio 1999, causa C-199/92, Huls/Commissione, pt. 155 e causa C-49/92 Commissione/Anic Partecipazioni, pt. 96.
[xxxv] In argomento si rinvia, ex multis, a F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Giappichelli, Torino, 2015, 4; V. MANES, Profili e confini dell’illecito para-penale, Rivista Italiana Di Diritto E Procedura Penale,2017, p. 988.
[xxxvi] V. Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164 secondo cui «Questa disposizione [art. 6 CEDU] si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. […] Nella la fattispecie in esame, la sanzione dell’AGCM, avuto riguardo ai criteri di identificazione sopra esposti e, in particolare al grado di severità della stessa ha natura afflittiva e “sostanzialmente” penale».
[xxxvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696, ove si legge che «Tale conclusione, oltre che più aderente alla lettera della legge, appare anche in maggior sintonia con i recenti approdi della giurisprudenza volti a salvaguardare i principi di adeguatezza e proporzionalità della sanzione, i quali implicano necessariamente che la situazione economica della società, di cui l’Autorità deve tenere conto, e i dati utilizzati per il calcolo della sanzione siano, se non concomitanti, quanto meno temporalmente prossimi alla data di irrogazione della stessa».
[xxxviii] Cfr., ex multis, C.giust. 18 novembre 1987, causa C-137/85, Maizena e a., Id., 16 ottobre 1991, causa C-24/90, Hauptzollamt Hamburg-Jonas c./Werner Faust offene Handelsgesellschaft Kg secondo cui «per stabilire se una disposizione di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità è necessario controllare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a realizzare lo scopo perseguito, senza andare oltre quanto è necessario per raggiungerlo [...] fermo restando che, qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere alla meno restrittiva».
[xxxix] Per una disamina più approfondita del principio di proporzionalità nel diritto amministrativo si rinvia, fra gli altri, a A.M. SANDULLI, voce Proporzionalità, in S. CASSESSE (diretto da) Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 4643 e ss; ID., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 37 e ss.; S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; TRIMARCHI BANFI F., Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2016, p. 361.
[xl]Esemplificativa è Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2006, n. 2087 ove viene precisato che «il principio di proporzionalità […] si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità comunitarie e nazionali non possono imporre, sia con atti normativi, sia con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino, tutelate dal diritto comunitario, in misura superiore, cioè sproporzionata, a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo, cioè adeguato all'obiettivo da perseguire, e necessario, nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile» Nel medesimo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2670/01; Id., 5714/02; Id., Sez. VI, 1 aprile 2000, n. 1885.
[xli] Si allude a Corte Cost. sent. 10 maggio 2019, n. 112 che, riconoscendo la natura punitiva della misura prevista dall’art. 187-sexies t.u.f., ne ha dichiarato la incostituzionalità nella parte in cui prevede la confisca dell’intero «prodotto» di operazioni finanziarie illecite e dei «beni utilizzati» per commetterle, anziché del solo «profitto» ricavato da queste operazioni.
[xlii] Il riferimento è alla già menzionata Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696 che chiarisce «Deve infatti ricordarsi che la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell’applicazione delle sanzioni penali – che impone la necessaria personalizzazione della pena alla luce della oggettiva gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato in attuazione del principio di personalità della responsabilità penale ai sensi dell’art. 27 Cost. – anche alle sanzioni amministrative punitive (sentenza n. 112 del 2019, cfr. anche Consiglio di Stato, 25 giugno 2019, n. 4335: “l’importo dell’ammenda deve rimanere comunque proporzionato, oltre che all’infrazione anche e in ogni caso alla situazione economico-finanziaria del soggetto che se ne ritenga responsabile”)».
È disponibile qui il terzo fascicolo del 2023 di Giustizia Insieme:
Con i contributi di Cristiano Valle, Anna Madarasi, Antonio Musella, Nasa Isihii, Giacomo Fumu, Angelo Costanzo, Sibilla Ottoni, Simone Benvenuti, Simone Pitto, Leonardo Pierdominici, Marcello Basilico, Giulia Battaglia, Paola Filippi, Morena Plazzi, Tomaso Epidendio, Giuliano Scarselli, Barbara Spinelli, Aldo Schiavello, Pier Virgilio Dastoli, Federico Cappelletti, Maria Teresa Covatta, Fulvio Vassallo Paleologo.
Editoriale
Allargare il dialogo di Sibilla Ottoni
La Rivista ha inaugurato nel 2023 una nuova Voce dedicata all’attualità giuridica estera, alla comparazione, al dialogo con giuristi ed intellettuali di altri ordinamenti.
Il dibattito culturale sulla giustizia non può infatti restare confinato nel perimetro di un solo sistema, quando i grandi temi che lo animano sono ormai definitivamente globali: l’impatto delle crisi finanziarie, gli squilibri socioeconomici che muovono masse di umanità migrante, la questione climatica, le questioni bioetiche connesse all’emergere di nuovi diritti. Si tratta di questioni che travalicano ogni frontiera, ma che ciascun paese metabolizza a suo modo, anche in contrapposizione con gli altri, sicché tali fenomeni operano come correnti atmosferiche capaci di addensare perturbazioni geopolitiche o, al contrario, di aprire spazi di convergenza ideologica e programmatica.
Anche sui temi apparentemente domestici, poiché inerenti la normativa nazionale, vi è un interesse intrinseco nel confronto con altri ordinamenti, che risiede già solo nella possibilità che da ciò emergano problematiche comuni, e nel conseguente arricchimento che può trarsi dalle diverse soluzioni prospettate. In tal senso, la comparazione non è soltanto un’abitudine mentale alla curiosità e all’ascolto, ma anche un irrinunciabile metodo giuridico, che consente di prendere distanza e di guardarsi dal di fuori, uno strumento che attraverso il confronto accende una luce diversa, permette e così impone di cambiare prospettiva.
E poi esiste, specularmente, l’arricchimento che si trae dalla riflessione su questioni apparentemente lontane, lontane almeno nei termini in cui si pongono, sicché l’urgenza con cui affiorano altrove diventa spunto di nuova riflessione rispetto al loro atteggiarsi nel dibattito interno. La questione femminile, l’equilibrio tra poteri ed il rapporto tra potere religioso e potere temporale, la democrazia, la stessa libertà di pensiero e di parola. La riflessione su questi temi ci scuote dal profondo, perché ci impone di tornare a interrogarci su alcuni elementi fondanti della nostra cultura non soltanto giuridica, di non darli per scontati, di chiederci ancora, e ancora, se determinati approdi possano mai dirsi definitivamente acquisiti.
Il dialogo, come l’etimo impone, è tanto più proficuo quanto più variegate sono le posizioni dei soggetti tra cui il discorso corre, il confronto è tanto più utile quanto più eterogenei sono gli elementi che si tengono insieme, uno di fronte all’altro, in una complessiva riflessione. Con la Voce Diritti Stranieri, Giustizia Insieme idealmente accoglie nel proprio discorso altri sguardi e altre voci, vicini e lontani, da guardare e ascoltare e attraverso i quali guardarsi e ascoltarsi.
Tra i tanti temi trattati nel corso dell’anno, tre in particolare hanno aperto ad un confronto particolarmente ricco e approfondito che vale la pena ripercorrere con un accenno di sistematicità.
Il primo tema è quello dell’accesso alla magistratura. La diversità dei modelli esistenti è stata posta a confronto attraverso le testimonianze di colleghi, italiani e stranieri, con contributi destinati ad arricchirsi in futuro. Questo confronto è stato lo spunto per riflettere sul sistema italiano, sulle tante istanze di riforma che lo hanno interessato e che lo interessano attualmente, onde chiedersi quale magistrato si intenda chiamare ad amministrare la giustizia; quale giustizia quindi, ossia quale servizio giustizia, quale modello culturale di amministrazione della giustizia; infondo, quale cultura giuridica.
Un secondo tema affrontato nel corso dell’anno in modo trasversale è stato quello delle riforme della giustizia in alcuni Paesi, a noi più o meno vicini culturalmente, di recente interessati da evoluzioni normative che aprono scenari inquietanti. Ne emerge un quadro impattante sulla fragilità di alcuni baluardi, sul loro valore fondante, sulle insidie degli atteggiamenti culturali che mirano ad indebolirli progressivamente prima di assestare il colpo. L’occasione è stata colta per portare questa consapevolezza nell’analisi delle istanze di riforma domestiche, che muovono in una direzione non auspicabile, tanto da aver spinto la magistratura italiana allo sciopero del 16 maggio 2022, volto a denunciare i tanti condizionamenti all’autonomia e all’indipendenza della magistratura introdotti da una riforma che, pur senza modificarle, “scolora le norme costituzionali, ne fiacca i principi”, come ha scritto un nostro autore.
Infine, è stato affrontato il tema del rispetto dei diritti umani, analizzando alcune delle situazioni più problematiche e sensibili dello scenario geopolitico attuale. Tutte ci toccano da vicino, per quanto alcune di esse possano apparirci distanti in modo falsamente rassicurante. Tutte parlano alle fondamenta della nostra cultura, tutte ci chiamano in causa, alcune in modo diretto. Come la questione migratoria, rispetto alla quale sarebbe non solo miope, ma intellettualmente disonesto guardare soltanto al segmento che ci riguarda anche ufficialmente, giuridicamente e geograficamente. Semplificazioni e mistificazioni che il metodo comparato definitivamente smaschera, costringe ad abbandonare.
Una precisazione è doverosa: i contributi qui raccolti non sono necessariamente aggiornati alle più recenti novità normative, trattandosi di una raccolta di scritti già pubblicati in momenti diversi. L’interesse del quadro d’insieme che ne emerge, infatti, non risiede nella stretta attualità di ciascun saggio, bensì nelle interconnessioni tra le tematiche trattate, nella luce che le une accendono sulle altre, nella complessità del disegno e nella pluralità delle chiavi di lettura che tale complessità richiede.
Una precisazione è doverosa: i contributi qui raccolti non sono necessariamente aggiornati alle più recenti novità normative, trattandosi di scritti già pubblicati in momenti diversi nel corso del 2023. L’interesse del quadro di insieme che ne emerge non risiede, del resto, nella stretta attualità di ciascun saggio, bensì nelle interconnessioni tra le tematiche trattate, nella luce che le une accendono sulle altre, nella complessità del disegno e nella pluralità delle chiavi di lettura che tale complessità richiede.
In questo nuovo lavoro di saggista, Umberto Apice ci invita a viaggiare nel vastissimo mondo della letteratura e del diritto. Il mondo, premette l’a., è quello di Leonardo Sciascia fotografato nella frase in esergo: la libertà, la dignità umana, il rispetto reciproco dipendono dal «problema della giustizia». La giustizia è al centro dell’esperienza umana, ma da sempre si pone in termini di “problema”. Mentre tutti noi vorremmo che la giustizia offrisse soluzioni, cioè risoluzioni dei conflitti che la confusione delle fonti, l’inadeguatezza dell’azione amministrativa, la diffusione dei comportamenti contrari alle regole non possono che moltiplicare. Se la giustizia è davvero un problema, e non da ora, possiamo forse dire che, tuttora, non abbiamo ben capito come possa essere risolto.
Il viaggio organizzato compie numerose fermate incontrando autori che vanno dai classici greci ai contemporanei, ognuno dei quali viene chiamato a dare il proprio piccolo o grande contributo in un dibattito che non finisce e non è destinato a finire, perché è legato alla nostra evoluzione. Che una fermata venga preferita ad altra è soltanto questione di gusto: personalmente, vedo il cuore della trattazione nel cap. 3, dedicato a L’arte del giudicare, e nel cap. 4, dedicato a Il processo tra senso e non-senso, ove i riferimenti vanno dall’Antico Testamento (Re Salomone) sino al processo forse a un tempo più famoso e misterioso: quello in cui Ponzio Pilato formulerà la domanda drammatica che dovrebbe essere scolpita in ogni aula di giustizia – quid est veritas?
È certamente la mia una predilezione anzi, forse, un vizio da processual-civilista perché il volume, che giustamente parla di diritto e di processi, e quindi non soltanto di processo e men che mai di solo processo civile, affronta a più riprese tematiche che, nel nostro linguaggio specialistico forse un po’ deformante, diremmo di natura sostanziale: il lavoro, la condizione femminile, il carcere, il diritto di punire e molto altro. Qui la giustizia non può che essere percepita come problema, anzi come problema, appunto, che non si risolverà mai una volta per tutte. Se il giudizio, il travaglio e la ritualità della decisione sono ciò che invariabilmente più attira il lettore, va riconosciuto nel processo, in ogni processo, un che di patologico perché, se i comportamenti di tutti fossero senza eccezioni conformi a diritto, dei processi non si avvertirebbe proprio il bisogno. E invece, nel nostro Paese i contenziosi crescono costantemente – si dice più che altrove – e non c’è ufficio giudiziario che non si senta preso d’assedio al punto che le parole d’ordine, non da ora, sono smaltimento e respingimento. La ribellione al diritto, dobbiamo pensare, è ormai un problema endemico più forte del rimedio; ed è certo singolare che uno dei più potenti volani di contenzioso sia generato non dai privati ma dalla pubblica amministrazione, la cui azione dovrebbe ispirarsi al principio di legalità.
Al termine del viaggio che Apice ci propone, scegliendo le fermate e cioè le opere da visitare ognuna delle quali ha il suo commento critico, il lettore avrà percepito con chiarezza quanto stretti siano i legami tra la letteratura – quella senza tempo così come quella legata alla cronaca – e il progresso della società, cioè su quello che Sciascia chiamava «il rispetto tra uomo e uomo». La letteratura, scrive Apice, ha una “funzione umanizzante”, una funzione etica, che si riferisce specialmente a chi per mestiere è chiamato ad amministrare la giustizia. E sembra quasi bizzarro che si parli di questa funzione umanizzante proprio nel momento in cui uno dei temi all’ordine del giorno è la possibilità che la giustizia sia prodotta dalle macchine, dagli algoritmi.
Il volume si snoda per itinerari così vari e complessi che risulta non sempre facile mantenere la giusta visione d’insieme; forse, una traccia può essere suggerita dalle parole della Introduzione – che di norma, e credo anche in questo caso, è l’ultima fatica dell’autore – laddove si dice che la letteratura è libertà di espressione e, invariabilmente, ricerca della verità. Quando occorre, e occorre spesso, è anche atto di denuncia contro le incoerenze e le deformazioni di una società in costante trasformazione. La parola della letteratura e quella del diritto hanno in comune, dice Apice, di essere «un mezzo per arrivare allo svelamento della verità».
Al giurista attuale, la concezione del processo (parliamo sempre di quello civile) come strumento di ricerca della verità, al centro del quale Apice pone il giudice «con le sue miserie, i suoi dubbi, la sua insoddisfazione», può apparire – si perdoni il gioco di parole – quasi un fatto letterario. Le esigenze di giustizia della società attuale non sono quelle anche soltanto di qualche lustro fa: è evidente che le strutture esistenti non possono reggerne l’impatto, servono ripensamenti dell’organizzazione, dall’ultimo giudice di pace sino alle Sezioni Unite della Cassazione.
Se la giustizia è un problema, al centro di questo problema, ripetiamo, è la pubblica amministrazione con le sue intollerabili inefficienze: il contenzioso tributario, il lavoro pubblico, i conflitti con le imprese ne sono testimonianza; spesso il cittadino, come il piccolo imprenditore, si trova disarmato dinanzi a un “mostro” che dal canto suo sembra poter tollerare qualsiasi ritardo e immobilismo, in una società dove tutto accade sempre più velocemente. In cui non esistono più riserve di ricchezza e il mancato rispetto di un impegno contrattuale può mettere in difficoltà anche un’impresa solida. Possiamo dire che l’amministrazione è la prima nemica dell’amministrazione della giustizia, con il che il discorso sembra aggrovigliarsi su sé stesso.
Negli ultimi anni, grazie alla diffusione dei modelli economici si vanno affermando concezioni efficientistiche della giustizia: e quasi perdendo di vista che il fenomeno della crescita dei contenziosi è prodotto dal parallelo fenomeno del mancato rispetto del diritto (civile tra privati, amministrativo nel rapporto tra amministrazione e cittadini), si vuole che i processi durino poco, che vengano smaltiti con sempre maggiore rapidità all’esito di accertamenti sempre più sommari, che vengano respinti, specie nelle fasi di gravame, ove non presentino caratteristiche di meritevolezza che le corti sono chiamate a scrutinare in base a presupposti non chiari e non prevedibili. Si tende a non interrogarsi né sulle cause generatrici dei contenziosi, né sulla qualità della risposta che gli uffici giudiziari danno alla c.d. “domanda di giustizia”.
Il giudizio di primo grado, ispirato a preclusioni assertive e probatorie e purtroppo non scevro da inutili formalismi, premia la celerità sulla ricerca della verità. Le impugnazioni (soprattutto appello e cassazione) conoscono sbarramenti di inammissibilità che spesso precludono l’esame del merito: che è quanto dire, ancora una volta, la ricerca della verità. Si ha l’impressione che la procedura si avviti su sé stessa, come se il giudizio fosse sul processo e non sul diritto. Kafka ha parlato del processo penale, ma nel processo civile attuale non si sentirebbe certo a disagio.
Affermare, oggi, che il processo civile ricerca o afferma la verità è fortemente dubbio, molto più dubbio che in passato. Stritolata dai meccanismi e dalle ideologie dell’economia, la giustizia è divenuta una variabile indipendente dalla verità, e in pochi sembrano preoccuparsene.
Se risulta attendibile il parallelo tra letteratura e giustizia, dobbiamo allora concludere che la giustizia, per come ora amministrata, sta perdendo il suo carattere etico, o, forse meglio, si sta trasformando in uno strumento che aspira all’efficienza ma che al tempo stesso può tranquillamente fare a meno della verità, per rispondere a tecnicismi e rituali inutilmente autoreferenziali.
Sommario: 1. le possibili definizioni della bellezza nella teoria generale e nel diritto positivo. - 2. Bellezza e cultura. - 3. Le diverse prospettive di inquadramento e il ruolo delle istituzioni e dei soggetti privati nella conservazione e diffusione della bellezza. - 4. Le diverse concezioni del paesaggio come depositario della bellezza. - 5. Il diritto al borgo e il diritto del borgo: tra bellezza perduta e bellezza trattenuta. - 6. Considerazioni finali.
1. Le possibili definizioni della bellezza nella teoria generale e nel diritto positivo.
Il titolo del convegno “diritto” e “bellezza” consente di giocare con le parole. E quindi i termini si possono variamente comporre: diritto alla bellezza, diritto della bellezza e bellezza del diritto, ad esempio quest’ultima rispetto alla bruttura delle leggi attuali; e che evoca la distinzione tra l’ordine dello ius e il disordine della lex.
Il diritto alla bellezza compare già da qualche tempo nella letteratura giuridica, dove si tende ad aprire il discorso sulla base della premessa che la bellezza è un concetto non racchiudibile in una formula definitoria certa, al pari della definizione di cultura. In realtà ciascuno di noi dentro di sé conosce gli effetti, definitivi o transeunti, dell’esperienza della bellezza, ma non sa dire cosa sia[1].
Questo per il giurista non è un gran male, visto che già nel diritto romano si avvertiva della pericolosità delle definizioni giuridiche. Accontentiamoci della empirica distinzione tra la bellezza soggettiva, legata al gusto di ciascuno, e la bellezza in senso oggettivo, come un insieme di elementi che se rispondono a dati canoni (ad es. armonia) fanno sì che l’oggetto dell’osservatore possa considerarsi ‘bello’. Inoltre il concetto di bellezza cambia a seconda del periodo storico preso in considerazione, nonché del luogo e della cultura del popolo che lo abita. Così come diverse sono le forme in cui essa si esprime, basti pensare alle arti, alle lingue, alla letteratura, al paesaggio e al bene culturale[2].
In ogni caso la definizione, tra quelle proposte, che più sembra soddisfare è quella che vede nella bellezza “la dimensione antropologica fondamentale per la realizzazione personale dell’individuo e per lo sviluppo complessivo della società”[3]. Tale definizione postula l’esistenza di una dimensione individuale e una dimensione collettiva della bellezza.
Quindi se ne devono occupare il diritto privato e il diritto pubblico.
È utile ricordare che il diritto è morfologia della prassi e persegue fini pratici, per cui si prescinde dalle concezioni filosofiche e dalla logica astratta. Questo ci consente di affermare che al centro del sistema che alla bellezza, direttamente o indirettamente, si richiama, si pone l’attività giuridica delle persone fisiche e dei poteri pubblici e privati.
Il diritto soggettivo, ma anche l’interesse legittimo, sono entrambi delle categorie storiche con cui il giurista vuole indicare un interesse materiale giudicato meritevole dall’ordinamento (art. 1322 cod. civ.), che lo delaicizza, dandogli protezione giuridica. Ad esempio, ed è particolarmente calzante, l’art. 12 del Codice dell’ambiente e del paesaggio, espressamente contempla la verifica dell’‘interesse culturale’ da parte del Ministero dei beni culturali.
Non si rinvengono norme che espressamente contemplino un diritto individuale o collettivo alla bellezza.
La Costituzione, all’art. 9, anche nella versione recentemente riformata, non usa il vocabolo ‘bellezza’, nonostante abbia dato dignità altissima a concetti provenienti dalle dottrine ecologiste, come l’ambiente, le future generazioni, lo sviluppo sostenibile e gli animali. Parimenti il riformato art. 41 -nell’inserire, accanto all’utilità sociale, la salute, l’ambiente, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, quali nuovi limiti all’iniziativa economica privata- non stabilisce espressamente che l’iniziativa economica non deve andare a detrimento della bellezza delle cose e dei luoghi.
Tuttavia se lo si guarda alla luce della tutela della bellezza, per come cercheremo di definirla, gli si fornisce il vero senso di come debba essere interpretato, ossia non solo come una disposizione che impone di tutelare e valorizzare cose culturali, ma anche di salvaguardare l’interesse dei consociati a trarre da essi gli effetti emozionali che solo la bellezza può dare. Inoltre la collocazione nella medesima disposizione della promozione della cultura, unitamente alla ricerca scientifica e tecnica, tutela non solo la bellezza che deriva da ciò che è stato, ma anche quella che deriverà da ciò che sarà.
Il vocabolo ‘bellezza’, di cui già parlavano le giustamente famose leggi Bottai del 1939 ma anche la legge Croce n. 778 del 1922, compare a più riprese nell’art. 136 del d. l.vo 22 gennaio 2004, n. 42 (il già ricordato codice dei beni culturali e del paesaggio), laddove nello stabilire i criteri per l’individuazione dei beni paesaggistici, usa espressioni come ‘cospicui caratteri di bellezza naturale, ‘non comune bellezza’ e ‘bellezze panoramiche’.
A livello comunitario, va ricordata la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (Convenzione di Faro, dalla città portoghese dove è stata stipulata il 27 ottobre del 2005, sottoscritta dall’Italia nel 2013 e finalmente ratificata con la legge 1 ottobre 2020, n. 133). In forza di essa si riconosce che “il diritto al patrimonio culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” affermando altresì “una responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio culturale”. Inoltre stabilisce che “la conservazione del patrimonio culturale, ed il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita” e che “il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”. Infine “l’esercizio del diritto al patrimonio culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altri diritti e libertà”.
Quindi i dati normativi immettono direttamente l’interprete nel campo cui rinvenire un possibile diritto alla bellezza, ossia i beni culturali e il paesaggio, nonostante l’assorbimento di quest’ultimo nell’ambiente latamente inteso. Con l’avvertenza che il diritto alla bellezza delinea un campo più largo.
2. Bellezza e cultura.
Fare della bellezza l’oggetto di un diritto postula l’esigenza di individuare, oltre al già visto interesse protetto, sia i soggetti che ne sono titolari sia il suo contenuto; il che poi consente di classificarlo tra le varie tipologie dei diritti, individuali sociali dominicali personali di godimento e così via.
Il punto nodale è stabilire il rapporto tra cultura e bellezza, che non sembrano essere la stessa cosa, a meno che non si voglia ritenere che vi sia una perfetta identità per cui la bellezza sarebbe sinonimo di cultura e viceversa. E così il discorso si potrebbe chiudere, concludendo che la bellezza sia l’espressione enfatica “del diritto al patrimonio culturale”, che è l’unico diritto che viene contemplato dai testi normativi sovranazionali. In effetti il patrimonio culturale è naturalmente predisposto ad attivare il sentimento della bellezza.
Si è già fatto cenno all’elemento comune, ossia l’indeterminatezza di entrambi i concetti. Non pochi anni fa, nell’occuparmi della cultura nell’ordinamento giuridico interno ed europeo, e in particolare di come i poteri pubblici l’avessero da sempre assunta tra le proprie finalità essenziali, si arrivò alla conclusione che fosse vero quanto autorevolmente sostenuto da Giannini, ossia che un testo normativo non può adottare predefinizioni o nozioni extragiuridiche totalizzanti. Sicché esso “non può che accettare una nozione del tutto empirica di cultura, ossia quella espressa dalla locuzione di complesso di manifestazioni della vita intellettuale”[4].
Tuttavia delle varie nozioni che mi capitò allora di leggere quella che più si avvicina all’essenza della definizione l’ha fornita Giovanni Paolo II, ossia che “la cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo”[5].
Quindi entrambi i concetti impingono nella dimensione antropologica fondamentale dell’individuo, di cui si è detto. Bellezza e cultura si saldano nell’immanente umanità dell’uomo.
Si può azzardare l’ipotesi che l’ambito occupato dalla cultura sia più ampio rispetto a quello occupato dalla bellezza e che la prima è in funzione, non esclusiva, della seconda. La cultura della persona deve contenere in sé anche la predisposizione a fruire della bellezza del mondo che ci circonda, poiché essa realizza appieno le parti più profonde della personalità e quindi dell’intera società umana (art. 2 della Costituzione).
In questo processo un ruolo fondamentale deve essere svolto dall’educazione scolastica e familiare, che non può limitarsi a sviluppare solamente le facoltà conoscitive della persona, ma anche quelle emotive. In altri termini deve educare anche alle sane emozioni derivanti dalla bellezza, aggiungendo così vita alla vita. Questo entra in connessione con “l’altrove”, ad esempio, della grande poesia leopardiana (oltre la siepe). Ma pare che tutti i veri poeti in quanto tali siano calati nell’altrove (ivi compresa la vita o il nulla che verranno dopo la morte), che è la dimensione naturale della poesia.
E le istituzioni culturali, pubbliche e private, debbono rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo sincronico della mente e del cuore della persona (art. 3 della Costituzione). Se esiste, come sembra, un diritto al patrimonio culturale (ossia alla bellezza che da esso deriva) esiste anche la responsabilità di ciascun individuo e dei poteri pubblici e privati qualora esso venga in vario modo pregiudicato[6].
Dalle considerazioni svolte pare che il contenuto del diritto alla bellezza sia costituito dal patrimonio culturale (in cui la stessa legge include anche il paesaggio) identificativo della storia e della civiltà di un popolo e che sicuramente provoca, in maniera quasi naturale secondo l’ordinamento, in chi ne goda l’emozione della bellezza. Tuttavia, come avvertito, il diritto alla bellezza ha una portata più ampia, ossia ha una vocazione universale, visto che ciascuno può rinvenire il sentimento della bellezza ovunque essa si trovi, pretendendone rispetto.
3. Le diverse prospettive di inquadramento e il ruolo delle istituzioni e dei soggetti privati nella conservazione e diffusione della bellezza.
Ma torniamo al terreno più sicuro del sistema legislativo.
Come per la cultura e la scienza, l’ordinamento giuridico prende in considerazione la bellezza almeno da tre angolature diverse: la prima, in cui cerca di definire e delimitare gli ambiti di operatività degli apparati pubblici rispetto all’attività che prende in considerazione l’interesse, appuntato sui beni culturali e il paesaggio, alla bellezza; il secondo, in cui tenta di proteggere tutto ciò che è depositario di bellezza, regolandone lo scambio e la fruizione, secondo trame molto complesse; il terzo, in cui, partendo dalla naturale vocazione universale della bellezza, tenta di radicare una sorta di diritto collettivo alla fruizione delle bellezze. Sicché tutto ruota intorno ai tre protagonisti di siffatte attività, ossia l’apparato pubblico, l’operatore e i movimenti culturali, il fruitore dell’attività culturale in senso lato.
In questa sede, si può solamente osservare come la Costituzione (art. 118, 4 comma), laddove stabilisce che “Stato, Regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”, privilegia la sussidiarietà orizzontale rispetto a quella verticale. Apre così alla partecipazione dei privati nell’amministrazione dei beni culturali, naturalmente predisposti a produrre bellezza, fornendo una importante direttrice nella valorizzazione del patrimonio culturale, che va oltre il confine dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, di cui tanto si discuteva negli ambienti ministeriali degli anni ’90 (si pensi che allora il prezzo del biglietto per entrare nei musei era considerata una tassa). È utile ricordare l’art. 151, comma 3, del codice dei contratti pubblici del 2016, che non pare toccato dalla imminente riforma del settore, consente di attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici per ottenere il recupero, il restauro e la manutenzione programmatica dei beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate.
Vi è una chiara scelta di garantire le libertà sociali, che debbono sopravvivere ai criteri rigidamente economicistici talvolta imposti dalle pubbliche amministrazioni. Non va tuttavia dimenticato che anche il diritto sociale alla bellezza ha dei costi e che i cittadini debbono essere educati a sopportare il ricorso alla fiscalità generale per garantire tale diritto, che non ha una dignità inferiore agli altri diritti fondamentali della persona[7].
Alla fine anche questo implica l’esercizio di una cittadinanza attiva e inclusiva. A tal proposito è utile segnalare come il problema dell’accoglienza e dell’inclusione nel suo rapporto con la cittadinanza non è estraneo al tema della bellezza, data la sua portata universale basata su un concetto metagiuridico quale l’humanitas. Studiosi autorevoli del diritto romano hanno a lungo dibattuto il tema se la struttura della civitas avesse carattere escludente o includente presso l’Impero romano[8].
Da parte degli studiosi più attenti viene segnalata la necessità di istituire un vero e proprio sistema nazionale per la bellezza[9], che vede protagonisti i soggetti pubblici e privati, che possono utilizzare gli schemi organizzativi previsti dal diritto pubblico dell’economia. Una più meditata attenzione da parte del legislatore andrebbe rivolta alle attività culturali e dello spettacolo, ivi compresi i luoghi frequentati in passato da uomini di cultura (si pensi alle trattorie storiche), la cui disciplina è rimasta fuori dal codice dei beni culturali e del paesaggio, che si distacca dalle dizioni contenute in precedenti testi normativi, dapprima il d.P.R. n. 616 del 1977, indi l’art. 148 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, abrogato dallo stesso, che presentavano aperture anche verso beni immateriali, inserendo in un unico elenco tanto i “beni culturali”, quanto le “attività culturali”, intendendosi per tali quelle “rivolte ad affermare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte” (lettera f): ne emerge una certa incertezza sul piano della sistemazione concettuale.
In questo possibile disegno i beni culturali, il paesaggio e tutto quanto possa contenere in sé l’interesse alla bellezza sono da considerarsi beni comuni, che sfuggono alla logica dominicale e vanno considerati per il loro valore d’uso. Tanto più che i beni comuni sono stati attratti dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’alveo degli artt. 2 e 3 della Costituzione; e quindi sono strumenti per la realizzazione della personalità umana e tutti debbono potervi accedere[10].
4. Le diverse concezioni del paesaggio come depositario della bellezza.
Il tema prescelto impone alcune brevi considerazioni sul paesaggio.
Esso viene incluso dal Codice sui beni culturali e del ‘paesaggio’ (appunto), al pari del Testo unico del 1999, nel patrimonio culturale, nel quale dunque rientrano (art. 2) “gli immobili e le aree indicati all’art. 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge”.
In attuazione dell’art. 9 della Costituzione e sulla scia della Convenzione europea del paesaggio (20 ottobre 2000), il codice individua l’oggetto della tutela e della valorizzazione nel “paesaggio”, termine con il quale si intende “il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle reciproche interrelazioni” (art. 131). E tale tutela è relativa “a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
Dalle espressioni usate dal legislatore risulta evidente il passaggio dall’originaria impostazione estetizzante delle leggi del 1939 a quella attuale, dove diventano centrali i valori che il paesaggio esprime quali “manifestazioni identitarie percepibili” per arrivare poi, a seguito della modifica dell’art. 131 del codice nel 2008, alla nozione di paesaggio come “identità estetica dei luoghi, che siano lo specifico “carattere distintivo” di quel territorio.
Nell’attuale dibattito dottrinario si tende a distinguere la categoria dei beni paesaggistici (aree naturali caratterizzate da singolarità geologica; aree ecologiche di particolare rilievo naturalistico; paesaggi artificiali) da quella dei beni di tipo urbanistico (comprendente le strutture urbanistiche “urbane” ma anche delle campagne). Va da sé che la prima categoria, in cui risultano evidenti le concezioni delle leggi della prima parte del secolo scorso, per fortuna continua ad avere un suo contenuto e la legge non può che andare nel senso della sua conservazione. Tuttavia, per numero e importanza, la seconda categoria è diventata centrale poiché essa costituisce la forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata ed evoca la continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente. Sicché la conservazione e la tutela riguardano lo stesso ambiente naturale così come modificato dall’uomo, che è intervenuto nelle varie epoche storiche sull’intero territorio nazionale, per cui si rende necessario individuare quali parti dell’opera modificativa dell’uomo siano espressioni delle civiltà che si sono succedute, che poi sembrano ridursi, ma non è poco, alla civiltà contadino-artigianale e a quella industriale. E il criterio che si ispira alla bellezza può essere una guida infallibile in tale opera di identificazione.
Nell’alveo del paesaggio vanno ricondotti anche la flora e la fauna poiché anch’esse concorrono a formare l’ambiente in cui vive e agisce l’uomo.
In conclusione, sembra sia prevalsa la concezione socio-antropologica del paesaggio da includere nell’ambiente, soprattutto per effetto degli studi da tutti apprezzati di Alberto Predieri[11]. Tuttavia la legge non ha dimenticato le bellezze naturali delle leggi del 1939, da conservare e godere. Però è penetrata nelle dottrine e nella giurisprudenza l’idea che paesaggio da custodire e valorizzare sia tutto ciò è stato costruito dagli uomini e che il trascorrere del tempo storico l’ha reso espressivo di un mondo che non c’è più, ma che è ancora in grado sia di raccontare la piccola e la grande storia dei singoli e delle comunità sia di emozionare i contemporanei, che è poi l’essenza della bellezza. In altri termini la bellezza non è solo contemplazione estatica dei luoghi e delle cose, ma soprattutto un modo di vivere.
5. Il diritto al borgo e il diritto del borgo: tra bellezza perduta e bellezza trattenuta.
In questo quadro si inserisce il diritto al borgo.
I diritti sociali nascono da un bisogno che chiede di essere soddisfatto.
Nel nostro caso sia il bisogno sia il diritto sono dati “dalla situazione sulla base della quale i cittadini delle aree interne intendono riscattarsi dalla loro precaria condizione di vita locale rivendicando la pari dignità con le aree più sviluppate, nell’ottica di riappropriarsi della città, dei suoi spazi comuni oramai abbandonati, dei sui luoghi di aggregazione non più frequentati, delle bellezze culturali trascurate; diritto, questo, la cui duplice dimensione allo stesso tempo, soggettiva e collettiva, ha finito per trascendere ad uno stadio in qualche modo più oggettivo, riferendosi ad una condizione che più che riguardare l’individuo in se, ha preso di mira il luogo in cui la comunità insediata, facendo sì che dal ‘diritto al borgo’ si passasse al ‘diritto del borgo’, chiaramente calibrato sui piccoli centri urbani di periferia. Così, partendo dalla posizione sociale e giuridica degli individui, si è preso atto del fatto che il centro di imputazione degli effetti delle iniziative intraprese non dovesse più essere il cittadino in sé ma il luogo in cui si dispiega la sua personalità, nella consapevolezza che tutelando le esigenze emergenti dei piccoli borghi si accorderebbe comunque protezione, seppur di riflesso, alla comunità insediata. In questa direzione, dunque, il ‘diritto al borgo’ si traduce in una sorta di diritto ad esistere e a contare nello scacchiere territoriale italiano, il che implica l’adozione di una serie di attività volte ad assicurare la rivitalizzazione e la rigenerazione, seppur in sintonia con i valori ambientali e culturali territorialmente espressi e le insite prospettive di turismo”[12].
Si è voluto riprodurre fedelmente la felice definizione del diritto al borgo rinvenuta nell’interessante approfondimento di Di Mauro per la sua precisione e completezza.
In esso si avverte l’eco del c. d. diritto alla città, di cui si parla la New Urban Agenda, firmata a margine della terza Conferenza delle Nazioni Unite sulle città sostenibili e gli insediamenti urbani, tenutasi a Quito il 7 ottobre 2016, in cui si fa riferimento all’uguaglianza nell’uso della fruizione delle città e gli insediamenti urbani da garantire a tutti gli abitanti, presenti e futuri, senza discriminazioni.
Anche se non si può non segnalare il momento terribile che stanno attraversando i centri storici delle nostre città, che è quello “delle saracinesche abbassate, delle insegne luminose spente, dei vetri appannati e degli scatoloni accatastati”[13].
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, è utile ricordare che dottrina autorevole[14] suddivide i borghi italiani in tre categorie a seconda del diverso processo di antropizzazione che li ha caratterizzati, ossia gli insediamenti storici intrappolati nell’espansione edilizia e nell’agricoltura industrializzata; gli insediamenti storici abbandonati per ragioni naturali (si pensi alla bellissima Roscigno vecchia nel Cilento); i nuovi centri abitativi trasfigurati dal recupero omologante del turismo.
Le caratteristiche comuni di tutte e tre le tipologie sono spesso costituite dal deterioramento del patrimonio abitativo, dal degrado e dall’incuria manutentiva del patrimonio storico artistico, dall’impoverimento del tessuto produttivo, dall’isolamento e lo spopolamento.
Dagli studi dell’Istat (rapporto sul territorio del 2020) i comuni ricompresi nelle aree interne sono pari al 51,4% del totale e rappresentano il 21,9% della popolazione e circa il 60% della superficie nazionale. Si registrano alti livelli di spopolamento e fragilità demografica. Il numero delle persone che vivono stabilmente nei comuni delle aree interne si è ridotto di circa 250.000 unità e l’indice di vecchiaia del 2019 è superiore alla media nazionale in tutte le ripartizioni, con un picco nel nord-ovest. Questo è la conseguenza sia dell’aumento della popolazione anziana, sia della diminuzione di quella giovanile, aggravando lo squilibrio generazionale e minando la sostenibilità della popolazione.
Bisogna riconoscere che vi sono state varie iniziative normative per risolvere la questione delle aree interne del paese. Forse quella dove si rinviene la maggiore consapevolezza del problema riguarda il Piano di ripresa e resilienza (PNRR), che ha tentato di cogliere l’occasione per rilanciare e sviluppare il programma Next Generation Eu (NGEU) dell’Unione Europea, con la mobilitazione di circa 2,1 miliardi di Euro nei prossimi cinque anni. A riprova che i piccoli borghi sono considerati centrali nell’economia territoriale italiana.
Esso è in linea con le iniziative legislative degli ultimi anni. Le più importanti sono state: a) la fondamentale legge “piccoli comuni” o “salva borghi” (L. n. 158/2017) per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni e per la riqualificazione e il recupero dei centri storici; b) le politiche di coesione attuate dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne; c) le politiche del Ministro della cultura che ha istituito nel 2017 l’Anno dei Borghi; d) le numerose leggi regionali in materia urbanistica.
Il PNRR ha anche previsto alcune misure specifiche in tema di rigenerazione sociale e culturale dei piccoli siti storici, con l’obiettivo di arginare il fenomeno di marginalizzazione delle aree interne e di correggere i flussi turistici in atto. È importante sottolineare come i flussi turistici debbono assumere nuove forme (c. d. turismo culturale) teso a valorizzare molti altri luoghi pressoché sconosciuti ma che hanno un grande valore culturale, senza impoverire quelli più frequentati.
Diffondere la cultura dei piccoli borghi storici significa attrarre flussi turistici, che a sua volta produce sviluppo economico, ossia nuove iniziative imprenditoriali e creazione di nuova occupazione.
Le dottrine urbanistiche però insistono sulla necessità di coordinare le attività, sviluppando la leale collaborazione tra i diversi livelli territoriali di governo nella decisione ed attuazione degli interventi da realizzare, senza dimenticare il coinvolgimento delle comunità territoriali di riferimento. Questo era mancato nell’attuazione della ricordata legge sui piccoli borghi (la già richiamata L. n. 158/2017), che non prevede un particolare coinvolgimento delle autonomie locali nella fase decisoria.
È importante ricordare come sia necessario promuovere la più ampia partecipazione dei privati sia nella fase della progettazione sia in quella della esecuzione, in attuazione dei ricordati artt. 118 della Costituzione e della Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società umana.
Si sono volute fornire queste disordinate e molto parziali informazioni al fine di poter dare una certa sostanza al diritto al borgo, che alla luce di quanto esposto all’inizio diventa una sorta di meta-diritto o di diritto-meta, come pure è stato segnalato in dottrina.
Va da sé che se l’altrove è anche uno spazio giuridico, il borgo, proprio per il particolare regime che ne connota i tratti, si inserisce a pieno titolo tra quelle cose che il diritto deve proteggere, favorendo la dimensione emozionale e sentimentale delle persone che in qualche modo si sentono coinvolte.
In altri termini anche tale diritto, alla luce del riformato art. 9 della Costituzione, si inserisce appieno nel diritto alla bellezza e ne costituisce una declinazione importante. E questo proprio perché ha una valenza sociale e individuale al tempo stesso. Infatti anch’esso consente di considerare in maniera unitaria il passato il presente e il futuro. Nel passato rientra il patrimonio artistico e storico, nel presente il paesaggio l’ambiente la biodiversità e l’ecosistema, nel futuro la cultura la ricerca tecnico-scientifica e le future generazioni.
6. Considerazioni finali.
Le conclusioni che si possono trarre, per fermarsi al diritto al borgo, non possono che avere ad oggetto la pluralità dei bisogni che ne costituiscono il fondamento. C’ è il bisogno di coloro che sono restati, quasi mai per scelta; il bisogno di coloro che sono andati via senza mai dimenticare il teatro della loro giovinezza, e che vorrebbero tornare per poco o per sempre (si parla di “turismo delle radici”); il bisogno di chi, stanco della vita estraniante della grande città, vorrebbe vivere in un piccolo borgo che però non sia un museo delle porte chiuse, come è stato definito l’attuale stato dei paesi[15], bensì un luogo di armonia e bellezza. Per soddisfare questo bisogna costruire una economia locale che dia lavoro e possibilità di scambio culturale; cosa sempre più difficile nell’economia globale, che è sempre più omologante. L’omologazione tende a distruggere la bellezza, poiché, annullando le differenze create dalla storia, elimina la diversità di ciascuno di noi che deve esserci nonostante si viva lo stesso tempo storico.
L’imperatore Adriano si sentiva responsabile della bellezza del mondo. Gli attuali governanti debbono quantomeno sentire che la rigenerazione dei piccoli borghi è una necessità storica per la valorizzazione attiva di una parte fondamentale del nostro patrimonio storico-culturale e per contribuire a restituire a tutti noi una vita più umana.
*Relazione tenuta al convegno “Diritto e Bellezza. Verso l’altrove”, VII dialogo tra giuristi, Ravello, 23-24 marzo 2023. Nelle more della pubblicazione degli atti del convegno, la Rivista anticipa la pubblicazione del presente scritto per gentile concessione dell’Autore.
[1] Agostino, Le confessioni, 14-17, dove il concetto viene espresso a proposito del tempo. Ma si veda anche C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017, dove la nozione del tempo diventa un fatto scientifico concreto.
[2] A proposito dell’arte, si veda V. Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Milano, 1983, 2019.
[3] La definizione è di M. A. Cabiddu, Diritto alla bellezza, in Rivista AIC, fasc. n. 4, 2020, p. 368. Sulla medesima scia si muove il volume A.A. V.V. Le arti e la dimensione giuridica, curato da O. Roselli, Bologna, 2020. Per il rapporto del diritto con la musica si veda il classico S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina, 1938, ma anche il recente E. Picozza, Scritti vari su musica e diritto, E. S. 2022. Il rapporto tra diritto e letteratura è indagato nella trilogia, Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A Visconti, Milano, voll. I, II e III 2012-2014-2016.
[4] Si vedano i fondamentali scritti di M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. Trim Dir. Pubbl., 1976, p. 1026 e Sull’art. 9 della Costituzione, in Scritti in onore di A. Falzea, II, Milano, 1991, p. 435. ss; F. Santoro-Passarelli, I beni della cultura secondo la Costituzione, in A.A.V.V.. Studi per il XX anniversari dell’Assemblea Costituente, II, Firenze, 1969, 430 ss. Per una visione d’insieme con la scienza e la tecnica, G. P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Cedam, II edizione, 2021, p. 358-373.
[5] Discorso tenuto all’Unesco a Parigi il 2 giugno 1980, sviluppando concetti già contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, artt. 53-62).
[6] M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid Rassegna, n. 3, p. 1673 ss.
[7] Si rinvia alle interessanti considerazioni svolte da I. Baldriga, Diritto alla bellezza. Educazione al patrimonio artistico, sostenibilità e cittadinanza, Le Monnier Università, 2018.
[8] A. Palma, Civitas Romana, civitas mundi. Saggio sulla cittadinanza romana, Giappichelli, 2020, p. 57; In senso opposto G. Valditara, Civis Romanus sum, Torino, 2018.
[9] M. A. Cabiddu, op. cit., p. 383 ss.
[10] G.P.Cirillo, op cit, p. 342 ss.
[11] A. Predieri, Urbanistica, Tutela del paesaggio, Espropriazione, Milano, 1969, p. 152 ss.; G. Berti, Problemi giuridici della tutela dei beni culturali nella pianificazione territoriale regionale, in Riv. Amm. Rep. It, 1973, p. 619 ss.; P. Carpentieri, Paesaggio, urbanistica e ambiente. Alcune riflessioni in occasione del centenario della legge Croce n. 778 del 1922, in WWW. Giustizia amministrativa.it.; G. Montedoro, La concezione crociana del paesaggio, in corso di pubblicazione, per i tipi della Editoriale Scientifica, in un volume a cura del Prof. Iannello. Ma sul tema esiste una letteratura assai vasta.
[12] Biagio G. Di Mauro, Il diritto dei borghi nel PNRR: verso una stagione di rigenerazione urbanisticamente orientata alla conservazione e allo sviluppo dei valori locali, in Urb. e Ap. n. 4/2022, p. 458-471.
[13] W. Veltroni, Le nostre città da curare, in Corriere della Sera del 10 marzo 2023. Peraltro, come già scriveva lo studioso risorgimentale, antesignano del federalismo, Carlo Cattaneo nella sua opera del 1858, “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, “Talora il territorio rigenera la città distrutta”.
[14] P. L. Cervellati, La sorte dei piccoli centri storici: abbandonati, trasfigurati, turisticizzati. Minori e maltrattati, in Bollettino Italia Nostra, 2009 p. 445: Si veda anche il più recente G. A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Editoriale Scientifica, p. 219 ss., dove si ritiene che la rigenerazione urbana sia l’unica alternativa sostenibile al consumo di suolo.
[15] F. Arminio, Museo delle porte chiuse, comunitaprovvisoria.wordpress.com.
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