ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Acquisizione sanante e ammissibilità della rinuncia abdicativa: diversità di vedute fra giudice amministrativo e ordinario (nota a Cass. Civ., Sez. I, 6 giugno 2022, nn. 18142, 18143, 18167, 18168)
di Francesco Martines
Sommario: 1. La rinuncia abdicativa e l’evoluzione della giurisprudenza del giudice ordinario. – 2. L’orientamento del giudice amministrativo. – 3. L’ultima parola (?) dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. – 4. Le sentenze gemelle della Corte di Cassazione, Sez. I, del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168). – 5. Riflessioni conclusive.
1. La rinuncia abdicativa e l’evoluzione della giurisprudenza del giudice ordinario.
Una delle questioni più problematiche che ha riguardato l’applicazione dell’istituto dell’acquisizione sanante concerne la ammissibilità della c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà insita nella richiesta risarcitoria del proprietario[1]. La rinuncia abdicativa può configurarsi nell’ambito delle procedure ablatorie caratterizzate da un esito patologico. In particolare, non potendosi più far discendere alcun effetto traslativo alla mera occupazione sine titulo con irreversibile trasformazione del bene, occorre – per garantire il rispetto del principio di legalità – che l’amministrazione proceda all’adozione di un provvedimento acquisitivo ex art. 42 bis del Testo Unico Espropriazioni (T.U.E.).
Già quando si riteneva che dall’irreversibile trasformazione del bene potesse derivare un effetto estintivo-traslativo della proprietà (accessione invertita), alcune pronunce del giudice ordinario avevano ipotizzato la rinuncia abdicativa come possibile rimedio alla situazione patologica venutasi a creare a causa dell’occupazione sine titulo da parte dell’amministrazione.
La fattispecie occupatoria in relazione alla quale è stata configurata la possibilità di collegare un effetto abdicatorio alla proposizione da parte del proprietario dell’azione di risarcimento per equivalente era la c.d. occupazione usurpativa per la quale – diversamente dai casi di occupazione acquisitiva – permaneva il diritto del proprietario ad ottenere la tutela restitutoria[2].
Con sentenza 10 giugno 1988 n. 3940, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, muovendo dal presupposto che l’effetto acquisitivo/traslativo poteva prodursi soltanto in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, escludevano in radice la possibilità di applicare l’istituto della rinuncia abdicativa del proprietario[3] nei casi di occupazione acquisitiva.
La pronuncia delle Sezioni Unite n. 3940/1988 merita particolare attenzione poiché, per la prima volta, la Suprema Corte – pur approdando a conclusioni confermative e coerenti con la sentenza n. 1464/1983 – vi giunge adoperando nozioni e norme proprie del diritto pubblico. Il riferimento alle disposizioni civilistiche in materia di accessione viene così sostituito dal richiamo di nozioni quali l’espropriazione sostanziale e la disciplina della proprietà pubblica. Questa scelta offre una ricostruzione maggiormente coerente con l’inquadramento dottrinale che valorizza i profili dell’ablazione delle facoltà dominicali in nome dell’interesse pubblico[4].
Con sentenza 4 marzo 1997 n. 1907[5], le Sezioni Unite della Cassazione tornano sul tema e recuperano l’orientamento favorevole all’istituto della rinuncia abdicativa, formulando però alcune importanti precisazioni. Delineata la nota distinzione fra occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa, infatti, le Sezioni Unite chiariscono che – qualora manchi la dichiarazione di pubblica utilità – non possa escludersi la possibilità per il proprietario di avvalersi di un’azione di risarcimento del danno per perdita definitiva del bene, ponendo in essere “un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.)”. La Corte di Cassazione ribadisce, dunque, la tesi che il proprietario che agisce per il risarcimento del danno esprime una volontà del tutto incompatibile con quella di mantenere la proprietà del bene stesso[6].
Nel 2003 le Sezioni Unite affrontano, seppur incidentalmente, la questione ancora una volta e confermano espressamente l’orientamento secondo il quale – nelle ipotesi di occupazione usurpativa – “non si produce l’effetto acquisitivo a favore della pubblica amministrazione; il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato e, se a tanto non ha interesse (e quindi vi rinunzi, anche per implicito), può avanzare domanda di risarcimento del danno, che deve essere liquidato in misura integrate” (Cass. Civ. 6 maggio 2003 n. 6853).
2. L’orientamento del giudice amministrativo.
Espunta dall’ordinamento l’occupazione acquisitiva (con l’introduzione dell’art. 43 e poi 42 bis del Testo Unico Espropriazioni) e assegnata al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di espropriazione, la questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa è stata affrontata anche dal giudice amministrativo.
In contrasto con l’ormai pacifico orientamento del giudice ordinario, la giurisprudenza amministrativa ha sollevato diverse obiezioni alla possibilità di collegare l’estinzione del diritto di proprietà del privato alla sua unilaterale volontà di abdicare al proprio diritto.
Secondo il giudice amministrativo, la soluzione della rinuncia abdicativa si poneva in contrasto con l’esigenza di tutela della proprietà e con i principi di matrice civilistica[7].
Inoltre, la configurazione dell’azione risarcitoria quale negozio unilaterale con effetto abdicativo non renderebbe ragione, per la stessa natura di atto unilaterale del negozio, dell’ulteriore effetto che dovrebbe conseguire dalla rinuncia della proprietà, ossia l’acquisto della proprietà in capo alla pubblica amministrazione occupante.
Il giudice amministrativo ha così allargato l’ambito d’esame della questione al profilo dell’effetto (abdicativo o traslativo) della rinuncia.
Invero, a ben vedere, l’effetto traslativo andrebbe ricollegato al titolo giudiziale, ossia alla sentenza di accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno per equivalente. Di tale effetto traslativo riconducibile al titolo giudiziale, tuttavia, non vi è traccia nel sistema, se non con riferimento all’ipotesi della sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. (nel caso di inadempimento dell’obbligo a contrarre) .
Infine, il riconoscimento di un effetto traslativo dovrebbe comportare l’applicazione dei principi dell’acquisto a titolo derivativo, con la conseguenza che l’ente pubblico acquisterebbe il bene gravato da diritti o garanzie reali[8].
Tale prospettazione è apparsa in contrasto poi con il principio di tipicità dei modi di acquisto della proprietà di cui all’art. 922 cod. civ. e con il tenore dell’art. 43 (prima) e dell’art. 42 bis T.U.E. (poi) che fanno discendere l’acquisizione da un provvedimento discrezionale dell’amministrazione[9].
Alcune sentenze hanno sostenuto la radicale impossibilità di rinuncia al diritto di proprietà sul presupposto che “il bene immobile privato diventerebbe, per effetto di una siffatta abdicazione, una res nullius, teoricamente acquisibile in proprietà per semplice occupazione o invenzione. Il codice civile, però, ammette l’occupazione e l’invenzione, quali mezzi di acquisto della proprietà a titolo originario, solo per i beni mobili. È quindi evidente che il legislatore ha concepito un sistema tendente ad evitare che possano esistere beni immobili privi di proprietario a seguito di rinuncia abdicativa”[10].
La chiusura del giudice amministrativo verso l’ipotesi della rinuncia abdicativa poggia anche su una rigorosa interpretazione dell’art. 1350 cod. civ., relativo agli atti necessitanti della forma scritta ad substantiam, e che, nella misura in cui non indica espressamente la rinuncia abdicativa al diritto di proprietà sui beni immobili, andrebbe inteso come conferma dell’estraneità di tale facoltà al nostro ordinamento giuridico. Seguendo tale orientamento, il n. 5 dell’art. 1350 cod. civ. (relativo agli “atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti”) sarebbe riferito ai diritti derivanti dai contratti che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà immobiliare (“la quale rinuncia è cosa ben diversa da quella abdicativa poiché non lascia il bene vacante”)[11].
In senso difforme, in altra pronuncia il giudice amministrativo (C.G.A.R.S., 25 maggio 2009 n. 486) ha osservato che gli artt. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 cod. civ. (relativo quest’ultimo agli atti soggetti a trascrizione), nel menzionare espressamente “gli atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti”, farebbero riferimento anche al diritto di proprietà immobiliare[12].
Orbene, deve osservarsi che in tutte le ipotesi previste dalle richiamate disposizioni del codice civile la rinuncia è espressamente prevista a favore di uno specifico soggetto e il bene non acquista la qualità di res nullius. Diversamente, nelle ipotesi di occupazione sine titulo non è chiaro quale destino abbia il diritto di proprietà abdicato dal privato: se, astrattamente, potrebbe ritenersi che esso si trasferisca direttamente in capo all’amministrazione occupante (eventualmente mediante una semplice dichiarazione di accettazione)[13] resta il fatto che, in base alle disposizioni esaminate, esso dovrebbe farsi confluire nel patrimonio dello Stato (secondo il regime dei beni immobili vacanti) o al più diventare una res nullius[14].
Vi è poi un altro profilo che desta qualche perplessità.
Come evidenziato nelle pronunce che hanno negato la rinunciabilità del diritto di proprietà in caso di occupazione sine titulo, non può darsi luogo a risarcimenti connessi alla perdita della proprietà, trattandosi di un evento inesistente[15].
Altra giurisprudenza ha, invece, accolto la domanda risarcitoria ai sensi, prima, dell’art. 35, co. 2, D. Lgs. n. 80/1998, e poi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., affermando la necessità di prevedere un “passaggio intermedio, logicamente precedente il momento risarcitorio, consistente nell’assegnazione di un termine all’amministrazione perché definisca (in via negoziale o autoritativa, ex art. 43 citato) la sorte della titolarità del bene illecitamente appreso” e applicando in modo peculiare la norma che pone in capo al giudice amministrativo l’onere di accertare l’an della pretesa pecuniaria e consente di rinviare ad un accordo delle parti la liquidazione del quantum sulla base di criteri fissati dal giudice[16].
Alla posizione di chiusura del giudice amministrativo hanno reagito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 735/2015, seppure incidentalmente, hanno confermato la possibilità di una “scelta abdicativa” del dominus precisando che si tratterebbe di una rinuncia “abdicativa” e non “traslativa” con la conseguenza che da essa non può farsi discendere l’automatico acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione utilizzatrice del bene[17].
Secondo la Cassazione sussistono sufficienti elementi per individuare nella proposizione dell’azione risarcitoria per equivalente un comportamento inequivocabilmente incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà. Le Sezioni Unite riconoscono al privato la possibilità di domandare il risarcimento del danno per equivalente (con implicita rinuncia al diritto di proprietà) assumendo che il danno patito consiste non tanto nella perdita della proprietà quanto piuttosto nella perdita delle utilità ricavabili dal bene. Di qui l’implicita rinuncia al diritto di proprietà per mancanza di interesse al mantenimento della res.
L’orientamento della Cassazione favorevole all’ammissibilità dell’istituto si fonda su una ricostruzione sistematica dell’impianto civilistico sulla base di disposizioni codicistiche (artt. 827, 2643 n. 5, 118 comma 2 cod. civ.) dalle quali le Sezioni Unite traggono il principio della generale rinunciabilità della proprietà immobiliare. In aggiunta a tale argomento sistematico-letterale, le Sezioni Unite evidenziano un argomento teologico-funzionale nel senso che una rinuncia implicita al diritto di proprietà in seno ad una domanda di risarcimento del danno per equivalente permette di valorizzare il principio della concentrazione delle tutele di cui all’art. 111 Cost[18].
3. L’ultima parola (?) dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
In tempi più recenti, sull’applicabilità della rinuncia abdicativa alle vicende dell’occupazione sine titulo è intervenuta l’Adunanza Plenaria con l’intenzione di porre fine ai contrasti interpretativi.
Con sentenza 9 febbraio 2016 n. 2, sebbene in via incidentale, l’Adunanza Plenaria ritiene ammissibile la rinuncia abdicativa del dominus implicitamente contenuta nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
Questa soluzione comporta che la rinuncia possa avere effetto meramente abdicativo e non anche traslativo; il che significa che l’effetto traslativo sia collegato all’atto di liquidazione del danno adottato dall’amministrazione occupante convenuta in giudizio[19]. Da un lato, dunque, si avrà il negozio unilaterale di rinuncia del privato, dall’altra l’atto di liquidazione dell’amministrazione, da trascriversi ai sensi dell’art. 2643, comma primo, n. 5 cod. civ. Come è stato osservato, l’abdicazione insita nella domanda risarcitoria di un privato, non essendo propriamente traslativa del diritto di proprietà, diventa atto risolutivamente condizionato al pagamento, da parte della pubblica amministrazione, del risarcimento del danno[20].
Sorgono, tuttavia, alcune perplessità.
È possibile riconoscere effetto di rinuncia abdicativa implicita, oltre che alla domanda giudiziale di risarcimento per equivalente, anche ad altri atti “inequivocabili” del privato, (quale per esempio la nota di diffida e messa in mora inviata alla pubblica amministrazione occupante per ottenere il pagamento del risarcimento del danno)?
E ancora: la quantificazione del danno prospettata dal privato nell’atto introduttivo del giudizio risarcitorio è vincolante per la pubblica amministrazione (che deve adottare l’atto di liquidazione e curarne la trascrizione) oppure essa può liquidare una somma di diverso valore?
La giurisprudenza favorevole all’ammissibilità dello strumento della rinuncia abdicativa, invero, sembra piuttosto rigorosa e riconnette l’effetto abdicativo alla sola domanda giudiziale (e non anche ad altri atti del privato) così come non sembra lasci margine alla pubblica amministrazione per procedere ad una liquidazione che si discosti da quella indicata dal privato.
È altresì vero, però, che – astrattamente ed in linea teorica – una volta ammessa la rinunciabilità implicita da parte del proprietario del bene occupato non pare possano affermarsi ostacoli ad un possibile ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto della rinuncia abdicativa. Sono soltanto ragioni di opportunità che inducono a scoraggiare tali interpretazioni estensive, di per sé insufficienti a escluderle del tutto.
Quando sembrava ormai essersi assestata la posizione della giurisprudenza in ordine al tema della rinuncia abdicativa (nel senso della sua assimilabilità), com’è noto, nel 2020 l’Adunanza Plenaria è tornata ad occuparsi dell’argomento con tre pronunce coeve, molto interessanti, con le quali viene affermata in maniera netta la non ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà implicitamente contenuta nella domanda giudiziale proposta dal soggetto privato per ottenere il risarcimento per equivalente (sentenze n. 2, 3, 4 del 20 gennaio 2020) [21].
Le sentenze nn. 2 e 3 sono gemelle
L’Adunanza Plenaria muove dall’esame dell’orientamento giurisprudenziale favorevole all’ammissibilità della rinuncia, soffermandosi sui vantaggi che, sul piano pratico, esso comporta per il privato espropriato (concentrazione delle tutele; ragionevole durata del processo; corresponsione del quantum a titolo di risarcimento del danno e non a titolo di indennizzo).
Nonostante tali elementi di favor per il privato espropriato, l’Adunanza Plenaria rigetta l’ipotesi ricostruttiva della rinuncia abdicativa in quanto si espone a tre fondamentali obiezioni.
In primo luogo, quand’anche voglia riconoscersi che l’atto abdicativo sia astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è possibile affermare che esso determini l’acquisto della proprietà in capo all’autorità espropriante. In tale prospettiva, appare fuorviante il richiamo all’art. 827 cod. civ. – assunto come base legale della dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare – al di fuori dei casi previsti dalla legge poiché la norma prevede che gli immobili vacanti siano acquistati (a titolo originario) al patrimonio indisponibile dello Stato. Ne consegue che, applicando la disposizione al caso dell’occupazione sine titulo, la rinuncia non consentirebbe l’acquisto in capo all’ente espropriante.
La Plenaria precisa, altresì, che non possa riconoscersi effetto traslativo alla trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno giacché si tratta di un adempimento rilevante soltanto ai fini dell’opponibilità verso i terzi. Per la medesima ragione ai fini traslativi non può assumere rilievo la trascrizione dell’atto di liquidazione del risarcimento del danno.
La posizione assunta dal collegio giudicante è molto rigorosa e, per vero, non del tutto condivisibile soprattutto per gli effetti compressivi che comporta sulla posizione del proprietario del bene occupato[22].
L’Adunanza Plenaria osserva inoltre che sarebbe fuorviante il richiamo alla teorica degli atti impliciti che può riguardare solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato. In ogni caso, non è possibile ritenere che la volontà (espressa) del privato di agire per il risarcimento del danno per equivalente implichi inequivocabilmente la volontà (implicita) di rinunciare al diritto di proprietà. La domanda risarcitoria, infatti, denuncia un illecito di cui la parte chiede la riparazione; nulla di più e nulla di meno.
Sul piano formale, prosegue l’Adunanza Plenaria, va considerato che la domanda risarcitoria è redatta e sottoscritta dal difensore del soggetto proprietario (e non anche da questi personalmente). Tuttavia, ai fini della possibile configurabilità della rinuncia, quest’ultima deve provenire dal titolare del diritto che ne ha la disponibilità.
Rispetto alla posizione assunta dall’Adunanza Plenaria, si osserva peraltro che il riferimento alla teoria dell’atto amministrativo implicito appare non del tutto pertinente laddove si faccia riferimento alla rinuncia abdicativa del privato che è istituto del tutto differente per presupposti e ambito di operatività[23].
La ragione principale ed assorbente che ha indotto l’Adunanza Plenaria a ritenere non percorribile la strada della rinunciabilità del diritto di proprietà in caso di occupazione sine titulo attiene al rispetto del principio di legalità: ai sensi dell’art. 42 della Costituzione la proprietà può essere espropriata “nei casi preveduti dalla legge” fra i quali non rientra la rinuncia abdicativa. Secondo quanto osservato nelle sentenze 2 e 3 del 2000, la tesi della rinuncia abdicativa rischia di riproporre “problemi e dubbi interpretativi” propri dell’ormai tramontato istituto dell’occupazione acquisitiva, ritenuto incompatibile dalla Corte EDU con i principi del Protocollo Addizionale CEDU.
Ai sensi dell’art. 42 bis T.U.E. deve escludersi che il giudice e, a maggior ragione, il privato possano decidere sulla sorte del bene occupato; la scelta di acquisirlo è propria della pubblica amministrazione e deve restare tale “senza che possano trovare spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa”.
L’orientamento contrario alla rinuncia abdicativa implicita del proprietario del bene occupato sine titulodalla pubblica amministrazione trova conferma, con ulteriori argomentazioni, nella coeva sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4/2020 che prende posizione sull’indirizzo interpretativo dedotto dalle sentenze Cass. Civ. SS.UU. n. 735/2015 e Cons. Stato Ad. Plen. n. 2/2016 che – viene fatto rilevare – non trattano ex professo le questioni inerenti l’applicazione della rinuncia abdicativa e, pertanto, non rappresentano precedenti puntuali e granitici.
Nella sentenza n. 4/2020 l’Adunanza Plenaria muove dalla constatazione che “la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico all’ambito dell’espropriazione per pubblica utilità (…) genera un’irrazionalità amministrativa di tipo funzionale”; ciò che resta irrisolto nella ricostruzione dell’istituto della rinuncia abdicativa è l’aspetto della correlazione fra effetto privativo e effetto traslativo proprio dei provvedimenti ablatori, finendo col privare la vicenda espropriativa della sua causa giuridica. Nessuna delle pronunce che ammette il ricorso alla rinuncia abdicativa fornisce una soluzione certa ed univoca sull’individuazione del titolo e del modus acquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante tenuta al risarcimento dei danni.
Il richiamo all’art. 827 cod. civ. – prosegue l’Adunanza Plenaria – appare fuorviante tenuto conto che la disposizione civilistica prevede l’acquisto a titolo originario del bene vacante da parte dello Stato e non può, dunque, giustificare l’acquisto da parte dell’ente espropriante tenuto al risarcimento del danno.
L’Adunanza Plenaria – integrando i rilievi delle sentenze 2 e 3 – esclude altresì la possibilità di applicare in via analogica altre disposizioni del codice civile riguardanti fattispecie di acquisto a titolo originario quali gli artt. 923, 940 e 942 cod. civ. in quanto si incorrerebbe in una palese violazione del principio di legalità, più volte richiamato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte EDU.
Muovendo da queste premesse e osservazioni, si osserva che l’art. 42 bis ha introdotto una procedura speciale tipizzando i poteri dell’amministrazione e conformando la facoltà di autodeterminazione del proprietario.
In particolare, ai sensi dell’art. 42 bis, l’amministrazione occupante è titolare di una “funzione a carattere doveroso consistente nella scelta fra la restituzione previa rimessione in pristino o l’acquisizione di esso”; non si tratta, dunque, di una mera facoltà di scelta fra più opzioni possibili ma di “doveroso esercizio di un potere”.
Parallelamente, in capo al privato è attribuita la potestà di compulsare la pubblica amministrazione attraverso un’istanza o diffida all’esercizio del potere/dovere di porre termine alla situazione di illecito permanente costituita dall’occupazione sine titulo scegliendo se acquisire o restituire il bene; in caso di perdurante inerzia, il privato potrà ricorrere all’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a.[24].
Altre possibili soluzioni (ivi compresa la teorica della rinuncia abdicativa) potevano essere percorribili in mancanza di una disposizione (l’art. 42 bis) che ha espressamente regolato l’unica procedura da seguire.
Ne consegue che all’interprete “non è consentito (se mai lo sia stato) più di ricorrere all’analogia iuris per integrare la fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa quale tassativamente predeterminata dal legislatore”.
L’ipotesi dell’applicazione delle norme sulla rinuncia abdicativa viene ritenuta un’operazione ermeneutica da rigettare in quanto:
- comporta uno stravolgimento dell’assetto di interessi sotteso e (ri)composto (d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dall’art. 42 bis;
- affida alla decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale ed unilaterale del proprietario cui finirebbe per attribuire “una sorta di diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica dell’amministrazione”;
- si risolve nell’inammissibile introduzione praeter legem di una nuova fattispecie ablativa/traslativa.
A parere di chi scrive, l’orientamento dell’Adunanza Plenaria, pur condivisibili, si espone ad alcuni rilievi critici.
In particolare, il rilievo (che la stessa Adunanza Plenaria ritiene “decisivo ed assorbente”) sulla violazione del principio di legalità potrebbe essere ritenuto non del tutto convincente da una diversa prospettiva.
Ponendosi dalla prospettiva del titolare del diritto dominicale potrebbe infatti obiettarsi che l’art. 42 Cost. (che secondo l’Adunanza Plenaria non fornirebbe la base legale all’istituto della rinuncia abdicativa) riconosce e protegge la proprietà privata e, nel sottoporre al principio di legalità la determinazione dei modi di acquisto e, soprattutto, le modalità di espropriazione della stessa per motivi di interesse generale, mira a tutelare il proprietario; sicché sarebbe priva di giustificazione un’interpretazione che individua proprio nell’art. 42 Cost. la ragione di un limite all’esercizio delle azioni ordinariamente poste a difesa del diritto dominicale e al dispiegarsi della normale potestà di disposizione dello stesso (ivi compresa quella di rinunciarvi).
Dubbi similari possono sorgere rispetto all’affermazione secondo la quale l’ordinamento processuale appresterebbe uno strumentario efficace a tutela del soggetto privato che rende superfluo e fuorviante il ricorso all’istituto della rinuncia abdicativa[25].
4. Le sentenze gemelle della Corte di Cassazione, Sez. I, del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168).
L’orientamento dell’Adunanza Plenaria sull’inammissibilità del ricorso alla rinuncia abdicativa è stato recepito dalla giurisprudenza amministrativa che si è prontamente adeguata alle indicazioni interpretative delle pronunce nn. 2, 3 e 4 del 2020[26].
Non analoga condivisione si è riscontrata da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione che, chiamata a pronunciarsi su fattispecie per le quali ratione temporis manteneva la giurisdizione, non ha mancato di rilevare che l’esclusione della rinuncia abdicativa nelle ipotesi di occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione rappresenta un grave vulnus per il diritto di proprietà del privato[27].
Si segnalano, in particolare, per il netto dissenso manifestato rispetto alla posizione assunta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, quattro recenti sentenze gemelle della Prima Sezione della Corte di Cassazione del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168) con le quali – muovendo dall’assunto che la scelta dei rimedi a tutela della proprietà deve essere sempre riservata al privato danneggiato (Cass. n. 144/2020 e n. 301/2014) – si afferma chiaramente che l’Adunanza Plenaria, escludendo la possibilità per il privato di azionare i rimedi civilistici comuni, in sostanza ha ravvisato una “modalità conformativa della proprietà privata rimessa all’autorità amministrativa alla quale soltanto sarebbe riservata, ai sensi dell’art. 42 bis., la decisione di acquisire la proprietà dell'immobile, previo pagamento dell'indennizzo, o di restituirlo previa rimessione allo stato pristino, salva la residua possibilità per il privato di reagire introducendo un giudizio, con esito incerto e dilatato nel tempo, al solo fine di compulsare la stessa autorità ad assumere detta decisione”.
Secondo la Corte l’adesione all’impostazione della giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato implica l’esposizione del proprietario danneggiato ai rischi insiti nella titolarità del bene in una situazione determinata dal comportamento illecito dell’autorità amministrativa; il proprietario, di fatto, verrebbe privato della possibilità di avvalersi del rimedio principale per far cessare immediatamente la prosecuzione degli effetti dell’illecito, ossia la rinuncia forzosa alla proprietà (soluzione alternativa alla richiesta di restituzione del bene previa rimessione in pristino se concretamente praticabile)[28].
Il proprietario vittima del comportamento illecito dell’amministrazione ha il diritto di domandare in giudizio il risarcimento del danno, non solo, per la perdita del godimento nel periodo considerato (occupazione illegittima), ma anche per la perdita commisurata all'integrale valore del bene, alla cui titolarità il proprietario ha implicitamente (seppur forzosamente) rinunciato proponendo la domanda risarcitoria per equivalente. Muovendo da tale assunto, la Corte di Cassazione rigetta in toto la soluzione prospettata dal giudice amministrativo aprendo un contrasto giurisprudenziale che richiede una soluzione.
A sostegno della propria posizione la Suprema Corte richiama anche l’orientamento della dottrina (per lo più gius-privatistica) secondo la quale non vi sono ostacoli logici e giuridici a che il proprietario - fintanto che la pubblica amministrazione non abbia esercitato il potere di acquisizione sanante - possa chiedere in giudizio e ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del bene coattivamente trasferito in capo all’autore della lesione.
5. Riflessioni conclusive.
Il contrasto giurisprudenziale fra le supreme magistrature ordinaria e amministrativa in tema di rinuncia abdicativa sottende la continua tensione tra autorità e libertà, ovvero fino a che punto il potere autoritativo della pubblica amministrazione esercitato nel perseguimento del pubblico interesse possa giustificare il sacrificio del diritto di proprietà del privato garantito dalla Costituzione e dalla CEDU.
Per un verso, la posizione dell’Adunanza Plenaria del 2020 in ordine alla non ammissibilità dell’istituto dell’abdicazione del diritto di proprietà ha l’incontestabile pregio, per un verso, di essere pienamente aderente alle disposizioni codicistiche richiamate nelle sentenze di tenore contrario e, per altro verso, di valorizzare lo spirito della disciplina dell’acquisizione sanante.
L’art. 42 bis del Testo Unico Espropriazioni, invero, fornisce una base legale specifica e certa all’effetto ablativo della proprietà: da un lato la pubblica amministrazione è dotata di un potere di natura vincolata nell’an ma discrezionale nel quomodo, che le permette di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell’alveo della legalità; dall’altro lato, l’iniziativa procedimentale ed il successivo giudizio sul silenzio – come evidenziato dall’Adunanza Plenaria – costituiscono i mezzi con cui il privato può far valere il proprio interesse a conseguire il ristoro pecuniario rispetto alla restituzione del bene.
Da altra prospettiva, le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione nelle recenti sentenze del 2022 non paiono potersi considerare di modesto rilievo; l’esigenza di assicurare una tutela effettiva al proprietario del bene occupato dalla pubblica amministrazione per la realizzazione di un interesse pubblico è certamente rilevante e trova conforto nelle norme della CEDU che potrebbero indurre la Corte EDU a indicare una linea interpretativa in disaccordo con l’orientamento consolidatosi nelle sentenze del giudice amministrativo.
[1] G. Tropea, Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo, in www.giutiziainsieme.it, 2022; G. Mari, Rinunciabilità della proprietà e occupazione sine titulo, in Il libro dell’anno del diritto, Roma, 2019, 196 ss.; Bona-Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione dalla giustizia?, Foro It. 3/2020, 170; A. Di Cagno, La rinuncia abdicativa in favore dell’amministrazione nell’ambito delle occupazioni illegittime, in Urb. e App. 1/2020, 106 ss.; Coppola F., L’evoluzione della materia delle espropriazioni e la questione circa l’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà: la soluzione delle sentenze dell’Ad. Plen. n. 2 e n. 4 del 2020, in www.federalismi.it, 10/2021; Barilà, Nuovi interventi del Consiglio di Stato sulla tutela della proprietà rispetto ad occupazioni illegali dell’amministrazione, in Foro it., 2020, III, 159; E. Amante, L’adunanza Plenaria espunge la rinuncia abdicativa implicita dell’acquisizione sanante, in Urb. e App., n. 3/2020, 365 ss.; G. Ariemma, Occupazioni e tutela del privato: l’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia di espropriazione per pubblica utilità, in Ist. dir. e econ., 2/2020, 256 ss.; ID., CEDU e cultura giuridica italiana 9) La CEDU e il diritto amministrativo, in www.giustiziainsieme.it., 2020.
[2] Si segnala Cass, Civ., 18 aprile 1987, n. 3872, in Foro It., 1987, 1, 1727 ss. (con commento di A. Romano). Per una ampia ricostruzione del dibattito giurisprudenziale, R. Conti, Diniego di rinunzia abdicativa, in Urb. e App., 2009, 103 ss.
[3] Sentenza pubblicata in Foro Amm. 7-8/1988, 1973 ss. (con nota di G.P. Cartei, Un difficile connubio: criterio di effettività e principio di legalità dell’azione amministrativa).
[4] A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione di vincoli paesistici, in Riv. trim. dir. pubb., 1961, 809 ss. ove l’Autore osserva che “l’ubi consistam dell’espropriazione non è il trasferimento – come testimonia l’etimo della parola – l’ablazione di un diritto o di facoltà inerenti ad un diritto”.
[5] Fra i commenti alla pronuncia si segnala, M. Annunziata, Azione risarcitoria per occupazione illegittima e prescrizione del diritto, in Riv. Giur. Edil., 3/1997, 508 ss.; G. Giacalone, L’occupazione illegittima, non assistita da (valida) dichiarazione di pubblica utilità, quale illecito permanente, in Giust. Civ., 5/1997, 1237 ss.;
[6] Come osservato nella pronuncia del 1997 (richiamando l’orientamento condiviso nella sentenza della II Sezione n. 3872/1987), lo schema della rinuncia con effetto abdicativo non è ignoto all’ordinamento, trovando espressione nell'art. 1070 cod. civ., che prevede l'abbandono del fondo servente mediante rinunzia alla proprietà in favore del fondo dominante, nell’art. 1104 cod. civ., che prevede l’abbandono del diritto del comunista sulla cosa comune a favore degli altri partecipanti, e infine nell’art. 550 cod. civ., che prevede l’abbandono della nuda proprietà della disponibile da parte del legittimario a favore del legatario.
[7] Si segnala TAR Calabria, Reggio Calabria, 17 giugno 2014 n. 265 secondo cui “facendo applicazione degli ordinari principi civilistici, l’esigenza di una piena tutela del diritto di proprietà esige che l’effetto traslativo consegua ad una volontà espressa ed inequivoca del proprietario interessato, da tradursi in strumenti negoziali formali e tipici (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 maggio 2013 n. 2559) dovendosi comunque tener conto dello specifico regime giuridico degli atti inter vivos con cui si può disporre, anche mercé l’abdicazione, del diritto di proprietà (art. 1350 n. 5 c.c. e art. 2643 n. 5 c.c.)”.
[8] TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 27 luglio 2015 n. 802; TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 31 agosto 2013 n. 529.
[9] TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 7 maggio 2015 n. 340; Cons. Stato, Sez. IV, 28 gennaio 2011 n. 676; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 26 marzo 2015 n. 310 che osserva che “in caso di occupazione divenuta sine titulo di un’area, il giudice amministrativo non può condannare l’amministrazione al risarcimento nei confronti del proprietario per il controvalore del bene, quand’anche questa sia la richiesta formulata dal ricorrente: la legge non attribuisce rilevanza ad una dichiarazione unilaterale del proprietario, ma all’art. 42 bis D.P.R. n. 327 del 2001 attribuisce all’amministrazione il potere di acquisizione; inoltre, la domanda giudiziale volta al risarcimento per equivalente comporterebbe una rinuncia ‘condizionata' alla pronuncia del giudice che liquidi il risarcimento ed il cui evento è comunque giuridicamente precluso, poiché — per il principio della separazione dei poteri — solo l’amministrazione può valutare quale degli interessi debba prevalere tra quelli in conflitto e decidere se restituire il terreno ovvero acquisirlo”; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 16 settembre 2014 n. 1111 secondo cui “il diritto di proprietà non può essere fatto oggetto di atti abdicativi e, quindi, anche la richiesta di risarcimento formulata dal privato diretta ad ottenere il mero controvalore del fondo oggetto di occupazione sine titulo compromesso dall’opera pubblica, ancorché interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo, non può valere a determinare in capo al privato la perdita della proprietà del terreno illegittimamente occupato”.
[10] T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 22 settembre 2008 n. 2176.
[11] In questi termini, T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 22 settembre 2008 n. 2176.
[12] C.G.A.R.S., 25 maggio 2009 n. 486 in cui vengono altresì considerate alcune specifiche ipotesi di atti di rinuncia al diritto di proprietà immobiliare contemplate dagli artt. 1070, 1104 e 550 c.c.
[13] T.A.R. Sardegna, Sez. II, 28 maggio 2010 n. 1383 dove si legge che “al momento della richiesta di risarcimento danni, cui consegue l'implicito abbandono del diritto di proprietà sul terreno, si è verificato l'incontro della volontà del Comune di voler acquisire il terreno, in precedenza manifestato con l'occupazione del terreno e la sua utilizzazione ad opera pubblica, con quella del privato che richiedendo la corresponsione del risarcimento dei danni abdica al diritto di proprietà sul terreno utilizzato dall'ente pubblico”.
[14] Sul punto, G. Mari, Occupazioni sine titulo, espropriazione indiretta, acquisizione sanante e obblighi restitutori: gli orientamenti della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) a confronto, in Riv. Giur. Edil., 1-2/2016, 69 ss.
[15] Si segnala, in particolare, Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012 n. 1514; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 22 settembre 2008 n. 2176
[16] Cons. Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2011, n. 6375; 1 settembre 2015, n. 4096.
[17] Cass. Civ., SS. UU., 19 gennaio 2015 n. 735; in termini analoghi, Cass. Civ., Sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686; 24 maggio 2018, n. 12961; SS. UU., 6 febbraio 2019, n. 3517.
[18] L’orientamento delle Sezioni Unite del 2015 è stato condiviso in alcune sentenze del giudice amministrativo di prime cure. Vd. TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 11 giugno 2015 n. 245; TAR Calabria, Reggio Calabria, 30 gennaio 2013 n. 64; 21 maggio 2013 n. 320; 7 marzo 2014 n. 156.
[19] Sui profili della liquidazione dell’indennizzo e del risarcimento, F. Tigano, Indennizzo “reale” ed attività espropriativa nel caleidoscopio dei poteri ablatori, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[20] M. Morelli, Le occupazioni illegittime della Pubblica Amministrazione, Roma, 2018, in part. 217- 218.
[21] Fra i commenti alle sentenze dell’Adunanza Plenaria del 2020 si segnalano: E. Barilà, Nuovi interventi del Consiglio di Stato sulla tutela della proprietà rispetto ad occupazioni illegali dell’amministrazione, in Foro it., 2020, III, 159 ss.; C. Bona – R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione della giustizia?, ibidem, 169; S.R. Masera, Espropriazione per p.u. - Cessazione dell'occupazione illegittima e irreversibile trasformazione del fondo, in Giur. it., 2020; sulle conseguenze legate alla soluzione tracciata dall’Adunanza Plenaria 2020 sono condivisibili le perplessità manifestate da R. CARANTA il quale osserva che “la scelta per l’inammissibilità adottata dalla Plenaria, se pare condivisibile sul piano teorico e della funzione pubblica, finisce, ancora una volta, per riaffermare l’assoluta disparità di trattamento riservata in tale materia alla p.a. (…) rispetto a quella del privato”; l’A. conclude indicando la necessità dell’intervento del legislatore. (R.G. CONTI, CEDU e cultura giuridica italiana 9) La CEDU e il diritto amministrativo, cit., 2020); analoghe perplessità sono sollevate da G. TROPEA nel medesimo contributo.
[22] C. Bona - R. Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione di giustizia?, cit., 2020, III, 134 ss.
[23] G. Tropea, Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo, cit.
[24] Sulla tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione, da ultimo, S. Villamena, Inerzia amministrativa e nuove forme di tutela. Profili organizzativi e sostanziali, Torino, 2020. Per un inquadramento generale, M.A. Sandulli, Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione, in Giust. civ., 1994, 486 ss.; Id., La disciplina del silenzio della pubblica amministrazione spunti di riflessione in materia di tutela giurisdizionale, in V. Parisio (a cura di), Inerzia della pubblica amministrazione e tutela giurisdizionale. Una prospettiva comparata, Milano, 2002, 183 ss; S. Perongini, La tutela giurisdizionale avverso l’inerzia della pubblica amministrazione e l’interesse pubblico, in Dir. proc. amm., 2010, 423 ss.; R. Rolli, La voce del diritto attraverso i suoi silenzi. Tempo, silenzio e processo amministrativo, Milano, 2012; F. Manganaro, Dal rifiuto del provvedimento al dovere di provvedere: la tutela dell’affidamento, in Dir. amm., 2016, 93 ss.; G. Mari, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla relativa violazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 158 ss.
[25] Queste ed altre perplessità sono sollevate da A. Vacca nel contributo Profili strutturali dell’attività di ius dicerenell’abdicazione del diritto di proprietà, op. cit.; i rilievi critici sono in parte condivisi da G. Tropea, Per un inquadramento di sistema della disciplina dell’art. 42 bis DPR n. 327/2001 alla luce della giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo, op. cit.
[26] Ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 16 maggio 2022, n. 3827; 11 marzo 2022, n.1746; 28 gennaio 2022, n. 600; 27 dicembre 2021, n. 8628; 2 settembre 2021, n. 6205; 22 giugno 2021, n. 4790; 12 maggio 2021, n. 3751; , 10 maggio 2021, n. 3611; 5 maggio 2021, n. 3514; 31 marzo 2021, n. 2686; 29 marzo 2021, n. 2595; 21 settembre 2020, n. 5527; Sez. II, 7 gennaio 2022, n. 105; 11 ottobre 2021, n. 6798; 9 aprile 2021, n. 2906; 9 novembre 2020, n. 6863; C.G.A.R.S., 2 febbraio 2022, n. 156; 8 luglio 2021, n. 668; 28 giugno 2021, n. 631; 14 maggio 2021, n. 430; 25 marzo 2021, n. 253; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 12 aprile 2021, n.523; 11 settembre 2020, n. 985; 20 aprile 2020, n. 470; TAR Sardegna, Sez. II, Cagliari, 30 aprile 2021, n. 314 TAR Campania, Napoli, Sez. V, 19 maggio 2021, n. 3328; 21 luglio 2021, n. 5048; 26 luglio 2021, n. 5221.
[27] Cass. Civ., sez. I, 6 giugno 2022, nn. 18142, 18143, 18167, 18168; in precedenza, 7 settembre 2020, n. 18566; Sez. III, 11 dicembre 2020, n. 28297
[28] In termini analoghi, Cass Civ., Sez. I, 7 settembre 2020, n. 18566 aveva ribadito che va condiviso l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla rinunciabilità della proprietà (Cass. SS. UU. 735/2015) in quanto “in tema di espropriazione per pubblica utilità, la c.d. occupazione acquisitiva od accessione invertita, che si verifica quando alla dichiarazione di pubblica utilità non segue il decreto di esproprio, è illegittima al pari della cd. occupazione usurpativa, in cui invece manca del tutto detta dichiarazione, ravvisandosi in entrambi i casi un illecito a carattere permanente (inidoneo a comportare l’acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato), che cessa tuttavia in caso di rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente”.
Le interferenze tra i beni pubblici e i beni privati nella teoria generale e nell’esperienza pratica
di Gianpiero Paolo Cirillo
Sommario: 1. L’attività al centro dell’esperienza giuridica e in particolare rispetto alla conformazione del bene. - 2. Il nesso tra bene e diritto di proprietà. - 3. L’insufficienza del criterio dell’appartenenza per stabilire la differenza tra bene pubblico e bene privato. - 4. Il bilancio degli enti pubblici e la sua natura di bene pubblico. - 5. La necessità dell’ordinamento di collegare il bene al soggetto che diventa titolare di diritti e interessi legittimi aventi ad oggetto “l’utilitas” che deriva da esso. - 6. La critica della tripartizione classica dei beni pubblici. - 7. La tendenza a valorizzare il bene per il suo valore d’uso anziché di scambio. I beni comuni. - 8. Il bene comune e la realtà digitale.- 9. La vocazione pubblica dei beni privati. - 10. La proprietà conformata. - 11. La volumetria, i diritti edificatori e l’espropriazione di valore. Il credito edilizio. - 12. Il bene ambientale. - 13. Le conclusioni.
1. L’attività al centro dell’esperienza giuridica e in particolare rispetto alla conformazione del bene.
Sono necessarie alcune premesse di carattere generale.
Al centro dell’esperienza del diritto va posta l’attività giuridica. Le entità più visibili della realtà sono le cose e i soggetti che agiscono. Di queste due, pur essendo complementari, la più importante è la seconda, poiché l’attività può avere ad oggetto cose e non viceversa. I soggetti, che costituiscono semplicemente l’ipostatizzazione dell’attività, diventano rilevanti solo nel momento in cui agiscono, anche se il diritto se ne deve occupare a proposito della loro organizzazione, dove, di regola, non ci sono rapporti intersoggettivi. L’attività materiale, anch’essa la più visibile di tutte le possibili tipologie in cui viene normalmente scomposta l’attività giuridica, non è in sé una nozione giuridica, ma può diventarlo laddove la si consideri in un dato contesto ordinamentale.
L’attività giuridica è l’insieme di attività materiali e di atti formali diretti a curare un interesse specifico del soggetto di diritto, considerato rilevante dall’ordinamento. Essa viene prima del risultato economico e giuridico che essa produce. Le attività più rilevanti sono quelli attinenti al lavoro e all’impresa, in quanto producono nuova ricchezza.
In passato si è ritenuto che sia l’attività di diritto amministrativo sia quella di diritto privato non fossero nozioni giuridiche, essendo piuttosto un’astrazione per indicare ciò che di comune avessero gli atti disciplinati da una data normazione. Per lungo tempo si è ritenuto che nel diritto privato fosse rilevante soltanto il negozio giuridico, mentre nel diritto amministrativo solo nella seconda metà del secolo scorso si è ritenuto fosse rilevante l’attività globalmente intesa.
Tuttavia -a parte che il codice civile prende in considerazione non solo i negozi giuridici ma anche l’attività, a proposito del possesso, dell’azienda e del trattamento dei dati personali- il diritto collega ad essa conseguenze in quanto tale isolandola dall’atto prodotto; e ciò avviene quando tale attività diventa ‘funzione’. Quest’ultima si registra quando un soggetto agisce per conto di un altro. Sicché per il soggetto nell’interesse del quale si è agito sorge la necessità di controllare nella sua interezza l’attività posta in essere da colui che ha gestito i suoi interessi. In questo modo viene in rilievo l’attività di gestione e il negozio che ne sta alla base. L’attività di gestione costituisce la radice della ripartizione tra il diritto privato e il diritto pubblico, in quanto in essa si ritrovano riuniti il concetto della cura di un interesse altrui e l’imputazione del risultato dell’attività di un soggetto diverso da quello che agisce. E questo va oltre il semplice rapporto giuridico tra singoli, dove ciascuno agisce per sé.
Va anche ricordato che l’esperienza giuridica è attività disciplinata di rapporti umani e che si è sempre fondata sulla relazione tra soggetto e oggetto del diritto, visti come i termini esterni al rapporto giuridico.
La concezione tradizionale si fonda su due concetti fondamentali: il soggetto, l’interesse e il bene sono momenti correlati di un unico fenomeno; il bene preesiste ai possibili rapporti giuridici di cui il bene costituisce il termine oggettivo. Siccome tutti i rapporti giuridici hanno insita una valenza patrimoniale, essi debbono riferirsi a beni in senso giuridico e questo postula un nesso indissolubile tra diritto ed economia, poiché tutti i rapporti giuridici sono valutabili sul piano economico e soddisfano bisogni. Essi contribuiscono a creare e spostare ricchezza, ossia beni. Questo vale non solo per i rapporti civilistici ma anche per i rapporti di diritto amministrativo, ivi compresi quelli di tipo autoritativo.
L’autonomia privata costituisce il principale strumento per distribuire in maniera ordinata gli interessi individuali che pertengono un determinato bene, garantendo il formarsi di un libero rapporto giuridico tra i soggetti rispetto al bene considerato. Invece, la potestà pubblica non solo deve garantire che questo avvenga in ossequio alla protezione offerta dalla Costituzione all’autonomia privata, ma deve tenere in considerazione le esigenze di tipo patrimoniale presenti in tutti gli specifici procedimenti che si aprono innanzi alla pubblica amministrazione, e non solo in relazione ai beni pubblici di cui è proprietaria.
2. Il nesso tra bene e diritto di proprietà.
Venendo al tema, l’attività, in particolare di gestione e di godimento, diventa fondamentale anche a proposito della teoria dei beni, poiché è la prima che crea i secondi e non viceversa. Tuttavia nel rapporto giuridico che scaturisce tra il soggetto e il bene non rileva tanto quello diretto con il bene, e da cui nascono le forme giuridiche di appartenenza e di godimento, quanto quello che deriva dalla relazione con un altro soggetto dell’ordinamento che di regola confligge con l’interesse che si appunta sulla utilitas che dal bene stesso deriva, dove si può prescindere dalla appartenenza, come nel caso di più soggetti che aspirino a godere e disporre della medesima utilità senza che nessuno dei due soggetti abbia una relazione pregressa con il beni in contesa oppure invece l’abbiano di fatto (possesso) o in virtù di titoli contrastanti.
Il discorso sui beni non può ignorare l’istituto della proprietà, poiché il codice civile, come è stato insegnato, ha dettato una disciplina dei beni che aspirava a diventare una categoria generale a fondamento di tutto il diritto patrimoniale. Inoltre, l’istituto della proprietà si è evoluto nel senso che essa rileva non tanto in sé, ma in quanto inserita in un rapporto di tipo contrattuale.
In effetti ciò trova fondamento nella legge, laddove il codice considera beni tutto ciò che può formare oggetto di diritti (art. 810 c. c.) e laddove la prestazione dell’obbligazione deve essere sempre suscettibile di valutazione economica, anche quando essa viene assunta o pretesa per soddisfare un interesse non patrimoniale (art. 1174 c. c.)
La prima delle norme indicate fissa il rapporto tra cosa e diritto. Il rapporto tra soggetto e oggetto di diritti è stato sempre concepito in funzione del riconoscimento o, comunque, dell’attribuzione di un diritto soggettivo. Tant’è che la categoria del diritto soggettivo è stata impiegata non solo per il diritto di proprietà e per gli altri diritti reali di godimento, ma persino per definire l’impresa economica e per collegare l’imprenditore all’azienda.
Il richiamo all’azienda consente di affermare che nel diritto amministrativo, e più precisamente nella scienza dell’amministrazione, le organizzazioni pubbliche si presentano anche come aziende, ossia come una unione di beni ordinate alla produzione di beni o all’erogazione di servizi.
Non a caso presso gli economisti si discute molto del rapporto tra le aziende delle pubbliche amministrazioni e delle possibili differenze con le aziende delle organizzazioni private. In ogni caso, si insegna che le pubbliche amministrazioni hanno un capitale, immobiliare e mobiliare, di impianto e di esercizio. Hanno altresì rapporti creditori e debitori, entrate e uscite. Svolgono attività valutabili in termini di costi e di ricavi.
Del capitale delle amministrazioni si tratta proposito della teoria dei beni pubblici, che hanno particolari regimi giuridici; così come i rapporti obbligatori vengono trattati a proposito delle obbligazioni pubbliche. Il tema relativo alle entrate patrimoniali è molto più complesso rispetto a quello dei ricavi delle aziende private, in quanto larga parte di esse pervengono all’amministrazione attraverso l’esercizio della potestà di imposizione fiscale, non attraverso l’esercizio virtuoso dell’attività imprenditoriale nel mercato.
Tuttavia una parte considerevole delle entrate pubbliche segue un regime non diverso da quello di qualunque altro imprenditore privato, fondandosi sui prezzi di vendita di beni, su canoni da locazione di immobili, corrispettivi da contratti di trasporto, di somministrazione, d’opera e così via
Il bene, nel linguaggio giuridico, non viene denotato in maniera costante. Il vocabolo si colora di significati diversi in relazione ai diversi oggetti che sono attualmente qualificati come beni
Infatti, mentre da un lato i beni sono un sottoinsieme dell’insieme che comprende tutte le cose ai sensi dell’articolo 810 c. c., dall’altro nel linguaggio giuridico attuale l’insieme dei beni è più ampio di quello delle cose che possono formare oggetto di diritti. Questa è la naturale conseguenza dell’inclusione del legislatore tra i beni di quelli immateriali, che, presentando una certa utilità economica, possono generare rapporti e diritti che certamente non vertono su cose intese come percezioni del mondo fisico, come nel caso dell’azienda, laddove comprende, oltre a cose corporali, anche beni materiali, come marchi brevetti e altri diritti.
Il problema centrale è quello di comprendere rispetto a quali oggetti è possibile istituire un regime giuridico di appartenenza, come quello che si realizza con la creazione di un diritto a favore di un soggetto.
Certamente la Costituzione non favorisce l’idea che da una parte vi sia il soggetto e dall’altra l’oggetto. I beni vengono piuttosto visti come uno degli ambiti in cui si sviluppa la personalità umana in tutte le sue variegate articolazioni. Pertanto, essa distingue tra proprietà pubblica e proprietà privata. Inoltre prefigura regimi diversi per i beni che servono al soddisfacimento di bisogni essenziali come il diritto di abitazione (art. 47, comma 2, Costituzione), beni necessari per lo svolgimento dell’iniziativa economica (artt. 41-47 Costituzione), beni necessari alla vita spirituale dell’uomo, come i beni culturali e paesaggistici (art. 9, comma 2, Costituzione) e così via. A proposito di quest’ultima norma, la recente modifica costituzionale circa della protezione degli animali esclude che questi possano considerarsi cose.
Inoltre, il codice civile non offre una risposta generale alla domanda fondamentale di cui sopra, pertanto bisogna fare riferimento alle indicate nozioni che ci derivano dalla scienza economica e quindi ai concetti di bisogno, di risorsa scarsa e di utilità.
Come è stato suggerito, la possibilità che determinati oggetti siano classificabili o meno come beni, non dipende tanto dal fatto che vi sono risorse disponibili a tutti (come il mare aperto, la luce solare, l’aria e così via) e risorse limitate, quanto, piuttosto, dal fatto che l’ordinamento non ha ragione di intervenire se non nel momento in cui vi è un concreto utilizzo di essi da parte di qualcuno.
In realtà, l’ordinamento utilizza le proprie categorie che elevano l’interesse materiale del soggetto al bene, soggettivizzandolo, solo ove ciò sia strettamente necessario e solo ove sia in grado di offrire la tutela corrispondente, come nel diritto soggettivo di proprietà.
La tendenza attuale si fonda sul fatto che nessuna risorsa è disponibile in modo illimitato. Pertanto un regime non regolamentato di libera appropriazione di tali risorse può provocarne l’esaurimento in meno tempo di quanto si pensi.
Dall’analisi economica del diritto si apprende che solo a determinate condizioni il regime di comunione dei beni istituito senza ripartizioni di quota è sostenibile anche nel lungo periodo. Basti pensare alla possibilità di consumare liberamente l’aria nelle zone urbane, che ha condotto a un inquinamento atmosferico senza precedenti nelle parti urbanizzate del mondo.
L’analisi economica del diritto suggerisce quindi di togliere dalla condizione di oggetto liberamente appropriabile tutto ciò che si intende proteggere.
Il tema del bene come oggetto di diritto si intreccia con quello dell’oggetto del contratto, nonché con l’oggetto del provvedimento favorevole prodotto dal procedimento amministrativo, che tendono ad essere beni in sé o comunque idonei a creare beni. Di questo non è possibile ora occuparsi.
3. L’insufficienza del criterio dell’appartenenza per stabilire la differenza tra bene pubblico e bene privato.
Mentre la Costituzione parla di proprietà pubblica e privata, il codice civile distingue tra beni pubblici e beni privati. L’uso disinvolto dei termini non genera soverchie preoccupazioni nell’interprete, dato che il vero problema è quello di comprendere se la differenza tra i due tipi di proprietà dipenda dalle qualità intrinseche dei beni, ossia dalla loro diversa natura, o solo dall’appartenenza del bene, cioè dal collegamento formale tra oggetto e soggetto. Per l’osservatore occorre verificare se siano assoggettati ad un regime giuridico diverso, altrimenti non vi sarebbe ragione di distinguerli.
Il criterio dell’appartenenza non è sufficiente a cogliere la differenza tra proprietà pubblica e privata, poiché non tutti i beni della pubblica amministrazione sono sottoposti al regime particolare. Lo sono solo quelli demaniali e patrimoniali indisponibili, mentre quelli patrimoniali disponibili ricevono un trattamento del tutto simile a quello dei beni appartenenti ai privati. Peraltro esistono alcuni beni di proprietà privata che hanno finalità pubbliche e per questo sono assoggettati ad un regime particolare; ne sono esempio le autostrade costruite e gestite da privati, i boschi e le foreste private, i beni privati di interesse storico archeologico artistico.
Sicché per qualificare il bene come pubblico non è sufficiente il criterio soggettivo, che va integrato con quello oggettivo, ossia con l’applicazione a tale bene di un particolare regime giuridico. Possono essere riconosciuti beni pubblici solo quelli appartenenti alla pubblica amministrazione, i quali sono anche assoggettati ad una disciplina specifica. Tali sono i beni demaniali e quelli patrimoniali indisponibili.
Il diverso regime giuridico comporta la “riserva” in favore dei pubblici poteri di potestà fondamentali rispetto all’utilità che il bene può fornire in ragione della sua natura. Pertanto essi non possono appartenere a soggetti privati.
Il raffronto giuridico tra proprietà pubblica e privata è stato nel tempo oggetto di riflessione ed analisi e si caratterizza per l’essere strettamente connesso con i bisogni sociali e i mutamenti economici. Ogni trasformazione sociale, infatti, incide necessariamente sul concetto di proprietà.
Proprio i cambiamenti sociali sono stati alla base del superamento della logica unitaria della proprietà a favore di una visione in virtù della quale vi sono piuttosto delle proprietà o statuti diversi in armonia con gli scopi perseguiti.
Nell’evoluzione dei rapporti economici e sociali si è assistito ad un passaggio da uno Stato gestore a uno Stato sempre più regolatore, assetto che ha di fatto rimodulato il confine tra proprietà pubblica e proprietà privata; ciò anche alla luce di un diritto europeo attento ad assicurare parità di trattamento tra impresa pubblica e impresa privata, oltre al fatto che i processi di privatizzazione non hanno, di fatto, ridimensionato il ruolo dello Stato nell’economia.
La scelta privatistica non ha, infatti, implicato il superamento dei vincoli pubblicisti, essendo il diritto privato inidoneo ad assicurare all’azione buon andamento e imparzialità. L’opzione per il modello privatistico ha però inevitabilmente imposto il rispetto di logiche imprenditoriali e regole di mercato nella consapevolezza che anche i beni di natura pubblica debbono soggiacere al criterio della economicità. In quest’ottica si è assistito al trasferimento di beni pubblici, demaniali e quelli facenti parte del patrimonio indisponibile, a soggetti privati, spesso a totale controllo pubblico, al fine di garantirne una più efficiente gestione. Talvolta nel rispetto delle finalità proprie dei beni stessi si è, quindi, assistito ad un superamento della concezione classica della proprietà pubblica, in particolare per quanto attiene al profilo della necessaria appartenenza del bene al soggetto pubblico.
4. Il bilancio degli enti pubblici e la sua natura di bene pubblico.
Nella discussione intorno ai beni pubblici è comparso il bilancio pubblico, che non viene più considerato come un documento meramente contabile-finanziario e le leggi che li approvano non sono meramente formali ma sostanziali, visto che hanno effetti giuridici diretti rispetto alle situazioni giuridiche facenti capo a enti pubblici, persone fisiche e persone giuridiche private.
L’idea di considerare il bilancio come bene pubblico, se non addirittura come bene comune, non è affatto peregrina, atteso che esso sfugge alla forza attrattiva delle categorie del patrimonio autonomo, separato e segregato, anche se di quest’ultimo “l’impegno di spesa” ne ricorda taluni tratti, quali l’effetto di destinazione. Parimenti non si adatta alla categoria della proprietà collettiva, in quanto si dovrebbe immaginare che i titolari siano da individuare nei contribuenti, presso i quali le risorse vengono attinte con l’utilizzo dei procedimenti impositivi, oppure che la titolarità si radichi in capo all’ente che dispone delle risorse tratte dalla fiscalità generale. Ma ciò non è nella realtà giuridica, anche se la tutela possibile dei soggetti incisi potrebbe essere assimilata a quella che si registra proposito di beni comuni.
Certamente la Corte costituzionale ritiene ormai pacificamente che il bilancio sia un bene pubblico, nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente territoriale. Come bene pubblico esso deve dare tutela prioritaria a precisi interessi costituzionali (sentenze n. 62 del 2020, nn. 10 e 184 del 2016 e n. 49 del 2018 della Corte costituzionale).
In sintesi, la nuova concezione del bilancio quale bene pubblico configura un assetto delle pubbliche amministrazioni improntato alla logica del risultato anziché a quella, meramente formale, dell’adempimento. Quando il risultato manca scattano le forme di tutela a tutti livelli previsti dall’ordinamento.
5. La necessità dell’ordinamento di collegare il bene al soggetto che diventa titolare di diritti e interessi legittimi aventi ad oggetto “l’utilitas” che deriva da esso.
La nozione di proprietà pubblica si ricava dall’art. 42 della Costituzione, come più volte ricordato, nonché dagli artt. 822-831 del codice civile, che trattano specificatamente di beni pubblici.
Il libro terzo del codice civile “della proprietà”, seguendo l’impostazione del codice Giustinianeo, al capo I, si apre con la “nozione” di bene (art. 810), alla quale seguono la “distinzione dei beni” (art. 812), la disciplina delle “universalità di mobili” (art. 816) e delle “pertinenze” (artt. 817-819). Nel capo secondo vengono presi in considerazione i beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e a quelli ecclesiastici. In particolare l’art. 822 c. c. non parla di proprietà pubblica, ma di demanio pubblico, comprensivo del lido del mare, della spiaggia, delle rade, dei porti, dei fiumi, dei torrenti, delle altre acque definite pubbliche per legge (demanio necessario), a cui si aggiungono le strade, le autostrade, le strade ferrate, gli aerodromi, gli acquedotti e gli immobili riconosciuti di interesse storico archeologico artistico a norma delle leggi in materia (demanio accidentale).
Da ciò si ricava che i beni demaniali non coincidono con la proprietà pubblica. Possono, infatti, esistere beni che, pur rientrando nella tipologia dei beni demaniali, non sono di proprietà pubblica. Il che consente di dire che la norma costituzionale, essendo più generale di quella del codice civile, coglie meglio la proprietà pubblica nella sua realtà.
Come si diceva, il problema è quello di comprendere se sia possibile individuare dei connotati specifici della proprietà pubblica che la diversifichino da quella privata. Come pure si diceva, il criterio dell’appartenenza anche se è il primo che l’ordinamento considera, non è sufficiente a individuare esattamente la proprietà pubblica. Questo risponde piuttosto all’esigenza che l’ordinamento ha di dover collegare il bene ad un soggetto, tanto è vero che i beni in attesa di proprietario sono situazioni transitorie.
Se si guarda il problema dall’angolatura della titolarità, si riscontra che le situazioni soggettive sono perfettamente identiche, ossia il rapporto tra il proprietario, pubblico privato, ed il bene è lo stesso. Quindi bisogna ricercare altrove la differenza.
Sicuramente vi sono delle diversità nei modi di acquisto, nel senso che il soggetto pubblico ha a disposizione alcuni particolari strumenti, quali la confisca o la requisizione, e può utilizzare anche altri strumenti pubblicisti, che si aggiungono a quelli a disposizione del soggetto privato. Basti pensare, oltre alla cessione, anche all’occupazione acquisitiva, al testamento, al contratto (e a tutti i modi di trasferimento di diritto comune). Infatti il soggetto pubblico può utilizzare l’espropriazione o l’acquisizione al patrimonio ex artt. 43 e 43 bis del testo unico delle espropriazioni; strumenti questi che presuppongono una posizione di potestà pubblica.
Per quanto riguarda il trasferimento del diritto di proprietà mentre il soggetto privato agisce in base al principio dispositivo, sicché, per cedere il bene, è sufficiente che ne abbia la piena disponibilità, il soggetto pubblico non ha questa facoltà, a meno che non si tratti di beni patrimoniali disponibili.
La necessità dell’appartenenza, è confermata dalla disciplina della successione mortis causa, in base alla quale, ove non vi siano soggetti successibili, ossia eredi entro il sesto grado, la proprietà del bene rimasta vacante, viene acquisita dallo Stato. Ciò accade proprio perché non è ammessa la mancanza di collegamento tra un bene e un soggetto giuridico, cioè l’individuazione di un proprietario. I beni privi di titolare quindi diventano di proprietà dello Stato e sono beni pubblici.
6. La critica della tripartizione classica dei beni pubblici.
Tralasciando finalmente il problema dell’appartenenza e quello del trasferimento del diritto di proprietà pubblica, occorre fare un cenno ai modi di disposizione dei beni pubblici, prendendo le mosse dalla tradizionale tripartizione in beni demaniali, patrimoniali indisponibili e disponibili.
Il regime cui sono sottoposti i beni demaniali è caratterizzato dalla inalienabilità, non usucapibilità, imprescrittibilità del bene stesso. La qualificazione di bene demaniale dovrebbe essere sempre formale, nel senso che anche per i beni ascrivibili al demanio necessario la demanialità dovrebbe essere dichiarata in un provvedimento amministrativo seguita dall’iscrizione del bene in elenchi, attualmente tenuti dall’agenzia del demanio e in precedenza dal Ministero delle Finanze. Tuttavia, il tipo di bene compreso nel demanio necessario ai sensi dell’articolo 822 c. c. deve comunque qualificarsi demaniale, anche se non sia dichiarato tale e non sia iscritto nell’apposito elenco.
Si insegna che il bene demaniale inalienabile qualora venga venduto, nonostante l’impedimento di natura sostanziale, l’ordinamento reagisce con la sanzione della nullità per impossibilità dell’oggetto, ai sensi dell’articolo 1418, comma 2, c. c.
Il bene patrimoniale indisponibile invece si differenzia da quello demaniale perché può essere trasferito, seppure con il limite di mantenere invariata la destinazione che ha per natura o per atto amministrativo. Sicché, il negozio di trasferimento si considera annullabile per errore qualora non venga rispettata tale destinazione.
In questi casi la giurisprudenza si muove in due direzioni: a volte qualifica il vizio come errore di diritto, facendo riferimento ad un provvedimento di dubbia interpretazione che sembrerebbe aver mutato destinazione al bene, altre volte come errore sulla qualità del bene stesso.
Nelle voci classiche dei trattati e dei manuali i beni pubblici vengono ancora trattati in base ai concetti tradizionali dell’appartenenza, della demanialità, della indisponibilità o disponibilità, della inusucapibilità, della concessione, come si diceva.
Il regime della “riserva” è tuttavia separato dal regime dell’appartenenza, per cui possono aversi: a) beni senza avere un’appartenenza come le cose comuni, quali il mare l’aria l’etere l’uso dei quali perciò regolato dai pubblici poteri; b) beni appartenenti a pubbliche amministrazioni in uso esclusivo agli stessi, come i beni del demanio militare e quelli formanti il loro patrimonio indisponibile perché collegato strettamente ad attività che vi si svolgono.
Tra queste due categorie estreme stanno altre due categorie intermedie: c) in una vi è l’appartenenza alla collettività, ma al pubblico potere spettano la potestà di disposizione e di regolazione dell’uso, come avviene per i beni in uso collettivo, quali le strade il lido del mare i fiumi e i laghi; d) nell’altra vi è l’appartenenza del pubblico potere, ma questa si risolve nella potestà di stabilirne la utilizzazione, che è di privati, come avviene per le miniere.
Dunque, per verificare l’attualità della distinzione tradizionale occorre fare riferimento al concetto di “riserva” e di “destinazione”. Tutto il problema della demanialità è basato su questi istituti, che sono sufficienti a spiegare il fenomeno.
Esistono infatti dei beni che per loro natura non possono appartenere a soggetti diversi dallo Stato.
Non a caso una dottrina (Cerulli Irelli), da sempre attenta a questi temi, ritiene che una categoria propria e separata di beni pubblici sussiste soltanto con riferimento ai beni che sono pubblici perché sono del popolo e perché da esso direttamente utilizzati. La proprietà pubblica in questa ricostruzione, che dichiaratamente ritiene inadeguata al diritto positivo la sistematica codicistica, si caratterizza per la presenza di un regime derogatorio al diritto comune, ma al di fuori di tale deroga, esso si riespande. Non vi sarebbe nessuna ontologica differenza tra i due tipi di proprietà. Pertanto si individuano tre specie di beni pubblici: i riservati; quelli a destinazione pubblica e i beni collettivi.
Occorre, a tal proposito, ricordare la diversa classificazione proposta da M. S. Giannini, che ha messo in discussione la tripartizione, gettando anche le basi delle discipline sui beni culturali e ambientali. La classificazione gianniniana non è basata sull’elemento descrittivo (demanio necessario e accidentale, patrimonio disponibile o indisponibile), ma su due interrogativi: a chi e a cosa servono i beni pubblici.
Le risposte risolvono il problema dell’appartenenza e delle relazioni giuridiche tra i soggetti pubblici e privati il cui oggetto è un bene. Sicché, l’Autore individua alcuni beni a fruizione collettiva, altri a uso esclusivo dello Stato (difesa), altri ancora destinati al consumo (arredi), oppure solamente gestiti (foreste miniere) o soggetti a regime privatistico (edifici).
Certamente se si utilizza la distinzione tradizionale, esaminando la tipologia dei beni patrimoniali indisponibili, si scopre che i più importanti sono le foreste, le cave, le miniere e i beni culturali.
7. La tendenza a valorizzare il bene per il suo valore d’uso anziché di scambio. I beni comuni.
I beni pubblici sono solitamente intesi come quelli dei quali le pubbliche amministrazioni si avvalgono per il raggiungimento dei loro scopi, siano o non siano tutti di loro esclusiva appartenenza. Si è soliti insistere sull’alternativa tra i beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili. Ci si muove ancora all’interno di questa alternativa quando, specie in periodi di grave crisi dei bilanci pubblici, si avviano processi di privatizzazione volti a spostare, in chiave di titolarità, alcuni beni dal pubblico al privato.
Tuttavia nell’esperienza contemporanea, il bene -inteso come entità materiale capace di soddisfare un’esigenza del soggetto- tende sempre più a svincolare la propria tutela dal profilo della titolarità, per proiettarla sul piano dell’utilizzazione o del godimento.
Dottrine recenti (Lipari) considerano emblematici di questa realtà i cosiddetti beni comuni, destinati per loro natura ad una fruizione diffusa e, quindi, intrinsecamente sottratti ad ogni forma di titolarità sia di natura pubblica sia di natura privata.
Con l’espressione beni comuni ci si intende genericamente riferire ad una risorsa condivisa da un gruppo di persone; gruppo che può essere ristretto o ampio. Ciò lascia intendere che, nel processo evolutivo delle classiche categorie giuridiche, già chiaramente in atto all’inizio del nuovo millennio, l’alternativa pubblico-privato non vale più a designare ciò che è di tutti, rispetto a ciò che appartiene solo ad alcuni.
L’alternativa pubblico-privato non è più in grado di assorbire tutta la teoria dei beni, perché vi sono dei beni così intimamente connessi alle più essenziali esigenze di vita dell’uomo che si sottraggono a qualunque forma appropriativa, non potendo che appartenere a tutti. Beni, cioè, rispetto ai quali l’attribuzione si pone come un “a priori” in chiave di riconoscimento, non come effetto in termini di attribuzione o concessione da parte dell’ordinamento. Si tratta di un criterio qualificativo che va al di là dello stesso principio consegnatoci dall’art. 42 della Costituzione circa la funzione sociale della proprietà, e che non si riconnette in alcun modo ad obblighi o comportamenti imposti al titolare (Lipari).
La qualità di bene comune, intesa come intrinsecamente connessa ad un godimento generale e indifferenziato, che pure non esclude forme di godimento individuale, contrasta, in radice e fin dall’inizio, con ogni ipotesi di proprietà esclusiva e sottrae, quindi, il bene ad ogni meccanismo di scambio legato a criteri valutativi del valore d’uso. Si potrebbe addirittura dire che l’idea di bene comune precede la solidarietà, perché esclude in radice ogni qualificazione o attribuzione a carattere individualistico.
Si tratta di una categoria che, tuttavia, presenta una certa volatilità e irriducibilità ad un unico parametro. Della categoria dei beni comuni, della loro definizione e individuazione si è occupata una commissione ministeriale (istituita con decreto del ministero della giustizia del 21 giugno 2017 al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, meglio nota come Commissione Rodotà), che “qualifica i beni pubblici come le cose che esprimono utilità funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona”.
La definizione così fornita rimane comunque incerta, posto che i diritti fondamentali sono suscettibili di implementazione in funzione di fattori storici e ambientali; e lo sviluppo della persona rimane un criterio indeterminato e certamente non riconducibile agli indici oggi utilizzabili. La riferibilità del bene (quindi dei modi della sua tutela) ad una indistinta comunità nasce dunque dall’esito di un procedimento valutativo rimesso alla determinazione giudiziale.
Da qui la difficoltà di fornire un elenco di beni comuni che non determini controversia in ordine alla qualificazione. Il riferimento non è, infatti, a beni come l’acqua o l’ambiente, ma si è esteso ad indici non facilmente identificabili nella loro portata oggettiva, quali il sapere, la conoscenza, il genoma umano, la sanità, l’università e Internet.
Anche la Corte di cassazione si è occupata di essi. I giudici di legittimità, ragionando in tema di individuazione di beni pubblici o demaniali, esplicitamente affermano la necessità di uscire dai confini della disciplina codicistica e da quella che definiscono l’oramai datata prospettiva del dominium dei romanisti, per riconoscere che vi sono beni che, “essendo strumentalmente collegati alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini, debbono essere considerati “comuni prescindendo dal titolo di proprietà”. È chiaro che, in tal modo, si rompe il tradizionale rapporto tra soggetto ed oggetto; e la tutela del bene viene svincolata da qualsiasi riferimento ad un profilo di titolarità.
La via da seguire è stata indicata, anche se non sarà semplice delineare uno statuto condiviso dei beni comuni. Tuttavia siffatti beni, nonostante le incertezze classificatorie, sono destinati ad avere un ruolo crescente nella dinamica dei rapporti giuridici e nella determinazione di ciò che è pubblico e ciò che è privato.
L’indicazione della comunità di riferimento appare difficile, fermo il sicuro superamento del criterio statualistico della cittadinanza. Ma la mancanza di una disciplina unitaria della categoria non deve indurre a negarne la rilevanza.
Anzi proprio al bene comune bisogna ricorrere per risolvere problemi molto concreti, come il diritto di accesso al mare, a proposito del quale si scontrano gli interessi dei concessionari degli stabilimenti balneari con quelli che reclamano il libero accesso all’uso della battigia, senza escludere l’interesse ad una maggiore agibilità di coloro che utilizzano le strutture a pagamento.
In effetti, il mare territoriale non costituisce un bene demaniale o patrimoniale dello Stato ma rientra piuttosto nelle res communes omnium.
La giurisprudenza civile e quella amministrativa hanno entrambe intrapreso la via che porta a considerare il demanio marittimo come direttamente e inscindibilmente connesso con il carattere pubblico della sua fruizione collettiva, rispetto alla quale l’esclusività che nasce dalla concessione costituisce un’eccezione. Peraltro anche il legislatore ha dovuto prendere atto di ciò laddove ha stabilito l’obbligo per i titolari di consentire libero e gratuito transito per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione (legge finanziaria n. 296/ 06, art. 1, commi 251 e 254).
8. Il bene comune e la realtà digitale.
L’istituto dei beni comuni, che sembra costituire la prova dello svincolarsi progressivo della tutela dei beni da ogni profilo di appartenenza e, quindi, dalla previa attribuzione ad una titolarità soggettivamente imputabile, ha indotto, dunque, una parte della dottrina ad elaborare una nozione di beni comuni (o se preferiamo di proprietà comune) come un istituto diverso, anzi alternativo rispetto al dominio sia privato sia pubblico.
Inutile ricordare che nella tradizione giuridica, il bene comune è stato sempre visto come una eccezione al sistema fondato sulla proprietà come diritto soggettivo assoluto. Non a caso le forme di proprietà collettiva (quali il legnatico, lo stallatico, gli usi civici e così via) erano tutto sommato marginali anche presso le comunità agricole del passato. A ciò bisogna aggiungere che altre forme aggregative, come il condominio, hanno sempre goduto nella tradizione romanistica di un certo sfavore, legato alla concezione secondo cui ciascuno dei condomini è proprietario della quota ideale in cui è scomponibile il bene. A tale concezione si contrapponeva quella di tipo germanico, secondo cui la titolarità in capo al gruppo e non era scomponibile in quote, per cui il rapporto titolarità-bene comune era più resistente nel tempo, ma anche più rispettosa della vocazione all’uso collettivo del bene.
Nell’era digitale che caratterizza l’odierno futuro, Internet sembra aspirare ad eliminare ogni differenza per via della portata globale delle relazioni umane e, quindi, giuridiche che vi si instaurano. Certo è che la Rete è diventata centrale, in quanto fonte di conoscenza e informazione; il che pone al giurista il problema della scelta fra tutele individuali e collettive.
Questo rompe anche i paradigmi riferiti ai beni immateriali.
Nel disegno costituzionale, i privati e le istituzioni pubbliche debbono armonicamente agire per la realizzazione dell’interesse generale della comunità nazionale e delle comunità locali, di cui la prima si compone. Se l’indicato disegno viene calato nella nuova realtà, dove la rete Internet sembra aspirare ad eliminare ogni differenza per via della portata globale e senza frontiere delle relazioni umane e giuridiche, viene naturale ripensare al nuovo ruolo degli Stati nazionali della comunità internazionale.
Certo è che a proposito della Rete vengono in rilievo l’art. 2 della Costituzione, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. A ciò va aggiunto l’art. 3, comma 2, laddove stabilisce che il compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli di ordine economico sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, che, nel caso di specie, si traduce nel fare in modo che tutti cittadini possono utilizzare agevolmente lo strumento telematico.
Una volta assicurata l’accessibilità di tutti ad Internet, l’articolo 2 va associato alle varie altre norme in cui si concretizza lo sviluppo della personalità, ossia l’art. 15, laddove si ponga un problema di rispetto delle comunicazioni interpersonali; l’art. 21, per la tutela della libertà di espressione; l’art. 33, per i progetti e-learnig, o per i collegamenti tra scienziati; l’art. 41 per l’attività imprenditoriale on-line e così via.
Con un sano empirismo, il legislatore tende ad agire sul procedimento e sul processo amministrativo e civile, in base alla giusta considerazione che Internet è solo uno strumento, anche se la sua pervasività può incidere sulla forma e la sostanza dell’azione amministrativa.
Tutto questo per dire che la teoria dei beni comuni sembra adattarsi perfettamente alla nuova realtà virtuale, laddove si consideri che in essa non hanno nessun rilievo le classiche forme giuridiche di appartenenza, mentre ha un rilievo sempre più vistoso l’aspetto della Rete come sviluppo della personalità umana. Basti pensare ai social network, che sono le nuove formazioni sociali, dove si trovano riuniti tutti gli elementi costitutivi di questo istituto sommamente protetto dalla Costituzione, ossia la riferibilità ad un insieme di soggetti, lo scopo comune di tali aggregazioni e il requisito psicologico interno ai componenti della formazione, ossia la volontà di ciascuno di farne parte e di voler perseguire gli scopi che essa si propone. Naturalmente quando tale scopo, unitamente all’organizzazione del consenso, è lo stesso dei partiti politici la materia diventa incandescente.
9. La vocazione pubblica dei beni privati.
Fare leva sul concetto di appartenenza non è sufficiente a qualificare un bene come pubblico, poiché esistono anche beni di proprietà privata che, tuttavia, hanno una connotazione pubblicistica.
Sicché, uno dei problemi più importanti in materia di beni pubblici non riguarda tanto i poteri dell'amministrazione sui suoi beni, ma i poteri dei privati sui loro beni, che, per natura intrinseca, hanno delle connotazioni particolari, o meglio, una valenza pubblicistica. In questo aspetto si trova il collegamento con il concetto di funzione sociale della proprietà.
È necessario chiarire, preliminarmente, che esistono alcuni beni che, sia sotto il profilo dell'appartenenza sia sotto il profilo della loro valenza intrinseca, rimangono a tutti gli effetti di proprietà dei privati; tuttavia possono essere oggetto di provvedimenti amministrativi.
Sappiamo che un qualsiasi bene privato, se rientra in un programma di realizzazione di opera pubblica, può essere espropriato, e, quindi, può entrare nel patrimonio pubblico a prescindere dal suo statuto. Invece, alcuni beni vengono attratti nell’area del patrimonio pubblico non per perseguire interessi pubblici, ma per il valore particolare che hanno in ragione della loro natura intrinseca. È il caso, per esempio, dei fondi su cui insistono cave o miniere, oppure dei beni culturali.
Tuttavia, poiché la norma costituzionale richiede che la collettività possa godere di tali beni, occorre perseguire questa finalità garantendo la fruibilità dei beni culturali da parte dei cittadini, a prescindere dall'appartenenza degli stessi alla pubblica amministrazione o a soggetti privati.
Per il bene culturale di proprietà privata si può seguire la concezione, basilare nel sistema, di una proprietà "gestoria", ossia di una gestione da parte del privato della materialità del bene ma non del suo valore culturale, sul quale, al contrario, non ha alcun potere in ragione della naturale vocazione collettiva del bene stesso.
In termini più distesi, il bene culturale, ivi compresi i beni paesaggistici, è caratterizzato dal fatto che alla sua ‘materialità’ si aggiunge il ‘valore (immateriale) culturale’, che rimane fermo e sempre soggetto alla valutazione dell’amministrazione quando venga interessato da una vicenda circolatoria. Orbene, le due componenti si scindono sia idealmente sia sul piano giuridico, al pari di come nella proprietà gestoria si scinde la titolarità formale del diritto di proprietà dalla gestione concreta del bene. Sicché, la gestione materiale del bene da parte del privato è condizionata dalla immanente presenza del valore culturale in attribuzione esclusiva alla autorità pubblica; il che significa che la legge e le disposizioni dell’autorità proiettano sul bene un regime giuridico particolare, conformandolo. Il contenuto della conformazione è fatto di limiti e direttive a carico del gestore. Questo al pari di quel che accade nelle prescrizioni contenute nel negozio fiduciario e nel negozio di destinazione. In concreto, il privato gestisce il bene per conto proprio e per conto dell’amministrazione.
Pertanto si può dire che detto fenomeno è analogo a quello del negozio di destinazione, dove anche nel nostro ordinamento, come in quello inglese che prevede l'istituto del trust, è possibile distinguere tra proprietà utile (titolarità), e proprietà eminente (gestoria).
La categoria della "proprietà gestoria" non era ammessa perché non si riconosceva la causa fiduciaria e, soprattutto, perché non si riteneva possibile separare la titolarità del diritto dall'esercizio dei poteri ad esso relativi, se non nei casi previsti espressamente dalla legge.
Il negozio di destinazione ora consente di separare la proprietà gestoria dalla titolarità. Sicché, il proprietario, ad esempio di una tomba etrusca, è titolare di una situazione giuridica soggettiva di “proprietà gestoria", perché i suoi poteri si fermano di fronte all’interesse culturale del bene. Egli, ha solo il diritto di gestire il bene culturale, rispettando l'obbligo di non alterarlo, ed ha, inoltre, l'onere di farlo godere alla collettività.
Oggi è pacificamente ammesso che un privato possa gestire il suo bene, traendone anche dei vantaggi di natura economica, e al tempo stesso garantire alla collettività di usufruirne, ma negli anni '90 ciò non sembrava possibile.
Si può concludere affermando che il bene culturale è oggetto di rapporti complessi, ammessi e disciplinati dal codice dei beni culturali, nei quali spesso gestione e titolarità del diritto di proprietà si scindono. Il rapporto di gestione si configura sia in capo allo stesso privato sul proprio bene e sia in capo al concessionario-imprenditore che lo utilizza a fini economici, ed entrambi hanno l'obbligo di salvaguardarne la destinazione e di far godere -nella prima ipotesi ove possibile- alla collettività il bene stesso.
10. La proprietà conformata.
In un discorso generale sulle molteplici interferenze tra beni pubblici e beni privati non si può omettere di considerare la cosiddetta proprietà conformata, su cui alla fin fine si fonda il nostro sistema.
Sia la Costituzione (art. 42) sia il codice civile (art. 832) riconoscono la proprietà nei limiti in cui abbia una ‘funzione sociale’.
Secondo una lettura tradizionale il diritto di proprietà è concepito come un insieme di poteri e facoltà spettanti al proprietario senza limitazioni interne. Sicché, il proprietario potrebbe agire sul suo bene come crede, con l’unico limite posto dal divieto di compiere atti emulativi e immissioni nell’altrui proprietà. Esisterebbero quindi solo dei limiti esterni.
Invece si è affermato lentamente un altro principio secondo cui esiste solo un “nucleo minimo” del diritto di proprietà; principio che era stato individuato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 5/1980. La corte costituzionale in quella sentenza afferma che “… Il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può costruire solo entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”. La Corte ha quindi confermato la lettura tradizionale secondo cui il proprietario conserva tutti i poteri facoltà relativi al suo diritto, nonostante le leggi abbiano “… disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato la edificabilità dei suoli, nei casi in cui essa è prevista dagli strumenti urbanistici, al rilascio di una concessione…”.
Il giudice delle leggi ha affiancato al “contenuto minimo del diritto di proprietà” il riconoscimento di un modello di “proprietà conformata”; e ciò innanzitutto per ragioni storiche risalenti all’esperienza inglese da cui deriva la formula “funzione sociale”.
Le letture tradizionali della norma sono state varie. La più luminosa (Rescigno), per chiarezza e precisione, è quella secondo cui la funzione sociale della proprietà va riferita non al diritto soggettivo, ma all’istituto, che uno dei pilastri su cui si fondano i rapporti della comunità.
Infatti, se si esaminano i rapporti privati emerge che, se si è titolari di un diritto di proprietà, lo si può esercitare senza condizionamenti esterni, tra i quali può comprendersi il principio generale della funzione sociale. Il diritto soggettivo di proprietà, infatti, non riceve nessuna connotazione dalla formula “funzione sociale”. Sicché, questa formula, riconosciuta anche dalla giurisprudenza, deve riferirsi alla proprietà come istituto e non come diritto soggettivo.
Nemmeno la giurisprudenza comunitaria sembra toccare tale impostazione, dato che i principi che la guidano sono quelli di uguaglianza, certezza del diritto e legittimo affidamento, che vengono in considerazione anche nella materia di cui si tratta. Certamente la teoria più moderna della proprietà (o meglio delle proprietà, al plurale) considera quest’ultima come espressione diretta del principio sancito dalla nostra Costituzione, della funzione sociale delle proprietà, secondo cui il diritto di proprietà ha un contenuto essenziale minimo. Il codice tratta della proprietà edilizia, di quella rurale, della proprietà collettiva, della comunione, ed oggi la legge disciplina anche quella turnaria.
In effetti la concezione moderna della proprietà conformata nasce dallo sviluppo della disciplina urbanistica basata sull’idea di un potere pubblico che ha, tra i suoi doveri, quello specifico di regolamentare l’assetto del territorio.
Con l’emanazione della legge generale urbanistica del 1942 sono stati introdotti i piani regolatori generali; e ciò non è stato naturalmente un evento casuale. Al contrario, il legislatore ha voluto modificare il modo di concepire la proprietà, ponendo a carico del Comune l’obbligo di utilizzare gli strumenti urbanistici quali il piano regolatore, il programma di fabbricazione, il regolamento edilizio e le convenzioni urbanistiche. Esso ha voluto non solo che fosse disciplinato l’assetto del territorio, ma ha voluto soprattutto incidere su una delle facoltà essenziali del diritto di proprietà, ossia il diritto di costruire.
11. La volumetria, i diritti edificatori e l’espropriazione di valore. Il credito edilizio.
L’istituto della proprietà conformata richiama quelli della vendita di volumetria, dei diritti edificatori e dell’espropriazione di valore dei beni.
Infatti, mentre i primi due costituiscono un esempio vistoso di creazione di beni attraverso il provvedimento amministrativo, il secondo viene visto non solo come un modo alternativo di sfuggire all’espropriazione -e che opera in presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, dove il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al Comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area, soprattutto a proposito della cosiddetta “compensazione edilizia”- ma anche come un esempio importante di combinazione e di scambio di beni pubblici e beni privati, giustificato dalla cura del territorio da parte dell’autorità amministrativa.
Qui si può solo ricordare che i diritti edificatori costituiscono un’evoluzione dei negozi di trasferimento di cubatura e di volumetria. Il minimo comune denominatore di essi consiste nella possibilità che la cubatura potenzialmente spettante ad una certa area edificabile possa essere utilizzata su un altro suolo, anch’esso edificabile, con il consenso del Comune e dei proprietari delle due aree, anche a prescindere da un’espressa previsione della norma di attuazione del piano o del regolamento edilizio.
Nonostante la continuità storica con la cessione di cubatura, che può essere considerata come la capostipite delle figure in esame, i diritti edificatori che emergono dalla legislazione nazionale e regionale sono vari e sono stati variamente classificati. Tuttavia essi possono essere ricondotti a tre figure fondamentali.
La prima figura è la cosiddetta “perequazione urbanistica”, che consiste nell’attribuire anche ad aree qualificate dal piano non edificabili una cubatura potenziale da realizzare altrove, cioè su aree qualificate come edificabili, realizzando così la separazione tra la conformazione della proprietà e la distribuzione della edificabilità. In essa si assiste ad accordi tra privati e non con la pubblica amministrazione, anche se tali accordi a loro volta sono preceduti da un intervento dell’autorità comunale che assegna, in sede di pianificazione delle attività, un valore edificatorio uniforme a tutte le aree atte a concorrere alla trasformazione urbanistica del territorio comunale.
In altri termini, la pianificazione attuata con la finalità perequativa vuole porre rimedio alla legittima sperequazione degli atti di pianificazione urbanistica tradizionale, i quali, laddove individuavano in maniera unilaterale e autoritativa le diverse destinazione dei suoli, creavano inevitabilmente discriminazioni ed iniquità, giacché venivano avvantaggiati titolari di terreni edificabili o vicini a infrastrutture e opere pubbliche, pregiudicando invece i proprietari di suoli non edificabili, lontani da dotazioni pubbliche.
Tra i tipi dei piani perequativi si distingue tra perequazione endoambito e perequazione diffusa. Nella prima essa si realizza in un perimetro fissato a monte dal pianificatore, nella seconda si ha una vera e propria smaterializzazione della dotazione volumetrica assegnata, attraverso appunto la creazione di un diritto edificatorio cedibile a titolo oneroso. In quest’ultimo caso tutto si fonda sul libero funzionamento del mercato nell’insieme dei suoli oggetto di trasformazione, prefigurando addirittura l’istituzione di una vera e propria ‘borsa’ di diritti edificatori.
Altra figura che viene in rilievo è la cosiddetta “compensazione urbanistica”, che, nell’attuazione del piano, si pone come alternativa all’espropriazione. In presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al Comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area.
Infine, vi sono lei cosiddette “premialità edilizie”, che consistono nell’attribuzione di un diritto edificatorio aggiuntivo in caso di raggiungimento di determinati obiettivi pubblici, in particolare per gli interventi di riqualificazione urbanistica ed ambientale.
Nelle ultime due ipotesi si tratta di singoli accordi tra privati e pubbliche amministrazioni, titolari esclusivi della potestà in materia di governo del territorio e quindi anche di quella di costituire o modificare diritti edificatori.
Come suggeriscono i contributi della dottrina urbanistica, l’ipotesi della istituzione di titoli volumetrici (compensativi o premiali) rientra tra i procedimenti di urbanistica cosiddetta consensuale, in funzione compensativa o incentivante appunto.
A proposito di tali istituti si è parlato di “credito edilizio”. Ma questa è un’espressione atecnica.
Infatti, il privato, a seguito dell’accordo con il soggetto che gli ha ceduto la propria capacità edificatoria, non vanta nei confronti della pubblica amministrazione nessun diritto ad edificare, bensì solo la legittimazione ad aprire il procedimento per ottenere il permesso di costruire. Né tanto meno il soggetto che gli ha ceduto il suo credito edilizio poteva garantirgli tale risultato.
Pertanto si tratta di un normale interesse legittimo pretensivo. Il che significa semplicemente che, pur prendendo origine da un dato terreno di proprietà, è in grado di circolare più o meno liberamente, anche più volte nel tempo, fino a che non vi sarà un soggetto che, aprendo il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, ottenga l’assenso del Comune e realizzi la cubatura, sulla base delle norme urbanistiche.
Il punto più delicato riguarda la possibilità che il credito non si generi da un fondo, ma direttamente dallo strumento urbanistico comunale, laddove l’ente crei (e ceda) diritti edificatori per “autopoiesi”. In altri termini il bene volumetrico viene “creato” dall’atto amministrativo.
12. Il bene ambientale.
Il discorso generale sui beni non può escludere l ‘ambiente.
Attualmente la materia ambientale è disciplinata dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che contiene oltre 300 articoli e una serie di allegati e che ha subito nel tempo molteplici modifiche e novelle.
Uno dei problemi più importanti che non sembrano risolti dall’attuale normativa in materia è quello della nozione di ambiente.
Va ricordato che la materia è stata isolata dalla dottrina più autorevole (Giannini), che ha lamentato il fatto che il problema dell’ambiente non veniva esaminato in sè e che veniva erroneamente in rilievo solo nell’ambito dello studio della disciplina del territorio o dei valori paesaggistici e culturali, oppure ancora dell’ecologia o della lotta all’inquinamento.
Il primo interrogativo che si sono posti gli studiosi ha riguardato la possibilità di considerare o meno l’ambiente un bene e, eventualmente, un bene individuale o collettivo. Essi hanno in primo luogo osservato che l’ambiente è sicuramente un bene che esorbita dalle sfere giuridiche individuali, avendo invece valenza super individuale. Nonostante non possa escludersi che il privato abbia una sorta di diritto soggettivo ad un ambiente salubre, esiste la consapevolezza che esso abbia anche una valenza collettiva.
Averlo definito come bene ha creato molti altri interrogativi.
Se, infatti, l’ambiente è un bene, tornano le questioni viste nelle pagine precedenti, ossia stabilire quali sono i suoi caratteri, se sia un bene tangibile, materiale o immateriale, e quale soggetto lo ha in attribuzione.
In ogni caso, l’approfondimento del problema ha portato ad escludere che l’ambiente sia un “bene”. Esso è piuttosto un “valore” da salvaguardare con interventi legislativi e amministrativi che coesistono e si intersecano. Visto, quindi, come un valore unitario esso è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di più di un bene.
In ogni caso la nozione di ambiente non è quella di bene collettivo in cui risalta l’interesse all’ambiente salubre, ma è piuttosto quella di bene legato alla salute del cittadino.
Se si percorre la storia del diritto ambientale si nota che inizialmente l’ambiente era considerato un bene collettivo rispetto al quale l’individuo non era titolare di un diritto.
L’uso di un bene collettivo da parte di chiunque, infatti, non viene costruito come un rapporto “soggetto-diritto soggettivo”, ma, piuttosto, come rapporto “autorità concedente-concessionario “, finalizzato ad un uso normale o straordinario. Sicché, un diritto individuale non è configurabile rispetto ad un bene collettivo.
Nel periodo storico in cui l’ambiente è stato considerato un bene collettivo, veniva in rilievo il diritto soggettivo alla salute poiché l’ambiente salubre rappresenta un presupposto necessario.
Il passaggio successivo, che ha portato ad un salto di qualità della tutela ambientale, è stata l’individuazione della causa della lesione del diritto alla salute nella violazione di norme sull’ambiente.
Appariva però difficile sostenere l’esistenza di una corrispondenza tra diritto alla salute e diritto all’osservanza delle norme ambientali, poiché la tutela dell’ambiente non era né preesistente né individuabile tout court; piuttosto derivava dal verificarsi di alcuni meccanismi amministrativi e legislativi.
Inoltre, l’ambiente non aveva una delle caratteristiche del bene pubblico. Quindi si è fatta strada l’idea, affermata ormai da anni dalla Corte Costituzionale, che l’ambiente non sia un bene ma un valore trasversale, di cui deve tenere conto sia la legislazione sia l’attività amministrativa.
Chiarito che l’ambiente deve essere inteso come valore, tutto il sistema di tutele viene costruito rispetto al “valore” ambiente e non al “bene” ambiente.
È esemplare la recente modifica dell’art. 41 della Costituzione, laddove la protezione dell’ambiente deve caratterizzare ogni forma di attività economica.
13. Le conclusioni.
Le conclusioni di questo scritto vanno nel senso di un definitivo superamento della distinzione di cui al titolo, che ha ancora una qualche utilità sol che si rimanga ancorati alla oramai quasi inservibile distinzione tra proprietà formale e proprietà sostanziale dei beni, che postula la titolarità del diritto soggettivo in capo al soggetto pubblico o al soggetto privato.
Le considerazioni svolte si fondano sull’idea, del tutto personale, che tutto cospira nel senso che il giurista moderno deve procedere secondo una visione integrata del diritto pubblico e del diritto privato quando si accosta allo studio delle parti in cui normalmente si scompone l’esperienza giuridica, ossia l’attività, i soggetti, i beni, la responsabilità e le forme di tutela.
Questo è tanto più necessario quanto più si consideri che i beni immateriali sono creati direttamente dagli strumenti giuridici, attraverso l’isolamento delle specifiche utilità che da essi derivano. Inoltre la velocità delle negoziazioni non solo nazionali, ivi comprese quelle pubbliche che si realizzano nel procedimento amministrativo dove prevale la vocazione pubblica, aggiunge valore ai beni scambiati o utilizzati nella gestione. Da qui si aprono scenari veramente nuovi come l’affidamento di esse a strumenti digitali (beni strumentali) che diventano soggetti quando sono capaci di autodeterminarsi nell’elaborazione dei risultati della negoziazione medesima e nella comunicazione a terzi della volontà negoziale. Ma questa è un’altra storia.
*Relazione svolta al convegno “Diritto senza tempo. La terra e i diritti. Dialogo tra giuristi”, tenuto a Ravello il 29 e 30 ottobre 2021. Gli atti sono in corso di pubblicazione per i tipi della Giappichelli.
Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, l’Europa e noi
di Maria Rosaria Marella
1. Roe v. Wade[1] appartiene alla storia americana, ma non solo. È stato come l’epicentro di un movimento tellurico che ha cambiato (per sempre) la vita delle donne e la cultura giuridica occidentali. Attorno e in seguito a quella decisione si sono prodotte svolte nel diritto europeo – dalla sentenza della Corte costituzionale italiana del 1975[2] alla parziale depenalizzazione realizzata dalla legge tedesca del 1976, fino alla nostra legge 194/78 - che hanno riguardato tutte noi. E dunque Roe è anche parte della nostra storia. E il suo overruling non ci riguarda solo come mero fatto di cronaca e neppure come un episodio (infelice) nella storia della cultura giuridica americana.
D’altra parte che Dobbs minacci di proiettare la sua ombra lugubre sulle vite delle donne di larga parte del nord globale è dimostrato dalla pronta reazione del Parlamento europeo, che in una risoluzione approvata con una larga maggioranza pochi giorni dopo la pubblicazione di Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization ha chiesto che l’accesso all’aborto sia garantito dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea con la seguente formula “ogni persona ha diritto all’aborto sicuro e legale”[3]. Le preoccupazioni del Parlamento europeo non nascono peraltro solo dalla sortita della Corte Suprema statunitense, ma sono ingenerate anche dal deterioramento della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne in alcuni paesi dell’Unione.
E dunque, proprio a partire da Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, o meglio, dall’overruling di Roe v. Wade, sarebbe interessante un esercizio di geopolitica del diritto che mappi il dislocarsi dei diritti e delle libertà, a cominciare da quelle concernenti la sfera della sessualità, nelle diverse regioni del globo.
In questo senso è utile, innanzitutto, inquadrare la vicenda Dobbs nella sua specificità di ‘storia americana’. E vale la pena di ricordare il contesto in cui l’overruling di Roe v. Wade si colloca, prima ancora di ricostruire il contesto in cui Roe, come precedente giurisprudenziale, era maturato. Poiché l’esito di questa storia americana si iscrive in un quadro di vera e propria secessione politica. Non è infatti solo l’autodeterminazione riproduttiva delle donne a essere in gioco. Anzi è possibile che l’aborto non sia altro che lo scalpo – il più prestigioso e il più caro al nemico - da esibire a chi si vuole sconfiggere su terreni ulteriori. Che riguardano i diritti civili ma non solo. La stessa Corte due giorni prima aveva dichiarato incostituzionale la legge dello stato di New York - uno stato blu, democratico - volta a limitare l’uso delle armi[4]. Una settimana dopo restringe i poteri presidenziali in tema di emissioni delle centrali elettriche a carbone, quasi a voler cancellare il tema del global warming dall’agenda politica nazionale[5]. Invero il quadro che superficialmente si avesse degli Stati Uniti quale realtà politica tendenzialmente unitaria non è affatto realistico, come la plastica distinzione, geografica innanzitutto, fra stati rossi e stati blu evidenzia. E la strategia della Corte Suprema sembra esattamente mirata a universalizzare l’orientamento politico degli stati rossi radicalizzatosi con l’avvento di Trump, estendendolo all’intera nazione. Il vero tema in Dobbs non è infatti una legge restrittiva del Mississippi da salvare, ma la risposta da dare a ben 26 stati – rossi – che espressamente chiedevano alla Corte l’overruling di Roe e Casey. E se è nota la divergenza fra stati rossi e stati blu in tema di aborto e di armi, è forse meno noto che i diritti di famiglia di stati rossi e stati blu divergono sensibilmente, tanto da legittimare la contrapposizione fra Red Families, maggiormente conformi a valori religiosi e patriarcali, e Blue Families, egalitarie e libertarie, e segnare una distanza profonda nello statuto della cittadinanza delle statunitensi a seconda di dove geograficamente locate[6]. Infine poco si sa in Europa delle legislazioni statali già in vigore o in corso di approvazione che vietano l’insegnamento nelle scuole statunitensi della Critical Race Theory – con questo termine intendendosi in realtà un resoconto accurato della storia americana della schiavitù, delle discriminazioni razziali e del razzismo nelle sue espressioni passate e presenti[7].
In questo scenario, già estremamente conflittuale e profondamente segnato in termini di genere, razza e classe (la stessa negazione del caos climatico ha e avrà un pesante impatto sociale sul terreno dell’environmental justice) l’agenda politica che la Corte Suprema sta riscrivendo avrà come saldo il sacrificio (ulteriore) dei diritti delle soggettività minoritarie.
A ben vedere un analogo schema, negli USA plasticamente reso dalla contrapposizione rossa/blu, è ravvisabile in Europa - come la risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio scorso evidenzia - e in altre parti del mondo. Che i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione nella sfera sessuale siano sotto attacco è una realtà dimostrata anche dalle lotte femministe in corso in varie regioni del globo. L’intreccio fra libertà economiche, diritti del mercato e diritti fondamentali della persona, da una parte, e aspirazioni egalitarie e modernizzatrici v. pulsioni sovraniste, dall’altra, è un tema caldissimo, di cui Dobbs è un segnale importante ma non certo l’unico.
Come ha notato Paul B. Preciado, in gioco è innanzitutto il dominio delle tecnologie del corpo quale punta avanzata della libera costruzione della sfera di autodeterminazione di ciascun@, ovvero del controllo biopolitico sulle soggettività, in particolare minoritarie[8]. Ed è proprio questo il fronte di attacco di Dobbs. Che per la verità di corpo femminile neppure parla, seppellendolo sotto una fitta coltre di esasperato legalismo. Nulla della delicatezza, dell’umanità, a tratti del lirismo dell’argomentare di Roe è presente nell’opinione della Corte. Che è ormai nota. Rifacendosi alla dottrina dell’original intent il giudice Alito, estensore della decisione, rigetta l’operazione evolutiva posta in essere da Roe v. Wade qualificandola come clamorosamente sbagliata. L’argomento originalista è fondamentalmente che i diritti che nella costituzione americana non sono espressamente nominati - e il diritto ad abortire non lo è - hanno copertura costituzionale attraverso la clausola del due process ovvero l’equal protection clause del XIV Emendamento, solo laddove essi siano profondamente radicati nella storia e nella tradizione della nazione. Per dimostrare il contrario Alito percorre a ritroso il diritto americano fino a risalire Bracton (XIII secolo) cioè alle origini del common law (inglese) e giunge alla determinazione che l’aborto storicamente è sempre stato considerato un crimine; ed è stato tale fino, appunto, alla decisione, arbitraria, di Roe. Un risultato, questo, raggiunto nello specifico dopo una lunga rassegna delle leggi penali sull’aborto in vigore dall’epoca in cui il XIV Emendamento fu approvato, nel 1868, fino al 1973[9]. Che la profondità storica della ricostruzione di Alito sia fallace lo evidenzia non solo la considerazione che l’aborto fosse tendenzialmente vietato in osservanza di politiche demografiche allora in vigore in tutto l’Occidente e non per scelte d’ordine morale. Ma soprattutto non si tiene in alcun conto lo stretto legame tra la percezione della riproduzione umana e la condizione giuridica della donna in quella fase storica (poiché le donne, lo abbiamo detto, in Dobbs non esistono): nel common law tradizionale i coniugi erano considerati una sola persona e questa persona era il marito, nella cui sfera legale si dissolveva l’esistenza giuridica della moglie (coverture) [10]. Una condizione, questa, che muta assai lentamente, a cominciare dall’approvazione nel Regno Unito del Married Women’s Property Act del 1882 - che riconosce capacità di disporre alle donne coniugate - ma che permane in seno all’istituzione familiare per molti decenni in tutto l’Occidente, se solo si pensa che la Costituzione italiana del 1947 s’incarica di declamare all’art. 29 l’uguaglianza giuridica e morale (!) dei coniugi.
La conclusione cui per questa via giunge la Corte è che la questione dell’aborto non ha dignità costituzionale e deve tornare a essere decisa dai legislatori statali, anzi dal popolo, “the people of the various States”, come enfaticamente afferma Alito. Con ciò la controrivoluzione della Corte Roberts giunge al suo climax: è la “dittatura della maggioranza” che deve governare le vite; della costruzione della sfera intima e personale di ciascun@ devono ora decidere gli elettori. E con ciò in apparenza Dobbs porta a termine la sua missione, che è quella di ‘registrare’ il ruolo della Corte al fine di evitare l’arroganza del raw justice power di cui è accusato Roe, garantire la ‘sovranità’ popolare contro lo strabordare della funzione giurisdizionale, limare i tecnicismi dello stare decisis senza mai planare sulla materialità della vita che la questione dell’aborto involge.
Ma alla neutralità dei tecnicismi non è lecito credere. Il tentativo messo in campo – foriero di ulteriori, distopici sviluppi, come suggerisce il giudice Thomas nella sua concurring opinion – è quello di azzerare la rivoluzione democratica iniziata dalla Corte Warren nel 1965 con il caso Griswold v. Connecticut[11], quando l’autonomia riproduttiva e, più in generale, la sessualità fanno ingresso di prepotenza nella sfera di rilevanza costituzionale. Da allora l’uso del e il controllo sul proprio corpo si pongono al centro di alcune fondamentali decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti destinate ad avere ampia eco in Europa e nel resto dell’Occidente. È un’elaborazione condotta dalla Corte sin dai primi anni ’60, in virtù della quale la libera espressione della sessualità viene ad essere identificata con il nucleo duro di quel diritto all’autodeterminazione che si assume garantito dal XIV Emendamento, e la tutela della (constitutional) privacy, in tal modo realizzata, si tinge di caratteri apertamente countermajoritarian. Proprio quanto l’interpretazione originalista di Dobbs e la sua (possibile) onda lunga rischia di travolgere.
A partire da Griswold v. Connecticut, la Corte respinge sistematicamente i tentativi delle legislazioni statali di incidere sull’atteggiarsi delle relazioni personali a carattere sessuale. In Griswold, in particolare, è l’idea che lo stato possa decidere al posto dell’individuo che i rapporti sessuali che intrattiene all’interno del matrimonio debbano avere esclusivamente scopo riproduttivo ad essere rifiutata con forza dalla corte, la quale, pertanto, giudica illegittimo il divieto, penalmente sanzionato, di far ricorso alla contraccezione per le coppie sposate. Successivamente il principio sarà esteso anche alle relazioni sessuali fuori dal matrimonio[12]. L’orientamento giunge al suo culmine proprio con Roe v. Wade, quando la libertà di costruzione della sfera di libertà individuale si dilata fino a ricomprendere il diritto della donna di interrompere la gravidanza indesiderata. Come ha sottolineato Duncan Kennedy, con la giurisprudenza costituzionale che va da Griswold a Roe si produce un’accelerazione nella riscrittura dell’agenda politica in materia di family law voluta dalle élite liberal e femministe, particolarmente influenti negli stati roccaforte del partito democratico. Più precisamente la Corte Suprema in quella stagione asseconda e sostiene un cambiamento culturale che la forza della politica da sola non era in grado di imporre[13]. Ma nella giurisprudenza Warren e con Roe c’è di più. Il corpo e la sessualità si coniugano alla costruzione giuridica della sfera privata come ambito distinto e contrapposto alla sfera di dominio del pubblico potere; abitudini sessuali e scelte procreative individuali divengono il nucleo costituzionale del diritto di privacy e prendono il posto della proprietà privata nel ridefinire la dicotomia pubblico/privato propria dei regimi liberali. All’avere, perno del binomio proprietà/libertà, si sostituisce la sfera intima individuale e la sua libera costruzione.
La libertà di autodeterminazione diviene allora centrale nella grammatica dei diritti, baluardo contro le intromissioni dello stato nella sfera privata dei cittadini, e la sua tutela, nella veste di constitutional privacy, è giocata in funzione antiautoritaria contro ogni tentativo di imposizione al singolo di valori fatti propri dalla legislazione statale, quand’anche condivisi dalla maggioranza dei cittadini[14].
L’autodeterminazione in tal modo declinata, lungi dal riguardare aspetti considerati marginali nella vita e nel diritto, perché ‘intimi’, acquista un ruolo centrale nella dottrina della Corte: per essa la privacy è penumbra, vive cioè nella penombra di tutti i diritti e le libertà garantiti dalla costituzione americana, ne costituisce il presupposto necessario, poiché non si dà effettivo esercizio di un diritto se non è garantita la libertà di autodeterminazione[15]. E questa autodeterminazione passa appunto per il corpo.
Questo motivo sarà ulteriormente precisato In Planned Parenthood v. Casey una decisione successiva ancora in tema di aborto, quando la Corte affermerà a chiare lettere la sua missione, salvaguardare le libertà di ognun@, a prescindere dalle convinzioni morali che possono muovere i singoli componenti (della maggioranza) della Corte. Non è esattamente quanto pensa di dover fare ora la Corte Roberts. Al contrario l’operazione di smantellamento della libertà di autodeterminazione va ben oltre Roe, intende travolgere l’intero impianto dottrinale che la sostiene sino a Griswold, al principio, affermato con forza in quella sentenza, che la constitutional privacy sia sottaciuta nel Bill of Rights americano non in quanto estranea al tessuto costituzionale, ma al contrario in quanto “penumbra”, presupposto e condizione dell’esercizio di ogni altro diritto costituzionale. È piuttosto logico che rimuovendo quella pietra angolare l’intero edificio sia destinato a crollare.
Se ciò non avverrà sarà forse per ragioni di convenienza, ad esempio, perché far cadere la libertà costituzionale di autodeterminazione sui contraccettivi significherebbe mettersi in aperto conflitto con Big Pharma. O invece perché solide alleanze intersezionali fra le soggettività colpite o minacciate dalla controrivoluzione tentata con Dobbs saranno in grado di fermarla[16].
2. L’orientamento statunitense in tema di constitutional privacy ha fatto breccia anche di qua dell’oceano e sviluppi analoghi hanno caratterizzato l’applicazione da parte della Corte di Strasburgo dell’art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) sin dai primi anni Ottanta[17], con il risultato di garantire la tutela dell’autodeterminazione in materia di orientamento sessuale ben prima della Corte Suprema degli Stati Uniti[18]. Più di recente, la Corte di Strasburgo ha coniato il concetto di autonomia personale, di cui la libertà sessuale sarebbe parte integrante: su questa base è stata affermata l’illegittimità dell’interferenza statale, e, segnatamente, dell’intervento del diritto penale, anche rispetto a pratiche sadomasochiste estreme e particolarmente cruente, purché poste in essere in privato e con il consenso della ‘vittima’[19].
Vero è che l’irresistibile ascesa della constitutional privacy nel diritto statunitense aveva subito una pesante battuta d’arresto nella seconda metà degli anni ’80, di fronte allo scoglio del riconoscimento della libertà di coltivare pratiche erotiche connesse all’orientamento sessuale[20]. In quella circostanza la Corte affermò che la libertà di autodeterminazione non poteva prevalere sulla tradizione, sul comune sentire, ché la sodomia era tradizionalmente perseguita penalmente nella maggior parte degli Stati e non ricadeva sotto l’ombrello protettivo del XIV Emendamento. Tale scoglio sarà superato solo all’inizio del nuovo millennio, con una storica decisione che coniuga l’affermazione della libertà di autodeterminazione in materia sessuale al valore della dignità umana[21].
Il rispetto della dignità sarà un punto qualificante anche in Obergefell[22], la famosa decisione della Corte Suprema in tema di same sex marriage che accoglie l’idea, già fortemente affermata dall’ala pro-marriage del movimento LGBT+, che il matrimonio per le soggettività non eteronormate sia in sé dignifying. Ma un riferimento alla dignità è anche in Gonzales, primo temutissimo caso sull’aborto deciso dalla corte Roberts[23]. E qui la dignità è riferita al feto. Così come in vari passaggi in Dobbs, in cui la dignità sembra diventare una prerogativa della vita prenatale.
La svolta della Corte Suprema nella relazione che viene a determinarsi fra autodeterminazione e dignità, ancora nelle sue ultime sortite liberal, merita una breve riflessione conclusiva che gioverebbe ulteriormente sviluppare. Come si è detto, l’autodeterminazione sul corpo si è prefigurata da Griswold in poi nel diritto occidentale come un formidabile veicolo di emancipazione e liberazione sessuale perché, pur nei limiti del bilanciamento con altri interessi, nella constitutional privacy si iscrive una sostanziale insindacabilità delle scelte sul corpo. La matrice antiautoritaria di questa costruzione giuridica, come abbiamo detto, porta a una riscrittura dei rapporti pubblico/privato, cittadino/stato, dove i diritti riproduttivi e il controllo sul proprio corpo demarcano la sfera di intervento dello stato un tempo delimitata dal diritto di proprietà. Il principio del rispetto della dignità umana ha tutt’altra vocazione. La dignità è tale perché appartiene al genere umano e implica invece sempre una valutazione collettiva, una scelta di valore condivisa in merito alla stessa definizione di ciò che è degno[24].
Ma il dominio delle tecnologie del corpo, se deve essere architrave dello statuto della cittadinanza contro ogni montante autoritarismo, non può che comportare un margine individuale di insindacabilità. Ed allora sembra corretta la scelta del Parlamento europeo contenuta nella risoluzione del 7 luglio scorso, di reclamare il riconoscimento del diritto all’aborto legale, sicuro (e gratuito) all’interno dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dedicato al rispetto della vita privata e della vita familiare, nel Capo II, intitolato alla libertà.
3. Proprio a quest’ultimo proposito, appaiono necessarie alcune ulteriori considerazioni conclusive, di carattere generale, che investono direttamente il tema dell’autodeterminazione riproduttiva femminile per come esso potrebbe atteggiarsi sulla scorta di Dobbs anche di qua dell’oceano.
Una prima notazione muove dal registro prescelto da Dobbs. Nell’opinione della corte – come accennato – non si fa mai diretto riferimento alle donne, come se non fosse di un loro diritto che si discetta e come se il tenore del decisum non fosse destinato ad avere un impatto enorme sulle loro vite. Women compare nella intestazione del caso (Dobbs v. Jackon’s Women Health Organization), nient’altro. Ricorre invece il riferimento all’unborn human being e largo spazio nell’argomentare è dedicato al tema della vitalità del feto, il c.d. quickening. Ciò che ha una sua suggestività, al di là del registro della decisione, marcatamente tecnico sul piano sia medico sia giuridico. Tanto non stupisce. Come sempre nelle posizioni antiabortiste, la donna o è l’antagonista, l’avversaria da neutralizzare, o non esiste affatto. E in Dobbs, in effetti, non esiste. Ora, sulle ricadute di questo approccio è opportuno un chiarimento, anche a beneficio del dibattito che va prefigurandosi in Italia e in Europa sotto il vessillo dei movimenti pro-life. Il diritto funziona secondo meccanismi suoi propri che tendono a emanciparsi dai codici morali che possano eventualmente ispirarlo. Se la lezione di Casey[25] (“Our obligation is to define the liberty of all, not to mandate our own moral code”) non è (più) nelle corde della Corte Suprema e dei suoi possibili epigoni overseas, resta il fatto che personificare il feto (o l’embrione, o il concepito, o il nascituro a seconda della terminologia invalsa nel dibattito pro-life) o attribuire alla vita prenatale dei diritti, indefettibilmente configura la gestazione come un potenziale conflitto fra due soggetti, la madre e il concepito. Anche in considerazione della forza dirompente acquistata negli ultimi decenni dal principio del best interest of the child in tutte le giurisdizioni del nord globale, nazionali e sovranzionali, non solo l’interruzione volontaria della gravidanza, ma lo stesso controllo sul proprio corpo sarebbero per motivi evidenti sottratti alla gestante. Quali comportamenti potenzialmente ‘a rischio’ per il feto (fumo, sesso, guida di autoveicoli, sport, ecc.) sarebbero da considerare leciti? Quali dovrebbero essere inibiti alla futura madre? Letta con gli occhi del diritto, la quotidianità di una gravidanza si risolverebbe in una sequela di ipotesi di conflitto d’interessi fra la gestante-donna e la gestante-madre. E chi allora dovrebbe rappresentare gli interessi del feto? L’istituto del curator ventris tornerebbe improvvisamente d’attualità[26]. Non c’è dubbio che in questa direzione portino iniziative recenti, come l’ICE enfaticamente intitolata “Uno di noi”, che la Commissione europea ha sostanzialmente respinto[27].
Un secondo ordine di considerazioni discende dall’approccio originalista che si dispiega in Dobbs e che – come Justice Thomas preannuncia nella sua concurring opinion - finirà per travolgere l’intera costruzione della constitutional privacy inaugurata con Griswold v. Connecticut nel 1965. Alla luce di quanto abbiamo detto sin qui, è necessario chiedersi se sia possibile e se sia opportuno espungere la libertà individuale di autodeterminazione sul proprio corpo dalla costituzione. E se sia possibile e opportuno che ciò avvenga in un sistema federale, con il dichiarato intento di restituire la competenza a deciderne agli stati, cioè alle maggioranze politiche contingenti che di volta in volta prendano corpo nei singoli parlamenti statali. Il punto ci riguarda da vicino poiché le analogie col caso italiano sono maggiori di quanto di primo acchito non sembri. Sin dalle anticipazioni circolate qualche mese addietro con riguardo alla c.d. bozza Alito, non poche voci si sono levate in Italia per reclamare una revisione della legge 194 del 1978[28]. Come ho premesso, l’ombra lunga di Dobbs non tarderà a dispiegarsi nel dibattito nostrano e con tutta probabilità avrà il sapore di uno sdoganamento delle posizioni più apertamente anti-abortiste. Una delle possibili prospettive in questa direzione è quella di negare alle donne il diritto all’accesso alla IVG, nei termini definiti dalla l. 194, attraverso una lettura restrittiva del bilanciamento salute della donna/tutela della vita prenatale contenuto nella legge o, più probabilmente, con la modifica della legge stessa, per lasciare ai singoli servizi sanitari, regione per regione, la decisione sul se e come garantire la prestazione. Uno scenario non troppo dissimile da quello attuale, come noto caratterizzato da un’accentuata disomogeneità di garanzie fra regione e regione, dovuta tanto alla diversità di regimi nella somministrazione della pillola abortiva RU 486, quanto alla differente incidenza dell’obiezione di coscienza. Ma la sua formalizzazione in una legge nazionale è altra cosa. E proprio in Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization sembra ora cercare la sua legittimazione.
[1] 410 U.S. 113 (1973). Si veda anche il caso gemello Doe v. Bolton, 410 U.S. 179 (1973).
[2] Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27.
[3] Risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio 2022 sulla decisione della Corte suprema statunitense di abolire il diritto all'aborto negli Stati Uniti e la necessità di tutelare il diritto all'aborto e la salute delle donne nell'UE (2022/2742(RSP)).
[4] New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, 597 U.S., (2022).
[5] West Virginia v. Environmental Protection Agency, 597 U.S., (2022).
[6] Cfr. N. Cahn e J. Carbone, Red Families v. Blue Families. Legal Polarization and the Creation of Culture, Oxford University Press, 2010.
[7] Cfr. Du. Kennedy et al., Sostieni la libertà accademica negli Stati Uniti. Fermiamo gli attacchi alla Critical Race Theory, Riv. crit. dir. priv., n. 1/2022, p. 109 ss.
[8] V. G. Merli, Preciado: «Fanno di tutto per fermare la rivoluzione in atto», ne Il manifesto, 26 giugno 2022.
[9] In realtà nel 1959 l’American Law Institute elaborò uno schema di legislazione per depenalizzare l’aborto in determinati casi, per esempio i casi di aborto terapeutico, che già venivano praticati in molti ospedali. Almeno 13 stati accolsero questo schema di legislazione già prima del 1973 e in alcuni di essi le leggi adottate erano più permissive di quanto prescritto in Roe.
[10] Questa doctrine è ben esplicata da W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, 1770, Vol.I, p. 442: “the very being or legal existence of the woman is suspended during the marriage, or at least is incorporated and consolidated into that of the husband: under whose wing, protection, and cover, she performs every thing; and is therefore called in our law-french a feme-covert, femina viro co-operta; is said to be covert-baron or under the protection and influence of her husband, her baron, or lord; and her condition during her marriage is called her coverture. Upon this principle, of an union of person in husband and wife, depend almost all the legal rights, duties, and disabilities, that either of them acquire by the marriage”.
[11] Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965).
[12] Eisenstad v. Baird 405 U.S. 438 (1972).
[13] Du. Kennedy, Consciousness, Doctrine, and Politics in the History of American Family Law. Harvard Public Law Working Paper No. 21-40.
[14] Sia consentito il rinvio a M.R.Marella, I diritti civile fra laicità e giustizia sociale, in Diritto e Democrazia nel pensiero di Luigi Ferrajoli, a cura di S. Anastasia, Torino, Giappichelli, 2011, p. 45 ss.
[15] Antonio Baldassarre, divenuto giudice della Corte costituzionale italiana dopo aver studiato l’elaborazione dottrinale della privacy ad opera della Corte Suprema statunitense, importa quello stesso modello con una serie di sentenze in cui si riproduce l’idea della penumbra (Corte cost., 14 gennaio 1991, n. 13, in Foro It., 1991, 1, 365; Corte cost., 19-12-1991, n. 467, in Giur. It., 1992, I,1, 630; Corte cost., 22 giugno 1992, n. 290, in Foro It., 1992, I, 3226 con nota di Colaianni; Corte cost., 11 marzo 1993, n. 81, in Foro It., 1993, I, 2132; Corte cost., 28 luglio 1993, n. 343, in Giur. It., 1994, I, 176; Corte cost., 31 marzo 1994, n. 108, in Giur. It., 1994, I, 362.). Della constitutional privacy all’italiana non è altrettanto chiara, tuttavia, la vocazione antimaggioritaria: dalla giurisprudenza Baldassarre emerge piuttosto l’idea che l’autodeterminazione si nutra dell’insieme dei valori che sottendono la carta costituzionale e sia dunque tale da far emergere ciò che in essa è implicito. Ma altre voci in dottrina individuano più chiaramente nella privacy un argine contro l’imposizione di valori dominanti (cfr. A. Cerri, voce Riservatezza, Enc. giur. Treccani, Roma, 1995).
[16] L’influenza dei movimenti sociali sugli orientamenti della Corte Suprema è messa a tema in una ricca letteratura statunitense. Cfr. fra gli altri: Reva B. Siegel, Constitutional Culture, Social Movement Conflict and Constitutional Change: The Case of the De Facto ERA, 94 CALIF. L. REV. 1323 (2006); Jack M. Balkin, How Social Movements Change (or Fail to Change) the Constitution: The Case of the New Departure, 39 SUFFOLK U. L.REV. 27, 52 (2005)
[17] Cfr. G. Marini, La giuridificazione della persona. Ideologie e tecniche nei diritti della personalità, in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 359 ss.
[18] Dudgeon c. Regno Unito, decisione del 22 ottobre 1981, serie A n. 45, 18, § 41.
[19] Corte Europea dei diritti dell’uomo, 17 febbraio 2005, K.A. e A.D. c. Belgio, di cui può leggersi il commento - decisamente critico, ancora una volta giocato sul rispetto della dignità umana – di M. Fabre-Magnan, Le sadisme n’est pas un droit de l’homme, Dalloz, 2005, 2973.
[20] Bowers v. Hardwick, 478 U.S. 186 (1986).
[21] Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558 (2003), su cui v. da noi V. Barsotti, Privacy ed orientamento sessuale. Una storia americana, Torino, Giappichelli, 2005.
[22] Obergefell v. Hodges, 576 U.S. 644 (2015).
[23] Gonzales v. Carhart, 550 U.S. 124 (2007) su cui cfr. A. D’Angelo, Ai confini della libertà. La !Corte Roberts” e un principio da erodere, in RCDP, 2007, p. 713.
[24] C. M. Mazzoni, Quale dignità? Il lungo viaggio di un’idea, Firenze, 2019; G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità (note a margine della Carta dei Diritti), in Riv. dir. civ., n. 6/2002, p. 801 ss.; M. R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo di contratti, in Riv. cri. dir. priv., n. 1/2007, p. 67 ss.
[25] Planned Parenthood v. Casey, 505 U.S. 833 (1992).
[26] Fra le proposte di modifica dell’art. 1 del codice civile volte a estendere la capacità giuridica al concepito si veda ad es. PDL Volontè del29 aprile 2008.
[27] COM (2014) 355 final. In tema cfr. M. Mori, La 3° Marcia per la Vita e l’iniziativa “Uno di noi”: risveglio del prolifeismo o segno di passatismo?, in Bioetica, 1/2013, p. 5. Sulla comunicazione della Commissione si è innestata poi una vicenda giudiziaria conclusasi con la condanna alle spese dei cittadini promotori: Patrick Grégor Puppinck e a. contro Commissione europea, Causa C-418/18 P (Corte di Giustizia Ue, Grande Sezione, sentenza del 19 dicembre 2019).
[28] Si veda ad es. G. Razzano, A proposito della bozza Alito: l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale, in Giustizia Insieme, 24 giugno 2022, al link https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2379-a-proposito-della-bozza-alito-l-aborto-e-una-grave-questione-morale-e-non-un-diritto-costituzionale.
Brevi osservazioni sulla tutela penale del credito garantito dallo stato in occasione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 (cd. Decreto liquidità)
di Giuseppe Sepe
Sommario: 1. Inquadramento del tema - 2. La posizione assunta dalle Corte di Cassazione, Sezione sesta - 3. Qualche considerazione critica - 4. Considerazioni di chiusura.
1. Inquadramento del tema
In due recenti pronunce[1] la Corte di Cassazione, sezione sesta, attrae nell’orbita dell’art. 316 ter cod. pen. la condotta di colui il quale acceda al credito garantito dallo Stato sulla base di dichiarazioni infedeli.
Con una terza decisione la sesta sezione della S.C. ha invece escluso che lo sviamento delle somme dalle finalità cui il finanziamento è destinato per legge, configuri il reato di cui all'art. 316 bis cod. pen. [2].
Si ricorderà che con il cd. decreto liquidità (d.l. 23/2020) [3] il Fondo di Garanzia per le Piccole e Medie imprese era stato convertito in uno strumento capace di garantire la erogazione di prestiti bancari allo scopo di favorire imprese, artigiani, autonomi e professionisti danneggiati dall’emergenza sanitaria causata dal covid 19 [4].
L’accesso alla garanzia concessa dal fondo era stato sburocratizzato e semplificato, tanto da non richiedere la valutazione del merito creditizio per i prestiti di importo fino a 25.000 euro non superiori al 25% dei ricavi dell’impresa.
In particolare, l’art. 13 co. 1 lett. m) del d.l. 23/2020, conv. in l. n. 40/2020, aveva previsto l’ammissione alla garanzia del Fondo per le PMI di “nuovi finanziamenti” concessi da banche, intermediari finanziari di cui all'articolo 106 del TUB e dagli altri soggetti abilitati alla concessione di credito in favore di piccole e medie imprese… la cui attività d'impresa sia stata danneggiata dall'emergenza sanitaria da covid-19.
Tale congegno normativo prevede che il finanziamento sia materialmente erogato da un Banca o società di leasing o altri intermediari finanziari, con la garanzia del Fondo per le PMI, sostenuto dal Ministero per lo Sviluppo Economico, che, però, non interviene direttamente nel rapporto tra banca e cliente (tassi di interesse, condizioni di rimborso ecc., sono lasciati alla contrattazione tra le parti).
In concreto si tratta di una garanzia pubblica, finalizzata a sostituire le onerose garanzie normalmente richieste per ottenere un finanziamento cui, eventualmente, imprese in difficoltà non potrebbero accedere.
Alla data del 15 giugno 2022, secondo i dati del Mef, le richieste di garanzia per i nuovi finanziamenti bancari ammontano a 251,6 miliardi (su 738,205 richieste).[5]
Data l’ampiezza del fenomeno e il suo impatto sulle finanze pubbliche, ci si poteva attendere, in concomitanza alla messa in piedi del potente meccanismo di sostegno economico alle imprese, l’introduzione di un’apposita normativa penale atta a prevenire e reprimere abusi e comportamenti scorretti e/o decettivi in senso ampio. Cosa che, invece, non è avvenuta[6].
La giurisprudenza è dunque chiamata a chiarire se ed in che modo eventuali comportamenti finalizzati a conseguire illegittimamente il finanziamento garantito dallo Stato rientrino nelle ipotesi incriminatrici codicistiche posto che, come si è visto, il finanziamento è rilasciato da un soggetto privato, con la garanzia pubblica.
2. La posizione assunta dalle Corte di Cassazione, Sezione sesta
Ebbene, la sentenza della sezione sesta della Cassazione, n. 2125 del 24/11/2021 Cc. (dep. 18/01/2022) Rv. 282675, imp. Bonfanti, stabilisce che la condotta di colui che ottenga un finanziamento garantito dallo Stato, giovandosi di dichiarazioni mendaci, integra l’ipotesi di reato di cui all’art. 316 ter c.p.
Osserva la Corte che, sebbene il finanziamento venga rilasciato da un istituto di credito privato, la garanzia a carico dello Stato si risolve nella erogazione di un apporto avente un “valore economico” che rientra nel concetto di “erogazioni…comunque denominate” menzionate dall’art. 316 ter c.p.
Il ragionamento della Corte, come si vedrà, è incentrato sulla ricostruzione della “ratio” della disposizione incriminatrice, che è quella di fronteggiare il grave e crescente fenomeno della devianza economico finanziaria [7].
La nozione di “erogazione” viene ampliata fino a ricomprendere la concessione di una garanzia, ossia l’impegno assunto dallo Stato nei confronti del soggetto concedente il finanziamento, a farsi carico dell’obbligazione restitutoria in caso di inadempimento, eventuale, del contraente.
Sulla scorta di quanto già osservato da Cass. Sez. Un., Sent. n. 7537 del 2011, il linguaggio adoperato dal legislatore nell’art. 316 ter cp non sarebbe “tecnico”, ma generico. Alla nozione di “contributo” e di “ogni altro atto ad esso assimilato” non sarebbe “coessenziale” una “elargizione in danaro”, trattandosi di un “apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante e tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro” (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 7537 del 2011).
In altre parole, qualsiasi “aiuto pubblico” che, pur non concretandosi nella dazione di una somma di denaro, sia diretto ad agevolare un soggetto economico, rientrerebbe nel concetto di “erogazione, dello stesso tipo, comunque denominate”.
Evidente, dunque, lo slittamento verso una lettura estensiva del concetto di “contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” laddove la prestazione della garanzia è ricondotta al rilascio di una “erogazione”, comunque denominata.
Dal canto suo, la seconda sentenza che qui si commenta (Cass. Sez. 6, n. 11246 del 13/01/2022 Cc. (dep. 28/03/2022) Rv. 283106, imp. Pressiani), dopo aver ricostruito la natura pubblica del fondo di garanzia, si spinge più avanti e assume il “complessivo carattere pubblico dell'erogazione del prestito garantito”. In particolare la decisione afferma che “l’unitario contenuto dell'erogazione pubblica non si presta ad essere scisso (da un lato il prestito e dall'altro la garanzia dello Stato)” giacché il finanziamento “trova la sua causa” proprio “nella garanzia” che lo Stato assegna alla finalità pubblica di impulso all'economia privata. Nel senso che “senza la garanzia il prestito non sarebbe stato concesso”. Quindi il prestito assume “una funzione propriamente pubblicistica”.
La ricostruzione in termini unitari dell’operazione economica e la sua ritenuta natura pubblicistica, nonostante le perspicue argomentazioni del giudice di legittimità, sono però resistite dalla considerazione che, in realtà, l’assunzione di garanzia statale è finalizzata proprio a favorire il rilascio di prestiti da parte delle banche senza che l’esborso sia sopportato direttamente dallo Stato[8]. Poiché le banche, in assenza di adeguate garanzie, non avrebbero concesso i prestiti necessari a sostenere il tessuto economico, ecco che lo Stato si è fatto garante, per il caso di inadempimento. Dedurne però la complessiva natura pubblicistica e considerare pubblica l’erogazione di capitali privati comporta, a nostro avviso, un “salto” logico abbastanza importante.
Come si è anticipato, inoltre, la stessa Sesta Sezione della S.C. (Sez. 6 - , sent. n. 22119 del 15/04/2021 Cc. (dep. 04/06/2021) Rv. 281275, imp. Rainone) ha escluso che lo sviamento del finanziamento garantito da SACE spa (per le finalità previste dall’art. 1 d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40) integri il reato di cui all’art. 316 bis c.p. con argomentazioni basate sulla circostanza che “il finanziamento, sebbene connotato da onerosità attenuata e destinato alla realizzazione delle finalità di interesse pubblico… non viene erogato direttamente dallo Stato o da altro ente pubblico, bensì da un soggetto privato”. La Corte ha poi osservato che la garanzia pubblica diventa operativa solo con l’inadempimento dell’obbligazione restitutoria “cosicché, in assenza di tale presupposto, ogni onere connesso all'erogazione del finanziamento rientra esclusivamente nel rapporto principale tra l'impresa ed il soggetto finanziatore” Si tratta, in sostanza, di una ratio decidenti diametralmente opposta a quella che sorregge gli altri due pronunciamenti sopra commentati.
3. Qualche considerazione critica
Può svolgersi, a questo punto, un tentativo di ragionata critica dell’indirizzo di legittimità che ammette la configurabilità dell’art. 316 ter c.p., sulla scorta della dottrina che, già all’indomani dell’approvazione del cd. decreto liquidità, ha espresso dubbi sulla riconducibilità dei comportamenti decettivi in materia al campo di operatività di tale fattispecie.[9]
Pur ammettendo il legittimo ricorso alla interpretazione teleologica (che, cioè, guardi allo scopo, agli interessi, ai “valori” che la norma mira a proteggere) [10], ne avvertiamo i limiti che derivano dal necessario “self restraint” che il giudice deve osservare in campo penale. In questo ambito, com’è noto, occorre evitare letture omnicomprensive capaci di minare, svuotandone il senso, i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, che a loro volta presidiano certezza del diritto, conoscibilità, prevedibilità, autonomia e responsabilità personale.
La prima obiezione ruota intorno alla interpretazione linguistica della fattispecie di cui all’art. 316 ter cp e consiste in questo, che i richiamati concetti di “contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui” rimandano ad esborsi, dazioni, apporti che lo Stato o l’ente pubblico “eroga” direttamente in favore del soggetto richiedente.
Semanticamente, può anche ammettersi che il contributo non sia necessariamente pecuniario, sebbene la massima parte dei contributi, sovvenzioni, finanziamenti e mutui consistano proprio nell’attribuzione, agevolata o a fondo perduto, di somme di denaro.
Tuttavia, nel richiamare altre “erogazioni del medesimo tipo”, il legislatore fa riferimento a un “tipo comune”, ossia un modello, uno schema comune, nel quale, con qualche difficoltà può rientrare anche la prestazione di garanzia, che sembra sfuggire alla richiamata tipologia. Non solo perché la prestazione di garanzia non comporta, nell’immediato, alcun esborso pecuniario a carico dello Stato, che assume l’impegno verso il finanziatore in caso di inadempimento, futuro ed eventuale, dell’obbligazione restitutoria; ma perché la garanzia è prestata in favore di un terzo, la banca finanziatrice, sebbene sia legata all’inadempimento del soggetto richiedente il prestito.
In altre parole, la prestazione di una garanzia può anche legittimamente ritenersi alla stregua di un “contributo” o di una “erogazione”, ma di tipo diverso dai contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui elencati nella norma incriminatrice.
Il fatto che, richiamando l’autorevole precedente delle S.U. del 2010, n. 7532, la Cassazione ribadisca che i concetti espressi dal legislatore siano generici e non tecnici, non è di per sé tranquillizzante in punto di sufficiente tassatività della fattispecie né può bastare a orientare l’interprete nel ponderato bilanciamento tra opposte esigenze e cioè, da un lato, la necessità di reprimere le aggressive forme di devianza economico-finanzaria, e dall’altro quella di evitare di cadere nell’analogia in malam partem.
In secondo luogo, potremmo domandarci se la lettura estensiva di “erogazioni del medesimo tipo” salvaguardi la chiarezza e conoscibilità soggettiva del comando legale. Se, cioè, il soggetto richiedente la garanzia sia persuaso di mirare a una “erogazione del medesimo tipo” di quelle menzionate nella norma incriminatrice. Il richiedente, infatti, si impegna contrattualmente con un soggetto privato con lo scopo di ottenere un finanziamento bancario, mentre il rilascio della garanzia pubblica è un passaggio strumentale a tale risultato.
Bisognerebbe, in terzo luogo, interrogarsi sul “valore economico” della garanzia su prestiti di ammontare limitato (nel caso esaminato dalle sentenze citate i prestiti ammontavano a 25.000 e 13.000 euro; a 20.000 euro nel caso esaminato dalla sentenza Rainone) poiché se il valore non supera la soglia di rilevanza penale (fissata a 3.999 euro), il fatto va derubricato a illecito amministrativo.
Al riguardo, il valore della garanzia personale non coincide, a nostro avviso, con l’importo del finanziamento. Con la decisione di garantire prestiti per oltre duecento miliardi di euro, si è ipotizzato che solo una quota, ridotta, dei finanziamenti non sarà restituita in tutto o in parte, dando luogo all’escussione della garanzia da parte dei finanziatori.[11] Le amplissime dimensioni dell’operazione di aiuto di Stato fanno propendere per l’assimilazione della prestazione di garanzia a un fatto latamente assicurativo, sicché il concreto valore economico di ciascuna prestazione coinciderà con il premio di rischio calcolato e assunto dallo Stato con riferimento al complesso e a ciascuna delle garanzie prestate. In breve, il danno all’erario non coincide necessariamente con l’importo del finanziamento ottenuto.
Questo tema è però affrontato dalla sentenza Bonfanti distinguendo il profilo del danno arrecato al Fondo di garanzia, che si realizza con “l'attivazione della garanzia da parte dell'ente che ha erogato il finanziamento” da quello del profitto del reato, inteso come “arricchimento patrimoniale conseguito in rapporto di immediata e diretta derivazione causale dalla condotta illecita contestata”. In merito la Corte osserva che il prodursi del danno “non condiziona l'insorgenza del profitto ingiusto che si verifica con il conseguimento del prestito da parte del beneficiario grazie all'erogazione della garanzia fideiussoria non dovuta”.
Ora, che il finanziamento costituisca una conseguenza “diretta e immediata” dal reato è già opinabile, in quanto, per l’appunto, la prestazione della garanzia statale “media” il rilascio del prestito[12].
Ma anche a voler includere il finanziamento nel profitto del reato (così giustificando sequestro e confisca della somma di denaro), ciò non basta per discriminare il superamento della soglia di rilevanza penale fissata dall’ultimo comma dell’art. 316 ter c.p. poiché, nel riferirsi a “somma indebitamente percepita”, la norma fa riferimento esclusivamente agli aiuti erogati “dallo Stato, da altri enti pubblici e dalle Comunità europee” lasciando fuori, con ogni evidenza, gli importi ottenuti da soggetti diversi dallo Stato.
Ragionare diversamente e considerare l’ammontare del finanziamento per definire il superamento o meno della soglia di rilevanza penale, è fuori dalla stretta interpretazione dell’art. 316 ter c.p., a scapito, stavolta, della stessa ratio della disposizione incriminatrice, la quale non si occupa della tutela degli aiuti prestati da soggetti privati focalizzandosi esclusivamente sugli aiuti di Stato.
Andrebbe, in quarto luogo, valutato se la repressione penale della condotta decettiva sia compatibile con il principio di offensività. In caso di restituzione del finanziamento, nei tempi e nei modi pattuiti, la pubblica finanza non viene messa concretamente a repentaglio, giacché il finanziatore non escuterà la garanzia statale, lo Stato non verrà chiamato a risponderne economicamente e l’operatore privato non avrà subito pregiudizi di sorta (anzi avrà lucrato sugli interessi versati dall’impresa finanziata). Sotto altra prospettiva, la repressione dell’acquisizione, in forma abusiva, di una garanzia statale dà evidentemente luogo a una anticipazione della tutela, giacché, per l’appunto, si incrimina e si sanziona non già il comportamento da cui origina il danno per le finanze pubbliche, ma la sola acquisizione di una garanzia personale, la quale, semmai, non verrà escussa e non opererà mai. Se l’attentato alle pubbliche finanze è futuro ed eventuale, ancor meno si giustifica l’interpretazione estensiva della disposizione incriminatrice.
4. Considerazioni di chiusura
La prima considerazione riguarda la costante difficoltà del legislatore nell’approcciare la regolamentazione di materie settoriali e “tecniche”, affiancandovi una sapiente normativa penale, che soddisfi i canoni di tipicità, determinatezza, conoscibilità, prevedibilità, offensività.
Se in occasione di gigantesche operazioni economiche capaci di movimentare ingenti capitali privati con la garanzia della finanza pubblica, ci si “dimentica” di affinare i tradizionali strumenti preventivi e repressivi, non può sorprendere che delle finalità di politica-criminale si faccia carico, poi, la giurisprudenza, con le incertezze e i pericoli interpretativi sopra evidenziati.
D’altro canto, la giurisdizione non dovrebbe essere chiamata a “stampellare” impropriamente il legislativo, affiancandolo nell’opera ricostruttiva e delimitativa dei fenomeni criminosi, se non a costo di assumere, nella sostanza, un ruolo di “supplenza” e di condivisione dell’indirizzo politico in materia criminale (judge made law).
Ancora, bisognerebbe riflettere sul ruolo della repressione penale e sulla congruità dello strumento sanzionatorio rispetto allo scopo da perseguire. Se infatti la finalità dell’intervento pubblico nell’economia, mediante i ricordati strumenti di garanzia di operazioni economiche private, è quella di supportare la vitalità degli operatori economici ed imprenditoriali in un momento di grave emergenza sanitaria ed economica, bisognerebbe poi disegnare modi e limiti dell’intervento repressivo penale, affinché questo non assuma una connotazione perfino eccedente lo scopo e risulti rispondente al principio della extrema ratio[13].
Ragionevolmente, la criminalizzazione andrebbe ristretta alle più gravi ipotesi di appropriazione e distrazione dei capitali privati oggetto di erogazione, con negative ricadute sulla finanza pubblica, lasciando fuori i casi di minore gravità e quelli in cui le obbligazioni contrattuali, pur generate in assenza dei presupposti, siano poi correttamente e tempestivamente adempiute (salvo, beninteso, a procedere penalmente per le eventuali falsità accertate [14]).
Seppure non si hanno, ancora, dati concreti sull’entità del fenomeno di illecito conseguimento del credito garantito dallo Stato, si può immaginare che, a fronte dei cospicui flussi di capitali richiesti ed erogati, esso si rivelerà di ampia portata, tanto da rischiare di sovrastare le forze – non illimitate – della giustizia penale. E questo giustifica forse qualche ulteriore riflessione sull’affidarsi alla tutela penale come unico strumento di contrasto a tali fenomeni.
[1] Cass. Sez. 6, n. 2125 del 24/11/2021 Cc. (dep. 18/01/2022) Rv. 282675, imp. Bonfanti; Cass. Sez. 6, n. 11246 del 13/01/2022 Cc. (dep. 28/03/2022) Rv. 283106, imp. Pressiani.
[2] Cass. Sez. 6, n. 22119 del 15/04/2021 Cc. (dep. 04/06/2021) Rv. 281275, imp. Rainone, in materia di crediti assistiti dalla Garanzia della SACE Spa (cd. Garanzia Italia).
[3] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/04/08/20G00043/s
[4] Glauco Zaccardi, Il bazooka di liquidità contro il Covid 19, in questa rivista (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1023-il-bazooka-di-liquidita).
[5] https://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2022/Credito-e-liquidita-per-famiglie-e-imprese-oltre-251.6-miliardi-il-valore-delle-richieste-al-Fondo-di-Garanzia-PMI-raggiungono-i-36.4-miliardi-di-euro-i-volumi-complessivi-dei-prestiti-garantiti-da-SACE/
[6] Si veda, “Emergenza coronavirus e crisi economica: i Procuratori di Milano e Napoli sul "decreto credito" e i rischi connessi all'immissione di liquidità nel mercato delle imprese. Necessaria una correzione di rotta” in https://www.sistemapenale.it/it/documenti/francesco-greco-giovanni-melillo-repubblica-su-decreto-credito-crisi-economica-covid-19-coronavirus
Cfr. anche: Andrea Pantenella, Il diritto penale della crisi d’impresa alla prova della sindemia. Tra modelli di falso e ritorno allo stellionato, in Cassazione Penale, fasc.6, 1 giugno 2021, pag. 2244.
[7] L’art. 316 ter cod. pen. è posto a presidio degli interessi finanziari della Amministrazione (interna o comunitaria) e ai fini di un corretto, efficiente ed equo funzionamento del sistema delle sovvenzioni pubbliche finalizzate al perseguimento di determinati obiettivi di politica economica, sociale o culturale nell’ambito delle scelte programmatiche pubbliche.
[8] V. A. Bell-A. Valsecchi, Finanziamenti garantiti dallo stato: la disciplina dell’emergenza ridisegna (riducendola) l’area del penalmente rilevante per le imprese e per le banche in Sistema Penale, 2020,6, i quali osservano che “il sistema della garanzia pubblica sul finanziamento erogato dalla banca o da altro intermediario finanziario, infatti, è stato adottato dal Governo italiano proprio per evitare che fosse lo Stato a farsi carico dell’insostenibile peso economico di interventi di finanziamento diretto a favore delle imprese colpite dalla crisi economica da Covid-19. Si tratta, in altre parole, di un meccanismo che esclude che sia lo Stato a “elargire” le immense somme di denaro necessarie al sostegno del tessuto economico nazionale, affidandosi, invece, alla capacità del sistema bancario di far fronte alla domanda di liquidità che proviene dalle imprese”.
[9] A. Bell-A. Valsecchi, Finanziamenti garantiti dallo stato: la disciplina dell’emergenza ridisegna (riducendola) l’area del penalmente rilevante per le imprese e per le banche in Sistema Penale, 2020,6, https://www.sistemapenale.it/it/articolo/bell-valsecchi-finanziamenti-garantiti-dallo-stato-emergenza-covid19-riduzione-area-del-penalmente-rilevante-per-imprese-e-banche
Contra, L. Orsi, La tutela penale del credito garantito dallo Stato alle imprese colpite dalla pandemia Covid- 19, in Sistema Penale, fascicolo 6/2020, https://www.sistemapenale.it/it/articolo/orsi-tutela-penale-credito-garantito-stato-covid-19-conversione-decreto-liquidita
In materia, v., anche Mucciarelli, Finanziamenti garantiti ex d. l. 23/2020: profili penalistici, in Sist. pen., 4 maggio
2020.
[10] Sulla giurisprudenza degli interessi che fa capo a Philipp Heck si vedano: Pier Giuseppe Monateri, Alessandro Somma, Il modello di civil law, Giappichelli, Torino, p. 120; Mauro Barberis, Giuristi e filosofi, una storia della filosofia del diritto, Il Mulino, 136 e ss.
[11] Sul punto G. Zaccardi precisa che “il costo dello Stato è dato solo dall’accantonamento necessario a fare fronte alla garanza, poiché i finanziamenti garantiti sono erogati concretamente dal sistema bancario e finanziario. Tale costo, in ossequio al regolamento SEC 2010, è pari all’ammontare delle risorse che il Tesoro stima essere pari a ciò che si prevede sarà necessario accantonare per far fronte alle escussioni; nel caso di specie è stata ritenuta prudenziale una percentuale di accantonamento del 6%” (G. Zaccardi, Il bazooka di liquidità…cit.)
[12] Si richiamano, qui, le osservazioni della dottrina sul “gross gross revenue method” (ricavo complessivo del reato), metodo utilizzato dalle corti inglesi nel caso di contratti acquisiti con modalità corruttive. In questi casi, siccome il profitto è stato ottenuto con mezzi illeciti, l’intero corrispettivo andrebbe acquisito al patrimonio dello Stato. Cfr. Vincenzo Mongillo - Il Libro dell'anno del Diritto 2016, https://www.treccani.it/enciclopedia/profitto-del-reato-e-confisca_%28Il-Libro-dell'anno-del-Diritto%29/ L’autore cita: OECD-StAR, Identification and Quantification, 30, 50 s.
[13] Sul punto, Nello Rossi osserva che andrebbero penalmente perseguite le indebite percezioni di maggior importo, in ossequio al carattere di “ultima istanza” tipico dello strumento penale (Nello Rossi, L’emergenza economica e sociale. Le prime risposte del diritto penale, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-emergenza-economica-e-sociale-le-prime-risposte-del-diritto-penale_15-04-2020.php).
[14] A. Pantanella, Il diritto penale della crisi d’impresa alla prova della sindemia.., cit. il quale osserva che “lo stesso Decreto Liquidità, al primo comma dell’art. 1-bis, fa espresso riferimento al fatto che le richieste di nuovi finanziamenti debbano essere integrate da una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà di cui all’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”. Si veda anche Siena, Problemi vecchi e nuovi delle false dichiarazioni sostitutive, in
Dir. pen. cont., 3/2020, p. 237 ss, citato da Pantanella.
Corpo Pasolini. Brevi riflessioni sull’ordine giuridico sadiano
di Mauro Balestrieri
Sommario: 1. Semiologia del corpo - 2. L’abiura - 3. Il teatro-Salò - 4. L’ordine sadiano - 5. La parola - 6. Usus e proprietas - 7. Macchina, corpo, legge.
1. Semiologia del corpo
Si può provare a descrivere il cinema di Pasolini come una dettagliata, estrema, diligente figurazione delle potenzialità sovversive del corpo. La fisicità degli arti, la melodia della voce, la fisionomia perfetta o beffardamente esibita delle carni hanno assunto, nello sguardo attento del suo Autore, la funzione di luoghi di riflessione eminentemente politici, di pietre d’inciampo attraverso cui misurare il rapporto conflittuale tra “individuo” e “potere”[1].
L’operazione pasoliniana non è certamente priva di aporie o di difficoltà: il corpo, come è noto, confonde i codici e mette in crisi ogni separazione netta. Per usare due termini cari al discorso antropologico-filosofico, esso oscilla perennemente tra “natura” e “cultura” costituendo una sorta di tertium genus capace di eccepirsi da ogni disciplina o da ogni rigido formalismo concettuale[2].
Il corpo è incatturabile, si può dire, e proprio per questo è oggetto di infinite catture. Esso fluttua all’interno degli universi simbolici prestandosi costantemente a nuove scoperte o a nuove antropologie[3]. Di più, esso ambisce a venire messo in scena, a mostrarsi su un palcoscenico. Visibilità e corporeità agiscono quali termini medi di un unico gesto significante che mira a sintetizzare in un’unica forma l’universo dei suoi infiniti particolari[4].
2. L’abiura
Dopo aver realizzato la celebre “Trilogia della vita” (composta tra il 1971 e il 1974 e includente Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), in un articolo apparso postumo 15 giugno 1975 sul Corriere della Sera Pasolini abiurò sorprendentemente l’intero progetto che ne aveva determinato la creazione[5].
Gli organi sessuali e la fisicità lo disgustavano. Sottomesso alla falsa tolleranza del potere consumistico asservito al capitale e alla logica del profitto, il piacere dell’erotismo diveniva insulsa merce di scambio, oggetto da baratto su un mercato apparentemente tollerante proprio perché spinto alla massimizzazione del commercio[6]. Agli occhi di Pasolini, il corpo e le menti dei giovani italiani apparivano ormai degradati a un borghesismo schizzinoso e complessato, nuova veste per un asservito e infelice perbenismo, spietatamente lontano dalla liberazione sessuale così intensamente desiderata.
La celebrazione del corpo pasoliniana, inizialmente concepita e vissuta nella sua nudità felice e fremente, si trasformava così nell’esatto opposto: in un canto funebre della fisicità ridotta a pura merce per il profitto. In questo revirement radicale e brusco, Pasolini voleva certamente denunciare l’ennesimo impoverimento della società italiana, il suo scacco morale e culturale, eppure è forse possibile leggere a contrario tale abiura intendendola meno come un atto di denuncia verso una realtà politica, e più come l’estremo tentativo di fare i conti – ancora una volta – con l’enigma insolubile del corpo.
Corpo come problema filosofico, politico, giuridico, quindi; corpo come laboratorio della potenzialità e dell’effettualità storico-sociale. Pasolini consente di osservare le mille declinazioni che si sovrappongono alla sua struttura, alla sua singolarità, fino a intravvederne in filigrana il nucleo sovversivo, indomabile, incancellabile.
Prendendo a prestito il celebre interrogativo che Deleuze rivolgeva agli scritti di Spinoza, è allora necessario chiedersi ancora “cosa può un corpo?”[7]. Se una risposta soddisfacente a tale domanda è forse ancora ben lungi dall’essere possibile, allo stesso tempo essa non può essere elusa da chiunque osservi il campo lungo della produzione intellettuale pasoliniana.
3. Il teatro-Salò
Come è noto, l’ultima opera che Pasolini ha lasciato prima della sua morte è il celebre e non meno contestato Salò o le 120 giornate di Sodoma (1957) [8]. Seppur oggetto di una virulenta censura e di un ostracismo che ne è valso per alcuni anni la messa al bando, esso rappresenta il punto di tensione massima tra potere, legge e corpo nell’universo artistico pasoliniano[9]. Nei suoi fotogrammi è inscritto il carattere sovversivo e tirannico del piacere, il gusto crudele per l’oscenità, l’intensità acuta del piacere frammisto al dolore. Guida fedele in questa vertigine negli abissi della psiche umana fu ovviamente il Divin Marchese de Sade e il suo Le 120 giornate di Sodoma, a cui Pasolini si ispirò largamente nella realizzazione della pellicola[10].
In questo affratellamento tra modello letterario sadiano e gesto pasoliniano (non privo di aporie o di difficoltà, come si è poc’anzi notato), una caratteristica eloquente vale tuttavia ad avvicinarne le pur differenti morfologie. Sia nella letteratura di Sade sia nel cinema di Pasolini la vita pulsante e il fremito della carne sembrano fuoriuscire dal linguaggio e sfuggire alla sua inesorabile cattura, componendo un differente universo normativo che è insieme “estetico” e “politico”.
Di fronte a quelli che appaiono solo come brandelli di corpo se descritti nelle loro minuzie, nei loro tormenti o nei loro spasmi di piacere, Sade e Pasolini cooperano al contrario verso una diversa strategia: la produzione di una vera e propria scenografia del corpo e dei suoi piaceri. Come nota Roland Barthes nel suo celebre studio su Sade, c’è invero un modo del tutto perspicuo attraverso cui il ritaglio spezzettato del corpo, ostaggio della pratica feticista, trova invece una specifica rappresentazione figurale e concettuale:
[q]uesto mezzo è il teatro (cosa che l’autore di queste righe ha capito assistendo a uno spettacolo di travestiti in un cabaret parigino). Preso nella sua scialbezza, nella sua astrazione («il seno più sublime, particolari vezzosissimi nelle forme, scioltezza nelle masse, grazia, mollezza negli attacchi delle membra», ecc.), il corpo sadiano è in realtà un corpo visto da lontano nella luce piena del palcoscenico; è solo un corpo molto ben illuminato[11].
Il frazionamento del corpo è dunque la premessa della strategia visuale impiegata da Sade e, in parte, da Pasolini per ridare senso alla sua stessa forma-deformata. Osservare realmente il corpo significa porlo di fronte a un palcoscenico, illuminarlo accuratamente, ri-anatomizzarne le parti[12]. Significa, in breve, mostrarne l’unità smembrandolo, la sua plasticità frazionandolo, il suo desiderio feticizzandolo. In questo circolo paradossale teso tanto al raggiungimento di un corpo unico, unitario, totale quanto alla sua dissoluzione, il gesto sadiano-pasoliniano diviene quello di esacerbare il particolare fino a farlo esplodere in una differente cornice di senso.
Come si può suggerire in altri termini, è l’occhio della Legge (o del Padrone) che trasforma il piacere del libertino in uno spettacolo teatrale: nelle sue diottrie, ciò che è organico diventa materia vivente e il vivente oggetto di punizione/godimento[13].
L’enigma di Salò non è, allora, soltanto quello dell’iscrizione del corpo nelle maglie di un’istituzione totalitaria: è soprattutto quello della sua visibilità, del modo attraverso cui esso viene messo a fuoco, isolato dallo sfondo, fissato su un piedistallo e da lì contemplato, misurato, seviziato, sacrificato. Il teatro-Salò incarna la cifra di uno sguardo normativo e performativo insieme, di un gesto che allo stesso tempo istituisce e fagocita l’ordine erotico del vivente.
4. L’ordine sadiano
Nel 1793, anno in cui il Marchese de Sade finiva prigioniero presso una delle numerose “case di cura” predisposte dalla Repubblica giacobina, Jean-Étienne-Marie Portalis, il padre intellettuale del Code Napoléon, veniva improvvisamente catturato nelle medesime circostanze dai rivoluzionari del Terrore e rinchiuso in un analogo istituto.
È una circostanza storica altamente singolare, e se si vuole altrettanto ironica, che l’ispiratore del futuro ordine giuridico francese giacesse fianco a fianco con colui che avrebbe voluto vigorosamente ribaltarlo. Portalis veniva accusato di tradimento a causa di alcune lettere pubbliche veementemente rivolte contro gli abusi del Terrore e schierate a favore della Monarchia; Sade, al lato opposto, pur analogamente considerato nemico della Repubblica per motivazioni filomonarchiche non vide mai del tutto chiarite le circostanze alla base dell’accusa. Entrambi, ad ogni modo, dovettero la loro miracolosa salvezza alla caduta improvvisa di Robespierre, avvenuta proprio pochi giorni dopo la loro incarcerazione (27 luglio 1794).
In un testo dedicato allo studio delle implicazioni giuridiche dell’opera di Sade, François Ost si è opportunamente soffermato sul concetto di “legge” evocato così spesso negli scritti sadiani[14]. Quale idea di “ordine” emerge dall’universo sadiano? Di quale Repubblica si parla? E soprattutto, quali caratteristiche essa avrebbe dovuto possedere?
Michel Foucault ha opportunamente notato come il senso del grande esperimento sadiano sia consistito nell’inserimento del “disordine” del desiderio all’interno di un mondo del tutto dominato dall’idea di ordine e di classificazione[15]. Non è difficile notare come il gesto sadiano risieda precisamente in questo gesto estremo e “costituente”: il suo essere “fuori-legge” si traduceva nell’ambizione di disapplicare la legge civile a favore di un’altra legge, un certo tipo di legge, eterogenea e anticonvenzionale, fondata sull’io desiderate, sul piacere della prostituzione, sulla libertà erotica dei corpi.
Se però è inaccettabile fare di Sade un “bandito”, e se è altrettanto erroneo vedere nei suoi scritti un’apologia tout court del crimine, occorre allora inquadrare con maggiore precisione il sottile gioco linguistico e concettuale che ruota intorno all’identità dell’individuo, al suo principio di piacere, e alla sua identità regolata dal diritto. Nella lettura di Barthes (anche in questo caso, di particolare valore per la ricostruzione dell’ordine giuridico sadiano), legge e pratica sessuale appaiono legati da un doppio vincolo di fatto ineludibile:
La pratica sadiana è dominata da una grande idea di ordine: le «sregolatezze» sono energicamente regolate, la lussuria è senza freno ma non senza ordine (a Silling, per esempio, ogni orgia termina irrevocabilmente alle due del mattino)[16].
Ciò conduce Barthes ad ammettere l’esistenza di un vero e proprio regime “panico” del libertinaggio in cui ogni funzione è meticolosamente prevista, organizzata, attuata («[i]l libertino è modellista, così come è dietista, architetto, arredatore, regista»[17]). La prassi del libertino è propriamente un insieme di regole, di patti, di contratti, financo di consuetudini: essa incorpora un senso normativo che trascende e include il soggetto, e senza il quale l’ordine dell’atto sessuale non potrebbe tout court avverarsi[18].
In una celebre intervista rilasciata poco tempo dopo la diffusione di Salò, Foucault intervenne criticando aspramente il ritratto cinematografico concepito da Pasolini[19]. Secondo Foucault, Sade non era riconducibile alla dimensione filmica, al contrario ne fuoriusciva a causa della sua costante eccedenza e irrappresentabilità. Sorprendentemente, tuttavia, l’assimilazione tra Sade e il fascismo troverà una parziale riconferma nella seconda parte dell’intervista, dove Foucault stesso ammetterà che l’erotismo sadiano è in effetti quello tipico di una società puramente disciplinare, o in altri termini di una «société réglementaire, anatomique, hiérarchisée, avec son temps soigneusement distribué, ses espaces quadrillés, ses obéissances et ses surveillances»[20].
In qualche forma, questo regime totalizzante della vita del libertino, tale come si è visto da necessitare di una zelante e instancabile osservazione e predisposizione, si ritrova in modo implicito nello stesso lessico giuridico sadiano. Secondo Jacques Lacan, in un testo tanto affascinante quanto enigmatico in cui la morale kantiana viene posta direttamente a contatto con l’universo di Sade, il desiderio del libertino si sostituisce propriamente alla legge morale, diventa la legge stessa, ossia un principio universale e sempre operante del suo funzionamento. La realizzazione dell’imperativo del desiderio è una sorta di principio di una legislazione universale, il corrispettivo cioè della stessa legge morale esplicitata dalla tensione costantemente operante e attiva verso il godimento[21].
Si può allora dire che non esistono tempi di pausa o vacatio legis nella gestione giuridica dei corpi, così come non ne esistono nella pratica criminale del libertino. Il diritto à la Sade non può conoscere “interruzioni” perché è la vita stessa a non incontrarle.
Nessun aspetto sfugge alla disciplina giuridica e alle sue categorie: la vita stessa è inclusa e qualificata dalle forme catturanti dei suoi concetti e delle sue definizioni. Del tutto analogamente, l’imponente sceneggiatura scritta e concepita dal libertino si alimenta della medesima continuità biologica del corpo umano, della successione dei suoi stati fisiologici, del suo fluire incessante. Legge e pratica sadiana conoscono una singolare fratellanza che è tutta nel tentativo di scrutare i corpi e di gestirne ogni forma di godimento senza incorrere in alcuno iato. Nessuna di queste attività può interrompersi o paralizzarsi – pena: la perdita di senso dell’intera scenografia.
5. La parola
In questa architettura perfettamente eretta, in questo palcoscenico della norma e dell’imperativo categorico, la parola e il linguaggio asurgono a istituti fondanti:
al difuori dell’assassinio, c’è solo un tratto che i libertini possiedono in proprio e non spartiscono mai, sotto nessuna forma: la parola. Il padrone è colui che parla, che dispone del linguaggio nella sua interezza; l’oggetto è colui che tace, resta separato, per una mutilazione più assoluta di tutti i supplizi erotici, da ogni accesso al discorso, perché non ha nemmeno il diritto di ricevere la parola del padrone.[22]
Il Codice e il Padrone sono modelli della perfezione denotativa della parola nella sua più assoluta purezza e chiarezza: tutto dispongono, tutto amministrano[23]. È il grado zero della legge, si può dire, il piacere feticistico del testo giuridico, la pura espressività quale strumento perfetto di esposizione della volontà e del desiderio. Un culto del linguaggio del tutto rinvenibile tanto nella diegesi sadiana quanto nell’esegesi giuridica, dove il testo della legge deve essere appunto contemplato, studiato, osservato fino a coglierne la sua più alta pienezza.
Come ha potuto scrivere uno dei più alti rappresentati dell’École de l’Exégèse francese: «[u]n bon magistrat humilie sa raison devant celle de la loi: car il est institué pour juger selon elle, et non pas pour la juger»[24].
Il testo del Code “umilia” perché rappresenta lo specchio del corpo consacrato e perfetto del legislatore davanti alla cui algida compiutezza occorre di fatto sottomettersi. Sorprendentemente, è proprio quanto accade nel rapporto libertino, in cui le gerarchie non vengono discusse, in cui il ligio rispetto dell’ordine non collassa, ma diviene funzionale all’accrescimento del piacere stesso. L’umiliazione, specularmente, sancisce e incorona il momento più intenso del rapporto sessuale.
C’è una tensione “erotica” tra fonte e interprete, tra “testo” e “piacere del testo”, dunque, che si accresce maggiore è la freddezza, il distacco e il rigore del testo stesso. Non c’è niente di casuale o di arbitrario nel codice giuridico, esattamente come non vi è nulla di discrezionale e di anarchico nella puntigliosa e meticolosa organizzazione del boudoir del libertino. Il linguaggio di Sade, così efficace e chirurgico come quello di una formula matematica, costituisce la mimesi paradossale del linguaggio giuridico del Code, della sua imponente chiarezza, della sua capacità assoluta di disciplinare e disporre del corpo e delle forme della persona.
Ma il paradosso è solo apparente: in entrambi i casi, ciò che rende possibile la pratica libertina e giuridica è la potenza del linguaggio quale mezzo per disporre cose e persone, fino alla sua ineluttabile trasgressione. A testimoniarlo nel modo più efficace è ancora una volta il conio del linguaggio sadiano, la sua crudezza, il suo andare dritto al punto.
6. Usus e proprietas
La fenomenologia dei rapporti giuridici rappresentati così provocatoriamente nelle opere di Sade dispiega tutta la propria forza nella singolare confusione tra diritto di proprietà (ius in re propria) e diritto di godimento (ius in re aliena) che tradizionalmente si incontrano nel sapere giuscivilistico. Formalmente separati, oggetto di un’ontologia differente e incompatibile, essi tuttavia sembrano confondersi e sovrapporsi nella pratica sessuale del libertino.
I personaggi sadiani usano il corpo delle proprie vittime, ma nella peculiare declinazione in cui l’uso diventa “abuso per il godimento”. In qualche modo, è la definizione della parola res, “cosa”, nella sua multiforme manifestazione (res propria; res aliena) a divenire il termine medio di uno slittamento di significato tra proprietà e possesso.
Il libertino non ha nei confronti della propria vittima un rapporto di “pura proprietà” (poiché invero non ha alcun tipo di obbligo che da ciò sembra discendere), né di “puro uso” (perché può spingersi fino alla abuso, ossia fino alla distruzione materiale, fisica ed esistenziale della propria vittima eccedendo quindi la nozione tecnica di uso), e allo stesso tempo, in modo quasi paradossale, sembra però realizzare entrambe le circostanze contemporaneamente, stravolgendone quindi il senso e confondendone il perimetro.
In questa zona di reciproca indistinzione, i testi di Sade divengono il laboratorio giuridico di una sperimentazione del corpo del tutto inedita e provocatoria: un luogo in cui il codice sussiste, è presente, opera fattivamente, ma in tutto questo è ridotto a mero simulacrum della legge stessa[25].
È stato giustamente sottolineato come tale nuova configurazione anatomica del corpo prodotta da Sade vada di pari passo con la disarticolazione dello stesso processo narrativo: i racconti sadiani non offrono una narrazione tradizionale, scandita dai canoni di tempo e di luogo classici, ma stravolgono la forma estetica del romanzo a favore di un sistema riduzionistico caratterizzato da frammenti di corpo meticolosamente quantificati e misurati, da un’ars combinatoria di incastri fisici e funzioni da espletare, da porzioni di un tutto ordinate in griglie e tabelle[26]. Una disarticolazione – si può aggiungere ancora – che è tanto “poetica” quanto “giuridica”: il crimine del libertino, questa sorta di vitae necisque potestas fuori da ogni circuito formalmente legittimo e declinato al puro fine del godimento, mette in crisi le categorie tradizionali del diritto, occupando i poli estremi della sovranità dell’individuo sul proprio corpo e della sua dissoluzione.
Come è stato notato, tale peculiare oscillazione tra uso e proprietà possiede un indubbio riferimento sarcastico alle vicissitudini della Francia contemporanea di Sade[27]. Così, l’epoca in cui gli individui come tali divenivano portatori di una nuova sovranità ancorata al proprio corpo e alla propria persona, di un’inviolabilità soggettiva espunta dal circolo del potere monarchico e incapsulata nella volontà e nella privatezza di ogni singolo individuo, si trasforma in Sade nello specchio rovesciato di tale autonomia: in una celebrazione del boudoir quale spazio “a parte” del politico. In ultima istanza, in una vertigine senza fondo in cui la saturazione dell’uso del corpo si confonde con il suo annichilimento.
7. Macchina, corpo, legge
In un celebre brano dei suoi Passages, Walter Benjamin ha notato come la tendenza sadiana all’esposizione ostentata del particolare e del dettaglio anatomico risulti tutt’uno con una strategia finalizzata ad attribuire all’organismo stesso un’immagine meccanica, al corpo la funzione di un ingranaggio, alla totalità una figura di automa:
[v]olere scoprire gli aspetti meccanici dell’organismo è una tendenza persistente nel sadico. Si può dire che il sadico miri ad attribuire all’organismo umano surrettiziamente l’immagine dell’ingranaggio. Sade è figlio di un’epoca che si entusiasmava per gli auto mi[28].
Come aveva scritto anche l’abate Sieyès nel suo saggio sul Terzo Stato, «[j]amais on ne comprendra le mécanisme social, si l’on ne prend pas le parti d’analyser une société comme une machine ordinaire»[29].
Forse, anche questo aspetto può essere inserito all’interno di una riconfigurazione dei rapporti tra corpo individuale e istituzioni giuridiche attraverso la mediazione della funzione del codice quale testo finalizzato alla disciplina del soggetto.
In un importante studio sui presupposti antropologici della codificazione francese, Xavier Martin ha posto enfasi sulla natura tutt’altro che ottimistica dei ragionamenti che hanno guidato gli estensori del Code verso la sua storica promulgazione[30].
Nei Travaux préparatoires du Code civil, a emergere è invero una credenza per nulla “spiritualista” nei confronti della natura umana e al contrario profondamente consapevole dell’inscindibilità di interessi e bisogni, di regola e comando. L’uomo è solo un meccanismo diviso tra desideri e inclinazioni, per loro natura effimeri e cangianti; è incostante, non suscettibile di esprimere una volontà duratura; infine, è perennemente sottomesso a stimoli esterni ed interni. La natura umana è quindi incapace di seguire una volontà propria e si riduce a proiezioni di soggettività istantanee, temporanee, che non superano il gesto immediatamente ordinato da un appetito o da un desiderio.
Ribaltando un’intera tradizione che vedeva nell’Illuminismo francese la matrice più diretta della svolta legislativa napoleonica, Martin intravede invece il vero referente del Code non tanto in Rousseau, quanto in Hobbes. È su questo terreno che prende dunque forma il progetto codicistico: se la persona umana appare unicamente sotto la forma di un meccanismo di appetiti legislativamente orientabili, allora è proprio la funzione normativa ad assurgere a ruolo centrale nell’organizzazione dell’ordine sociale. Dal lato opposto, la logica meccanicistica è ciò che consente meglio e più efficacemente di sfruttare le potenzialità del corpo e raggiungere il piacere della carne[31].
Segreta corrispondenza con Sade-Pasolini: l’organismo meccanicamente ordinato dal codice e disciplinato dalle sue disposizioni si frammenta in brandelli di corpo estraibili, seviziabili, deformabili gratuitamente. In un certo senso, tanto nell’universo sadiano quanto in quello pasoliniano non si fuoriesce mai dallo “stato di natura”. Le istituzioni civili, pur con le loro raffinate prescrizioni giuridiche e le loro apparenti garanzie, ne replicano al contrario la brutale logica di dominio e di sopraffazione. Lo Stato, questo essere astratto inesistente in natura e frutto di artificio e ingegno, commette l’orrore più grande di tutti: legittimare l’omicidio con il nome di pena di morte[32].
Ancora una volta, legalità contro legittimità; cultura contro natura. O forse, “istinti” contro “istituzioni”[33]. Il sorriso beffardo di Sade, così come la macchina da presa sapiente di Pasolini, indicano che anche la più perfetta delle costruzioni può essere infine smontata. Ciò che ne resta sono solo i frammenti nudi del suo meccanismo, privi di qualunque direzione, esibiti unicamente per ciò che realmente sono: parti smembrate di un tutto.
[1] Così da ultimo M. Recalcati, Pasolini. Il fantasma dell’Origine, Feltrinelli, Milano, 2022.
[2] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 11.
[3] Cfr. in questo senso, D. Le Breton, Antropologia del corpo, Meltemi, Milano, 2022.
[4] Così J.-L. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli, 2010.
[5] P.P. Pasolini, “Abiura della «Trilogia della vita»”, in Id., Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 71.
[6] Sulla trasposizione dell’opera di Pasolini e i suoi intrecci con Sade, il fascismo e i meccanismi del potere consumistico si veda anche A. Naze, “De Silling à Salo. Usages pasoliniens de Sade”, in Lignes, Vol. 14, 2004/2, pp. 113-114.
[7] G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, ombre corte, Verona, 2013, p. 43 e ss.
[8] Si vedano ampiamente S. Murri, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma, Lindau, Torino, 2007; A. Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
[9] Sul destino giudiziario che spesso ha accompagnato le opere di Pasolini, cfr. F. Aliberti, A. Di Nuzzo, E. Lavagnini, Il Libro Bianco di Pasolini, Compagnia editoriale Aliberti, Reggio Emilia, 2022.
[10] La liaison Pasolini-Sade, nonché la correlazione tra sadismo e fascismo, è stata oggetto di accese discussioni da parte di critici letterari e cinematografici. Per un resoconto del dibattito, cfr. N. Greene, Pier Paolo Pasolini. Cinema as Heresy, Princeton University Press, Princeton, 1990, p. 197 e ss. Ben nota è la reazione (non del tutto entusiasta) di Italo Calvino (in Id., “Sade è dentro di noi [Pasolini, Salò]”, in Saggi, vol. II, a cura di M. Barenghi, Meridiani Mondadori, Milano, 2007, p. 1933), così come quella – altrettanto critica – di Roland Barthes (Id., “Sade-Pasolini”, in Sul cinema, a cura di S. Toffetti, il melangolo, Genova, 1997, p. 159).
[11] R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Einaudi, Torino, 1971, pp. 115-116.
[12] Si veda su questo aspetto E. Marty, “Foucault et la folie sadienne. Retour sur une relation énigmatique (Sade à Charenton)”, in Fabula / Les colloques, Sade en jeu, disponibile al link: http://recherche.fabula.org/colloques/document5874.php.
[13] Sull’immagine dell’occhio scrutatore della legge, cfr. M. Stolleis, L’occhio della legge. Storia di una metafora, Carocci, Roma, 2007.
[14] F. Ost, Sade et la loi, Odile Jacob, Paris, 2005.
[15] M. Foucault, “I problemi della cultura. Un dibattito Foucault-Preti”, in Il Bimestre, Voll. 22-23, 1972, pp. 1-4; cfr. anche J. Miller, The Passion of Michel Foucault, Simon & Schuster, New York, 1992, p. 278.
[16] Barthes, Sade, cit., p. 19.
[17] Ibid., p. 10.
[18] Cfr. P. Mengue, L’ordre Sadien. Loi et narration dans la philosophie de Sade, Editions Kimé, Paris, 1996.
[19] M. Foucault, “Sade, sergent du sexe (1975)”, in Dits et écrits, vol. I, Gallimard, Paris, 2001, p. 1686.
[20] Ibid., pp. 1689-1690.
[21] J. Lacan, “Kant con Sade” (1963), in Id., Scritti, Vol. II, Einaudi, Torino, 1974, p. 764.
[22] Barthes, Sade. cit., pp. 19-20.
[23] Come opportunamente notato anche da G. Deleuze, Presentazione di Sacher-Masoch, Bompiani, Milano, 1978, p. 6: «[i]nfatti il potere delle parole è totale nell’ordinare la ripetizione dei corpi».
[24] M.F. Mourlon, Répétitions écrites sur le Code civil (1846), vol. 1, Garnier, Paris, 1896, p. 62. Per un commento in proposito, cfr. M. Vidal, “La propriété dans l’Ècole de l’Exégèse en France”, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Vol. 5-6, Nº 1, 1976-1977, p. 10.
[25] Così G. Bennington, “Sade: Laying down the Law”, in Oxford Literary Review, Vol. 6, N. 2, 1984, p. 40.
[26] M. Hénaff, Sade.The Invention of the Libertine Body, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1999, p. 17 e ss.
[27] Come scrive G. Agamben (L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014, p. 129): «[s]e il soggetto sovrano è innanzitutto sovrano sul proprio corpo, se l’intimità – cioè l’uso di sé in quanto inappropriabile – diventa qualcosa come la so stanza biopolitica fondamentale, si comprende allora che in Sade essa possa presentarsi come l’oggetto del primo e inconfessato diritto del cittadino: ciascun individuo ha diritto di condividere a suo piacimento l’inappropriabile dell’altro. Comune è innanzitutto l’uso dei corpi».
[28] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Id., Opere complete, vol. ix, Einaudi, Torino, 2000, p. 408.
[29] E. Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers État?, PUF, Paris, 1982, p. 65.
[30] X. Martin, “Nature humaine et Code Napoléon”, in Droits, Vol. 2, 1985, pp. 117-128.
[31] Sulla teoria del “fluido elettrico”, cfr. l’analisi di A. Longo, “Sade, animalità e materialismo”, in N. Sansone, La filosofia del Marchese De Sade, Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 31-48.
[32] Aspetto su cui si sofferma H. Jallon, Sade. Le corps constituant, Michalon, Paris, 1997, pp. 53-83.
[33] Seguendo in tal senso, G. Deleuze, Istinti e istituzioni, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
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