ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Danni, danni a cascata nell’interdittiva antimafia illegittima (nota a CGRS n. 233/2024)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini***
Sommario: 1. Cenni sulla vicenda contenziosa e prime valutazioni; 2. Gli elementi del risarcimento del danno e interdittiva antimafia; 3. Riflessioni conclusive: garanzie necessarie ed indifferibili
1. Cenni sulla vicenda contenziosa e prime valutazioni
Le questioni relative al momento applicativo delle misure interdittive antimafia sono le più disparate e impongono una costante attenzione al fine di garantire un corretto bilanciamento degli interessi pubblici e privati coinvolti e scongiurarne l’eccessiva compressione [1].
In questa sede si vuole segnalare la recente pronuncia in materia di interdittiva antimafia illegittima e richiesta di risarcimento. In particolare, il massimo organo di giustizia amministrativa della regione Sicilia è stato chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da una società avverso la sentenza con cui veniva respinta la richiesta volta ad ottenere il risarcimento dei danni medio tempore subiti in conseguenza dell’adozione dell’informazione interdittiva antimafia, successivamente annullata con sentenza del TAR Sicilia - Palermo.
Come noto, il provvedimento interdittivo antimafia emesso dalla Prefettura provocava inevitabilmente delle conseguenze negative per l’impresa destinataria, la quale impugnava detto provvedimento e ne otteneva l’annullamento dal giudice amministrativo.
L’odierna appellante, altresì, proponeva ricorso per il risarcimento dei danni subiti in costanza di interdittiva antimafia successivamente dichiarata illegittima. Il giudice di prime cure respingeva la richiesta poiché non risultavano congruamente provati i danni che si intendevano subiti.
Così, l’impresa ha inteso appellare la pronuncia, riproponendo anche i motivi che il primo giudice riteneva assorbiti, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza all’emissione del provvedimento interdittivo dichiarato illegittimo dall’autorità giudicante.
Il CGRS pronunciandosi respingeva l’appello della pronuncia appellata.
Sicché, la sentenza in commento spinge ad alcune riflessioni per le motivazioni che seguono e necessita di alcuni preliminari osservazioni in fatto al fine di coglierne la portata.
In particolare, il provvedimento interdittivo adottato dalla prefettura e, poi, annullato dal Tar veniva motivato sul presupposto che l’appellante – nonché presidente del consiglio di amministrazione - “ha stretti legami di parentela con persone pregiudicate per reati di associazione di tipo mafioso essendo nipote di: -OMISSIS- -OMISSIS-, in atto detenuto, per essere stato condannato all’ergastolo per i reati di associazione mafiosa, omicidio ed estorsione, già sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno....; -OMISSIS- - OMISSIS-, classe -OMISSIS-, deceduto nel 1997, ritenuto probabile fiancheggiatore della locale famiglia -OMISSIS-”.
Al contempo, in sede di istruttoria la Prefettura aveva emesso in favore di un’altra società una informativa favorevole, nonostante la presenza nella medesima impresa del padre dell’appellante, già destinatario - in prima persona - di provvedimenti penali.
Così, in primo grado, l’odierna appellante sottolineava la contraddittorietà della valutazione formulata dalla prefettura sui medesimi rapporti di parentela per l’una e per l’altra società ed il TAR annullava l’interdittiva emessa nei confronti dell’appellante per vizio di motivazione, in quanto risultava fondata solo su un rapporto di parentela con un soggetto considerato fiancheggiatore di una cosca locale. Inoltre, il giudice di primo grado aggiungeva come emergesse “una oggettiva ed irrimediabile insufficienza motivazionale dell’atto prefettizio, viziato pure da eccesso di potere per contraddittorietà nell’esercizio del potere: pochi anni prima, infatti, la Prefettura appellata risulta aver considerato irrilevanti, ai fini del giudizio di condizionamento mafioso, gli stessi elementi poi viceversa valorizzati in senso negativo per la appellante nell’atto qui gravato”.
Dunque, è evidente come, in questo caso (come in tante altre occasioni), la Prefettura, fondando le proprie ragioni sul principio del più probabile che non, espelle per effetto diretto delle sue determinazioni, operatori economici dal mercato, causandone la “morte economica” con effetti devastanti.
Talvolta, ponendosi dal lato prospettico del soggetto privato, è evidente come le proprie aspirazioni a vedere garantito un diritto costituzionale e la successiva estrema compressione a fronte di esigenze di sicurezza pubblica che ampliano estremamente la discrezionalità prefettizia, abbia determinato una sorta di sfiducia nei confronti del potere pubblico.
Allora, il privato che ritiene di aver subito danni ingiusti in conseguenza di un provvedimento illegittimo deve ottenere, almeno in sede giudiziaria, la possibilità di ottenerne il riconoscimento.
Un altro è il quesito che si svela: su chi ricade l’onere della prova per il risarcimento del danno che si ritiene causato da un provvedimento interdittivo antimafia illegittimo? È sull’amministrazione che ricade l’onere della prova circa le sue determinazioni oppure, come meglio si tratterà nei paragrafi seguenti, è il privato a dover provare gli elementi di responsabilità della P.a.?
2. Gli elementi del risarcimento del danno e interdittiva antimafia
Come detto, il CGRS è stato chiamato a pronunciarsi sul risarcimento del danno conseguente all’emissione del provvedimento interdittivo successivamente annullato dal TAR.
Il risarcimento del danno non costituisce ex se una conseguenza diretta ed automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo. In sede di risarcimento del danno è necessario procedere alla verifica non solo della lesione della situazione giuridica soggettiva, ma anche del nesso causale tra illecito e danno subito e, altresì, della sussistenza della colpa o del dolo dell’amministrazione.
Pare, dunque, utile soffermarsi preliminarmente sulla posizione dell’appellante che individua due indici al fine di provare la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa grave in capo all’amministrazione procedente:
- la mancata osservanza della normativa e dell’unanime giurisprudenza formatasi in relazione ai rapporti di parentela in sé considerati;
- l’incoerenza e la contraddittorietà nella valutazione delle medesime circostanze in due procedimenti differenti.
I giudici a quo ritengono, contrariamente all’orientamento del Consiglio di Stato, che i suddetti elementi devono essere provati dalla parte ricorrente e la mancanza soltanto di uno solo di essi determina l’infondatezza della pretesa.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo, al fine di addivenire alla configurazione della responsabilità aquiliana della p.a. per l’illegittimo esercizio del potere e, dunque, allo scopo di accertare l’illegittimità del provvedimento successivamente annullato, è opportuno, secondo il CGRS verificare la sussistenza di un ulteriore elemento: la “rimproverabilità soggettiva” della P.A[2].
Trattasi di elemento soggettivo che diventa di difficile individuazione posta l’ampia discrezionalità riservata all’autorità prefettizia in materia di interdittiva antimafia.
Così, si rende necessario procedere all’individuazione dei caratteri della colpa della pubblica amministrazione, con specifico riferimento alle attività amministrative nel contesto delle informative antimafia, previste agli artt. 90 ss. del d.lgs. n. 159 del 2011.
Dunque, il Collegio tenta una ricostruzione degli estremi della configurabilità della colpa dell’amministrazione in materia di provvedimenti interdittivi, ritenendo di dover considerare il fine ultimo dell’informazione ovvero quello di frontiera avanzata nel contrasto all’infiltrazione mafiosa nell’economia legale.
Sul punto è ormai consolidata la giurisprudenza amministrativa[3] che ritiene come “la misura dell’interdittiva antimafia obbedisce a una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e non postula, come tale, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso, potendo, perciò, restare legittimata anche dal solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale”.
L’elasticità della misura è scelta consapevole del legislatore che affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “… di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società …” (art.84, comma 3, Cod. Ant.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Seppur le fattispecie considerate impongono misure elastiche, chi scrive - da tempo - auspica una maggiore partecipazione del destinatario e maggiori garanzie, al fine di evitare di trasformare la lotta alla mafia in uno stato di polizia che finisce, inevitabilmente, per bloccare l’iniziativa economia, così violando i principi fondamentali [4].
Anche i labili limiti posti dal legislatore sono da ricercare già nella scelta delle parole utilizzate: “eventuali”, “tentativi”, “probabile”, “possibile”.
Tutto ciò si riversa nell’attività degli operatori che devono applicare la norma alla fattispecie, trovandosi nella circostanza di dover fronteggiare un fenomeno molto più ampio della propria discrezionalità.
Dunque, la scelta condiziona l’intero procedimento, il quale si conclude con il provvedimento interdittivo che si allontana dalle tipiche garanzie che connotano l’agéreamministrativo. Sulla spinta di quanto detto, il Collegio fa discendere la difficile configurazione dell’elemento soggettivo nel giudizio di risarcimento del danno.
Le valutazioni del prefetto sono, dunque, volutamente opinabili: non si tratta di valutare un fatto, bensì valutare la probabilità di un determinato evento senza alcun elemento o criterio fermo e di facile individuazione. Tutto ciò finisce per mettere in difficoltà le imprese, le autorità prefettizie e, in un successivo momento, anche l’autorità giudiziaria [5].
Più volte siamo ritornati sul tema della funzione cautelare e preventiva [6] della misura antimafia, evidenziando come proprio detta natura imponga l’evasione da schemi rigidi e parametri stagnanti, incapaci di fronteggiare una realtà mutevole e camaleontica: è opportuno operare un costante bilanciamento con le garanzie di partecipazione al procedimento e per il tramite di indicatori chiari e predeterminati [7].
Pertanto, l’attività provvedimentale relativa alle informative antimafia viene configurata, dallo stesso legislatore, come attività fondata su valutazioni opinabili, in quanto relative all'apprezzamento di rischi (di possibili condizionamenti) e non all'accertamento di fatti.
L’ampiezza del perimetro in cui si muove il prefetto imporrebbe maggiori garanzie per il destinatario del provvedimento, sia in fase procedimentale che nell’eventuale successiva fase processuale. È evidente che bilanciare l’interesse privato (tutelato anche a livello costituzionale) e l’interesse pubblico al contrasto dell’infiltrazione mafiosa, sia attività tendente verso il secondo; pertanto, è necessario irrobustire l’apparato di garanzie nei confronti del primo, il quale sovente diviene semplice destinatario di un destino che, talvolta, non è il proprio.
In aggiunta, il Collegio richiama la giurisprudenza che ha evidenziato come il paradigma dell’attività provvedimentale generale sia differente dall’attività provvedimentale in materia di interdittiva antimafia e dunque, “si può quindi tracciare una essenziale divaricazione rispetto al modello dell’attività provvedimentale di carattere generale, poiché quest’ultima è strutturata e regolata dalla definizione esatta, ad opera della disposizione legislativa attributiva del potere, dei presupposti stabiliti per la legittima adozione dell’atto in cui si esplica la funzione, che, per quanto connotato da scelte discrezionali, resta strettamente vincolato alla preliminare verifica della sussistenza delle condizioni che ne autorizzano l’assunzione;
- l’attività provvedimentale attinente alle informative antimafia risulta, al contrario, configurata dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, di consistenza magmatica siccome attinenti all’apprezzamento di rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi, ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata [8].
Invero, è dalla funzione anticipatoria della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che discende l’ampiezza della discrezionalità dell’autorità prefettizia e, a cascata, gli effetti sul soggetto privato.
Allora, posti i danni che possono conseguire ad un provvedimento interdittivo pare necessario equilibrare l’ago della bilancia e prevedere maggiori garanzie per il soggetto privato che, talvolta, si trova travolto in primis dall’interdittiva antimafia e poi a cascata da ogni conseguenza ad essa connessa.
3. Riflessioni conclusive: garanzie necessarie ed indifferibili
A valle di quanto ricostruito, il Collegio ritiene che discendono due conseguenze sistemiche.
La prima è quella di sottoporre i provvedimenti prefettizi in materia di antimafia a una effettiva verifica giurisdizionale, pena la loro illegittimità costituzionale.
In effetti, con il sistema attuale, soltanto in tal modo è possibile fronteggiare l’ampia discrezionalità ovvero sottoponendo i provvedimenti antimafia ad un altrettanto ampio margine di valutazione da parte del giudice amministrativo.
Sicché, si può sostenere - come affermato più volte dalla giurisprudenza - che tale ambito “sarebbe del tutto incompatibile con la moderna configurazione dell’oggetto e della funzione del processo amministrativo, ispirato al canone dell’effettività della tutela, dotato di un sistema rimediale aperto e conformato al bisogno differenziato di tutela. La tutela giurisdizionale, per essere effettiva e rispettosa della garanzia della parità delle armi, deve consentire al giudice un controllo penetrante in tutte le fattispecie sottoposte alla sua attenzione”[9].
Invero, prevedere un’ampiezza d’azione maggiore per la magistratura, seppur ex post, potrebbe rappresentare un momento di tutela e garanzia per il soggetto privato dinnanzi ad una estrema compressione dei propri diritti.
Secondo il Collegio, la seconda diretta conseguenza attiene alla configurabilità della colpa dell’amministrazione nell’ambito dei provvedimenti prefettizi antimafia, proprio in ragione della discrezionalità (senza confini) che deve coniugare la funzione, la natura e i contenuti dello stesso.
Allora, come sostenuto in modo consolidato dalla giurisprudenza amministrativa: “Non si potrà, in particolare, evitare di assegnare il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione. Come si è visto, infatti, il paradigma legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n.159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “…di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società…” (art.84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso” [10].
Così, nel caso che qui ci occupa, il Collegio (e dunque come in ogni altra circostanza del medesimo genus), ritiene di invocare le cause esimenti enucleate in via generale dalla giurisprudenza per escludere la colpa dell’amministrazione nella sua libera valutazione.
In aggiunta, il Collegio intende scindere la valutazione di legittimità della informativa antimafia ed il giudizio di colpevolezza dell’amministrazione, poiché attinenti a presupposti differenti e, pertanto, non automaticamente sovrapponibili.
Il Collegio, inoltre, invoca “il beneficio dell’errore scusabile con conseguente esclusione della colpa e, quindi, della responsabilità dell’amministrazione procedente nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative, trasmesse al Prefetto dagli organi di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un giudizio probabile sul tentativo di infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate, in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la misura dell’interdittiva”.
Così, nella fattispecie in commento viene esclusa la responsabilità dell’amministrazione prefettizia, non ritenendosi fondata la doglianza della appellante, secondo cui “nel caso di specie l’Amministrazione odierna appellata ha certamente agito con negligenza ed imperizia nell’adottare il provvedimento interdittivo successivamente annullato e gravemente pregiudizievole degli interessi dell’odierna appellante, ponendo in essere un comportamento così negligente da superare la soglia della scusabilità”.
Pertanto, il giudice non ritiene fondato il motivo di ricorso, in quanto assume i rapporti di parentela della destinataria dell’informazione antimafia idonei a supportare la determinazione del provvedimento prefettizio, seppur successivamente annullato dal giudice.
Dunque, secondo il CGRS l’assunto del quadro indiziario successivamente valutato inidoneo dal giudice con diretta declaratoria di illegittimità del provvedimento non è argomento validamente spendibile e automaticamente concludente in sede di giudizio di responsabilità [11].
Non pare condivisibile la posizione del massimo organo di giurisprudenza della Regione Sicilia che contrasta con la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “spetta pertanto all’Amministrazione dell’interno, in caso di informativa antimafia illegittima, provare che il proprio errore sia frutto di cause oggettive o della “complessità delle questioni da esaminare al fine di ricostruire un quadro indiziario attendibile, in presenza di diversi elementi sui quali si fondano comunemente i provvedimenti di cautela antimafia (frequentazioni, parentele, rapporti di affari, contatti da parte di soci con soggetti controindicati)” [12].
Anzi, lo stesso CGRS in altra pronuncia afferma che “la giurisprudenza ormai consolidata ha ritenuto superfluo gravare il danneggiato di un ulteriore e autonomo onere di provare l’elemento soggettivo dell’illecito, atteso che in linea di principio e ordinariamente, la colpa può ritenersi presunta una volta che sia accertata l’illegittimità del provvedimento.
Si tratta di una esemplificazione dell’onere della prova, che grava pur sempre sul danneggiato, esemplificazione che si fonda sulla duplice circostanza che il danneggiato ha già provato l’illegittimità del provvedimento e che, ordinariamente, l’adozione di un atto illegittimo costituisce di per sé un indice sintomatico plausibile di una colpa dell’apparato amministrativo.
Tale esemplificazione probatoria si traduce in una presunzione, tuttavia non assoluta ma relativa, che consente la prova contraria, con una inversione dell’onere probatorio.
Ribaltate le posizioni, spetta alla Amministrazione autrice dell’atto illegittimo dimostrare l’assenza di colpa nonostante l’adozione di un atto di cui sia comprovata l’illegittimità” [13].
Dunque, porre l’onere della prova a carico della P.a. procedente, pare più conforme ad un assetto delle posizioni pubblico- privato. La pronuncia in commento offre la possibilità di riflettere su un sistema che necessita di una urgente riforma, al fine di evitare la morte di imprese in un contesto di ripresa dell’economia del paese.
Essere destinatari di interdittiva antimafia vuol dire essere fuori da un’ampia fetta di mercato e, sovente, significa non garantire, non solo la continuità aziendale ma anche e soprattutto il lavoro ai dipendenti dell’azienda interdetta.
La pronuncia in commento si conclude con la condanna alle spese per l’appellante, così determinando l’ennesimo danno a carico dell’impresa.
Siamo sicuri che il sistema per come oggi formulato garantisce il rispetto dei principi minimi del nostro ordinamento? Siamo sicuri di poter continuare ad assistere a danni a cascata a carico di imprese che già agiscono in contesti aridi soltanto attraverso valutazioni probabilistiche e non predeterminate?
Questi problemi, insieme ad altri, impongono costante ed attenta osservazione da parte della dottrina giuspubblicistica.
*** Seppur frutto di un lavoro congiunto è possibile attribuire il 3 paragrafo al Prof. Renato Rolli e i restanti alla dott.ssa Martina Maggiolini
[1] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, Dura lex, sed lex. Scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, interdittive prefettizie antimafia e controllo giudiziario” in Istituzioni del Federalismo, n. 1/2022
[2] E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi (nota a sentenza: Consiglio di stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482), in Urb. app., 6/2012, 694 ss.; M.C. Cavallaro, La rilevanza dell’elemento soggettivo nella struttura dell’illecito della pubblica amministrazione: un ulteriore chiarimento del Consiglio di Stato, nota a Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32, in Nuove autonomie, 4-5/2005, 741 ss.; O. Ciliberti, L’elemento soggettivo nella responsabilità civile della pubblica amministrazione conseguente a provvedimenti illegittimi, in La responsabilità civile della pubblica amministrazione, E. Follieri, (a cura di), Giuffrè, Milano, 2004, 251; S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle amministrazioni pubbliche, Giappichelli, Torino, 2008; F. Fracchia, L’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione, in Atti del Convegno di Varenna 2008, Giuffrè, Milano, 2009, 211; F. Trimarchi Banfi, La responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa. Questioni attuali, Giappichelli, Torino, 2009, spec. 87 e ss; Sul risarcimento ampiamente: M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n.3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU.23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011; F. Fracchia, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi; e ancora: A. G. Orofino, L’irrisarcibilità degli interessi legittimi: da giurisprudenza «pietrificata» a dogma in via d’estinzione?, in www.giustamm.it, 1999.
[3] C.d.s Adunanza plenaria n. 3 del 2018; Cons. St., sez. III, 15 settembre 2014, n.4693; Cons. St., sez. III, 1 settembre 2014, n.4441
[4] Ampiamente M.A. Sandulli, Il contraddittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia, in questa rivista, 2023
[5] sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustizia insieme, 2020
[6] Cfr. A. Longo, La ‘massima anticipazione di tutela’. Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, Federalismi, n. 19/2019
[7] Cfr. R. Maria e A. Amore, Effetti «inibitori» delle interdittive antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta (5 maggio 2021), in Federalismi.it, n. 12/2021; G. D’Angelo, Il tentativo d'infiltrazione mafiosa ai fini dell'adozione dell'informazione interdittiva, tra garanzie procedimentali, tassatività sostanziale e sindacato giurisdizionale, in Foro it., 2021
[8] Cons. St., sez. III, 9 ottobre, 2023, n. 8765
[9] Cons., St., sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624
[10] Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3707/2015
[11] ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2157 del 2019
[12] Cons. St., sez. III, 5 giugno 2019, n. 3799
[13] CGRS n. 372/2020, 3 giugno 2020
La lettera dei detenuti del carcere Canton Mombello – Nerio Fischione di Brescia
di Claudio Castelli
La lettera dei detenuti del Carcere Canton Mombello – Nerio Fischione di Brescia è stata citata dal Presidente della Repubblica nel suo discorso del 24 luglio come esempio della drammatica situazione carceraria. Una citazione significativa e preziosa, perché la lettera dei detenuti del carcere di Brescia merita una lettura per la forza della denuncia (una “descrizione straziante” come ha sottolineato il Presidente della Repubblica) e per la loro scelta matura e non facile di scegliere la strada del confronto istituzionale e della protesta civile.
A fronte di condizioni insostenibili, ben rappresentate dai 60 suicidi in carcere nel solo 2024, stupisce l’inerzia sia quanto agli interventi legislativi (il recente decreto governativo non è chiaramente risolutivo), sia quanto alle iniziative amministrative.
Inerzia evidente nella situazione bresciana.
Canton Mombello è il secondo carcere più sovraffollato di Italia con 384 detenuti per 182 posti in una struttura fatiscente, con le docce sopra le latrine. Nel frattempo da anni è stato approvato un progetto per l’ampliamento dell’altro carcere di Brescia, quello di Verziano, per cui erano già stati stanziati fondi (divenuti nel frattempo insufficienti).
La situazione pareva aver avuto una svolta dopo la conferenza convocata il 27 ottobre 2023 dal sottoscritto quale Presidente della Corte di Appello, dal Procuratore Generale Guido Rispoli, e dalla Presidente del Tribunale di sorveglianza Monica Calì, per denunciare le intollerabili condizioni carcerarie e per sollecitare lo sblocco dell’inizio dei lavori a Verziano. Erano intervenuti Ministero, Comune, parlamentari e consiglieri regionali del territorio, l’avvocatura che avevano manifestato totale consonanza con l’iniziativa.
In apparenza la conferenza era stata un successo, con un impegno del sottosegretario, senatore Ostellari, che aveva assicurato che erano stati reperiti altri fondi per consentire l’ampliamento di Verziano e con una disponibilità dei politici intervenuti, di tutti gli schieramenti, ad operare per superare una situazione che tutti avvertivano come intollerabile.
Ora dobbiamo riscontrare che nonostante l’impegno della città e delle sue istituzioni tutto appaia ancora fermo e la lettera dei detenuti bresciani suoni come un appello davvero “straziante”.
Il carcere di Canton Mombello – Nerio Fischione è del tutto inadeguato ed è ben difficile che possa essere recuperato alla vivibilità con lavori di manutenzione; vanno quindi adottate con urgenza tutte le iniziative per porre termine al sovraffollamento con scelte politiche coraggiose, senza più rinvii e perdite di tempo.
Ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, evitando ulteriori ritardi ed inerzie.
Anche noi, come magistrati dobbiamo avvertire una particolare responsabilità, perché è a seguito delle nostre decisioni (misure cautelari e condanne) che un cittadino finisce in prigione. E non possiamo disinteressarci se la pena non si limita alla sola privazione della libertà, ma diventa inutilmente e gravemente afflittiva e degradante per le condizioni disumane della detenzione.
La citazione del Presidente della Repubblica ha acceso un faro su questa situazione, ma occorre darvi un seguito. La risposta deve essere data a livello politico innanzitutto prendendo misure efficaci di deflazione carceraria e per limitare i nuovi ingressi.
Spero che la lettura della lettera dei detenuti di Brescia possa essere istruttiva sia quanto alla realtà delle condizioni di detenzione, sia quanto alla maturità e dignità che vi traspare.
Chi scrive sono persone detenute, cittadini che meritano delle risposte.
LE NOSTRE RIFLESSIONI
Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso, anch'essi di sudore come i miei panni e le nostre membra.
Si boccheggia, in cella, e l'acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata doccia, evaporando riempie d'umidità l'angusto luogo.
L'aria satura d'umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli.
Devo andare in bagno, ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni ha il miostesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno.
Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo in gomma piuma.
In un attimo, lenzuola e materasso s'impregnano di liquame e urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato, impietrito, attonito.
Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire.
La sua colpa è quella d'aver commesso un grave reato:
Bancarotta Fraudolenta.
I suoi carnefici sono fuori, si sono approfittati di lui, di un vecchio che a stento sa leggere e scrivere. L'hanno circuito, e lui, è qui, in questo piccolo inferno, devastato nel corpo nella mente e nell'anima, ma in fondo questo non è un nostro problema.
Il nostro problema sono gli odori.
Il problema è suo, infatti, uno della cella si sta alzando irritato, gridando qualcosa d'incomprensibile nella sua lingua.
Probabilmente vuole mettergli le mani addosso, non lo fa per mera cattiveria, è lo stress, il caldo, gli odori insopportabili, il fatto che non parla la nostra stessa lingua e che non riesce a sentire la sua famiglia se non per dieci minuti a settimana.
È stanco arrabbiato, sofferente, lo siamo tutti.
Qualcuno si alza per ragionarci, per calmarlo, ma subito l'aria s'infiamma, cominciano a volare parole grosse e i primi spintoni, per fortuna altri intervengono e si riesce a placare gli animi,
Questa volta è andata bene, ma la situazione è sempre questa, e purtroppo, non tutte le volte termina cosi.
15 e un solo bagno, un vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri, per loro è la condizione migliore, una festa, per noi, forse un po' meno.
Questa combinazione è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di brutto può conseguirne.
Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell'acqua per farsi la doccia, che d'estate scotta dannatamente, e d'inverno, è maledettamente fredda.
A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti, e se è vero che quando tiri lo sciacquone, le feci nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni?
In fondo però, è notevolmente migliore della sbobba che ci servono dal carrello.
In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno.
Nei turni con noi, si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila.
Ben pensandoci però, più che mancanza d'intimità, non stiamo forse parlando di una vera e propria violenza?
Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente, proprio in linea con l'articolo 27 della Costituzione.
Di persone non auto sufficienti in questo Istituto ce ne sono parecchie, si può spaziare dalle malattie psichiatriche più accentuate sino alla tossicodipendenza, e come visto sopra, a malattie senili.
Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo, o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro.
E cosi, come soffriamo noi allo stesso modo, soffrono gli operatori che ci devono assistere, dagli Agenti per lasicurezza al personale sanitario, e che dire di quelle migliaia che in carcere sono finite, ma nulla avevano fatto per meritarlo?
Tutte persone incrinate, inevitabilmente, irreparabilmente, una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non.
Elevati sono i suicidi in carcere, 44 in soli cinque mesi e mezzo dall'inizio dell'anno, un gesto troppo estremo? Forse, ma è quello che viviamo qui che porta queste persone a compiere certi gesti, e qui di persone ce ne sono sicuramente troppe.
I gesti estremi accadono sempre vicino a noi, ti svegli una mattina e forse mestamente ti accorgi che nel bagno un tuo cancellino ha reso l'anima, oppure accade al vicino o al dirimpettaio.
È aberrante.
Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la disumanità, definite di tortura dall'Unione Europea, sopra, lo abbiamo ben spiegato.
La domanda giusta da porsi è: Come può funzionare il reinserimento? La così chiamata rieducazione? Come si possono svolgere i corsi organizzati?
Non solo manca personale, sono concretamente assenti gli spazzi.
Sappiamo che alcuni di voi sono già venuti a vedere le nostre celle, ma viverci è molto diverso.
Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né impietosire né mendicare, né invocare clemenza, ma solo riportare quanto è vero e ahinoi terribile.
Si certo, alcuni di noi meritano di stare in carcere, hanno commesso reati, è altresì verosimile che, questa mancanza pressoché totale, di umanità nei confronti dei carcerati non è forse pari a commettere dei reati?
È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, giorno dopo giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento.
La violenza fatta a quell'anziano prima citato, non è simile a compiere un reato, è uno dei tanti è vero, ma quanti, quanti ce ne sono come lui, non sono dei veri e propri reati, trattare le persone in questo modo, e non èforse vero che le condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al suicidio?
Non pensiamo sia edificante, ma umanamente avvilente per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è messo al collo ponendo fine alla sua esistenza.
Tutti possono sbagliare, ma il carcere deve essere impostato per rieducare, non per toglierci di mezzo, non penso che lo Stato attuale sia uno Stato non improntato al dialogo, anzi!
È proprio per questo che possono nascere dal dialogo vere e proprie soluzioni.
Vedere qui oggi le Signorie Vostre per noi è fonte di speranza, voi ci rappresentate, indifferentemente dall'appartenenza politica, voi ci rappresentate come persone, come abitanti di questo Bel Paese, l'Italia.
Il problema carceri in Italia è grande, non è di sicuro il nostro fiore all'occhiello.
In Europa ci rimproverano (2006-2013) per il nostro sistema carcerario, perché quindi, non provare ad ascoltare chi in carcere ci vive per immaginare possibili soluzioni?
Questo non vuol dire scendere a patti con nessuno, ma semplicemente sarebbe un atto di democrazia, un modo per riuscire a sistemare questo problema carceri, o perlomeno un punto da cui cominciare.
Da questo punto potrebbero nascere idee, e qui a Canton Mombello, il problema del sovraffollamento è eclatante, quindi perchè non cominciare da qui?
Sarebbe bello che compiendo un atto di umanità il nostro paese venisse visto in maniera diversa, in maniera positiva anche per il sistema carcerario oltre a tutto quello che di bello in Italia già c'è.
Leggendo i giornali abbiamo letto che alcuni, considererebbero la concessione dei giorni in più di Liberazione Anticipata come un fallimento dello Stato.
Noi ci chiediamo: "Perché concedere dei giorni in più di liberazione anticipata a persone "meritevoli" sarebbe un fallimento?"
Abbiamo visto, che non è facile essere meritevoli, sappiamo, che solo chi ha fornito prova di partecipazione ad un percorso rieducativo e riabilitativo può beneficiare di detti giorni, abbiamo osservato come non sia semplice rientrare nelle maglie di questa rete, quindi, davvero sarebbe un fallimento?
Personalmente crediamo che non si tratti per nulla di un fallimento, al contrario sarebbe la concreta dimostrazione che lo Stato c'è, e ha vera volontà di cambiare le cose, di migliorare la vita a tutti i suoi cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato, ma che comunque non sono esclusi.
Ad oggi, causa il sovraffollamento, il carcere non mette in condizioni nessuno di essere rieducato, e fa vivere pesanti condizioni anche ai suoi operatori.
Come può un sistema che mette in avaria il suo stesso personale, passando da quello sanitario, dell'area educativa sino agli Agenti che con un giuramento si prodigano tutti i giorni in questo lavoro, funzionare?
Cosi come i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento, gli stessi operatori sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa.
Tutti quanti sono messi a dura prova ogni giorno, e alla nostra sofferenza si somma la loro.
Chi vuole, cerca e si prodiga per la rieducazione, conscio dei propri errori, si ritrova a lottare per frequentare corsi, che non possono esserci per tutti, poiché siamo davvero tanti.
Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia, desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta di migliorarci come persone, e a cosa servirebbero i Giorni aggiunti di Liberazione anticipata se non a migliorare questo sistema?
Con la concessione di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma s'incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza ai meritevoli.
Un ritardo voluto?
Considerazioni sulla mancata elezione di un giudice costituzionale da parte del Parlamento in seduta comune
di Francesca Biondi e Pietro Villaschi
1. Da quasi un anno ormai, la Corte costituzionale lavora a ranghi ridotti. L’11 novembre 2023 è, infatti, terminato il mandato della Presidente Sciarra e il Parlamento in seduta comune, cui la Costituzione affida l’elezione di un terzo dei quindici componenti del collegio, non ha ancora scelto il successore. Tale ritardo pare destinato ulteriormente ad aggravarsi. Andato, infatti, a vuoto anche l’ultimo scrutinio dello scorso 25 giugno, le Camere riunite si sono aggiornate a data da destinarsi.
Tra le forze politiche sembra serpeggiare l’idea di attendere la scadenza, a dicembre 2024, di altri tre giudici di nomina parlamentare (l’attuale Presidente Barbera e i vice-presidenti Modugno e Prosperetti), per procedere alla loro sostituzione in un’unica tornata. La volontà di seguire una logica “a pacchetto” è evidente spia della difficoltà delle forze politiche di trovare un accordo su un solo nome.
Come noto, per eleggere un giudice costituzionale i quorum fissati dalla Costituzione sono assai elevati (due terzi dei componenti del Parlamento in seduta comune per i primi due scrutini e tre quinti dal terzo in poi) e, dunque, un’intesa con almeno una parte delle forze di opposizione è necessaria. Anche se – va segnalato – oggi sarebbe sufficiente il “soccorso” di una decina di parlamentari di opposizione per permettere all’attuale maggioranza di scegliere “il” o “i” giudici mancanti[1].
Il rinvio dell’elezione, in altri termini, appare rivelatore della volontà di adagiarsi su una logica spartitoria, che è quanto di più lontano dal senso profondo delle maggioranze volute dalla Costituzione[2], che imporrebbero, al contrario, scelte condivise tra maggioranza e opposizione con l’obiettivo di individuare personalità di grande prestigio e competenza da far sedere a Palazzo della Consulta. Quello che se ne ricava è, come già evidenziava G. Zagrebelsky, una «concezione patrimoniale dei posti presso la Corte costituzionale»[3], da occupare con nomi che siano graditi a chi li nomina.
Non solo. Una simile scelta è gravida di ulteriori conseguenze.
Anzitutto, già da mesi la Corte costituzionale lavora con una composizione “squilibrata” e a ranghi ridotti. Mancando, infatti, un giudice di nomina parlamentare, negli equilibri interni alla Corte le altre due componenti (formate dai giudici nominati dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature) sono numericamente prevalenti.
Inoltre, essendo l’organo di giustizia costituzionale composto da quattordici membri, il voto del Presidente diviene decisivo qualora si verifichi una situazione di parità in seno al collegio[4].
Quando ci si avvicinerà alla scadenza degli ulteriori tre giudici, tali storture si acuiranno, dal momento che questi ultimi (attuale Presidente compreso) non parteciperanno più alle udienze e alle camere di consiglio in cui si dovessero discutere cause le cui decisioni essi non farebbero in tempo a firmare[5].
Se si attenderà a eleggere il giudice mancante sino a dicembre 2024, i giudici da nominare diventeranno addirittura quattro (situazione questa mai verificatasi nella storia repubblicana), e la Corte dovrà lavorare, per un periodo più o meno lungo, con undici componenti, soglia che la legge n. 87 del 1953 individua come limite minimo affinché la Corte stessa possa funzionare. Si prefigurerebbe, quindi, il rischio che l’inerzia del Parlamento si spinga sino a determinare la paralisi dell’organo supremo di giustizia costituzionale. Prosaicamente, basterebbe un’influenza che colpisca uno degli undici giudici rimasti in carica e tale scenario diverrebbe realtà.
In definitiva, il ritardo nella scelta dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune si risolve in una lesione di quel principio di leale collaborazione che dovrebbe presiedere i rapporti tra gli organi dello Stato: subordinando l’adempimento di un dovere costituzionale ai tempi e alle alchimie della politica, il Parlamento espone il collegio al rischio di funzionare a ranghi ridotti e squilibrati, se non, addirittura, di paralizzarsi[6].
2. Allargando lo sguardo rispetto alla contingente vicenda, va ricordato che l’individuazione del meccanismo di rinnovo dei giudici della Corte costituzionale e le problematiche connesse al possibile ritardo da parte delle Camere nella sostituzione dei posti vacanti non costituiscono una novità di questi ultimi anni. Si tratta, al contrario, di questioni dalle radici antiche, che impegnano la riflessione costituzionalistica sin dalle origini[7].
In principio, l’art. 135 della Costituzione e, soprattutto, la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 del 1953, regolavano l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale per mano del Parlamento in seduta comune in modo diverso da quello attuale.
Anzitutto, era richiesta la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti dei presenti negli scrutini successivi al terzo. Si trattava, quindi, di quorum più bassi rispetto a quelli odierni, ma che, comunque, richiedevano un’ampia convergenza (non fu considerata la proposta, pure avanzata in dottrina[8], di non prevedere alcuna maggioranza qualificata)[9].
Ma soprattutto, per quello che qui più interessa, differente era il sistema di rinnovo delle cariche.
L’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, optò, infatti, per un rinnovo parziale della Corte costituzionale, con l’obiettivo di assicurare il più possibile la sua indipendenza dalle forze politiche che avevano avuto modo di partecipare alla sua prima elezione. E così, era previsto che il mandato dei giudici durasse dodici anni, ma anche che, tra i giudici nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte, due per ciascuna componente (scelti mediante sorteggio dalla Corte stessa) sarebbero stati rinnovati anticipatamente decorsi nove anni, mentre i restanti nove sarebbero stati sostituiti al termine del dodicennio. Quanto ai rinnovi successivi, la disposizione conteneva un comma di dubbia interpretazione (definito in dottrina un “rompicapo”[10]), in quanto stabiliva: «successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni». Insomma, la legge costituzionale n. 1 del 1953, nel testo originario, presupponeva il rinnovo contestuale dei giudici costituzionali in due “blocchi” di sei e nove e, per quanto riguarda il Parlamento in seduta comune, prefigurava, l’elezione contestuale di due giudici (dopo nove anni di attività della seconda formazione) e di tre giudici (dopo dodici anni). Questo sistema, che, nelle intenzioni del legislatore costituzionale, avrebbe determinato a regime un rinnovo scaglionato nel tempo, poteva tuttavia in concreto funzionare solo se tutti i giudici avessero terminato il mandato alla data prestabilita[11]. Invece, ben dieci giudici su quindici, per varie ragioni, si dimisero prima, tanto che ci si chiese se, per assicurare il funzionamento del congegno previsto dal legislatore del 1953, i giudici che fossero eletti in sostituzione di un giudice dimessosi anticipatamente, dovessero restare in carica per l’intero mandato oppure per il tempo residuo del mandato del giudice che venivano a sostituire.
In generale, comunque, l’obiettivo di tale complesso sistema era quello di evitare una scadenza in blocco di tutti i giudici costituzionali e di consentire, al contrario, un rinnovo parziale in tempi differenti e prestabiliti. La scelta di anticipare la scadenza di sei giudici (due di nomina presidenziale, due di nomina parlamentare, due scelti dalle supreme magistrature) mirava, inoltre, all’obiettivo di impedire proprio la logica delle nomine “a pacchetto” di più di tre giudici contemporaneamente: in altre parole, stante la disciplina originaria, non sarebbe stato possibile per il Parlamento - come accade invece oggi - procrastinare le nomina dei giudici per arrivare a eleggerne ben quattro in un’unica tornata.
Tuttavia, il meccanismo delineato dal legislatore del 1953 risultò eccessivamente rigido, complicato e di difficile applicazione pratica, tanto da sollevare, sin dal principio, più di una riserva[12]. Particolarmente significativo è che, nel settembre del 1963, il Presidente della Repubblica Segni abbia inviato un messaggio alle Camere con il quale criticava duramente proprio il sistema prefigurato dall’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953, che, riprendendo le parole del Capo dello Stato, nel disciplinare il rinnovo dei membri della Corte, poteva «produrre gravi inconvenienti», con particolare riferimento alla «durata variabile e incerta della nomina». Segni invitava, pertanto, le forze politiche ad abrogare, quanto prima, siffatta disciplina, per tornare al modello delineato originariamente dalla Costituzione, che prevedeva più semplicemente un mandato di dodici anni decorrente dalla data del giuramento[13].
Tali inviti furono recepiti pochi anni più tardi con l’approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha modificato l’art. 135 Cost.
Anzitutto, si decise di innalzare i quorum necessari per l’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune, richiedendo la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea nei primi due scrutini e dei tre quinti negli scrutini successivi al terzo (art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 1967). Tale ampliamento delle maggioranze necessarie per l’elezione dei giudici costituzionali è spiegato, in dottrina, con la volontà di “spoliticizzare” ancora di più la scelta dei giudici costituzionali di nomina parlamentare. È però anche possibile collegare l’allargamento delle maggioranze necessarie per eleggere i giudici costituzionali da parte delle Camere riunite con l’abrogazione del meccanismo di rinnovazione parziale-contestuale “a blocchi” previsto proprio dalla legge costituzionale n. 1 del 1953 e poc’anzi descritto.
Con la riforma del 1967, infatti, l’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1953 fu abrogato per introdurre un meccanismo, più lineare, che sancisce oggi il rinnovo parziale e progressivo di tutti i giudici della Corte costituzionale al venire meno dei singoli mandati: questi, senza distinzioni, rimangono quindi in carica per nove anni decorrenti dalla data del rispettivo giuramento e alla scadenza del termine cessano dall’ufficio e dalle funzioni esercitate sino a quel momento senza poter essere rinominati (art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1967, che ha riscritto l’art. 135 Cost.). Non è, quindi, prevista alcuna forma di prorogatio e, dunque, quando un giudice termina il proprio mandato, il suo posto rimane vacante sino alla nomina del sostituto.
Una norma transitoria ha poi fissato in dodici anni - decorrenti dalla data del giuramento - la durata del mandato dei giudici nominati prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1967, chiarendo che anche a questi ultimi si sarebbe applicato l’art. 135, comma 4, Cost., in base al quale alla scadenza del mandato i giudici costituzionali cessano dalle loro funzioni.
Il meccanismo entrato in vigore nel 1967 e mai più modificato prevede, quindi, un rinnovo parziale e continuo dei giudici costituzionali allo scadere dei rispettivi mandati novennali. Non è esclusa, in linea puramente teorica, una perfetta coincidenza nella scadenza dei mandati, ma si tratta di un’ipotesi limite, tanto è vero che nella prassi i vari giudici non scadono mai tutti insieme.
Queste previsioni vanno poi coordinate con l’art. 16, comma 2, della legge n. 87 del 1953, che stabilisce che la Corte non può funzionare con meno di undici giudici e con l’art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 1967 che richiede il rinnovo della carica vacante entro il termine (come sappiamo rivelatosi meramente ordinatorio) di un mese.
3. Il sistema vigente, più funzionale rispetto a quello originariamente previsto, ha sin qui consentito il costante rinnovo parziale della Corte costituzionale: quando un giudice termina il mandato, quale che sia la ragione, può essere immediatamente sostituito.
Ci sono stati, per la verità, ritardi, anche consistenti, nella nomina dei giudici della Corte costituzionale di elezione parlamentare[14]. Basti ricordare che, per sostituire i giudici Casavola e Spagnoli, ci vollero ben undici mesi; nel caso del giudice Caianiello, addirittura venti mesi; nel caso di Guizzi e Mirabelli, diciassette mesi; per Vaccarella, ben diciotto mesi[15].
In anni più recenti, però, la sensazione è che il rinvio dell’elezione sia stato sempre più spesso “voluto” per avere un “pacchetto” di cariche da coprire nella stessa tornata: talvolta, l’elezione del giudice costituzionale mancante è stata favorita dal fatto che le Camere o il Parlamento in seduta comune erano chiamati a eleggere i componenti di altri organi (il Csm, ad esempio); in altri casi, invece, come nel 2015, si attese che ben tre fossero i giudici della Corte da eleggere così da favorire un accordo in sede parlamentare (in un’unica tornata furono eletti i giudici Barbera, Modugno e Prosperetti).
Anche oggi, la direzione verso cui ci si sta orientando è quella di attendere la scadenza di altri tre giudici per nominarne quattro tutti insieme alla fine del 2024.
Se, quindi, il ritardo nella nomina dei giudici costituzionali da parte del Parlamento è una costante della storia repubblicana, la novità va rinvenuta nel numero elevato di giudici da eleggere contemporaneamente e, forse, nelle ragioni che sottostanno al rinvio.
Sono infatti ormai venute meno alcune risalenti convenzioni costituzionali che, pur rispondendo a logiche “spartitorie”, avevano quantomeno il pregio di regolare i rapporti tra le forze politiche, riducendo il rischio di stalli eccessivamente lunghi (e potenzialmente pericolosi per il funzionamento stesso dell’organo di giustizia costituzionale) e l’individuazione da parte della maggioranza di tutti (o quasi) i candidati da eleggere. Nel corso della c.d. Prima repubblica, si era affermata una convenzione costituzionale secondo la quale due giudici spettavano alla Democrazia cristiana, uno al Partito socialista, uno al Partito comunista ed uno ai partiti laici minori (liberale e repubblicano) a rotazione[16]. Pertanto, quando terminava il mandato un giudice indicato, ad esempio, dalla Democrazia cristiana, si provvedeva subito (o quasi) a sostituirlo con altro indicato dallo stesso partito, e così via.
In seguito, seguendo una logica “maggioritaria”, il Parlamento ha inaugurato una prassi differente, in base alla quale erano eletti due giudici indicati dalla maggioranza e due dall’opposizione “a blocchetti”, mentre il quinto giudice era indicato dalla maggioranza “del momento” con il gradimento dell’opposizione secondo una logica bipartisan[17].
Negli ultimi anni, si assiste ad una rottura di qualunque prassi pre-definita: le forze di maggioranza, se hanno i numeri, tendono a scegliere candidati a loro più graditi, eventualmente riservando all’opposizione un posto. In questa logica, avere più posti da coprire favorisce accordi anche dentro la maggioranza.
Oltre alle conseguenze già segnalate, si può ipotizzare che questa prassi non favorisca la scelta di personalità di ampio e condiviso prestigio: un conto, infatti, è trovare un accordo su uno o più nomi condivisi, sulla cui competenza nessuno può obiettare, altro è dividersi previamente i posti da coprire e lasciare a ciascun partito la scelta del “suo” candidato.
4. Non è un caso che diversi siano stati, in dottrina, i rimedi prospettati per provare a ovviare all’inerzia parlamentare[18].
Il primo è quello di un messaggio formale alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, al fine di richiamarle all’osservanza dei propri doveri istituzionali. Il 7 novembre 1991 il Presidente Cossiga, nell’inviare un messaggio, si spinse a minacciare lo scioglimento anticipato nel caso di perdurante inerzia del Parlamento in seduta comune. Il messaggio sortì l’effetto sperato, visto che in meno di una settimana si procedette all’elezione dei giudici mancanti. Tuttavia, la minaccia di scioglimento anticipato pare davvero una soluzione limite e rischia, peraltro, di rivelarsi un’arma spuntata, non potendo garantire che le Camere procedano in tempo utile all’elezione dei giudici[19].
Richiami da parte dei Presidenti della Repubblica nella loro funzione di garanti della regolarità del funzionamento delle istituzioni non sono comunque mancati: dal messaggio di Segni del 16 settembre 1963, a quello di Ciampi del 26 febbraio 2002, al comunicato di Napolitano del 3 ottobre 2008, alle recentissime parole espresse il 25 luglio 2024 dal Presidente Mattarella in occasione della Cerimonia del Ventaglio.
Qualora il ritardo si dovesse spingere sino a rischiare di compromettere il funzionamento stesso della Consulta, è stata prospettata la possibilità che la Corte stessa, prima che la paralisi si verifichi, sollevi di fronte a se stessa un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento in seduta comune, in cui si accerti la menomazione della propria sfera di attribuzioni a causa dell’inerzia parlamentare; in quella sede, la Corte potrebbe, in ipotesi, anche auto-sollevarsi una questione di costituzionalità sulla disposizione (che però è di rango costituzionale, ossia l’art. 135, comma 4, Cost., così come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 1967) che vieta la prorogatio dei giudici costituzionali, per violazione del principio supremo dell’ordinamento che richiede la piena e costante operatività dell’organo di giustizia costituzionale[20].
Si è anche ragionato della possibilità di introdurre l’istituto della prorogatio con revisione costituzionale, modificando appunto l’art. 135, comma 4, Cost. Trattasi di una soluzione che, per un verso, scongiurerebbe il rischio di paralisi, dall’altro, però, potrebbe ulteriormente dilatare i tempi di sostituzione dei giudici, determinando nei fatti un allungamento del mandato di quelli scaduti ben oltre i limiti temporali tracciati dalla Costituzione[21].
Una ulteriore modifica consisterebbe nell’abbassamento del quorum di funzionamento della Corte oggi previsto dalla legge n. 87 del 1953. Si tratta di un requisito fissato in una legge ordinaria, che in ipotesi potrebbe essere abbassato a 10 per evitare che l’inerzia del Parlamento blocchi l’attività della Corte costituzionale: quand’anche tutti e 5 i membri di nomina parlamentare mancassero, vi sarebbero, infatti, quelli di nomina presidenziale e quelli eletti dalle supreme magistrature. Tale soluzione avrebbe, però, l’inconveniente di legittimare la prassi secondo cui l’organo supremo di giustizia costituzionale può lavorare a ranghi ridotti e con una composizione “squilibrata” e potrebbe aggravare la tendenza a procrastinare la scelta dei giudici da parte del Parlamento.
Ancora, è stata prospettata l’ipotesi di una modifica costituzionale che consenta, in via eccezionale, di avocare il potere di nomina in capo al Presidente della Repubblica e/o alle supreme magistrature o ancora alla stessa Corte costituzionale[22].
In dottrina si è infine ragionato della possibilità che il Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, convochi le Camere riunite e faccia ripetere ininterrottamente gli scrutini fintanto che non si arrivi ad una scelta condivisa, così da imporre l’adempimento di un preciso dovere costituzionale fissato dall’art. 135 Cost. In questo modo, si ritiene che, giocoforza, i gruppi parlamentari sarebbero costretti ad addivenire ad un accordo, eventualmente preceduto da una rosa di nomi che possa essere discussa tra le forze politiche[23].
5. Per concludere, il ritardo che le Camere stanno perpetuando nella scelta dei giudici costituzionali costituisce uno “strappo” del “tessuto costituzionale”, cui sarebbe necessario porre rimedio al più presto.
La Costituzione, nel definire la composizione e le modalità di scelta dei componenti della Corte costituzionale non detta, infatti, solo regole operative, ma delinea un preciso equilibrio, che mira a garantire il funzionamento dell’intero sistema di giustizia costituzionale.
Che il Parlamento, titolare della funzione legislativa e depositario della rappresentanza politica nazionale, si spinga a compromettere questo equilibrio, è atto che si pone ai limiti della scorrettezza istituzionale nei confronti di un organo, la Corte costituzionale, deputato a garantire proprio l’osservanza della Costituzione. È un po’ come se il “controllato” mettesse in discussione la legittimità e l’operatività del “controllore”, subordinando le regole costituzionali alle contingenze e alle alchimie della politica.
Non può, quindi, che auspicarsi che il Parlamento si decida ad ovviare alla propria inerzia.
L’attivazione, infatti, dei rimedi sopra prospettati costituirebbe il segno dell’incapacità delle forze politiche di cogliere il senso profondo delle regole fissate in Costituzione, che richiedono, anzitutto, che i rapporti tra i poteri dello Stato siano improntati al principio di leale collaborazione, così che l’intero sistema costituzionale si mantenga in equilibrio e possa funzionare fisiologicamente.
[1] La maggioranza di centro-destra è, infatti, complessivamente pari a circa 350 parlamentari, e la maggioranza dei tre quinti del Parlamento in seduta comune è poco più alta, ossia 360 componenti.
[2] Cfr. A. Pugiotto, «Se non così, come? E se non ora, quando?» Sulla persistente mancata elezione parlamentare di un giudice costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 22 ottobre 2008, 1-14.
[3] G. Zagrebelsky, La Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1988, 74.
[4] Cfr. art. 17, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[5] Lo evidenzia P. Faraguna, Il giudice vacante alla Corte costituzionale: una questione di numeri, in LaCostituzione.info, 19 febbraio 2024.
[6] Evenienza questa peraltro verificatasi, per un breve periodo, nel 2002, quando la Corte dovette rinviare un’udienza per mancanza del numero legale. In quell’occasione i giudici vacanti per ritardo del Parlamento erano “solo” due, cui però si aggiunsero un giudice assente per lutto, uno per incompatibilità, uno per malattia, come ricorda M. Torrisi, La Consulta senza numero legale per la prima volta in quarantasei anni, in Dir e giur., 13/2002, 39.
[7] Sul punto, nella dottrina più risalente, si vedano G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione (A proposito delle modalità di elezione da parte del Parlamento dei giudici della Corte costituzionale), in Riv. it. sc. giur., 1954, 97 ss.; L. Elia, Durata in carica e prorogatio dei giudici costituzionali, in Giur. it., 1966, IV, 330 ss.; A. Pizzorusso, Art. 135, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1981, 147 ss.; R. Pinardi, Il problema dei ritardi parlamentari nell’elezione dei giudici costituzionali tra regole convenzionali e rimedi de jure condendo, in Giur. cost., 2003, 1819 ss. Più di recente, cfr. le acute riflessioni di A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quaderni costituzionali, 2/2024, 411-414.
[8] Ad esempio, da S. Galeotti, Sull’elezione dei giudici costituzionali di competenza del Parlamento, in Rass. dir. pubbl., 1954, 56 ss.
[9] Ricostruisce il dibattito in merito F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, La nuova Italia, Firenze, 1996, 85 ss.
[10] In questi termini A. M. Sandulli, Intervento, in G. Maranini (a cura di), La giustizia costituzionale, Vallecchi, Firenze, 1966, 428.
[11] Evidenzia tale criticità F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, cit., 86.
[12] Cfr., sul punto, C. Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 1962, 970; F. Pierandrei, voce Corte costituzionale, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 987.
[13] V. il Messaggio del Presidente della Repubblica sulla elezione e la nomina dei giudici della Corte costituzionale e sulla non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, in Il Foro Italiano, n. 86/1963, 73-76. Di particolare interesse lo scambio di missive tra il Presidente Segni e il Prof. L. Elia antecedenti alla formulazione del messaggio, che ora possono leggersi nel volume Antonio Segni e i giuspubblicisti Carteggio sui poteri del Presidente della Repubblica, a cura di S. Mura, FrancoAngeli, Milano, 2024.
[14] Come ricorda A. Pugiotto, Come e perché, cit., 413.
[15] In quell’occasione, vi fu addirittura un’iniziativa di Marco Pannella, che per protestare contro il ritardo del Parlamento, iniziò un lungo sciopero della sete, accompagnato da un appello del 5 ottobre 2008, sottoscritto da ben 506 parlamentari, con cui si chiedeva al Presidente della Camera, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, di convocare le Camere riunite a oltranza “fino al formarsi delle decisioni necessarie”.
[16] Cfr. A. Pizzorusso, Art. 135, cit., 151 ss.; ed anche J. Luther, I giudici costituzionali sono giudici naturali?, in Giur. cost., 1991, 2478 ss.
[17] Su cui R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819 ss.; U. Spagnoli, I problemi della Corte. Appunti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1996, 20 ss.
[18] Sul punto, cfr. R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855; G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss.; A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 1-14.
[19] V. la ricostruzione di R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1840.
[20] Cfr., sul punto, le considerazioni di A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 12-14. Rileva una serie di criticità di questa soluzione R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1835-1836.
[21] Sui rischi e sui benefici dell’estensione della prorogatio ai giudici costituzionali, cfr. A. Pugiotto, Se non così, come?, cit., 13. Si segnala che, originariamente, la prorogatio era prevista dall’art. 18 del regolamento generale della stessa Corte costituzionale, che stabiliva che ciascun giudice restasse in carica «fino alla data del giuramento del giudice chiamato a sostituirlo».
[22] Su queste ulteriori soluzioni cfr. sempre R. Pinardi, Il problema dei ritardi, cit., 1819-1855.
[23] Soluzione questa prospettata da G. Guarino, Deliberazione-nomina-elezione, cit., 99 ss. e ripresa da A. Pugiotto, Come e perché, cit., 414.
La Corte costituzionale a ranghi ridotti: inefficienze e rischi derivanti dalla perdurante mancata elezione del quindicesimo giudice costituzionale
di Corrado Caruso e Pietro Faraguna
Sommario: 1. Le norme - 2. I fatti - 3. I rischi - 4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione? - 5. I possibili rimedi
1. Le norme
Lo scorso 24 luglio, in occasione della cerimonia del ventaglio al Quirinale, il Presidente Mattarella ha esortato, “con garbo e determinazione”, il Parlamento a eleggere il quindicesimo giudice costituzionale.
I motivi di questa esortazione sono forse noti, ma nel dubbio conviene ripassare le coordinate normative e i fatti istituzionali che hanno portato al monito. Quanto alle norme, «la Corte costituzionale è composta di quindici giudici», afferma l’art. 135 della Costituzione. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa immediatamente dalla carica e dall’esercizio delle funzioni, recita ancora l’art. 135 Cost., modificato dalla l. cost. 2/1967, che ha eliminato la prorogatio originariamente prevista dalla Costituzione. La stessa legge costituzionale poi, all’art. 5, secondo comma, dispone che, «in caso di vacanza a qualsiasi causa dovuta, la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa». Le fonti costituzionali delineano dunque un duplice obbligo, il secondo conseguenza del primo: la Corte deve essere composta da 15 giudici; là ove, per qualsiasi causa, l’integrità del collegio venisse meno, è necessario che l’istituzione incaricata provveda entro trenta giorni a ripristinarne l’originaria composizione.
Come noto, i giudizi di estrazione parlamentare sono un terzo del totale: per l’elezione di questi ultimi la legge cost. n. 2/1967, ha stabilito maggioranze molto alte (2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini, 3/5 in quelli successivi) che, unitamente a requisiti soggettivi non meno elevati (i giudici costituzionali devono essere professori ordinari in materie giuridiche, avvocati con almeno 20 anni di esercizio o magistrati delle supreme magistrature), contribuiscono a determinare un profilo di altissima professionalità e ampia legittimazione, anche per quei giudici che traggano la loro nomina dall’elezione parlamentare. La maggioranza richiesta per eleggerli, stabilita dalla l. cost. n. 2/1967, è persino più alta di quella necessaria a modificare la stessa Costituzione che stabilisce i criteri della loro elezione (sul punto si sprecano varianti di paradossi di Alf Ross[1]). Non è sempre stato così: nell’assetto originario dell’ordinamento repubblicano, prima dell’entrata in vigore della l. cost. n. 2/1967, le super maggioranze per l’elezione dei giudici costituzionali erano imposte… da una legge ordinaria (la legge n 87 del 1953)!
2. I fatti
Quanto ai fatti: i giudici costituzionali sono oggi quattordici, per la precisione dall’11 novembre 2023, ultimo giorno del mandato della Presidente Sciarra e dei Vicepresidenti de Pretis e Zanon. Per qualche giorno i giudici sono stati infatti 12, ma gli ultimi due sono stati prontamente sostituiti con le nuove nomine presidenziali dei giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi. Il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra, eletta giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune (la prima, e sinora unica donna che il Parlamento ha eletto nella storia della Repubblica), è invece ancora vacante, e sembra destinato a restare tale per un po’.
Negli ultimi trent’anni, dall’avvento del «bipolarismo rusticano»[2] della cosiddetta seconda Repubblica fino all’odierno, instabile, assetto tripolare, si è avuta una crescente difficoltà nel raggiungere gli elevati quorum stabiliti dalla Costituzione (lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato, tanto che per ben due volte si è recentemente “ripiegato” sulla rielezione del Presidente uscente). Basti pensare alle prolungate tempistiche per la sostituzione dei giudici Casavola e Spagnoli (undici mesi: 25 febbraio 1995-24 gennaio 1996), Caianiello (quasi venti mesi: 23 ottobre 1995-18 giugno 1997), Guizzi e Mirabelli (oltre diciassette mesi: 21 novembre 2000-24 aprile 2002), Vaccarella (poco meno di diciotto mesi: 2 maggio 2007-21 ottobre 2008)[3], sino ai 16 mesi necessari a colmare la vacanza aperta dalle uscite di Silvestri, Mazzella e Mattarella, pure cessati dalla carica in momenti diversi[4], chiusa con l’elezione, nel dicembre 2015, di Barbera, Modugno e Prosperetti (in scadenza a fine 2024)[5]. Tali difficoltà sono state più facilmente superate quando l’elezione non riguardava un solo posto vacante ma più d’uno, così da consentire un accordo tra diversi gruppi parlamentari e raggiungere l’elevato quorum richiesto dalla Costituzione.
Simile prassi è perfettamente comprensibile, e conduce a un progressivo accrescimento dell’elezione parlamentare: poiché non si raggiunge l’accordo per l’elezione di un solo giudice, si attende di doverne eleggere (almeno) due. Questi scadranno contemporaneamente (salvo imprevisti), e al loro pacchetto si “unirà” l’ulteriore elezione del giudice in scadenza solitaria. Il pacchetto diventerà inevitabilmente sempre più grande: abbiamo già assistito in passato agli effetti di questo processo (con la sostituzione contestuale di tre giudici che avevano terminato il mandato in momenti diversi) e potremmo presto assistere al “record” negativo, se il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra verrà riempito solo quando scadrà il pacchetto dei prossimi tre giudici parlamentari in uscita contestuale.
3. I rischi
Il fatto che la dinamica sia facilmente comprensibile sul piano descrittivo, non ne trasforma la natura: essa rimane una inadempienza costituzionale, con gravi effetti collaterali. Alcuni piccoli, uno molto grande. Tra quelli piccoli vi è che la Corte, tra la scadenza del giudice “solitario” e la scadenza del pacchetto più grande, lavora a ranghi ridotti. Lavorare con un giudice in meno significa avere una fonte di competenza e sensibilità in meno, significa avere tempi di decisione più lunghi (seppure non sia questo il problema dell’attuale stagione della Corte), significa lavorare in un collegio composto in numero pari (non il massimo per un organo che decide pur sempre votando a maggioranza).
Il rischio molto grande è determinato dal fatto che il funzionamento della Corte costituzionale è impedito se i giudici sono meno di undici. L’inadempimento costituzionale finisce naturalmente per travolgere come una valanga l’equilibrio e il funzionamento stesso dell’Istituzione, una volta che si vengano a creare pacchetti di 4 o 5 giudici da sostituire.
Come anticipato, il pacchetto di 4 giudici potrebbe essere realtà dal prossimo dicembre 2024, quando al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno ben tre ulteriori vacanze (il Presidente Barbera e i Vicepresidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). La Corte si ritroverà dunque con 11 giudici su 15. Per poche settimane, se tutto andrà bene (per qualche mese, in realtà, perché i giudici ancora in carica non partecipano alle udienze e camere di consiglio in cui si discutono cause le cui decisioni non farebbero in tempo a firmare), o per più tempo se la sostituzione del folto pacchetto dovesse incappare in difficoltà non previste.
La composizione della Corte con 11 giudici su 15 è evidentemente pericolosa per la stessa operatività del giudice delle leggi: ai sensi dell’art. 16 della legge n. 87 del 1953, «[l]a Corte funziona con l’intervento di undici giudici»: ciò significa che quando il collegio è completo, ci sono ben quattro assenze “di margine”, che non influiscono sull’operatività del collegio. Quando i giudici in carica si ritroveranno soltanto 11, qualunque vicissitudine personale – a partire da una semplice influenza – potrebbe mettere a repentaglio il funzionamento dell’intero organo. Peggio ancora: un assetto a 11 metterebbe nelle mani di ogni singolo giudice un potere, certamente del tutto alieno all’assetto costituzionale pensato dal Costituente, di impedire il funzionamento dell’organo, consentendo a questi di impedire al collegio di prendere qualsivoglia decisione mediante la sola forza della sua assenza. Si tratta di uno scenario evidentemente assai indesiderabile, e tutto suggerisce l’opportunità di evitare che tale scenario possa verificarsi. Obiettivo che si potrebbe tutto sommato raggiungere agevolmente, non facendo niente di più che adempiere a quanto chiede la Costituzione: assicurare che la Corte costituzionale sia composta da 15 giudici, non uno di meno.
4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione?
Ma perché non eleggere immediatamente il giudice mancante? La tattica “attendista” sembra avere motivazioni schiettamente politiche. Piuttosto che cercare attivamente un accordo immediato con l’opposizione (o una parte di essa) – attraverso l’individuazione di un profilo almeno parzialmente condiviso, oltre il perimetro della maggioranza che sostiene il governo – la coalizione governativa sembra voler esprimere un candidato “identitario”, verosimilmente vicino a Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa. Peraltro, eleggendo contemporaneamente quattro giudici costituzionali a dicembre – un evento, lo ripetiamo, senza precedenti nella storia repubblicana –, la maggioranza potrebbe ambire a nominare tre giudici, scegliendo, sulla base di convenienze contingenti, quale partito della frammentata opposizione premiare con l’individuazione dell’ultimo giudice.
La stessa Presidente del Consiglio Meloni ha espressamente rivendicato la prerogativa – sua e della maggioranza che la sostiene – di eleggere “suoi” giudici costituzionali, rispondendo a talune voci critiche, tra cui quella dell’ex Presidente della Corte Giuliano Amato, che hanno sollevato preoccupazioni sulle implicazioni illiberali di questa posizione[6]. Secondo Meloni, «questa idea della democrazia per la quale quando vince la sinistra chiaramente deve poter avere tutte le prerogative che riguardano la maggioranza e quando vince la destra no» avrebbe riflessi autoritari, collocandosi al di fuori della libera dialettica democratica[7].
Sebbene esprimere un giudice di “area” rappresenti una comprensibile aspettativa, applicare alle nomine costituzionali meccanismi da spoil system, distinguendo tra giudici costituzionali (appartenenti a partiti) di destra o di sinistra, è profondamente sbagliato, come ribadito a più riprese dall’attuale Presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera[8]. Eppure, l’idea della Presidente del Consiglio sembra essere condivisa dalle diverse forze politiche, come dimostra la silenziosa acquiescenza dell’opposizione, le cui varie anime sembrano più interessate a contendersi le “spoglie” dei giudici uscenti che a soddisfare l’obbligo costituzionale o denunciarne il perdurante inadempimento.
Sia chiaro: non ci pare che questi sviluppi testimonino un’imminente deriva autoritaria, comunque impedita o quantomeno resa assai difficoltosa dagli alti quorum di elezione, dalla variegata estrazione del collegio e dalla diversità delle istituzioni chiamate a nominare o eleggerne i componenti. Assistiamo piuttosto al rischio di una cattura partitocratica della Corte costituzionale, secondo una tendenza generale che da tempo caratterizza il nostro sistema politico[9], ma che oggi pare amplificata dalla fine dei grandi collanti ideologici, dalla mutazione dei partiti di massa in partiti “cartello” e dalla immedesimazione identitaria con l’elettorato che contraddistingue trasversalmente le forze politiche, inesorabilmente attratte dalle sirene del populismo[10].
Lo spoil system applicato alla Corte costituzionale è contrario alla Costituzione. Un conto è, infatti, provare a convergere verso personalità provenienti da una certa cultura politica, nell’ottica di caratterizzare il collegio in senso pluralistico; altro è ripartire, col famoso manuale Cencelli, i giudici costituzionali sulla base dell’appartenenza partitica. Questa conclusione si trae da una lettura sistematica delle norme costituzionali: il Parlamento in seduta comune svolge, non diversamente da quanto avviene per l’elezione del Presidente della Repubblica, funzioni di collegio elettorale «imperfetto»[11]: non sono giuridicamente previste la presentazione e la discussione di candidature, né le audizioni degli interessati, né la presentazione di programmi di giustizia costituzionale. Il giudice eletto non è il mandatario né il rappresentante di alcuna forza politica, ma agisce in nome del popolo e nell’interesse della Costituzione.
Inoltre, l’art. 135 Cost. si distingue da altre disposizioni costituzionali, come quelle relative alla composizione delle commissioni parlamentari permanenti (artt. 72.3) speciali (art. 82.3) o al collegio elettorale presidenziale (art. 83.2 Cost.), non prevedendo «che la composizione della Corte rifletta gli equilibri tra le diverse componenti parlamentari»[12]. Non c’è in altri termini la necessità di rispecchiare una proporzione tra le forze politiche: non a caso, gli alti quorum previsti, che avvicinano il voto a maggioranza all’unanimità, riflettono l’idea che la selezione del giudice avvenga per consenso piuttosto che sulla base di un semplice computo maggioritario dei voti.
Un processo di designazione in cui ogni partito nomini il proprio giudice rischierebbe di intaccare l’imparzialità della Corte, favorendo la fedeltà organica rispetto all’apertura a diverse visioni del mondo, alterando la percezione di imparzialità che ne ha l’opinione pubblica: la Corte costituzionale è, in fondo, “anche” un giudice[13] e, come tutti i giudici, deve non solo essereimparziale, ma anche sembrare tale all’esterno.
Infine, le nomine a pacchetto rischiano di produrre effetti indesiderabili sul corretto funzionamento della Corte indipendentemente da chi venga eletto: la sostituzione contestuale di 1/3 del totale dei giudici determinerebbe un cambiamento radicale e improvviso nella composizione del collegio, rischiando di interrompere, per una mera questione di discontinuità personale, l’andamento della giurisprudenza costituzionale, che in un ordinamento orientato al rispetto della rule of law è importante invece sia stabile e prevedibile (anche nel suo sviluppo e nella sua inevitabile trasformazione), in ossequio al fondamentale valore della certezza del diritto.
In un sistema ideale, il problema dell’inerzia parlamentare verrebbe risolto attraverso un approccio strategico o deliberativo delle forze politiche. I partiti dovrebbero abbandonare la pratica di nominare i giudici in base a profili di parte e optare invece per candidati con curricula impeccabili, che abbiano cultura politica ma non siano servitori del principe di turno. Basterebbe ricordare, a questo proposito, l’identikit, tratteggiato da Costantino Mortati, del perfetto giudice costituzionale: questi deve vantare profondità di cultura e possesso delle raffinatezze della tecnica giuridica, e, allo stesso tempo, «conoscenza della storia e delle istituzioni costituzionali», «piena indipendenza dalle parti politiche [...]» e, d’altra parte, «informazione precisa della posizione di ogni formazione politica, della loro ragion d’essere, dei loro programmi, del loro peso», «consapevolezza delle aspirazioni popolari, dei termini dei problemi sociali che vanno elaborandosi nella coscienza delle moltitudini»[14]. D’altronde, quanto più ampia è la legittimazione (in termini tecnici, politici e culturali) del giudice, tanto più facile è recidere i legami con l’istituzione di nomina[15]. Questo sarebbe fondamentalmente il risultato ottimale di una costituzione collaborativa, in cui ogni attore istituzionale opera all’interno di una relazione eterarchica di reciprocità, riconoscimento e rispetto[16].
5. I possibili rimedi
Tuttavia, la politica del mondo reale non funziona in questo modo. Il monito del Presidente Mattarella è solo l’ultimo, nella storia repubblicana, di una serie di richiami presidenziali volti a sollecitare le elezioni parlamentari dei giudici costituzionali[17]. In un caso, questo messaggio si è spinto fino a minacciare lo scioglimento anticipato delle Camere[18].
In effetti, il pericolo maggiore delle nomine a pacchetto risiede nella loro stessa percorribilità. Se, per qualsiasi ragione, le forze politiche non riuscissero a trovare la quadratura del cerchio, e si andasse al di sotto del quorum di 11 giudici, avremmo la paralisi certa di un organo costituzionale.
Proprio per evitare tale rischio, i Costituenti avevano disegnato un meccanismo volto ad evitare la scadenza contestuale di tutti i giudici[19], con un sistema di rinnovazione parziale del collegio: l’art. 135 Cost., nella sua formulazione originaria, prevedeva infatti che «[i] giudici sono nominati per dodici anni, si rinnovano parzialmente secondo le norme stabilite dalla legge e non sono immediatamente rieleggibili»[20]. La rinnovazione parziale cui faceva riferimento la formulazione originaria dell’art. 135 Cost. veniva disciplinata dalla legge 1/1953, il cui art. 4 stabiliva che «[i] giudici che sono nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte si rinnovano, decorsi nove anni, mediante sorteggio di due giudici tra quelli nominati dal Presidente della Repubblica, di due tra quelli nominati dal Parlamento e di due tra quelli nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa. Il sorteggio dei giudici è fatto dalla Corte tre mesi prima della scadenza del predetto termine di nove anni.
Decorsi gli altri tre anni, si rinnovano i giudici che non sono stati rinnovati. Successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni. In caso di vacanza dovuta alla scadenza del termine di dodici anni o ad altra causa la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa».
Questo complesso meccanismo, in sintesi, era vòlto a far uscire dalla porta esattamente quanto la recente prassi ha fatto rientrare dalla finestra: la sostituzione di giudici costituzionali attraverso nomine a pacchetto.
Molti altri interventi sarebbero in linea di principio concepibili: si potrebbe pensare di modificare i quorum di elezione, in modo da abbassare o alzare la maggioranza necessaria per eleggere un singolo giudice. Queste soluzioni, al di là della loro fattibilità concreta, non risolverebbero il problema: l’innalzamento promuoverebbe nomine bipartisan ma non eviterebbe il rischio di paralisi; l’abbassamento renderebbe più facile l’elezione ma alimenterebbe la partigianeria dell’eletto. L’amara realtà è che è ben difficile immaginare una soluzione che passi attraverso una riforma delle regole sull’elezione, posto che tale strada necessiterebbe di un contributo fattivo di quegli stessi attori politici al cui comportamento inerte la riforma dovrebbe rimediare: un’ipotesi, tuttavia, di cui si sta discutendo in Germania, ove si vorrebbe costituzionalizzare durata e quorum di elezione dei giudici (oggi disciplinati nella Bundesverfassungsgerichtsgesetz)[21].
Un’altra soluzione sarebbe un emendamento costituzionale che reintroduca la proroga del mandato dei giudici uscenti, ove ii loro sostituti non siano effettivamente e tempestivamente eletti. Anche in questo caso, la soluzione richiederebbe un intervento politico lungimirante, e che – forse proprio in quanto tale – sembra una soluzione scarsamente praticabile.
In alternativa, in caso di grave e perdurante paralisi la Corte stessa potrebbe annullare le norme costituzionali che contribuiscono a determinare la paralisi: l’oggetto potrebbe essere dato dalle disposizioni che escludono la prorogatio dei giudici, oppure quelle che impediscono alla Corte di funzionare con un collegio composto da meno di 11 giudici. Come extrema ratio potrebbe essere la Corte stessa ad auto-investirsi di tali questioni. In effetti, il potere di auto-rimessione consente alla Corte costituzionale di chiamare se stessa a controllare un atto legislativo, finanche avente rango costituzionale, facendo nascere un giudizio costituzionale indipendente da uno in corso: la Corte ha usato questo potere abbastanza raramente – circa 30 volte in quasi 70 anni – ma recentemente si è dimostrata meno riluttante nell’utilizzo di questa tecnica processuale[22]. Tuttavia, questa sarebbe veramente una last resort option, se non proprio un’ipotesi ai limiti del fantadiritto. L’opzione nucleare potrebbe aversi solo nel caso in cui lo stallo politico portasse la Corte a una completa paralisi, e l’occasione potrebbe persino originare da una lite interorganica promossa dalla Corte stessa contro l’inadempiente Parlamento in seduta comune. Si tratterebbe comunque di un irrealistico scenario non privo di ulteriori effetti collaterali. Uno su tutti: rischiare di dilapidare una reputazione “giurisdizionale” faticosamente conquistata.
Fermi, perciò, questi caveat, è pur vero che la giustizia costituzionale in Italia ha mostrato una versatilità notevole nel recente passato: la Corte ha aperto strade di accesso prima impensabili (ad esempio, per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi elettorali) e ha elaborato tecniche decisionali nuove (basti pensare alle ordinanze di incostituzionalità prospettata, nel caso Cappato e in altre successive occasioni). In questo laboratorio innovativo, è improbabile, ma non giuridicamente impossibile, immaginare che la Corte risolva da sé un problema che spetterebbe ad altri risolvere (ogni giorno di più, nell’ordinamento costituzionale non ogni cosa è “al suo posto”[23]).
In una parola: la politica che si cura da sé è fantapolitica (o quasi), la Corte che risolve da sé è fantadiritto (o quasi). In questo generalizzato quadro di fantasia, la realtà la perdurante assenza un giudice costituzionale. E prima di pensare alla paralisi dell’ordinamento costituzionale c’è forse spazio per denunciare, nel dibattito pubblico e in quello scientifico, quello che, secondo la Costituzione, è un grave inadempimento che va perpetrandosi dallo scorso 20 novembre nell’apparente disinteresse generale. Il fatto che, a seguito del monito del Capo dello Stato, il Presidente della Camera abbia annunciato[24] che, a partire da settembre, il Parlamento si riunirà in seduta comune una volta a settimana per eleggere il giudice costituzionale è un segnale che va nella giusta direzione; ma, come la saggezza proverbiale ci ha insegnato, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, profondo e burrascoso, della politica.
Il saggio sviluppa le considerazioni degli stessi autori pubblicate su La Repubblica del 15 luglio 2024, Un giudice da eleggere per la Costituzione e sul Verfassungsblog, Delegitimizing by Procrastinating Parliamentary Inertia in the Election of Constitutional Judges in Italy, 11 luglio 2024. Il contributo è frutto di una riflessione congiunta dei due autori. Ai soli fini degli almanacchi che governano il mondo della produzione scientifica, specifichiamo che Corrado Caruso è autore dei paragrafi 2 e 4, mentre Pietro Faraguna è autore dei paragrafi 1, 3 e 5.
[1] A. Ross, Theorie der Rechtsquellen. Ein Beitrag zur Theorie des positive Rechts auf Gundlage dogmenhistorischer Untersuchungen, Leipzing und Wien, 1929 (spec. cap. XIV).
[2] A. Barbera, Sussidiarietà e bipolarismo “mite” (Relazione al Convegno promosso dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà Sala Zuccari - Senato della Repubblica 29 marzo 2007), sul Forum di Quaderni costituzionali (https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/nuovi%20pdf/Paper/0021_barbera.pdf)
[3] I dati sono riportati in A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quad. cost., 2024, p. 412.
[4] Il 28 giugno 2014 cessarono dalle funzioni i giudici Silvestri e Mazzella, mentre il 2 febbraio 2015 fu il turno di Mattarella, nel frattempo asceso al soglio presidenziale.
[5] Riferimenti in D. Stasio, L’attività della Corte è a rischio, adesso il Parlamento deve difenderla, in La Stampa, lunedì 15 luglio 2024.
[6] Democrazia a rischio: l’Italia può seguire Polonia e Ungheria, intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 2 gennaio 2024.
[7] Conferenza stampa della Presidente del consiglio, 4 gennaio 2024, https://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-meloni/24717.
[8] A partire dalla conferenza stampa tenuta al momento dell’insediamento il 12 dicembre 2023, e poi ribadite nell’intervista a Liana Milella il 17 gennaio 2024, nella relazione sull’attività svolta dalla Corte nel 2023 (illustrata il 18 marzo 2024) e, da ultimo, nell’intervista a Emilia Patta per il Sole24ore il 28 giugno 2024.
[9] L’A. che per primo ha conferito dignità scientifica alla “partitocrazia” è G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia (Lezione inaugurale dell'anno accademico '49-'50), Editrice universitaria, Firenze 1950.
[10] Per una analisi della evoluzione del sistema dei partiti in Italia cfr. P. Ignazi, Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2022.
[11] Riassumono il dibattito a riguardo A. Poggi, La elezione del Presidente della Repubblica. Le proposte sulle candidature: questioni di metodo e di merito in Oss. Cost., 2/2022, pp. 39 e ss., nonché D. Chinni, Elezione e mandato del Presidente della Repubblica, lavoro inedito.
[12] A. Pugiotto, Come e perché, cit., p. 413.
[13] Insiste sull’anima giurisdizionale della Corte costituzionale, pur con diversità di accenti, R. Romboli, Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro
Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in Id. (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 1 e ss., A. Ruggeri, Tendenze della Costituzione e tendenze della giustizia costituzionale, al bivio tra mantenimento della giurisdizione e primato della politica, ivi, pp. 99-116.
[14] C. Mortati, La Corte costituzionale e i presupposti della sua vitalità, in C. Mortati, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza repubblicana. Raccolta di scritti, III, Milano, Giuffrè, pp. 683-684.
[15] M. Gren, Judges at Constitutional Courts / Supreme Courts, in Max Planck Encyclopedia of Comparative Constitutional Law, Oxford University Press, ad vocem.
[16] A. Kavanagh, The Collaborative Constitution, Cambridge University Press, 2023, pp. 86 e ss.
[17] Come ricostruito da A. Pugiotto, Come è perché, cit. p. 413, e da D. Stasio, L’attività della Consulta è a rischio, cit., numerosi sono stati i messaggi presidenziali: Antonio Segni (16 settembre 1963), Carlo Azeglio Ciampi (26 febbraio 2002), Giorgio Napolitano con un apposito comunicato (3 ottobre 2008), nonché lo stesso Mattarella, una prima volta, il 2 ottobre 2015.
[18] Così fece il Presidente Cossiga il 7 novembre del 1991.
[19] Sulle prime nomine alla Corte costituzionale vedi F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, Roma, 1996, p. 91 ss.
[20] La VII disp. trans. e fin. specificava poi che «[i] giudici della Corte costituzionale nominati nella prima composizione della Corte stessa non sono soggetti alla parziale rinnovazione e durano in carica dodici anni».
[21] Cfr. E. Caterina, La Corte prima della tempesta: come premunire le corti costituzionali da futuri assalti? La situazione in Germania e in Italia, in Diritticomparati.it, 15 febbraio 2024.
[22] P. Faraguna, A. Pugiotto, Corte costituzionale e autorimessione: una radiografia giurisprudenziale, in Quad. cost., 2024, pp. 373 e ss.
[23] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2023.
[24] Cfr. la dichiarazione del Presidente Fontana a margine della conferenza dei capigruppo. Ne danno conto D. Stasio, Grave lo stop sui giudici costituzionali. La Consulta non è terra di conquista, in La Stampa, 25 luglio 2024, p. 8 e A. Pugiotto, Il Parlamento gioca con la consulta ma Mattarella gli rovina la festa, in L’Unità, 27 luglio 2024.
Sommario: I. La sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2024 n. 96 in tema di verifiche preliminari nel processo civile. II. Disamina e commento delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 24 Cost. e del rispetto del principio del contraddittorio. III. Segue: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 76 Cost. e dell’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021. IV. Segue: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 3 Cost. e del principio di parità di trattamento tra questioni rilevabili d’ufficio. V. Osservazioni sullo stato del processo civile del nostro tempo. Giudicare e rassicurare. VI. Orelsan e il poema “Tout va bien”.
I. La sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2024 n. 96 in tema di verifiche preliminari nel processo civile.
1. Quando il Tribunale di Verona, con l’ordinanza del 22 settembre 2023, rimise la questione di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. alla Corte costituzionale, io mi prestai subito a preparare un commento per questa rivista[1], e il tono che decisi di usare fu quello del sarcasmo, poiché se da una parte condividevo i rilievi sollevati da quel giudice, dall’altra immaginavo che le questioni sarebbero state invece dichiarate infondate.
Oggi posso dire che la mia previsione fu corretta, visto che la Corte costituzionale, con la pronuncia che qui si annota, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. con riferimento agli artt. 76, 3 e 24 Cost.[2]
Le questioni sollevate dal Tribunale di Verona erano infatti sostanzialmente tre: eccesso di delega (art. 76 Cost.), principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), principio del contraddittorio (art. 24 Cost.)[3].
Tutt’e tre sono state dichiarate senza fondamento.
1.1. Per quanto riguardi l’eccesso di delega, dopo lunghe pagine nelle quali si illustra la disciplina esistente, nonché le sottolineature della Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 149 del 2022 (attuativo della legge delega n. 206 del 2021), nonché le prospettazioni del giudice remittente, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione; e ciò non tanto perché non mancasse effettivamente, nella legge delega, ogni riferimento a possibili decreti decisori delle verifiche preliminari anteriori alla prima udienza, quanto perché deve riconoscersi una “discrezionalità del legislatore delegato, il quale è chiamato a sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge delega, potendo così ben svolgere un’attività di riempimento normativo, che è pur sempre esercizio delegato di una funzione legislativa” (così espressamente Corte Cost. 3 giugno 2024 n. 96).
Sulla base di questo principio, che la Corte costituzionale ha ricondotto ai propri precedenti n. 79 del 2019, n. 198 del 2018 e n. 104 del 2017, ella ha proseguito sul punto asserendo che: “se effettivamente l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione, da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio”; ed inoltre: “la disposizione censurata è, al contempo, volta a realizzare il generale canone della concentrazione processuale sancito dalla lettera a) del medesimo art. 1, comma 5, della legge delega, perché orientata a ridurre le ipotesi di regressione del giudizio dopo il deposito delle memorie integrative”.
1.2. Quanto ai profili di cui all’art. 3 Cost., ovvero quanto al diverso trattamento posto in essere dall’art. 171 bis c.p.c., tra questioni processuali rilevabili d’ufficio che possono essere decise con decreto dal giudice prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c. e questioni che invece non possono decidersi se non dopo le memorie ex art. 171 ter c.p.c., la Corte costituzionale ha ritenuto che tale differenziazione non si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost.
Ed infatti: “Tale diversa regola processuale appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti volti alla corretta instaurazione del contraddittorio ovvero alla sanatoria dei vizi degli atti introduttivi e il rilievo d’ufficio di altre questione ad opera dell’autorità giudiziaria, hanno sui tempi di svolgimento del giudizio, sui quali sono suscettibili di incidere, dilatandoli, solo i primi, comportando, di regola, un differimento dell’udienza di trattazione”.
Dunque, la disparità di trattamento è data dalla legge poiché alcuni provvedimenti sono funzionali alla necessità di non perder tempo, mentre altri non hanno queste caratteristiche.
Ed ancora, per la Corte costituzionale: “Vi è, poi, che i provvedimenti emessi a seguito delle c.d. verifiche preliminari si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti: Il che impedisce di ritenere integrata un’ingiustificata disparità di trattamento”.
1.3. Infine, per quanto concerni il rispetto del principio del contraddittorio, la Corte costituzionale, di nuovo, non ha ravvisato violazioni dell’art. 24 Cost. da parte del nuovo art. 171 bis c.p.c.
La Corte costituzionale non ha negato che il problema possa legittimamente porsi, visto che il giudice, con l’art. 171 bisc.p.c.: “decide tali questioni con decreto, anticipatamente rispetto all’udienza di prima comparizione e, soprattutto, le decide senza che le parti siano chiamate ad interloquire su di esse o abbiano la possibilità di farlo”.
Ma, sottolinea la Corte costituzionale: “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” e va quindi al riguardo suggerita una “interpretazione adeguatrice”.
Quale?
Semplicemente: “per un verso il giudice, in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c. può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione. A questo scopo ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata, un’udienza ad hoc, nell’ambito di quelli che sono i propri generali poteri di organizzazione e direzione del processo”.
Parimenti una esigenza del genere può essere avvertita anche dalle parti, e quindi: “ciascuna parte può sollecitare il giudice affinché, esercitando il suo potere direttivo, fissi un’udienza ad hoc e determini i punti sui quali essa deve svolgersi……nell’uno e nell’altro caso la fissazione di un’udienza ad hoc soddisfa la necessità della piena realizzazione del contraddittorio tra le parti”.
Ogni soluzione, comunque, deve spettare al giudice, il quale ha il potere, caso per caso, di determinare il da farsi: “Rimane però che, pur nel contesto di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, l’art. 175 c.p.c. non può essere piegato fino a far ritenere un vero e proprio obbligo processuale del giudice, essendo il suo potere direttivo essenzialmente discrezionale. Non può escludersi che il giudice, seppur sollecitato a farlo, ritenga di non frapporre un’udienza anticipata nell’ordinario iter processuale al solo fine di realizzare il contraddittorio tra le parti su singole questioni di rito”; ed in queste ipotesi: “le parti, nelle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c. possono prendere posizione in ordine ai provvedimenti adottati dal giudice, in ipotesi chiedendone la modifica o la revoca, e il giudice debba pronunciarsi”.
1.4. “In sintesi” – conclude la Corte costituzionale – “anche se le verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c. hanno ad oggetto questioni di rito normalmente liquide, per altro verso non è sacrificato il contraddittorio delle parti nella misura in cui, quando emerga l’esigenza che questo debba dispiegarsi, il giudice possa adottare, nei modi sopra indicati, provvedimenti che salvaguardino il diritto di difesa. Così interpretata la disposizione censurata risulta non essere in contrasto con l’evocato parametro (art. 24 Cost.)”.
II. Disamina e commento delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 24 Cost. e del rispetto del principio del contraddittorio
2. Ora, per procedere al commento di questa decisione, ritengo necessario continuare a tenere separate le tre questioni sopra esposte, seppur invertendone l’ordine di trattazione, e così inizierei dalla più importante, ovvero dall’ultima, quella relativa all’art. 24 Cost. e al rispetto del principio del contraddittorio.
2.1. E nell’affrontare tale tematica, ritengo parimenti necessario fare un passo indietro, e muovere dalle differenze che nel nostro sistema processuale vi sono tra i provvedimenti che hanno la forma del decreto e quelli che hanno la forma dell’ordinanza.
Perché questa divagazione?
Perché la riforma Cartabia ha trasferito le verifiche preliminari che prima si trovavano nel vecchio art 183 c.p.c. nel nuovo art. 171 bis c.p.c., e in questo modo ha consentito che una serie di questioni attinenti a diritti processuali controversi, o potenzialmente controversi, che fino a ieri si pronunciavano con ordinanza, oggi si possano e si debbano pronunciare con decreto.
Esattamente, nel vecchio sistema dell’art. 183 c.p.c. la decisione delle questioni preliminari aveva la forma dell’ordinanza proprio perché data dal giudice in udienza, o immediatamente dopo essa, e quindi nel contraddittorio delle parti; inoltre, la forma dell’ordinanza assicurava la motivazione, e ciò nel rispetto dell’art. 134 c.p.c.
La riforma ha trasferito invece l’analisi e la decisione di queste questioni sub art. 171 bis c.p.c., aggiungendone, peraltro, un’ulteriore, visto che in tale nuova norma si trova oggi anche l’art. 107 c.p.c., prima non richiamato nell’art. 183 c.p.c.
Il problema è che questo trasferimento delle questioni dal vecchio art. 183 c.p.c. al nuovo art. 171 bis c.p.c. ha comportato la modifica della forma del provvedimento con il quale risolverle, poiché oggi, quelle medesime questioni, coerentemente alla circostanza che vengono pronunciate avanti la prima udienza e in assenza delle parti e dei loro difensori, vengono decise con decreto, e non più con ordinanza, e ciò emerge in modo chiaro dallo stesso tenore dell’art. 171 bis c.p.c., che all’ultimo comma dispone: “il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della cancelleria”.
2.2. Ora, però, questo trapasso non sembra essere privo di conseguenze sul piano della costituzionalità dell’art. 171 bisc.p.c., e per convincersi di ciò è forse utile tornare alle differenze, che, anche dal punto di vista della nostra tradizione processuale, corrono tra i decreti e le ordinanze.
a) I decreti che si pronuncino in seno al processo ordinario di cognizione, stando all’art. 135 c.p.c., si caratterizzano rispetto alle ordinanze sotto un duplice profilo: aa) sono provvedimenti privi di motivazione, “salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge”; ab) e sono provvedimenti pronunciati dal giudice senza il previo contraddittorio tra le parti; e l’assenza del contraddittorio, a sua volta, è giustificata: - dal fatto che il giudice, con il decreto, decide questioni che non hanno, a monte, normalmente, contrasto tra le parti; - e soprattutto dal fatto che il giudice, con il decreto, provvede su questioni che non attengono a veri e propri diritti processuali dei litiganti quanto piuttosto ad aspetti meramente organizzativi dell’attività processuale.
I decreti da ricordare, prima della riforma Cartabia, sono infatti quelli relativi alla designazione del giudice (art. 168 bis c.p.c.), allo spostamento dell’udienza per consentire al convenuto la chiamata in causa di un terzo (art. 269 c.p.c.), o comunque, più in genere, alla fissazione delle udienze (artt. 168 bis, 5° comma, 297, 303 c.p.c., artt. 80, 82 disp. att. c.p.c.), e poi quelli aventi ad oggetto la riunione dei procedimenti pendenti dinanzi al medesimo giudice (artt. 273 e 274 c.p.c.), o la correzione dei provvedimenti richiesti concordemente dalle parti (art. 288 c.p.c.), ecc……[4]
Si tratta, come può notarsi, o di questioni che non vedono le parti su posizioni contrapposte, oppure di questioni meramente organizzative, che non attengono a veri e propri diritti processuali.
Sulla base di ciò, e solo sulla base di ciò, detti provvedimenti possono essere pronunciati dal giudice senza contraddittorio e senza motivazione[5].
b) Per contro, le ordinanza sono provvedimenti motivati, ed infatti lo stesso art. 134 c.p.c. ricorda che: “L’ordinanza è succintamente motivata”; ed inoltre le ordinanze sono provvedimenti che seguono il contraddittorio tra le parti, tanto che si danno o in udienza: “Se è pronunciata in udienza è inserita nel processo verbale”, oppure a seguito di udienza, e in questi casi l’ordinanza: “è scritta in calce al processo verbale, oppure in foglio separato, munito della data e della sottoscrizione del giudice” (così l’art. 134 c.p.c.).
Proprio per queste diverse garanzie, le ordinanze possono avere ad oggetto la definizione di diritti processuali controversi tra le parti, e gli esempi da dare, sempre prima della riforma Cartabia, sono quelli dell’art. 39 c.p.c. con il quale il giudice dichiara la litispendenza o la continenza delle cause, dell’art. 102, 2° comma, con il quale il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario pretermesso, dell’art. 107 c.p.c., circa l’ordine del giudice di far svolgere il processo in confronto di un terzo al quale ritiene comune la causa, o ancora dell’art. 183, 7° comma c.p.c., ordinanza con la quale il giudice, ritenuti ammissibili e rilevanti, ammette i mezzi di prova richiesti dalle parti.
Si tratta, in questi casi, non tanto di aspetti meramente organizzativi del processo, quanto di propri diritti processuali, che il giudice decide con ordinanza, anziché con decreto, proprio per il rispetto che in questi casi si deve al principio del contraddittorio (art. 24 Cost.) e a quello della motivazione (art. 111 Cost.).
2.3. Dicevo, in questo contesto si inserisce altresì la nostra tradizione.
Già l’art. 50 del codice di procedura civile del 1865 asseriva che: “I provvedimenti dell’autorità giudiziaria fatti sopra ricorso di una parte senza citazione dell’altra, hanno nome di decreti”, col che rimarcando l’assenza del contraddittorio nella pronuncia dei decreti.
Giuseppe Chiovenda asseriva che il decreto avesse infatti una funzione quasi amministrativa piuttosto che giurisdizionale e che “non è che la conseguenza di questa natura il carattere proprio del decreto di essere emanato senza contraddittorio”[6].
Virgilio Andrioli scriveva che nel decreto “l’assenza di motivazione non dovrebbe arrecare alcun inconveniente, dal momento che esso non ha finalità decisoria perché è emanato sul presupposto che non vi sia controversia”[7]. E ancora per Salvatore Satta il decreto “non presuppone il contraddittorio tra le parti. Analizzando i vari casi che offre il diritto positivo, sembra possa dirsi che esso corrisponde più che ad una attività processuale vera e propria, ad una attività preparatoria del processo e di determinati atti del processo, ovvero ad una attività amministrativa o negoziale coordinata al processo”[8]
In questa tradizione anche Carmine Punzi, per il quale: “Il decreto… assolve a varie funzioni, spesso di carattere amministrativo e collaterali al processo vero e proprio” – e per questo: “il decreto è un provvedimento che non presuppone necessariamente il contraddittorio”[9]. Infine per Girolamo Monteleone il decreto: “trova ingresso anche nell’ordinario processo di cognizione, generalmente al fine di preparare, e consentire, la trattazione della causa nel contraddittorio tra le parti”[10]
2.4. Dunque, se tant’è, a me sarebbe sembrano necessario affrontare questo aspetto, che invece non è stato proprio preso in considerazione, nemmeno un cenno[11].
Mi sarebbe sembrato naturale chiedersi se poteva essere costituzionalmente legittimo sconfessare la nostra tradizione circa la differenza tra i provvedimenti che si adottano con ordinanza rispetto a quelli che viceversa si adottano con decreto,
E la domanda che necessitava di una risposta era esattamente quella se è costituzionalmente legittimo decidere con decreto diritti processuali delle parti affidate fino ieri all’ordinanza.
Questo, a mio sommesso parere, doveva essere il primo giudizio di costituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. in relazione all’art. 24 Cost.
Ma ciò non è stato.
Una riflessione su ciò, avrebbe tendenzialmente portato a ritenere incostituzionale la novità dell’art. 171 bis c.p.c., in quanto rivoluzionaria del principio fondamentale secondo il quale la decisione dei diritti processuali non può darsi d’ufficio dal giudice, senza contraddittorio e senza motivazione.
E doveva incutere preoccupazione l’idea di arrivare, con tale norma, ad una potenziale soppressione delle differenze tra ordinanze e decreti, tanto in ordine al loro contenuto quanto alla loro funzione; non a caso le prime regolate dall’art. 134 c.p.c., e gli altri, per ragioni opposte, regolati diversamente dall’art. 135 c.p.c.
Se si arriva viceversa a fare di tutta l’erba un fascio e a negare le differenze, allora in futuro potremmo immaginare due soli provvedimenti del processo civile, da una parte le sentenze e dall’altra i decreti + le ordinanze, fuse in un unico provvedimento.
Sarebbe questa, però, una modifica di sistema, non qualcosa che si possa fare in questo modo, quasi inavvertitamente, modificando una sola disposizione di legge.
Anche solo per questo, un operare del genere doveva trovare chiusura da parte della Corte costituzionale.
2.5. La Corte costituzionale ha invece giudicato legittima la novità, e ciò è stato motivato, direi, sotto un duplice profilo:
a) sotto un primo la Corte costituzionale ha asserito che la circostanza che le verifiche preliminari siano adottate con decreto non è grave, poiché le parti possono chiedere, fin dalle memorie ex art. 171 ter c.p.c., la revoca e la modifica di quel decreto, e il giudice, a questo punto, nel contraddittorio delle parti, deve provvedere a confermare, modificare o revocare la misura assunta ai sensi dell’art. 171 bis c.p.c.
Si legge infatti nella sentenza: “le parti, nelle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c. possono prendere posizione in ordine ai provvedimenti adottati dal giudice, in ipotesi chiedendone la modifica o la revoca, e il giudice debba pronunciarsi”[12].
b) Ed ancora, per la Corte costituzionale, il rispetto del contraddittorio si realizza in ogni caso quando il giudice lo ritenga necessario, poiché questi può sempre, d’ufficio o su istanza di parte, anche in base al disposto dell’art. 175 c.p.c., disporre una udienza ad hoc affinché le parti esercitino la difesa avanti le decisioni di cui all’art. 171 bis c.p.c.
Si legge ancora nella sentenza: “il giudice, in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c., può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione. A questo scopo ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata, un’udienza ad hoc, nell’ambito di quelli che sono i propri generali poteri di organizzazione e direzione del processo”.
Provvedo quindi a trattare separatamente le due questioni.
2.6. La prima argomentazione data dalla Corte costituzionale presuppone un dato che in verità non c’è, e che è quello che un decreto possa essere revocato o modificato.
La questione, infatti, non viene nemmeno dibattuta, e subito si asserisce che non sia grave che le verifiche preliminari si diano con decreto perché le parti, immediatamente, ne possono chiedere, nel contraddittorio fra loro, la revoca o la modifica.
Al riguardo, è necessario sottolineare che i decreti dei quali qui ci stiamo occupando sono solo quelli che si pronunciano nel corso del processo ordinario di cognizione, quali, appunto, i decreti che oggi si trovano nell’art. 171 bis c.p.c.
Con essi non hanno niente a che vedere i vari decreti che il codice di procedura civile invece inserisce nei processi speciali: tra questi il decreto cautelare (art. 669 sexies c.p.c.), il decreto nei procedimenti in camera di consiglio (art. 737 c.p.c.) e i decreti di condanna pronunciati con cognizione sommaria, quale i decreti ingiuntivi (art. 633 c.p.c.).
I decreti dei processi speciali possono sì essere revocati o modificati, e ognuno, normalmente, ha un suo regime di impugnazione, revoca o modifica.
Ma tutto questo non riguarda i decreti del processo ordinario di cognizione per l’organizzazione delle attività processuali quali quelli ex art. 171 bis c.p.c.
Per questi ultimi decreti, al contrario, un regime di revoca e modifica non esiste, ed anzi questa è, da sempre, una delle differenze che contrappongono le ordinanze dai decreti; ovvero, mentre le ordinanze pronunciate nel corso del processo ordinario di cognizione sono sempre revocabili e modificabili dal giudice ai sensi dell’art. 177 c.p.c., eguale disposizione con riferimento ai decreti non v’è, e non esiste infatti alcuna norma del secondo libro del codice di procedura civile che legittimi il giudice a modificare un decreto dopo che lo abbia pronunciato.
Di nuovo, tra la dottrina classica scriveva Giuseppe Nappi: “Il decreto in genere non è impugnabile, ma la legge espressamente dispone quando sia ammesso il reclamo”[13]; egualmente Salvatore Satta: “In linea di massima, non si applicano al decreto i principi di revocabilità e modificabilità propri delle ordinanze”[14]; e di nuovo così Carmine Punzi, per il quale il decreto: “non può essere revocato né modificato, se non con l’osservanza del procedimento appositamente predisposto dalla legge”[15]
Ora, che nella prassi del processo ordinario di cognizione si diano casi di revoca o modifica di decreti è possibile, visto il poco rispetto che ormai si ha della legge processuale, e visti i sempre maggiori poteri discrezionali che si riconoscono al giudice, ma che si possa asserire l’esistenza di un vero e proprio diritto processuale delle parti ad ottenere la revoca o modifica di un decreto, direi di no, proprio perché, per i decreti, lo ripetiamo, non esiste una disposizione analoga a quella che è stata data con l’art. 177 c.p.c. per le ordinanze.
Dunque, pronunciato un decreto ex art 171 bis c.p.c. non v’è una norma processuale che legittimi le parti a chiederne la revoca e/o la modifica e al giudice di concederla; questo è un percorso possibile per le ordinanze, ma non per i decreti; dal che l’ulteriore gravità della riforma nell’aver trasferito i provvedimenti che si davano con ordinanza con il vecchio art. 183 c.p.c. nei nuovi provvedimenti che si danno con decreto ai sensi dell’art. 171 bis c.p.c.
Avverso una istanza di revoca o modifica di un decreto, un giudice potrebbe semplicemente schernirsi dietro l’assenza di una disposizione analoga a quella dell’art. 177 c.p.c. che legittimi un simile potere, e così semplicemente dichiarare inammissibile la richiesta.
Non può sostenersi, pertanto, che la decisione con decreto delle verifiche preliminari non sia grave perché le parti in ipotesi ne chiedendo la modifica o la revoca e il giudice provvede, perché, in verità, le cose non stanno in quei termini, e i dubbi di costituzionalità in ordine all’assenza del contraddittorio dei decreti che si pronunciano ex art. 171 bis c.p.c., doveva rafforzarsi, e non venir meno, in ordine a questi aspetti.
2.7. La seconda questione adottata dalla Corte costituzionale, per la quale l’art. 171 bis c.p.c. non viola il principio del contraddittorio poiché il giudice può, anche prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., disporre comunque “un’udienza ad hoc”, va a mio parere integrata con almeno tre diverse osservazioni.
a) Una prima è che il diritto al contraddittorio deve essere assicurato dalla legge, non dal giudice.
Se il contraddittorio è assicurato solo dal potere discrezionale del giudice, che in taluni casi lo può concedere ed in altri no, lì il diritto al contraddittorio non esiste più, poiché nessuna garanzia dell’esercizio di esso è quindi in questo modo assicurato.
Nessuno mette in discussione che il giudice, nel processo civile, eserciti dei poteri discrezionali, ma questi poteri discrezionali non possono avere ad oggetto un diritto fondamentale garantito dalla costituzione quale è quello del contraddittorio.
Il diritto al contraddittorio deve essere assicurato dalla legge, e se la legge non garantisce il contraddittorio, allora va da sé che la legge è incostituzionale.
Direi, peraltro, che ciò si ricava dalle stesse disposizioni costituzionali.
L’art. 24 Cost. dice che “la difesa è diritto inviolabile”, e un diritto inviolabile non può essere rimesso alla discrezionalità del giudice; inoltre l’art. 111 Cost., come è noto, asserisce che il giusto processo è “regolato dalla legge”; il che, di nuovo, conferma che il diritto al contraddittorio, quale condizione prima di un giusto processo, deve essere assicurato dalla legge, e non rimesso alla discrezionalità del giudice, caso per caso, come se esistessero casi nei quali l’esercizio di esso non sia né necessario né opportuno.
b) In secondo luogo il processo civile deve normalmente rispondere ad un principio di legalità, ovvero deve svolgersi secondo regole predeterminate dalla legge; e queste regole hanno una funzione pubblica, che è quella di far sì che le parti, una volta che entrino in un Tribunale, conoscano a priori le modalità di svolgimento del rito che utilizza il giudice per decidere le sorti dei loro diritti soggettivi.
Ora, di nuovo, nessuno ha mai messo in discussione che nel corso del processo il giudice, possa, ai sensi dell’art. 175 c.p.c. esercitare “tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento”, ma tra questi poteri non è mai rientrato quelli di inventarsi norme che non esistono o capovolgere le assi portanti del procedimento, quali quelle, oggi, della struttura della prima udienza ex art. 183 c.p.c., che la stessa norma rubrica come “prima comparizione delle parti e trattazione della causa”, nonché quella di predisporre delle attività procedimentali non previste dalla legge e che si antepongano alla prima udienza, modificando l’iter fissato dai nuovi artt. 171 bis e ter c.p.c.
Che oggi ciò sia necessario per le scelte discutibili fatte dalla riforma Cartabia non v’è dubbio; ma che la soluzione invece di essere quella di dichiarare incostituzionale la norma sia quella di dar vita ad un correttivo non corrispondente al testo, e non previsto dalla legge, e rimesso alla discrezionalità del giudice, appare scelta discutibile, per non usare espressioni più forti, poiché in questo modo si attribuiscono al giudice poteri che questi non può avere, e perché in questo modo salta il principio di legalità del processo, che è quello che giustifica l’esistenza di un codice di procedura civile in un sistema, quale il nostro, che ancora deve essere considerato di civil law.
E, direi, che in questo senso è anche la giurisprudenza che ha preso posizione sull’art. 175 c.p.c., visto che per essa il giudice può “evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo”[16], ma non certo spingersi fino a rendersi autore delle regole, poiché ciò contrasterebbe con i fondamenti del nostro diritto.
c) La soluzione prescelta dalla Corte costituzionale, infine, a me sembra discutibile anche sotto il profilo delle fonti del diritto, che, sempre nel nostro sistema di civil law, non sono riconducibili al giudice.
Bisognerebbe porsi il problema, allora, dei limiti delle sentenze additive della Corte costituzionale: poiché è evidente che una cosa è asserire che una disposizione è costituzionale se interpretata in un certo modo, altra cosa è inventarsi un rito non previsto dalla legge per salvare dall’incostituzionalità una legge.
Qui la Corte costituzionale è arrivata ad asserire:
ca) che il giudice può disporre un’udienza ad hoc che si antepone alla prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c.: “Ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto, una udienza ad hoc”;
cb) che il giudice può consentire che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione;
cc) poi ancora si precisa che le parti possono chiedere l’udienza ad hoc, ovvero una udienza prima di quella dell’art. 183 c.p.c., anche nelle ipotesi nelle quali il giudice abbia assunto la decisione con il decreto ex art. 171 bis c.p.c. e se il giudice disattende questa richiesta all’udienza ex art. 183 c.p.c. “non può quest’ultimo, una volta rimasto inadempiuto l’ordine in questione, assumere provvedimenti sanzionatori in chiave processuale ma adotta quelli necessari per l’ulteriore corso del giudizio”;
cd) e poi ancora “ove la parte non abbia sollecitato il giudice a realizzare il contraddittorio anche prima dell’udienza di comparizione... non vi sarebbe un vulnus al diritto di difesa… rimarrebbero, nel caso di conferma, con ordinanza, del decreto ex art. 171 bis c.p.c., le ordinarie conseguenze della mancata ottemperanza all’onere processuale”.
Si tratta, in buona sostanza, della riscrittura degli atti introduttivi del processo, che riterrei non consentito al giudice delle leggi[17].
III. L’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 76 Cost. e dell’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021.
3. Possiamo passare all’analisi dell’eccesso di delega.
Sul punto, la Corte costituzionale ha asserito che deve attribuirsi una certa “discrezionalità del legislatore delegato, il quale è chiamato a sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge delega, potendo così ben svolgere un’attività di riempimento normativo, che è pur sempre esercizio delegato di una funzione legislativa” (così ancora la Corte Cost. 3 giugno 2024 n. 96).
E ha aggiunto la Corte costituzionale: “se effettivamente l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione, da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio”; poiché, appunto, “volta a realizzare il generale canone della concentrazione processuale sancito dalla lettera a) del medesimo l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021”.
3.1. Ora, par evidente, che se il legislatore delegato è tenuto non solo ad eseguire, bensì anche a svolgere un’attività di riempimento normativo, e se per riempimento normativo si intende che il legislatore delegato può inserire nel decreto legislativo qualunque cosa si collochi nel generale canone della concentrazione processuale, allora, potremmo dire, in verità, che il concetto stesso di eccesso di delega entra inevitabilmente in crisi.
Ed anzi, a questo punto, potremmo aggiungere che, dipendendo l’eccesso di delega da valutazioni del tutto discrezionali quali quelle della ratio delle norme, e/o del raggiungimento degli obiettivi delle norme, ecc….. non solo il legislatore delegato può fare così un po’ quello che vuole a fronte della legge delega, ma anche il giudice costituzionale è libero di decidere quello che ritiene più opportuno, se le verifiche si collocano su un terreno totalmente elastico e del tutto relativo quale quello che si ricava da simili posizioni (seppur già sostenute in altri precedenti della Corte costituzionale, ancora si ricordano i precedenti n. 79 del 2019, n. 198 del 2018 e n. 104 del 2017).
Ed infatti, se nel raffronto tra l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 e l’art. 171 bis c.p.c. non si scorgono eccessi di delega nonostante la prima disposizione non contempli alcuna verifica preliminare da decidere con decreto in assenza di contraddittorio e prima di ogni udienza tra le parti, e l’eccesso di delega non vi sarebbe perché il decreto legislativo è rimasto comunque coerente con l’esigenza della concentrazione e della ragionevole durata del processo, beh, allora, è provato che tutto, e il contrario di tutto, può ben costituire o non costituire eccesso di delega.
3.2. Direi, alla luce di ciò, che oggi, forse, sarebbe più coerente affermare che, in una realtà nella quale ormai la contrapposizione tra funzione legislativa ed esecutiva si è persa, e il Governo si è sostanzialmente appropriato anche della funzione legislativa svuotando le funzioni del Parlamento, è un lusso continuare a discutere di eccesso di delega, e che conseguentemente il rispetto dell’art. 76 cost. deve porsi nel nostro tempo solo in termini assai sfumati.
E se questa conclusione vale in generale nell’ambito del diritto costituzionale, ancor più vale per la recente riforma del processo civile, visto che la legge delega n. 206 del 2021, preparata in ogni sua parte dallo stesso Governo, veniva approvata dal Parlamento senza discussione, a fronte della fiducia posta su essa; e proprio al fine di evitare ogni discussione parlamentare, il disegno di legge delega veniva riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662; un nuovo, unico articolo lungo ben 39 pagine.
In meccanismi di questo genere, il tema dell’eccesso di delega possiamo davvero ritenerlo (per i nostalgici come me, purtroppo) uno strumento del passato.
3.3. In ogni caso, in tutta onestà intellettuale, nessuno poteva davvero pensare che la Corte costituzionale dichiarasse incostituzionale l’art. 171 bis c.p.c. per eccesso di delega, e probabilmente bene ha fatto la Corte a non cedere a questa idea.
La riforma di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 è piena di eccessi di delega, e se si dovesse andare a verificare, norma per norma, se vi sono stati degli eccessi nel passaggio dalla legge delega al decreto legislativo, allora tutta la riforma rischierebbe di cadere.
Io stesso, nel mio commento al Tribunale di Verona 23 settembre 2023 ne ricordavo ludicamente almeno quattro di questi eccessi, tutti aventi ad oggetto momenti centrali del nuovo processo civile: tra questi la disciplina della sinteticità e chiarezza degli atti processuali, oggi regolati dal decreto ministeriale 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione dell’art. 46 delle disp. att. c.p.c., la disciplina delle udienze cartolari e a distanza, regolate dagli artt. 127 bis e ter c.p.c., la disciplina della nuova procedura in appello di cui agli artt. 348 bis, 349 bis, 350, 3° comma, 350 bis c.p.c., e infine la disciplina del procedimento in cassazione ex nuovo art. 380 bis c.p.c.
Però, che facciamo?
Abroghiamo una riforma voluta dal PNRR?
Io, tra il serio e il faceto (direi più faceto che serio), proponevo di porre allora, accanto all’istituto dell’eccesso di delega, quello del ripensamento: una cosa è l’eccesso di delega, come tale incostituzionale; altra cosa il ripensamento, irrilevante invece.
Il Governo, quando ha scritto la legge delega, pensava di poter fare una cosa, poi ne ha fatta un’altra; evidentemente ha cambiato idea, che male c’è?
A tutti deve essere riconosciuto il diritto che i romani etichettavano con l’espressione re melius perpensa.
IV. L’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 3 Cost. e del principio di parità di trattamento tra questioni rilevabili d’ufficio.
4. Resta, infine, in tema dell’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto l’art. 171 bis c.p.c. dispone che il giudice possa decidere alcune questioni preliminari, ovvero quelle indicate nella norma, con decreto avanti il contraddittorio tra le parti, mentre tutte le altre verifiche preliminari, ovvero quelle non menzionate dalla norma, devono essere trattate dopo il contraddittorio e successivamente all’udienza ex art. 183 c.p.c.
La Corte costituzionale ha dichiarato anche questa questione infondata, perché il differente trattamento trova un sua ragion d’essere, che è quella che alcuni provvedimenti attengono a questioni più liquide, e sono così più funzionali alla necessità di non perder tempo, mentre altri non hanno queste caratteristiche.
Ed infatti, per la Corte costituzionale: “Tale diversa regola processuale appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti hanno sui tempi di svolgimento del giudizio”, e poi perché alcune “verifiche preliminari si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti”.
Ora, anche qui, che talune questioni preliminari si pongano diversamente rispetto ad altre a fronte del principio di ragionevole durata del processo appare affermazione non dimostrata, né la sentenza contiene alcun esempio per giustificare in concreto una simile differenziazione, e né ancora la legge delega poneva distinzioni tra questioni e questioni.
L’incompetenza del giudice, o il difetto di giurisdizione si pongano diversamente rispetto alla nullità della notificazione in punto di ragionevole durata del processo?
E ancora, come può sostenersi che alcune questioni, per materia, siano più liquide di altre, e non invece la liquidità di una questione dipenda semplicemente dalla complessità o meno del caso in concreto, senza che sia possibile darsi a priori la condizione di liquidità a seconda della materia?
Così, è sempre liquida una questione che cada in tema di litisconsorzio necessario, oppure di nullità della citazione, o ancora di intervento di un terzo al processo per ordine del giudice?
E parimenti non è mai liquida una questione preliminare non richiamata nell’art. 171 bis c.p.c. quale ad esempio quella relativa all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.?
Io credo che a queste domande non si possa con tranquillità rispondere in un senso o nell’altro, cosicché anche il tema del rispetto dell’art. 3 Cost. da parte del nuovo art. 171 bis c.p.c. doveva apparire, a mio sommesso parere, affatto chiara.
V. Osservazioni sullo stato del processo civile del nostro tempo. Giudicare e rassicurare
5. Ora, dovendo dare uno sguardo conclusivo d’insieme alla sentenza in commento, potremmo aggiungere che la Corte costituzionale non ha negato l’esistenza delle incostituzionalità sollevate dal Tribunale di Verona, solo che, per ognuna di esse, invece di scegliere la dichiarazione di incostituzionalità, ha preferito trovare una rassicurazione: a) il decreto di cui all’art. 171 bis c.p.c. è pronunciato sulle verifiche preliminari senza interlocuzione con le parti, è vero, ma la norma non è incostituzionale, perché il giudice può sempre disporre il contraddittorio anticipato nei casi più dubbi o complessi, e in ogni caso le parti possono sempre successivamente chiedere la revoca o la modifica di quella decisione; b) l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non prevedeva assolutamente un decreto che il giudice potesse pronunciare sulle verifiche preliminari avanti la prima udienza, è vero, ma l’art. 171 bis c.p.c. non si espone ad eccesso di delega, poiché il legislatore delegato può svolgere un’attività di riempimento normativo e comunque la norma ha come fine quello di contenere la durata del processi in una ottica di concentrazione; c) infine l’art. 171 bis c.p.c. differenzia sì le questioni attinenti alle verifiche preliminari, prevendendo che solo alcune possano essere decise immediatamente con decreto ed altre no, è vero, ma la norma non difetta sotto il profilo del principio di eguaglianza, in quanto la differenziazione ha una sua giustificazione, dovuta al fatto che le questioni scelte dall’art. 171 bis c.p.c. sono quelle più liquide e maggiormente idonee ad assolvere il compito di concentrazione delle attività processuali voluto dalla riforma Cartabia.
Quando ero adolescente, negli anni ’70, girava una frase che diceva: “Piove, Governo ladro!”, che significava un po’ che la colpa era sempre del Governo, anche quando il Governo, in verità, non aveva affatto colpe.
Oggi la tendenza mi sembra esattamente la contraria: il Governo non sbaglia mai, e tutto, in un modo o nell’altro, va sempre bene.
Questa idea secondo la quale tutto va sempre bene, ha fatto sì che di riforma in riforma, di intervento e intervento, si sia sostanzialmente capovolto le assi portanti del nostro processo civile, che oggi si presenta completamente trasformato, senza più regole fisse, senza più prederminazioni, senza distinzioni.
Quando negli anni ’30 Piero Calamandrei scriveva il suo breve articolo dal titolo Abolizione del processo civile?, il timore che egli aveva ero quello della soppressione del codice di rito a favore di un procedimento senza regole, in seno al quale il giudice potesse decidere dei diritti delle parti in modo libero e discrezionale.
Oggi si rischia di arrivare a quel risultato senza più nemmeno avere la necessità di abolire il codice: una rivoluzione.
Qual è, infatti, lo stato della procedura civile del nostro tempo?
È quello nel quale, data una certa procedura, il giudice può inventarne un'altra, se la ritiene più funzionale alla concentrazione processuale e al rispetto del contraddittorio; è quello dove il diritto fondamentale al contraddittorio può essere assicurato dal giudice e non necessariamente dalla legge; è quello, conseguenziale, nel quale non si ritiene più necessario che il cittadino abbia conoscenza predeterminata dalla legge delle regole processuali, e nessun problema si ha se questi debba invece scoprirle strada facendo, caso per caso; è quello nel quale le fonti del diritto si sfumano, e così anche l’autorità giudiziaria può essere, a pieno titolo, considerata fonte di diritto; è quello nel quale non si avverte più la differenza tra un decreto e un’ordinanza; è quello nel quale un decreto può avere ad oggetto anche la decisione di diritti processuali controversi e può essere modificabile e revocabile al pari delle ordinanze; è quello dove non è grave che il Governo svolga di fatto funzioni legislative e dove l’eccesso di delega (praticamente) non esista più; ed è quello, soprattutto, dove tutto va bene se il fine è il rispetto delle direttive europee.
VI. Orelsan e il poema “Tout va bien”.
6. Questa situazione, se mi è consentita una nota di colore in chiusura, a me ricorda il cantante francese Orelsan, il quale, nello spiegare ad un bambino come va il mondo, lo rassicura dicendo “Tout va bien”.
L’adulto spiega al bambino che: se un sans abri dorme per strada, è perché ama il rumore delle automobili; se una donna è piena di macchie su tutto il corpo, è perché ha giocato con le pitture; se un soldato in guerra è sparito, è perché si è riunito ad altri, lontano, in un girotondo, mano nella mano; Petit, tout va bien.
Poi l’adulto, in un’immagine che a me ricorda Giovanni Pascoli, dice al bambino: “Dormi, dormi!”.
[1] V. infatti G. SCARSELLI, Il Tribunale di Verona dubita della legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c., www.giustiziainsieme.it. 14 novembre 2023.
[2] V. anche M. BOVE, La trattazione nel processo ordinario di primo grado tra riforma Cartabia, intervento della Corte costituzionale e annunciato correttivo, in www, judicium.it.
[3] V. anche F.M. SIMONCINI, Le verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c. al vaglio della Corte costituzionale, in www, judicium.it, 22 febbraio 2024; D. VOLPINO, Il nuovo art. 171 bis c.p.c. censurato di incostituzionalità, Giur. it., 2024, 1080.
[4]V. anche N. GIUDICEANDREA, Decreto (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. del diritto, Milano, XI, 1962, 824.
[5] V. anche LANCELLOTTI, Decreto, voce del Noviss. dig.it., Torino, 1960, V, 278; LUZZATTI, Decreto, in Enc. forense, Milano, 1958, III, 36.
[6] CHIOVENDA, Istituzione di diritto processuale civile, Napoli, 1934, II, 357.
[7] ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, II, 378.
[8] SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1981, 212.
[9] PUNZI, Il processo civile, Torino, 2010, I, 41.
[10] MONTELEONE. Manuale di diritto processuale civile, Padova, 2007, I, 291.
[11] Né un ripensamento in tal senso sembra giungere dal c.d. decreto correttivo, che non solo conferma la decisione con decreto delle verifiche preliminari, ma anzi aggiunge un ulteriore potere ‘d’ufficio del giudice senza contraddittorio qual è quello di passare al rito sommario prima dell’interlocuzione di ciò con le parti.
[12] In argomento v. anche C. TRAPUZZANO, Sulle verifiche preliminari opera la garanzia del contraddittorio, anche in chiave postuma, in Il Quotidiano giuridico, on line.
[13] NAPPI, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1941, I, 771.
[14] Ancora SATTA, Diritto processuale civile, cit., 212.
[15] PUNZI, Il processo civile, cit., I, 41.
[16] v., infatti, ad esempio, Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass. 1 marzo 2012 n. 3189; Cass. 27 gennaio 2017 n. 2044; Cass. 9 gennaio 2019 n. 267; Cass. 27 maggio 2019 n. 14365.
[17] Sul punto v. anche C. CECCHELLA, Sentenza 96/24: il rigetto della questione di costituzionalità come fonte del diritto, Il Dubbio, 5 giugno 2024.
Immagine: John Koch, Padre e figlio (autoritratto), olio su tela, 1955, Kraushaar Galleries, New York.
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