ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In tema di decreto legge 92 del 4 luglio 2024 “Carcere Sicuro” si veda anche Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario di Fabio Gianfilippi, pubblicato il 10 luglio 2024.
D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente.
di Ezio Romano
Sommario: 1. Il D.L. 92/2024: da Svuotacarceri a Carcere Sicuro. – 2. Le modifiche di interesse per la popolazione detenuta: liberazione anticipata, colloqui telefonici, albo delle comunità. – 2.1. La nuova (?) liberazione anticipata: nulla di straordinario. – 2.2. La modifica annunciata al numero delle telefonate coi familiari: poco di necessario. – 2.3. L’istituzione dell’Albo delle Comunità: scarsamente urgente. – 2.4. Varie ed eventuali: le misure provvisorie. 3. Conclusioni: l’important n’est pas de bien ou mal parler mais de parler.
1. Il D.L. 92/2024: da Svuotacarceri a Carcere Sicuro.
Approvato dal Consiglio dei Ministri nella tarda sera del 3 luglio 2024 e presentato quale risposta del Governo all'emergenza carceri, che da mesi ormai imperversa nel dibattito pubblico sospinta dall'esorbitante numero di suicidi registrato nella prima metà del 2024 negli istituti di pena del Belpaese, è stato pubblicato in gazzetta Ufficiale il 4.7.2024 il D.L. 92/2024, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia”.
Il Governo ha tenuto la barra dritta rispetto alle esternazioni pubbliche del Guardasigilli, che a chi lo compulsava sul tema della cosiddetta liberazione anticipata speciale o misure analoghe aveva espressamente indicato di non gradire né avallare misure volte a concedere sconti di pena e deflazionare tout court la popolazione delle carceri, tant'è che il decreto, in origine battezzato informalmente dai giornali “Svuota carceri” è stato più correttamente indicato dal Ministro avere come obiettivo un carcere sicuro e più rispondente a canoni di umanità della pena.
Tuttavia, che l'intervento non abbia granché di umanitario, nonostante i proclami della conferenza stampa di presentazione, e guardi prioritariamente agli aspetti securitari, affrontando poi in modo maldestro alcuni temi di sicuro rilievo, ma con un approccio incapace di dare tempestive risposte ai fenomeni che si intenderebbe arginare, può cogliersi dal tipo di strumenti messi in campo, nonché dall'ordine dell'articolato che interessa il pianeta carcere.
Il capo I del decreto, infatti, si apre con una serie di articoli rivolti anzitutto al personale di polizia penitenziaria e ai dirigenti degli istituti, prevedendo: l'assunzione di circa mille unità di agenti penitenziari mediante programmazione di due concorsi da 500 posti ciascuno per gli anni 2025 e 2026 (art. 1); l'assunzione di venti unità di nuovi dirigenti mediante scorrimento oltre i limiti delle graduatorie già esistenti (art. 2); lo scorrimento delle graduatorie dei concorsi già espletati per ispettori, al fine di immettere il prima possibile nuovo personale in servizio (art. 3); la possibilità di ridurre i percorsi di formazione iniziale degli agenti di polizia penitenziaria, garantendo un ingresso più rapido in postazioni operative delle nuove leve (art. 4).
Tutti interventi espressamente volti ad aumentare la sicurezza e l'efficienza degli istituti di pena, ma che poco o nulla hanno a che fare con il trattamento penitenziario, con l'umanizzazione della pena e la condizione delle persone detenute se non in via tangente, nella misura in cui gli agenti di polizia penitenziaria rappresentano spesso per il detenuto il primo soggetto cui rivolgere istanze di ascolto e a spesso anche di aiuto.
Ma, anche ammesso che l'aumento degli operatori di polizia allevi il disagio di chi vive negli istituti, gli interventi più strutturali sulle piante organiche sono rinviati agli anni a venire.
2. Le modifiche di interesse per la popolazione detenuta: liberazione anticipata, colloqui telefonici, albo delle comunità.
Occorre aspettare il capo II per poter esaminare le misure dirette alla popolazione detenuta, articolate sui seguenti punti: una integrale riforma della procedura per la liberazione anticipata, alcuni ampliamenti sul numero delle telefonate, l'istituzione di un albo di comunità per le misure alternative.
Altra disposizione rivolta ai detenuti (l'art. 7 D.L. 92/2024), prevede una stretta ulteriore al 41 bis O.P., escludendo le persone sottoposte al regime differenziato dall'accesso ai programmi di giustizia riparativa. Nulla si aggiunge, anzi si sottrae, e dunque non si ritiene ci sia molto da commentare rispetto a questa innovazione.
2.1. La nuova (?) liberazione anticipata: nulla di straordinario.
Anzitutto, l'art. 5 prevede una sostanziale modifica della liberazione anticipata, incidendo però prevalentemente su profili procedurali che interessano le Procure e gli Uffici di Sorveglianza nel riconoscimento del beneficio, piuttosto che su elementi sostanziali dell’istituto.
Sul versante dell'organo che cura l'esecuzione, viene inserito all'art. 656 c.p.p. un nuovo comma 10 bis, a mente del quale, sostanzialmente, la liberazione anticipata deve essere calcolata a monte dalla Procura all'atto dell'emissione dell'ordine di esecuzione della pena, che dovrebbe da oggi indicare non solo il fine pena calcolato sull'ammontare della pena in esecuzione, ma anche rappresentare al detenuto che il fine pena sarà ridotto in ragione di tutti i semestri di liberazione anticipata che la persona maturerà nel corso dell'esecuzione[1].
L'essere già a conoscenza del monte pena effettivo al netto della liberazione anticipata e la rappresentazione che in caso di condotte incongrue si darà esecuzione a quello maggiore originariamente determinato sulla pena irrogata in sentenza, dovrebbe, nella prospettiva del governo, spiegare un effetto di condizionamento sulla persona del detenuto, che viene sin da subito messo al corrente sul quantum di pena che potrà evitare di scontare laddove mantenga una condotta regolare nel corso della detenzione.
Non si tratta, però, di una concessione effettuata ex ante, ma di una mera prospettazione per così dire virtuale, che deve essere poi confermata mediante provvedimenti espressi di concessione o diniego da parte del magistrato di sorveglianza.
Si modifica, poi, l'art. 54 c. 2 O.P., prevedendo che alla Procura debbano essere notificati i soli provvedimenti di revoca o rigetto del beneficio, con esclusione, dunque, di quelli di riconoscimento.
Sul versante della magistratura di sorveglianza è poi modificato integralmente l'art. 69 bis della L. 354/1975, che disciplina la procedura da seguire in materia di liberazione anticipata, stabilendosi un generale principio di attivazione d'ufficio del Magistrato di Sorveglianza laddove le quote di liberazione anticipata per i semestri maturati dal detenuto risultino necessarie per rendere ammissibile una domanda di accesso ai benefici penitenziari o alla definitiva scarcerazione[2].
Il comma primo del novello art. 69 bis O.P., si occupa dell’ipotesi in cui la liberazione anticipata maturata dal detenuto debba essere valutata per l’accesso ad un beneficio penitenziario, prevedendo che il magistrato di sorveglianza accerti ex officio il ricorrere delle condizioni che legittimano il riconoscimento dello sconto di pena nell'ambito delle istanze di benefici avanzate dal detenuto innanzi all'Ufficio di Sorveglianza. Parimenti, a mente del comma 4 secondo periodo (e non si comprende perché tale previsione sia stata collocata al di fuori del comma 1), il presidente del Tribunale di Sorveglianza, laddove la liberazione anticipata acceda a domanda di misure o benefici di competenza dell’organo collegiale, trasmetterà gli atti per la decisione sulla liberazione anticipata al Magistrato di Sorveglianza. La norma, infine, precisa che la domanda di accesso ai benefici può essere presentata a partire da novanta giorni prima dell'effettivo maturare dei semestri il cui riconoscimento renderà ammissibile l'istanza; vengono, dunque, messe al bando, le istanze presentate troppo in anticipo rispetto alla maturazione dei termini per l’accesso al beneficio.
Il comma secondo, invece, guarda all’ipotesi in cui la liberazione anticipata sui semestri residui e non valutati per l’accesso ai benefici debba essere riconosciuta per confermare il fine pena virtuale indicato dalla Procura al netto delle riduzioni e, dunque, il beneficio sia funzionale alla scarcerazione.
Anche in questo caso, l’attivazione della procedura è richiesta ex officio prevedendosi che entro i novanta giorni antecedenti alla scadenza del termine della pena virtuale già al netto di tutte le riduzioni possibili, il Magistrato di Sorveglianza debba procedere alla valutazione di tutti i semestri maturati che non siano stati oggetto di statuizione intermedia, confermando o meno la detrazione per il beneficio e, dunque, il fine pena al netto del beneficio virtualmente indicato dalla Procura.
Sostanzialmente, il comma in esame vuole fa sì che almeno tre mesi prima del fine pena netto, la persona sia messa nelle condizioni di sapere se la data di scarcerazione prevista coinciderà con quella indicata dalla Procura in modo virtuale.
Rispetto a tale procedura, tuttavia, desta qualche perplessità la circostanza che il trimestre finale di pena venga sostanzialmente escluso dal computo per il beneficio, e non si comprende cosa dovrebbe accadere laddove l’ultimo semestre valutabile ai fini della liberazione anticipata si completasse, ad esempio, proprio nel suddetto periodo di novanta giorni.
Il comma terzo, ancora, prevede che ogni istanza di liberazione anticipata avanzata in casi diversi da quelli di cui ai commi precedenti sia inammissibile, a meno che la persona non indichi espressamente un interesse specifico che legittima la richiesta di mero riconoscimento della liberazione anticipata. Sebbene è difficile immaginare quali altri interessi specifici diversi dall'accesso ai benefici o alla scarcerazione possano sorreggere una istanza di liberazione anticipata tout court, una ipotesi che sembrerebbe poter effettivamente rientrare nell'alveo applicativo della norma è quella in cui il riconoscimento del beneficio comporterebbe l'integrale espiazione di un reato ostativo ricompreso in condanna o ne cumulo e, dunque, l'applicazione di un regime più favorevole per le norme del trattamento interno. Altra ipotesi potrebbe riguardare la liberazione anticipata necessaria per l'espiazione delle quote pena richieste per i condannati a reati di cui all'art. 4 bis O.P. ai fini dell'accesso all'art. 21 O.P., istituto che ordinariamente non poggia su una autonoma istanza rivolta direttamente al Magistrato di Sorveglianza, ma che viene proceduralmente proposto dall'Istituto.
A mente del comma quarto, poi, i provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza che riconoscono o rigettano la sussistenza del beneficio, sono emessi in camera di consiglio senza partecipazione delle parti e si dice debbano essere comunicati ai soggetti di cui all'art. 127 c.p.p. tra cui il p.m. e l'interessato.
Chiude il comma quinto, a mente del quale avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza che decide sulla liberazione anticipata è ammesso reclamo al Tribunale di Sorveglianza, che decide ai sensi dell'art. 678 c.p.p., con applicazione dell'art. 30 bis c. 6 O.P. Il reclamo può essere proposto dalle parti private, ma anche dal pubblico ministero.
I due commi da ultimo esaminati, così scritti, appaiono non del tutto coerenti con la modifica che lo stesso art. 5 D.L. 92/2024 introduce contestualmente all'art. 54 L. 354/1975, a norma del quale devono essere comunicati alla Procura i soli provvedimenti di rigetto o revoca della liberazione anticipata e non anche quelli di accoglimento (D.L. 92/2024, art. 5 c. 2, già citato supra).
Potrebbe ritenersi che l’art. 54 O.P. faccia riferimento al P.M. competente per l’esecuzione, mentre l’art. 69 bis c. 4, nel rimandare all’art. 127 c.p.p. si riferisca al P.M. della sede del Magistrato di Sorveglianza che ha emesso il provvedimento; ovvero che il comma 4 faccia qui riferimento ai soli soggetti privati in caso di concessione ed a tutti i soggetti di cui al 127 c.p.p. in caso di rigetto e che ai sensi del comma 5 il pubblico ministero possa, dunque, proporre reclamo solo avverso le ordinanze di rigetto.
Ad ogni modo, il dato appare contraddittorio e non limpido e sarebbe, pertanto, auspicabile sul punto un chiarimento o un emendamento in sede di conversione.
Da ultimo, l’art. 5 c. 4 D.L. 92/2024 stabilisce che entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto debbano essere adottate modifiche al regolamento di attuazione della legge sull’ordinamento penitenziario volte a garantire: che le norme di attuazione siano adeguate al comma 3 dell’art. 5 D.L. 92/2024; che fino all’attuazione del fascicolo personale digitale del detenuto vengano trasmesse al Magistrato di Sorveglianza secondo le scadenze fissate al comma 2 tutte le informative utili alla decisione sulla liberazione anticipata; che all’all’atto di ogni domanda di beneficio penitenziario la Direzione dell’Istituto trasmetta al Magistrato di Sorveglianza anche tutte le informazioni necessarie anche per la decisione sulla liberazione anticipata maturata
Esaurito l’esame del testo dell’art. 5 del decreto, siano concesse alcune considerazioni.
Dal tenore della norma, ad una prima lettura potrebbe sorgere il dubbio che sul piano operativo la decisione sulla liberazione anticipata "intermedia" (non rilevante sul fine pena ma funzionale ai benefici) debba essere resa incidentalmente nell'ambito della valutazione di ammissibilità della misura o del beneficio cui accede e non richieda l'iscrizione di autonomo procedimento d'ufficio, da trattarsi separatamente.
La prima ipotesi potrebbe apparire suffragata dalla circostanza che letteralmente comma 1 dell'art. 69 bis O.P. attribuisce al Magistrato di Sorveglianza l'obbligo di accertare la liberazione anticipata in concomitanza con una istanza di beneficio e che sono previste dall’art. 5 c. 4 del D.L. 92/2024 future modifiche del DPR 230/2000 in modo che, a regime, ad ogni istanza di misura alternativa o beneficio penitenziario la direzione dell'istituto trasmetta anche tutte le informazioni utili per il riconoscimento della liberazione anticipata.
Tuttavia, a parere di chi scrive è evidente la seconda opzione, vale a dire quella che richiede l’instaurazione di diverso procedimento ed autonoma statuizione, sia quella più funzionale e coerente con il testo complessivo, laddove si consideri che il comma 4 prevede che il Magistrato di Sorveglianza emetta una ordinanza di concessione o diniego del beneficio, che difficilmente può essere intesa come provvedimento incluso nella decisione sulla domanda principale. Se ciò potrebbe, astrattamente, essere vero per l’accesso alle misure, deve evidenziarsi che tra i benefici penitenziari cui la liberazione anticipata può accedere taluni tipicamente anteriori alle misure sono concessi con decreto (in particolare i permessi premio) e, dunque, non potrebbero contenere al proprio interno anche un’ordinanza di liberazione anticipata.
D'altronde, normativamente il Tribunale di Sorveglianza per le valutazioni sulla liberazione anticipata accessoria ad un beneficio richiesto innanzi al collegio deve trasmettere gli atti al Magistrato, che provvederà con propria ordinanza; sicché sarebbe disarmonico ritenere che laddove l’istanza principale sia avanzata innanzi al Magistrato di Sorveglianza la liberazione anticipata non debba parimenti essere oggetto di un autonomo procedimento e provvedimento.
Ancora, si consideri che una decisione incidentale ed accessoria, in ipotesi, ad ogni domanda di beneficio richiesto all’organo monocratico creerebbe problemi anche in tema di competenza per territorio in caso di trasferimento del detenuto che avanzi diverse istanze presso uffici territorialmente diversi ed esporrebbe al rischio di giudicati disomogenei.
Pertanto, anche sul piano operativo, tenere due procedimenti distinti, seppur collegati, appare l’unica soluzione praticabile.
Tentando di riassumere, lo schema normativo richiederà agli Uffici ed ai Tribunali di Sorveglianza ogniqualvolta venga richiesto un beneficio penitenziario di procedere in questo senso:
Chiunque abbia conoscenza della prassi degli Uffici di Sorveglianza si renderà conto che i soli risparmi procedurali rispetto alla situazione esistente paiono essere quelli di rimuovere la necessità di formulare una autonoma istanza per la liberazione anticipata ed eliminare il parere del pubblico ministero.
La liberazione anticipata, così delineata, diviene in generale istituto oggetto di un procedimento non più autonomo, ma caratterizzato da incidentalità e strumentalità rispetto al beneficio cui accede o alla scarcerazione, salva l’ipotesi residuale di cui al comma terzo.
L'effetto della riforma sul lavoro degli uffici giudiziari, invece, sembra essere quello di ridurre in astratto il numero di istanze di liberazione anticipata innanzi agli Uffici di Sorveglianza, eliminando tutte quelle che abbiano ad oggetto la mera richiesta di riconoscimento del beneficio e non siano correlate ad un effettivo interesse.
Infatti, posto che nella nuova procedura la Procura ha già a monte indicato nell'ordine di esecuzione la massima riduzione possibile sulla pena in espiazione, il detenuto non ha più motivo di richiedere ciclicamente il beneficio per veder scalare via via il proprio fine pena.
Resta però la necessità di calcolare le quote di liberazione anticipata intermedie che rendano ammissibili le domande di benefici penitenziari e che, entro un congruo termine, il fine pena virtualmente decurtato dello sconto di pena sia confermato nella sua effettiva entità.
Per quanto ispirato da buone intenzioni - rendere visibile da subito lo sconto di pena e più rapida la procedura - l'intervento appare di limitato impatto e non del tutto funzionale, oltre che fumoso sul piano pratico.
Posto che dovrà procedersi comunque a nuove iscrizioni, l’unica modifica forse capace di incidere sui tempi di definizione del procedimento di liberazione anticipata è quella che rimuove l'acquisizione del parere della Procura, rimettendo la decisione integralmente al Magistrato di sorveglianza, che, una volta entrata regime la riforma anche con le modifiche al Regolamento, dovrebbe già avere presso l'ufficio tutte le informazioni necessarie per emettere il provvedimento.
Al netto di questo elemento positivo, però, altri aspetti appaiono particolarmente problematici.
Si consideri, anzitutto, che non è specificato in che modo si debba tenere conto delle liberazioni anticipate concesse sui semestri intermedi, posto che l'eventuale ordinanza di concessione non dovrebbe essere comunicata alla Procura, che del resto nulla potrebbe modificare rispetto al fine pena virtuale.
Dunque, la tenuta di queste informazioni sembrerebbe dover rimanere in capo agli Uffici di Sorveglianza, già gravati da importanti carenze di personale, esclusi dal P.N.R.R. e dall'ufficio del processo, o al più agli Uffici matricola del carcere.
Inoltre, in assenza di specifica disciplina intertemporale, resta il dubbio di quale sorte debba toccare alle istanze attualmente pendenti o a quelle avanzate in data anteriore alla pubblicazione del decreto e non ancora iscritte.
Poiché la modifica interviene su aspetti processuali, infatti, in base al principio tempus regit actum, le stesse dovrebbero essere sottoposte alla nuova procedura.
Potrebbe ipotizzarsi che sulla base del decreto-legge, le Procure debbano già da oggi procedere a ricalcolare tutti i fine pena virtuali al netto delle riduzioni maturate e maturande delle persone attualmente in esecuzione pena, e che, pertanto, tutte le istanze di liberazione anticipata richieste che non siano accessorie a domande di benefici penitenziari o ad un imminente fine pena debbano intendersi non più valutabili nel merito dal Magistrato di Sorveglianza.
L’opposta soluzione, invece, porterebbe a ritenere le istanze già proposte ammissibili, in quanto rispondenti ai criteri di ammissibilità vigenti al momento di proposizione della domanda, quale che sia l’interesse sotteso, ed applicare però sin da subito la nuova procedura priva di parere del pubblico ministero.
Entrambe le strade sembrano operativamente percorribili, anche se la prima (giova evidenziarlo) sarebbe quella più coerente con la necessità di immediata applicazione della nuova riforma, il più possibile integralmente ed a regime.
L’intervento in materia di liberazione anticipata, in conclusione, non realizza quella rivoluzione da molti attesa; invece, consegna agli operatori una procedura apparentemente snellita di alcuni passaggi, ma dai risvolti pratici non chiarissimi e che rischiano di aver l'effetto opposto nell'immediato di paralizzare e mettere in stallo le cancellerie degli Uffici di Sorveglianza e delle Procure rispetto al riconoscimento del beneficio.
A fronte del minimo impatto sulla vita dei detenuti e delle incertezze connesse, questo passaggio del decreto corre il serio rischio di gettare dall'oggi al domani gli Uffici di Sorveglianza e le Procure in un sistema abbastanza farraginoso, in cui la semplificazione procedurale data dalla iscrizione d'ufficio dell'istanza, dal mancato passaggio dalla Procura per il parere e (forse) dalla eliminazione della comunicazione alla Procura delle decisioni favorevoli, appare ben poca cosa.
2.2. La modifica annunciata al numero delle telefonate coi familiari: poco di necessario.
Muovendo nell’esame delle ulteriori norme dedicate al trattamento penitenziario, l'art. 6 D.L. 92/2024 prevede un aumento del numero dei colloqui telefonici con i familiari spettanti ai detenuti, che passano da quattro a sei, parificando dunque il numero di colloqui telefonici a quelli in presenza.
La modifica, qui, è solo annunciata perché operativamente rinviata ad un regolamento adottando ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che dovrà modificare in senso conforme l’art. 39 D.P.R. 230/2000, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto.
Ancora, il decreto prevede l’inserimento di un riferimento all’art. 39 D.P.R. 230/2000 nell’art. 61 del regolamento di attuazione, al fine di inserire le telefonate coi familiari quali elementi del trattamento.
Nelle more, il decreto attribuisce alle direzioni degli istituti la possibilità di autorizzare ulteriori colloqui telefonici aggiuntivi con i familiari nel senso di quanto indicato dalla riforma[3].
Sulla carta, la novella potrebbe sembrare sancire una modifica sostanziale ed incisiva; tuttavia, non ci si può esimere dall’evidenziare che l’art. 39 c. 3 D.P.R: 230/2000 già prevede che l’autorizzazione a intrattenere corrispondenza telefonica possa essere concessa dal Direttore anche in deroga al numero di uno a settimana “in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza, se la stessa si svolga con prole di età inferiore a dieci anni, nonché in caso di trasferimento del detenuto.”
Le Direzioni degli istituti, dunque, hanno già normativamente facoltà di autorizzare un numero di colloqui maggiore rispetto ai limiti previsti ed è prassi piuttosto diffusa consentire colloqui telefonici aggiuntivi, soprattutto ai detenuti che abbiano figli minori o situazioni familiari complicate, incidenti sulla condizione psicologica della persona, valorizzando la clausola aperta dei motivi di particolare rilevanza.
L'effetto pratico, dunque, appare meno significativo di quanto potrebbe intendersi, sebbene non possa non guardarsi con favore al fatto che venga qui normativamente sancito per tutti un prossimo aumento dei colloqui telefonici, al momento oggetto di concessione extra ordinem molto diffusa ma non generalizza, ed una maggiore attenzione ai rapporti con i familiari nell’ambito del trattamento penitenziario.
2.3. L’istituzione dell’Albo delle Comunità: scarsamente urgente.
L'ultima norma che si occupa indirettamente di detenuti è l'art. 8 D.L. 92/2024, presentato come strumento concretamente volto a favorire l'esecuzione di misure alternative alla detenzione in contesti comunitari per tossicodipendenti e persone senza fissa dimora[4].
Ciò avverrebbe, in ipotesi, mediante la creazione presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità di un elenco di comunità accreditate, articolato in sezioni regionali, da istituirsi mediante il ricorso ad un avviso pubblico finalizzato ad acquisire le manifestazioni d’interesse degli enti gestori di strutture aventi carattere residenziale ubicate sul territorio nazionale.
Tali strutture dovrebbero fornire disponibilità all'accoglienza in regime di misure alternative a persone tossicodipendenti ed a quelle prive di fissa dimora o risorse domiciliari esterne, assicurando congrui standard tecnici di sicurezza e l’attivazione di percorsi di reinserimento.
Nella prospettiva governativa, tali strutture diverrebbero luoghi ove la Magistratura di Sorveglianza potrebbe concedere non solo l'affidamento terapeutico di cui all'art. 94 D.P.R. 309/1990, ma anche le altre misure alternative alla detenzione quali detenzione domiciliare, affidamento ordinario ed esecuzione della pena presso il domicilio.
Nel caso in cui la persona non abbia disponibilità per sostenere le spese di mantenimento e di accesso alle strutture così individuate, è previsto un impegno di spesa per 7 milioni di euro annui a partire dal 2024 al fine di pagare i relativi costi, finanziato tramite Cassa Ammende.
L’attenzione verso forme di esecuzione penale esterna in contesto comunitario per soggetti fragili è, certamente, un dato positivo; ma l’intervento promosso, nella sostanza, non sembra spostare molto rispetto all'esistente, posto che già al momento sono numerose le persone in esecuzione pena presso strutture di accoglienza site sul territorio.
Strutture che la magistratura di sorveglianza già conosce ed utilizza da decenni quale terminale esterno per le misure alternative dei soggetti più fragili; strutture che (sia consentito dirlo) la stessa magistratura di sorveglianza conosce bene anche quanto ai profili di affidabilità e capacità recettiva;
strutture, da ultimo, che denunciano allo stato condizioni di saturazione in molte regioni.
L'eventuale accreditamento delle comunità di accoglienza esistenti, senza prevedere la creazione di nuove strutture ed investimenti per l'esecuzione penale esterna, potrebbe non incidere quanto previsto sul sistema.
D’altro canto, non può sottacersi che, a fronte delle risorse di bilancio impiegate, la novella finisce col rimettere a enti privati e associazioni la gestione di parte della popolazione detenuta nelle carceri, offrendo in contropartita la prospettiva di un (in ipotesi anche cospicuo) ritorno economico dato dal pagamento delle rette e delle spese di mantenimento da parte dello Stato per i soggetti non abbienti (cioè, la maggioranza dei detenuti).
Anche in questo caso, sia consentito osservare che si tratta di un intervento forse utile, certamente non così necessario, concretamente poco tempestivo, richiedendo ulteriori e rilevanti passaggi attuativi anche in punto di procedure di gara, sì da renderne l'operatività una questione rinviata.
2.4. Varie ed eventuali: le misure provvisorie.
L'esecutivo ha poi nelle proprie comunicazioni annunciato di aver reso più agevole l'accesso alle misure alternative alla detenzione, attribuendo al Magistrato di Sorveglianza la possibilità di concedere le stesse in via provvisoria senza bisogno del passaggio innanzi all'organo collegiale.
La novella, tuttavia, non interessa la popolazione detenuta, essendo il Governo intervenuto, con l’art. 10 D.L. 92/2024 solo sull'art. 678 c 1 ter c.p.p., norma che trova applicazione esclusivamente per la decisione sulle istanze di cui all'articolo 656, comma 5 c.p.p. con pena inferiore ai diciotto mesi[5].
La procedura, sino a ieri, prevedeva l’emissione di una ordinanza cautelare inaudita altera parte da parte del Magistrato di Sorveglianza, comunicata alle parti e passibile di opposizione, che sarebbe divenuta esecutiva ed efficace esclusivamente con la definitiva ratifica da parte del Collegio, in caso di mancata opposizione.
Le modifiche apportate, all’oggi eliminano il passaggio dinnanzi al Tribunale di Sorveglianza in caso di mancata opposizione, rendendo l’ordinanza definitiva una volta decorso il termine per l’instaurazione del contraddittorio.
Tuttavia, come anticipato, questa decisione monocratica senza passaggio dal Tribunale di Sorveglianza si applicherà solo ai cosiddetti "liberi in sospensione" che debbano espiare una pena inferiore ai diciotto mesi e, dunque, non inciderà in alcun modo sull’accesso alle misure alternative da parte della popolazione detenuta.
L’utilità dell’intervento in esame rispetto al mondo carcerario, dunque, è pressoché nulla.
3. Conclusioni: l’important n’est pas de bien ou mal parler mais de parler.
In conclusione, l'impianto complessivo del decreto appare meno incisivo di quanto annunciato ed abbastanza deludente, soprattutto se si considera che a fronte del clima di tensione che monta negli istituti di pena e della condizione non ottimale del trattamento penitenziario delle carceri italiane, era lecito attendersi soluzioni più coraggiose e, soprattutto, immediatamente applicabili.
Si sarebbe potuto prevedere, ad esempio, un meccanismo più automatico di riconoscimento della liberazione anticipata, che prevedesse una attribuzione ex ante del beneficio e lasciasse alla Magistratura di Sorveglianza il compito di provvedere solo alla revoca per condotte incongrue nel corso della detenzione, senza necessità di accertamenti intermedi; intervenire sull’immissione in ruolo di un maggior numero di operatori del trattamento penitenziario e sulle relative piante organiche, sfruttando le graduatorie esistenti, piuttosto che solo sul personale di polizia; investire nell’ampliamento dei reparti dedicati ai detenuti semiliberi e all’art. 21 O.P. esterno o su reparti a custodia attenuata, favorendo così una maggiore circolarità del rapporto tra carcere e mondo esterno, nonché percorsi di reinserimento più graduali per un maggior numero di detenuti; cercare di tenere maggiormente in considerazione i criteri di vicinanza al nucleo familiare nell’allocazione dei detenuti e, magari, avviare interventi volti a recepire a livello normativo le già applicabili statuizioni della Sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale sull’affettività in carcere.
Invece, le modifiche in tema di liberazione anticipata rischiano di creare nell’immediato una stasi delle relative istanze; l’albo delle comunità creerà una danarosa gestione privata dell’esecuzione penale esterna ed è comunque di là da venire; l’effettivo aumento dei colloqui coi familiari rimane una promessa sospesa in una disciplina interinale di sei mesi, come molti altri interventi che sono qui annunciati ma la cui realizzazione si colloca ben oltre l’orizzonte temporale di vigenza del decreto legge.
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se la decretazione di urgenza sia qui utilizzata più per dare l’impressione che qualcosa si stia facendo, piuttosto che per fornire risposte concrete e necessarie ai problemi strutturali del sistema penitenziario.
[1] Art. 5 D.L. 92/2024 c. 1: “All’articolo 656 del codice di procedura penale, dopo il comma 10 è aggiunto il seguente: «10 -bis. Fermo il disposto del comma 4 -bis, nell’ordine di esecuzione la pena da espiare è indicata computando le detrazioni previste dall’articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354, in modo tale che siano specificamente indicate le detrazioni e sia evidenziata anche la pena da espiare senza le detrazioni. Nell’ordine di esecuzione è dato avviso al destinatario che le detrazioni di cui all’articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354 non saranno riconosciute qualora durante il periodo di esecuzione della pena il condannato non abbia partecipato all’opera di rieducazione.».”
[2] Art. 5 D.L. 92/2024 c. 3: “L’articolo 69 -bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, è sostituito dal seguente «Art. 69 -bis (Procedimento in materia di liberazione anticipata). —
1. In occasione di ogni istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione o ad altri benefici analoghi, rispetto ai quali nel computo della misura della pena espiata è rilevante la liberazione anticipata ai sensi dell’articolo 54, comma 4, il magistrato di sorveglianza accerta la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione anticipata in relazione ad ogni semestre precedente. L’istanza di cui al periodo precedente può essere presentata a decorrere dal termine di novanta giorni antecedente al maturare dei presupposti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione o agli altri benefici analoghi, come individuato computando le detrazioni previste dall’articolo 54.
2. Nel termine di novanta giorni antecedente al maturare del termine di conclusione della pena da espiare, come individuato computando le detrazioni previste dall’articolo 54, il magistrato di sorveglianza accerta la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione anticipata in relazione ai semestri che non sono già stati oggetto di valutazione ai sensi del comma 1 e del comma 3.
3. Il condannato può formulare istanza di liberazione anticipata quando vi abbia uno specifico interesse, diverso da quelli di cui ai commi 1 e 2, che deve essere indicato, a pena di inammissibilità, nell’istanza medesima.
4. Il provvedimento che concede o nega il riconoscimento del beneficio è adottato dal magistrato di sorveglianza con ordinanza, in camera di consiglio senza la presenza delle parti, ed è comunicato o notificato senza ritardo ai soggetti indicati nell’articolo 127 del codice di procedura penale. Quando la competenza a decidere sull’istanza prevista dal comma 1 appartiene al tribunale di sorveglianza il presidente del tribunale trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per la decisione sulla liberazione anticipata.
5. Avverso l’ordinanza di cui al comma 4 il difensore, l’interessato e il pubblico ministero possono, entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione, proporre reclamo al tribunale di sorveglianza competente per territorio. Il tribunale di sorveglianza decide ai sensi dell’articolo 678 del codice di procedura penale. Si applicano le disposizioni del quinto e del sesto comma dell’articolo 30 -bis.»”
[3] Art. 6. D.L. 92/2024: “Interventi in materia di corrispondenza telefonica dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario” –
1. Con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono apportate al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, le modifiche necessarie a garantire la prosecuzione dei rapporti personali e familiari dei detenuti, anche mediante i seguenti interventi:
a) all’articolo 39, incremento del numero dei colloqui telefonici settimanali e mensili equiparando la relativa disciplina a quella di cui all’articolo 37;
b) all’articolo 61, comma 2, lettera a), secondo periodo, inserimento del riferimento all’articolo 39.
2. Fino all’adozione del decreto di cui al comma 1, i colloqui previsti dall’articolo 18, comma 6, della legge 26 giugno 1975, n. 354, possono essere autorizzati oltre i limiti di cui all’articolo 39, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000.”.
[4] Art. 8. D.L. 92/2024: “Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”
1. Allo scopo di semplificare la procedura di accesso alle misure penali di comunità e agevolare un più efficace reinserimento delle persone detenute adulte è istituito presso il Ministero della giustizia un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale. L’elenco è articolato in sezioni regionali ed è tenuto dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità che ne cura la tenuta e l’aggiornamento ed esercita la vigilanza sullo stesso.
2. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono definite la disciplina relativa alla formazione e all’aggiornamento dell’elenco di cui al comma 1, le modalità di esercizio dell’attività di vigilanza sullo stesso e le caratteristiche e i requisiti di qualità dei servizi necessari per l’iscrizione nell’elenco. Con il decreto di cui al primo periodo sono, altresì, stabilite le modalità di recupero delle spese per la permanenza nelle strutture di cui al comma 1, nonché i presupposti soggettivi e di reddito per l’accesso alle suddette strutture dei detenuti, che non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, al fine di garantire il rispetto del limite di spesa di cui al comma 6.
3. Ai fini dell’iscrizione nell’elenco di cui al comma 1, le strutture residenziali garantiscono, oltre ad una idonea accoglienza residenziale, lo svolgimento di servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative.
4. Le strutture iscritte nell’elenco, in presenza di specifica disponibilità ad accogliere anche soggetti in regime di detenzione domiciliare, sono considerate luogo di privata dimora, ai fini di cui all’articolo 284 del codice di procedura penale.
5. L’elenco dovrà essere istituito mediante il ricorso ad un avviso pubblico finalizzato ad acquisire le manifestazioni d’interesse degli enti gestori di strutture aventi carattere residenziale ubicate sul territorio nazionale e rispondenti ai requisiti di carattere tecnico individuati con il decreto di cui al comma 2.
6. Per gli interventi di cui al comma 2 in favore dei detenuti che non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento è autorizzata la spesa di 7 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2024. Ai relativi oneri si provvede a valere sugli stanziamenti dei capitoli del bilancio della Cassa delle ammende di cui all’articolo 4 della legge 9 maggio 1932 n. 547.
[5] Art. 10 D.L. 92/2024, c. 2. “All’articolo 678, comma 1 -ter, del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo periodo, le parole «in via provvisoria» sono soppresse;
b) al secondo periodo, la parola «provvisoria» è soppressa;
c) il terzo periodo è sostituito dal seguente: «Il tribunale di sorveglianza, quando è proposta opposizione, procede, a norma del comma 1, alla conferma o alla revoca dell’ordinanza.»;
d) il quarto periodo è sostituito dal seguente: «Allo stesso modo il tribunale di sorveglianza procede quando l’ordinanza non è stata emessa.».”.
Immagine: Prigione, attribuita a Vincenzo dal Re, tra il 1737 e il 1762, inchiostro su carta, Chicago Art Institute, The Leonora Hall Gurley Memorial Collection.
Sul rapporto tra magistratura e i social network si veda anche Limiti alla comunicazione social extraistituzionale del magistrato ordinario di Luigi Salvato e I magistrati nell’era dei social tra libertà di espressione ed esigenze d’imparzialità di Francesco Dal Canto.
Social network, libertà di espressione e lavoro[1]
di Patrizia Tullini
Sommario: 1. Premessa – 2. L’uso dei social network nel lavoro privato, il diritto di critica e la logica precauzionale. – 3. Social e lavoro pubblico: dal Codice di comportamento del dipendente pubblico alla Social media policy. – 4. La prospettiva deontologica per il lavoro pubblico non privatizzato.
1. Premessa.
La prospettiva del giurista del lavoro considera l’uso dei canali di comunicazione social da parte dei lavoratori e la circolazione delle informazioni tramite web alla luce dell’assetto normativo e della strumentazione giuridica che, sebbene in termini tutt’altro che sistematici e strutturati, ormai da tempo tenta d’individuare un punto di equilibrio e di mediazione tra i molteplici interessi in potenziale conflitto.
Il quadro normativo, infatti, deve fare i conti con un delicato bilanciamento fra diritti fondamentali e fra interessi meritevoli di tutela: si confrontano, da un lato, i diritti individuali alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, alla difesa della vita privata, alla tutela dell’identità personale e professionale; dall’altro lato, i diritti all’esplicazione della personalità e alla libera manifestazione del pensiero, incluso il diritto di critica, attraverso tutti i mezzi tecnologici disponibili. Al contempo, rilevano il potente diritto alla trasparenza e quello all’informazione (nel duplice versante dell’interesse a informare e ad essere informati), che trova nella rete Internet il proprio mezzo e il proprio fine ([2]). E, non da ultimo, i legittimi interessi delle organizzazioni pubbliche e private alla tutela del prestigio e della propria immagine, alla garanzia di riserbo da parte del dipendente sulle notizie apprese nell’ambiente lavorativo o per ragioni di servizio.
Questa complessa operazione di bilanciamento – che deve svolgersi «in ossequio al criterio di proporzionalità» (Considerando 4, GDPR) – si atteggia in forme e modi differenti nell’ambito del lavoro privato e in quello pubblico, nonché nell’area più articolata del lavoro pubblico c.d. non privatizzato (che forse è quella più vicina alla magistratura).
Dunque, sebbene l’habitat tecnologico risulti pressoché identico e l’uso di mezzi di comunicazione digitale presenti problematiche comuni nel mondo del lavoro, occorre tuttavia introdurre qualche essenziale distinguo.
2. L’uso dei social network nel lavoro privato, il diritto di critica e la logica precauzionale.
Nel settore privato, l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori sancisce il diritto alla libera manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro «nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge». Si ribadisce così la copertura costituzionale del diritto fondamentale di libertà, ma si stabiliscono anche dei limiti rintracciabili nella disciplina ordinaria.
E, fra questi ultimi, entra in gioco una norma codicistica (art. 2105 c.c.) che prevede l’obbligo di fedeltà derivante dalla condizione di subordinazione giuridica: un obbligo interpretato dalla giurisprudenza in termini abbastanza ampi, così da individuare alcune limitazioni rispetto all’esercizio del diritto di critica da parte del dipendente ([3]). Applicando i criteri giuridici già estrapolati dalla giurisprudenza penale in relazione alla critica giornalistica (spec. oggettività, continenza formale e sostanziale), s’intendono tutelare l’onore della persona del datore di lavoro, oltre che l’immagine e la reputazione commerciale dell’impresa.
Si tratta peraltro di limiti elaborati per i media tradizionali, mentre i social network rappresentano canali di comunicazione soggettiva, raramente oggettiva, se non addirittura di natura emotiva. La comunicazione digitale rimbalza e si ricondiziona con altri mezzi di circolazione delle informazioni in uno scambio reciproco, privo di un reale controllo. Il flusso continuo dei dati attraverso la pluralità dei canali web accresce in modo esponenziale la fruibilità pubblica delle informazioni e il rischio di una loro appropriazione da parte di altri, tenuto conto della difficoltà di verificare le operazioni di trattamento che si svolgono nello spazio della rete e di applicare i criteri di regolazione già fissati dal GDPR.
Ciò suggerisce di valorizzare soprattutto la logica precauzionale, che si esprime attraverso l’adozione di accorgimenti preventivi e di dispositivi tecnologici in grado d’impedire o ridurre l’acquisizione e l’utilizzo incontrollato delle informazioni immesse in rete (ad es., filtri e restrizioni all’accesso a pagine web personali). In forza d’un criterio di auto-responsabilità, il titolare delle informazioni può esprimere il proprio potere di autodeterminazione e manifestare liberamente le proprie opinioni consegnandole alla rete ma, al contempo, assume l’impegno di minimizzare il rischio della loro estrazione da parte di altri e di un utilizzo improprio o abusivo.
A questa logica di carattere precauzionale aderisce la giurisprudenza sovranazionale ([4]), nonché quella interna che ammette il diritto del lavoratore di esprimere di commenti ed espressioni critiche nei confronti del datore di lavoro purché siano applicate specifiche cautele per evitare la loro circolazione incontrollata (ad es., mailing list chiusa, newsgroup e chat riservate). In tal modo, si equipara la comunicazione telematica “chiusa” alla corrispondenza privata, che ha una piena tutela costituzionale (e penale).
In verità il carattere “chiuso” può circoscrivere o restringere la platea dei destinatari delle informazioni ma non riesce a privatizzare davvero il profilo social: tuttavia, in questa ipotesi, si ritiene operante una (sorta di) presunzione di riservatezza della comunicazione digitale. Si ritiene, cioè, che sussista un (implicito) interesse «contrario alla divulgazione anche colposa» dell’informazione o della critica, che consente di esonerare il lavoratore dalla propria responsabilità disciplinare escludendo l’elemento soggettivo della condotta ([5]).
3. Social e lavoro pubblico: dal Codice di comportamento del dipendente pubblico alla Social media policy.
Se si considera l’ambito del lavoro pubblico, la questione appare ancora più complessa, tenuto conto che nell’operazione di bilanciamento fra posizioni giuridiche in conflitto entrano anche i principi costituzionali relativi all’attività della Pubblica Amministrazione (legalità, correttezza, imparzialità, buon andamento, cura dell’interesse generale) e, quanto al lavoro pubblico non privatizzato, si aggiungono altri valori fondamentali che riconoscono e tutelano la funzione o il ruolo istituzionale ricoperto (così, ad es., per la magistratura, per i professori universitari).
Un indizio di tale complessità si può forse ravvisare nel gioco di rinvii tra una pluralità di livelli normativi, ai quali è affidato il compito di definire in modo appropriato il punto di bilanciamento in considerazione delle peculiari caratteristiche delle organizzazioni pubbliche.
Nel settore pubblico privatizzato, il TU n. 165/2001 (cfr. art. 54, mod. ex d.l. n. 36/2022, conv. in l. n. 79/2022) ha previsto l’adozione di un Codice di comportamento del dipendente che sostanzialmente integra le previsioni del Codice disciplinare, con un (primo) rinvio all’autoregolamentazione delle singole Amministrazioni per la necessaria integrazione e per la tipizzazione di condotte specifiche (co. 5). Il Codice di comportamento deve obbligatoriamente contenere una sezione dedicata al «corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media … anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione» (co. 1-bis).
Di recente il regolamento di attuazione del TU n. 165/2001 che ha introdotto il “modello” del Codice di comportamento ha aggiunto alcune disposizioni relative all’impiego delle tecnologie digitali per fini istituzionali e all’uso dei canali web da parte del dipendente pubblico (cfr. artt. 11-bis e 11-ter, DpR n. 62/2013, mod. con DpR n. 81/2023). Si tratta di norme ispirate alla logica di tipo precauzionale e al dovere di riservatezza sulla funzione o sull’attività dell’ufficio, con l’intento principale di evitare che opinioni e giudizi personali possano essere attribuiti, o comunque riconducibili, all’amministrazione di appartenenza.
Ma è ovvio che il ruolo istituzionale del dipendente pubblico non si dismette con facilità, tramite una mera clausola di disclaimer posta in calce al messaggio veicolato dalla rete.
In verità, nel dettato regolamentare manca l’individuazione di misure o di cautele concrete e determinate, salva la previsione dell’obbligo di astenersi da espressioni diffuse via web che possano risultare potenzialmente lesive dell’immagine, del prestigio e del decoro dell’amministrazione. Per ovviare alla genericità, il DpR n. 62/2013 ha consentito, tramite un ulteriore rinvio ai singoli codici di comportamento degli enti pubblici, di adottare (in questo caso, in via facoltativa) una social media policy – sul modello del settore privato – per regolare l’interazione del dipendente con le differenti piattaforme digitali e definire le modalità d’uso non corrette (e sanzionabili).
Al riguardo, sono state dettate solo due linee-guida per l’integrazione dei codici di comportamento: individuare le condotte del dipendente pubblico che siano suscettibili di «danneggiare la reputazione delle amministrazioni» e graduare le stesse condotte «in base al livello gerarchico e di responsabilità del dipendente» (cfr. art. 11-ter, co. 4).
4. La prospettiva deontologica per il lavoro pubblico non privatizzato.
Sebbene le basi normative comuni possano suggerire identiche conclusioni per tutto il settore pubblico, resta al fondo una significativa differenza tra il Codice di comportamento del lavoratore alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e il Codice etico previsto per la magistratura (e per l’Avvocatura di Stato) (cfr. art. 54, co. 4, T.U. n. 165/2001).
Il lessico corrente è spesso generico e indifferenziato, come se i termini avessero il medesimo valore semantico: codice etico, deontologico, di condotta, di comportamento, social media policy. Vale la pena di sottolineare, invece, le caratteristiche di Codici che presentano una diversa natura giuridica: caratteristiche e differenze che risultano apprezzabili tanto sul piano dei contenuti quanto per le conseguenze che ne derivano nell’ipotesi di violazione o inosservanza delle rispettive previsioni.
Mentre il Codice di comportamento del dipendente pubblico introduce un elenco di “doveri” connessi al servizio o ai compiti che gli sono affidati ed è considerato, per legge, una «fonte di responsabilità disciplinare» (cfr. art. 54, co. 3, T.U. n. 165/2001), il Codice etico non è destinato ad integrare il versante disciplinare del rapporto di lavoro con l’Amministrazione, ma ne rimane distinto e separato.
Il Codice etico previsto per il lavoro pubblico non privatizzato rinvia, in modo diretto e immediato, ai principi costituzionali e alle regole fondamentali del vivere civile, che costituiscono il necessario riferimento valoriale per improntare i comportamenti nelle relazioni con l’ordinamento istituzionale, con i soggetti che con esso interagiscono (quelli che, con linguaggio privatistico, si chiamerebbero stakeholders) e, in generale, con i terzi con i quali si instaurano contatti fisici o virtuali.
Per sua natura e funzione, il Codice etico non può che essere formulato attraverso clausole e concetti generali (o quanto meno “aperti”), con contenuti determinati o comunque determinabili ma, in ogni caso, lungi dai requisiti di tipicità e tassatività (almeno relativa) che si richiede a una tassonomia di regole e divieti dai quali scaturisce la responsabilità disciplinare e un potere giuridico di tipo punitivo.
Del resto, se si considerano i contatti e le attività che si svolgono tramite il web, la pretesa di tipizzare in modo puntuale e imperativo le condotte eticamente sensibili avrebbe poco successo. La velocità dello sviluppo tecnologico e la continua evoluzione delle pratiche digitali sconsigliano di seguire questa via, al prezzo di un’eccessiva genericità oppure d’una rapida obsolescenza delle ipotesi e delle situazioni forzatamente tipizzate.
Ne consegue che le violazioni di un Codice etico dovrebbero essere valutate su un piano diverso da quello propriamente disciplinare, e pertanto accertate da un organismo di probiviri (o di garanti) anziché da un collegio di disciplina, con la possibilità di applicare misure di reazione giuridico-sociali che dovrebbero essere distinte dalle sanzioni disciplinari.
[1] Intervento alla Tavola Rotonda “I magistrati e i social”. Incontro di studio sul tema “La magistratura e i social network”, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 16-17 maggio 2024.
[2] Non è un caso che anche il diritto alla cancellazione del dato immesso nella rete sia assoggettato a bilanciamento con altri interessi. Secondo Cass., I sez. civ., 8 febbraio 2022, n. 3592, siccome la cancellazione del dato (inclusa la copia cache) incide sulla capacità del motore di ricerca di rispondere all’interrogazione dell’utente, «esige una ponderazione del diritto all’oblio dell’interessato con il diritto alla diffusione e all’acquisizione dell’informazione relativa al fatto nel suo complesso, attraverso parole chiave anche diverse dal nome della persona».
[3] Cfr., ad es., Cass. lav. 30866/2023; Cass. lav. 35922/ 2023; Cass. lav. 1379/2019.
[4] C. Edu, 15 juin 2021, Affaire Melike c. Turquie, riconosce che la rete rappresenta «un des principaux moyens d’exercice de la liberté d’expression», tuttavia i vantaggi di questo mezzo si accompagnano ad un certo numero di rischi: «est donc essentiel pour l’évaluation de l’influence potentielle d’une publication en ligne de déterminer son étendue et sa portée auprès du public».
[5] In tal senso cfr., ad es., Cass. lav. 10.9.2018, n. 21965; Cass. lav. 13.10.2021, n. 27939. Non è molto distante la posizione della C. Edu, 15 juin 2021, cit., che ha ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva postato like su alcune pagine web in quanto «une mention “J’aime” exprime seulement une sympathie à l’égard d’un contenu publié, et non une volonté active de sa diffusion».
Immagine: Paul Klee, Labyrinthian Park, acquerello e matita su carta, 1939, Zentrum Paul Klee, Bern, depositum from a private collection, Switzerland.
“Il codice rosso” di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto
Recensione di Costantino De Robbio
Essere “esperti di Codice Rosso” è ormai da tempo per tutti i giuristi – magistrati, avvocati, operatori del settore – non più una scelta di campo ma una necessità imprescindibile.
I numeri dei procedimenti penali e dei processi celebrati per questo tipo di reati sono impressionanti e il fenomeno ha ormai le caratteristiche di una vera e propria emergenza che chiama ognuno di noi ad una risposta giudiziaria consapevole e informata.
Non si tratta più di materia riservata agli specialisti, ma del lavoro quotidiano di pubblici ministeri, giudici, avvocati e polizia giudiziaria: qualunque sia il settore del diritto penale di cui ci si occupa, si faranno i conti quotidianamente con denunce, segnalazioni, arresti e processi per atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali, tanto che in molti uffici di Procura è stato stabilito in via permanente, accanto al “turno esterno” un “turno violenze”: oltre al Pubblico Ministero che, a rotazione e per 24 ore, è addetto alle emergenze conseguenti ad arresti e fermi, ve n’è uno che si occupa in via esclusiva, per lo stesso periodo, delle sole misure precautelari per i reati di violenza di genere, che in sostanza pareggiano ormai per numero quelle per tutti gli altri reati.
Una sorta di “pandemia” delittuosa che sembra avere colpito gli uffici giudiziari di tutto il Paese, o forse semplicemente la tardiva presa d’atto di un fenomeno da sempre esistente e tragicamente sottovalutato.
Questa nuova consapevolezza ha richiesto una nuova risposta giudiziaria, articolata in tre livelli: repressione delle condotte di reato (attraverso una maggiore attenzione e consapevolezza nell’affrontare denunce e procedimenti), modifiche legislative per adeguare l’impianto codicistico alla mutata realtà e un lavoro di formazione di tutti gli operatori del settore.
L’opera di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, giunta alla seconda edizione, risponde a tutte e tre le esigenze ed offre una risposta completa e per certi versi inedita al fenomeno, dedicando tra l’altro un’ampia sezione alla necessità della formazione tecnica, raramente presa in considerazione dalla manualistica giuridica e dimostrando così di saper coniugare, accanto ad una minuziosa ricostruzione della normativa e della giurisprudenza sul tema, la capacità di alzare la testa dalla quotidianità imposta dall’emergenza per sottolineare l’importanza di un investimento di medio e lungo periodo che parta dai corsi di preparazione delle forze dell’ordine e della magistratura.
Non stupisce che siano proprio i due autori di questa monografia a proporre un vero e proprio salto di qualità nel modo di affrontare il tema.
Si tratta infatti di colleghi che hanno fatto della violenza di genere, da lungo tempo, il centro della loro attività scientifica e lavorativa.
Paola rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la materia, sia all’interno della magistratura che all’esterno ed ha maturato dapprima nella giurisdizione di merito e poi in quella di legittimità un’esperienza probabilmente senza pari, mettendo a frutto una passione che l’accompagna da tutta la vita.
Francesco, tra i magistrati più attenti delle fenomenologie delittuose del nostro Paese, ha da tempo affiancato la sua nota competenza in materia di aggressione ai patrimoni illeciti e di studioso delle misure di prevenzione ad un approfondimento del tema della violenza di genere, operando una sinergia virtuosa ed inedita tra i due settori che ha dato frutti sorprendenti sia a livello giurisprudenziale che legislativo.
La comunanza, umana e professionale, tra i due ha prodotto una monografia armonica e completa.
Il punto di partenza - e anche questo costituisce una sorta di inedito nella manualistica penale – è dato dall’analisi delle fonti sovranazionali, e non a caso.
Non è infatti possibile ignorare che molte delle leggi italiane e dei passi in avanti faticosamente compiuti dalla giurisprudenza in materia sono frutto delle “tirate d’orecchie” ricevute dagli organismi sovranazionali, che hanno dolorosamente evidenziato l’arretratezza culturale dell’impianto normativo nazionale e dell’approccio culturale di parte della magistratura, soprattutto giudicante.
Da questa analisi iniziale si passa dunque all’approfondimento degli stereotipi e dei bias cognitivi che troppo spesso affliggono gli scritti degli operatori del settore e ne condizionano gli esiti, e in questa parte non si può non vedere un’eco delle precedenti opere di Paola Di Nicola Travaglini, che a questo tema ha dedicato tempo e passione, di cui sono testimonianza i due precedenti scritti (uno dei quali recensito su questa rivista[1]).
Segue una parte più istituzionale, dedicata alle fattispecie del codice penale e del codice di rito e alle novità legislative che si sono susseguite, tumultuosamente, negli ultimi anni, dalle modifiche ai reati tradizionali (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale) alle nuove fattispecie di reato di recente e recentissima creazione (atti persecutori, femminicidio, revenge porn, sfregio del volto); per quanto attiene alle modifiche del codice di procedura penale, sono dedicati approfondimenti alle misure cautelari previste dagli artt. 282 bis e ter del codice di procedura penale (ed alla nuova fattispecie di reato conseguente alla violazione delle medesime), al nuovissimo obbligo di applicazione del braccialetto elettronico ed al potenziamento delle indagini preliminari, con un interessante sguardo al fenomeno della vittimizzazione secondaria ed ai suoi riflessi processuali.
Dopo il prezioso approfondimento della formazione (il terzo livello di consapevolezza di cui si è detto), il testo si dedica all’analisi delle misure di prevenzione introdotte recentemente per questo tipo di reati, e qui non si può non scorgere la mano di Francesco, pioniere dell’idea poi fatta propria dal legislatore di mutuare per i reati di genere gli strumenti che tanta prova di sé hanno dato nella lotta alla criminalità organizzata.
Ciascuna delle parti di cui è composta l’opera contribuisce ad un tassello di questa consapevolezza multilivello che è richiesta per affrontare questo tipo di reati, proprio come la diversità culturale e per così dire ontologica di Paola e Francesco riesce a fondersi in uno sguardo armonico: da questa composizione di sguardi diversi che guardano verso la stessa direzione, nasce la ricchezza di questo scritto.
Nella prefazione i due autori sottolineano con orgoglio di essere una donna e un uomo e una donna, una giudice e un pubblico ministero.
La scelta di questa chiave di lettura, che loro stessi offrono al lettore, è un modo intelligente di superare le perplessità e la chiusura mostrata spesso in passato verso questo tipo di reati, che una visione miope voleva limitare all’approfondimento scientifico delle sole magistrate, avvocatesse e operatrici donne.
In realtà un approccio solo femminile alla materia, come la stessa Paola Di Nicola Travaglini ha in più occasioni sottolineato, non funziona, perché confina lo sguardo in un limite autoimposto.
È stato dunque naturale per Paola e Francesco comprendere tra i primi che il vero salto di qualità è possibile solo quando la lotta per uscire dagli stereotipi diventa lotta di tutti, anzi soprattutto del genere che dell’arretratezza culturale da sempre si avvantaggia, più o meno consapevolmente, cioè gli uomini.
In questo senso la composizione dei diversi punti di vista in una nuova prospettiva armoniosa e più matura è il punto finale del percorso, che i nostri Paola e Francesco ci consegnano con questo volume.
[1] “La giudice” di Paola Di Nicola Travaglini. Recensione di Costantino De Robbio.
In tema di travisamento della prova si veda anche Note minime sulla questione del travisamento della prova nel ricorso per cassazione di Marco Dell’Utri e Errare è umano, travisare diabolico. Ovvero, di un problema (di nuovo) attuale della cassazione civile di Luigi Cavallaro.
La riforma del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. realizzata a sorpresa nell’estate 2012 (art. 54 D.L. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n.134/2012), se da un lato non ha calmierato l’accesso alla S.C. quanto ai vizi della motivazione (alternativamente dedotti quali motivi di nullità o di omesso esame), dall’altro lato ha provocato una sorta di big bang: ciò che prima era sedimentato nell’àmbito di applicazione del vecchio n. 5) è stato improvvisamente proiettato verso altri numeri dell’art. 360 c.p.c., determinando la necessità di nuove sistemazioni. La stessa S.C., pur continuando a ribadire (lo fa anche la SS.UU. n. 5792/2024) l’attendibilità della prima razionalizzazione operata dalle sentenze gemelle n. 8053 e 8054/2014, ha conosciuto non pochi sbandamenti, specie nel costruire l’attuale n. 5) come un vizio di motivazione (il residuo della triplice che non c’è più) o come un motivo del tutto nuovo [sul punto abbiamo tentato di ragionare in Note brevi sul n. 5) dell’art. 360 c.p.c. in questa Rivista del 10 febbraio 2021 e poi in Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, Napoli, 2023, 155 ss., concludendo che la Corte avrebbe difficilmente rinunziato al controllo di logicità, comunque costruito, mentre la riforma del n. 5) la stava impegnando in decisioni da segnaletica e da identificazione del veicolo, com’è proprio della nostra concezione formalistica].
La SS.UU. n. 5792/2024 si è assunta il compito di sanare, a proposito del travisamento della prova, il contrasto creatosi all’interno della Corte a seguito delle ordinanze n. 11111/2023 della III sez. e n. 8895/2023 della sez. lav.; secondo la prima, il travisamento della prova dovrebbe configurare un motivo di nullità della sentenza deducibile col n. 4) dell’art. 360 c.p.c. in termini di violazione dell’art. 115 c.p.c.; per la seconda, la censura fondata sulla violazione dell’art. 115 c.p.c. non sarebbe ammissibile, stante il rischio di trasformare il giudizio di legittimità in una terza istanza conclamando con ciò stesso il fallimento della riforma del 2012.
Le SS.UU. si impegnano in un lungo ragionamento, non privo di artifici dialettici paradossali; credo però che per apprezzare il fondo della decisione occorra preliminarmente chiarire quale sia l’àmbito di applicazione del nuovo n. 5), attorno cui tutto continua a ruotare. Lo individuiamo dapprima con le chiare parole della ord. 11111/2023: siamo dinanzi a «un vizio nuovo, che, per il percorso che la norma ha compiuto nel tempo, non è quel che resta del vizio di motivazione previsto dalla riforma del ‘50 (a meno che non si voglia ritenerlo comunque un caso di manifesta illogicità del ragionamento decisorio), anche se nel codice del ‘42 il vizio di omesso esame era stato introdotto proprio per limitare il difetto di motivazione all’ipotesi specifica contemplata nel n. 5 … È, quello dell’omesso esame, un vizio diverso, che permette anche una verifica extratestuale rispetto alla sentenza (mentre il vizio di motivazione deve comunque risultare dalla pronuncia), un omesso esame che, soprattutto per chi valorizza l’uso della preposizione “circa” (in luogo del “di” che si aveva nel codice del ‘42), può riguardare anche la rappresentazione del fatto nel processo quale si ha nel ragionamento probatorio». La stessa sentenza n. 5792 parla, con altrettanta chiarezza, di «un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Si tratta di un vizio normalmente extratestuale (giacché è possibile ma non certo probabile che il giudice di merito riferisca di un fatto storico controverso e decisivo, ma poi ometta di esaminarlo ai fini della decisione)».
In una formula, efficace e forse imprecisa come tutte le sintetizzazioni, si può dire che il vizio non interessa più la motivazione, bensì la costruzione della fattispecie. I vizi della motivazione, come hanno insegnato le sentenze gemelle, conducono ora verso altri numeri dell’art. 360 c.p.c.: generalmente il n. 4), ma non si esclude il n. 3) (v. ancora Note brevi sul n. 5), cit.). Ciò è confermato dalla stessa sentenza n. 5792, secondo cui «la riformulazione del n. 5 ha poi determinato il rifluire nel n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., per il tramite delle norme che impongono al giudice l’obbligo di motivazione, del vizio motivazionale nella quadruplice (o forse meglio duplice, giacché le prime due ipotesi attengono all’esistenza della motivazione, le altre due alla sua tenuta logica) nota declinazione che le Sezioni Unite ne hanno dato: la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico” e la “motivazione apparente”; il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”. In questo caso … il vizio è testuale, come lo era in precedenza il vizio motivazionale regolato dal previgente n. 5 dell’articolo 360 c.p.c.».
Al lettore può apparire pedante il continuo riferimento ai numeri di cui si compone l’art. 360 c.p.c.; e, del resto, la stessa giurisprudenza della S.C., sol che lo voglia, è disposta a evadere dalla gabbia delle numerazioni [un esempio recente è dato dalla SS.UU. n. 5633/2022, che, per affermare un principio di diritto che le stava a cuore, ha accolto un ricorso proposto ex n. 5) ribattezzandolo ex n. 3): ci permettiamo di rinviare a Le Sezioni Unite nel labirinto del titolo esecutivo, in Nel labirinto del diritto, n. 2/2022, 4 ss.]; ma sta di fatto che noi – il discorso sarebbe diverso in Francia come in Germania, ove le numerazioni non esistono – siamo abituati a osservare il giudizio di legittimità attraverso queste particolari lenti che, tra l’altro, diversificano in modo sensibile i poteri della Corte, che variano dall’affermazione del principio di diritto al meno formalistico vincolo a «quanto statuito» (art. 384, comma 2, c.p.c.), come appunto avveniva nel caso del n. 5) quando la norma era dedicata al controllo della motivazione.
Torniamo alla sentenza n. 5792/2024. La lunga motivazione (paragrafi 10 – 10.14) è tutta incentrata nel resistere alle suggestioni dell’ord. 11111/2023, assai ragionevolmente e puntigliosamente motivata (ma, secondo la sentenza, ispirata da cupa dottrina “millenarista”). Vengono utilizzati a contrasto argomenti storici, letterali, sistematici, grotteschi e di ragion pratica: se infatti il senso della riforma del 2012, che evidentemente alla Cassazione è piaciuta, è stato quello di (tentare di) calmierare l’accesso alla Corte (la sentenza parla di «assedio dei ricorsi alla Corte di cassazione», e quindi di sindrome della torre, ma poi è costretta a riconoscere il «larghissimo impiego, nella pratica, del motivo formulato in relazione all’articolo 132, n. 4, c.p.c.» e così il sostanziale fallimento della riforma), occorre evitare sul nascere il pericolo di uno smottamento del giudizio di legittimità verso un terzo grado di merito. In un sistema, sottolinea la Corte, in cui «il controllo dell’attività del giudice di merito, nel momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività, è affidato alla revocazione».
Però.
La sentenza non finisce col paragrafo 10.14. E il paragrafo 10.15 fa da contraltare a tutto quanto largamente argomentato nelle pagine anteriori. Dopo aver escluso la denunziabilità per violazione dell’art. 115 c.p.c. del travisamento, la Corte prende in esame (par. 10.5) proprio il caso che dovrebbe interessare non il giurista, ma «l’oculista o lo psichiatria». Il caso è quello del giudice di merito che, all’esito di un surreale dibattito tra le parti (ciò che mette automaticamente fuori gioco il rimedio della revocazione per errore di fatto), suppone un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. Il vizio sarebbe quello revocatorio, ma c’è in più l’elemento del fatto controverso e valutato, cioè della decisione, che vale a escludere la svista propria e tipica della revocazione.
Tanto è complesso e articolato (in qualche passaggio sinanche sovrabbondante, specie ora che è di moda il canone della sinteticità) il ragionamento spiegato a resistenza della ord. 11111/2023 (il travisamento della prova, in sé, non è mai stato un vizio ammesso), così è sintetico il contro-passaggio “millenarista”: «ritengono le Sezioni Unite che in una simile ipotesi nulla osti alla formulazione del motivo di cui, a seconda dei casi, ai nn. 4 e 5, dell’articolo 360 c.p.c., sussistendone di volta in volta i necessari presupposti, che qui è superfluo ricapitolare … Sicché, l’affermazione secondo cui, se l’errore è frutto di un’omessa percezione del fatto, essa è censurabile ex articolo 360, n. 5, c.p.c., se si riferisca a fatti sostanziali, ovvero ex articolo 360, n. 4, c.p.c., ove si tratti di omesso esame di fatti processuali (v. in tali termini le già richiamate Cass., 26 maggio 2021, n. 14610; Cass. 21 luglio 2010, n. 17110), va estesa al caso in cui il giudice di merito abbia supposto un non-fatto, un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, con la finale precisazione che un simile errore, che si è detto essere commissivo, è pur sempre omissivo dall’angolo visuale del risultato che determina nel giudizio».
Con questo, a me pare che la polverizzazione del controllo olim garantito dal n. 5) vecchio testo abbia raggiunto la sua massima espansione. L’impressione è che il controllo non sia stato seriamente limitato: è stato reso soltanto più difficile e tortuoso, anche per segnaletica e identificazione del veicolo, e soprattutto parecchio più incerto, con la conseguenza che ciò che certamente risulta ampliato è il potere discrezionale della Corte di dichiarare inammissibili i ricorsi per ragioni formalistiche e non prevedibili.
Cosa emerge, in sintesi, dalla sentenza sul travisamento?
Il controllo della motivazione è ora assicurato dal n. 4) [ma secondo talune decisioni anche dal n. 3)], con esclusione della sola insufficienza (si tratta, secondo la sentenza, di un «concetto lasco e sfuggente», al quale non è difficile rinunziare per affermare il ruolo istituzionale della Corte senza soverchie incertezze). Il n. 4), inoltre, potrà essere richiamato in caso di travisamento della prova che si traduca in omesso esame di fatti processuali. Ma la formula utilizzata è quella stessa fatta propria dall’attuale n. 5) al fine di escludere il riferimento alla motivazione e di costruire un motivo nuovo, che non rappresenta un brandello (o un rudere) del vecchio controllo bensì si presenta come un “vizio nuovo” (abbiamo detto incidente sulla fattispecie).
Inoltre, l’attuale n. 5) potrà essere richiamato per l’omesso esame (anche) di fatti sostanziali, ma, almeno a me, non è del tutto chiaro dove sia il tassello aggiunto all’edificio del controllo sulla fattispecie, così come inteso dalla stessa giurisprudenza della Corte (e testualmente richiamato in sentenza), già possibile in base al testo attuale del n. 5). Non rischia, il nuovo riferimento, di far rientrare nella già ibrida problematica di questo disgraziato numero un tema che si era inteso espungere appunto perché incidente sul controllo della motivazione?
Se è vero, come riconosce la stessa sentenza, che «la tensione tra la giurisprudenza largamente dominante, che esclude la denunciabilità per cassazione del c.d. travisamento della prova, e l’opinione dissenziente manifestata nell’ordinanza n. 11111, ha un fondamento che riflette un diverso modo di intendere il giudizio di cassazione e l’ambito del sindacato di legittimità», è altrettanto vero che l’ord. 11111 proponeva una estensione del controllo ex n. 4) dell’art. 360 c.p.c. per violazione dell’art. 115 c.p.c., e che la sentenza 5792 ha ammesso non soltanto quell’estensione, ma anche l’aggiunta del riferimento al n. 5) per l’omesso esame di fatti sostanziali che dichiaratamente dipende da travisamento della prova. Quello ex n. 4) è un controllo di legittimità, quello ex n. 5) è un ibrido all’interno del quale la stessa Suprema Corte è in grado di far rientrare tutto ciò che vuole.
Possiamo allora chiederci: come è stato composto il contrasto?
Forse la risposta va data col Poeta: ai posteri l’ardua sentenza. Di norma, il travisamento della prova non è ammesso quale motivo di nullità o di omesso esame, perché il vizio appartiene al dominio della revocazione per errore di fatto. Ci sono però casi “imponderabili e surreali”, che la stessa Corte volta per volta scrutinerà, in cui quelle censure saranno ammesse, sebbene poi risulti difficile classificarle quali motivi di nullità o di omesso esame (per quanto sia importante, nel nostro sistema, far riferimento ai numeri). Si tratterà di casi molto simili all’errore revocatorio, con l’aggiunta di un’attività valutativa del giudice che consolida una “inemendabile forma di patente illegittimità della decisione”. Ma forse qui non si tratta più di illegittimità bensì di giustizia, sebbene la Corte abbia un certo pudore nel riconoscere che – almeno in casi estremi – essa si occupa (anche) della giustizia sostanziale dei giudicati.
La giustizia sostanziale delle tante decisioni che dai piani bassi (talvolta dal retrobottega) giungono alla Corte è un grido di dolore al quale il Vertice non può restare indifferente, sebbene le Sezioni Unite siano perfettamente consapevoli «che il mondo (quello racchiuso negli articoli 360 e seguenti c.p.c.) non si è dissolto in cenere, che la notizia della morte del giudizio di cassazione si è rivelata fortemente esagerata, ed il controllo motivazionale, come si diceva, è stato soltanto circoscritto entro limiti non giugulatori, com’è testimoniato del resto dal larghissimo impiego, nella pratica, del motivo formulato in relazione all’articolo 132, n. 4, c.p.c.».
Il mondo non s’è dissolto e la Cassazione neppure, sebbene vada riconosciuto che la Corte più risulta oberata, più sembra disposta a svolgere ruoli in apparente conflitto: è giudice di legittimità ma anche giudice del merito, è interprete del diritto ma anche legislatore palese e/o interpretativo, è controllore della rispondenza a diritto ma anche supervisore della giustizia delle decisioni, è giudice del diritto ma anche del fatto: e nel caso dell’art. 380-bis c.p.c. è addirittura, misticamente, uno e quintuplo.
Forse il cammino impervio e incerto, aperto da quel che resta della improvvisata e inaspettata riforma dell’estate 2012, non è ancora del tutto concluso.
Immagine: Labirinto unicursale sul pavimento della Basilica di San Vitale, Ravenna, VI secolo (rimaneggiato forse nel XV o XVI secolo).
Sullo stesso tema si veda https://www.giustiziainsieme.i...
Il saluto “romano” e la “chiamata del presente”. La sentenza del Tribunale di Milano n. 12111/23 e la sentenza di Cass. Sez. Un. n. 16153/2024
di Piergiorgio Ponticelli
Sommario: 1. Il caso e alcune necessarie premesse - 2. La sintesi della discussione delle parti nel processo innanzi al Tribunale di Milano - 3. La sentenza del Tribunale di Milano, in sintesi - 4. La sentenza delle Sezioni Unite, in sintesi
1. Il caso e alcune necessarie premesse
Con la sentenza n. 12111 del 13 Luglio 2023, depositata il 27 Ottobre 2023, il Tribunale di Milano ha dichiarato colpevoli del delitto previsto e punito dagli artt. 110 c.p. e 5 della legge n. 645/1952, in esso assorbito quello previsto dall’art. 2 del d.l. 122/93 convertito con modificazioni dalla legge n. 205/1993, tredici soggetti imputati ex artt. 110, 112 n. 1 c.p., 2 d.l. 122/1993 e 5 L. 645/1952 perché, in concorso tra loro e con altri non identificati, ciascuno con specifici ruoli ben dettagliati nella seconda parte dell’imputazione, partecipando a Milano il 29 aprile 2018 a una pubblica manifestazione (non autorizzata) commemorativa di tre defunti – uno militante della Repubblica Sociale italiana ucciso in Piazzale Susa il 29 aprile 1945 da membri del Comitato di Liberazione Nazionale, l’altro militante del Fronte della gioventù ucciso il 29 aprile 1975 a Milano in Via Paladini da militanti di sinistra legati ad Avanguardia Operaia e il terzo un consigliere provinciale del MSI ucciso a colpi di pistola il 29 aprile 1976 a Milano, in Viale Lombardia, da un commando di Prima Linea - iniziativa promossa da due partiti politici e da un’associazione politica di estrema destra - compivano manifestazioni usuali del partito fascista e comunque di gruppi aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, quali la "chiamata del presente" e il cosiddetto "saluto romano".
Il caso oggetto del giudizio si segnala sia perché la sua trattazione e la sua risoluzione hanno imposto di affrontare temi di particolare interesse quali sono la qualificazione giuridica da attribuire alla condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano", il rapporto – se di specialità oppure di concorso di reati - tra la fattispecie di reato prevista dall’art. 5 della legge 645/1952 e quella prevista dall’art. 2, comma 1, del d.l. 122/1993, l’individuazione dei beni giuridici rispettivamente tutelati e la natura del pericolo – concreto oppure presunto (o astratto) – che le caratterizza, sia perché nelle more del deposito della sentenza del Tribunale di Milano, come si vedrà nel prosieguo, alcune di queste questioni, d’indubbia rilevanza anche sotto il profilo dei principi generali in materia di diritto penale, sono state rimesse al vaglio delle Sezioni Unite siccome controverse.
È necessario e opportuno rammentare, infatti:
che l’art. 5 della legge 645/52 (c.d. legge Scelba) incrimina e punisce con le pene della reclusione e della multa chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste;
che l’art. 1 della medesima legge, come modificato dall’art. 7 della legge 152/1975, prevede che “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”;
che l’art. 2, comma 1, del d.l. 122/93, convertito con modificazioni dalla legge 205/1993 (c.d. legge Mancino), incrimina e punisce con le pene della reclusione e della multa chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654;
che l’art. 3 della legge n. 654/1975 è stato abrogato, a far data dal 6 aprile 2018, dall’art. 7 del d.lgs. n. 21/2018 e che l’art. 8, comma 1, dello stesso decreto legislativo prevede che “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall'articolo 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto”;
che a far data dal 6 aprile 2018, dunque, il rinvio all’art. 3 della legge 654/75 deve intendersi effettuato all’art. 604 bis del codice penale e, di conseguenza, a “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” (come del resto già prevedeva l’art. 3 stesso, essendosi trattato di un caso di abrogatio sine abolitione);
che prima del deposito della sentenza del Tribunale di Milano ma dopo la sua pronuncia, come esplicitamente segnalato nella motivazione della sentenza stessa, la prima sezione penale della Corte di cassazione, con ordinanza n. 38686 del 6 settembre 2023, depositata il 22 settembre 2023, Clemente e altri, aveva rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni controverse: «Se la condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel "saluto fascista", evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una manifestazione pubblica, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un'associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integri la fattispecie di reato di cui all'art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ovvero quella prevista dall'art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; se entrambe le disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se le stesse siano tra loro in rapporto di specialità oppure possano concorrere»;
che con la sentenza n. 16153 del 18 gennaio 2024, depositata il 17 aprile 2024, Clemente e altri, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto le questioni controverse fissando il seguente principio di diritto: «La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano" integra il delitto previsto dall'art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost., potendo altresì integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del complessivo contesto fattuale, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)».
La sentenza del Tribunale di Milano ha dapprima proceduto alla ricostruzione del fatto, dipoi “alla disamina della questione della sussunzione di esso in una o entrambe le fattispecie contestate, illustrando l'opzione dell'assorbimento per il principio di specialità adottata dal Tribunale, dando, tuttavia, atto che, nelle more della pendenza dei termini per il deposito della presente motivazione, la questione del rapporto tra le due fattispecie è stata rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione in ragione del contrasto formatosi nella Prima sezione penale della Corte di legittimità” e, infine, ha vagliato “la fondatezza dell'accusa in relazione all'opzione ermeneutica indicata”.
2. La sintesi della discussione delle parti nel processo innanzi al Tribunale di Milano
La discussione delle parti, dopo avere dato atto che la materialità dei fatti era incontroversa ad eccezione che per uno degli imputati, il cui difensore aveva posto in dubbio l'esatta attribuibilità del gesto contestato al suo assistito argomentando con la non nitidezza di una delle fotografie acquisite al processo, è stata sintetizzata nel modo che segue:
“ la discussione si è incentrata, da un lato, sulla configurabilità a titolo di concorso di reati di tutt'e due le fattispecie contestate, - in senso favorevole l'accusa pubblica, mentre in senso nettamente contrario, la parte civile e le difese degli imputati -; dall'altro, sulla fondatezza dell'accusa, ossia sulla sussistenza del reato o dei reati, in ragione della riconosciuta, per l'accusa pubblica e privata, ovvero del tutto disconosciuta, per le difese degli imputati, sussistenza del pericolo in concreto postulato.
In particolare, il P.M. ha rievocato i tratti specifici della composita manifestazione, riduttivamente relegata a mera commemorazione di defunti. Del resto, proprie le tre formazioni di estrema destra organizzatrici si sono sempre segnalate per una programmatica politica discriminatoria contro le diversità individuali, sociali ed etniche, oltre che per rievocare simbologie rituali del disciolto partito fascista, come, nella specie, la chiamata del presente. Inoltre, proprio la metamorfosi di tali commemorazioni celebrative in vere e proprie manifestazioni politiche, con conseguente aumento di tensione per l'ordine pubblico, indusse da diversi anni la Questura a negare le autorizzazioni di cortei, proprio come quella richiesta estemporaneamente senza preavviso dopo la fine della funzione religiosa il 29.4.20 18. Indi, il P.M. ha propugnato la configurabilità di entrambe le fattispecie, in ragione della specialità reciproca di esse, quanto al bene-interesse tutelato: da un lato, l'ordine democratico costituzionale, la legge Scelba; dall'altro, l'uguaglianza, la legge Mancino, vero e proprio crimine contro l'uguaglianza. Ancora, il P.M. ha richiamato la giurisprudenza anche recentissima e sempre concernente la medesima manifestazione, ma di altri anni, come quella recentissima avente ad oggetto l'evento del 29 aprile 2016, soprattutto in punto di riconoscimento del pericolo concreto. Tutte le descritte modalità della manifestazione, culminata con la rappresentazione tipica del disciolto partito fascista, quale il rito della chiamata del presente in quel peculiare contesto e ambiente, senz'altro integrarono il pericolo concreto di proselitismo postulato dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale. Infine, quanto al dolo, il P.M. ha richiamato il recentissimo arresto della Suprema Corte proprio relativo alla medesima manifestazione, ma di un altro anno, allorché non era stata riconosciuta la buona fede dell'imputato, a tanto non valendo il contrasto giurisprudenziale. La natura illecita della condotta e il contrasto giurisprudenziale non avrebbero mai potuto giustificare il dubbio, esimente della punibilità. Al contrario, l'assunzione consapevole e deliberata del rischio contrasta insanabilmente con l'invocato art. 5 del codice penale.
La parte civile, condivisi i rilievi del P.M., si è soffermata sulla trasfigurazione della commemorazione del 29 aprile, da molti anni, oramai, nient'affatto più tale, perché trasmodata in vera e propria manifestazione politica, come vera e propria prova di forza politica, di voluto e conseguito grosso impatto mediatico e sociale, quindi, ben oltre l'intento di mero ricordo pietistico laico. Anzi, intervenuti i divieti del corteo, il quale notoriamente si snodava per intere frazioni del quartiere città studi, gli organizzatori ricorsero ad astuti e subdoli stratagemmi per aggirare l'ostacolo, salvo preservare gli scopi propagandistico-politici; reale essenza della manifestazione. In particolare, gli organizzatori escogitarono di separare i punti di adunata delle tre formazioni estremistiche, salvo poi farle sfilare compatte e a schiera nell'affluire alla chiesa, sortendo il medesimo effetto identitario e propagandistico corrispondente a quello perseguito con il corteo inizialmente autorizzato da Piazzale Susa per tutta viale Argonne e fino alla Via Paladini n. 15. Inoltre, gli stessi inserirono artificiosamente nel programma la funzione religiosa, invece per tanti anni mai prevista, siccome sempre sbandierando trattarsi di una preghiera laica. Ancora, gli stessi ricorsero all’inopinata richiesta - senza preavviso né obiettiva ragion pratica- di sfilare in corteo tutt'attorno l'imponente complesso della Chiesa di Santi Nereo e Achilleo, in fondo a viale Argonne. Poi, pur in difetto di alcuna autorizzazione di ogni forma di corteo, dovendo dirigere verso il punto culminante di via Paladini n. 15, articolati in ben oltre un migliaio di persone inquadrate e irreggimentate per appartenenza, muovendosi con cadenza compatta e rituale, i partecipanti di fatto realizzarono un corteo, ponendo la DIGOS di fronte al fatto compiuto, di certo inibendo ad essa di intervenire per tema di disordini. Il tutto risolvendosi in un rito nient'affatto commemorativo di defunti, ma, in realtà, politico e, quindi, nient'affatto religioso. Rito in ogni fase organizzato e studiato per esaltare un messaggio politico del tutto esorbitante rispetto a quello simulato pietistico commemorativo. Del resto, il successivo passaggio a Piazzale Loreto fu evocativo della valenza propagandistica volta al proselitismo, esaltando il fascismo. Infine, la parte civile ha richiamato le considerazioni svolte dal P.M. in punto di dolo, senz'altro ravvisabile, nonostante talune oscillazioni giurisprudenziali, come tali non valevoli per escludere l'elemento psicologico.
Le difese degli imputati hanno, innanzitutto, contestato la configurabilità del concorso delle due fattispecie ascritte, invece, da ritenere in rapporto di specialità. Peraltro, l’art. 2 della legge Mancino rileverebbe in un contesto razzistico discriminatorio, nella presente sede, invece, per nulla apprezzabile. Le manifestazioni del 29 aprile furono da decenni autorizzate, sicché alcuna violazione specifica del TULPS, come l'art. 18, nemmeno nella presente vicenda fu contestata. Il reato speciale, ossia l'art. 5 della legge Scelba, in astratto configurabile, non ricorrerebbe nella specie per difetto del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista. Del resto, paradossalmente, se in tanti anni il pericolo non si integrò, non registrandosi alcuna ricostituzione, significa che quel pericolo concreto non è mai esistito. La simbologia della chiamata del presente vale solo a titolo identitaria, ma sempre pietistico, fermo restando che l'atto si esaurisce in poche decine di secondi, sì da non poter rappresentare alcun pericolo. Né i partecipanti facevano riferimento a formazioni politiche illegali, tant'è che due di esse poterono partecipare alle elezioni politiche. Anzi, le stesse formazioni sono attive nel volontariato e perseguono scopi solidaristici nell'ambito della destra sociale. In ultima analisi, si è sempre trattato di una commemorazione pietistica per nulla proiettata politicamente. Le difese hanno richiamato le pronunce della Suprema Corte proprio relative alla medesima manifestazione, ma di altri anni, disconoscenti alcun pericolo concreto. Infine, le difese degli imputati, proprio valorizzando il contrasto giurisprudenziale, hanno invocato, nel dubbio, la buona fede dei propri assistiti”.
3. La sentenza del Tribunale di Milano, in sintesi
In sintesi, la sentenza del Tribunale di Milano:
ha seguito l'orientamento che ritiene il rito della chiamata del presente una manifestazione tipica del disciolto partito fascista nella fattispecie della legge Scelba (legge 645/52), considerandola speciale rispetto alla fattispecie della legge Mancino (art. 2, comma 1, d.l. 122/93);
ha ritenuto che nel caso di specie fosse stata senz'altro integrata la condotta tipica ex art. 5 della legge Scelba della manifestazione fascista, realizzata in pubblica riunione, sulla pubblica via e in luogo affollato, con lo svolgimento di un rituale annunciato e tipico di una manifestazioni di tale natura e con frasi preparatorie “finalizzate tutte a quel preciso epilogo proprio sotto la targa del caduto, in modo da attrarre, non solo, i passanti, ma anche, come ogni anno, i media, amplificando a dismisura la risonanza dell'evento, sia nel complesso che nel suo epilogo funzionale”;
ha evidenziato che la chiamata del presente scandita dall’appello dei camerati caduti << consiste nella risposta degli astanti in coro con l'affermazione simultanea ''presente" e il saluto romano o fascista, ossia in modo scattante, levando il braccio e la mano destra, con il palmo verso il basso, protesi verso l'alto, inclinati a 45°, in modo simultaneo. Quindi, la risposta corale e simultanea con il presente e il saluto fascista o romano rispetto all'appello intonato dall’officiante fu l 'articolazione ordinaria; anzi quella proprio rituale. Peraltro, il rito dell’appello o del presente per commemorare i caduti fu notoriamente emblematico nella simbologia liturgica fascista, tant'è che fu appositamente disciplinato alla voce "Appello fascista" del Dizionario di politica edito dal Partito Nazionale Fascista nel 1940, voluto espressamente da MUSSOLINI >>; e che << in conclusione, il rito della chiamata del presente, contraddistinto dall'appello e dalla risposta gridata ''presente" e dal gesto della levata del saluto fascista, fu quello tipico del disciolto partito fascista >>;
ha ritenuto che nel caso di specie sussistesse il necessario pericolo concreto, in relazione al contesto e all'ambiente della manifestazione pubblica in questione, << declinato secondo l'accezione della Corte costituzionale e della costante giurisprudenza di legittimità, valorizzanti il momento e l’ambiente: Corte cost. sentenze n. 74 del 6.12.1958 e n. 15 del 27.2.1973; Cass., Sez. 1^ n. 12049, 17.2.2023, Polacchi, non massimata; Cass., Sez. 1^ n. 3806, 19.11.2021 , Buzzi, Rv 282500; Cass., Sez. 5^, n. 36162, 18.4.2019, Alberga, Rv 277526-01; Cass., Sez. 1^ n. 37577, 25.3.2014, Bonazza, Rv 259826; Cass. Sez. 1^ n. 3826, 18.1.1972, Libanore, Rv 121163. Del resto, come ribadito dal più recente arresto (Cass., Sez. 1^ n. 12049, 17.2.2023, Polacchi), "la giurisprudenza di legittimità che si è occupata dell'art. 5 della legge Scelba ha sempre affermato che il delitto di cui all'art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 (come modificato dall'art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall'art. 21 Cast., ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi» (cfr Cass., Sez. 1^, n. 11038, 02.03 .2016, Goglio, Rv. 269753) >>;
ha ritenuto che non sia la manifestazione esteriore come tale a essere incriminata ma il suo realizzarsi «in condizioni di pubblicità tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni a un progetto di ricostituzione del partito fascista, al riguardo da intendersi, non in senso eminentemente storico, ma anche attualizzato in continuità ideale, riproponendone i tratti distintivi della supremazia razziale e sociale, della discriminazione personale, sociale, etnica, sessuale e religiosa, nonché, talora, pure della violenza come metodo di lotta politica;
dunque, si è consapevolmente discostata dall’orientamento seguito, invece, da Cass. Sez. 1^ n. 7904 del 12 ottobre 2021, depositata il 4 marzo 2022, Rv 282914, Scordo (così massimata: Non sussiste rapporto di specialità fra il reato di cui all'art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella legge 25 giugno 1993, n. 205, che incrimina le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano nell'attualità idee discriminatorie o razziste, e quello di cui all'art. 5 della legge 26 giugno 1952, n. 645, come modificato dall'art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che sanziona il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni simboliche usuali o di gesti evocativi del disciolto partito fascista, non sussistendo un rapporto di necessaria continenza tra le due fattispecie, caratterizzate da un diverso ambito applicativo), che nella motivazione aveva ritenuto, fra l’altro: 1) che per applicare la disposizione incriminatrice dell’art. 2 d.l. 122/93 << in punto di simbologia, il nesso di correlazione contenuto nel testo della legge impone che si tratti non già di una organizzazione “storica” ma di una organizzazione (movimento, gruppo) esistente ed operante nel momento in cui viene posta in essere la condotta penalmente rilevante. Non vi è altra interpretazione possibile, dato che le disposizioni della legge n. 654 del 1975 non mirano ad inibire la rievocazione di gruppi storici ma a punire condotte di tipo associativo (con ampio reticolato normativa) esistenti nell'attualità, con primaria necessità di identificazione del 'gruppo' cui le condotte di proselitismo accedono. Ed è appena il caso di rilevare che le disposizioni già contenute nella legge del 1975 in tema di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa sono state trasfuse, con il d.lgs. n. 21 del 1° marzo 2018, nel testo del codice penale (artt. 604-bis e 604-ter cod. pen.), sicché la integrazione della fattispecie relativa all'art. 2 del d.l. n.122 del 1993 va oggi realizzata in riferimento a quanto previsto dal comma 2 dell'art. 604-bis cod. pen. (ove è espresso il divieto di costituire o partecipare ad organizzazioni, gruppi, associazioni o movimenti aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). Ciò non toglie che, in via di fatto: a) il gruppo attualmente esistente si richiami ad ideologie passate che hanno coltivato analoghi disvalori in punto di discriminazione o violenza per motivi razziali, tra cui l'ideologia fascista o nazista; b) il gruppo possa, in concreto, fare uso di simboli di 'quelle' organizzazioni storiche a fini di identificazione della matrice ideologica. Ma ciò che caratterizza la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 2 del d.l. n.122 del1993 è proprio il nesso funzionale con organizzazioni o gruppi esistenti oggi, il che inevitabilmente ricade sul fronte della connotazione di pericolosità. Qui il reato può ritenersi di pericolo presunto essenzialmente in ragione della indefettibile correlazione con il 'gruppo' che attraverso quel particolare simbolo fa, oggi, una reale attività di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali >>; 2) che di conseguenza, per le considerazioni che precedono, fosse impropria l'adozione, nel caso al suo vaglio, della categoria dogmatica della specialità di cui all'art. 15 cod. pen.; 3) che soltanto << la esistenza di un rapporto di continenza - derivante dal confronto strutturale tra le fattispecie - nel cui ambito si individui in una delle due disposizioni un elemento specializzante impone dunque di applicare esclusivamente la disposizione “speciale” (e non di scegliere se applicare la disposizione generale o quella speciale) salvo che sia altrimenti stabilito >>; 4) che << Negli altri casi la quaestio iuris va risolta applicando il generale principio di tipicità/tassatività dell'illecito e le norme in tema di concorso di reati (art. 81 con la deroga di cui all'art. 84 cod. pen.) >> ; 5) che << In realtà le due disposizioni incriminatrici hanno possibili aspetti di convergenza fattuale ma non possono essere ritenute collocabili nella dimensione della specialità. L'art. 5 della legge Scelba inquadra una condotta di rievocazione storica del «disciolto» partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico. L'art. 2 del d.l. n. 122 del 1993 incrimina a determinate condizioni l'utilizzo di emblemi o simboli 'propri o usuali' di organizzazioni o gruppi che, all'attualità, incitino alla discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi >>; 6) che << Dunque se da un lato vi è un aspetto di possibile interferenza (il fascismo ha promosso storicamente discriminazione e violenza anche per motivi razziali, fermi restando altri concorrenti disvalori), dall'altro nel confronto tra le fattispecie astratte non vi è continenza, sia in ragione della maggiore ampiezza delle connotazioni ideologiche negative del fascismo, sia per l'essenziale diversità di ambito applicativo rappresentata dalla correlazione tra l'uso dei simboli e la identificazione di un gruppo/movimento /associazione oggi esistente (secondo la legge del 1975) che persegua il particolare finalismo discriminatorio >>; 7) di andare in espresso e consapevole dissenso rispetto all’orientamento di Cass, sez. I n. 21409 del 27.3.2019, rv 275894-01, Leccisi (così massimata << Il cd. "saluto romano" o "saluto fascista", nella specie accompagnato dall'espressione "presenti e ne siamo fieri", è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 (recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall'art. 2 del citato decreto-legge>>) poiché in quella decisione << non viene esaminato il profilo - da ritenersi ineludibile - della inerenza delle manifestazioni o gestualità ad associazioni o gruppi attivi e presenti nella realtà fenomenica attuale, cui si riferisce la disposizione incriminatrice in modo espresso ( ... propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, di cui all'art. 3 l. n. 654 del 1975) gruppi che vanno previamente identificati, allo scopo di comprendere se si stratti di aggregazioni umane che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ciò in aderenza ai principi di tassatività delle norme incriminatrici e necessaria corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta >>;
la sentenza del Tribunale di Milano, sul punto, ha affermato che << Al contrario, l'ambito applicativo della legge Scelba è sì circoscritto alle manifestazioni tipiche del disciolto partito fascista - come nel caso di specie per il rito della chiamata del presente con correlato saluto fascista - , mentre il pericolo di ricostituzione del partito fascista è semanticamente riferito a una formazione che ne perpetui e richiami i postulati fondamentali, ma senza replicarli in modo pedissequo, esattamente come avvenne per la formazione estremistica Ordine Nuovo, sciolta d'imperio negli anni '70, proprio perché ricostitutiva del partito fascista, ma senza duplicarne tutte le caratteristiche anche formali e denominative. Di qui, la ribadita legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge Scelba per la perdurante attualità dell'esigenza di tutela delle istituzioni democratiche, atta a legittimare limitazioni alla libertà di espressione, secondo quanto previsto anche dall'art. 10 e dall’art. 17 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo >>;
ha ritenuto - dopo avere ribadito “l’inveramento del pericolo concreto” per le ragioni dette e per quelle che si diranno nel prosieguo - di dovere valutare, quale elemento normativo della fattispecie dell’art. 2 del d.l. 122/93 (che punisce chi in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori o ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi fondati sul razzismo e la discriminazione), se il fascismo rientri in siffatte organizzazioni etc, razziste e discriminatorie;
si è ampiamente diffusa sui motivi, anche sociali e storici, per cui ha ritenuto che il fascismo, “senza particolari periodizzazioni artatamente involutive”, “fu essenzialmente razzista sin dalle origini e, quindi, può essere sussunto nelle organizzazioni razziste di cui all'art. 2 della legge Mancino”;
ha ritenuto che << Ulteriore corollario è che le manifestazioni esteriori, i simboli o emblemi propri di tali congreghe o organizzazioni, quindi anche se relative al fascismo, sono punite dalla legge Mancino, qualora fossero ostentati in pubbliche riunioni. Tanto vale per l'ostentazione pubblica di vessilli con fasci littori, celtiche, ma anche svastiche etc. Alla luce di tali rilievi, dunque, nell'ipotesi del rito della chiamata del presente, come disciplinato dalla specifica liturgia fascista passata in rassegna, si verte di un elemento specializzante rispetto a tutti quelli delle innominate formazioni, organizzazioni etc razziste. Elemento specializzante che assorbe la fattispecie della legge Mancino, rendendo speciale la legge Scelba senza configurare alcun concorso di norme. Né vale enucleare una sostanziale divergenza del bene interesse tutelato: l'ordine pubblico costituzionale, la legge Scelba; l 'uguaglianza, la legge Mancino. Ed invero, a ben osservare, l'uguaglianza costituisce uno dei fondamenti dell'ordine pubblico costituzionale. Parimenti, la natura del pericolo non vale a rendere reciprocamente specifiche le fattispecie. Se è vero che la legge Scelba postula il pericolo in concreto, declinato secondo il momento e l'ambiente; è anche vero che è controversa la ricorrenza dell'analogo tipo di pericolo per la legge Mancino, laddove, anche fosse configurato in termini di pericolo astratto, per essere costituzionalmente orientato, presuppone il rinvenimento nella fattispecie di elementi che consentano di ritenere dotate di attitudine offensiva le condotte illecite (cfr Corte cost. n. 225 del 1974) >>;
ha vagliato (con esito positivo) se della fattispecie prevista e punita dalla legge Scelba (n. 645/52), art. 5, ricorresse effettivamente nel caso di specie anche il pericolo concreto come sopra declinato, tenendo conto, tra le altre, anche delle sentenze n. 74/1958 e n. 1/1957 della Corte costituzionale e pure con riferimento specifico alla “pubblica riunione”, individuando segnatamente il carattere e l’essenza del pericolo concreto non già nella diretta e immediata ricostituzione del partito nazionale fascista o del partito fascista della Repubblica Sociale Italiana bensì nell’esistenza di atti preparatori e prodromici causalmente diretti a quella ricostituzione, in quel determinato momento e in quel determinato ambiente e quindi con adeguata contestualizzazione e perciò adeguatamente contestualizzati, che come tali trascendono da ogni intento o movente celebrativo, commemorativo, pietistico, oblativo o di suffragio << per veicolare, invece, in modo strumentale, un messaggio propagandistico politico volto a riscuotere consensi su quei progetti politici, incentrati sul coacervo di valori di intolleranza, razzismo, discriminazione e rigetto del metodo democratico per la lotta politica. La stessa pubblica riunione va interpretata secondo il medesimo parametro, essendo sì necessaria, ma non ancora sufficiente di per sé, proprio perché occorre ancora verificare, con approfondita disamina fattuale, l'effetto e la natura di quel carattere pubblico ai fini dell'apprezzamento del pericolo concreto nel senso chiarito >>;
ha concluso, sulla base della ricostruzione probatoria effettuata, che << Esaminando con attenzione tutta la manifestazione, è, dunque, dato cogliere quanto l’elemento pietistico e di asserito raccoglimento, fosse stato oltremodo trasfigurato in un potente e amplissimo messaggio propagandistico volto a raccogliere consensi attorno a una precisa ideologia e a impressionare le folle. Né vale, sempre secondo l'approccio difensivo selettivo e minimalistico, descrivere tutta la complessa manifestazione come di semplice e anodina affermazione identitaria. Di contro, la manifestazione si risolse in una manifestazione politica di propaganda volta a raccogliere consensi, compiendo una vera e propria prova di forza politica, come condivisibilmente argomentato dalla difesa di parte civile. La commemorazione mossa dalla pietas e volta all'omaggio in suffragio ai caduti volutamente esorbitò, in modo eclatante e, soprattutto, gratuito, in una manifestazione fascista di propaganda volta al proselitismo, impressionando le folle. I descritti mezzi impiegati furono idonei ed efficaci. La manifestazione non fu, dunque, commemorativa nel senso minimalista e meramente rivolto al lontano passato, con forme pittoresche e innocue. La manifestazione fascista della celebrazione pubblica per cui è causa fu, dunque, pericolosa in concreto in relazione al momento e all’ambiente. Ne consegue che fu, senz'altro, integrato il pericolo concreto postulato dalla fattispecie, come declinato dalla univoca e costante giurisprudenza di legittimità sulla scorta delle due note pronunce della Corte costituzionale >>;
infine, ha esaminato e disatteso la questione della pretesa buona fede, fatta valere dai difensori degli imputati, richiamandosi alla sentenza (non massimata) di Cass. I n. 12049 del 17 febbraio 2023, depositata il 22 marzo 2023, Polacchi, e facendo propri i principi ivi affermati: << la necessaria concretezza del pericolo, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute le manifestazioni esteriori, e dell'attentato alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi caratterizzato dal pericolo di ricostituzione dell'ideologia fascista, costituiscono dei punti fermi nell'evoluzione giurisprudenziale di legittimità. La giurisprudenza di legittimità è, del resto, pienamente aderente all'insegnamento della Corte costituzionale, la quale ha chiarito che è la «intenzione de/legislatore, il quale, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire non già una qualunque manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 della Costituzione, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che, come si è detto prima, possono determinare il pericolo che si è voluto evitare . ... La ratio della norma non è concepibile altrimenti, nel sistema di una legge dichiaratamente diretta ad attuare la disposizione XII della Costituzione. !!legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle; ed ha voluto colpire le manifestazioni stesse, precisamente in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione» (Corte costituzionale, sentenza n. 7 4 del l 958). Con questa interpretazione, coerente a quella che la Corte costituzionale ha dato nella sentenza n. l del1957 in merito all'art. 4 della legge Scelba, l'art. 5 l. n. 645 del l 952 si inquadra perfettamente nel sistema delle sanzioni dirette a garantire il divieto posto dalla XII disposizione transitoria, né contravviene al principio dell'art. 21, primo comma, della Costituzione. Le manifestazioni di carattere simbolico e apologetico devono essere sostenute, per ciò che concerne il rapporto di causalità fisica e psichica, dai due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista, sicché quando questi requisiti sussistono, l'ipotesi di cui all'art. 5 legge citata è costituzionalmente legittima. Questo principio è, d'altra parte, fondato sulla stessa ratio legis che è quella di evitare, attraverso l'apologia e le manifestazioni proprie del disciolto partito, il ritorno a qualsiasi forma di regime in contrasto con i principi e l'assetto dello Stato: tale ratio informa di sé ogni singola disposizione di cui si compone la legge 20 giugno l 952, n. 645. Necessario corollario di tale costante interpretazione giurisprudenziale è, in effetti, l'irrilevanza della questione dell'errore sul precetto ex art. 5 cod. pen. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che «l'esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell'agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione del disposto normativa. Ne consegue che in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato normativa sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che, in caso di dubbio, si determina un obbligo di astensione dall'intervento, con l'espletamento di qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia > (Sez. 6, n. 6991 del 2510112011, Sirignano, Rv. 249451). Del resto, è proprio la Carta costituzionale che, alla XII disposizione transitoria e finale, vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e stigmatizza, perciò, la condotta posta in essere dagli imputati, sicché non è neppure in astratto ipotizzabile l'errore sul precetto >>.
4. La sentenza delle Sezioni Unite, in sintesi
Si è detto che nelle more del deposito della sentenza del Tribunale di Milano la questione controversa è stata rimessa alle Sezioni Unite, che l’hanno risolta affermando il principio di diritto che si è già menzionato.
Le ragioni del contrasto erano date dall’esistenza di due contrapposti orientamenti. Il primo riteneva che il saluto fascista integrasse il reato di cui all'art. 2 d.l. n. 122 del 1993, << trattandosi di una manifestazione esteriore che costituisce rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico >> (così, in motivazione, la sentenza delle Sezioni Unite Clemente). Nell’ordinanza di rimessione la prima sezione penale aveva richiamato a tale riguardo le sentenze di Cass. Sez. l, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 – 02, Sez. l, n. 25184 del 04/03/2009, Saccardi, Rv. 243792 – 01, Sez. 3, n. 37390 del 10/07/2007, Sposato, Rv. 237311 - 01). Il secondo orientamento, invece, ravvisava << nel "saluto romano", gesto evocativo del disciolto partito fascista, la violazione dell'art. 5, legge n. 645 del 1952, a condizione che, trattandosi di reato di pericolo concreto, la condotta sia idonea a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all'ambiente in cui è compiuta >> (così, in motivazione, la sentenza delle Sezioni Unite Clemente). Nell’ordinanza di rimessione, al riguardo, erano state richiamate le sentenze di Cass. Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526-01, Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753-01, Sez. 1, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826- 01. L’ordinanza di rimessione, tuttavia, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza Clemente, aveva anche segnalato <<due ulteriori profili di criticità interpretativa. Un primo aspetto attiene all'inquadramento delle condotte in esame nell'ambito della categoria dogmatica dei reati di pericolo concreto ovvero di pericolo astratto. Infatti, secondo la ricognizione della giurisprudenza effettuata dall'ordinanza di rimessione, la violazione dell'art. 5 legge n. 645 del 1952 darebbe luogo ad un reato di pericolo concreto (espressive di tali sentenze sarebbero Sez. 5, n. 36162 del 18/04/2019, Alberga, Rv. 277526 - 01; :Sez. l, n. 1103B del 02/03/2016, Goglio, Rv. 269753 - 01; Sez. l, n. 37577 del 25/03/2014, Bonazza, Rv. 259826 - 01), mentre la violazione dell'art. 2, d.l. n. 122 del 1993 sarebbe riconducibile alla categoria dei reati di pericolo astratto (Sez. l, n. 21409 del 27/03/2019, Leccisi, Rv. 275894 -02), atteso che la condotta, rievocando l'ideologia fascista e i valori della discriminazione razziale e dell'intolleranza, farebbe assumere alla norma una funzione di tutela preventiva del bene giuridico protetto. In riferimento alla categoria dei reati di pericolo astratto, la Sezione rimettente rammenta altresì l'elaborazione compiuta sul tema dalla giurisprudenza costituzionale (di cui si citano Corte cost., sent. n. 225 del 2008 e sent. n. 286 del 1974) la quale, nel ritenerne la compatibilità con il precetto costituzionale, ha precisato che all'interprete è demandato di accertare se la condotta illecita, nel caso concreto, sia comunque connotata da offensività, secondo una valutazione ex ante e fondata sulle relative circostanze di tempo e di luogo in cui l'azione si è sviluppata. Un secondo profilo attiene poi alla natura del rapporto - di specialità ovvero di concorso apparente di norme - tra le due fattispecie oggetto di esame: in particolare, mentre, alla stregua di Sez. l, n. 3806 del 19/11/2021, Buzzi, Rv. 282500- 01, tra le stesse sarebbe dato rinvenire un rapporto di specialità, secondo invece Sez. l, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, Scordo, Rv. 282914- 02, tale rapporto dovrebbe escludersi, posto che i due reati sarebbero caratterizzati da un diverso ambito applicativo>>.
Nelle proprie articolate note di udienza la Procura Generale aveva così concluso:
<< …Dunque – e con riserva di ulteriore argomentazione in sede di discussione – ai plurimi quesiti posti nell’ordinanza di rimessione, possono fornirsi le seguenti soluzioni:
- La condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel “saluto fascista”, evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una pubblica riunione, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un’associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integra la fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, qualora, nella situazione data, tali condotte comportino, secondo il rigoroso accertamento di fatto, un pericolo concreto ed attuale per la pacifica convivenza, in quanto possibile fonte di disordine materiale incontrollato e di reazioni violente;
- la fattispecie di cui all’art. 2, d.l. 26 aprile 1993, n. 122 configura, al pari di quella prevista dall’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645 un reato di pericolo concreto;
- non sussiste un rapporto di specialità tra le due predette fattispecie…>>.
Le Sezioni Unite hanno risolto le questioni controverse, come detto, ritenendo che la condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel cosiddetto "saluto romano" integri il delitto previsto dall'art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost., e che la stessa condotta possa altresì integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall'art. 2, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del complessivo contesto fattuale, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'art. 604-bis, secondo comma, cod. pen., già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654.
La sentenza delle Sezioni Unite, dopo avere ricostruito nel dettaglio i termini del contrasto giurisprudenziale:
-si sofferma sui tratti distintivi delle due norme e sui rapporti tra esse intercorrenti, dapprima osservando che << ad un nucleo comune, rappresentato, appunto, dal compimento di manifestazioni durante pubbliche riunioni, si affianca un elemento di sicura differenziazione dato dalle diverse entità cui rapportare le esibizioni tenute >>, di poi rilevando la diversità del bene giuridico tutelato, individuato nell’ordine pubblico democratico o costituzionale (non nell’ “ordine pubblico materiale”) quanto alla fattispecie di pericolo concreto di cui all’art. 5 della legge 645/52 (<< In definitiva, è la stessa funzione "ancillare" della norma dell'art. 5 cit. rispetto ad una precisa disposizione costituzionale che rivela l'oggetto del pericolo che si vuole contrastare - ovvero la ricostituzione del disciolto partito fascista - e, allo stesso tempo, per conseguente necessità di considerare i limiti intrinseci del bilanciamento con altri valori costituzionali, la natura non astratta bensì concreta dello stesso. In altre parole, la necessità per il giudice di “appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussista una seria probabilità di verificazione del danno” (così, testualmente, Corte cost., sent. n. 139 del 2023, quanto ai reati di pericolo concreto) non può non discendere dalla necessaria considerazione di un tale bilanciamento >>) e nei beni costituzionalmente protetti dagli artt. 2 e 3 Cost. della solidarietà, della dignità e dell’uguaglianza della persona quanto alla fattispecie prevista dall’art. 2 del d.l. 122/1993 (<< In realtà, i "valori in gioco" sono, nella specie, di entità sensibilmente più ampia rispetto al solo aspetto di "ordine pubblico": al di là della "costruzione" della norma, fondata sulla già ricordata "mediazione normativa" data dal richiamo all'art. 3 cit., è la necessaria coniugazione delle pubbliche manifestazioni con il contenuto delle stesse, evocante ideologie di tipo discriminatorio specificamente emergenti dalla norma e proprie od usuali di entità collettive, a dare vita ad un bene giuridico di tipo, a ben vedere, "composito". È questa dunque la ragione per cui, come osservato anche da parte della dottrina, a venire in rilievo non può che essere la necessità di scongiurare il pericolo della lesione ai beni fondamentali, costituzionalmente protetti dagli art. 2 e 3 Cost., della dignità ed eguaglianza della persona… In definitiva, alla pari di quanto già detto con riguardo al reato di cui all'art. 5 cit., la individuazione del bene tutelato non può che avvenire, anche in tal caso, mediante il ricorso al "filtro" del piano costituzionale, punto costante di riferimento in una chiave interpretativa che, non può dimenticarsi, sempre deve conformarsi al principio di offensività; e in un quadro di comune sfondo, derivante dai connotati democratici della Repubblica italiana, se, nel caso dell'art. 5 cit., rileva la necessità di preservare l'ordinamento da condotte che ne pongano precipuamente in pericolo i fondamenti anche istituzionali, nel caso dell'art. 2 cit. emerge la necessità di evitare la disgregazione dei valori di solidarietà, dignità ed eguaglianza di tutti i consociati >>);
-si diffonde sulle ragioni che portano a concludere che il delitto dell’art. 2 d.l. 122/93 è reato di pericolo presunto, valorizzando in tal senso la rubricazione della norma (“Disposizioni di prevenzione”) che tale è rimasta anche dopo le modifiche apportate all’originaria disposizione, la natura stessa dei beni giuridici da esso protetti (quelli garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione) e la loro dimensione, il diverso contenuto evocativo – rispetto alla fattispecie dell’art. 5 della legge Scelba – delle manifestazioni tenute in pubbliche riunioni, il collegamento con le «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» di cui all'art. 3 legge n. 654 del 1975 e, quindi, << il grado di pericolosità da attribuire alla condotta, la cui capacità di "contagio" o diffusione delle idee contrastanti con i valori sanciti dagli artt. 2 e 3 Cost. assume una consistenza proporzionalmente collegata all'esistenza attuale di detti agglomerati >>. Prosegue, dipoi, affermando che << Da ciò dunque deriva che, in tal caso, la valutazione del pericolo, che si esaurisce all'interno della fattispecie astratta, risulta già fatta, a priori, dal legislatore, spettando invece al giudice, secondo il "meccanismo" di funzionamento proprio della presunzione, il compito di verificare, nell'analisi della fattispecie, elementi di fatto capaci di dimostrarne, in concreto, l'assenza>>;
-sottolinea la compatibilità di una tale conclusione con i principi costituzionali e, in specie, con quello di offensività, richiamando le sentenze della Corte costituzionale n. 139/2023 e n. 225/2008 : <<Dirimenti sul punto appaiono le affermazioni rese, nella sentenza n. 139 del 2023, dalla Corte costituzionale chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della norma in materia di porto senza giustificato motivo di strumenti da punta o taglio atti ad offendere et similia (art. 4, legge n. 110 del 1975) laddove la stessa non richiede la sussistenza di circostanze di tempo e di luogo dimostrative del pericolo di offesa alla persona. È, in particolare, significativo che in tale decisione la Corte costituzionale, pur dopo avere ribadito la persistente legittimità della distinzione tra reati di pericolo presunto (nei quali il giudice deve escludere la ·punibilità del fatto sia pure corrispondente alla formulazione della norma incriminatrice quando, alla luce delle circostanze concrete, manchi ogni ragionevole possibilità di produzione del danno) e reati di pericolo concreto (nei quali incombe invece al giudice il compito di appurare la seria probabilità della verificazione del danno), abbia aggiunto che il principio di offensività in concreto può, ed anzi deve, operare anche in rapporto alla figura del pericolo presunto. E, se è vero che nei reati di pericolo presunto è il legislatore a dovere enucleare i fatti che, nella loro astratta configurazione, esprimono un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione, è parimenti innegabile, come sempre precisato dalla Corte costituzionale, che resta affidato al giudice, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa» (Corte cost., sent. n.225 del 2008). Da tali considerazioni discende che, quanto meno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un "pericolo concreto" ed un "pericolo astratto o presunto" finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente una volta che si prenda contestualmente atto di come, per quanto appena detto, anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività. Non pare dubbio, allora, che, considerando la dimensione del bene giuridico tutelato, già indicata sopra, la natura pur solo presuntiva del pericolo preso in considerazione dall'art. 2 cit. mantenga una precisa ed innegabile giustificazione >>;
-analizza il principio di cui all’art. 15 c.p. ed esclude – data la struttura delle due norme incriminatrici in questione – che esse possano essere tra loro poste in rapporto di specialità. Sul tema della specialità ripercorre i diversi approdi giurisprudenziali di legittimità e richiama le principali sentenze - anche delle Sezioni Unite - che lo hanno affrontato sia sotto il profilo contenutistico e consustanziale, sia sotto il profilo dei criteri utilizzati nel tempo per eseguire l’operazione di raffronto tra le norme, sia, quindi, sotto il profilo del corretto approccio interpretativo-metodologico che consente di individuare o di escludere la specialità medesima;
-cita perciò, per esempio, Cass. Sez. Un. n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864-01, secondo cui, come uniformemente riconosciuto, è norma speciale «quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale», e Cass. Sez. Un. n. 9568 del 21/04/1995, La Spina, Rv. 202011-01, che invece ha valorizzato il criterio identificativo dell’identità del bene giuridico tutelato;
-considera però ormai stabilizzato che il criterio di specialità vada inteso in senso logico-formale (“il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato «solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse» - Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.; Sez. 5, n. 2121 del 17/11/2023, Sioli, Rv. 285843- 01; Sez. l, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, Rv. 284504- 01”);
-conviene con Cass. Sez. Un. n. 1963/2011, Di Lorenzo, sul fatto che debba escludersi la correttezza del criterio della specialità in concreto (“non avendo senso far dipendere da un fatto concreto l'instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra due norme sicché non rileva né la omogeneità dei beni giuridici tutelati dalle diverse fattispecie incriminatrici né il loro contingente convergere sul medesimo avvenimento concreto» (da ultimo, Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Fagioli, non mass. sul punto); la specialità, cioè, «è una relazione tra norme astratte non già tra fatti concreti e norme e dunque o esiste giù in astratto o non esiste neppure in concreto» (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, De Lorenzo, non mass. sul punto)”);
-richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 97/1987 sul criterio della continenza (“…affermando che l'applicazione del principio di specialità ex art. 15 cod. pen. implica la «convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse», dovendosi confrontare «le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico» (Corte cost., sent. n. 97 del 1987)” e l’ordinanza della stessa Corte n. 174/1994 (“La Corte ha poi aggiunto che «per aversi rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all'altra» (Corte cost., ord. n. 174 del 1994)”;
-ribadisce come principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello per cui l’art. 15 c.p. si riferisce alla sola specialità unilaterale e non anche, invece, alla specialità reciproca o bilaterale: “La giurisprudenza di questa Corte converge inoltre, ormai, nel ritenere che l'art. 15 cod. pen. si riferisca alla sola "specialità unilaterale", giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la "specialità reciproca" o "bilaterale", non evidenziano alcun rapporto di genus ad speciem (tra le tante, Sez. 4, n. 21522 del 02/03/2021, Bossi, non mass. sul punto; Sez. 5, n. 27949 del lB/09/2020, Di Gisi, non mass. sul punto; Sez. 4, n. 29920 del 17'/01/2019, Padricelli, Rv. 276583 - 01, tutte fondamentalmente debitrici dell'insegnamento di Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, non mass. sul punto)”;
-ribadisce l’eccentricità dei criteri di sussidiarietà, assorbimento e consunzione: << Sempre le Sezioni Unite, dopo iniziali apparenti affermazioni di segno contrario, hanno sottolineato la eccentricità dei criteri di "sussidiarietà", "assorbimento" e "consunzione", «suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti», e la loro estraneità all'unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzato dall'art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, non mass. sul punto; Sez. l, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, Baldassarre, cit.) >>;
-nella fattispecie concreta al suo vaglio, quindi, per tali motivi, esclude che una delle due norme incriminatrici possa essere unilateralmente speciale rispetto all’altra, perché “Al nucleo comune di "manifestazioni tenute in pubbliche riunioni", si aggiunge, in ognuna di esse, l'elemento differenziante del loro contenuto, rilevante già sul piano astratto giacché, se nell'art. 5 cit. le manifestazioni devono essere quelle «usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste», nell'art. 2 cit. le manifestazioni sono quelle esteriori, proprie ed usuali «delle organizzazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654». Sicché, atteso l'inequivocabile diverso significato di tali manifestazioni, discendente dalla stessa "diversità genetica" degli enti, appare, semmai, ricorrere tra le norme in oggetto un rapporto di "specialità bilaterale" che, tuttavia, per quanto già osservato, deve ritenersi estraneo alla previsione dell'art. 15 cod. pen., unicamente espressivo della specialità "unilaterale". Significativo è poi che, solo con riguardo al reato di propaganda per motivi di discriminazione razziale di cui all'art. 604-bis cod. pen., già contemplato dall'art. 3, legge n. 654 del 1975, il legislatore abbia espressamente posto un rapporto di "sussidiarietà espressa" rappresentato dalla clausola di riserva («salvo che il fatto costituisca più grave reato») posta nell'incipit della disposizione”;
-afferma l’estraneità del criterio selettivo basato sulla concretezza del pericolo – sposato, invece, da Cass. I n. 3806, 19.11.2021, Buzzi - al corretto metodo di raffronto tra fattispecie astratte, perché da questo deve essere escluso il profilo della punibilità;
-tenuto conto del loro significato, inquadra il rituale del saluto romano e della chiamata del presente innanzitutto nella fattispecie dell’art. 5 della legge Scelba e valorizza a tale proposito anche gli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista: << L'assenza di un rapporto di specialità, che "svincola" pertanto l'interprete da quella che sarebbe, altrimenti, l'automatica conseguenza di fare capo sempre e solo alla norma "speciale", comporta che debba dunque guardarsi al significato del rituale del "saluto romano" al fine di configurarne l'inquadramento giuridico nelle "manifestazioni" di cui all'art. 5 cit. ovvero in quelle dell'art. 2 cit., o, eventualmente, e a determinate condizioni, in entrambe. Ciò posto, non può sussistere dubbio circa la "fisiologica" riconducibilità del rituale della "chiamata del presente" e del "saluto romano" (ovvero il protendere il braccio destro tenendolo teso e con il palmo rivolto verso il basso) all'interno, anzitutto, della fattispecie di reato dell'art. 5 cit.: pare sufficiente, sul punto, fare riferimento a quanto era previsto dagli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista per desumerne l'inequivocabile significato di evocazione e celebrazione dell'ideologia del partito fascista e del regime conseguentemente instaurato. Se tale rituale è, in altri termini, immediatamente e notoriamente idoneo ad evocare, anzitutto, la "liturgia" delle adunanze fasciste, è la consumazione del reato di cui all'art. 5 cit. ad essere innanzitutto realizzata…Deve dunque concludersi nel senso che la "naturale" identificazione tra saluto romano da una parte e disciolto partito fascista dall'altro, per le ragioni già illustrate, è da sola sufficiente ad integrare sul piano oggettivo, sempre e comunque, il reato di cui all'art. 5 >>;
-indica esemplificativamente alcuni elementi di fatto << idonei a dare concretezza al pericolo di "emulazione" insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale >>, quali, <<tra gli altri, il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc. >>;
-esclude il rilievo della caratteristica “commemorativa” della riunione ai fini della eventuale non configurabilità del reato, a cagione dell’irrilevanza dei motivi della condotta e per il dolo generico che connota il reato (<< Va peraltro escluso che, di contro, come sostenuto dalle difese dei ricorrenti, la caratteristica "commemorativa" della riunione possa rappresentare fattore di neutralizzazione degli altri elementi e, quindi, di "automatica" insussistenza del reato, attesi il dolo generico caratterizzante la fattispecie e la irrilevanza dei motivi della condotta >>);
-afferma e non esclude, invece, la possibilità del concorso tra i due reati per la possibilità che il rituale che connota la condotta in argomento - principalmente alla luce del dato testuale dell’art. 1 della legge Scelba («si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista [ ... ] svolgendo propaganda razzista») - sia evocativo << anche di ideologie discriminatorie e razziali >>. L’evocazione di queste ideologie realizzata con tale rituale, tuttavia, non è sufficiente di per sé stessa a integrare la fattispecie delittuosa dell’art. 2 del d.l. 122/93, poiché questa “sanziona non le manifestazioni di tipo razziale o discriminatorio tout court, bensì le manifestazioni proprie od usuali delle «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi dell'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654». Appare, in altri termini, innegabile come il legislatore non abbia sanzionato direttamente le manifestazioni esteriori espressive di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi esigendo, invece, che tali manifestazioni siano quelle proprie od usuali dei gruppi che tale incitamento pongono in essere”;
con riguardo all’art. 3 della legge 654/75 (ora art. 604 bis c.p.), dopo avere evidenziato che le organizzazioni, le associazioni, i gruppi e i movimenti debbono inevitabilmente essere operanti nell’attualità - << in quanto necessariamente espressivi della stessa ragione della natura presunta del pericolo >> - valorizza la distinzione normativa tra enti più strutturati (le «organizzazioni» e «associazioni») e agglomerati “più fluidi” (i «gruppi» e i «movimenti») per concludere che “non appare necessaria, sulla base dello stesso dato normativo, una dimostrazione dei tempi e dei modi della costituzione di tali agglomerati, del resto incompatibile con la ratio della norma e la natura presunta del pericolo che caratterizza, come detto, il reato…gli scopi de «l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», richiesti dall'art. 3 cit., ben potrebbero, infatti, emergere dallo stesso contenuto della manifestazione di cui all'art. 2 cit., concretamente rappresentativa di essi”;
rileva la necessità - ai fini del concorso di reati e, quindi, della integrazione anche del delitto previsto dalla legge Mancino mediante il rituale in argomento - dell’individuazione di elementi relativi al contesto complessivo in cui è esso avvenuto che siano idonei non soltanto a renderlo evocativo del disciolto partito fascista e concretamente pericoloso (art. 5 della legge Scelba), ma anche tali da attribuirgli, secondo il contesto materiale o l’ambito della manifestazione, << il significato discriminatorio tipizzante il reato di cui all'art. 2 cit. Sotto tale profilo, dunque, altro sarebbe che il gesto sia effettuato nello stretto ambito di un contesto chiaramente connotato (per le modalità e le finalità della riunione nonché per i simboli impiegati) dal riferimento a fatti direttamente o indirettamente ricollegabili all'ideologia fascista, altro, invece, sarebbe il medesimo gesto ove tenuto in ambiti di tipo diverso, nei quali il ricorso a tale rituale costituisca "lo strumento simbolico" di espressione delle idee di intolleranza e discriminazione proprie, nell'attualità, degli agglomerati considerati dall'art. 3 legge n. 654 del 1975. In definitiva, mentre nel primo caso il rituale esibito sarebbe finalizzato ad esternare unicamente l'ideologia propria del disciolto partito fascista, nel secondo avrebbe anche la valenza, implicita, ma chiara, di esternazione delle ideologie di cui alle entità individuate dall'art. 3 cit., nel segno di una contrapposizione ispirata ad idee chiaramente incompatibili con i principi costituzionali. Sicché, ben può ritenersi che, in tali limiti, e in tali casi, il rituale del saluto romano possa integrare non il solo reato di cui all'art. 5 legge cit., bensì anche quello dell'art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo già illustrati sopra >>;
esclude la rilevanza, da ultimo, del contrasto giurisprudenziale ai fini dell’invocazione dell’art. 5 del codice penale, ricordando che la sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988 << ha sottolineato il nesso indissolubile intercorrente tra "rimproverabilità" della condotta, da una parte, e chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali, dall'altra >> e “ha indicato la mancanza di conoscibilità della disposizione normativa per assoluta oscurità del testo legislativo nonché, per il «gravemente caotico [ ... ] atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari»” come << parametri sulla cui base stabilire l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale >>. Il contrasto giurisprudenziale al più ingenera un mero dubbio e << il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, che giunga sino all'astensione dall'azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, proprio perché il dubbio, non equiparabile allo stato d'inevitabile ed invincibile ignoranza, è ontologicamente inidoneo ad escludere la consapevolezza dell'illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, Incardona, Rv. 269074 - 01; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252197 - 01; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011, Sirignano, Rv. 249451 - 01) >>
Immagine: René de Saint-Marceaux, Statua di Jean Sylvain Bailly, XIX secolo, Musée du Jeu de Paume, Paris.
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