ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il contributo vuole sommariamente descrivere le problematicità ed i limiti di un’inchiesta che ha inteso individuare responsabilità penali nel mancato contenimento, al loro sorgere, da parte delle Autorità politiche e sanitarie, dei focolai epidemici che costituirono il fulcro della diffusione esponenziale del virus nel territorio bergamasco. L’indagine ha presentato aspetti problematici sui quali l’articolo vuole porre l’attenzione. Di fatto, si è risolta, come descritto nei paragrafi 2 e 3, e non poteva essere altrimenti, in un sindacato sugli effetti delle scelte politiche ed amministrative in materia di salute pubblica, con le allarmanti evidenze descritte nel paragrafo 4. È stata messa in discussione l’iniziativa della Procura di Bergamo che, operando di fatto un’indagine conoscitiva nella ricerca di responsabilità, sarebbe andata oltre i limiti istituzionali spettanti alla funzione del Pubblico Ministero. Altri aspetti di criticità dell’inchiesta hanno riguardato la ritenuta non configurabilità del reato di epidemia colposa (artt.438 e 452 CP) nella forma omissiva (paragrafo 5); la connotazione ‘politica’ delle scelte delle Autorità governative e amministrative, ritenute non sindacabili in sede giudiziaria (paragrafo 6); la difficile individuazione di specifici ruoli decisori cui imputare le gravi omissioni emerse (paragrafo 7); il problema del nesso di causalità tra le riscontrate gravi omissioni nella ‘preparedness’ del contenimento dei focolai locali e la successiva ‘esplosione’ del contagio nel territorio bergamasco e lombardo.
Sommario: 1. Premessa – 2. Oggetto dell’inchiesta – 3. Il ruolo della Procura e le critiche sull’iniziativa – 4. I fatti emersi – 5. L’inconfigurabilità del reato di pandemia colposa nella forma omissiva – 6. Le scelte politiche non sindacabili in sede giudiziaria – 7. La posizione dei tecnici e dei funzionari ministeriali – 8. Il problema del nesso causale.
1. Premessa
Il 18 marzo è il “giorno della memoria” delle vittime del Covid, il giorno dell’iconica e angosciosa sfilata lungo il viale del cimitero di Bergamo dei camion militari che trasportavano decine di bare di morti Covid verso altri luoghi, non essendovi più ricettività nei cimiteri, nelle chiese o nei crematori della zona, ormai saturi di cadaveri.
Non è di questa scena manzoniana che voglio parlare, ma condividere alcune riflessioni a margine dell’inchiesta penale che su tali vicende è stata condotta dalla Procura della Repubblica di Bergamo, inchiesta conclusasi con l’archiviazione emessa dal Tribunale dei Ministri di Brescia del procedimento per epidemia colposa, con riferimento alle posizioni del Presidente del Consiglio e del Ministro della Salute dell’epoca, delle alte cariche della Regione Lombardia, dei componenti del CTS e alcuni dirigenti del Ministero della Salute e di Organismi sanitari pubblici, posizioni tutte alla fine confluite avanti lo stesso Tribunale ministeriale a seguito della determinazione, assunta ex art.54 quater CPP dal Procuratore Generale di Brescia, di ritenere attratta alla competenza di quel Tribunale anche la posizione dei soggetti ‘laici’, cui veniva contestato il reato di cui agli arit.432 e 452 CP nella forma di ‘cooperazione colposa’ ex art.113 CP con i ministri, circostanza ritenuta dalla sovraordinata Autorità e accettata dal Tribunale dei Ministri come assimilabile ad un concorso ex art.112 CP.
Neppure intendo parlare delle polemiche (soprattutto giornalistiche e da parte delle Camere Penali, ma anche di colleghi e politici vari) che l’inchiesta suscitò, ma condividere, e farne oggetto di riflessione tecnica, alcuni dei numerosi profili di criticità sottesi al procedimento bergamasco.
2. Oggetto dell’inchiesta
L’oggetto dell’inchiesta riguardava la mancata istituzione della “zona rossa” nei Comuni di Alzano Lombardo e Nembro e la fulminea diffusione del contagio nei territori bergamaschi e lombardi a fine febbraio 2020, con un’escalation di morti ormai incontrollabile nei giorni a seguire.
Le indagini erano focalizzate sulla prima fase della pandemia, sulla risposta delle Autorità sanitarie nell’affrontare il rischio pandemico per arginare il primo propagarsi dell’epidemia proprio dai territori lombardi. L’inchiesta non aveva per oggetto la ricerca di una responsabilità colposa medica nella gestione e cura dell’epidemia, non riguardava malpractices mediche con riferimento alla diffusione delle nuove patologie legate ad agenti virali precedentemente sconosciuti, ma oggetto d’indagine era il livello di preparedness delle Autorità sanitarie, cioè di prevenzione, preparazione e gestione del rischio pandemico prima e dopo l’alert dell’OMS del 5 gennaio 2020 e fino al lockdown del 9 marzo 2020, una ricostruzione e valutazione, anche in termini di responsabilità penale, delle criticità e negligenze emerse nell’azione dei decisori politici e amministrativi per contrastare la propagazione di focolai epidemici nel territorio bergamasco e nelle zone limitrofe, nella errata valutazione del rischio pandemico e, in sostanza, nell’omesso impedimento del diffondersi della pandemia e degli eventi lesivi che ne erano derivati.
3. Il ruolo della Procura e le critiche sull’iniziativa
Il primo fattore di critica coinvolgeva (tema ancora di stretta attualità) il ruolo stesso e la funzione di una Procura della Repubblica: può il P.M., ci si è chiesto, utilizzare lo strumento dell’inchiesta penale per individuare eventuali responsabilità nella causazione o nel mancato contenimento e, quindi, nell’agevolazione, seppur colposa, di un evento catastrofico diffusosi progressivamente, quale è stato l’epidemia di Covid-19, che ha provocato decine di migliaia di vittime in Italia (e non solo)?
Si disse che non spettava ad una Procura ricercare le cause di una calamità ed accertare se erano individuabili delle responsabilità penali nel suo mancato impedimento e, soprattutto, sindacare sugli effetti delle scelte politiche in materia di salute pubblica, in quanto il PM era legittimato ad intervenire solo con indagini penali in presenza di una qualificata notitia criminis.
È il problema, osserviamo, delle grandi catastrofi (alluvioni, frane imponenti, disastri ambientali e simili), laddove si afferma che non compete al PM ricostruire gli eventi per la ricerca di responsabilità penali, dovendo limitarsi ad istruire un procedimento in relazione a specifiche denunciate ipotesi di reato.
Nel caso bergamasco e nel caso della situazione di pandemia diffusa era impossibile procedere ed inquadrare le indagini nell’ambito della previsione dell’art.589 C.P., in relazione ai singoli decessi, stante le dimensioni del fenomeno e l’intervento collettivo del personale sanitario (dove e se c’è stato) sui contagiati, nonché l’impossibilità di procedere ad esami autoptici. Il fenomeno era collettivo, coinvolgeva gran parte della popolazione e delle Autorità sanitarie a tutti i gradi, per cui l’indagine non poteva che orientarsi sulla ricerca delle cause del mancato contenimento dei focolai epidemici, quindi sul reato di epidemia colposa, e in tale prospettiva giungere necessariamente ad operare un sindacato sulle scelte ed eventuali omissioni delle Autorità in materia di salute pubblica, indagine che, pur di fronte alle pressanti istanze di informazione da parte dell’opinione pubblica bergamasca, nessuna autorità politica o sanitaria o scientifica aveva sistematicamente inteso svolgere.
Ma spettava ad una Procura una simile indagine?
Proprio per la scelta di svolgere tale più ampia indagine la Procura bergamasca, pur in presenza di centinaia di denunce di morte, venne fatta oggetto di aspre critiche e tacciata di fare “populismo giudiziario”, di essersi spinta oltre i propri compiti istituzionali, alla ricerca di un reato, più che allo svolgimento di un’istruttoria penale.
4. I fatti emersi
Le risultanze dell’indagine furono comunque sconcertanti.
In primo luogo furono accertati il mancato aggiornamento del Piano Pandemico anti-influenzale italiano, fermo addirittura al 2006, e la mancata adozione dei provvedimenti preventivi ivi comunque previsti, anche a livello regionale e locale, nonché la mancata adozione dei protocolli di precauzione già utilizzati in occasione di precedenti pericoli epidemici, quali la SARS-COV1 (2002-2003) e la MARS COV (2012), evidenziandosi la totale sottovalutazione del rischio pandemico da parte delle autorità sanitarie a tutti i livelli, centrale, regionale e locale, e la loro totale impreparazione a prevenire ed arginare la diffusione del virus, ad arginare i nascenti focolai locali, pur dopo l’alert lanciato dall’OMS ancora il 5 gennaio 2020.
Venivano inoltre riscontrate di sistema gravi criticità in questa prima fase di diffusione dei focolai pandemici, quali, sommariamente:
- il vuoto, la totale mancanza di organizzazione della medicina territoriale, con medici di famiglia lasciati senza direttive o indirizzi comportamentali, se non terapeutici, in pratica lasciati letteralmente allo sbando e non in grado di effettuare vigilanza epidemiologica attiva (la sbandierata “sorveglianza attiva”), di gestire l’isolamento domiciliare delle persone a rischio e cercare di far da filtro per contenere le spedalizzazioni massicce e incontrollabili (e spesso purtroppo impossibili);
- disposizioni ministeriali contradditorie e inefficienti, che comportarono molta perdita di tempo e di incisività dell’azione di contrasto, quali:
· la contradditoria definizione di “caso” ai fini della sorveglianza e nella strategia e previsione di testing e screening, ai fini di isolare i ‘veicoli’ di contagio;
· l’indicazione di non eseguire i tamponi agli asintomatici (che pur sono stati stimati causa del 40% dei contagi!);
· la mancata mappatura dei fabbisogni DPI, e DM e Posti Letto e la totale mancanza di tamponi, mascherine, tute, occhiali ed altri presìdi;
· la mancata formazione dei sanitari circa le precauzioni da osservare nella vestizione, nel trattamento dei pazienti e la mancata previsione di luoghi di triage separati, la mancata predisposizione di percorsi ‘puliti’ per l’accesso alle strutture sanitarie ed il movimento all’interno delle stesse;
· la promiscua gestione dei pazienti infetti (già denunciata dalla professoressa Capua) che conduceva in Lombardia ad attivare ospedali misti, con la contemporanea presenza di pazienti acuti, di cronici e di infetti, situazione che comportava la diffusione della infezione negli ospedali ed un numero elevato di personale sanitario contagiato (il 12% degli infetti, come riconosciuto dall’assessore regionale), fonte di ulteriori propalazioni esterne;
· la totale insufficienza dei fondamentali apparecchi di ventilazione, inutilmente sollecitati al CTS ancora a febbraio 2020 dall’allora sottosegretario alla salute, on.le SILERI di ritorno da Wuhan dove aveva curato il rimpatrio in Italia di cittadini italiani;
· la mancata ricognizione dei laboratori in grado di processare i tamponi;
· la ritenuta necessità di validazione dei casi da parte del laboratorio di riferimento dell’ISS a Roma, con conseguente farraginosità del sistema, con risposte che arrivavano dopo giorni, a discapito della sorveglianza epidemiologica e della rapidità di diffusione del contagio;
· i ritardi e disservizi sul numero verde centralizzato 1500 e nell’attivazione della piattaforma per caricare i dati finalizzati alla sorveglianza epidemiologica (per capire anche la crescita esponenziale del contagio e la necessità di tempestivi interventi);
· la mancata tempestiva istituzione della “zona rossa” ad Alzano Lombardo e Nembro, dove già il 27 febbraio, secondo le proiezioni matematiche dell’epidemiologo prof. Merler, rappresentate al CTS ed al Governo ancora nella prima decade del febbraio 2020, si versava in una situazione di epidemia conclamata (la R0 era arrivata pari a 2, cioè ‘piena pandemia’), chiusura che se tempestivamente disposta, alla data suddetta, secondo i calcoli epidemiologici del consulente della Procura, prof. Crisanti, avrebbe potuto portare ad un calo di mortalità del 67,5%, “con una probabilità del 95% che il risultato sia corretto. In questo scenario si sarebbero verificati 4148 decessi in meno rispetto all’eccesso di mortalità registrata in quel periodo”.
5. L’inconfigurabilità del reato di pandemia colposa nella forma omissiva
Su tali risultanze, e qui un secondo grave profilo di criticità e problematicità dell’inchiesta, il Tribunale dei Ministri, nel disporre l’archiviazione dei procedimenti, rilevava in modo tranchant la non configurabilità, in sé, del reato di epidemia colposa omissiva impropria, che costituiva, come detto, il fulcro della imputazione contestata dalla Procura di Bergamo agli indagati.
Facendo propri i principi enunciati nelle sentenze della Suprema Corte Sez. IV n.9133 del 12.12.2017 e Sez. IV n.20416 del 4.3.2021 (le uniche due pronunce all’epoca in materia), il Tribunale ritenne, alla radice, la non configurabilità, del reato di epidemia colposa omissiva impropria, in quanto il reato di epidemia avrebbe potuto essere integrato soltanto “da una condotta commissiva a forma vincolata”, da un comportamento attivo consistente appunto nella volontaria ‘diffusione’ di germi patogeni, sicché non poteva configurarsi il delitto di epidemia, di cui agli artt. 438 e 452, 1° comma, CP in una condotta come quella risultante dalle indagini, concretizzatasi in forma omissiva, trattandosi di modalità diversa da quella contemplata dalla norma incriminatrice, con conseguente inapplicabilità dell’art.40, 2°comma, CP, incompatibile con la forma commissiva vincolata del reato di riferimento.
L’assunto, di per sé del tutto ineccepibile, merita qualche riflessione.
Esso esclude il contagio quale mezzo di ‘diffusione’ del virus.
Ci si chiede se sia conforme al più generale principio di precauzione una lettura della norma che escluda la rilevanza penale della mancata adozione di misure previste (anche da normativa internazionale vincolante come la decisione del Parlamento Europeo 1082/2023/UE del 2013 e la successiva decisione della Commissione) per prevenire ed arginare emergenze sanitarie quali una pandemia, proprio per contenere la ‘diffusione’ del virus. Ciò a prescindere dal valore cogente o meno delle raccomandazioni OMS sulla pandemia, che pur l’Autorità sanitaria nazionale avrebbe dovuto osservare.
Ci si domanda anche se la “diffusione”, sul piano semantico come su quello epistemico, implichi necessariamente il ricorso ad una tipicizzata modalità attiva, cioè alla volontaria diffusione del morbo, evidenziandosi, di contro, come praticamente tutti i casi di mancato impedimento di un focolaio di Covid-19 siano riconducibili allo schema del concorso omissivo in un reato commissivo, cioè nel reato commissivo dei soggetti positivi che, se pur involontariamente, propagano il virus in quanto portatori dello stesso.
Ci si chiede altresì se il fatto tipico previsto dall’art.438 CP non possa invece ritenersi modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, secondo il quale ad essere vincolata non sarebbe la condotta, bensì il mezzo -la diffusione- attraverso il quale si verifica l’evento, per cui il reato potrebbe essere considerato “a forma libera”, quindi anche tramite contagio.
Ci si domanda infine se il reato, quand’anche ritenuto a condotta vincolata, non possa comunque essere integrato nella sua declinazione omissiva, come già ammesso dalla Suprema Corte per il reato di truffa, reato quest’ultimo ritenuto a condotta vincolata, ma in relazione al quale la condotta di raggiro viene ritenuta integrata anche dal mero silenzio sul sopravvenuto verificarsi di un evento, come nella c.d. ‘truffa negoziale’.
A conclusione di tali riflessioni circa la non ritenuta configurabilità del reato di epidemia colposa omissiva impropria da parte del Tribunale dei Ministri di Brescia, segnalo l’orientamento di segno opposto rappresentato dalla recente Ordinanza n.42614/2024 del 19.9.2024 con la quale la IV Sezione Penale della Suprema Corte ha deciso la rimessione alle Sezioni Unite di un ricorso proprio sul tema di mancata configurabilità del reato di cui agli artt. 438-452, nel caso di amministratori ospedalieri che avevano omesso di fornire ai dipendenti i presidi previsti ed idonea formazione preventiva contro la diffusione del Covid-19.
L’ordinanza della IV Sezione lascia dunque spazio a quella prospettiva di overruling in cui la Procura di Bergamo aveva creduto, per un’interpretazione più attualistica e aperta ad un più generale principio di precauzione, principio per il quale è richiesto che le autorità competenti (ossia le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, della salute etc.) siano tenute ad adottare i provvedimenti più appropriati per prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente.
6. Le scelte politiche non sindacabili in sede giudiziaria
Il Tribunale dei Ministri di Brescia (altro fattore problematico dell’inchiesta che si intende segnalare) ha ritenuto l’omessa istituzione della “Zona Rossa” nella bergamasca una scelta di natura politica, non sindacabile in sede giurisdizionale, in quanto l’istituzione della “Zona Rossa” avrebbe comportato il sacrificio di diritti costituzionali, quali il diritto alla circolazione, il diritto di riunione, il diritto al lavoro, l’esercizio del diritto di culto, nonchè una limitazione al diritto di iniziativa economica, creando ricadute gravissime in termini di occupazione, di crisi sociale e di produzione del PIL nazionale.
Per il Tribunale non era esigibile, per la complessità e rapida evoluzione della situazione e la mancanza di informazioni scientifiche sufficienti, una pronta decisione di chiusura della zona bergamasca da parte della Presidenza del Consiglio, nonostante già il 27 febbraio in provincia di Bergamo si versasse in situazione di ‘pandemia conclamata’, secondo le proiezioni epidemiologiche illustrate al CTS da Merler ancora il 12 febbraio, ed allorchè il CTS stesso, modificando l’opinione espressa nella riunione del 26 febbraio circa la non necessità di ulteriori restrizioni, nella riunione del 2 marzo avesse sollecitato tale chiusura, chiusura non attuata perché il Presidente del Consiglio aveva richiesto ulteriore tempo di riflessione, chiusura che sarebbe stata disposta di necessità solo il successivo 8 marzo, stante la degenerazione della situazione, ritardo che, secondo la stima epidemiologica del consulente della Procura, avrebbe, anche nel breve, determinato l’aumento esponenziale dei contagi con le funeste conseguenze come sopra descritte, anche in termini di aumento dei decessi.
Parimenti il Tribunale escludeva responsabilità ministeriali nelle scelte ed omissioni nella fase di contrasto al diffondersi della pandemia, attribuendo al Presidente del Consiglio ed al Ministro della Salute una mera attività di “indirizzo politico” sulla scorta delle ripartizioni di funzioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165/2001, precisando che gli stessi non avrebbero avuto alcun potere di controllo, di avocazione delle funzioni amministrative in capo ai dirigenti/funzionari, cui solo (art.4, 2°comma D-Lgs.165) spettava l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi del caso, compresi tutti gli atti che impegnavano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione, finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa e di organizzazione, non potendosi comunque ipotizzare un concorso dei ministri nel reato omissivo improprio ascrivibile ai direttori e funzionari, come prospettato dalla Procura, poiché simile ipotesi presupponeva l’esistenza di una fonte legale che prevedeva obblighi in capo ai ministri stessi di impedire l’altrui commissione di reati, fonte nella fattispecie non rinvenibile.
Quindi nessuna responsabilità ministeriale in relazione alle gravi criticità riscontrate nella preparedness delle Autorità sanitarie e nelle iniziative assunte (o non assunte) per arginare la diffusione del morbo.
Ad analoghe conclusioni giungeva il Tribunale anche con riferimento alla posizione delle Autorità politiche della Regione Lombardia, cui non veniva riconosciuta responsabilità nel mancato contenimento della diffusione pandemica nei territori di competenza.
In particolare veniva disconosciuto il potere della Regione Lombardia di disporre il lockdown nella valle bergamasca, la Valseriana, provvedimento che secondo il Tribunale spettava al Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto, come leggesi nella decisione del Tribunale (ed il presupposto dell’affermazione pare erroneo), “le aree rientranti nell’ambito di applicazione della disposizione non erano limitate alla Regione Lombardia”.
Il provvedimento di chiusura, chiosa il Tribunale, non era comunque esigibile, “e neppure auspicabile” che venisse assunto “senza un’adeguata ponderazione dei dati di conoscenza acquisiti, del loro grado di certezza e delle conseguenze derivanti dall’istituzione di una zona rossa”.
Come per i ministri, anche per le autorità politiche della Regione veniva esclusa ogni responsabilità in relazione alle gravi criticità riscontrate nella preparedness, non potendo essere loro imputato il mancato contenimento della diffusione pandemica, stante il principio della distinzione tra i compiti di indirizzo loro spettanti rispetto ai compiti di gestione amministrativa dei dirigenti, ai quali soli competeva “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.
7. La posizione dei tecnici e dei funzionari ministeriali
Non veniva dal Tribunale ministeriale riconosciuta responsabilità alcuna anche in capo ai vertici del Servizio Nazionale della Protezione Civile, cui era demandata una “mera attività di coordinamento” degli interventi emergenziali, in quanto “tutte le condotte omissive in esame riguardano attività che non erano di pertinenza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile” riguardando “misure di prevenzione e programmazione sanitaria finalizzate al contrasto delle emergenze igienico sanitarie che sono di esclusiva competenza del Ministero della Salute”.
Nessuna responsabilità neppure per i componenti del CTS (comitato Tecnico Scientifico) formato anche dai responsabili dell’Istituto Superiore di Sanità, del Consiglio Superiore di Sanità, dell’IRCCS per le malattie infettive Spallanzani, da alcuni capo-dipartimento del Ministero della Salute e da rappresentanti delle Regioni, stante la funzione meramente consultiva dell’organismo, di supporto alle scelte del Ministro e che aveva valutato, nel corso delle riunioni del 26, 27, 28, 29 febbraio e 1°marzo 2020, come non sussistenti le condizioni per l’estensione della c.d “zona rossa” ai comuni della Valseriana, nonostante l’incremento in misura esponenziale dei contagi e quel territorio versasse in situazione di conclamata pandemia.
Il Tribunale escludeva una responsabilità altresì di amministratori e funzionari, sia a livello locale che a livello centrale, nel rimpallo di responsabilità tra Ministero, Regioni ed Enti Locali ed in mancanza di una strutturata “catena di comando”, riconoscendo una frammentazione delle competenze e delle responsabilità, cui peraltro la Procura aveva inteso ovviare contestando l’ipotesi di cooperazione colposa ex art.113 CP, stante l’insufficienza delle singole omissioni e inefficienze a provocare, di per sé e quali condotte indipendenti, l’ingravescenza della diffusione pandemica.
Il Tribunale dava così conto di una segmentazione e parcellizzazione di competenze e di negligenze, di comportamenti colposi fra loro indipendenti, riferibili a soggetti disparati non specificamente individuabili, tali da essere difficilmente inseribili, di per sé soli, nel determinismo causale del diffondersi dell’epidemia:
- così per la costituzione di una riserva di antivirali, DPI, vaccini antibiotici, kit diagnostici, che, “sulla base del piano pandemico del 2006” (quello non aggiornato, né attuato!), sarebbe dovuta avvenire su impulso del Ministero, il quale avrebbe dovuto invitare le Regioni alla costituzione della scorta, raccomandazione dispersa nei meandri della burocrazia ministeriale e regionale, mentre, nel contempo, si affermava anche che per il fabbisogno dei presìdi di protezione, per i ventilatori, per l’utilizzo delle mascherine, per la formazione del personale avrebbero dovuto provvedere le singole strutture sanitarie, cioè le singole aziende, quali ‘datori di lavoro’, tutto ciò nella totale impreparazione ed inefficienza del sistema della medicina territoriale, con le autorità locali allo sbando e senza una ‘catena di comando’ individuata e riconosciuta;
- così per le scelte generalizzate, sempre nella prima fase pandemica, di non isolare al pubblico le RSA, di tenere reparti promiscui, anche per i posti di Pronto Soccorso, di non vietare gli assembramenti di persone (partita Atalanta-Valencia di Coppa UEFA del 19 febbraio), se non l’incitamento dei sindaci ad andare in piazza per l’aperitivo (“Bergamo non ha paura!”)… solo responsabilità parcellizzate, scelte inopportune di autorità locali e amministratori, dovute alla mancanza di informazioni sui rischi sanitari ed in mancanza di evidenze scientifiche e non provatamente poste in nesso causale con il successivo propagarsi del morbo.
8. Il problema del nesso causale
Questo, il problema del nesso di causalità tra l’assoluta mancanza di preparedness delle autorità a tutti i livelli ed il diffondersi della pandemia, costituisce l’ultimo grave elemento di criticità dell’inchiesta che intendo, per la sua importanza, meglio focalizzare.
In pratica, ci si deve chiedere: se fosse stato aggiornato ed attuato il piano pandemico, se fossero state rispettate le raccomandazioni precauzionali previste dalla normativa internazionale sanitaria, se fosse stata istituita la “zona rossa” nei comuni della Valseriana si sarebbe circoscritto il focolaio, il cluster pandemico ed arginata la diffusione del morbo nel territorio?
Si tratta del c.d. giudizio controfattuale, giudizio per il quale supponendo come tempestivamente realizzata l’azione precauzionale richiesta, può concludersi con elevata probabilità logica e credibilità razionale che il numero delle persone contagiate sarebbe stato fortemente ridotto (il calo di mortalità del 67,5% calcolato dal prof. Crisanti).
Afferma il Tribunale che “agli atti manca del tutto la prova che le 57 persone indicate nell’imputazione, che sarebbero decedute per la mancata estensione della zona rossa, rientrino tra le 4148 morti in eccesso che non ci sarebbero state se fosse stata attivata la zona rossa…Il Prof Crisantiha compiuto uno studio teorico ma non è stato in grado di rispondere circa il nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte delle persone determinate”.
L’assunto è indiscutibile, ma valgano alcune osservazioni.
La mancanza del nesso, in tale prospettiva, appare limitata al rapporto specifico tra mancata istituzione della “zona rossa” e la morte di persone determinate, ma, a ben vedere, il Tribunale non affronta il problema, a monte, con riferimento all’evento nel reato di cui all’art.438 CP, della sussistenza di un nesso eziologico tra le omissioni sopra evidenziate ed il mancato contenimento del focolaio pandemico in Valseriana, in pratica della sussistenza di un rapporto di causalità tra la mancata adozione dei modelli di preparedness per arginare e controllare un cluster di malattia infettiva e l’evento epidemico, evento che consiste nella verificazione di un elevato numero di casi di infezione, cui deve accompagnarsi il pericolo di un'ulteriore diffusione della malattia, diffusione del morbo manifestatasi in Valseriana ed estesasi alla città.
Se le precauzioni fossero state adottate e seguite, ci chiediamo, il cluster pandemico sarebbe stato isolato e circoscritto e non ci sarebbero state le devastanti conseguenze descritte dal prof. Crisanti?
Domanda che è rimasta senza risposta.
Lo “studio teorico”, come definito dal Tribunale, del prof. Crisanti non può di certo ritenersi una “prova scientifica”, ma, va osservato, non può di certo essere ridotto ad una “congettura”; la sua, del consulente, è una proiezione matematica su basi epidemiologiche, quindi oggettiva salvo che i dati su cui si fondava non fossero veritieri (ma i dati erano quelli forniti dal Ministero della Salute): la progressione si sarebbe interrotta solo se fosse intervenuto un fatto interruttivo esterno, quale il lockdown o il mutamento genetico del virus o la vaccinazione (all’epoca non ancora approntata).
Non può di certo costituire una riprova il fatto che i contagi e le vittime siano stati purtroppo, nella realtà, ben superiori alle proiezioni epidemiologico-matematiche di Merler, presentate al CTS ancora nel febbraio 2020 e riprese dal consulente della Procura, Crisanti.
Però, e non so quanto questo possa valere ai fini del giudizio controfattuale, sta di fatto che nelle località, Codogno e zone limitrofe e Vò Euganeo, dove il lockdown venne disposto ancora il 23 febbraio 2020, i focolai vennero circoscritti e la loro diffusione bloccata.
È di questi giorni la notizia che il Ministero della Salute ha predisposto e varato un nuovo ed aggiornato Piano Pandemico. Spero che la sua attuazione, la preparedness, non sia più considerata un inutile costo ed il rischio pandemico di nuovo snobbato e comunque sottovalutato dai burocrati del Ministero della Salute.
Le bare di Bergamo siano comunque da monito.
Non ci vuol gran tempo né grande acume anche a chi non sia dell'arte, per accorgersi del molto che è cambiato nella nostra Magistratura: come questa istituzione che fino a poco tempo fa appariva sicuramente al riparo dalle intemperie del mutevole clima politico, sia oggi diventata uno dei “luoghi privilegiati” del dibattito, dove - invece di smorzarsi - gli scontri si fanno più accesi e, all'apparenza almeno, assai più “selvaggi” che altrove. Certo, tra le tante crisi istituzionali che travagliano questa nostra Repubblica, quella della Magistratura è delle più profonde: e, a nostro giudizio, sbaglierebbe gravemente chi pensasse di poterla ridurre nei termini modesti e “controllabili” di una crisi di struttura risolubile con qualche aggiustamento – per l'appunto – strutturale, mutando magari solamente la composizione e i modi di elezione del Consiglio superiore.
Umberto Santarelli[1]
Collocato nel suo tempo – specialmente per il cenno a quella che poteva apparire un cambiamento allora recente – la non breve citazione che precede pare un testo attuale: ma sono passati 50 anni da quando Umberto Santarelli, mite ma deciso giurista cattolico democratico, scriveva queste parole.
Da quel che si legge in giro sulla ennesima proposta di riforma della giustizia non sembra che si siano fatti grandi passi in avanti. Limitando al momento l'esame solo al nodo della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, la riforma costituzionale proposta dall'esecutivo appare ad alcuni come una svolta fondamentale, mentre altri la considerano vuoi inutile, vuoi pericolosa, per il timore che sotto mentite spoglie essa apra un varco alla ricorrente tentazione di incrinare lo scudo dell'indipendenza dell'ordine giudiziario.
Non esito a collocarmi nel campo dei dubbiosi, e anche qualcosa in più.
Temo di dover anche anticipare un'obiezione che potrebbe essermi fatta da chi mi conosce: ma tu sei un avvocato civilista, e benché tu dopo la laurea abbia coltivato, e per diversi anni, l'orticello del diritto penale sotto la guida di grandi maestri [2], non hai mai effettivamente svolto la professione del penalista, essendoti dedicato fin da subito al più tranquillo ambito del diritto e del processo civile.
C’è del vero, ma tralasciando ogni considerazione sulla presunta tranquillità del mio campo da gioco, 45 anni di attività professionale, istituzionale e formativa mi consentono forse di superare l'appunto, non certo per presunzione ma per la diversa considerazione che qui provo a esprimere una opinione non tanto come tecnico della materia, ma prima di tutto come cittadino che, tutt’al più, rispetto ad altri ha avuto maggiori possibilità di conoscere il mondo della giustizia.
Quando poi apprendo che anche esponenti della categoria di livello professionale e scientifico ben più alto del mio - penso a Franco Coppi e Giuseppe Iannaccone, tra gli altri [3] - nutrono dubbi più o meno analoghi, allora mi sento confortato e autorizzato a dire anch’io due o tre cose.
La prima è che si parla di argomenti che molti in realtà non conoscono bene; e tra i molti includo certamente parecchi colleghi (e non escluderei neppure che si possa dir lo stesso di diversi magistrati). Eppure non è difficile leggersi almeno il Dossier predisposto dai Servizi Studi delle Camere sul disegno di legge giunto in Senato (A.S. n.1353) [4] per sincerarsi tanto della disciplina attuale in materia sul “tramutamento” [5] delle funzioni quanto delle proposte di riforma. Temo, ad esempio, che parte dell’opinione pubblica meno informata creda tuttora che i ruoli di pubblico ministero e giudice penale siano liberamente interscambiabili; ed allora è responsabilità dei protagonisti del processo - avvocati e magistrati – non aver provato a sufficienza a chiarirlo. Mi limito allora ad un copia e incolla da quel Dossier:
Il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti – e viceversa – è disciplinato dal decreto legislativo n. 160 del 2006, come modificato da ultimo, dalla legge 17 giugno 2022, n. 71.
Ai sensi dell'art. 13 del D.Lgs. n. 160 del 2006, viene innanzitutto sancito come principio generale che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, importi un cambiamento di sede. Infatti, il mutamento di funzioni, ai sensi del comma 3 del citato art. 13, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa Regione, né infine con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale, avuto riguardo al distretto nel quale il magistrato presta servizio al momento della richiesta.
In particolare, il comma 3 dell’articolo 13 prevede che il magistrato possa chiedere il cambio delle funzioni:
- una sola volta nel corso della carriera;
- entro il termine di 6 anni dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall’articolo 194 dell’ordinamento giudiziario.
L’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (Tramutamenti successivi) prevede che il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede, non possa essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di 4 anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell'ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione il termine è di 3 anni.
Trascorso tale periodo, il passaggio di funzioni è ancora consentito, per una sola volta se si tratta:
- del passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
- del passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
Il passaggio è consentito solo previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.
Fermiamoci qui.
Se fosse così (ma è così) la riforma non parrebbe poi talmente fondamentale da far sperare che sia la panacea di tutti i mali. So bene, naturalmente, che non è stato sempre così, e guardo anzi con un qualche imbarazzo a proposte di segno opposto tese apparentemente a voler ripristinare maggiori libertà di scelta del magistrato; e posso comprenderle (ma non giustificarle) solo come determinate dalla reazione ad un clima politico pesante.
Ma allora, che c’azzecca – direbbe proprio un P.M. che tutti ricordano – creare due carriere, due organi di autogoverno, un’unica Alta Corte disciplinare?
A me, che sono un civilista di provincia, sembra che azzeccarci, ci azzecchi poco. E da soggetto professionalmente diffidente (forse c’entra un poco anche esser uno di quei maledetti toscani di Malaparte) vien da chiedermi perché concentrare una tale potenza di fuoco su questi obiettivi.
Certo, è stata una battaglia di associazioni forensi prestigiose e seguite, come le Camere penali; certo, un esame spassionato della materia non vien creduto tale, se dà spazio alle ragioni dell’ “altro” (s’intende, per gli avvocati l’ “altro” sono i magistrati); certo, questi “altri” non sono esenti da pecche e vizi: eccome ! non è questa la sede per elencarli ma tutti noi conosciamo foss’anche soltanto un’aneddotica che, anche se non supera i limiti dell’illecito disciplinare, di sicuro non fa brillare la professionalità di parecchi membri dell’ordine giudiziario (aneddotica – aggiungerei – pari soltanto a quella analoga che riguarda noi, gli avvocati).
Ma illudere i cittadini che con la riforma non ci saranno più storture, i processi dureranno qualche mese, P.M. e giudici si guarderanno istituzionalmente in cagnesco (come se questa fosse di per sé una garanzia per indagati e imputati), immaginare una Shangri-La giudiziaria, questo non va bene. Eppure a leggere certe testate (darle nel muro, le testate, sarebbe un miglior consiglio) giornalistiche questo potrebbe essere il paradiso che ci attende.
Se a queste illusioni non dovessimo credere, il solito tarlo del dubbio dovrebbe farci andare alla ricerca dei motivi di queste campagne. La magistratura ha così poco appeal che darle addosso fa guadagnare voti? Potrebbe essere un primo motivo. Un P.M. potenzialmente più autonomo potrebbe essere contemporaneamente più sensibile alle indicazioni del potere esecutivo, pur senza previsioni normative specifiche in tal senso? Anche. Ma soprattutto: siamo davvero convinti che sia conveniente avere un P.M. più “libero”? Anche qui ricorro sprezzantemente al plagio per citare quanto ha scritto di recente Luigi Gatta, che non potrei mai sperare di dir meglio:
Siamo sicuri che, per una eterogenesi dei fini, il CSM requirente non consolidi invece, nel medio lungo periodo, una corporazione di pubblici ministeri, che esercita, nel processo e fuori da esso, poteri ben più forti di quelli che una parte privata come l’avvocato, inevitabilmente, ha nel nostro come in altri sistemi, pure accusatori? [6]
Il riferimento di Gatta ad altri sistemi mi fa pensare subito agli Stati Uniti, dove il plea bargaining costituisce lo strumento principe dell’amministrazione della giustizia penale (con percentuali del 98% dei casi) giusto grazie allo strapotere della pubblica accusa (che là si può correttamente definire così), che va a braccetto con la non obbligatorietà dell’azione penale [7]. Non vorrei fare quella fine lì [8].
E se invece andassimo a trovare altrove qualche diverso motivo dell’inefficienza del sistema giustizia italiano? Che dire delle risorse destinate alla giustizia? Ci son forse già troppi magistrati? E qui anch’essi hanno le loro responsabilità, quando qualcuno di loro ci viene a dire che in realtà siamo in perfetta media europea; sarà anche vero, ci saranno allora troppi avvocati che vogliono fare troppe cause? Però francamente… E il personale amministrativo? Com’è noto e ormai proverbiale, da noi le riforme si fanno solo a costo zero, ed infatti non finiscono mai, come gli esami di Eduardo. Allora, ancora con Gatta, una modesta proposta potrebbe essere quella di rivalutare piuttosto il ruolo del difensore: “siamo proprio sicuri che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con una unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi?”.
Trovo che questo della formazione comune sia un nodo essenziale, e penso per esempio al reclutamento dei magistrati in Gran Bretagna, Germania e Francia [9], il che mi pare giustificare almeno parzialmente anche la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo (esistente sia in Germania che in Francia ed altri paesi europei, ma non esente da critiche). C’è da dire che ora anche in Italia a questo profilo sembra farsi più attenzione, più per merito delle due categorie che del legislatore, anche se di recente un chiaro invito si legge nel D.M.110/2023 sulla redazione degli atti giudiziari, dove all’art.9 , c.3, si legge che il Ministero della giustizia in collaborazione con la Scuola superiore dell’avvocatura non solo favorisce le iniziative formative sui criteri e le modalità di redazione degli atti giudiziari adottate nell'ambito della formazione obbligatoria dell'avvocatura, ma in particolare “sostiene, in materia, le iniziative formative comuni alla magistratura e all'avvocatura, anche con il coinvolgimento di linguisti”.
E noi giuristi pratici, se dobbiamo collaborare, se vogliamo collaborare, da un lato ci sarebbe da ripensare un po’ più seriamente sul posto che tocca agli avvocati nei Consigli Giudiziari, e dall’altro riflettere ancora sul tema della responsabilità disciplinare (e civile) dei magistrati, delicatissimo e a diretto contatto con quello dell’indipendenza [10].
La separazione delle carriere è peraltro solo uno dei temi della complessiva opera di riforma della giustizia. Il “movimento” che si registra in parecchi Paesi verso forme di governo che restano formalmente democratiche ma più autoritarie (in Europa pensiamo subito all’Ungheria, alla Polonia del PIS; per gli USA è strano vedere chi si meraviglia delle iniziative di Trump: non aveva letto il suo programma, probabilmente [11]) mi induce ad una considerazione che in realtà non dovrebbe sorprendermi: che cioè sono i giudici l’ultimo argine contro queste derive, e che sotto questo profilo è interesse proprio dell’avvocatura salvaguardarne l’indipendenza, per il semplice fatto che è interesse del Paese. Ogni cautela su un radioso avvenire è quindi legittima, e il rischio di inerpicarsi sulle Cime abissali di Zinov’ev più presente [12].
I dubbi aumentano quando si accenna a prossimi passi in direzione della sottrazione alle Procure del potere di direzione della polizia giudiziaria [13]. E due.
E in questi giorni si sono scatenate le critiche all’ordinanza n.5992/2025 delle S.U. civili [14] che ha reso l’apparentemente incredibile affermazione che “Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale” (e pensare che nella mia ingenuità tutto ciò mi pareva scontato…), critiche talmente forti da determinare la reazione della Prima Presidente. E tre.
In conclusione, non voglio ricordare – lo fanno in troppi – l’abusato detto di Agatha Christie[15], preferendo citare il James Bond di Goldfinger: “Once is happenstance. Twice is coincidence. Three times is enemy action”: ma mi si scuserà se in questo modo dovessi apparire troppo diretto.
[1] In Il Domani d’Italia, 1.6.1975: si legge nella raccolta di articoli di Santarelli Un professore innamorato de giornalismo, Edizioni Toscana Oggi, Firenze, 2024, p.54 ss. Tra i numerosi interventi è una perla rara, anch’essa purtroppo attualissima, “Eia, eia, alalà” da Avvenire del 5.3.1970, ibidem p.405.
[2] Come Tullio Padovani e Mario Chiavario.
[3] Da notizie di stampa – Il Fatto Quotidiano del 28.2.2025 – anche Guido Alpa avrebbe espresso perplessità. Il suo ricordo non ci abbandonerà: la sua presa di posizione sul tema sarebbe allora l’ultimo avviso che ci ha lasciato. Di G.Iannaccone,su questa Rivista, In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri.
[4] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01443762.pdf . Di Franco Coppi l’intervista a La Stampa del 30.5.2024, https://www.lastampa.it/politica/2024/05/30/news/franco_coppi_riforma_ideologica_errori_giudiziari-14345823/ Comunque pessimistiche le considerazioni di Cataldo Intrieri - http://www.libertaeguale.it/la-riforma-della-giustizia-e-lo-specchio-per-le-allodole/ - che cita Paolo Ferrua “Il circolo vizioso: dal processo accusatorio senza la separazione delle carriere alla separazione delle carriere senza il processo accusatorio. Aperta la discussione su quale sia peggio”…
[5] Ma che termini terribili usiamo, noi giuristi?
[6] L.Gatta, Separazione delle carriere e riforma costituzionale della magistratura: 20 domande per un confronto e un dibattito aperto, https://www.sistemapenale.it/it/editoriale/separazione-delle-carriere-e-riforma-costituzionale-della-magistratura-20-domande-per-un-confronto-e-un-dibattito-aperto .
[7] Per una semplice verifica in rete cfr. un articolo un poco datato (ma dopo le cose sono andate ancora peggio…) come quello di E.Viano, Plea Bargaining in the United States: a Perversion of Justice, in Revue Internationale de droit penal, 2012/1 Vol.83, p.109-145, https://droit.cairn.info/journal-revue-internationale-de-droit-penal-2012-1-page-109?lang=en&tab=texte-integral .
[8] “The US has 5% of the world’s population but 25% of the world’s prison population • 44% of Americans have a criminal record • 1 in 12 Americans, including 1 in 3 black men, have a felony conviction”: dal sito Fair Trials.org.
[9] Per una elementare introduzione v. il sito della IAC – Judicial Appointments Commission https://judicialappointments.gov.uk/ ( per England and Wales), mentre in Germania è fondamentale il concetto di “giurista unitario” v. A. Keilmann, The Einheitsjurist: A German Phenomenon , German Law Journal , Volume 7 , Issue 3 , 01 March 2006 , p. 293 – 312. Per Francia, Germania, Spagna utile il Dossier di cui alla Nota 4.
[10] Utilissima la lettura della Opinion n.27 del CCJE “on the disciplinary liability of judges” , https://rm.coe.int/opinion-no-27-2024-of-the-ccje/1680b2ca7f .
[11] Masha Gessen, che di autoritarismi se ne intende (è ben nota esperta della Russia di Putin) scriveva nel 2016 - dopo la prima elezione di Trump – alcune regole per sopravvivere alle autocrazie; la prima è “Credete all’autocrate” (The New York Review of Books, 10.11.2016). V. l’appello dell’ABA-American Bar Association del 3.3.2025 The ABA rejects efforts to undermine the courts and the legal profession, https://www.americanbar.org/news/abanews/aba-news-archives/2025/03/aba-rejects-efforts-to-undermine-courts-and-legal-profession/ . Tutti i siti citati sono stati consultati il 9 marzo 2025.
[12] “Non può andare peggio di così, disse il pessimista. Ma si che può, rispose l’ottimista”, A.Zinov’ev, Cime abissali, Adelphi, Milano, 1979.
[13] Il Foglio del 2.12.204, intervista di C.Cerasa al ministro Nordio.
[14] È il noto caso del migrante la cui libertà personale era stata illegittimamente ristretta sulla nave Diciotti.
[15] “Una coincidenza è solo una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze sono una prova" dice Poirot.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
La prima puntata racconta di Mitiga e degli orrori che vi si svolgono e si può leggere qui.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Da un quartiere di periferia - 2. La milizia e il suo generale - 3. Le prigioni di RADAA - 4. L’oppressione attraverso l’illegalità e la violenza.
1. Da un quartiere di periferia
Uno dei tanti gruppi di miliziani che spadroneggia all’accendersi della miccia dell’insurrezione contro Mu’ammar Mohammed Abu Minyar Qadhahafi (per tutti, ma soprattutto per gli italiani, Gheddafi). Questa è l’origine delle Forze Speciali di Deterrenza, Al-Radaa o, più semplicemente, RADAA. Vale la pena parlarne, perché è in questo gruppo armato che si afferma il ruolo dell’uomo che la Corte penale internazionale voleva fosse arrestato: Osama Elmasry Njeem.
La trasposizione in lingua occidentale di nomi appartenenti a idiomi per noi ostici e l’avvicendarsi continuo di sigle che designano apparati non necessariamente differenti aumenta la difficoltà di comprendere le dinamiche più turbolente degli scenari nel mondo arabo. Si procede quindi per approssimazioni terminologica che concorrono a rendere ancora più approssimati i riquadri bellici e politici.
Tra febbraio e marzo 2011 la Libia transita in poche settimane dalla sua primavera araba al conflitto civile. Tra i rivoltosi riuniti nel Consiglio nazionale di transizione, si segnalano a Tripoli il gruppo indipendente di combattenti formatosi nel quartiere nel quartiere Souk al Juma e condotto da Abdel Raouf Kara.
Souk al Juma era stato in passato un centro amministrativo autonomo, a est della capitale, dalla cui area urbana viene inglobato alla fine del secolo scorso. È nelle sue strade che tra il 1925 e il 1933 si svolge il gran premio automobilistico di Tripoli. Nel 1930 vi perde la vita l’asso del volante, Gastone Brilli-Peri – le cui gesta saranno evocate dal cinema e dalla canzone del nostro tempo[1] – schiantandosi contro il muricciolo di un giardino con l’Alfa Romeo lanciata a 180 chilometri orari. Era stato campione mondiale e aveva vinto il gran premio di Tripoli appena l’anno prima.
La tragedia suscita tale scalpore da indurre il regime coloniale fascista a costruire nei pressi un autodromo non cittadino. L’area prescelta è nella vicina oasi di Tagiura, nei pressi del lago di Mellaha, dove viene realizzato anche una base militare, che assumerà col tempo il nome di Mitiga.
Nell’insurrezione contro Gheddafi l’aeroporto, adibito da una quindicina d’anni al trasporto civile, diventerà un obiettivo militare fondamentale. Le milizie di Kara sono stanziate a pochi chilometri di distanza. Anche dal punto di vista logistico l’attacco all’esercito governativo è strategicamente favorevole e ha successo nell’arco di poche settimane. Kara è ormai un signore della guerra; ha raccolto circa 700 combattenti, che costituiscono un’unità appetita dal costituendo Governo di accordo nazionale (GNA), che nel tempo entra a fare parte dell’amministrazione dell’interno.
2. La milizia e il suo generale
Mitiga è diventata il quartiere generale della RADAA, che conta oggi 1.500 componenti. Il dato è formale. Kara si vantava già diversi anni fa di essere in grado di radunare fino a diecimila combattenti, “se venissero chiamate le mie riserve”[2]. È la terza milizia più numerosa a Tripoli e una delle più potenti della Libia occidentale[3], se si pensa che nel solo anno 2022 il Ministero dell’interno le ha destinato quasi trenta milioni di dollari americani.
Nel frattempo, RADAA è divenuta Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (DACTO). Ora la sua posizione di vantaggio è doppia: come dipartimento statale, ha compiti ufficiali di polizia militare, finanziato e riconosciuto dal Governo; come milizia facente capo a un signore della guerra, continua a godere di autonomia operativa. La maggior part dei suoi componenti sono inquadrati formalmente nella polizia libanese. In questa veste, essi sono abilitati a compiere indagini, arresti, perquisizioni, posti di blocco, ad eseguire confische.
La forza di RADAA sta nell’avere radunato dall’inizio tutti i combattenti appartenenti alla tribù Thuwar, fedele ai principi della Sharia. Di qui la sua compattezza etnica e religiosa, che tuttora ne rappresenta un fattore di coesione. All’osservatore occidentale sembra difficile concepire un’articolazione statale legittimata a ingerirsi nei diritti fondamentali dei propri cittadini, ma autonoma e guidata al contempo dalla legge islamica, che ha regole proprie e differenti. In Libia – e non solo – sono distorsioni come queste a generare il caos amministrativo dando vigore alla sola legge possibile, quella della forza.
Da quando è entrato a fare parte della nomenclatura del GNA, Kara, che oggi ha 46 anni, agisce con accortezza. È un personaggio temuto, ma agli interlocutori si propone come persona pacata, che pondera le parole. Non rilascia volentieri interviste e il suo profilo è quasi sparito dal web. Osserva con rigore le regole della sua fede (digiuna ogni lunedì e giovedì), ma anche su questo aspetto con gli ospiti sa mostrarsi aperto e tollerante.
Kara rivendica con disinvoltura in prima persona la propria autonomia dalle scelte governative (“a volte devo prendere decisioni perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di proteggere la popolazione e le istituzioni”) e giustifica con cinico pragmatismo il regime imposto ai “suoi” detenuti ella prigione di Mitiga: “se esistesse un sistema giudiziario equo, sarebbero processati. Ma il sistema giudiziario attuale non esiste”[4]. Peccato che a non fare funzionare il sistema giudiziario attuale contribuisca lui stesso, come vedremo.
Mitiga, intanto. All’interno dell’aeroporto, struttura amministrativa e zona detentiva si confondono, diventano un tutt’uno nel via vai di uniformi, miliziani senza divisa, guardie carcerarie, detenuti o prigionieri rapiti: un corpo unico che è l’allegoria terribile del disordine che domina nel Paese intero.
3. Le prigioni di RADAA
Mitiga non è l’unico centro di detenzione affidato a (o comunque controllata) da RADAA in Libia. Ne è però la principale: per numero di detenuti, per vicinanza alla capitale e per fama.
Qui a comandare è un luogotenente di Kara, Osama Elmasry Njeem. “Al Masri”, come lo chiamiamo in Italia, o “Njeem”, secondo la dizione impiegata dalla Corte penale internazionale, non è un generale, per quanto comunemente lo si definisca tale. È piuttosto un capo militare, che risponde a Kara. Gli è stata affidata la struttura detentiva di Mitiga e a Mitiga fa ciò che vuole.
Secondo autorevoli commentatori “è solo un sadico che tortura le persone”[5]. Il profilo psichico ha il suo peso. Ciò che conta, però, è che i miliziani di RADAA eseguono i suoi ordini con brutale meticolosità. Mitiga non è la sola prigione libica denunciata pubblicamente per le torture che vi vengono commesse[6]; è però quella che nel tempo ha acquisito la nomea più cruenta. Le Nazioni Unite hanno radunato un gruppo di esperti che ha raccolto un numero di testimonianze elevato, ma imprecisato (per tutelare l’incolumità degli intervistati). Alle 299 pagine della relazione finale sono allegati documenti, fotografie, filmati, registrazioni che ricostruiscono l’intera filiale del traffico di esseri umani, che vede coinvolti 17 boss libici, tutti in divisa da militare o in grisaglia da funzionari pubblici[7].
Ad alcuni detenuti, specialmente subsahariani, è offerta una chance per sottrarsi alla tortura: arruolarsi alla RADAA e partecipare in prima linea alle azioni contro la Libyan National Army (LNA) di Khalifa Belkasim Haftar, il nemico che occupa la parte orientale della Libia. Basta questa sola circostanza a fare comprendere quanto la milizia del generale Kara sia screditata, ma al tempo stesso temibile per le sue violenze incontrollate.
Mitiga non è un carcere per migranti. Ma i migranti vi arrivano comunque, perché da loro RADAA trae risorse: prima ancora che quelle umane, quelle in denaro, estorto ai loro familiari una volta che ricevono le telefonate e li ascoltano implorare il pagamento di migliaia di dollari mentre vengono picchiati dai secondini.
I nomi dei collaboratori di Njeem a Mitiga sono noti: Khalid al-Hishri Abuti, Moadh Eshabat, Hamza al-Bouti Edhaoui, Ziad Najim, Nazih Ahmed Tabtaba. Sono tutti considerati ufficiali della milizia, con ruoli anche superiori a Njeeem, ma non a Mitiga. Nel carcere comanda lui. Mitiga è RADAA e RADAA a Mitiga è Njeem. Questa è la sintesi fattuale che si trae dalle molte testimonianze raccolte da missioni internazionali[8] e compiuta pure dalla camera preliminare che ha trattato della vicenda per la Corte penale internazionale[9].
Perciò le condotte dei miliziani a Mitiga sono riconducibili ai voleri di Njeem, il quale del resto conosce bene la loro attitudine alla violenza e alla sopraffazione, resa più cieca dal culto religioso che intimamente le motiva. La tolleranza governativa per quanto vi accade ha fatto di Mitiga un modello da esportare nella Libia occidentale.
Si ha infatti notizia di soprusi analoghi nella vicina prigione di Judaydah, anch’essa controllata da RADAA. Sono stati accertati crimini contro l’umanità commessi nelle carceri di al-Kwaifiya e di Germada, gestite dalle Forze armate arabe libiche, e nei centri di detenzione che sono dirette dal cosiddetto Apparato di sostegno alla stabilità (SSA), dall’Agenzia per la sicurezza interna (ISA), dalla Direzione per la lotta alla migrazione illegale (DCIM)[10].
La miriade di sigle e satelliti che popolano la nebulosa libica dà la misura della disgregazione estrema dei centri di potere e, con questa, del suo esercizio inevitabilmente incontrollato; di qui l’assenza di un livello minimale di legalità all’interno delle strutture di detenzione.
4. L’oppressione attraverso l’illegalità e la violenza
I ristretti diventano quindi materiale utile alla causa delle milizie. Non solo soldi e arruolamenti forzati. Vi sono le donne e i giovani vittime di abusi sessuali sistematici, maschi in salute impiegati come schiavi e nei lavori forzati o costretti a subire prelievi di sangue destinato ai soldati feriti in combattimento[11].
Si ripete inoltre ciò che la storia ci ha fatto apprendere dall’orrore dei lager. Per sopravvivere, alcuni detenuti accettano di essere investiti delle forme di collaborazione più sgradevoli. Gli vengono così affidati i compiti di trasportare e perquisire altri carcerati all’arrivo nel carcere, di abusare fisicamente di loro in segno di spregio, di partecipare alle violenze più impegnative: sospenderli in posizione di stress, rinchiuderli in una “bara” in posizione verticale, collocarli proni con le piante dei piedi rivolte verso l’alto per subire le percosse secondo il metodo falqa[12].
Inutile dire che la scelta delle vittime di queste atrocità deriva soprattutto dall’orientamento della milizia che gestisce il carcere. Nel caso della RADAA, i detenuti vengono discriminati in ragione della posizione politica effettiva o percepita, dell’appartenenza a talune etnie, delle accuse per fatti che maggiormente contrastano il suo credo religioso. Vi sono pertanto persone maltrattate in quanto sospettate di omosessualità e costrette a frequentare corsi di religione tenuti a Mitiga.
La Libia non conosce sistemi di protezione per le vittime di violenza sessuale e di genere. La loro vulnerabilità è la conseguenza anche di una combinazione di norme patriarcali pervasive che ammettono, quando non impongono, la disuguaglianza di genere. Non esistono inoltre istituzioni, nemmeno di carattere giudiziario, che garantiscano forme di tutela per chi denuncia violenze di questo tipo.
Secondo il Ministero della giustizia libico a fine 2022 Mitiga ospitava 2.315 persone. Osservatori indipendenti affermano invece che RADAA ve ne tenesse rinchiuse allora più di 4.000[13]. Il divario di cifre è spiegabile con la propensione della milizia all’arresto illegale, al sequestro di persona, alla restrizione illecita dei migranti in transito dalle regioni subsahariane. Le denunce pubbliche internazionali non hanno finora condotto le autorità governative della Libia occidentale a intentare alcuna indagine effettiva sui crimini contro l’umanità commessi nelle sue strutture di detenzione.
RADAA del resto agisce fuori controllo. Lo dimostra l’impunità con cui i suoi elementi hanno potuto compiere pubblicamente alcune azioni violente. Nell’agosto 2022 un avvocato è stato aggredito davanti ai giudici, percosso e infine prelevato a forza dall’aula del tribunale dove stava esercitando; dopo essere stato trattenuto a Mitiga per otto ore, è stato rilasciato a seguito di pressioni su Njeem da parte di altre autorità non ufficiali[14]. Non risulta che il legale abbia denunciato l’accaduto.
Una giornalista libica ha invece denunciato gli abusi e le torture subiti durante la propria detenzione. È stata subito minacciata di arresto da parte della RADAA con l’accusa di essere una prostituta e una donna dedita al “vizio” se avesse insistito e affermato, in particolare, di essere stata violentata. Per verificare il proprio sospetto di essere incinta, ha dovuto fingere di avere necessità di salute per sottoporsi ad esami del sangue; una volta accertata la propria gravidanza, si è autosomministrata dei farmaci. In Libia l’aborto è reato; il concepimento causato da uno stupro non sempre è scriminato, poiché di fatto vi sono frequenti casi di denunce delle vittime per avere avuto rapporti sessuali extra coniugali[15].
[1] In Cronache di poveri amanti, di Carlo Lizzani e in Nuvolari, di Lucio Dalla.
[2] O. Heshri, SSC still necessary – Abdel Raouk Kara, in Security assistance monitor, 13 settembre 2013.
[3] A quick guide to Libya’, main players, in Analysis dell’European Council of foreign relations, in www.ecfr.ue, consultato il 13 marzo 2025.
[4] O. Heshri, cit.
[5] I. Magdud, Almasri è un pesce piccolo, ecco perché l’Italia lo ha riportato indietro, in il sussidiario.net, 1 febbraio 2025.
[6] Si legga, ad esempio, Urgent call: Libyan Arab Armed Forces must be held accountable for torture crimes committed in Garnada, a cura della World organization against torture (OMCT) e del Libyan antitorture Network (LAN), 20 gennaio 2025, Tunisi.
[7] N. Scavo, Il dossier. Già a dicembre 2024 anche l’Onu accusava Almasri di crimini e abusi, in Avvenire, 4 febbraio 2025.
[8] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 10-12.
[9] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 27.
[10] Cfr. Rapporto 2023-2024 su Medio oriente e Africa del nord. Libia, in amnesty.it, consultato il 7 marzo 2025, nonché Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 11.
[11] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 26 e 28.
[12] Per una spiegazione di questo metodo di tortura si rimanda alla prima parte di questo scritto.
[13] Cfr. Urgent Action: military prosecutor forcibly disappeared, in amnesty org, 24 luglio 2023, e Report of Indipendent fact-finding mission on Libya (FFM), marzo 2023.
[14] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 17.
[15] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 15.
Dopo la morte improvvisa di papa Gregorio XVII, i cardinali si riuniscono in conclave sotto la guida del decano Thomas Lawrence per eleggere il nuovo pontefice.
Ritualità solenne e senza tempo, una forma che assume i connotati della sostanza, in un cerimoniale rimasto immutato nei secoli: dalla rimozione dell’anello piscatorio dal dito papale, con un attrito sulla carne volutamente disturbante, all’ufficializzazione del decesso, con la sede che si fa vacante. La solennità stride con il corpo morto dell’uomo-papa, prelevato dal letto nella Domus Sanctae Marthae, racchiuso in un sacco al pari di chiunque altro e sballottato su un carrello e poi su un’ambulanza, con suoni e luci asettici e dissacranti.
Conclave di Edward Berger (premio Oscar per Niente di nuovo sul fronte occidentale) è un thriller nutrito di intrighi e giochi di potere, che tutti immaginiamo esistenti in Vaticano. Ma prima ancora è una storia resa cinematografica dal Vaticano stesso. Un’elezione che nulla ha di diverso da quella di un – altro – sovrano-presidente, se non fosse per la suggestione insita nelle immagini tipiche della Chiesa cattolica, nettare per la cinepresa statunitense, arricchita dalle interpretazioni impeccabili di un cast eccellente: Ralph Fiennes nel ruolo del decano protagonista; Stanley Tucci, il liberale cardinale Bellini, ambizioso, ma fedele Segretario di Stato; John Lithgow nei panni dell’ambiguo canadese Tremblay; Lucian Msamati, il nigeriano cardinal Adeyemi, che porta con sé irrisolte zone d’ombra; uno straordinario Sergio Castellitto, che ruba la scena nel ruolo del reazionario cardinale Tedesco; e l’iconica Isabella Rossellini, suor Agnes, a lungo in silenzio, ma che saprà parlare al momento consono, gridando accuse per poi inchinarsi educatamente prima di uscire di scena. Azzeccatissimo il riconoscimento per il miglior cast ai SAG Awards 2025, così come calzanti appaiono le numerose candidature agli Oscar (tra le quali miglior film, miglior attore protagonista e migliore attrice non protagonista per la Rossellini).
Ma è anche un film che parla di dubbio, quest’ultima opera del tedesco Berger, tratto dall’omonimo bestseller di Robert Harris. Il dubbio dell’uomo, oltreché dell’uomo di fede, il dubbio del tormentato e vacillante decano Thomas Lawrence che magnificamente interpreta e invoca la ricerca ininterrotta dell’umano nell’uomo cara a Vasilij Grossman. Il dubbio che inevitabilmente la Storia porta con sé, contaminando dall’esterno la segretezza della dimensione vissuta dai cardinali sottochiave.
Il regista e amministratore del conclave è lui, il riflessivo decano Lawrence, sofferente per aver assunto un ruolo di amministratore al quale di spirituale è lasciato ben poco (dimensione che trova la sua controparte femminile impersonificata in maniera magnificente da suor Agnes, Isabella Rossellini, attenta superiora dello stuolo di suore, inservienti pressoché invisibili, chiamate da tutto il mondo a gestire gli ingombranti candidati). Lawrence di questo compito manageriale si era lamentato anche con il defunto Papa, che aveva rifiutato le sue dimissioni dal ruolo, come se avesse avuto modo di intuire anzitempo che soltanto lui avrebbe potuto traghettare la Chiesa fuori dalle sabbie mobili del suo pantano istituzionale, riallineandola con una Storia sempre troppo veloce e complessa per un organismo che deve fare i conti con così contrapposte istanze.
La capacità di dubitare diviene, quindi, il punto più alto della ricerca (anche spirituale), tra inciampi, sconfitte e vanità, la debolezza che anche il Gesù della Passione ha attraversato, mostrando in quella fragilità la radice più intima dell’umanità insita nella cristianità. Il ruolo di protagonista è ricoperto proprio da questa fragilità, un dubbio che è indecisione sulla propria natura, talvolta estranea a un sentire più profondo, come quello della tartaruga che fu del santo padre, incapace di adattarsi al destino scelto per lei e, ancora, quello del cardinale in pectore Benitez (Carlos Diehz), arcivescovo di Kabul, che ha assaporato il gusto amaro della guerra e della vita degli ultimi. Questo elevatissimo afflato non esce scalfito dall’incedere della spy-story che contraddistingue il climax della pellicola, nel corso del quale le certezze si sgretolano come un sigillo di ceralacca violato.
Nel mirino della cinepresa, i vani inaccessibili del Vaticano appaiono come un bunker segreto quanto plumbeo, la cui aria immaginiamo resa irrespirabile dal potere e dalle sue lotte peggiori, fatte di torti, sgambetti e soffiate nell’agguerrita disputa sulla scelta per il successore al trono di Pietro, materia nella quale si muove a proprio agio lo sceneggiatore Peter Straughan. Immagini che tendono alla perfezione sono il punto di forza del film, tra ricostruzioni magistrali (gli studi romani di Cinecittà) e ambientazioni prese in prestito (la Reggia di Caserta). Su di esse vale la pena di soffermarsi un attimo più di quanto strettamente necessario per la riuscita della trama, come abilmente fa la macchina da presa e con lei l’occhio dello spettatore, al quale è concessa una riflessione sulla preghiera come lente sull’anima, che mette a fuoco i tentennamenti dell’uomo ontologicamente obliquo (sovviene la vicinanza prossima tra attenzione e preghiera in Simone Weil).
Unica pecca del film realizzato con maestria da Berger è un approccio che rasenta in più parti il didascalico, come nella scena della finestra che esplode con un tempismo a dir poco singolare e della luce – la Storia – lasciata fuori, che prepotentemente entra nella cappella chiusa, sbaragliandola. Una metafora fin troppo esplicata, che tenta di far scivolare il film in una platealità tipicamente hollywoodiana, un passaggio che serve alla trama per avviarla alla piega conclusiva (non rivelabile), che invero poteva essere raggiunta in modo più raffinato e sottile, senza sminuire l’attualità dirompente sbattuta in faccia ai cardinali e al mondo, capace di sgretolare in un istante i sotterfugi preparati con dovizia di cesellatori dalle ambizioni dei candidati al soglio pontificio. Una sorta di apparizione cristologica, foriera di una necessaria modernizzazione culturale, che rende inservibile la vetusta e immobile dicotomia tra progressisti e reazionari.
Questa improvvisa accelerazione, seppur tipica del thriller, rischia, peraltro, di distogliere dal tema che, in quella fase del film aveva assunto la sua centralità, racchiusa nello sguardo – finalmente – frontale del decano Lawrence: appare sollevato e dunque soddisfatto? Oppure la sua vanità esce frustrata da una lotta che aveva finito per scalfire la sua riluttanza?
Dello scompiglio di quello smantellamento radicale resta la polvere volutamente non spazzolata dalle vesti purpuree. Le macerie di un’istituzione? Più che altro i calcinacci delle certezze sgretolate, nemiche della fede e talvolta nemiche anche delle battaglie di palazzo.
Ricordo di una voce indimenticabile
«Signori all’ascolto, buonasera, queste immagini vi giungono da Stoccarda, città natale di Hegel, padre dell’idealismo tedesco.»
Il giovane telecronista italiano, chiamato a raccontare una sfida di coppa europea tra una squadra di calcio italiana e una tedesca, laureato in giurisprudenza, aveva vinto contemporaneamente il concorso per giornalisti sportivi della RAI e quello per professore di storia e filosofia al liceo di Monfalcone del Friuli.
A città del Messico, nel 1986, dopo aver commentato la finale mondiale vinta dall'Argentina di Maradona, quello stesso telecronista, ormai esperto giornalista sportivo, si congedò dal pubblico a cui aveva parlato per un mese raccontando la sua trasferta latino-americana come in un libro di Gabriel Garcia Marquez, non senza salutare, citando un poeta italiano e uno scrittore messicano, in un umanesimo di colta e affettuosa cortesia, il collega più grande che lo aveva preceduto nelle telecronache azzurre.
Era anche questo Bruno Pizzul, giurista convertito alle lettere, letterato prestato al calcio e mai più restituito.
Aveva giocato ad alti livelli, poi per un infortunio al ginocchio aveva dovuto abbandonare lo sport agonistico.
Nel suo Friuli, quasi a ridosso dei dolorosi confini non ancora del tutto redenti all'Italia, aveva insegnato l’italiano ai ragazzi della scuola media.
Quell’italiano prezioso, oggi quasi dimenticato, che ci regalava nelle sue telecronache: quando commentava un fraseggio di Rivera e Prati a centrocampo: «tutto molto bello!»; una giocata di Causio: «dribbling secco sul disorientato avversario!»; un colpo di testa di Bettega: «stacco imperioso del nostro numero 11, la palla accarezza la parte bassa della traversa e cade nell’angolino»; una punizione di Antognoni: «leggero taglio esterno del pallone, che sorvola la barriera e muore all’incrocio. Nulla da fare per il pur bravo portiere!»; un gol di Baggio: «Roberto… la palla è sul destro… sontuoso gol di Roberto Baggio!»; una rete entusiasmante di Gianluca: «Vialli… Vialli in area… Vialli tiro… Ed è gol!».
«Ed è gol!»: nella sua spoglia eleganza questa espressione sublima lo scopo del bel gioco del calcio («c'est le “but”», dicono i nostri cugini d’oltralpe); è una espressione conclusiva, esaudente, che trova il suo pendant in quella, promettente, con cui Bruno Pizzul iniziava ogni sua telecronaca: «Signori all’ascolto, buonasera!».
L’inizio di ogni partita era una promessa. La promessa di un’avventura bellissima. Raccontata da una voce indimenticabile.
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