ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo e riparto di potestà legislativa (Nota a Corte Cost., sentenza n. 19 del 10 gennaio 2024)
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il giudizio a quo e le argomentazioni difensive – 3. La questione di legittimità costituzionale e il quadro normativo di riferimento. – 4. La decisione della Corte - 5. Il riparto della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative – 6. La natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo: compatibilità della funzione afflittiva con il perseguimento di pubblici interessi
1. Premessa
Su rimessione del T.a.r. Lombardia – Sezione distaccata di Brescia, la Corte Costituzionale affronta il tema dell’attribuzione della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative e delle conseguenti limitazioni in capo alle Regioni.
Un’analoga questione di legittimità costituzionale, peraltro, era già stata sollevata in una diversa controversa tra le medesime parti; in relazione a quel giudizio, tuttavia, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 22 del 2023, aveva dichiarato la questione inammissibile per difetto del requisito della rilevanza atteso che, all’atto della rimessione, il T.a.r. aveva già deciso i due unici motivi di ricorso, respingendoli entrambi.
La vicenda in esame, invece, si differenzia in quanto la questione costituisce il presupposto di una specifica censura di illegittimità del provvedimento sanzionatorio impugnato, dedotta con il terzo motivo di ricorso non ancora deciso dal T.a.r.; quest’ultimo, pertanto, conserva ancora integra la propria potestas iudicandi.
2. Il giudizio a quo e le argomentazioni difensive
In via del tutto preliminare, è opportuno soffermarsi sulla vicenda fattuale e sul giudizio nel cui ambito è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.
Una società attiva nel campo dell’edilizia è proprietaria di un complesso industriale ubicato nel Comune di Mantova, in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico. In ragione dello stato di abbandono in cui versava lo stabilimento, la società ha eseguito una serie di interventi di ristrutturazione edilizia e industriale finalizzati al riavvio dell’attività produttiva.
Il Comune e la Provincia di Mantova hanno adottato provvedimenti sanzionatori in relazione ad alcuni di tali interventi, in quanto realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica o, comunque, in difformità da essa; tali provvedimenti sanzionatorio sono stati impugnati dalla società.
In dettaglio, il ricorso introduttivo dinnanzi al T.a.r. ha per oggetto l’ordinanza n. 74/2020 del 18 maggio 2020, con la quale il Comune di Mantova ha intimato alla società il pagamento della somma di 709.204,16 euro a titolo di sanzione pecuniaria, relativamente ad opere compiute negli impianti di ventilazione dello stabilimento, in quanto eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica, oltre che di permesso di costruire. Rispetto a tali opere, la società aveva presentato istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nonché domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 cod. beni culturali; sicché, una volta accertata tale compatibilità, il Comune ha emesso il provvedimento - impugnato nel giudizio a quo - con cui ha applicato la sanzione pecuniaria prevista al comma 5, terzo e quarto periodo, del citato art. 167.
Nello specifico, l’importo della sanzione veniva determinato ai sensi dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, in ossequio al quale «l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro»[1].
La società, dal canto suo, ha chiesto l’annullamento dell’atto impugnato e la rideterminazione della sanzione nella misura minima di cinquecento euro per ogni singola trasgressione; in particolare, con il terzo motivo di ricorso che viene in rilievo in questa sede, ha dedotto l’illegittimità derivata del provvedimento impugnato, conseguente all’eccepita illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 23, 25, 117, secondo comma, lettere l), m) e s), e 118 Cost., della disposizione regionale applicata per determinare l’importo della sanzione.
Ebbene, rispetto a tale questione, il T.a.r. rimettente osserva, innanzitutto, che l’apparato sanzionatorio previsto per un determinato settore dell’ordinamento, lungi dal costituire una materia a sé stante, accede alla disciplina sostanziale il cui rispetto intende assicurare, con la conseguenza che la definizione del regime sanzionatorio spetta al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina oggetto di violazione[2].
Inoltre, distingue la tutela dell’ambiente e del paesaggio dalla loro valorizzazione, ritenendole due funzioni diverse: la prima, mira infatti alla conservazione di un bene complesso e unitario; la seconda, a migliorarne la funzione e la conoscenza. Per quanto qui d’interesse, le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguirebbero «scopi di conservazione dei beni paesaggistici» in quanto vietano espressamente qualsivoglia intervento che li distrugga o li pregiudichi, e al medesimo scopo di tutela sarebbero preordinate le sanzioni previste per la violazione delle stesse norme. Ne consegue, pertanto che, in ragione dell’appartenenza di tale ultima disciplina alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse rispetto a quelle contenute nella legge statale.
Nel giudizio a quo si è costituita anche la società, chiedendo l’accoglimento della questione sulla base delle stesse ragioni esposte dal rimettente. La parte privata, ritiene inoltre che la quantificazione della sanzione introdotta dalla norma regionale censurata sia del tutto estranea ai principi contenuti nella norma statale e «soprattutto del tutto svincolata da qualsivoglia relazione con l’interesse leso e con la finalità perseguita dagli artt. 146 e 167 D.Lgs. n. 42/2004».
La Regione Lombardia è intervenuta in giudizio chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata. Innanzitutto, la questione sarebbe inammissibile per la sua irrilevanza nella definizione del giudizio a quo, che verterebbe solo sulla quantificazione della sanzione amministrativa, e «che ben potrebbe trovare soluzione indipendentemente dall’applicazione della normativa regionale». In particolare, secondo la difesa regionale, il rimettente non avrebbe fornito elementi idonei a ricostruire né il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova per calcolare il quantum né la valutazione tecnica posta a base della perizia di stima eseguita dal consulente della società, limitandosi a «indicare i diversi criteri adottati e gli esiti dell’applicazione di tali criteri raggiunti nelle rispettive valutazioni» e non rendendo noti gli elementi posti a base delle differenti quantificazioni. Neppure sarebbe stata tentata un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
Nel merito, la Regione richiama il contenuto del comma 5, terzo periodo, dell’art. 167 cod. beni culturali sottolineando che l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 – nella versione originaria, che non conteneva le previsioni oggetto di censura – sarebbe stato adottato per superare le difficoltà applicative sorte in relazione a opere abusive che non arrecano alcun danno e dalle quali, parimenti, non deriva alcun profitto per il trasgressore; pertanto, la norma regionale non si sarebbe sovrapposta a quella statale ma l’avrebbe completata, colmando una lacuna che ne vanificava l’applicazione. Successivamente l’art. 27 della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018, nel ridefinire i parametri per il calcolo della sanzione paesaggistica, avrebbe introdotto nell’art. 83 una «innovazione legata alla sola quantificazione».
Quanto all’ascrivibilità della disciplina del potere sanzionatorio a tutela del paesaggio alla competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.[3], la Regione rileva come, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, non è esclusa la possibilità per il legislatore regionale di assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela del bene paesaggistico, qualora siffatte prescrizioni elevino il livello di tutela ambientale. Il caso in esame, del resto, ricadrebbe proprio in una di queste ipotesi in quanto, ad avviso della Regione, il censurato art. 83 non si porrebbe «in contraddizione» con la potestà legislativa esclusiva dello Stato, né ridurrebbe i livelli di tutela dell’ambiente.
La Regione sostiene inoltre che lo stesso art. 83, nel prevedere il criterio di determinazione della sanzione in assenza di danno ambientale, potrebbe essere ascritto alla competenza legislativa concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto intenderebbe sanzionare quelle ipotesi in cui il bene, pur non essendo compromesso, ha comunque subito una alterazione. Tali ipotesi ricadrebbero nell’ambito della gestione dei beni culturali e ambientali, distinta dalla funzione di tutela riservata allo Stato, e da ascrivere a quella di valorizzazione degli stessi beni. Ancora, le stesse considerazioni riferite alla mancanza di un danno ambientale varrebbero a ricondurre la norma censurata anche alla potestà legislativa concorrente in materia di «governo del territorio», attribuita alle regioni dal medesimo art. 117, terzo comma, Cost., trattandosi di potestà che, comprendendo tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività e, collegandosi trasversalmente alla materia della tutela ambientale, potrebbe essere esercitata senza violare la competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Da ultimo, la società ha depositato una memoria illustrativa nella quale innanzitutto, con riferimento all’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale, osserva come il giudice a quo abbia puntualmente motivato sulla rilevanza della questione, atteso che l’accoglimento della questione determinerebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato nel processo principale.
Quanto al merito, la parte privata ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria risulti «correlata intimamente» all’istituto dell’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, il quale produce un effetto “sanante” dell’abuso e, al contempo, svolge una funzione diretta a semplificare e rendere efficiente l’azione amministrativa. In siffatto quadro, allora, risulterebbe chiara la potestà legislativa esclusiva dello Stato a determinare la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla spettanza della disciplina sanzionatoria al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile.
3. La questione di legittimità costituzionale e il quadro normativo di riferimento
La questione di legittimità costituzionale investe l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, cod. beni culturali[4]. In dettaglio, la previsione oggetto di censura è quella che fissa la misura della sanzione con previsione di un minimo inderogabile di cinquecento euro.
Il giudice a quo ritiene che il legislatore regionale, adottando una disposizione difforme da quella stabilita dall’art. 167 cod. beni culturali, abbia invaso la competenza in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Il presupposto di tale ragionamento è che le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguono scopi di conservazione dei beni paesaggistici, alla cui realizzazione sarebbero preordinate anche le sanzioni (sia ripristinatorie, sia pecuniarie) previste dall’art. 167 cod. beni culturali. Con la conseguenza che, rientrando la disciplina delle sanzioni per la violazione del citato art. 146 cod. beni culturali nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse, anche solo nel quantum, rispetto a quelle fissate dalla legge statale.
In via preliminare la Corte, respingendo le plurime eccezioni sollevate dalla Regione, ritiene la questione rilevante. Innanzitutto, perché il provvedimento impugnato nel giudizio a quo ha determinato l’entità della sanzione esclusivamente sulla base del criterio previsto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sul presupposto dell’assenza di un danno ambientale; con la conseguenza che la definizione della controversia sul quantum non potrebbe prescindere dall’applicazione della norma regionale censurata. In secondo luogo, per quanto attiene all’asserita mancata indicazione, da parte della Regione, di elementi idonei a ricostruire il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova nonché alla paventata verifica della rilevanza effettuata solo in astratto senza tentativo di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato, la Corte osserva come trattasi di argomentazioni con cui la Regione contesta un difetto di motivazione sulla rilevanza, il quale, all’evidenza, non è un vizio censurabile.
Passando alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, la Corte prende le mosse dall’art. 167 cod. beni culturali, il quale, al comma 1 prevede che «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4». In altri termini, tale articolo sancisce la regola generale secondo la quale le opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica, in violazione dell’art. 146 cod. beni culturali non sono suscettibili di “sanatoria” tramite il pagamento di una somma di denaro, ma comportano l’applicazione della sanzione di carattere reale della riduzione in pristino.
Le uniche deroghe alla sanzione ripristinatoria reale sono contemplate dal comma 4 dello stesso art. 167, secondo cui l’autorità amministrativa competente può accertare la compatibilità paesaggistica dopo la realizzazione delle opere - onde tale accertamento viene comunemente definito “postumo” - nei seguenti casi tassativi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia.
Solo in queste ipotesi, dunque, può attivarsi la procedura di cui al comma 5 in base alla quale il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area è ammesso a presentare domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi. Qualora venga accertata tale compatibilità, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione; in tal caso, l’importo della «sanzione pecuniaria» è determinato previa perizia di stima. A tale disciplina si raccorda l’art. 146 cod. beni culturali, alla cui stregua, «fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
Questo assetto normativo è il risultato della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157, che ha integralmente sostituito l’art. 167 cod. beni culturali[5]. Infatti, prima della novella del 2006, il trattamento delle violazioni degli obblighi e degli ordini a tutela del paesaggio era caratterizzato dalla titolarità in capo all’amministrazione del potere di scelta fra ripristino dello status quo ante e pagamento di una somma di denaro[6]. Sul punto, dunque, la modifica del 2006 ha significativamente innovato rispetto alla disciplina precedente negando tale facoltà all’amministrazione, nonché relegando la misura pecuniaria ad alcune fattispecie abusive minori, previo accertamento della loro compatibilità paesaggistica.
Tanto premesso, quello che viene in rilievo nel giudizio de quo sono i criteri di calcolo della somma dovuta dal trasgressore, che il legislatore statale ha individuato nel «maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione», nel caso in cui sopravvenga l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica.
Ebbene, secondo la Corte, ai fini della decisione, risulta di fondamentale importanza comprendere la natura della somma di denaro che qui viene in rilievo. Sul punto, sebbene la rubrica dell’art. 167 cod. beni culturali parli di «indennità pecuniaria», il medesimo art. 167 è inserito nel Capo II del Titolo I della Parte quarta del codice dei beni culturali e del paesaggio, dedicato alle «Sanzioni relative alla Parte terza» dello stesso codice. Inoltre, il comma 5 dell’art. 167, nel prevedere che l’importo della somma de qua sia determinato previa perizia di stima, contiene l’espressione «sanzione pecuniaria».
Anche secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, inoltre, non si tratta di una forma di risarcimento del danno ma di una sanzione amministrativa, applicabile a prescindere dalla concreta produzione di un danno ambientale. Ed in effetti, nella previsione normativa il danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro che ne condiziona l’an. In altri termini, l’assenza di un danno ambientale non ostacola, pertanto, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della quantificazione dell’importo dovuto, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito[7].
4. La decisione della Corte
La Corte reputa fondata la questione. Per giungere a siffatta conclusione, precisa innanzitutto che la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali rappresenta una sanzione amministrativa pecuniaria di natura riparatoria; perimenti, ritiene che la norma regionale censurata incide sulla determinazione del quantum di tale sanzione.
Se così è, richiamando la propria costante giurisprudenza in ossequio alla quale «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” [...] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile [...]» [8], rileva come, ai fini della risoluzione della questione, risulti fondamentale verificare quale sia la materia a cui si riferisce la sanzione e se in tale materia la competenza legislativa spetti allo Stato o alle Regioni.
In relazione a tale profilo, sulla scorta del quadro normativo sopra ricostruito, può dirsi che la sanzione consegue alla realizzazione di lavori, rientranti nei casi tassativi indicati al comma 4 dell’art. 167 cod. beni culturali, per i quali sia intervenuto l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma 5. L’atto sanzionabile è costituito, dunque, dall’inosservanza della disciplina relativa alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, e segnatamente dall’inosservanza delle norme che regolano l’autorizzazione paesaggistica, la quale, a sua volta, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, deve essere annoverata tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale[9].
Pertanto, la disciplina sostanziale cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche in ragione dell’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e ad un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità.
Ebbene, come evidenziato, la quantificazione della sanzione in caso di assenza di danno ambientale, nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione «delle opere e/o lavori abusivi» con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva ed in particolare dall’art. 167 cod. beni culturali. In siffatto contesto, le citate esigenze di uniformità di trattamento precludono allora al legislatore regionale l’intervento con norme difformi da quelle previste a livello statale.
Ancora, la Corte prosegue nel proprio ragionamento respingendo l’argomento sostenuto dalla Regione in base al quale la potestà legislativa statale non sarebbe violata in quanto l’art. 83, lungi dal porsi «in contraddizione» con essa o dal ridurre i livelli di tutela dell’ambiente, si limiterebbe solamente a colmare una lacuna della norma statale e, dunque, a completare «l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004». Ed in effetti, anche la potestà di colmare per via legislativa asserite lacune di norme sanzionatorie spetta al soggetto dotato di competenza nell’ambito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono e quindi, nella specie, allo Stato. Neppure può ritenersi che la norma sanzionatoria in oggetto rispetti la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella misura in cui innalza la tutela dell’ambiente, come pure è consentito fare alle Regioni a certe condizioni: nell’esercizio di competenze interferenti con quella ambientale, infatti, alla Regione è totalmente precluso interferire con la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio[10].
In ogni caso, ritiene la Corte, non è corretto affermare che, sempre al fine di elevare la tutela ambientale, l’intervento legislativo regionale abbia effettivamente colmato una lacuna dell’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, completandone il dettato per l’ipotesi di assenza sia di danno ambientale sia di profitto. La norma statale, infatti, ben può essere interpretata nel senso che in tale ipotesi non sia irrogabile alcuna sanzione, non senza considerare che la sfera di efficacia della norma censurata è più ampia di quella prospettata dalla Regione, poiché introduce «comunque» la sanzione pari all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione, anche nel caso in cui un profitto esista, ma sia quantificabile in misura inferiore.
Ancora, non è condivisibile la tesi, pure sostenuta dalla Regione, in base al quale l’art. 83, nella parte censurata, potrebbe essere ricondotto alle materie «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» e «governo del territorio», attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost. Sul punto, la Corte sostiene infatti che la tutela dell’ambiente e del paesaggio prescinde dalla sussistenza di un danno ambientale, sostanziandosi nella predisposizione di strumenti di protezione di tali beni comuni, come i piani paesaggistici, le autorizzazioni o i divieti, tutti previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio; nella prospettiva indicata, l’eventuale assenza di un danno ambientale non costituisce una ragione idonea a scindere il collegamento tra la sanzione e la disciplina di tutela paesaggistica. L’atto sanzionabile, infatti, è costituito dall’inosservanza delle norme che disciplinano uno dei fondamentali istituti di protezione ambientale, quale l’autorizzazione paesaggistica; la conseguente sanzione riparatoria, alternativa alla riduzione in pristino nei casi tassativi indicati dal legislatore, partecipa della medesima natura di ricomposizione della legalità violata propria della misura di carattere reale, a prescindere dall’effettiva produzione di un danno ambientale. In siffatto contesto, pertanto, il danno si configura come un mero criterio di commisurazione della sanzione, senza condizionarne affatto l’applicabilità.
Così accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, la Corte dichiara dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
Il percorso logico sotteso alla pronuncia in esame sembra dare per scontati due assunti, che si tenterà di approfondire nei paragrafi seguenti.
5. Il riparto della potestà legislativa in materia di sanzioni amministrative
Il primo assunto da cui parte la Corte è quello del riconoscimento di una potestà legislativa alle Regioni anche in materia di sanzioni.
Tanto è possibile in quanto, in ambito amministrativo, il fondamento costituzionale del principio di legalità in materia di sanzioni si rinviene nell’art. 23 Cost., in ossequio al quale la riserva legislativa è soddisfatta non solo dalla legge statale ma, appunto, anche da quella regionale[11].
E ciò diversamente da quanto accade in relazione alle sanzioni penali, rispetto alle quali sussiste invece la necessità di garantire allo Stato l’attribuzione di una potestà legislativa esclusiva. In tale settore, infatti, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente escluso la competenza regionale sia in funzione ampliativa sia in funzione restrittiva dall’area di punibilità; e ciò non solo per esigenze di legalità ma, appunto, anche e soprattutto di uguaglianza sull’intero territorio nazionale[12].
Riconosciuta, dunque, l’ammissibilità di una potestà legislativa regionale in materia, ai fini della individuazione dell’effettivo soggetto titolare del potere de quo occorre guardare agli ordinari criteri di riparto di competenza Stato-Regioni.
Ne consegue, pertanto, che alle Regioni è concesso legiferare in materia di illeciti e sanzioni amministrative nelle materie di loro competenza, sia concorrente (art. 117, co. 3, Cost.), sia esclusiva (art. 117, co. 4 Cost.), sebbene con limiti diversi. In particolare, nelle materie di competenza concorrente, le Regioni sono vincolate dai principi fondamentali dettati dal legislatore statale; viceversa, nelle materie di competenza esclusiva (cd. residuali), il legislatore regionale sarebbe comunque tenuto a rispettare i limiti derivanti dalle leggi statali nelle materie trasversali, nelle materie-valore, nonché nelle materie ordinamentali[13].
Conseguenza di tale ragionamento è che, laddove vengano invece in rilievo materie attribuite alla competenza legislativa dello Stato – quale è, appunto, la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – risulta preclusa ogni forma di intervento regionale, anche nell’ottica di colmare eventuali lacune della disciplina nazionale. Inoltre, il venire in rilievo di competenze attinenti alla specifica materia ambientale, fa sì che risulti ulteriormente ristretto il raggio di azione delle Regioni, e tanto in forza del divieto, sancito dal costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, di interferire sulla materia prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio finanche al solo fine di innalzarne il livello di tutela.
A fronte di tale ripartizione, un cenno a parte meritano le sanzioni amministrative “punitive”, vale a dire quelle dotate di natura sostanzialmente penale, rispetto alle quali la questione dell’eventuale competenza legislativa regionale si pone in termini parzialmente diversi. Ed in effetti, in ossequio all’ormai costante indirizzo di derivazione sovranazionale in base al quale dal riconoscimento della natura sostanzialmente penale di una sanzione dovrebbe derivare l’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene, nella materia de qua non dovrebbe trovare spazio la legge regionale.
In verità, pochi anni fa, la Corte Costituzionale sembra aver ammesso la competenza regionale anche con riferimento a tale tipologia di sanzioni. In dettaglio, in occasione del ricorso presentato dal Governo avverso gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge della Regione Veneto 16 luglio 2019, n. 25[14], nel richiamare la propria costante giurisprudenza[15], la Corte Costituzionale, pur riconoscendo in linea generale l’applicazione delle garanzie discendenti dall’art. 25, co. 2, Cost. anche agli illeciti e alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente punitivo, ha fatto salva l’eccezione «della riserva assoluta di legge statale, che vige per il solo diritto penale stricto sensu, come da ultimo precisato dalla sentenza n. 134 del 2019. Tale pronuncia ha altresì ribadito che il potere sanzionatorio amministrativo – che il legislatore regionale ben può esercitare, nelle materie di propria competenza – resta comunque soggetto alla riserva di legge relativa all’art. 23 Cost., intesa qui anche quale legge regionale»[16].
Una soluzione di tal fatta, che potrebbe essere percepita come una battuta d’arresto rispetto all’orientamento evolutivo cui si faceva poc’anzi riferimento, trova in realtà una propria coerenza alla luce del sistema delle fonti complessivamente inteso.
Per comprenderlo, basterà ricordare come le garanzie che originariamente previste nel settore penale, sono state oggetto di progressiva estensione anche alle sanzioni punitive, si identificano nelle sole riconducibili ai principi delineati dalla stessa CEDU; sicché, venendo in questo caso in rilievo un aspetto prettamente interno, quale risulta essere appunto il riparto tra potestà legislativa statale e regionale in materia penale, la sua mancata estensione anche alle sanzioni punitive non si pone in contrasto con il filone interpretativo avallato da Strasburgo.
6. La natura “strumentale” del potere sanzionatorio amministrativo: compatibilità della funzione afflittiva con il perseguimento di pubblici interessi
L’altro principio sotteso alla pronuncia della Corte è quello della riconducibilità del potere sanzionatorio amministrativo alla medesima materia cui la disciplina sostanziale, oggetto di violazione, si riferisce. Da tale assunto, deriva l’ulteriore corollario della compatibilità tra la funzione afflittiva, propria dei provvedimenti sanzionatori, e il perseguimento del pubblico interesse, cui l’azione amministrativa deve necessariamente tendere.
Ed in effetti, l’irrogazione di una sanzione, non risulta finalizzata esclusivamente a compensare l’illecito mediante l’inflizione di conseguenze dannose in capo all’autore, essendo funzionale altresì alla prevenzione di future lesioni da parte della generalità dei consociati[17]. La peculiarità che caratterizza la sanzione amministrativa, vale a dire il suo carattere afflittivo, non osta dunque acché attraverso di essa venga perseguito anche un pubblico interesse.
Del resto, in tal senso si è espressa ormai da tempo anche la giurisprudenza. La Cassazione ha infatti chiarito che la funzione amministrativa sanzionatoria garantisce i medesimi interessi tutelati dalla stessa p.a.; ciò avverrebbe grazie all’esercizio di una funzione cd. “sussidiaria”, che interviene cioè allorquando gli interessi perseguiti dalla funzione principale, cd. “sussidiata”, risultano lesi[18].
Nella medesima direzione, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che le sanzioni amministrative rappresentano «un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’Amministrazione»[19]. Ancora, in tempi più recenti, anche la giurisprudenza sovranazionale è giunta ad analoghe conclusioni, sottolineando la non incompatibilità tra il perseguimento di un certo interesse pubblico e il carattere punitivo della sanzione[20].
In altri termini, anche la funzione sanzionatoria rientra tra gli strumenti di cui l’Amministrazione dispone per il perseguimento della propria azione specifica e, proprio in ragione della natura complementare della funzione in esame rispetto a quelle di amministrazione attiva, si giustifica il particolare interesse che la p.a. nutre all’esercizio della stessa[21].
Certo, non può nascondersi come per il tramite della funzione sanzionatoria l’interesse pubblico riceva una tutela soltanto indiretta: la sanzione rappresenta infatti uno strumento di perseguimento dell’interesse pubblico solo in via mediata, inidoneo a svolgere ex se una funzione di amministrazione attiva. Purtuttavia, nel momento stesso in cui si ammette tale profilo di complementarità, risulta difficile non attribuire anche al potere sanzionatorio una funzione di amministrazione attiva.
In tal senso, particolarmente esemplificativa sembra essere la disciplina dettata con riferimento ai provvedimenti sanzionatori emanati dalle Authorities. In questi settori, il collegamento tra funzione di regolazione/vigilanza da un lato, e funzione sanzionatoria dall’altro, emerge chiaramente grazie anche alla attribuzione di entrambe le funzioni ad un unico soggetto[22].
Si pensi ad esempio all’AGCM, i cui poteri sanzionatori risultano strumentali alla tutela della stessa concorrenza e del mercato: i provvedimenti sanzionatori, pur dotati di carattere afflittivo, divengono strumento per la cura dello specifico interesse pubblico attribuito all’Amministrazione.
Considerazioni analoghe, e per certi versi ancora più significative, valgono anche con riferimento alle sanzioni disciplinate in via generale dalla l. n. 689/1981: in tale sistema, il legislatore ha volutamente evitato di individuare una autorità amministrativa dotata di poteri specificatamente sanzionatori, attribuendo piuttosto tale competenza alle singole amministrazioni cui spetta la tutela dell’interesse di volta in volta preso in considerazione[23]. E ciò proprio a riprova della naturale strumentalità del potere sanzionatorio rispetto a quello di amministrazione attiva.
Tali considerazioni, inoltre, consentono di scongiurare l’idea che le sanzioni amministrative svolgano esclusivamente una funzione afflittiva e di prevenzione generale: se così fosse, infatti, sarebbe risultata più congeniale l’attribuzione della funzione in esame ad una Autorità amministrativa terza ed imparziale: viceversa, proprio l’appartenenza alla medesima Autorità amministrativa, consente di riconoscere la natura intrinsecamente connessa del potere sanzionatorio con quello di cura dei singoli interessi pubblici.
[1] Trattasi della versione di testo introdotta dall’art. 27 della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17.
[2] A tal proposito, cita la sentenza Corte Cost. n. 148 del 2018, nonché le precedenti sentenze n. 90 del 2013, n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004.
[3] «Tutela dell’ambiente, dell’economia e dei beni culturali».
[4] Nello specifico, la disposizione censurata stabilisce che «l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».
[5] Il previgente comma 1 di tale ultima disposizione prevedeva, infatti, che «in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima».
[6] Ciò, in linea con quanto precedentemente disposto, in termini sostanzialmente identici, prima dall’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), poi dall’art. 164 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).
[7] Cfr, sul punto, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678, sentenza 25 luglio 2020, n. 4755, sentenza 4 maggio 2020, n. 2840; sezione sesta, sentenza 8 gennaio 2020, n. 130. Lo stesso costante orientamento giurisprudenziale qualifica la misura in esame come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato osserva che, «proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatorio alternativa alla demolizione», la sanzione «viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 30 giugno 2023, n. 6380 e n. 6381; nello stesso senso, tra le molte, Consiglio Stato, sezione prima, parere definitivo 18 maggio 2022, n. 877; sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678).
[8] Così Corte Cost. sent. n. 121 del 2023.
[9] Sul punto v., ex multis, Corte Cost., sentenze nn. 201 del 2021, 246 del 2017, 238 del 2013 e 101 del 2010.
[10] Sul punto, v. Corte Cost. sent. n. 16 del 2024; in precedenza, anche Corte cost. sentenze nn. 163 del 2023, 66 del 2018, 212 del 2017, 210 del 2016, 171 del 2012 e 407 del 2002.
[11] In questo senso, si vedano le considerazioni di G. Corso, Sanzioni amministrative e competenza regionale, in AA. VV. (a cura di U. Pototschnig), Le sanzioni amministrative (Atti del XXVI Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione), Milano, 1982, 78. Per una completa ricostruzione del dibattito dottrinario in materia, si rinvia a G. Colla- G. Manzo, Le sanzioni amministrative, Giuffrè, Milano, 2001, 247-248.
[12] Sul punto v. L Paladin L., Il problema delle sanzioni nel diritto regionale, in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova, 1975, 238.
[13] Così P. Cerbo, Sistemi sanzionatori e autonomia regionale, in Quaderni Costituzionali, 2021, fasc. 3, 271.
[14] Recante “Norme per introdurre l’istituto della regolarizzazione degli adempimenti o rimozione degli effetti nell’ambito dei procedimenti di accertamento di violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”.
[15] Cfr. Corte Cost., sentenze nn. 134 del 2019, 223 del 2018, 121 del 2018, 68 del 2017, 276 del 2016 e 104 del 2014.
[16] Così Corte Cost., sent. del 18 gennaio 2021, n. 5 punto 5.1. del Considerato in diritto.
[17] In questo senso, v. F. Goisis, Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Rivista Italiana Di Diritto Pubblico Comunitario, 2013, 132. Per un approccio costituzionalistico del tema, si rinvia a L. Cuocolo, Le sanzioni amministrative tra caratteri afflittivi ed amministrazione attiva, in Quad. reg., 2003, 531 e ss.
[18] Cfr. Cass., Sez. un., 24 febbraio 1978, n. 926. Per un commento alla sentenza indicata, si rinvia a C.E. Paliero-A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, 370.
[19] Così Corte cost., sent.14 aprile 1988, n. 447.
[20] Cfr. in tale direzione Corte EDU, 27 settembre 2011, caso n. 43509/08, Menarini c. Italia (spec. par. 40), in materia di tutela della concorrenza nel mercato tutelata dall’AGCM.
[21] Così A. Travi, Sanzioni amministrative e pubblica Amministrazione, Padova, 1983, 243.
[22] Sulla tematica, si rinvia alle considerazioni svolte da R. Lombardi, Autorità amministrative indipendenti: funzione di controllo e funzione sanzionatoria, in Dir. amm., 1995, 633.
[23] Si vedano in particolare gli artt. 7 e 17, co. 3 l. n. 689/1981.
Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Commento a Trib. Firenze, Sez. specializzata protezione internazionale, ordinanze del 15 maggio 2024
di Cecilia Siccardi
Sommario: 1. Premessa: i casi da cui ha origine il rinvio pregiudiziale; 2. Alla ricerca di una ratio della designazione di Paesi sicuri con eccezioni di gruppi di persone: evoluzione normativa e prassi degli Stati membri; 3. I rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia UE e il “punto di vista” del Tribunale di Firenze; 4. Paesi sicuri, eccezioni personali e l’art. 10, comma 3 della Costituzione; 5. Un’altra possibile via? La questione di costituzionalità.
1. Premessa: i casi da cui ha origine il rinvio pregiudiziale
Con due distinte ordinanze il Tribunale di Firenze ha proposto, nel maggio 2024[1], due rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia concernenti l’interpretazione del diritto Ue su un aspetto specifico della disciplina dei Paesi sicuri.
Le due ordinanze, motivate in modo pressoché identico, sono state adottate nell’ambito di due giudizi su ricorsi avverso dinieghi delle Commissioni territoriali alle domande di protezione internazionale per manifesta infondatezza, intrapresi a seguito di procedure accelerate, ai sensi dell’art. 28-bis, comma 2 lett. c) del d.lgs. 25/2008.
Le procedure accelerate riguardano ricorrenti provenienti, in un caso dalla Nigeria e nell’altro caso dalla Costa d’Avorio, entrambi Paesi considerati di origine sicuri, ai sensi dell’art. 2-bis del d.lgs. 25/2008[2].
Nigeria e Costa D’Avorio sono stati aggiunti nella lista dei Paesi sicuri dal D.M. del 23 maggio del 2023 e, pur apparendo “in possesso delle caratteristiche necessarie per essere definiti sicuri”[3], rientrano tra quei Paesi che, come consentito dall’art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. 25/2008, sono stati disegnati tali ad eccezione “di categorie di persone”[4].
Le categorie escluse dalla presunzione di sicurezza non vengono espressamente menzionate nel D.M. del 17 maggio 2023, bensì nelle “Schede Paese” redatte dagli Uffici territoriali competenti del Ministero degli Affari esteri che monitorano la situazione locale. Tali schede precisano che Nigeria e Costa d’Avorio possono essere considerati “sicuri” solo “tenendo conto di situazioni di particolare criticità e rischi di involuzione della situazione”[5].
Pertanto, le schede individuano alcune eccezioni di categorie di persone per le quali non può vigere una presunzione di sicurezza, quali i detenuti, i giornalisti, le vittime di discriminazione sulla base all’appartenenza di genere, incluse vittime e potenziali vittime di mutilazione genitale femminile, le persone con disabilità, gli albini e siero positivi, la comunità LGBTQ+.
La previsione di tali eccezioni ha delle conseguenze sulle procedure di riconoscimento della protezione internazionale, poiché le domande presentate da persone appartenenti a tali categorie dovrebbero evitare l’esame accelerato di cui all’art. 28-bis, comma 2 lett. c) del d.lgs. 25/2008 ed essere trattate secondo quello ordinario.
Le ragioni che hanno convinto gli Uffici territoriali del Ministero a estromettere tali categorie di persone dalla presunzione di sicurezza del Paese si comprendono immediatamente leggendo le motivazioni delle schede Paese. Basta qui riportarne alcuni stralci significativi.
Così in Nigeria:
“La violenza domestica sulle donne è diffusa nel Paese e non esiste una legislazione volta alla prevenzione ed al suo contrasto. (…) Il Governo nigeriano ha altresì approvato un piano strategico per porre fine ai matrimoni tra minori entro il 2030, tuttavia la pratica risulta ancora piuttosto diffusa.
La comunità LGBT è stata oggetto di soprusi, minacce ed estorsioni, e forme di discriminazione anche gravi continuano a persistere, in particolare nelle aree rurali. Nel 2014 è stato emanato il Same Sex Marriage (Prohibition) Act che prevede ipotesi di reato penalmente perseguibili. Sono inoltre proibite le manifestazioni pubbliche di affetto tra persone dello stesso sesso”[6]
Così in Costa D’Avorio:
“La legge non affronta specificamente la violenza domestica e la violenza del partner o impone
pene speciali per questi atti. Al riguardo, le leggi non vengono applicate in modo efficace. I membri della famiglia e i leader della comunità spesso agiscono da “mediatori” nella gestione dei seguiti alle accuse di stupro, senza sentire la vittima, anzi provando a dissuadere le vittime dallo sporgere denuncia, per evitare conseguenze negative sulla famiglia, in particolare se l'autore dello stupro è legato alla vittima da rapporti di parentela”.
“Atteggiamenti di affetto espressi in pubblico tra persone dello stesso sesso sono suscettibili di azione penale, come crimine contro la moralità pubblica, con una pena fino a 2 anni di reclusione. I membri della comunità LGBT hanno denunciato discriminazioni anche nell'accesso all'assistenza sanitaria, così come sui posti di lavoro (con rifiuto nell’assunzione, licenziamenti ingiustificati praticati o impossibilità di carriera)”[7].
Leggendo tali stralci e il lungo elenco di categorie di persone a rischio di persecuzioni e violazioni di diritti, non stupisce che i ricorrenti abbiano contestato nei giudizi in commento la qualificazione della Nigeria e della Costa d’Avorio come Paesi di origine sicuri. Una domanda, infatti, sorge spontanea: può considerarsi davvero “sicuro” un Paese dove così tante categorie, che sono poi quelle tradizionalmente perseguitate e più bisognose di protezione, sono considerate “insicure”?
Per sciogliere tale quesito il Tribunale di Firenze ha deciso di rivolgersi alla Corte di giustizia UE, domandando se il diritto dell’UE osti a normative nazionali che consentano la designazione di Paesi sicuri, con eccezioni di categorie personali (infra par. 3).
Le due ordinanze, che saranno commentante dalla prospettiva di una studiosa del diritto costituzionale, suscitano particolare interesse non solo perché aggiungono un tassello alla vivace e varia giurisprudenza sul sindacato giurisdizionale sulla lista dei Paesi sicuri[8] ma perché consentono di riflettere sulla portata attuale del diritto d’asilo alla luce del continuo evolversi del sistema comune europeo di asilo di recente oggetto di un’attesa riforma[9] (infra par. 2), e dell’art. 10, comma 3 della Costituzione italiana (infra par. 4 e 5).
2. Alla ricerca di una ratio della designazione di Paesi sicuri con eccezioni di gruppi di persone: evoluzione normativa e prassi degli Stati membri
Prima di analizzare più nel dettaglio le ragioni che hanno portato il Tribunale di Firenze a proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sembra importante ripercorre l’evoluzione normativa che ha portato all’introduzione della disciplina sui Paesi sicuri, cercando di comprendere le ragioni della norma che consente la designazione di Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone.
Come noto, la nozione di Paese di origine sicuro è stata disciplinata in prima battuta nell’ordinamento dell’Unione europea e poi, solo in un secondo momento, recepita nell’ordinamento nazionale[10].
A livello europeo tale concetto è stato disciplinato per la prima volta in modo vincolante dalla direttiva 2005/85/CE, la quale mirava - mediante l’attribuzione della facoltà agli Stati membri di designare una lista dei Paesi Sicuri e la creazione di una lista minima comune europea[11], poi ritenuta illegittima dalla Corte di giustizia[12] - ad armonizzare le diverse prassi esistenti in materia tra gli Stati membri[13].
Per quanto qui rileva, la predetta direttiva prevedeva una norma dedicata alla designazione di Paesi sicuri con eccezioni territoriali o personali. Con specifico riguardo alle eccezioni personali, l’art. 30 par. 3 precisava che queste potevano essere mantenute nelle legislazioni nazionali già in vigore al primo dicembre 2005. Di conseguenza, la direttiva escludeva implicitamente l’introduzione da parte degli Stati membri di nuove normative nazionali volte alla designazione di Paesi di origine sicuri con eccezioni personali, mirando a contenere il proliferare di prassi diverse tra gli Stati UE.
Tale obiettivo è stato perseguito ulteriormente mediante l’approvazione, nel 2013, dalla direttiva “procedure” 2013/32/UE.
La direttiva “procedure” - che si applica alle ordinanze in commento - pur disciplinando in termini dettagliati i contorni della nozione di Paese sicuro, la facoltà attribuita agli Stati di stilare una lista dei Paesi considerati sicuri, le conseguenze procedurali, non menziona la possibilità della designazione di un Paese sicuro con eccezioni di categorie di persone[14].
Anzi, l’allegato I della direttiva - che a norma dell’art. 37 indica i criteri per la designazione di un Paese di origine sicuro - stabilisce che un Paese è considerato sicuro “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato”. Il riferimento all’assenza generale e costante di persecuzioni sembra escludere la possibilità per gli Stati di consentire la designazione di Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone a rischio; tanto più sembra escludere la designazione di Paesi sicuri con ampie liste di eccezioni, come nel caso di Nigeria e Costa di Avorio[15].
Nonostante il silenzio della direttiva 2013/32/UE in merito alla designazione dei Paesi sicuri con esclusioni personali, il legislatore italiano ha introdotto, di lì a poco, una previsione in tal senso nella disciplina nazionale sui Paesi sicuri.
Questa disciplina è stata introdotta in Italia, in sede di conversione del decreto sicurezza I (d.l. 113 del 2018, conv. con l. 132 del 2018), per mano di un emendamento del Governo[16], deciso ad adeguarsi ai dettami dell’Unione, mediante la previsione della lista dei Paesi sicuri e di procedure accelerate.
Leggendo i lavori parlamentari non si rinviene traccia però delle ragioni che hanno portato il Governo italiano a presentare, nel testo dell’emendamento, anche la possibilità di designazione di un Paese sicuro con eccezioni territoriali o di categorie di persone; norma che come visto non era più presente nelle direttive europee.
I rischi connessi a tale scelta sono emersi durante il dibattito parlamentare. Ciò si evince soprattutto dal tenore di alcuni emendamenti, presentanti da alcuni parlamentari dell’opposizione, e poi non approvati, durante i lavori in Commissione alla Camera dei Deputati. Tali emendamenti miravano a precisare che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone, a meno che le eccezioni non siano tali, per estensione o gravità, da compromettere la valutazione di sicurezza complessiva del Paese in questione”[17]. L’approvazione di tale specificazione avrebbe probabilmente scongiurato la designazione di Paesi sicuri, con numerose categorie escluse, come nel caso di Nigeria e Costa D’Avorio.
Analogamente all’Italia e nonostante il silenzio del legislatore europeo non sono pochi gli Stati membri che hanno mantenuto in vigore la designazione di Paesi di origine sicuri con eccezioni di gruppi di persone. Alcuni rapporti delle istituzioni europee ricostruiscono la situazione della disciplina dei Paesi sicuri tra gli Stati membri dando conto, ad esempio, che “le eccezioni per alcuni profili di richiedenti asilo sono spesso applicate a gruppi specifici e persone vulnerabili, in particolare: persone LGBTQI; minoranze come quelle religiose, persone albine, attivisti politici, difensori dei diritti umani, giornalisti, donne e bambine, vittime di violenza”[18].
La varietà delle eccezioni previste dagli Stati membri dimostra come la ratio di queste previsioni nazionali resti ambigua: tali eccezioni sembrano servire agli Stati per giustificare l’estensione della lista dei Paesi sicuri anche a quei Paesi (che magari figurano tra i primi di provenienza dei richiedenti asilo) nonostante la presenza di categorie a rischio.
Forse proprio la continua permanenza di soluzioni differenti nelle normative nazionali ha indotto il legislatore europeo a menzionarle nuovamente nel Regolamento (UE) 2024/1348 del 14 maggio 2024[19]. L’art. 61 par. 2 consente che “la designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale possa essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili”.
Dal momento in cui sarà applicato il regolamento, a partire dal 2026, occorrerà comprendere in quali casi una categoria può essere definita quale “chiaramente identificabile”.
La norma sembra voler limitare la previsione di eccezioni di categorie di persone la cui appartenenza non sia individuabile immediatamente e presupponga accertamenti complessi, non adatti alla procedura accelerata.
Ad esempio, potrebbero non essere classificati quali “chiaramente identificabili” l’appartenenza alla comunità lgbt+, poiché la verifica dell’orientamento sessuale è un accertamento delicato, le vittime di violenza, di tortura di tratta, i cui segni non sono sempre visibili o dichiarati immediatamente.
Al contrario sembrano “chiaramente identificabili” categorie quali le donne poiché il sesso è una caratteristica palese; o persone appartenenti ad un partito politico o ordine professionale in grado di dimostrarne l’iscrizione. La descritta novità normativa dovrebbe rendere più agevole l’individuazione di persone appartenenti a categorie “sicure” e categorie “insicure”, riducendo il margine di errore e indirizzando solo le prime alla procedura accelerata.
Nel contesto normativo descritto si collocano i rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia promossi dal Tribunale di Firenze, ai quali si applicano le norme della direttiva procedure 2013/32/UE, che nulla specificano riguardo a tali eccezioni.
3. I rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia UE e il “punto di vista” del Tribunale di Firenze
L’analisi del quadro normativo non chiarisce il dubbio interpretativo sulla compatibilità al diritto UE della designazione nazionale di Paese di origine sicuri con eccezioni personali, che il Tribunale di Firenze decide giustamente di sottoporre alla Corte di giustizia UE.
Prima di analizzare i dubbi di compatibilità tra la normativa nazionale e il diritto UE, il Tribunale di Firenze tiene a precisare alcune questioni preliminari.
Anzitutto ribadisce il potere del giudice di valutare la legittimità del presupposto della procedura accelerata, ovvero quello “della inclusione della Costa d’Avorio e della Nigeria nella lista dei Paesi di origine sicuri da parte dell’Italia”[20].
In secondo luogo, lo stesso Tribunale chiarisce le ragioni in base alle quali l’esito del predetto sindacato non è quello della disapplicazione del D.M. del 17 maggio 2023, come avvenuto in altri casi concernenti il mantenimento della Tunisia nell’elenco ministeriale.
Secondo il Tribunale la designazione di Paesi di origine sicuri, con eccezioni di categorie di persone, comporta una questione interpretativa del diritto UE, che non è possibile risolvere “senza interpellare la Corte di giustizia sulla corretta interpretazione degli articoli 36 e 37 della Direttiva”[21]. Tale questione interpretativa “non veniva in rilievo in precedenti casi esaminati da questo Collegio”[22], che hanno condotto alla disapplicazione.
Si aggiunga che nel caso della Tunisia, il Tribunale di Firenze aveva sostenuto la sussistenza di un contrasto tra il D.M. e le fonti sovraordinate, le quali avrebbero imposto un obbligo di aggiornamento alla luce dell’evoluzione della situazione del Paese, che non poteva più considerarsi “sicuro” secondo i criteri previsti dalla legge e dalle fonti europee[23]. Proprio tale contrasto aveva giustificato la disapplicazione dell’atto subordinato alla legge. Al contrario, altri Tribunali, investiti di casi analoghi, non hanno optato per la disapplicazione, non riscontrando alcun contrasto tra la fonte primaria e le scelte dell’amministrazione, essendo queste ultime non altro “che la conseguenza prevista dalla legge (europea e italiana)”[24].
Una simile divergenza non potrebbe riguardare il caso di specie in cui è incontrovertibile che la possibilità di designare un Paese sicuro con esclusioni territoriali, elencate negli atti amministrativi, trovi fondamento direttamente dalla legge (art. 2-bis d.lgs. 25/2008). L’opzione della disapplicazione del D.M. è pertanto esclusa e, a ben guardare, il Tribunale di Firenze sceglie un’altra strada, proponendo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Dopo aver chiarito tali questioni preliminari, il giudice motiva - nella sezione dell’ordinanza dedicata al “punto di vista del giudice del rinvio” - i dubbi di compatibilità tra il diritto UE e la normativa nazionale.
In modo molto efficace, i giudici mettono in luce l’illogicità della designazione di Paesi sicuri con eccezioni personali, in particolare in riferimento a due profili: la definizione stessa di Paese sicuro prevista dal diritto UE e dalla direttiva “procedure”; la funzione delle procedure accelerate.
In primo luogo, rispetto alla nozione di Paese sicuro (art. 36, 37 dir. 2013/32/UE), il Tribunale nota come una previsione così ampia di categorie di persone escluse dalla sua stessa applicazione rischi di rendere vani i criteri previsi dalla direttiva 2013/32/UE all’art. 37 e all’allegato I.
Secondo il Tribunale infatti “la possibilità di qualificare un Paese come sicuro con esclusioni di intere categorie di persone a rischio significherebbe consentire, di fatto, ai singoli Stati Membri di qualificare qualunque paese come sicuro, in quanto, in disparte le situazioni di violenza indiscriminata, appare difficilmente individuabile uno Stato dove le discriminazioni riguardano la generalità della popolazione”[25]. Questo effetto paradossale rischierebbe non solo di rendere privi di ogni senso i criteri di designazione di un Paese sicuro previsti dall’art. 37 e dall’allegato I della direttiva, ma di minare lo stesso diritto alla protezione, che si fonda proprio sul presupposto della fuga dalle persecuzioni.
In secondo luogo, la designazione di Paesi sicuri con eccezione di intere categorie di persone può vanificare lo stesso scopo delle procedure accelerate, che dovrebbe essere quello di giungere ad una decisione rapida in tutti quei casi “non problematici”[26].
Tale semplificazione non si addice, secondo il Tribunale di Firenze, alle procedure che coinvolgono Paesi di origine sicura con eccezioni di categorie di persone poiché in tale sede l’autorità procedente dovrebbe “fin dal momento dell’avvio della procedura accertare in tempi brevi che il ricorrente non rientri in una delle predette categorie escluse”.
Tuttavia, come anticipato, molte delle categorie indicate nella “Scheda Paese” presuppongono accertamenti delicati che non possono essere effettuati in tempi rapidi.
In tali procedure, come ampiamente illustrato nelle ordinanze del Tribunale di Firenze, il diritto di difesa e alla tutela giurisdizionale, è fortemente compromesso e lo sarà ancor più nei confronti dei soggetti appartenenti alle categorie escluse[27].
Il Tribunale di Firenze ricorda infatti come, nella prima fase amministrativa delle procedure di esame della domanda, non è prevista l’assistenza legale obbligatoria e pertanto “i ricorrenti vedrebbero dichiararsi la propria domanda come manifestamente infondata senza neppure poter beneficiare dell’effetto sospensivo automatico e quindi della possibilità di permanere sul territorio nazionale”[28]. Nella seconda fase giurisdizionale, che è solo eventuale, i tempi dimezzati del giudizio e la cognizione del giudice vincolata alla presunzione di non fondatezza della domanda sono incompatibili con gli accertamenti complessi di simili vulnerabilità.
In altri termini, la designazione di Paesi sciuri con eccezioni personali comporta il rischio che procedure accelerate, fondante su una presunzione di infondatezza della domanda, vengano a avviate proprio nei confronti di chi fugge da persecuzioni e violazioni di diritti, presupposto dello stesso diritto alla protezione internazionale.
Le criticità descritte inducono il giudice a dubitare della compatibilità della normativa interna non solo con le norme della direttiva “procedure” che disciplinano la nozione e la designazione dei Paesi sicuri (artt. 36, 37 dir. 2013/32/UE), ma anche con il diritto al ricorso effettivo (art. 46 dir. 2013/32/UE), messo in discussione dalle caratteristiche della procedura accelerata non adatte all’accertamento di simili situazioni di persecuzione.
Nello specifico i giudici propongono due questioni pregiudiziali[29].
In via principale, il Tribunale domanda alla Corte di giustizia se il diritto dell’UE e, in particolare, gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32/UE debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro designi uno Stato come Paese di origine sicuro con esclusione di categorie di persone a rischio, nei confronti delle quali non si applica la presunzione di sicurezza e se, quindi, in tal caso, il Paese nel suo complesso non possa essere considerato un Paese di origine sicuro ai fini della direttiva stessa.
In via subordinata, il Tribunale domanda se il diritto dell’UE osti ad una norma nazionale che designi un Paese di origine sicuro con esclusioni personali che, per numero e tipologia, sono di difficile accertamento, considerati i tempi ristretti della procedura accelerata (in particolare “Detenuti; Persone con disabilità fisiche o mentali; Albini; Sieropositivi; Comunità LGBT; Vittime di discriminazione sulla base dell’appartenenza di genere, incluse vittime e potenziali vittime di MGF; Vittime di tratta; Giornalisti” ) e se, quindi, in tal caso, il Paese nel suo complesso non possa essere considerato un Paese di origine sicuro ai fini della direttiva.
Mediante la questione pregiudiziale in via subordinata il Tribunale di Firenze sembra mettersi al riparo dalle possibili conseguenze che potrebbe avere sui casi in esame l’approvazione del regolamento (UE) 2024/1348 del 14 maggio 2024, il quale – pur applicabile solo a partire dal 2026[30] – consente agli Stati di designare Paesi sicuri con eccezioni personali “chiaramente identificabili”.
A prescindere da tale evoluzione normativa, la Corte di giustizia avrà l’occasione di fare chiarezza sulla corretta interpretazione di norme del diritto UE, contenendo prassi statali che rischiano di minare, nel profondo, il diritto alla protezione internazionale e il diritto alla tutela giurisdizionale dei richiedenti protezione.
4. Paesi sicuri, eccezioni personali e l’art. 10, comma 3 della Costituzione
Le ordinanze in commento offrono anche l’occasione per riflettere sulla coerenza della disciplina dei Paesi sicuri e delle eccezioni personali con i principi costituzionali ed in particolare con l’art. 10, comma 3 della Costituzione, il quale oggi deve essere letto alla luce delle evoluzioni del sistema comune europeo di asilo e delle direttive che lo compongono.
A proposito è utile ricordare che il dettato dell’art. 10, comma 3 Cost. non si riferisce in alcun modo alla nazionalità del richiedente protezione, ma individua quale unico presupposto del diritto d’asilo “l’impedimento delle libertà democratiche sancite dalla Costituzione italiana”. La verifica di tale impedimento dovrebbe essere effettuata, secondo quanto ritenuto dai primi autorevoli commentatori dell’art. 10, comma 3 Cost. mediante un “paragone” “tra lo status di fatto dello straniero (e cioè della complessiva situazione in cui si trovi effettivamente tale straniero nel suo Paese) e quella che secondo la Costituzione spetta al cittadino italiano”[31]. Ciò che rileva quindi ai fini del riconoscimento del presupposto del diritto d’asilo non è la mera situazione di “sicurezza” del Paese di origine in astratto, quanto piuttosto l’esito di una valutazione in concreto, effettuata mediante il “paragone” tra la condizione individuale dello straniero nel Paese di origine e le libertà democratiche sancite dalla Costituzione italiana.
Tale valutazione non è del tutto esclusa nell’ambito delle procedure accelerate di cui all’art. 28-bis del d.lgs. 25/2008 che, pur riducendo fortemente la cognizione del giudice essendo fondate su una presunzione di non fondatezza della domanda, consentono al richiedente di invocare “gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova”[32].
Per quanto attiene, invece, in modo specifico a quella parte dell’art. 2-bis, comma 2 che consente di designare un Paese sicuro con eccezioni territoriali o personali, non sono poche le criticità poste dalla norma, in riferimento ai principi costituzionali.
Anzitutto, tra le problematiche in relazione all’art. 10, comma 3 Cost. vi è quella concernente il rispetto della riserva di legge prevista dalla disposizione costituzionale che impone che le “condizioni” dell’asilo siano disciplinate dalla legge. Secondo la dottrina si tratta di una “riserva di legge assoluta per la fissazione delle condizioni cui potrà essere eventualmente sottoposto il diritto in esame, essendo rigorosamente escluso che la materia sia disciplinata da norme di fonte secondaria, fatta eccezione per i regolamenti di stretta esecuzione. A maggior ragione non sono possibili provvedimenti discrezionali del potere esecutivo”[33]. Ora, non si potrebbe affermare che l’inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri nel Decreto ministeriale e la previsione di categorie personali escluse nelle “Schede Paese” influenzi le condizioni del diritto d’asilo?
Anche a voler ritenere la riserva di legge meramente relativa il problema si pone ugualmente. Lo scopo della riserva di legge, seppur relativa, resta quello di limitare la discrezionalità dell’amministrazione nel riconoscimento di un diritto costituzionale.
Da questo punto di vista, è opportuno segnalare che il D.M. “Paesi sicuri” non avendo seguito la procedura di cui all’art. 17 della legge 400 del 1988 e mancando il parere del Consiglio di Stato, è di dubbia natura, potendo costituire tanto un atto normativo (fonte secondaria), quanto un atto amministrativo a contenuto generale[34].
Indipendentemente dalla natura del D.M., nel caso in esame, la fonte legislativa si limita a consentire la designazione di Paesi con eccezioni di categorie personali, senza indicare i criteri di individuazione di tali categorie.
Peraltro, né le categorie personali, né i relativi criteri di individuazione sono previsti dal D.M. di attuazione bensì in meri atti amministrativi – senza obbligo di pubblicazione - le “Schede Paese” allegate ad un Appunto del Ministero degli esteri. La discrezionalità dell’amministrazione nello scegliere i Paesi sicuri e le categorie escluse – incidendo così sulle “condizioni” di riconoscimento del diritto d’asilo - sembra ben più ampia di quella consentita dalla Costituzione.
Inoltre, la designazione di Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone sembra porre criticità dal punto di vista del contenuto del diritto d’asilo (art. 10, comma 3 Cost.), del diritto di difesa e tutela giurisdizionale (art. 24 e 113 Cost.), nonché del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Su questi profili si potrebbero riproporre le convincenti argomentazioni del Tribunale di Firenze che varrebbero anche in riferimento a tali principi costituzionali.
Per quanto attiene alla ragionevolezza della scelta legislativa, l’estensione della nozione di Paese sicuro anche a Paesi con esclusioni di categorie di persone pare contraria alla stessa ratio legis, che dovrebbe essere quella di individuare i contesti “sicuri” di provenienza dei richiedenti asilo per giungere agilmente a decisioni di manifesta infondatezza. Al contrario la previsione di eccezioni sembra vanificare l’applicazione dei criteri sanciti all’art. 2-bis d.lgs. n. 25/2008 ai fini della designazione di sicurezza del Paese, nonché gli stessi presupposti del diritto d’asilo.
Le categorie ritenute particolarmente a rischio di persecuzioni, torture, violenze, violazioni di diritti, come quelle elencate nelle “Schede Paese” di Nigeria e Costa D’Avorio, si trovano con tutta probabilità in una situazione di “impedimento delle libertà democratiche sancite dalla Costituzione italiana” (art. 10, comma 3 Cost.) o in una condizione (persecuzione individuale, violazione generalizzata di diritti umani) che dà diritto al riconoscimento di una delle forme di protezione (status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione speciale) che oggi attuano il disposto costituzionale (art. 10, comma 3 Cost.)[35].
Come visto, queste eccezioni hanno l’effetto irragionevole di avviare all’esame accelerato fondato su una presunzione di non fondatezza della domanda, richieste di persone che fuggono da una situazione di impedimento delle libertà democratiche della Costituzione italiana, le quali dovrebbero essere le prime destinatarie delle procedure di asilo.
Ancora, come ben argomentato dal Tribunale di Firenze in relazione ai principi europei, in questi casi risulta particolarmente limitato il diritto alla tutela giurisdizionale e del diritto difesa, che – è bene ricordarlo – rientra tra quei diritti che attengono alla persona umana e spettano a tutti, indipendentemente dalla cittadinanza o dal titolo di soggiorno (art. 24 Cost. e 113 Cost.)[36].
Peraltro si ostacola l’accesso alla tutela giurisdizionale nei confronti di chi invece ha più bisogno di giustizia, essendo soggetto a discriminazioni e persecuzioni (art. 2 e art. 3 Cost.).
Come si accennava, dunque, le argomentazioni del Tribunale di Firenze potrebbero essere utilizzate anche per argomentare riguardo al dubbio di legittimità costituzionale sull’art. 2-bis, con una importante differenza che riguarda la questione pregiudiziale in via subordinata.
A differenza del diritto dell’UE, che nelle sue ultime evoluzioni, sembra ammettere la previsione di eccezioni personali purché “chiaramente identificabili” (reg. UE 2024/1348), la Costituzione non consente, in ogni caso, di lasciare un così ampio margine di discrezionalità all’autorità amministrativa, la quale non può avere il potere di scegliere le “condizioni” di un diritto costituzionale.
5. Un’altra possibile via? La questione di costituzionalità
Alla luce delle criticità costituzionali evidenziate si ritiene che il Tribunale di Firenze avrebbe potuto scegliere anche una strada diversa da quella del rinvio pregiudiziale. Certamente, trattandosi di una questione di interpretazione del diritto UE, ben ha fatto il giudice a proporre il rinvio pregiudiziale.
Tuttavia, come si è argomentato nei precedenti paragrafi, l’art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. 25/2008 sembrerebbe porre dubbi di legittimità sia in riferimento alle norme del diritto dell’Unione (artt. 36, 37 e 46 della dir. 2013/32/UE), sia in riferimento alla Costituzione italiana (artt. 2, 3, 10, comma 3, 24, 113, 117, comma 1 Cost.).
In simili questioni, contraddistinte quindi da una c.d. doppia pregiudizialità, secondo l’orientamento della Corte costituzionale avviato a partire dalla sentenza 269 del 2107[37] “va preservata l’opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.), precisando che, in tali fattispecie, la Corte costituzionale giudicherà alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato”[38].
Il giudice avrebbe potuto sollevare questione in relazione agli artt. 2, 3, 10, comma 3, 24, 113, 117, comma 1 Cost., evidenziando l’irragionevolezza della scelta legislativa, il suo impatto sul diritto d’asilo, sul diritto di difesa e alla tutela giurisdizionale, nonché il contrasto con le norme della direttiva procedure più volte richiamate.
Inoltre, è importante precisare che, anche alla luce dei principi costituzionali, ben ha fatto il giudice a non disapplicare il D.M., come avvenuto in altri casi già citati, poiché la presunta violazione dei principi costituzionali non deriva dalla mera previsione delle categorie di persone escluse per mano di atti amministrativi, ma trova giustificazione nella legge che espressamente consente all’amministrazione di prevederle.
A proposito sembra utile richiamare alcuni passaggi della sentenza n. 15 del 2024 della Corte costituzionale che - pur riguardando una questione del tutto peculiare attinente al rito antidiscriminatorio - fa chiarezza sui rapporti tra fonti. La Corte precisa che nel caso in cui il comportamento illegittimo della pubblica amministrazione “trovi origine nella legge, in quanto è quest’ultima a imporre, senza alternative, quella specifica condotta, allora l’attività illegittima è ascrivibile alla pubblica amministrazione soltanto in via mediata, in quanto alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere illegittime sta, appunto, la legge[39]”.
In evenienze del genere, non è possibile procedere alla disapplicazione di norme “che siano riproduttive di norme legislative” (…), ma questo rimedio sarebbe subordinato all’accoglimento “della questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa che il giudice ritenga essere causa della natura illegittima dell’atto regolamentare”[40].
Ecco che allora, in conclusione si propone una riflessione.
Nell’ambito delle procedure di asilo, specialmente nell’ambito di quelle di recente introduzione accelerate e di frontiera, i giudici sono costretti a confrontarsi con discipline che limitano fortemente i diritti costituzionali della persona, come il diritto di difesa, la libertà personale, il diritto di asilo. Tali limitazioni, seppur in un settore dominato da un complicato intreccio di atti amministrativi e fonti secondarie, trovano tendenzialmente giustificazione in chiare scelte legislative, spesso di recepimento di atti dell’UE.
È innegabile, infatti, che il legislatore europeo e nazionale stiano potenziando le procedure accelerate e di frontiera, tramite misure di dubbia compatibilità con i principi costituzionali, prevedendo forme sempre più limitative del diritto d’asilo, del diritto di difesa ed estendendo i casi di trattenimento dei richiedenti protezione internazionale.
Tale contesto non può esimere i giudici dall’interrogarsi sulla coerenza di tali scelte legislative con i principi costituzionali: l’unico rimedio per non contraddire l’intenzione generale del legislatore e allo stesso tempo tentare di assicurare, con efficacia erga omnes, i diritti costituzionali, è il sollevamento della questione di costituzionalità. I tempi sono maturi?
[1] Trib. Firenze, Sez. specializzata protezione internazionale, ord. del 15 maggio 2024 (r.g. 3303/2024); ord. del 15 maggio 2024 (r.g. 3303/2024)
[2] Decreto del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, “Aggiornamento periodico della lista dei Paesi di origine sicuri per i richiedenti protezione internazionale”, del 17 maggio 2023, che ha aggiornato la versione antecedente del Decreto “Individuazione dei Paesi di origine sicuri, ai sensi dell'articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25”, del 4 ottobre 2019. Di recente la lista dei Paesi sicuri è stata nuovamente aggiornata con Decreto del 7 maggio 2024.
[3] Cfr. Appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, richiamato nella premessa del D.M. del 17 maggio 2023, al quale sono allegate le “Schede Paese”.
[4] La norma consente anche la designazione di un Paese sicuro con eccezioni di parti del territorio. Su questo specifico aspetto è pendente un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE promosso dal Tribunale di Brno (C 406-22). Il presente commento si concentrerà sul tema delle eccezioni personali, oggetto delle ordinanze del Tribunale di Firenze.
[5] Cfr. Scheda Paese della Nigeria, del 3 novembre 2022, allegata all’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, pubblicata sul sito di ASGI.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. Scheda Paese della Costa di Avorio, del 21 ottobre 2022, allegata all’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, pubblicata sul sito di ASGI.
[8] Ci si riferisce ai decreti adottati in sede cautelare (ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 e 737 c.p.c.) dal Tribunale di Firenze, il quale ritenendo illegittimo l’inserimento della Tunisia nella lista dei Paesi sicuri ha disapplicato il D.M. del 17 maggio 2023 cfr. decreti del 20.9.2023 (r.g. 9787/2023) e del 26.11.2023 (r.g. 11464-1/2023; r.g. 4988-1/2022; r.g. 3773-3/2023); in senso contrario si vedano Tribunale di Milano, decreti del 1.12.2023 (r.g. 38586-1/2023() e del 6 maggio 2024 (r.g. 14740-1/2024); Tribunale Firenze, decreto del 11.1.2024. A commento di questa giurisprudenza, in particolare sul potere del giudice di disapplicazione del giudice ordinario cfr. C. Cudia, Sindacabilità e disapplicazione del decreto Ministeriale di individuazione dei “paesi di origine Sicuri” nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria, in Dir. Imm. Citt., 2/2024; A. De Santis, Sulla disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile. Il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2/2024.
[9] Ci si riferisce al Nuovo Patto UE sulla migrazione, del 14 maggio 2024.
[10] Per un approfondimento sull’evoluzione di tale concetto cfr. F. Venturi, Il diritto di asilo: un diritto “sofferente”. L’introduzione nell’ordinamento italiano del concetto di «Paesi di origine sicuri» ad opera della l. 132/2018 di conversione del c.d. «Decreto Sicurezza» (d.l. 113/2018), in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2/2019.
[11] Artt. 29 e 30 dir. 2005/85/CE.
[12] CGUE, 6.5.2008 (n. C-133/06). La Corte ha censurato l’incompetenza del Consiglio in materia.
[13] Cfr. Cons. 2005/85/CE n. 18: “Visto il grado di armonizzazione raggiunto in relazione all’attribuzione della qualifica di rifugiato ai cittadini di paesi terzi e agli apolidi, si dovrebbero definire criteri comuni per la designazione dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri”.
[14] Cfr. Direttiva 2013/32/UE: procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale; nella proposta e nella relazione accompagnatoria si evince la volontà della Commissione di eliminare tale previsione cfr. Com (2011)319 def., 1giugno 2011. Si veda su questo punto anche la motivazione dell’ordinanza del 15 maggio 2024 del Trib. di Firenze, p. 19.
[15] Argomenta molto bene sul punto il Trib. di Firenze cfr. ord. 15 maggio 2024, p. 18.
[16] Proposta di modifica n. 7.0.500 al DDL n. 840, 2 novembre 2018, n. 2.
[17] Cfr. Proposta emendativa pubblicata nel Bollettino delle Giunte e Commissioni del 21/11/2018, 7-bis.
[18]Cfr. A. Radjenovic, European Parliamentary Research Service, Members’ Research Service Safe country of origin’ concept in EU asylum law, may 2024, p. 7.
[19] Il Regolamento è stato approvato nell’ambito del Nuovo Patto UE sulla migrazione, del 14 maggio 2024.
[20] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 10 e p. 12.
[21] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 17 e p. 20.
[22] Ibidem.
[23]Cfr. Trib. Firenze, decreti del 20.9.2023 (r.g. 9787/2023), del 26.11.2023 (r.g. 11464-1/2023; r.g. 4988-1/2022; r.g. 3773-3/2023), cit.
[24] Cfr., ad esempio, Trib. Milano, decreto del 6 maggio 2024 (r.g. 14740-1/2024). In senso analogo cfr. Tribunale di Milano, decreti del 1.12.2023 (r.g. 38586-1/2023); Tribunale Firenze, decreto del 11.1.2024, cit.
[25] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 18 e p. 22.
[26] Cfr. cons. 20, dir. 2013/32/UE.
[27] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 11 e p. 12.
[28] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 20 e p. 24.
[29] Trib. Firenze, ordd. 15 maggio 2024, p. 22 e p. 26.
[30] Cfr. Art. 79, par. 2 regolamento (UE) 2024/1348.
[31] C. Esposito, Asilo (diritto di) – Diritto costituzionale, in Enciclopedia del Diritto – Volume III, 1958, p. 223.
[32] Cfr. art. 2-bis, comma 5, d.lgs. 25/2008.
[33] R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Art. 10. Costituzione commentata, One legale, 2024, p. 22.
[34] Sulla natura dubbia del D.M. cfr. Consiglio di Stato sez. IV - 19/06/2024, n. 5476. In dottrina su questi atti cfr. F. Massa, Regolamenti amministrativi e processo, Jovene, Napoli, 2012, p. 15.
[35] È noto che secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, l’art. 10, comma 3 Cost. “è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario” cfr. ex multis Cass., sez. VI, ord. 10686/2012, richiamata anche dalla Corte costituzionale nella sent. n. 194 del 2019.
[36] Cfr. C. cost. sent. n. 222 del 2004.
[37] Sulle permanenti ragioni della sent. n. 269 del 2017 si veda N. Zanon, Ancora in tema di doppia pregiudizialità: le permanenti ragioni della “precisazione” contenuta nella sentenza n. 269 del 2017 alla “grande regola” Simmenthal-Granital, in B. Carotti, Identità nazionale degli stati membri, primato Del diritto dell’unione europea, stato di Diritto e indipendenza dei giudici nazionali, Roma, ottobre 2022, pp. 79 ss.
[38] C. cost. sent. n. 20 del 2019, cons. in dir. 2.1. A commento della giurisprudenza della Corte costituzionale sulla c.d. doppia pregiudizialità sono particolarmente utili gli studi di M. D’Amico, La “resilienza” della carta dei diritti fondamentali dell’UE, in C. Amalfitano, M. D’Amico, S. Leone, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel sistema integrato di tutela, Giappichelli, Torino, 2022, pp. 243 ss., nonché di S. Catalano, Doppia pregiudizialità: una svolta ‘opportuna’ della Corte costituzionale, in Federalismi, 10/2019; S. Leone, Il regime della doppia pregiudizialità alla luce della sentenza n. 20 del 2019 della Corte costituzionale, in Rivista Aic, 3/2019: A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, in Osservatorio sulle fonti, 1/2020.
[39] C. cost. sent. n. 15 del 2024, cons. in dir. 7.3.2; rispetto al testo della sentenza la parola discriminatorio è stata sostituita con illegittimo.
[40] Ibidem.
Immagine: l'impiego della bussola, nella miniatura di una copia (sec. XV) del Livre des Merveilles du Monde di Marco Polo, via Wikimedia Commons.
Sullo stesso tema, si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024, Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario di Fabio Gianfilippi, pubblicato il 10 luglio 2024, Osservazioni sugli interventi in materia di Liberazione anticipata e misure in materia penitenziaria di cui al Decreto legge n. 92 del 4 luglio 2024. Audizione presso la Commissione Giustizia del Senato in materia di D.L. 92 del 2024, 10 luglio 2024 di Maria Cristina Ornano, pubblicato il 15 luglio 2024.
La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. I nuovi contenuti della legge - 2. Ancora sulla liberazione anticipata. A) una piccola modifica e una grande perdita - 3. segue… B) Prime questioni applicative e uno sguardo dentro le mura - 4. Il nuovo comma 9-bis dell’art. 656 cod. proc. pen.: la faticosa (infruttosa?) ricerca di una ratio - 5. Il nuovo comma 9-ter dell’art. 656 cod. proc. pen.: speciale attenzione alle condizioni di salute compromesse - 6. Adempimenti gravosi in materia di misure di sicurezza detentive di tipo psichiatrico - 7. Una modifica all’affidamento in prova e i rischi di una coperta troppo corta.
1. I nuovi contenuti della legge. Al Parlamento sono bastati appena trentacinque giorni per convertire in legge le disposizioni contenute nel decreto-legge c.d. “Carcere sicuro” n. 92/2024. Trentacinque giorni di caldo torrido, di crescente sovraffollamento carcerario, di nuovi suicidi dietro le sbarre, di critiche diffuse circa i contenuti deludenti del testo, di esortazioni, anche formalmente rese nel corso delle audizioni svolte in Senato, a correggere e integrare quanto contenuto nella decretazione d’urgenza[1].
In effetti le correzioni effettuate sono meno che sporadiche, mentre le integrazioni, invece copiose, non sembrano rispondere alle richieste largamente pervenute al Parlamento, soprattutto quelle volte a immaginare interventi di pronto risultato per mettere mano alla situazione di sovraffollamento drammatico, che sempre più si riscontra nelle nostre carceri.
Richiamandoci in questo contributo ai rilievi già svolti a prima lettura in ordine al decreto-legge[2], si proverà, nei paragrafi seguenti, a concentrarsi sulle novità che più strettamente coinvolgono le competenze dirette della magistratura di sorveglianza. È comunque necessario almeno accennare ad alcuni importanti nuovi contenuti della legge di conversione, di cui non vi era traccia nel decreto-legge 92.
Ci si riferisce in particolare ad alcune disposizioni concernenti il servizio sanitario operante presso gli istituti penitenziari e, soprattutto, all’ampio art. 6-bis, che prova a fluidificare le comunicazioni di dati in materia sanitaria delle persone detenute tra Ministero della salute e Ministero della Giustizia, sicuramente utile in un settore in cui da tempo si riscontravano criticità.
Un capitolo a parte meriterebbe poi la (ri)creazione della figura di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, di cui all’art. 4-bis della legge di conversione, “per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento” secondo l’incipit del co. 1. Si tratterà di una figura, nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e trasporti, chiamato a compiere tutti gli atti necessari a realizzare “nuove infrastrutture penitenziarie” e “opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti”.
Si tratta, in buona sostanza, di un programma di lavoro vasto ed ambizioso, quanto meno a medio, se non a lungo, termine, del quale occorrerà seguire con attenzione il concreto sviluppo. Occorrerà monitorare attentamente obbiettivi specifici, tempistiche, modalità attuative, priorità di interventi, ben consci comunque che da tempo le raccomandazioni europee sottolineano come l’incremento di posti disponibili nelle strutture penitenziare debba costituire una misura del tutto eccezionale, per la sua incapacità di risolvere il problema e di durare: in sostanza i posti in più si saturano rapidamente.
E non è ovviamente soltanto un problema di allocazioni, come tanto gli stati Generali dell’esecuzione penale, quanto in seguito l’istituzione di una Commissione per l’architettura penitenziaria avevano sottolineato, ma dell’esistenza o meno di un progetto risocializzante connesso agli spazi detentivi e al loro significato. E c’è, non da ultimo, il problema di risorse umane già allo stato del tutto insufficienti e rispetto al potenziamento delle quali l’ampliamento degli spazi finisce per essere decisamente secondario. Il carcere è certamente assai più duro, infatti, dove diventa un mero contenitore di corpi, abbandonati ad una quotidianità deprivata di opportunità di contatto con operatori ed operatrici in grado di costruire con le persone dei credibili percorsi di rientro in società.
2. Ancora sulla liberazione anticipata. A) una piccola modifica e una grande perdita. Come più ampiamente si è provato a dire alla prima lettura di quelle disposizioni, il decreto-legge 92 ha previsto che la liberazione anticipata venga ordinariamente concessa dalla magistratura di sorveglianza d’ufficio in occasione della valutazione di ammissibilità dei benefici penitenziari e in vista del fine pena, con una residualità dell’istanza di parte che, per essere ammissibile, deve contenere il riferimento ad un interesse specifico e ulteriore. A monte di questa rarefazione dei momenti in cui si può ottenere il provvedimento da parte della sorveglianza che sancisce la partecipazione all’opera rieducativa tenuta, è stato previsto l’obbligo per il PM che emette l’ordine di esecuzione di informare il condannato che, mediante il proprio comportamento, potrà ottenere una riduzione pena per buona condotta, così anticipando il proprio fine pena sino alla data che viene indicata (fine pena virtuale).
Il nuovo meccanismo concessivo della liberazione anticipata ha superato il vaglio del Parlamento, con una sola rilevante modifica, decisamente migliorativa, ma di dettaglio. Si prevede, infatti, nell’art. 54 co. 2 ord. penit., che siano comunicate al PM dell’esecuzione le concessioni di liberazione anticipata emesse dal magistrato di sorveglianza, e non soltanto le “mancate concessioni” o le revoche, sanando così un difetto evidente della disposizione pensata con il decreto-legge, che di fatto non avrebbe consentito al PM competente di aggiornare il fine pena reale del condannato a fronte della concessione del beneficio.
Resta, tuttavia, quello che a chi scrive appare come un grave vulnus al senso stesso della liberazione anticipata come vera e propria cartina di tornasole, non a caso opportunamente semestralizzata dal legislatore, del comportamento tenuto dalla persona condannata. Un congegno dialogico che, mediante le istanze di parte, semestre per semestre, consente all’interessato di orientare il proprio comportamento, e al magistrato di sorveglianza di studiare gradualmente le evoluzioni personologiche del condannato. Un meccanismo che fornisce un riscontro importante anche all’istituto penitenziario, e una risposta, il più possibile tempestiva, rispetto alle condotte negative poste in essere, a fronte delle quali il rigetto costituisce stimolo a far meglio nel seguito.
Occorre ricordare[3] che, nei primi tempi di vigenza dell’allora nuovo istituto della liberazione anticipata, la stessa Corte Costituzionale, con la sent. 276/1990, ebbe a sottolineare come la valutazione semestralizzata della concessione della liberazione anticipata fosse “il punto di forza dello strumento rieducativo, che si ricollega alle esperienze ed agli insegnamenti della terapia criminologica”.
Ed ancora: “(L)'aspetto sintomatico del comportamento delinquenziale è dato dall'incapacità del soggetto a risolvere i problemi della sua vita attraverso mezzi e per vie socialmente accettabili: e ciò soprattutto perché non ha attitudine a sopportare sacrifici e fatiche nella prospettiva di un bene futuro. Questo aspetto negativo della personalità, ovviamente presente quando il condannato viene sottoposto a trattamento rieducativo, gli preclude ogni incentivo a prestare una per lui sacrificante partecipazione all'azione di risocializzazione, se il premio è rappresentato da una liberazione condizionale o da una semilibertà poste temporalmente a distanza di anni, e talvolta di molti anni. Ecco allora lo strumento di grande valore psicologico rappresentato da una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in breve lasso di tempo, purchè in quel tempo egli riesca a dare adesione all'azione rieducativa. Certo, nei primi semestri la spinta psicologica sarà necessariamente eteronoma. Il condannato potrà nutrire scarsa convinzione nell'utilità etica del suo comportamento, ma intanto presterà la sua partecipazione in vista del premio a portata di mano. Poi, via via che, di semestre in semestre, moltiplicherà i suoi sforzi per accumulare benefici l'uno sull'altro, la perseveranza finirà per formare lentamente un comportamento abitudinario, su cui è possibile lo sviluppo di un diverso modo di essere, conseguente alla soddisfazione per i risultati raggiunti e alla fiducia acquisita nelle forze del proprio impegno.”
Sotto questo profilo deve dunque paventarsi una possibile frizione con i principi costituzionali, nella previsione di un procedimento che sia solo residualmente a istanza di parte, collegata alla allegazione di un interesse specifico.
3. segue… B) Prime questioni applicative e uno sguardo dentro le mura. Nonostante fosse stata segnalata come problematica l’assenza di disposizioni intertemporali, le stesse non hanno trovato spazio nella legge di conversione. La situazione attuale non è, perciò, particolarmente chiara, innanzitutto ai destinatari del beneficio, ma anche ai molti operatori ed operatrici che lavorano intorno alla liberazione anticipata.
Secondo il principio del tempus regit actum, la nuova normativa trova fin da subito applicazione. Anche prima, si direbbe, della necessaria messa a punto delle disposizioni del regolamento di esecuzione (che per altro meriterebbe una attualizzazione nel suo complesso, come ampiamente tentato, inascoltata, dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nel 2021). Non è più necessario, tra l’altro, chiedere il preventivo parere, in precedenza obbligatorio, al pubblico ministero della sede dell’ufficio di sorveglianza. Le Procure della Repubblica stanno emettendo ordini di esecuzione comprensivi del calcolo del “fine pena virtuale” soltanto in relazione alle pene da porre in esecuzione dall’entrata in vigore del decreto – legge, oppure quando occorre mettere mano ad un ordine già emesso, per qualche modifica, come ad esempio il sopravvenire di un ulteriore titolo. Ciò significa che la grandissima parte delle persone attualmente detenute in esecuzione pena non hanno ancora ricevuto, e forse mai riceveranno, un ordine di esecuzione con lo “specchietto” dei semestri di liberazione anticipata che possono ottenere, con relativa quantificazione del fine pena virtuale.
Rispetto a queste persone, perciò, sembra di poter dire che residui un interesse intrinseco ad avere ancora la pronuncia semestralizzata da parte del magistrato di sorveglianza, perché la nuova legge fa fronte al venir meno della possibilità di richiedere il beneficio quando si vuole, mentre si fornisce al condannato una chiara indicazione di che misura avranno via via le riduzioni pena che otterrà. Una situazione che non riguarda la grandissima parte di chi era in esecuzione penale all’entrata in vigore della legge.
Allo stato, i primi ordini di esecuzione emessi con il computo del fine pena virtuale non sono, in alcuni casi, esenti da profili critici. Il testo normativo sembra correttamente indicare che nel provvedimento debbano essere intanto contenuti certamente il fine pena reale al fianco di quello virtuale, ma anche le singole possibili detrazioni, e non dunque soltanto la sommatoria delle stesse. Il meccanismo di concessione della liberazione anticipata, infatti, prevede che l’interessato possa contare, giorno per giorno, ai fini dell’ammissibilità dei benefici penitenziari, non già di tutte le possibili detrazioni, ma soltanto di quelle per le quali ha già espiato la relativa pena. Appaiono quindi forieri di dubbi gli ordini di esecuzione che citano soltanto il fine pena virtuale “finale”, con il rischio che l’interessato ritenga di poter lucrare sin da subito un beneficio che occorre invece maturare via via.
Allo stesso modo il computo semestre per semestre fuga anche il rischio di una indicazione errata del fine pena virtuale “finale”, che deriva dal mero computo dei semestri astrattamente ottenibili (ad es.: tre anni di pena = sei semestri), perché in realtà la progressiva concessione delle riduzioni di pena da quarantacinque giorni ciascuna, determina una riduzione del fine pena che non consente il completamento di tutti i semestri astrattamente da eseguirsi (nello stesso esempio: con tre anni di pena possono completarsi soltanto cinque semestri).
Quanto agli uffici matricola degli istituti penitenziari, c’è da attendersi che l’amministrazione attui opportune modifiche, come già in qualche caso si è notato, rendendo visualizzabile in posizione giuridica entrambi i fine pena: reale e virtuale. Dove ciò non accade è infatti piuttosto grave il rischio che si faccia confusione e si tenga conto soltanto di quest’ultimo.
Una corretta informazione delle persone detenute appare una precondizione per evitare che le nuove disposizioni normative ingenerino dubbi e un profluvio di istanze inammissibili. Per il momento già iniziano a pervenire istanze volte ad ottenere dal magistrato di sorveglianza, o dall’ufficio di Procura, la concessione di tutti i semestri sino al fine pena, fraintendendo il senso della comunicazione del fine pena virtuale, e vi è il rischio di una molteplicità di istanze di beneficio penitenziario inammissibili, perché basate su computi erronei.
4. Il nuovo comma 9-bis dell’art. 656 cod. proc. pen.: la faticosa (infruttosa?) ricerca di una ratio. La legge di conversione ha introdotto, nell’art. 5 della legge, rubricato come “Interventi in materia di liberazione anticipata” un comma 9-bis all’art. 656 cod. proc. pen. La novella introduce la previsione secondo la quale il pubblico ministero, prima di emettere un ordine di esecuzione[4], trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza perché questi disponga la detenzione domiciliare in via provvisoria, fino a decisione del Tribunale di sorveglianza, in favore del condannato ultrasettantenne, ove la pena che questi deve espiare sia compresa tra due e quattro anni. La previsione non riguarda tuttavia i condannati per i delitti contenuti nell’art. 51 co. 3-bis cod. proc. pen. e per quelli compresi nell’art. 4-bis ord. penit.
L’interpretazione della nuova previsione non è ardua per la lettera del testo, ma per la difficoltà di comprendere quale obbiettivo il legislatore abbia in questo caso perseguito. Deve infatti ricordarsi che ordinariamente l’esecuzione delle condanne a pene non superiori ai quattro anni, ai sensi dell’art. 656 co. 5 cod. proc. pen., resta sospesa in attesa delle valutazioni della magistratura di sorveglianza. Nel caso che ci occupa, rispetto ad una tipologia di condannato specialmente fragile, quella degli ultrasettantenni, la modifica si rivela di fatto un irrigidimento, perché l’interessato, invece di attendere dalla libertà una pronuncia della sorveglianza che in ipotesi gli conceda la più favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, deve ora da subito espiare la propria pena in detenzione domiciliare, salvo l’attesa, verosimilmente piuttosto lunga, tenuto conto delle difficoltà in cui versano i Tribunali di sorveglianza, di una decisione sulla misura alternativa più ampia.
Alla sospensione di cui all’art. 656 co. 5 cod. proc. pen., non possono accedere i condannati per reati di 4-bis ord. penit., ma gli stessi sono esclusi anche dalla disposizione introdotta, nonché gli autori degli altri reati indicati nell’art. 656 co. 9 lett. a). Soltanto per questi ultimi (maltrattanti, autori di incendio boschivo o di atti persecutori di speciale gravità, …), dunque, la disposizione evita che si schiudano le porte del carcere ed introduce la possibilità di una immediata concessione di misura comunque meno gravosa di quest’ultimo. Si tratta però di numeri davvero esigui, considerata da un lato la tipologia di reati e dall’altro l’età dei suoi autori al momento dell’esecuzione penale.
5. Il nuovo comma 9-ter dell’art. 656 cod. proc. pen.: speciale attenzione alle condizioni di salute compromesse. La conversione in legge ha costituito l’occasione per l’introduzione di una ulteriore peculiare previsione, a mente della quale, ancor prima dell’emissione dell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette al magistrato di sorveglianza gli atti perché disponga la detenzione domiciliare in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza, nei confronti del condannato cui siano stati già concessi gli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.
La novella consente dunque di evitare il carcere a quei soggetti che non avrebbero potuto beneficiare del meccanismo di cui all’art. 656 co. 10 cod. proc. pen. in ragione del fine pena residuo o della tipologia di delitti per i quali si è giunti a condanna, entrambi profili che, comprensibilmente rispetto alle gravissime condizioni di salute cui si ricollega la previsione, risultano recessivi.
Resta invece ancora una volta non affrontato lo spinoso tema del condannato in condizioni di salute gravi, di cui ci si avveda al momento dell’emissione di un ordine di esecuzione, con trasmissione (ai sensi dell’art. 108 reg. es. ord. penit.) al magistrato di sorveglianza affinché decida secondo l’art. 684 cod. proc. pen.
In questi casi non sempre l’ordine di esecuzione viene contemporaneamente sospeso in attesa della, pur urgente, pronuncia provvisoria, con conseguente “assaggio” di carcere nei confronti di un soggetto dalla salute in ipotesi compromessa.
6. Adempimenti gravosi in materia di misure di sicurezza detentive di tipo psichiatrico. All’interno dell’art. 10 della legge 112, destinato a contenere una miscellanea di interventi dalle finalità diverse (come deducibile dalla rubrica omnibus), si leggono alcune previsioni acceleratorie specialmente onerose, contenute nel nuovo art. 658-bis e poi in un comma 1-bis dell’art. 679 cod. proc. pen.
In sostanza si prevede che, quando è disposta in condanna una misura di sicurezza da eseguirsi in REMS, il pubblico ministero deve chiedere al magistrato di sorveglianza, senza ritardo, e comunque entro cinque giorni, la fissazione dell’udienza per gli accertamenti relativi all’attualità della pericolosità sociale ex art. 679.
In quest’ultima disposizione si legge come, su tale richiesta, il magistrato di sorveglianza debba provvedere alla fissazione dell’udienza senza ritardo, e comunque entro cinque giorni dalla richiesta medesima. La previsione lascia adito a dubbi interpretativi. È chiaro che il legislatore intende sollecitare la più rapida definizione del procedimento, e tuttavia il termine di almeno dieci giorni prima dell’udienza, indicato per l’avviso alle parti dall’art. 666 co. 3 cod. proc. pen., non appare venuto meno. Deve quindi ritenersi, affinché entrambe le disposizioni siano rispettate, che il termine oggi previsto dall’art. 679 co. 1-bis ord. penit., di natura comunque meramente ordinatoria, concerna la sola fissazione dell’udienza, la cui data non potrà che essere successiva ai cinque giorni, per consentire corretti avvisi alle parti.
Fino alla decisione, comunque, la novella prevede che permanga la misura di sicurezza provvisoria, applicata ai sensi dell’art. 312 cod. proc. pen., con computo del tempo trascorso a tutti gli effetti di legge. Si prevede, altresì, che il pubblico ministero possa richiedere al magistrato di sorveglianza che questi disponga una misura di sicurezza provvisoria, nelle more della decisione.
Per come accennato, si tratta di un congegno che grava procure e magistratura di sorveglianza di una serie di adempimenti urgenti che, tuttavia, corrono il rischio di scontrarsi, ad una prova di realtà, contro il noto problema di REMS che non dispongono di spazi disponibili per accogliere chi deve eseguire una misura di sicurezza detentiva psichiatrica e che, perciò, anche a fronte di una sollecita pronuncia, potrebbero non condurre al risultato sperato. La possibilità di disporre una misura di sicurezza in via provvisoria, non già disposta nel corso del processo di cognizione, per quanto – si direbbe – non solo quella detentiva, da parte del magistrato di sorveglianza, inaudita altera parte, non è per altro privo di criticità per la forte carenza di garanzie che ne deriva.
7. Una modifica all’affidamento in prova e i rischi di una coperta troppo corta. Nella legge di conversione (art. 10-bis) è stata prevista persino una modifica dell’art. 47 ord. penit., la disposizione che concerne l’affidamento in prova al servizio sociale, il fiore all’occhiello (secondo l’arcinota definizione di Bricola) dell’ordinamento penitenziario.
Vi si chiarisce che la ampia misura alternativa non debba essere concessa soltanto a chi disponga di opportunità di reinserimento connesse alla possibilità di svolgere una attività lavorativa, sia di tipo autonomo che dipendente, ma anche quando, in sostituzione, possa accedere ad un idoneo servizio di volontariato o ad attività di pubblica utilità, senza remunerazione, nelle forme e con le modalità di cui agli articoli 1, 2 e 4 del decreto del Ministro della Giustizia 26.03.2001, in quanto compatibili, nell’ambito di piani di attività predisposti entro il 31 gennaio di ogni anno, di concerto tra gli enti interessati, le direzioni penitenziarie e gli uffici per l’esecuzione penale esterna e comunicati al presidente del tribunale di sorveglianza territorialmente competente.
La giurisprudenza di legittimità già da tempo considera che ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale non sia necessaria la sussistenza di un lavoro, ad esempio perché la persona non può svolgerlo per ragioni di età o di salute (cfr. cass. 1023/2018 e, più di recente, 14003/2023), ma anche quando il lavoro non sia altrimenti disponibile, potendo questo requisito essere surrogato da un'attività socialmente utile anche di tipo volontaristico (vd., già, cass. 18939/2013).
La novella, dunque, sotto questo profilo, sembra ricalcare spazi già percorsi, ed in effetti è esperienza quotidiana che, nel merito, vengano concessi affidamenti in prova a chi dimostri di potersi impegnare, o già si impegni, in strutturate esperienze di volontariato che, non di rado, costituiscono un’occasione di risocializzazione che può far da volano anche al reperimento successivo di opportunità lavorative.
Tuttavia, deve sottolinearsi come la speciale centratura su requisiti specifici che questi servizi dovrebbero avere, ed il riferimento a piani di attività predisposti annualmente, corrano il rischio di imbrigliare l’opzione surrogatoria in maglie più strette di quelle oggi in uso, con la conseguenza di inibire iniziative di parte volte alla costruzione di credibili percorsi di volontariato che non vi rientrino. D’altra parte i servizi sono ormai da tempo chiamati ad utilizzare il volontario e le iniziative di pubblica utilità a fronte di una molteplicità di istituti, tanto da aver saturato, in alcuni territori, l’offerta disponibile.
Si tratta comunque di un profilo interpretativo che occorre rimettere al prudente apprezzamento dei tribunali di sorveglianza, che ormai da mezzo secolo maneggiano uno strumento duttile e ricchissimo, come l’affidamento in prova al servizio sociale, facendo dell’individualizzazione dei verbali prescrittivi la miglior garanzia di misure effettivamente risocializzanti. Può in tal senso immaginarsi che si valorizzi una ratio dell’intervento legislativo come volto ad aprire nuove possibilità, sensibilizzando opportunamente i territori, e non, con effetto paradossale, a irrigidire i requisiti di accesso.
[1] Vd., in sede di audizione, M. RUOTOLO, Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura, in Sistema penale, 11.07.2024 e C. ORNANO, Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024, in questa rivista, 15.07.2024. In dottrina anche M. PELISSERO, La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell’emergenza carceraria, in Sistema penale, 18.07.2024 e F. FIORENTIN, Un impianto inadeguato agli obiettivi da rafforzare in sede di conversione in Guida al Diritto, 27.07.2024, pp. 92 ss.
[2] Ci si riferisce, in questa rivista, a F. GIANFILIPPI, Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario, 10.07.2024.
[3] Si tratta di un rilievo già ampiamente sviluppato nell’audizione svolta dallo scrivente presso la Commissione Giustizia del Senato il 10.07.2024 nell’ambito dei lavori in vista della Conversione in legge del d.l. 92/2024, documentazione in www.senato.it.
[4] Insiste particolarmente su questo profilo, replicato anche nel nuovo co. 9-ter, come una vera e propria criticità di sistema F. FIORENTIN, Domiciliari a ultrasettantenni: necessari protocolli operativi. Le procedure di esecuzione, in corso di pubblicazione in Guida al Diritto, n. 32-33.
Brevi note sul caso Gazzoni
Un messaggio per gli studenti e le studentesse di giurisprudenza
di Gabriella Luccioli
Nella calura agostana si è sviluppato un vivace dibattito su alcuni quotidiani e su varie chat in ordine alle riflessioni esposte dal professor Gazzoni alla pagina 51 dell’ultima edizione del suo Manuale di Diritto Privato: a fronte delle forti accuse rivolte alla magistratura e dell'asprezza dei toni adottati dall'illustre accademico si pone l’interrogativo se sia preferibile stendere un velo di silenzio, condannando l’autore ad un inappellabile giudizio di irrilevanza ed evitando di apprestare un’ulteriore cassa di risonanza al suo pensiero, oppure formulare una critica serrata a quanto scritto, anche al fine di tentare di offrire ai destinatari del Manuale, e quindi soprattutto agli studenti, una visione più obiettiva, più equilibrata e più ponderata del lavoro dei giudici. Prevale infine questo secondo orientamento, in considerazione della oggettiva gravità del fatto che sono state inserite in un volume diretto alla formazione e alla maturazione degli studenti e dei futuri professionisti del diritto, inserendole nel paragrafo 3 del capitolo 4, concernente l’interpretazione della norma giuridica, considerazioni prive di ogni valenza scientifica e impregnate di pregiudizi, che hanno suscitato la giusta reazione della Prima Presidente della Corte di Cassazione e del Presidente dell’ANM.
Da molti vengono ricordate a sua discolpa le peculiarità caratteriali del docente, la risalente propensione a rivolgere critiche feroci ad ogni categoria di giuristi, sinanche a singoli esponenti del mondo accademico: in effetti la lettura di varie note a sentenza al vetriolo e delle precedenti edizioni del Manuale lascia trasparire una tendenza del loro autore sempre più marcata nel tempo ad un linguaggio aggressivo ed insofferente, specie con riferimento a determinate tematiche, ad accuse di incompetenza rivolte ai vari operatori del diritto, in passato confinate nella parte introduttiva di detto Manuale. Non c'è dunque da meravigliarsi per la durezza delle affermazioni contenute nella pagina in commento, ma è indubitabile che tali atteggiamenti o debolezze del professor Gazzoni, spesso trasmodanti in irridente avversione personale, non possono giustificare o comunque incidere sul giudizio di gravità dell’accaduto.
Né può invocarsi il principio di libertà dell’insegnamento sancito dall’art. 33 Cost. e dall’art. 13 della Carta di Nizza, che costituisce un principio cardine anche nel panorama europeo ed internazionale e che secondo l'opinione diffusa tra i costituzionalisti si pone a tutela non solo o non tanto della libertà individuale dei docenti, ma soprattutto a vantaggio dello stesso insegnamento e dei suoi destinatari:[1] ed invero tale libertà non è senza limiti, ma va necessariamente bilanciata con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti e con il rispetto delle istituzioni dello Stato. La doverosità di tale bilanciamento chiama in gioco la responsabilità del docente che discende dal vincolo educativo che lo lega ai suoi discepoli.
Nel caso in esame il limite posto dal rispetto di interessi diversi meritevoli di tutela è stato ampiamente superato: non ha nulla a che vedere con il compito del cattedratico di costruzione e trasmissione del sapere la diffusione di opinioni personali dirette ad incidere pesantemente sulla fiducia dei discenti nella giurisdizione, e quindi sul funzionamento del sistema.
È importante in primo luogo ricordare agli studenti che mentre è del tutto legittimo criticare anche in modo serrato le sentenze, in uno spirito di civile e feconda polemica, non è corretto rivolgere i propri strali ai giudici che quelle sentenze hanno emesso, perché ogni decisione non appartiene all’estensore o al presidente del Collegio, ma è una pronuncia dell’Ufficio di riferimento, come la sua stessa intestazione ben pone in evidenza.
Il professor Gazzoni si compiace di lanciare molti schizzi di fango sulla magistratura, con il risultato di screditarne l’immagine e minarne la credibilità, inserendosi disinvoltamente nella battaglia in atto di varie forze politiche contro l’ordine giudiziario. L’immagine che egli consegna ai suoi discepoli è quella di una magistratura arrogante, presuntuosa, psicologicamente instabile, legibus soluta, incapace di coltivare il dovere dell’umiltà. Difficile immaginare di peggio, ricordando anche le parole di Calamandrei: “Signori giudici, il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati ad esercitarlo”.
I magistrati sono additati come “non di rado” psicolabili, con una valutazione apodittica e talmente generica, nonostante la chiamata ad adiuvandum di un illustre giurista, da screditare chi la sostiene. La maggioranza di essi sono donne (vero, le donne hanno superato il 56%), e giudicano “non di rado” in modo eccellente, ma dimostrano un equilibrio molto instabile nei giudizi di merito in materia di famiglia e di figli: anche qui è evidente, pur nel vago riferimento alla materia del diritto di famiglia e ai giudizi di merito, la genericità dell’accusa, così come è evidente la doppia offesa alle donne, in quanto appartenenti alla categoria ed in quanto donne. In questo approccio la teoria della differenza, in cui le magistrate credono da tempo con convinzione rivendicando la specificità della propria appartenenza di genere, si sostanzia in un giudizio di instabilità al quadrato.
Affiorano così i tanti pregiudizi e stereotipi che hanno accompagnato le donne in magistratura e che hanno reso impervio il loro percorso per ottenere il pieno riconoscimento della loro professionalità e competenza da parte dei colleghi, del foro e dei cittadini. Affiora ancora alla memoria il dibattito in seno all’Assemblea Costituente, nel quale emerse con chiarezza l’atteggiamento di sufficienza, talvolta di insofferenza e di arroganza, della grande maggioranza dei costituenti nei confronti dell’accesso delle donne agli uffici pubblici ancora preclusi, e segnatamente alle funzioni giurisdizionali. Le opinioni da molti di loro sostenute erano impregnate di pregiudizi e triti luoghi comuni fortemente ancorati alla cultura del passato, con i quali dovette confrontarsi lo straordinario impegno profuso dalle poche donne presenti nella Costituente. È sconcertante che di tali visioni ci si debba ancora occupare, a quasi 60 anni dall’ingresso delle donne in magistratura: si tratta di un’onda lunga di ritorno che spinge all’indietro, tentando di cancellare diritti e valori che sembravano definitivamente acquisiti.
Coerentemente il professor Gazzoni si dichiara a favore della sottoposizione a visita psichiatrica degli aspiranti magistrati sollecitata a suo tempo da Francesco Cossiga, che ha in qualche misura ispirato la recente introduzione con una legge dello Stato del colloquio psicoattitudinale, sulla cui opportunità non è qui il caso di soffermarsi.
E ancora, i magistrati sono posseduti da quella hybris che li fa sentire superiori alla legge, a livello di padreterni, e che li induce ad imporre la propria visione del mondo. Un’accusa siffatta esce dalla genericità in forza del riferimento a quelle sentenze e a quei giudici che hanno deciso in materia di fine vita. Soccorre qui il ricordo di ciò che scrisse Gazzoni a commento della sentenza Englaro nel famoso articolo Sancho Panza in Cassazione[2], in cui definì quella decisione la peggiore tra le molte da lui lette negli anni in materia di persona, la più lontana da una decisione di diritto, e soprattutto accusò il Collegio di essersi eretto a legislatore, emettendo una pronuncia per un verso contra legem, per altro verso legibus soluta, imponendo il proprio punto di vista etico in palese violazione dell’art. 101 Cost., violando altresì il principio fondamentale in uno Stato democratico della divisione dei poteri, con l’usurpazione di quello legislativo, nonché il principio di eguaglianza con il dettare una legge ad personam.
Eppure i due conflitti di attribuzione sollevati poco dopo da Camera e Senato furono dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 334 del 2008, nella quale la Consulta escluse la sussistenza di indici atti a dimostrare che i giudici avessero utilizzato la decisione come mero schema formale per esercitare funzioni di produzione normativa o per menomare l’esercizio del potere legislativo.
Nella pagina del Manuale in esame il rapido riferimento alla legge n. 219 del 2017 in materia di consenso informato appare unicamente diretto a sostenere l’illegittimità di una decisione emessa prima della sua entrata in vigore, mentre si omette di rilevare che detta legge ha interamente recepito i principi dettati dalla sentenza Englaro.
Negli stessi termini il professore ebbe a suo tempo a commentare il decreto del Tribunale di Modena del 5 novembre 2008 sempre in materia di trattamento di fine vita, definito come “espressione, più che di un sereno e umile esercizio della funzione giurisdizionale, di una vera e propria crociata condotta in nome di una sorta di religione laica. Il giudice si è così trasformato nel missionario di una causa, basata su un valore, contro altri valori”.[3]
Ed ancora, il tema del reclutamento e della progressione in carriera dei magistrati, oggetto di un infinito dibattito e di iniziative legislative anche recenti e certamente meritevole di ulteriore riflessione, viene qui affrontato con poche battute in chiave esclusivamente denigratoria della categoria.
Affiora insomma da quella pagina un’ideologia oscurantista e cattivista che certamente non favorisce il dialogo tra accademia e magistratura, ma alimenta il conflitto tra operatori del diritto e indebolisce le istituzioni. E spiace constatare che questa esigenza di una feconda messa in campo di punti di vista diversi e di rispetto non formale tra le istituzioni, questa percezione di appartenenza alla medesima comunità scientifica, non sono minimamente riscontrabili nei due ultimi lunghi scritti in replica del professor Gazzoni[4], arroccati caparbiamente ed unicamente nella difesa del proprio pensiero.
Ad una tale dimostrazione di faziosità, nella sua abissale lontananza da quella cultura del dialogo che dovrebbe ispirare il rapporto tra università e giurisdizione, è necessario opporre una prospettiva diversa, aperta ed inclusiva, che aiuti gli studenti ad orientarsi in un panorama ordinamentale delicato e complesso, li avvicini senza pregiudizi alla giurisprudenza nel suo farsi diritto vivente e fornisca loro gli strumenti per definire correttamente il ruolo del giudice come garante dei diritti dei cittadini nello Stato costituzionale. Una prospettiva che solleciti coloro che intendono avviarsi alla professione del magistrato a guardare con fiducia al mondo della giurisdizione, avendo ben presente che questo lavoro richiede entusiasmo, una forte vocazione ed una tensione morale che si sostanzia nello spirito di servizio verso la comunità, in un continuo scambio di idee e di sentimenti in una società in continua evoluzione.
Una prospettiva che al tempo stesso incoraggi le studentesse impegnate a costruire il loro futuro di giuriste a credere in se stesse, ad avere piena consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri ed a superare le residue discriminazioni sul piano normativo e soprattutto su quello culturale, abbattendo archetipi resistenti al cambiamento e facendo emergere con forza la dignità e la sensibilità delle donne. [5]
[1]V. per tutti POTOTSCHNIG, voce Insegnamento (libertà di), in Enc. Dir., p. 721
[2]In Il diritto di famiglia e delle persone, 2018, p. 107.
[3] Così in Continua la crociata parametafisica dei giudici-missionari della c.d. “morte dignitosa”, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2009, p. 288.
[4]Per fatto personale, in Persona & Danno, 29 agosto 2024.; Per fatto personale. Supplemento, in Persona & Danno, 3 settembre 2024.
[5] Sia consentito il riferimento a Consigli alle giovani magistrate. Intervista di Paola Filippi a Gabriella Luccioli, in Giustizia insieme, 10 marzo 2024.
Immagine: Winslow Homer, La scuola di campagna, olio su tela, 1871, Saint Louis Art Museum.
Il tempo del riesame amministrativo (Nota a Cons. Stato, Sez. VI, 27 febbraio 2024, n. 1926)
di Cristina Fragomeni
Sommario: 1. Il quadro fattuale – 2. Il potere di autotutela della pubblica amministrazione. Evoluzione concettuale – 3. Dalla valorizzazione del fattore tempo al fenomeno, diametralmente opposto, della sua mitigazione. L’iter espositivo percorso dal Consiglio di Stato – 4. Rilievi conclusivi.
1. Il quadro fattuale.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato si pronuncia sulla questione del termine per l’annullamento in sede di autotutela.
Nella fattispecie in disamina, l’odierna appellante è titolare di un permesso di costruire conseguito in data 26 aprile 2012, «per la realizzazione di un sottotetto in legno/ferro ventilato con copertura a falde e sovrastanti manto di tegole e pannelli fotovoltaici» su fabbricato. Con provvedimento del 30 marzo 2018, il Comune di Aversa dispone l’annullamento d’ufficio del permesso; con successivo provvedimento del 27 dicembre 2019, ingiunge all’appellante la demolizione delle costruzioni abusive dapprima assentite nonché il ripristino dello stato dei luoghi, nel termine di novanta giorni decorrente dalla notificazione. Avverso i prefati provvedimenti l’appellante insorge innanzi al TAR per la Campania, Sezione Ottava.
Il giudice di prime cure respinge il gravame con sentenza n. 6136 del 15 dicembre 2020, impugnata dinanzi al Consiglio di Stato. In tale sede, l’appellante lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241 e 6, l. 7 agosto 2015, n. 124, avuto peculiare riguardo alla perimetrazione, operata da quest’ultimo, del termine indeterminato prima fissato dalla norma, con definizione in diciotto mesi dell’arco temporale per l’esercizio del potere amministrativo, nonché agli ulteriori presupposti richiesti dalla disciplina richiamata ai fini dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo. Il Comune di Aversa controdeduce alle avverse doglianze insistendo per la reiezione dell’appello.
2. Il potere di autotutela della pubblica amministrazione. Evoluzione concettuale
Definiti i contorni della vicenda, si ritiene che il relativo approfondimento non possa prescindere dall’evocazione, sebbene in prospettiva di sintesi, delle autorevoli elaborazioni dottrinali in materia di autotutela, le quali si posizionano in un rapporto di propedeuticità rispetto al tema, in tale sede centrale, del termine per l’annullamento d’ufficio. Tanto si premette anche sul presupposto che quella dell’autotutela costituisce, anzitutto, una problematica di teoria generale dell’ordinamento, «che richiede di chiarire se debba esser riservato ed a chi debba esser riservato l’uso della forza»[1]. In tal senso, Benvenuti, che per primo ha discusso di autotutela decisoria all’interno dei suoi lavori[2], ha definito la stessa come il potere della pubblica amministrazione di «farsi ragione da sé», in occasione della rimozione degli ostacoli frapposti alla realizzazione dell’interesse pubblico, nonché come la capacità dell’Amministrazione medesima di dipanare i conflitti, potenziali ovvero attuali, deflagrati tra i propri atti e i destinatari dell’esercizio del potere, al di fuori dell’intervento dell’autorità giurisdizionale[3].
Si assume, dunque, l’avvenuta integrazione di una «situazione di contrasto», cagionata dall’invalidità dell’atto amministrativo, tra interessato e pubblica amministrazione, la quale ultima è consapevole del fatto che ogni anomalia afferente a tale rapporto rappresenta, prima di tutto, un contrasto con il pubblico interesse alla cui cura essa stessa è preposta[4]. In coerenza con la visione esposta, si è parlato di «retrattabilità» in quanto connotato del regime di efficacia del provvedimento amministrativo[5].
L’esercizio del potere di autotutela decisoria si sostanzia nell’adozione di provvedimenti di secondo grado, aventi ad oggetto provvedimenti amministrativi precedenti ovvero fatti equipollenti. Entro i confini dell’autotutela decisoria, alla stregua di un criterio funzionale, si discerne, dunque, tra poteri di riesame, che investono il regime di validità di provvedimenti ovvero di fatti equipollenti anteriori, e poteri di revisione, con ripercussioni sui profili dell’efficacia e dell’esecuzione di atti precedenti[6].
Parte della dottrina, orientandosi in senso differente, ha rimarcato l’inferenza della legittimazione ad agire della pubblica amministrazione in sede di autotutela dalla medesimezza del potere primario dispiegato, reputando vani i tentativi tesi all’individuazione di un autonomo fondamento del potere amministrativo di riconsiderazione unilaterale degli atti[7]. Lungo tale direttrice si ascrive, di conseguenza, l’accortezza lessicale che accorda predilezione al termine «riesame» anziché al termine «autotutela», dai contorni maggiormente impropri. Sulla scorta di tale indirizzo, il potere amministrativo assorbirebbe i connotati dell’inesauribilità, con annessa legittimazione della pubblica amministrazione ad esercitarlo in una determinata direzione nonché in quella opposta[8], secondo tempistiche scandite, nel perseguimento del fine precipuo di tutela dell’interesse pubblico[9].
Le posizioni riportate convergono nel riconoscere in qualità di fondamento di un potere così strutturato la «supremazia» della pubblica amministrazione ovvero, suo corollario, il carattere autoritativo degli atti amministrativi[10].
Tuttavia, la delineata impostazione non è stata trasposta all’interno della Carta costituzionale; anzi, sarebbe stata proprio la Costituzione ad introdurre, con il principio di tipicità, limiti all’esercizio del potere amministrativo[11].
L’avvento della Costituzione ha innescato un cambiamento nei termini del dibattito, stimolando la focalizzazione delle produzioni dottrinali in materia sul versante della conciliabilità con il testo costituzionale e, in particolare, con il principio di legalità[12], con conseguente formulazione della conclusione secondo cui il potere di riesame deve essere attribuito ai sensi della legge[13].
Con la legge 11 febbraio 2005, n. 15 si immettono nel corpo della legge n. 241/1990 gli artt. 21 quinquies e 21 nonies contenenti, rispettivamente, la disciplina della revoca e dell’annullamento d’ufficio. L’innovazione in tal modo operata ha incentivato l’approdo ad un regime nel quale la consumazione del potere amministrativo si svolgerebbe sotto l’influsso di una previsione legislativa[14], la cui ratio alberga nella certezza del diritto, potenzialmente in grado di restituire razionalità complessiva alla condotta amministrativa[15].
Invero, l’art. 21 nonies, nella sua originaria enunciazione, tipizzava in termini piuttosto lati i presupposti per l’esercizio del potere di riesame, salva la previsione, successivamente inserita per effetto dell’art. 6, l. n. 124/2015 (innovazione richiamata dall’appellante) nel testo dello stesso art. 21 nonies[16], per cui l’annullamento dei provvedimenti di autorizzazione e attribuzione di vantaggi economici deve intervenire entro diciotto mesi dalla loro adozione (ora dodici mesi)[17], in tal modo tracciando una «presunzione di non ragionevolezza del termine» spirato, con sbarramento dell’azione di autotutela[18]. Sicché è possibile scorgere l’ispirazione della novella in discorso ad una finalità, oltre che semplificatoria, di tutela del privato dall’irragionevolezza del tempo dell’azione amministrativa[19].
Più in generale, la fissazione di un termine circostanziato per l’esercizio del potere amministrativo si pone in netta antitesi rispetto alla concezione del carattere immanente ed inesauribile del potere medesimo, tradizionalmente collocata alla base dell’istituto dell’autotutela, generando punti di ricaduta sulla natura di quest’ultima, così rimodellata come un potere non più generale, bensì assegnato all’Amministrazione in via eccezionale ed esplicabile in ossequio ai tempi e alle modalità di cui alla legge[20]. Dalle modifiche normative in materia di annullamento d’ufficio del provvedimento emergerebbe, pertanto, un «disegno sistematico» che affonda le origini in due assunti: l’esigenza della precisazione ad opera del legislatore di presupposti e limiti per l’esercizio del potere di autotutela da parte della pubblica amministrazione; la dissipazione del potere di autotutela decisoria che non sia esercitato nell’osservanza di un termine definito, salvo differente previsione[21].
3. Dalla valorizzazione del fattore tempo al fenomeno, diametralmente opposto, della sua mitigazione. L’iter espositivo percorso dal Consiglio di Stato.
Le considerazioni innanzi esposte hanno consentito di gettare luce sul fenomeno della valorizzazione del fattore tempo, il quale, oltre che a livello costituzionale, come si ricorderà, si è registrato anche al di fuori dei confini nazionali: si pensi all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La genesi della predetta valorizzazione è stata rintracciata nell’avvio di un processo di rivalutazione del privato, non più suddito, ma cittadino titolare di situazioni giuridiche soggettive e di pretese di partecipazione attiva all’esercizio del potere[22]; processo di rivalutazione che, a sua volta, ha implicato il ripensamento dell’intero rapporto amministrativo[23].
Circoscrivendo la riflessione alla normativa rilevante nella vicenda in rassegna, la demarcazione del termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio, operata con la cosiddetta legge Madia, avrebbe introdotto un «nuovo paradigma» nella relazione tra cittadino e Amministrazione, sancendo limiti all’esercizio del potere della seconda per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo al primo[24], con una spiccata tensione, oltre che alla stabilizzazione del rapporto amministrativo, alla responsabilizzazione della pubblica amministrazione. Il contesto ricostruito trae linfa anche dai principi di buona fede e collaborazione che devono informare, come risaputo, i rapporti tra cittadino e Amministrazione.
A tenore dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, così come novellato dalla legge sopra menzionata, la pubblica amministrazione può annullare ex officio il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 21 octies, fatta salva la previsione di cui all’art. 21 octies, comma 2, al ricorrere di ragioni di interesse pubblico, nell’osservanza di un termine ragionevole che, quanto all’epoca di inquadramento dei fatti della controversia in esame, non può superare il limite di diciotto mesi, considerati gli interessi di destinatari e controinteressati.
Dal raffronto tra i presupposti di cui all’art. 21 nonies e il provvedimento di autotutela gravato[25],risulta di immediata rilevazione l’elusione dello spazio temporale in cui avrebbe dovuto materializzarsi l’iniziativa di rimozione del permesso di costruire: il limite di diciotto mesi, per gli atti in discorso, decorre dal momento di entrata in vigore della novella legislativa; nel caso all’esame, a rigore, essendo trascorsi oltre trentuno mesi dal dies a quo, l’Amministrazione ha abbondantemente superato il termine perentorio stabilito dal legislatore.
Nonostante tale evidente scollatura dell’agire amministrativo rispetto alla trama normativa di riferimento, il giudice di primo grado ha, a suo tempo, concluso per il rigetto del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti, rinvenendo un argomento decisivo in tal senso nella falsa rappresentazione dello stato effettivo dei luoghi da cui avrebbe tratto alimento il provvedimento di primo grado: il ricorrere delle relative circostanze, infatti, oltre a rendere superflua l’esternazione di qualsivoglia ragione di interesse pubblico[26], determina la non operabilità del termine per l’annullamento d’ufficio[27].
La delimitazione temporale del potere di annullare d’ufficio, come sottolineato, è giustificata da un affidamento che esiste esclusivamente nelle ipotesi di buona fede[28]; in mancanza, può operare l’eccezione di cui al comma 2 bis dell’art. 21 nonies, anch’esso introdotto dalla l. n. 124/2015[29]. Più puntualmente, per il caso di provvedimenti ottenuti in funzione di una falsa rappresentazione dei fatti ovvero di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, è prevista una dequotazione del termine, che perde l’attitudine ad arginare l’intervento in autotutela della pubblica amministrazione, difettando un affidamento legittimo in capo al privato da preservare.
La giurisprudenza, approfondendo, ha riferito all’art. 21 nonies un’ermeneutica che consente di trascendere il termine per l’annullamento d’ufficio, oltre che nell’ipotesi in cui la falsa attestazione in ordine ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo sia discesa da una condotta di falsificazione penalmente rilevante (nel qual caso soltanto si renderà necessario l’accertamento definitivo in sede penale), anche laddove, come sarebbe avvenuto nel caso di specie a giudizio del TAR, l’erroneità dei predetti presupposti sia addebitabile, a titolo di dolo, alla parte. In tal caso, attesa l’inesatta prospettazione di parte delle circostanze giuridiche e fattuali prodotte a suffragio dell’emissione dell’atto illegittimo a sé favorevole, logicamente preclusiva della profilazione di una posizione di affidamento tutelabile, sarebbe irragionevole pretendere dall’Amministrazione l’osservanza della tempistica incalzante di cui alla normativa più volte richiamata; conseguentemente, si dovrà esclusivamente aderire al canone di ragionevolezza per soppesare e risolvere il conflitto tra gli interessi in gioco[30].
Il carattere non necessario dell’accertamento con sentenza penale passata in giudicato limitatamente alle false rappresentazioni dei fatti, come ricordato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, si pone in armonia con il tenore letterale del comma 2 bis dell’art. 21 nonies, che, impiegando la congiunzione disgiuntiva «o», configura due distinte categorie provvedimentali che legittimano l’Amministrazione ad esercitare il potere di annullamento ex officio anche decorso il termine previsto, esigendo esclusivamente per le dichiarazioni sostitutive false l’accertamento con sentenza avente autorità di cosa giudicata[31].
Re melius perpensa, il tracciato ordito normativo e giurisprudenziale, come specificato dal Consiglio di Stato, non si attaglia al caso di specie. La considerazione, evidenziata dal Consiglio di Stato, che presenta efficacia dirimente è la seguente: il differimento del termine iniziale per l’annullamento d’ufficio deve essere causato dalla impossibilità per la pubblica amministrazione di espletare un’istruttoria completa, nell’ambito del procedimento di primo grado, sulla spettanza del bene della vita, impossibilità eziologicamente riconducibile alla condotta dell’istante.
Nella vicenda in esame, l’Amministrazione non ha concretamente provveduto né a rappresentare la presenza di dichiarazioni false acclarate con sentenza penale passata in giudicato né a provare la sussistenza di una falsa rappresentazione dei fatti, disattendendo l’onere motivazionale su di essa gravante di documentare la non veritiera prospettazione di parte.
Vi è di più. Le ragioni sottese alla rimozione del titolo edilizio illegittimamente rilasciato in prime cure, che si compendiano nella difformità dello stato progettuale dallo strumento urbanistico, avrebbero dovuto nonché potuto essere apprezzate nell’ambito della fase istruttoria del procedimento amministrativo preordinato al relativo rilascio, escludendosi, per tale via, l’imputabilità alla condotta del privato della impossibilità per l’Amministrazione di eseguire una compiuta istruttoria. Nella fattispecie controversa, insomma, l’Amministrazione comunale ha omesso di dedurre, nella opportuna sede istruttoria, non ricorrendo alcun ostacolo in tale direzione, le circostanze ed i fatti funzionali alla corretta deliberazione sull’istanza presentata dal privato. La stessa mancata precisazione all’interno degli elaborati progettuali dell’altezza dell’edificio, argomenta il Consiglio di Stato, non poteva escludere il dovere dell’Amministrazione di condurre un’accurata istruttoria ai fini del rilascio del permesso di costruire.
Tirando le fila dell’analisi svolta, nel giudizio del Collegio, l’istruttoria prodromica all’emanazione del permesso di costruire presenta lacune addebitabili all’Amministrazione che si ripercuotono sul successivo segmento procedimentale dell’autotutela, occludendo la possibilità di far valere una falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, peraltro non provata dall’Ente appellato.
In carenza dei presupposti per l’applicabilità della deroga di cui al comma 2 bis dell’art. 21 nonies, rimane fermo l’obbligo di osservare il termine per l’annullamento d’ufficio. In definitiva, una volta assentito l’intervento, la caducazione del permesso di costruire avrebbe dovuto disporsi nel rispetto del termine di diciotto mesi ratione temporis vigente.
Sulla ponderazione degli interessi in gioco, ancorché l’interesse pubblico al corretto assetto urbanistico-edilizio del territorio possa assumersi in re ipsa[32], un ulteriore profilo di illegittimità del provvedimento di secondo grado avversato, nel giudizio del Consiglio di Stato, involge il presupposto normativo del bilanciamento degli interessi di destinatari e controinteressati, nella fattispecie pretermesso.
Il rilievo di tale ultimo presupposto, anch’esso orientato alla protezione dell’affidamento, è indiscutibile, tanto da promuovere, a parere di chi scrive, una connotazione dell’istituto dell’autotutela in senso garantistico[33], nel quadro della conformazione dell’agere amministrativo alla cornice storica e fattuale in cui si inseriscono, unitamente al provvedimento amministrativo di primo grado[34], le situazioni giuridiche soggettive scaturenti dallo stesso provvedimento e pregiudicabili per effetto dell’esercizio del potere di riesame (o viceversa, se si aderisce all’angolo prospettico del controinteressato)[35].
4. Rilievi conclusivi.
Alla luce della decisione assunta dal Consiglio di Stato a definizione della controversia sottoposta alla propria cognizione, può affermarsi che le questioni in essa scrutinate hanno riguardato:
a) il potere di autotutela (recte, i presupposti per il suo corretto esercizio);
b) alla radice della controversia, la decisività della conduzione da parte della pubblica amministrazione di un’istruttoria congrua rispetto agli scopi perseguiti[36].
Quanto al primo punto, sulla riforma Madia in materia di annullamento in autotutela sono scorsi fiumi di inchiostro e qualche spunto si è tentato di fornire nei paragrafi che precedono[37].
Mentre, su un piano più generale, merita in questa sede rilevare che sull’approccio al tema del riesame degli atti amministrativi ha notevolmente inciso l’evoluzione socioeconomica nonché quella giuridica, determinando una graduale riduzione delle ipotesi di autotutela doverosa previste dalla legge[38],nell’obiettivo di «valorizzare la tempestività e completezza dell’istruttoria delle domande dei privati all’atto della loro presentazione, in una visione necessariamente responsabilizzante delle Amministrazioni pubbliche». Atteso il processo di dequotazione che ha interessato il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio, all’«autotutela doverosa totale» si è affiancata la categoria dell’«autotutela doverosa parziale», sotto cui è sussumibile l’esaminata previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241/1990, nella misura in cui permette alla pubblica amministrazione di esercitare il potere corrispondente sine die, senza attenersi al vincolo temporale elaborato dal legislatore.
Tanto chiarito, in fase di chiusura, appare opportuno porre l’accento sul carattere impreteribile rivestito dal corretto svolgimento dell’istruttoria procedimentale, svolgimento che, osservato attraverso la lente dei fatti esaminati, è risultato determinante ai fini della soccombenza dell’Amministrazione appellata nel contenzioso in oggetto, cagionando la permanenza di quell’asimmetria informativa che la stessa fase istruttoria è deputata a minimizzare[39]. Il tutto ancor prima della riscontrata (in sede di appello) omessa dimostrazione della falsa rappresentazione dei fatti, asseritamente sottostante al rilascio del permesso di costruire, che ha implicato l’inapplicabilità della deroga codificata dal comma 2 bis dell’art. 21 nonies e la riviviscenza del termine di diciotto mesi; termine nella fattispecie già decorso, con annessa trasformazione dell’affidamento in fattore ostativo[40].
[1] Sul punto, si veda F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, 2015, 20, 6.
[2] F. Benvenuti, Scritti giuridici, 1959; Id., (voce) Autotutela (Dir. Amm.), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 537.
[3] G. Coraggio, Autotutela (Dir. Amm.), in Enc. Giur. Treccani (ad vocem), Roma, 1989.
[4] F. Benvenuti, (voce) Autotutela (Dir. Amm..), cit., 537 ss.
[5] M.S. Giannini, (voce) Atto amministrativo, in Enc. dir., VI, Milano, 1959, 187 - 193.
[6] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020, 554.
[7] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 1969; Autotutela (Dir. Amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, 2006, 609 ss.
[8] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, cit., 337; G. Coraggio, (voce) Annullamento d’ufficio degli atti amministrativi, in Enc. giur., Treccani, 1988.
[9] Sul punto, sia consentito rinviare a C. Fragomeni, Effettività della tutela giurisdizionale e riedizione del potere amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2023, 2, 237 ss.
[10] Si sono riportati degli «schemi concettuali» impiegati in dottrina per descrivere il fenomeno dell’inesauribilità del potere, richiamati da M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017, 1, 191 - 192.
[11] Si è esclusa, in ossequio al dettato costituzionale, la riconduzione all’Amministrazione in quanto entità di una «preminente dignità nei confronti degli altri soggetti»; tale preminenza dovrebbe propriamente attribuirsi ai singoli comportamenti della pubblica amministrazione, regolati dall’ordinamento giuridico, estrinsecazioni di una potestà attribuita dall’esterno ed esercitata in «forme tipiche». In tal senso, M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 187.
[12] Sul punto, a cagion d’esempio, è stata evidenziata l’incomprensibilità della ragione per cui il principio di legalità debba comportare il riconoscimento alla pubblica amministrazione di una peculiare «autorità» nel rilevare l’illegittimità di un atto in precedenza ritenuto legittimo. Si veda, in tal senso, G. Falcon, Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. amm., 2003, 1 ss.
[13] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, cit., 206 ss - 337.
[14] In senso difforme, S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016, 178, che riconosce il carattere comunque inesauribile conservato dal potere, in ragione dei caratteri della funzione.
[15] M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, cit., 202 ss.
[16] In una visione d’insieme, si è osservato che il citato art. 6, in controtendenza rispetto alla maggior parte degli interventi di riforma, non contiene enunciazioni di principio, ma introduce disposizioni, in apparenza disorganiche, volte a rinnovare profondamente l’istituto dell’autotutela amministrativa. In tal senso, F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), cit., 4.
[17] In dottrina, si è sostenuto che il riferimento normativo ai provvedimenti di autorizzazione e attribuzione di vantaggi economici possa essere inteso come comprensivo della complessità dei provvedimenti favorevoli al privato. In tal senso, M. Macchia, La riforma della pubblica Amministrazione. Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giorn. dir. amm., 2015, 5, 621 ss.
[18] C. Contessa, L’autotutela amministrativa all’indomani della ‘legge Madia’, in www.giustizia-amministrativa.it, 2018, 4, 12.
[19] G. B. Mattarella, La riforma della pubblica amministrazione. Il contesto e gli obiettivi della riforma, in Giorn. dir.
amm., 2015, 621 ss. Ad una logica affine aderisce l’art. 2 della legge n. 241/1990, instaurando una connessione tra la doverosità dell’azione amministrativa, da un lato, e l’obbligo di provvedere nell’osservanza del termine, dall’altro, pena il profilarsi di un regime di responsabilità in capo alla pubblica amministrazione per il cosiddetto danno da ritardo, ai sensi art. 2 bis della stessa legge. In tal senso, l’art. 2 sancisce il principio di tempestività, estrinsecazione del principio di certezza dell’azione amministrativa. Su tale ultimo punto, L. Salvemini, LA P.A. tra silenzio e discrezionalità nella tutela degli interessi ambientali La discrezionalità amministrativa: un parametro per valutare la legittimità del silenzio assenso?, in dirittifondamentali.it, 2020, 2, 732.
[20] F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), cit., 5.
[21] In tal senso, M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018; F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 2017, 8, 29.
[22] E. Liberali, Potere amministrativo, tempo e consumazione: riflessioni a margine di Cons. Stato, sez. VI – 19 gennaio 2021, n. 584, in www.ildirittoamministrativo.it.
[23] Resta fermo il carattere poliforme della relazione tra Amministrazione e amministrato, la quale «dipende dalla trama normativa di riferimento, nonché dagli interessi sostanziali in gioco». Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2021, n. 584.
[24] Cfr. Cons. Stato, Commissione Speciale, 30 marzo 2016, n. 839. In termini diversi, a parere della Commissione Speciale: «è possibile affermare che la legge n. 124, con la novella all’art. 21-nonies della legge n. 241, abbia introdotto una nuova ‘regola generale’ che sottende al rapporto tra il potere pubblico e i privati: una regola di certezza dei rapporti, che rende immodificabile l’assetto (provvedimentale-documentale-fattuale) che si è consolidato nel tempo, che fa prevalere l’affidamento».
[25] Segnatamente, il provvedimento di secondo grado avversato è adottato in quanto:
a) verificati in maniera «più attenta» gli atti, dai grafici allegati al permesso di costruire, l’altezza massima del sottotetto risulterebbe superiore rispetto al limite previsto, peraltro misurato a partire da un livello sopraelevato rispetto al piano di calpestio;
b) dagli elaborati allegati al permesso, sarebbe inferibile un’elusione del valore minimo prescritto per la pendenza delle falde;
c) gli elaborati progettuali non conterrebbero la specificazione dell’altezza dell’edificio prima e dopo l’intervento, mentre dall’elaborato tecnico non sarebbe deducibile l’altezza complessiva anteriore all’intervento, così impedendo la conduzione delle opportune verifiche in ordine al rispetto dei limiti stabiliti.
[26] TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 12 giugno 2018, n. 574.
[27] Cons. Stato, Sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4374.
[28] Peraltro, la maturazione del termine in esame comporta il consolidamento degli effetti prodotti dal provvedimento: la convalescenza, unitamente all’obbligo di tener conto degli interessi di destinatari e controinteressati (razionalizzato nel testo dell’art. 21 nonies), integra un’applicazione del principio della tutela del legittimo affidamento. Al riguardo si è osservato che l’istituto dell’autotutela si posiziona in corrispondenza del punto di raccordo tra potere amministrativo e riedizione, da un lato, tutela dell’affidamento del privato, dall’altro. Cfr. Corte cost., 9 marzo 2016, n. 49. Per quanto più strettamente afferisce alla tutela dell’affidamento, si vedano, sul versante dottrinale, a titolo esemplificativo, F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970; F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 2018, 3; G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, Napoli, 2023.
[29] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 560.
[30] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940. In dottrina si è osservato che l’orientamento in discorso apparirebbe preordinato «a circoscrivere l’ambito di operatività del termine di diciotto mesi, in evidente contrasto con le finalità di tutela dell’interesse alla stabilità degli assetti ordinamentali che ispirava la riforma del 2015». In tal senso, P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, 2020, 14, 247.
[31] Cons. Stato, Ad. Plen.,17 ottobre 2017, n. 8.
[32] Cfr, sul punto, Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, in cui si sostiene che: «le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti».
[33] Definisce l’autotutela come «sistema di guarentigie sostanziali», a fronte di provvedimenti imperativi, M. Pellegrini, L’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo nella legislazione e giurisprudenza più recenti, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, 2019, 8, 26.
[34] G. Ghetti, Autotutela della Pubblica Amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., vol II, Torino, 1987, 80 ss.
[35] P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, cit., 242 – 243.
[36] M. De Benedetto, Istruttoria amministrativa, in Enciclopedia Treccani. Diritto on line, 2012.
[37] Tra i tanti apporti, si rammentano: M. A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P. L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2016, 125 ss.; Id.,Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, in Federalismi.it, 2015, 17; M. Ramajoli, L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto di equilibrio, in Giustamm.it, 2016, 6; R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in Federalismi.it, 2017, 23; A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio e l’inannullabilità dell’atto amministrativo, in A. Rallo - A. Scognamiglio (a cura di), I rimedi contro la cattiva amministrazione. Procedimento amministrativo ed attività produttive ed imprenditoriali, Napoli, 2016, 85 ss.; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017; G. Manfredi, Il tempo è tiranno: l’autotutela nella legge Madia, in Urb. App., 2016, 1; M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018.
[38] Cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, che ha ricordato: «si pensi all’abrogazione della previsione, in passato di ampia incidenza casistica, di cui all’art. 1, comma 136, della l. 30 dicembre 2004, n. 311,che faceva obbligo alla P.A. di annullare i provvedimenti illegittimi comportanti oneri finanziari, fatta eccezione per quelli incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali efficaci da più di tre anni ad opera dell’art. 6, comma 2, della l.7 agosto 2015, n. 124; ovvero, al contrario, a quanto ancora oggi previsto dall’art. 94 del codice antimafia, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che impone, ove successivamente alla stipula del contratto siano accertati tentativi di infiltrazione mafiosa, oppure emergano cause correlate di decadenza, di sospensione o di divieto, alle stazioni appaltanti di revocare le autorizzazioni e le concessioni o di recedere dai contratti. Ma un esempio ancor più lampante è rinvenibile proprio nella disciplina dei controlli in materia di s.c.i.a., che ove travalichino la tempistica assegnata in via per così dire “ordinaria” (sessanta o trenta giorni, a seconda che si tratti o meno di materia edilizia), impone (non facoltizza) l’adozione dei provvedimenti conformativi, sospensivi o inibitori «in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies», e dunque in primo luogo nel rispetto del limite temporale (oggi) di dodici mesi».
[39] H. Simon, Il comportamento amministrativo, Bologna, 1967.
[40] F. Caringella, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, 2, 425 ss.
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