Per gli altri contributi su Giacomo Matteotti pubblicati su questa rivista, si veda: Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo, Machiavelli, Mussolini e il fascismo di Giacomo Matteotti.
Indipendenza dei giudici e riforme della giustizia ai tempi dell’omicidio Matteotti. Uno sguardo alle pagine di cento anni fa della Rivista “La Magistratura”
di Simone Pitto
Nel quadro dell’approfondimento tematico avviato da Giustizia Insieme su magistratura e indipendenza a cento anni dall’omicidio Matteotti, il presente scritto si propone di rievocare il dibattito dell’epoca attorno alle medesime questioni, commentando articoli tratti dalla Rivista “La Magistratura” nel periodo tra il 1922 ed il 1924. Particolare attenzione è inoltre rivolta alle riforme della giustizia approvate in quegli anni, nonché alla reazione del giudiziario al caso Matteotti.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Origini della Rivista e contesto storico. – 3. I brani de “La Magistratura”. – 3.1. 1922: dall’elettività del CSM alle richieste di maggiore indipendenza della magistratura. – 3.2. 1923: verso la riforma Oviglio. – 3.3. 1924: il clima di violenza delle elezioni e la reazione all’omicidio Matteotti
1. Premessa
È stato affermato che “la storia dell’associazionismo giudiziario italiano si divide in un prima e in un dopo” e “[q]uel prima e quel dopo si riferiscono al fascismo, dal quale l’Associazione generale fra i magistrati d’Italia (Agmi) fu costretta allo scioglimento”[1].
Oltre allo scioglimento dell’Associazione, il fascismo ha significato la riduzione al silenzio della “voce” dell’AGMI dell’epoca: la Rivista La Magistratura, la quale ha pubblicato l’ultimo numero nel 1926 prima della successiva riapertura avvenuta solo nel 1945.
Muovendo dal centenario dall’omicidio dell’On. Giacomo Matteotti e dalla riflessione sulla voce del dissenso, lasciataci dalla vita più che dalla morte di Matteotti[2], vale la pena ripercorrere, dal punto di vista della magistratura, alcune di quelle tappe che hanno condotto verso il totalitarismo in anni chiave per gli sviluppi successivi.
In queste brevi pagine, attraverso le parole dei protagonisti della giustizia dell’epoca espresse in alcuni brani tratti dai numeri de “La Magistratura” tra il 1922 e il 1924, si riprendono momenti drammatici della storia italiana che forniscono, però, un lucido spaccato dell’attività e della reazione di parte della magistratura del tempo di fronte al precipitare degli eventi.
A cento anni da quelle discussioni, ritroviamo anche alcuni temi di perdurante interesse per l’attualità: la riflessione sull’indipendenza della magistratura, l’imparzialità e il rapporto con la politica, la libertà di espressione, i problemi ordinamentali e le carenze di organico; ma anche rivendicazioni e richieste di ulteriori garanzie strumentali al libero svolgimento dell’attività giudiziaria, rivelatesi fondamentali nell’equilibrio dei poteri e, forse, date talvolta per scontate in quanto ritenute radicate nell’attuale assetto istituzionale. Garanzie che, tuttavia, si riescono ad apprezzare pienamente nel proprio significato storico-costituzionale solo se comprese e rapportate con i drammatici eventi che hanno condotto alla loro formalizzazione nella Costituzione Repubblicana e, forse, anche alla luce delle inquietudini di chi, cento anni fa, non ne poteva beneficiare.
2. Origini della Rivista e contesto storico
Preliminarmente, vale la pena ricostruire per sommi capi il contesto storico in cui si collocano i testi riportati.
Come noto, l’associazionismo giudiziario in Italia ha radici che risalgono agli inizi del XX secolo, da rinvenirsi nel Proclama di Trani del 1904[3].
Nel 1909 viene fondata a Milano l’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (di seguito “AGMI”), dichiaratamente apolitica, la quale in pochi anni avrebbe raggiunto diverse migliaia di iscritti[4].
Risale a due anni dopo il primo “Congresso Nazionale della Magistratura”, che vede la partecipazione di centinaia di magistrati da tutta Italia. Sempre nel 1911 viene avviata l’attività della Rivista dell’AGMI “La Magistratura”. In questa fase, l’Associazione tentava di rispondere alle nuove esigenze in materia di giustizia in un Paese oggetto di profondi mutamenti economici e sociali, i quali esigevano altrettanti adeguamenti nel funzionamento degli uffici giudiziari.
Si può notare come, proprio nelle fasi di avvicinamento alla dittatura, la vita dell’AGMI si sia intrecciata strettamente alla figura di Vincenzo Chieppa. In magistratura dal 1914, il dott. Chieppa contribuì alle attività dell’AGMI di cui divenne anche segretario nel 1923, assumendo così la guida de “La Magistratura”. La sua gestione fu caratterizzata dalla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, in un periodo in cui questa e l’associazione subivano forti pressioni dal regime, nel disegno generale di eliminazione dei corpi intermedi avviato dal fascismo.
L’associazione, rifiutando la trasformazione in sindacato fascista nell’ambito del programma di eliminazione dei corpi intermedi avviato dal regime, deliberò il proprio scioglimento nel dicembre 1925, mentre l’ultima uscita de “La magistratura” risale al 15 gennaio 1926.
Come ricorda G. Scarselli, l’ultimo numero della Rivista riportava un editoriale anonimo (che viene però ricondotto proprio a Chieppa) dal titolo “L’idea che non muore”, ove si rivendica con orgoglio la scelta dell’associazione affermando che “la «vita a comodo» è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire”[5].
L’impegno di critica all’involuzione illiberale avviata dal regime del dott. Chieppa e di altri magistrati proseguì comunque, anche dopo lo scioglimento dell’AGMI e la chiusura de La Magistratura, grazie alla collaborazione con il giornale indipendente, “La Giustizia Italiana”.
Vincenzo Chieppa ed altri magistrati pagarono un caro prezzo per tale impegno. Col Regio decreto 16 dicembre 1926, Chieppa e gli altri magistrati vennero destituiti dall’ordine giudiziario, per aver assunto “un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura”[6].
Vincenzo Chieppa e gli altri magistrati destituiti vennero reintegrati solo nel 1944, quando Chieppa tornò in servizio in Cassazione, ove rimase fino al 1960.
Anche la Rivista “La Magistratura”, a seguito della nascita dell’ANM e grazie all’impegno di questa, ritornò alle stampe nello stesso 1945, diretta da Ernesto Battaglini e, ancora una volta, con il contributo di Vincenzo Chieppa[7].
3. I brani de “La Magistratura”
3.1. 1922: dall’elettività del CSM alle richieste di maggiore indipendenza della magistratura
Il 1922 rappresenta, come tristemente noto, un anno di svolta verso l’ascesa al potere di Mussolini.
In quello stesso anno e almeno fino alla Marcia su Roma, l’interesse della Magistratura associata si concentra sul dibattito intorno all’elezione dei componenti del Consiglio Superiore[8] da parte dei magistrati, recentemente introdotta nel 1921 per poi essere nuovamente abbandonata nel 1923[9]:
“La buona vittoria
L’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura ha potuto finalmente avere luogo, nonostante il più grave, a man ultimo, tentativo di siluramento della riforma, organizzato con mezzi potenti in grande stile e naufragato miseramente tra le acide e povere polemiche soccorritrici del Giornale d’Italia. Non mai il pretesto dell’antisindacalismo più goffamente sfruttato per aggredire simultaneamente da più parti Associazione e col disgregamento di essa rendere vana questa riforma che soltanto l’opera sua onesta volle e seppe ottenere”[10].
L’importanza epocale dell’evento e la portata sistematica dell’elettività per la magistratura nel suo complesso è ben nota all’epoca:
“Il grande vantaggio, forse non ancora da tutti compreso, di questa riforma (saranno mai capaci d’intenderlo gli anonimi collaboratori del Giornale d’Italia?) non sta in una quistione di persone, ma di principio. Da oggi la magistratura non può essere considerata più come il gregge vile che si lascia indifferentemente guidare al pascolo od al macello, secondo il capriccio dell’archimandrita. Meditino su questo i nostri soci, lo considerino i non associati estranei agl’intrighi ed alle clientele, e si ricordino che se un passo innanzi si è fatto per l’indipendenza della magistratura, lo sforzo ed il merito sono stati proprio dell’Associazione, che ora per spirito di antica e mal dissimulata vendetta si vorrebbe travolgere da alcuni che non sono riusciti altra volta ad asservirla, come era nel loro desiderio”[11].
Dopo la marcia su Roma e l’assegnazione dell’incarico di Governo a Mussolini il 31 ottobre 1922, il nuovo Ministro della giustizia e dei culti a entrare nelle funzioni è Aldo Oviglio[12]. Senza entrare nel merito alle vicende politiche che hanno condotto all’incarico a Mussolini in ossequio alla natura “apolitica” dell’associazione[13], l’interesse de La Magistratura si concentra sulla sostituzione del Ministro della giustizia degli affari di culto. Attorno al nuovo Guardasigilli si forma in un primo momento un’aurea di ottimistica aspettativa, vendendo nell’annunciato rinnovamento promesso dal governo appena instaurato una possibile occasione per l’attesa riforma della giustizia ed una sua modernizzazione.
“Rinnovamento e reazione
Ogni rivolgimento politico determina col suo impulso trasformatore la prevalenza d’idee e di sentimenti rinchiusi da primo nel campo delle aspirazioni. Molte rosee speranze stanno ora fiorendo negli spiriti giovani ed è augurabile che diventino presto una realtà viva e vitale. Ma parecchie idee tarlate e non poche sentimenti e maniere d’altri tempi si forzano d’insinuarsi nella corrente trasformatrice e deviarla ad irrigare il loro campicello isterilito. Per il bene della nazione è necessario che le tendenze reazionarie non prevalgano.
(…)
Abbiamo talvolta creduto che il momento potesse essere propizio per una riforma moderna e radicale dell’amministrazione della giustizia. Ma le occasioni sono passate, ed il problema che he varie quistioni e necessità connesse, aspetta ancora la completa soluzione. Ora, forse, potrebbe averla, se, oltre la volontà ed il coraggio, non difettino le buone inspirazioni, lo spirito di modernità e la competenza tecnica dei collaboratori”[14].
In quel periodo, del resto, l’Associazione vedeva un’occasione importante per dare seguito alle richieste di maggiori garanzie di indipendenza della magistratura che avevano già trovato nell’elettività del CSM un importante risultato ma che richiedevano nuovi interventi.
“Le nostre conquiste morali
L’elettività del Cons. Superiore
Se non conoscessimo bene i fini reconditi della campagna così detta antisindacalista dei nostri avversari; se non avessimo compreso che, di fronte ad essi, la nostra vera colpa consiste, non nell’asserita tendenza sindacale a carattere prettamente economico, ma nel dichiarato nostro proposito di combattere lo spirito di clientela e di scuotere certe posizioni di ingiusto privilegio, cui alcuni pochi sono già pervenuti, ed altri agognano di pervenire, ci sarebbe facile - con la storia delle nostre lotte, delle sconfitte come delle conquiste dimostrare quanta luce di ideale abbia sempre guidato l’azione nostra.
(…)
La questione dell’indipendenza è stata da noi sempre considerata come il problema fondamentale dell’ordinamento giudiziario. Non è possibile concepire la giustizia come una funzione del potere esecutivo, o dei partiti che trovansi di volta in volta al governo del paese. Una relativa indipendenza è senza dubbio indispensabile, e nella ricerca dei limiti l’Associazione, con intuito pratico, man tenendosi lontana dagli eccessi delle contrapposte teorie, ha saputo scegliere il mezzo attuabile, la strada dell’equilibrio, sulla quale ha sempre insistito. senza sconfinare in nessun momento[15].
La richiesta della garanzia di maggiore indipendenza rappresenta quindi l’anelito fondamentale dell’Associazione, persino al di sopra di un più ampio governo autonomo che, in questa fase, non pare configurabile:
“Alla dottrina che vorrebbe ridurre la giustizia a funzione dell’organo esecutivo o del partito dominante, si è da alcuni teorici opposta l’altra dell’autogoverno della magistratura. Ebbene, anche quest’ultima noi abbiamo sempre ripudiata, convinti che fra i poteri statuali non sia possibile una, assoluta separazione. D’altra parte, credere alla indipendenza della funzione giudiziaria, senza garantire una certa indipendenza agli organi della giustizia, ai magistrati – come si è fatto in Italia in mezzo secolo di vita costituzionale – equivale a credere all’assurdo. Diciamo pure che, in tali condizioni, l’indipendenza della giustizia è una semplice finzione. Per essere perfettamente liberi nei loro giudizi, i magistrati hanno bisogno di determinate garanzie anche quanto al loro trattamento al loro avvenire, i quali vanno perciò sottratti, in certi limiti, all’arbitrio del potere esecutivo. Né possono ottenersi queste garanzie da organi di nomina ministeriale, che perciò siano emanazione dello stesso potere che dovrebbe essere controllato. Questi organi non possono che sorgere dalla magistratura, senza alcuna ingerenza governativa”[16].
Altra specifica preoccupazione dell’Associazione riguarda l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo; un tema che si sarebbe rivelato centrale meno di due anni dopo proprio alla luce degli avvenimenti successivi all’omicidio Matteotti:
“è certo che la concezione del pubblico ministero, secondo l’art. 129 dell’Ordinamento giudiziario del 1865, quale organo rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, non è più in armonia con la comune coscienza giuridica, la quale al contrario, tende a considerare il Pubbl. Ministero come un organo esclusivamente giudiziario” (..) “La completa equiparazione nelle garanzie costituzionali tra i magistrati giudicanti e quelli del Pubblico Ministero, o almeno la destinazione di magistrati giudicanti in missione alle funzioni del P. M. sarebbe il modo di attuare praticamente la riforma. L’idea non è nuova, e fu accolta fino dal 1879 nel progetto Taioni, il quale stabiliva che le funzioni del P. M. dovessero essere esercitate da magistrati giudicanti in missione, scelti specialmente fra i consiglieri di Corte di Appello”. (…) “Per quanto riguarda il Pubblico Ministero, bisogna notare che un passo indietro assai grave su fatto con la riforma Orlando del 1907, che introdusse nell’ordinamento giudiziario la disposizione relativa al collocamento in disponibilità dei Procuratori Generali di Corte d’Appello. Questa innovazione così illiberale fu allora accolta senza notevoli proteste nel campo politico, e anche dalla Magistratura, pel solito miserevole vantaggio di una promozione più rapida che essa consentiva a qualche magistrato di grado elevato, in sostituzione di tre o quattro procuratori generali colloca- ti in disponibilità. Fu lasciata intatta - nel progetto di riforma Mortara, che - pure assicurava la inamovibilità ai magistrati del P. M. Ma essa deve sparire dal moderno ordinamento giudiziario, non essendo tollerabile che un magistrato, il quale esercita funzioni di giustizia di tanto delicata importanza sia trattato alla stregua del prefetto, organo essenzialmente politico”[17].
3.2. 1923: verso la riforma Oviglio
Il 1923 si apre, nei numeri de La Magistratura, con i preparativi per il IV Congresso della Magistratura italiana ma anche con le molteplici discussioni sui contenuti e le (sempre attuali) problematiche da risolvere attraverso un’auspicata riforma della giustizia[18].
“I cardini della riforma giudiziaria
I pessimisti hanno parole roventi contro i disservizi giudiziari. La Giustizia va in isfacelo, se questa mastodontica macchina non funziona o funziona con tale lentezza da costituire la bazza per i delinquenti e dei pessimi pagatori, se i processi si prescrivono, se le sentenze si attendono per lunghissimi mesi, se i cosidetti tempi giudiziari sono pieni di immondizie di polvere e di ragnatele. E poiché la giustizia è il fondamento dei regni ne traggono conclusioni catastrofiche”[19].
Si può notare un’ulteriore problematica spesso evidenziata nei dibattiti del periodo – quella della scopertura del personale degli uffici – che pare perennemente al centro delle discussioni sulla giustizia ad oltre un secolo di distanza:
“Il giuoco degli egoismi
Nessuno dubita che in Italia vi sia un lusso eccessivo di uffici giudiziari ed una soverchia scarsezza di personale negli uffici più importanti: e tutti ammettono, in principio, che la migliore riforma in questa materia sarebbe quella che, sopprimendo gli uffici inutili, consentisse una maggiore assegnazione di personale a quelli più importanti. Ciò nonostante, ogni tentativo di risolvere per questo verso il problema è, da circa mezzo secolo, naufragato nel mare morto dei piccoli interessi contrastanti”[20].
L’attenzione della Rivista è però anche rivolta a tematiche di interesse sistematico per l’ordinamento giudiziario. Basti pensare al dibattito parlamentare sul decreto cpagina.d. Rodinò[21] che – va ricordato – introdusse innovazioni quali l’inamovibilità del pretore e l’elettività del Consiglio superiore. In questo brano, si risponde alla provocazione di un parlamentare secondo cui, se Mussolini fosse stato al governo nel 1921, la riforma Rodinò non sarebbe andata in porto:
“Antiche memorie e speranze nuove
(…) Ma quello che, nella discussione al Senato, ci ha sorpreso ancora di più di qualche principio futurista di diritto costituzionale, è stata l’invocazione fatta all’attuale presidente del Consiglio, che un senatore ha creduto di poter tirare in ballo, affermando che, se all’epoca di quel decreto, l’on. Mussolini fosse stato al Governo, quella riforma non si sarebbe avuta. E perché? Senza avere alcuna pretesa d’interpretare il pensiero dell’on, Mussolini, crediamo peraltro che nessuno possa ritenersi autorizzato a prestargli il proprio. Ci sembra piuttosto vero invece che, se l’on. Mussolini fosse stato allora presidente del Consiglio, tutte le manovre palesi e segrete poste in opera per sabotare il decreto, sarebbero scomparse come nebbia al vento e il prudente coraggio dei loro sostenitori non avrebbe trovato l’opportunità di manifestarsi”[22].
Il brano è significativo di una lettura ancora in parte fiduciosa rispetto alla novità portata dal governo appena instauratosi che, tuttavia, si sarebbe presto rivelata malriposta.
Nel frattempo, a seguito del IV Congresso, l’Associazione riportava sulla Rivista parte dei punti fermi discussi in sede congressuale per alimentare il dibattito sulla nuova riforma dell’ordinamento giudiziario in corso di stesura:
“Per l’indipendenza della Magistratura”
Nell’imminenza della pubblicazione di una nuova riforma giudiziaria, sentiamo il dovere d’insistere nei postulati, che in un quindicennio di vita associativa, la magistratura ha fermati per assicurare il minimo d’indipendenza indispensabile alle sue funzioni. L’Associazione che al Congresso di Firenze, in un periodo di depressione dell’autorità statale, con coscienza e con fede solennemente affermò il principio allora incompreso e travisato, oggi comunemente accettato) che ogni persona partito, associazione o classe debba coordinare la propria azione con gli interessi generali della collettività e subordinarla alle esigenze dello Stato sovrano (…). Pertanto, a nostro mezzo, (…) [l’Associazione N.d.r.] ritiene di dover riassumere i propri antichi voti perché la prossima riforma dell’ordinamento giudiziario, al di sopra di ogni interesse, di ogni preconcetto e di ogni misoneismo, risponda al fondamentale bisogno della indipendenza della magistratura. La giustizia non indipendente non è giustizia, e non appaga il comune sentimento giuridico. La magistratura ha bisogno, per l’essenza stessa delle sue funzioni, di muoversi in un’atmosfera respirabile, di relativa libertà, di relativa indipendenza[23]“.
Ciò non significa, secondo l’Associazione, che vi debba essere una libertà totale della magistratura, posto che:
“la vita dello Stato deve essere unica ed organica, e che la funzione giudiziaria non può del tutto separarsi dalle altre attività dei pubblici poteri, e procedere per suo conto, in disarmonia o in contrasto con l’indirizzo generale[24]“.
Ed infatti:
“La funzione giudiziaria è pure essa soggetta alla legge di relatività; ma deve mantenere la sua speciale caratteristica, se non vuole corrompersi presto, e trascinare nel discredito e nella morale rovina lo Stato stesso. Questa caratteristica, fissata dal fondamento etico, dalla necessità sociale, dall’origine storica dell’amministrazione della giustizia, consiste nella possibilità di ristabilire il diritto violato contro chiunque, e di difendere in ogni caso i deboli e gli oppressi”.
È proprio lo svolgimento di questa fondamentale funzione che si ricollega all’esigenza di una piena indipendenza, posto che “senza un minimo d’indipendenza, questa missione non può adempiersi”[25].
Le proposte fondamentali dell’Associazione al Ministro della giustizia sono quindi essenzialmente tre:
(1) La “Semplificazione della carriera” e, in particolare, lotta al carrierismo, laddove “[r]ipugna al concetto di giustizia indipendente il sistema dell’ordinamento carrieristico dei giudici” e perché:
“[l]a speranza di vantaggi ed il pericolo di danni nella carriera sono i principali nemici della indipendenza”[26].
(2) La seconda richiesta riguarda l’”Inamovibilità del pubblico ministero”, alla quale si accosta un altro tema che ritroviamo ancora oggi al centro della discussione pubblica, cioè la parificazione della magistratura requirente a quella giudicante:
“Essendo la funzione del pubblico ministero intimamente connessa con la funzione giudiziaria, sulla quale esercita senza alcun dubbio grande influenza, uno dei nostri voti più ardenti ha mirato sempre alla parificazione della magistratura requirente con la giudicante in ordine allo stato giuridico. Per quanto l’ordinamento del 1865 consideri la funzione del pubblico ministero come esplicazione del potere esecutivo, la realtà e la coscienza pubblica hanno sempre reagito contro questa concezione, Gli atteggiamenti del pubblico ministero sono stati sempre attribuiti, dall’opinione pubblica, all’autorità giudiziaria, od in verità la pratica mal si adatta a distinguere fra le due funzioni, ed a tener separate le varie responsabilità”.
Se oggi si discute della possibile rivisitazione della scelta delle Costituenti e dei Costituenti repubblicani di introdurre eguali garanzie per magistrati requirenti e giudicanti, nel 1923 tale risultato era indicato dall’Associazione come un’auspicabile conquista nell’ottica di una maggiore indipendenza della magistratura.
“Se però le condizioni politiche non si considerano ancora mature per la concessione della inamovibilità ai funzionari del pubblico ministero, noi riproponiamo quel temperamento che anche altre volte è stato prospettato dalla nostra Associazione. Siano unificati a tutti gli effetti i ruoli della magistratura giudicante e della requirente, ed ogni anno si designino, fra i magistrati i funzionari del pubblico ministero, come oggi si fa pei giudici istruttori e pei presidenti d’assise”[27]
(3) La terza richiesta è l’”Elettività del Consiglio Superiore”, ottenuta nel 1921 e definita come “La garanzia a cui più tiene la magistratura, e che rappresenta la più alta conquista dell’Ordine” e da questo rivendicata da tempo e con vigore di fronte alle voci di un possibile superamento dell’elezione da parte dei magistrati:
“Se la conquista è recente non può davvero dirsi che essa sia il prodotto di una improvvisazione, né che risponda al desiderio di pochi. Da tempo si è combattuto per raggiungerla; e nessuna voce discorde si è mai levata apertamente contro la riforma, sostenuta dall’unanime consenso dei magistrati, elaborata in decenni di studi e di esperienze. Non essendo possibile concepire la giustizia come una funzione del potere esecutivo o dei partiti che pervengono di volta in volta al governo del paese né credere alla indipendenza della funzione, giudiziaria senza garantire una certa indipendenza agli organi cui affidata”.
Tutte queste aspirazioni, come noto, saranno invece frustrate dal fascismo e ciò diventerà particolarmente evidente dagli ultimi mesi del 1923, quando la riforma della giustizia prenderà forma:
“L’inevitabile
Le nostre previsioni, effetto di conoscenza psicologica e d’ambiente, si sono malauguratamente avverate. Le notizie ufficiali della nuova riforma giudiziaria confermano, di fatto, quelle che noi, paventando, avevamo dato già da qualche mese. Abolizione del Consiglio Superiore elettivo, intensificazione del sistema della carriera e dei gradi, concorsi anticipati, scrutinii anticipati, niente specializzazione dei magistrati per l’adattamento alla varietà delle funzioni, niente garanzia d’inamovibilità del pubblico Ministero. E un complesso di provvedimenti e di omissioni che rattristerà certamente la magistratura, ma che bisogna in questo momento, per disciplina, accettare con rassegnata costernazione, forti del convincimento e della fiducia che una revisione fondamentale non potrà, fra breve, mancare, giacché l’applicazione di questa riforma dimostrerà assai presto, e meglio forse che le nostre preventive osservazioni non abbiano potuto fare, il turbamento e il danno che essa è destinata a produrre nell’amministrazione della giustizia[28]“.
Ma la disillusione sarà ancora più evidente nel 1924, con le elezioni svoltesi sulla base della Legge Acerbo[29], i drammatici fatti del caso Matteotti ed altri crimini del regime.
3.3. 1924: il clima di violenza delle elezioni e la reazione all’omicidio Matteotti
La riforma della giustizia[30] ed il clima elettorale precedente alle elezioni del 1924 non giovarono ai rapporti tra l’associazione e il Ministero della giustizia[31], particolarmente tesi anche alla luce di attacchi rivolti dallo stesso ministro all’associazionismo giudiziario:
“Rampogne
Non avremmo più ragione di vivere se lasciassimo senza una doverosa parola di risposta la rampogna del Guardasigilli alla magistratura associata. Parlando del Consiglio Superiore elettivo da lui abolito, il Ministro ha detto nel suo discorso di Bologna: «Il sistema di recentissima istituzione, in una conseguenza di quelle tendenze che avevano purtroppo inquinato, fortunatamente in minima e trascurabile parte, anche l’ordine giudiziario, nel periodo turbinoso nel quale parve che l’autorità dello Stato dovesse scomparire. Le tendenze sindacaliste per quanto timidamente affermate, nell’ultimo congresso della magistratura associata, ne avevano dato il sicuro indizio»[32].
L’ostilità verso l’Associazione pare apprezzabile anche nella vicenda dell’abbandono della sede della stessa:
“Cambiamo casa...
A richiesta del Ministro Guardasigilli, on. Oviglio, la Commissione per la manutenzione del Palazzo di Giustizia, presieduta dal Comm. Nonis, con lettera del 19 novembre 1923, invitava il cessato Consiglio Centrale a lasciare i locali occupati dalla nostra Associazione, entro il 31 gennaio successivo, per adibirli ad altro uso. Il nuovo Consiglio Centrale, nell’assumere le sue funzioni alla metà di gennaio, si occupò della questione, ottenendo soltanto una proroga fino al 29 febbraio. Cost il primo marzo abbiamo lasciato il Palazzo di Giustizia. Quantunque rimasti senza sede, abbiamo provveduto perché la vita dell’Associazione e del giornale non subissero un solo attimo d’arresto”[33].
Va anche ricordato che la diffidenza verso la magistratura associata era diffusa all’epoca anche in soggetti meno vicini al fascismo, inclusi giuristi di riconosciuta reputazione dell’epoca come il Sen. Luigi Lucchini, di cui Matteotti sarà allievo[34]. Proprio ad un attacco del Senatore si riferisce la risposta ironica pubblicata sul numero del 10 maggio 1924 de La Magistratura:
“Decrepitezza.
Il sen. Lucchini scrive verde. La bile, abusando di una vecchiaia inquieta, gli fa vedere nel trasloco dei nostri uffici di amministrazione un principio di morte del nostro sodalizio. Povero vecchio! Anche questa magra soddisfazione gli è negata dopo l’astiosa campagna di 18 anni. Ci onoriamo infatti d’informarla che l’Associazione conta ancora 2000 soci, i quali, insieme ai dirigenti vecchi e nuovi, godono buona salute. Il sen. Lucchini cerchi altri morti da sotterrare; e ad multos annos. Per la professione di necroforo non ci Sono limiti di età”.
Ma l’Associazione non è la sola a risentire del clima di intimidazione e violenza che circondava le elezioni dell’aprile 1924, sebbene essa stessa si adoperi per denunciare alcuni episodi a danno di magistrati:
“Il prestigio della magistratura
Adesso che le discussioni elettorali sono finite, sia consentito a noi qualche rilievo estraneo alle querele di parte, estraneo anche a qualsiasi interesse particolare di categoria o di individui. Molte cose si son scritte sulla sorte toccata a questo o quel magistrato nel corso delle operazioni elettorali; com’e nostra abitudine, però, trascuriamo le cose vaghe e ci fermiamo ad un caso ben accertato, che dovrebbe dar molto a pensare a quanti son premurosi di tener salde nella coscienza pubblica la fede ed il rispetto per l’amministrazione della giustizia. Il fatto è di pubblica ragione. Il pretore De Martino Carlo, decorato di guerra, fu destinato presiedere il seggio elettorale di Mugnano di Napoli; ma, messo nella impossibilità, di far rispettare la legge e minacciato di violenze, fu costretto ad abbandonare la presidenza del seggio ed a chiedere alle autorità competenti le forze necessarie per la tutela della legge, della libertà dei cittadini e del proprio prestigio personale. (…) Le violenze cui è stato fatto segno un giudice geloso della propria indipendenza e del proprio dovere costituiscono, di per sé, un fatto dolorosissimo, per il quale la nostra protesta ed il nostro rammarico non saprebbero esser troppo forti. L’ordine giudiziario si sente colpito nella sua fierezza e nella sua dignità ed augura al paese che simili episodi siano cancellati per sempre dalle cronache nostre”[35].
Più che per l’episodio riportato, l’Associazione si mostra preoccupata per il “sistema” che vi sta a monte:
“Tuttavia, non è delle violenze che vogliamo qui particolarmente occuparci. Gli episodi son episodi; ma i sistemi che essi rivelano sono più d’ogni cosa preoccupanti e meritano una di commento. Nella vita di un paese possono avverarsi transitoriamente circostanze eccezionali che, per deficienza di forze armate ad esempio, non rendono possibile garantire in maniera assoluta l’applicazione della legge in qualsiasi eventualità. Il calcolo di probabilità avverte in tali casi che infrazioni irreprimibili alla legge avverranno in proporzioni più o meno ristrette e dovrebbe consigliare, per conseguenza, alla saggezza delle autorità di far sì che l’inevitabile offesa alla giustizia porti seco il minor numero possibile di inconvenienti e soprattutto che non si ripercuota in maniera duratura sulla educazione morale e civile dei cittadini. (…) La magistratura avrà perduto tre quarti della sua influenza sullo spirito pubblico il giorno che i cittadini si saranno abituati ad avere il giudice testimonio impotente dei loro delitti”[36].
Ma, anche in questi giorni difficili, resta ferma nelle pagine della Rivista la visione che dovrebbe assumere la magistratura nella vita del Paese:
“Per tutti i popoli la difesa della Patria è sacra; e tuttavia quante volte nella storia le istituzioni militari, or qua or là, sono precipitate nella più ignominiosa decadenza! Così è pure per la giustizia. La sua amministrazione risponde alla prima esigenza di una società civile: ma la magistratura grandeggia o decade a misura che sprona o uccide la fede nell’opera propria. Un popolo che non crede nell’indipendenza dei suoi giudici, nella loro moralità e nella loro scienza, non può più credere nella giustizia e ricorre ad altri presidi per la difesa della sua libertà e dei suoi beni”[37].
Una rivendicazione dell’indipendenza del giudiziario che – quasi naturalmente – non può trovare il favore del regime:
“Magistratura e paese
(…) è inutile sperare l’indipendenza della magistratura e della giustizia dalla azione illuminata dei governi. Quanto più si consolida e si allarga la sfera dell’indipendenza giudiziaria, tanto più si restringe quella dell’arbitrio governativo. Tra le due non c’è solidarietà, ma netta opposizione d’interessi: se l’una si muove in un senso, l’altra si muove nel senso contrario; l’una limita gravemente l’altra. Or sarebbe troppo ottimistico e fare credito illimitato all’eroismo politico, credere a governi che aspirino con tutte le forze dell’anima loro ad autolimitarsi e ad elevare barriere alla pienezza della propria potenza sulla vita dei cittadini e del paese. Logicamente, lo sforzo verso una reale autonomia della magistratura non potrà incontrare nei governi che ostilità profonde anche se paludate con le più alte considerazioni giuridiche e sociali”[38].
Di qui una riflessione anche sul ruolo e la missione dell’Associazione, proposta (forse non a caso) nel primo numero della Rivista uscito dopo il rapimento dell’On. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924:
“La conclusione è una sola; che per compiere azione efficace, bisogna portare il problema giudiziario dinanzi allo spirito pubblico, con tanta maggiore insistenza, quanto più pungente si fa sentire il bisogno che, fra i contrasti, qualcosa resti veramente fermo, al di sopra della mischia, a garanzia granitica della legge, della certezza del diritto, dell’uguaglianza fra i cittadini; quanto dire a garanzia delle premesse d’ogni vita civile. L’Associazione dei magistrati ha questa grande missione. Uscire dall’ombra discreta d’organismo di categoria e dal campo chiuso di una lotta d’interessi particolari, per farsı rappresentante, innanzi all’Italia, di uno sforzo che investe dalle radici la vita stessa dello Stato ed il suo ordinamento costituzionale, è il suo grande compito in questo profondo rinnovarsi della vita italiana attraverso le più varie esperienze, in questo ingrandirsi di tutte le aspirazioni”[39]. (…) Sta all’Associazione spronare e maturare nello spirito pubblico questa esigenza che già da sé per virtù di eventi, ha fatto tanta strada. Se poi essa, debole nella fede, crederà pessimisticamente rinchiudersi nella polemichetta come ministeri e nel piagnucolio dei pezzenti peggio per lei costruirà sulla sabbia e non otterrà né benefizi economici né morali”[40].
Il clima di sistematica intimidazione e violenza raggiunge l’apice proprio con lo scoppiare del caso Matteotti, che viene commentato esplicitamente sulle colonne della Rivista pochi giorni prima della Secessione dell’Aventino:
“Oltre l’indignazione
Nell’impeto di una santa indignazione, da molti giornali è salita in questi giorni verso la magistratura un’onda di proteste e di ammonimenti. Ci vuole, in Italia, lo shoc del delitto più turpe per richiamare l’opinione pubblica e la stampa sulle cose della giustizia; ci vuole il sussulto di sentimenti elementari d’umanità per far sentire quell’inadeguatezza dei congegni giudiziari che la tortura quotidiana di chi amministra giustizia, e che invece, in una arroventata atmosfera di risentimenti e di passioni, diviene senz’altro motivo d’esecuzione sommaria della magistratura. Gli italiani non vorranno attribuire una inesistente freddezza di sentimento, se li invitiamo ad una più serena valutazione delle cose. A nulla gioverebbe il dolore esasperato che avvince oggi, se non sapessimo trarne utili ammaestramenti per l’avvenire. Chi da molti e molti anni vien esponendo invano alla stampa ed agli organi politici italiani le strettole in cui si dibatte l’amministrazione della giustizia, avrebbe oggi ragione di negare ogni diritto ad indignate proteste. Non è con i piagnistei delle grandi giornate di lutto che si cambia qualcosa, non è lanciando accuse e sospetti, che si risolve o si avvia a soluzione un problema complesso e oramai stravecchio come quello della giustizia. (…) Ebbene tutto ciò non è serio. Se una voce in Italia ha invocato con tutta l’anima sua un rinnovamento ab imis fundamentis della vita giudiziaria, essa è venuta solo o quasi dalla magistratura. Nessuno ha dunque diritto oggi di farsi accusatore”[41].
Il pezzo si riferisce alle accuse mosse alle autorità investigative e alla magistratura nelle prime fasi di ricerca degli esecutori materiali del delitto ma rappresenta l’occasione per ribadire le critiche alla scarsa indipendenza del pubblico ministero:
“Si grida oggi, con accento di scandalo, alla lentezza d’iniziativa del Pubblico Ministero ed alla manchevolezza dei suoi rapporti con la polizia giudiziaria. Ma perché si grida? Perché se ne fa colpa alla magistratura? Bisogna chiederne conto al nostro ordinamento giudiziario, la cui inadeguatezza ha formato oggetto di accorato quanto sterile esame su queste colonne, nei nostri memoriali e nei nostri congressi con una monotonia ossessionante. Il Pubblico Ministero – abbiamo sempre detto - dovrebbe essere il propulsore libero e imparziale della azione penale ed avere totalmente alle sue dipendenze, per i fini esclusivi della giustizia, la polizia giudiziaria. Ed invece ci si aggira in un equivoco dei più dannosi. Il Pubblico Ministero, nelle nostre leggi, non è un organo giudiziario puro, né un organo proprio del potere esecutivo e la polizia giudiziaria sfugge quasi completamente al controllo della magistratura”[42].
Lo sgomento per i fatti di cronaca è apprezzabile nelle lettere indirizzate alla redazione dai soci, come in una lettera di un magistrato piemontese che evidenzia le ambiguità del regime:
“L’ora della giustizia
La lettera che segue esprime uno tato d’animo così diffuso tra i magistrati, che crediamo di non aderire al desiderio del collega di astenerci dalla pubblicazione: «On.le Direz. de la “Magistratura” Sono sicuro che cotesta Direzione avrà già colto l’occasione di quanto in questi giorni sta accadendo e di quanto i giornali vanno scrivendo a favore della Giustizia per farne oggetto di un qualche articolo di attualità. Ma poiché essa raccomanda sempre ai soci l’affiatamento attivo col giornale, io mi faccio un dovere di rispondere, nel mio piccolo, all’invito, con questa lettera di suggerimenti (…) Venendo a noi: II «Giornale d’Italia del 14-15 corrente, uscito in edizione straordinaria, in un articolo sul «Compito della Magistratura» ha chiamato questa uno degli istituti fondamentali dello Stato e ne ha detto, giustamente, gran bene. Il Popolo d’Italia e l’Idea Nazionale di lunedì 16 corr., in edizione straordinaria, in un articolo “Alto là, signori!” che si attribuisce allo stesso Mussolini, ha chiamato “sovrana e indipendente la Magistratura”. Viceversa che cosa succede? Che proprio sotto questo Regime il nostro giornale ha dovuto sopprimere il motto del frontespizio «Il potere giudiziario è in Italia una metafora: ma l’indipendenza della magistratura deve essere una realtà ». Proprio sotto l’attuale Proprio sotto l’attuale Guardasigilli, anziché concedersi la più volte reclamata inamovibilità dei funzionari del P. M., si è invece sancita la possibilità di collocare a disposizione, come un prefetto o un questore qualsiasi, i Procuratori Generali, e la amovibilità dei giudici inamovibili «ad libitum» del Ministero, colla formula «per gravi e imprescindibili esigenze di servizio ». Aggiungasi a ciò che, a quanto pare, vi sono anche magistrati tesserati in partiti politici e poi vedasi come sia salvaguardata l’indipendenza nostra. (…) È così che la Stampa del 19 corrente, nel suo articolo di fondo, con un certo fondamento di vero scrivere quanto segue “è stato affermato che tutto quanto concerne il delitto Matteotti sia stato affidato all’autorità giudiziaria. Questo va benissimo in linea teorica: occorre però che ha la decisione di principio corrispondono i fatti... Osserviamo ad ogni modo due cose: che l’autorità giudiziaria per sua natura non è organo di esecuzione è volontà e non braccio; e pertanto le sue disposizioni intanto possono essere attuate in quanto le autorità del potere esecutivo sappiano e vogliano far tutto il loro dovere: e che la stessa autorità giudiziaria non può riacquistare d’un colpo l’autonomia e la forza sminuita da anni”[43].
La sottolineatura del momento infausto per la giustizia e la magistratura italiana proviene anche da un episodio simbolico: la caduta del braccio destro di una statua della Giustizia posta sopra l’ingresso monumentale del Palazzo di Giustizia di Roma, alla quale nessuno sembra voler porre rimedio[44].
Il caso Matteotti, la risposta agli attacchi rivolti al giudiziario e le accuse (neppure troppo velate) all’instaurando regime ritornano anche nei numeri seguenti sulle colonne de La Magistratura. Ciò si apprezza particolarmente nelle lettere rivolte dai soci all’Associazione:
“Dopo il caso Matteotti e gli altri..
Agli onorevoli di ogni settore, alla stampa di ogni colore. Tutte le volte che qualche terribile tragedia insanguina il Paese, l’anima del popolo, istintivamente, si leva a gridare il suo monito solenne, e il cuore di ogni galantuomo ama volgersi fidente a un povero altare, ove una Dea regge in una mano una bilancia, e mostra dall’altra, invece di una spada fiammante... un moncherino! E in nome di questa Dea, che Voi, Onorevoli Signori, andate da tempo combattendo una ben aspra battaglia; son di tutti i giorni le proteste, le accuse, le requisitorie pungenti contro le innumerevoli violenze impunite, contro le infamie di gente che dite prezzolata e miserabile, e nel furore della vostra battaglia non risparmiate neanche gli assenti, i vostri Giudici, questo pugno di galantuomini, che, soli, dinanzi a Dio e alla loro coscienza, sono ad ogni ora ridotti al disgustoso spettacolo di questa immensa miseria morale che li circonda. Noi, che non siamo uomini di parte, devoti al nostro dovere e abituati al più severo controllo di noi stessi, non dobbiamo seguirvi né entrare in lizza nella aspra polemica, ma guardando un poco al passato ed al presente, ricordiamo e constatiamo, e constatando osiamo porvi ancora una volta qualche domanda. Constatiamo che ormai un’atmosfera di diffidenza e di sospetto pervade tutto e tutti come se una farsa immonda si vada recitando, mentre sono in gioco terribili responsabilità di ordine morale, giuridico e politico, come se la commedia più ributtante si sia da tempo recitata in nome della Patria. Per esser più precisi notiamo che più specialmente, dopo l’ultimo spaventoso misfatto [l’omicidio Matteotti N.d.R.], anche la stampa cosiddetta imparziale, lancia accuse di mostruosi salvataggi, di vergognosi favoreggiamenti, di indegne corruzioni, di miserabili adattamenti. Con questo crescendo impressionante la Pubblica Sicurezza sarebbe diventata (orribile a dirsi)la complice diretta di un assassinio nefando e per desiderio di cercare i ripari, avrebbe dapprima taciuto e poi proceduto agli atti più importanti della istruttoria senza la presenza del Giudice (…)”.
Le indagini vengono affidate, a seguito della richiesta di avocazione del procuratore generale Vincenzo Crisafulli, a Umberto Guglielmo Tancredi[45] e Mauro Del Giudice[46]. Quest’ultimo, peraltro, aveva già avuto modo di collaborare in passato con la Rivista “La Magistratura”. I due assunsero, però, l’incarico in un difficile clima di pressioni e controlli da parte di un ufficio già parzialmente simpatizzante per il fascismo[47].
Il Paese, dopo una prima fase di perplessità (anche alimentata dalle polemiche governative), pare mostrare fiducia e attenzione per il lavoro della magistratura nelle settimane successive al delitto, almeno fino al ritrovamento del corpo dell’On. Matteotti il 16 agosto 1924:
“Rinnovamento
Dopo le prime e parziali perplessità sulla condotta della magistratura all’indomani del più ignominioso delitto politico, autorità politiche, parlamentari illustri e giornali gareggiano da qualche giorno in testimonianze di fiducia illimitata verso l’opera della giustizia e si lasciano andare a significative dichiarazioni di principio sulla necessità di restaurare nelle coscienze, negli ordinamenti e nelle consuetudini politiche il potere giudiziario. Riappare nel linguaggio politico, piena di senso, questa formula tradizionale e statutaria, che ormai suonava vuota e retorica anche alle orecchie degli ottimisti impenitenti; riappare in una delle ore più difficili della vita nazionale, non come illusoria metafora, ma come il segno ultimo di speranze e di ansie profonde, come l’invocata suprema garanzia del vivere civile e della pace sociale. In questo immane fermento di passioni, di rancori, di dolore esasperato e d’insofferenza, è l’istinto stesso della conservazione che ispira la fede nella giustizia, sola ancora di salvezza. Istinto che ci auguriamo operoso e creativo oltre l’avvenimento e l’indignazione dell’ora, e che si placherà solo innanzi ad una restaurazione completa della vita giudiziaria, se non è ingannevole proiezione di un attimo pieno di disagi, destinata con questo a svanire nel nulla. (…) Noi ci proponiamo di rimanere a guardia di quest’ansia che si protende oggi verso la giustizia. La magistratura non deve dimenticare, gli italiani non devono dimenticare, gli ammaestramenti di quest’ora non devono andare smarriti. Una giustizia più indipendente e intangibile non si forgia in un’ora sull’incudine delle sacre indignazioni e delle proteste patriottiche, ma bisogna volerla con serietà tutti i giorni, dai più banali ai più solenni, per tutti i cittadini e per tutti i luoghi; bisogna crearla negli istituti giuridici, nell’ordinamento giudiziario, nelle consuetudini quotidiane con la magistratura, nel taglio di quel cordone ombelicale che – attraverso i sistemi delle promozioni, delle onorificenze, degli incarichi speciali, attraverso la piaga del carrierismo [ in corsivo nel testo, N.d.R.] e dell’arrivismo [ in corsivo nel testo, N.d.R.] – grande possibile i legami della magistratura con la politica”[48].
L’occasione è anche buona per ribadire l’ennesimo appello per una maggiore indipendenza del giudiziario, frustrata dalla riforma Oviglio e dal passo indietro sull’elezione del Consiglio superiore:
“Potere giudiziario, si grida oggi a perdifiato. Ebbene, questa cesserà di essere una frase solo il giorno in cui la designazione del Consiglio Superiore della magistratura e la scelta dei capi saranno attribuiti alla stessa magistratura; il giorno in cui i funzionari del P. M., la polizia giudiziaria, e l’assegnazione delle residenze saranno disciplinati con rigorose norme obbiettive e sottratti alle mutevoli vicende della politica. Gli ordinamenti odierni non sono fatti per facilitare ai magistrati l’adempimento dei loro doveri. I vecchi ed i nuovi amici della giustizia se lo ricordino dunque: noi non lasceremo cadere nell’oblio le loro parole. Ciò detto, peraltro, ci riesce impossibile sottrarci alla commozione che questo appello ansioso degli italiani alla magistratura desta nell’animo nostro. Non è per noi ragione di sorpresa la fiducia del popolo nell’opera dei suoi giudici” (…) Dalle forze sane del paese sorgerà il rinnovamento della vita giudiziaria[49]“.
Nei primi numeri dopo la scoperta del cadavere dell’On. Matteotti, le pagine de La Magistratura ospitano un accorato appello a tutti i magistrati:
“L’ora del potere giudiziario
(…) E questa l’ora del Potere Giudiziario: ciascun magistrato faccia il suo esame di coscienza. Sarebbe illusorio attendersi la restaurazione del potere giudiziario con una magistratura inerte ed apatica. L’Associazione dei magistrati non ha personalismi, interessi egoistici, vanità e ripicche da far trionfare, essa è una delle forze più vigorose della restaurazione del potere giudiziario e per questa grande opera fa appello a quanti nell’ordine giudiziario sono accessibili all’ispirazione di una vera fede e sono capaci di lottare per qualcosa che vince ogni interesse di uomini e di categoria”[50].
La conflittualità con i vertici del regime, ancora indebolito politicamente dopo la vicenda Matteotti, e l’intransigenza nel voler piegare tutti i corpi intermedi e l’associazionismo giudiziario non sarà interrotta neppure da questa ondata di fiducia dell’opinione pubblica nell’operato della magistratura. In questo estratto, l’Associazione replica direttamente alle accuse di “sindacalismo” ad essa rivolte da Mussolini in persona:
“Amnesie
(…) Molte cose, del resto, ha avuto modo di dimenticare l’on, Mussolini tra il 19 ed il 25. Ben amare infatti sarebbero le conclusioni che dovrebbe fare la magistratura se volesse valutare l’opera dell’attuale Guardasigilli alla stregua delle idee esposte nel 1919 dal presidente del Consiglio nell’articolo su citato. Ci limiteremo a notare che mai come imperante Oviglio la Magistratura non è stata consultata per la Riforma Giudiziaria ». Potremmo commentare con le parole dell’On. Mussolini: «Sembra uno scherzo di cattivo genere ed è la verità»[51],
Altre accuse e attacchi arrivano nelle settimane seguenti da ulteriori esponenti fascisti, anche di primo piano, come Italo Balbo:
“Accuse
Una paurosa ondata di discredito assale da ogni parte la magistratura. Sarebbe idiota mostrare di non accorgercene. Ecco in poco più di una settimana : «...e sarà bene che il prefetto faccia capire al procuratore del Re, che per eventuali bastonature (che dovranno essere di stile) non si desiderano imbastiture di processi... Se scrivo da Roma è segno che so quello che dico» (Italo Balbo, generalissimo della Milizia: nella lettera al suo fiduciario Beltrani). «La legge non esiste più, la magistratura non reagisce più – è tempo che lo diciamo apertamente, pur riconoscendo le particolari benemerenze di quei pochi magistrati, ai quali domani la patria sarà grata – l’autorità pubblica non esiste più se non a vantaggio delle fazioni dominanti... ». (On, Facchinetti: nell’Assemblea delle opposizioni a Milano). «Per quanto riguarda la giustizia purtroppo non possiamo dire che lo Stato in questi due anni abbia sempre assunto la figura dell’ente superiore a tutti i partiti e giusto verso tutti i cittadini » (Sen. Conti: nella discussione al Senato sulla politica interna). «Come cittadino, come senatore io elevo la più alta protesta contro tanta offesa recata al diritto del Popolo italiano di non riconoscere se non le leggi approvate dal Parlamento, diritto di cui poco a poco, per adattamenti progressivi, esso è stato privato dalla sopraffazione del potere esecutivo e dalla compiacenza delle due Camere come della Magistratura» (Sen. Albertini id, id)”[52].
La ferma risposta dell’Associazione agli attacchi a mezzo stampa si trasforma in denuncia sempre più chiara del clima di violenza a danno dei magistrati, nonostante la consueta misura che accompagna i toni della Rivista e la sua attenzione a mantenere, per quanto possibile, il carattere di apoliticità tanto caro all’AGMI. Lo si apprezza in particolare in questo frammento, riferito alla svolta illiberale impressa dalla nuova legge sulla stampa:
“La nuova legge sulla stampa
L’indole di questo giornale c’interdice qualsiasi commento politico al nuovo progetto di legge sulla stampa. Ma poiché con esso sono create nuove forme di reato e si addossa ad un ramo della magistratura la non invidiabile facoltà del sequestro dei giornali, non possiamo esimerci dal notare, sotto l’aspetto tecnico-giuridico, la pericolosa evanescenza di alcune ipotesi delittuose che, faranno fremere nei loro sepolcri le ossa di Francesco Carrara e di Enrico Pessina. Intendiamo alludere ai reati consistenti nella pubblicazione di notizie allarmanti relative alla politica interna ed alla politica estera del governo. L’essenza e la severità delle sanzioni punitive ora escogitate contrastano con la più pura e gloriosa tradizione della scuola giuridica italiana e ricordano troppo da vicino il decreto 23 maggio 1915 sulla stampa e quello Sacchi del 4 ottobre 1917 sul disfattismo. Si era però allora in tempo di guerra e non si poteva badare tanto pel sottile alle esigenze normali del diritto. Ma ora dovremmo essere in un periodo di pace, nel quale gioverebbe non violentare, né corrompere quella comune coscienza giuridica che è la migliore difesa dello Stato costituzionale. Per ciò che ha riguardo poi all’incarico attribuito dal progetto ai magistrati del pubblico ministero, dobbiamo fare le più ampie riserve, e ne spieghiamo subito le ragioni. Non ignoriamo certamente che l’ordine di sequestro è una funzione di polizia giudiziaria, la quale, anche prima della legge Sonnino che aboliva il sequestro preventivo dei giornali, era affidata all’iniziativa del pubblico ministero. Ma quelli erano altri tempi. Prima di tutto i casi di sequestro non erano, nella legislazione dell’epoca, così frequenti ed elastici come quelli creati ora. La sensibilità della coscienza pubblica, inoltre, non era così esasperata come ora, e, ciò nonostante, le critiche al funzionamento del l’istituto furono tante che ne consigliarono l’abolizione. E, finalmente, allora si aveva un maggiore rispetto per la funzione giudiziaria, anche dei magistrati del pubblico ministero. Questi erano, per principio, amovibili, ma di fatto nessuno osava toccarli; ed il tramutamento, nonché di un procuratore generale, ma di un procuratore del Re, o di un semplice sostituto, eseguito per ragioni politiche, avrebbe costituito tale uno scandalo da mettere in pericolo il portafoglio di quel guardasigilli che avesse osato disporlo. In seguito i sistemi sono andati rapidamente mutando e degenerando. I magistrati del pubblico ministero, e, sotto parecchi aspetti, anche gli altri, senza che nessuno mostri comprendere a fondo la gravità del fatto, sono abbandonati alla completa mercé del potere esecutivo”[53].
V’è spazio anche per un richiamo all’onore della magistratura – che pare quasi rivolto ai posteri e al giudizio della storia più che ai contemporanei – e per un monito riguardo al peso della condotta di quei magistrati asserviti al compromesso col regime. Di contro, l’Associazione, per la sua “fierezza” nella difesa dell’indipendenza della magistratura, sa già di essere destinata a “prove dolorose”:
“Purtroppo, la cronaca dei giornali suona più grave dei discorsi politici: vi sono dei pretori bastonati, dei giudici blanditi e dei giudici minacciati o assassinati nell’onore, dei magistrati che han chiesto il trasloco d’urgenza, qualche magistrato che ha indossato la camicia nera, qui si agita un caso Occhiuto, là un caso Tramonte, qua e là, a mesi e mesi di distanza, si riesumano dagli archivi polverosi processi che parevano esauriti. I casi si succedono; ma la risultante, nel giudizio del pubblico, pesa infinitamente più della loro addizione. È una progressione geometrica crescente, nella quale ogni termine si potenzia di tutti gli altri messi insieme. Dall’episodio alla regola, dal singolo alla classe, nelle valutazioni collettive, il passo è breve. Quanti italiani si rassegneranno a pensare che una volta sola il generalissimo Balbo abbia usato del privilegio feudale di inviare ordini anche per un procuratore del re e che un Balbo solo ne fosse investito in tutta Italia? Vi sono magistrati che hanno piegato la loro coscienza al compromesso? Se vi sono, certo quei pochissimi le finiranno col pesare terribilmente sul nostro onore! E il loro peso purtroppo non potrebbe essere alleviato da nessuna protesta, neanche se essa potesse vantare a testimonianza della sua sincerità, come nel caso della nostra associazione, un passato di indiscutibile fierezza e pertanto di prove dolorose”[54].
Un esempio della compromissione di parte della magistratura col fascismo si riporta in La Magistratura, 27 dicembre 1924 nell’articolo “La toga e le armi”. Viene in tale sede riportata la segnalazione di un magistrato relativa a un suo collega che accompagnava Farinacci nella propaganda fascista nel mantovano, vestito in abiti cerimoniali fascisti; ma vengono anche segnalati altri magistrati che “vestono nella solennità da fascisti e fanno parti di coorti”. Il frammento è anche d’interesse per la (sempre attuale) riflessione su imparzialità e apparenza di imparzialità della magistratura:
“C’è l’inconveniente che i cittadini del mantovano si sentiranno balzare il cuore di gioia o di timore a vedere i loro giudici in certe compagnie o in divisa di decurione, a seconda che questi cittadini siano o non siano in teneri rapporti con quel determinato partito e coi suoi esponenti. C’è il pericolo di poter scambiare un ordine di partito con... un articolo di codice o almeno di correr rischio che il grosso pubblico lo creda. Ci sono questi ed altri inconvenienti, ma, in fondo in fondo, sono bazzecole, che fanno impressione agli spiriti deboli e alle anime romantiche. E si sa, al giorno d’oggi, la vita è di chi non sogna ma agisce, di chi fortifica il suo spirito in durezza di macigno. Però... però, vedano questi nostri colleghi in divisa d’un partito di convincere alle loro idee il Ministro della Giustizia, il quale ha proclamato che i magistrati devono essere lasciati sereni all’esercizio del loro ministero. E questo privilegio non può per sé richiedere il giudice che si fa parte in contese di partito”[55].
La mancanza di unità all’interno della stessa magistratura riaffiora anche in altri numeri con riguardo alle critiche rivolte da alcuni “capi” (degli uffici giudiziari) all’Associazione.
Si conclude questa breve rassegna riportando la risposta pubblicata nel numero 40 del 15 novembre 1924 de La Magistratura, ove la Redazione si rivolge direttamente alla magistratura e a noi lettori degli anni Duemila, nella speranza che le molte rivendicazioni di una maggiore indipendenza possano in quel tempo esser state attuate:
“Un nostro socio scrive: Si può sapere perché alcuni capi hanno da qualche tempo un atteggiamento di aperta o velata ostilità verso la nostra associazione? E un fallo, che va studiato e ricordato... » Ecco un perché non difficile a capire ma difficilissimo a spiegare. E del resto il nostro socio – dica la verità –non ha proprio bisogno dei nostri lumi. Chi ha seguito le vicende dell’associazione sa che la cosa non è nuova: una parte della magistratura e dei capi è stata sempre con noi di umore molto variabile, trattandoci un giorno da reprobi ed un altro da apostoli, dichiarandoci la pace al mattino e la guerra al tramontar del sole. (…) Il nostro socio chiuda per un momento gli occhi e faccia un sogno romanzesco. Si porti al mondo dell’anno Duemila, un mondo dove il magistrato non ha più nulla in comune col funzionario, ed il Ministero della giustizia non ha più ordini da impartire a capi di corte, a Consigli Superiori, a rappresentanti del P.M.; un mondo, in cui il giudice rappresenta il cardine vero e la garanzia dell’eguaglianza civile di fronte a tutti i cittadini, e nella sua vita nella sua carriera e, quel che più monta, nei suoi orbiti psicologici è immune da ogni preoccupazione e timore, nulla temendo o sperando dall’avvicendarsi dei ministri, dalla loro collera come dal loro favore; un mondo giudiziario, insomma, senza febbre di carrierismo, senza concorsi straordinari a getto continuo, senza incarichi speciali, senza arrembaggio di onori e di prebende, senza gabinettismo...Sogni, il nostro amico, per una buona mezz’ora e veda se in un tal ambiente d’indipendenza giuridica e morale, di fierezza, e di tranquillità intima gli riuscirà d’inserire idealmente i casi di cui si lamenta. Crediamo che no, ed allora bisogna concludere che l’umore variabile verso l’opera nostra sia parte di quell’ingranaggio di mali che pesa sulla vita giudiziaria italiana ed è una fra le tante manifestazioni di quella suggestione profonda che dagli ambienti della politica giudiziaria s’irradia sugli ambienti della giustizia[56]“.
* L’autore ringrazia per i suggerimenti ricevuti nelle fasi iniziali di stesura di questo contributo. Un ringraziamento particolare va anche alla Biblioteca del Consiglio superiore della magistratura e al personale bibliotecario per la gentile disponibilità offerta per la consultazione dei numeri storici della Rivista “La Magistratura”.
[1] A. MENICONI, La storia dell’associazionismo giudiziario: alcune notazioni, in Questione giustizia, 4, 2015.
[2] Cfr. A. FUNICIELLO, La vita (e non la morte) di Matteotti, Rizzoli, Milano, 2024.
[3] In tale occasione, oltre cento magistrati del distretto di Corte d’Appello di Trani firmarono un documento rivolto al governo per sollecitare una riforma dell’ordinamento giudiziario, dando vita a un movimento che non smise di crescere.
[4] Cfr. https://www.associazionemagistrati.it/print/32/storia.htm
[5] G. SCARSELLI, La Magistratura al tempo di Giacomo Matteotti, in Giustizia insieme, 23 marzo 2024. L’estratto è tratto da La Magistratura, 15 gennaio 1926.
[6] Vale la pena riportare per estratto il testo del Regio decreto perché indicativo del clima e delle ragioni di risentimento del regime. Verbatim: “Per grazia di dio e per volontà della nazione, Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione, Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra I Magistrati Italiani; Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e pubblicato; Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali; Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica; Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo; Viste le giustificazioni presentate dagli interessati; Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto; Abbiamo decretato e decretiamo Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art. I° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300”.
[7] A. MENICONI, cit., passim. Sull’importanza della figura di Vincenzo Chieppa (e del figlio Riccardo) per la storia recente della magistratura si veda V.M. CAFERRA, Riccardo e Vincenzo Chieppa nella tradizione della magistratura italiana, in Rivista di diritto privato, 2, 2012, 275 ss.
[8] In argomento, cfr. anche G. SANTALUCIA, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, in Giustizia insieme, 10 ottobre 2020.
[9] Cfr. AA. VV., Storia della Magistratura, Roma, 2022, reperibile all’indirizzo https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/1750902/ssm_q6_v1.pdf.
[10] La Magistratura, 28 giugno 1922.
[11] La Magistratura, 28 giugno 1922
[12] Sulle riforme del periodo e sul superamento della c.d. Riforma Rodinò, si veda G. SCARPARI, Il giudice del Novecento: da funzionario a magistrato, in Questione Giustizia.
[13] Si veda in particolare il seguente passaggio tratto da La Magistratura, 2 novembre 1922: “L’assoluto carattere di apoliticità della nostra Associazione e di questo Periodico c’impone l’astensione da qualunque commento intorno alle circostanze che hanno determinato l’avvento del nuovo ministero”.
[14] La Magistratura, 22 novembre 1922.
[15] La Magistratura, 29 novembre 1922.
[16] La Magistratura, 29 novembre 1922.
[17] La Magistratura, 6 dicembre 1922.
[18] Si veda in particolare La Magistratura.
[19] La Magistratura, 17 gennaio 1923.
[20] La Magistratura, 25 gennaio 1923.
[21] Regio Decreto n. 1978 del 1921.
[22] La Magistratura, 15 febbraio 1923.
[23] La Magistratura, 19 aprile 1923.
[24] Ivi, prima colonna.
[25] Ivi, seconda colonna.
[26] La Magistratura, 19 aprile 1923, seconda colonna.
[27] La Magistratura, 19 aprile 1923, 62, seconda colonna.
[28] La Magistratura, 22 settembre 1923.
[29] L. 18 novembre 1923, n. 2444.
[30] Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 2786 recante il Testo unico delle disposizioni sull’ordinamento degli uffici giudiziari e del personale della magistratura. Tra le altre previsioni, la riforma introdusse
[31] Le ragioni di questo mutato clima sono ben spiegate da G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, Il Mulino, 2019, 159 ss., cui si rinvia. Ci si limita qui a citare il seguente passaggio dal volume, ove si afferma che “La magistratura non aveva certo creato difficoltà all’ascesa del fascismo: quando vi fu la marcia su Roma, nelle carceri di molte città che avevano registrato le loro imprese delittuose non un solo fascista era detenuto per scontare una pena. Eppure, la magistratura era comunque un potere diffuso sul territorio e costituiva una variabile che non poteva essere controllata sempre con le minacce o le interferenze politiche; per un partito già animato da uno spirito totalitario era necessario agire in profondità: e questo cominciò a fare Oviglio con la sua riforma dell’ordinamento giudiziario”.
[32] La Magistratura, 3 aprile 1924.
[33] La Magistratura, 25 aprile 1924.
[34] Come ricorda G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 191.
[35] La Magistratura, 10 maggio 1924.
[36] La Magistratura, 10 maggio 1924.
[37] La Magistratura, 26 maggio 1924.
[38] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[39] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[40] La Magistratura, 17 giugno 1924.
[41] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[42] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[43] La Magistratura, 24 giugno 1924.
[44] L’episodio è commentato nell’articolo “La spada della giustizia”, in La Magistratura, 24 giugno 1924, 72.
[45] Il quale verrà poi sostituito da Nicodemo Del Vasto, su provvedimento di Vincenzo Crisafulli.
[46] Sulla figura di Del Giudice e della sua strenua difesa dell’indipendenza si vedano A. APOLLONIO, “Il delitto Matteotti” e quel giudice che voleva essere indipendente, in Giustizia Insieme, 14 febbraio 2019 e G. SCARSELLI, La Magistratura al tempo di Giacomo Matteotti, cit., passim.
[47] G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, Il Mulino, 2019 , pp. 194 ss.
[48] La Magistratura, 7 luglio 1924.
[49] La Magistratura, 7 luglio 1924, seconda e terza colonna.
[50] La Magistratura, 16 settembre 1924.
[51] La Magistratura, 15 ottobre 1924.
[52] La Magistratura, 15 dicembre 1924.
[53] La Magistratura, 23 dicembre 1924.
[54] La Magistratura, 15 dicembre 1924.
[55] La Magistratura, 27 dicembre 1924
[56] La Magistratura, 15 novembre 1924.