Regionalismo differenziato e permanenza della specialità*
di Fabrizio Tigano
Sommario: 1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia - 2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni - 3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001 - 4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud - 5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione - 6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost. - 7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata - 7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste - 7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato - 7.3. Le prospettive della differenziazione - 8. La condizione di insularità come recupero della specialità - 9. Brevi considerazioni conclusive.
1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia
È noto che il regionalismo italiano abbia attraversato diverse stagioni e che, anzi, sia stato costruito, parafrasando Giorgio Bocca, sulla scorta di un fil rouge che è rimasto carsicamente sotto traccia sin dall'unificazione e dal subito tramontare delle proposte federaliste che si sono ripetutamente affacciate - forse ancora oggi è così - senza produrre risultato.
L'unità e indivisibilità della Repubblica, accompagnate dal decentramento discendente centro-periferia - e poi, dopo il titolo V in senso ascendente - nella complessa e tutto sommato riuscita formulazione dell'art. 5 della Carta costituzionale, serba in sè la traccia, l'impronta di una condizione politico-territoriale - e poi anche economica - nella quale le regioni sono sempre esistite.
Il problema è sempre stato fare gli italiani, non perchè il senso di appartenenza, dolorosamente consolidatosi anche attraverso conflitti mondiali e guerre d'indipendenza, sia realmente mancato, ma perchè le divisioni territoriali, il retaggio comunale, i particolarismi e le particolarità reali dei territori hanno segnato l'accidentato percorso dell'autonomia nel suo complesso.
In questo contesto, la distanza tra Stato ed enti locali - chiaramente percepibile negli allegati A e B della legge sull'unificazione amministrativa, n. 2248 del 1865 - ha segnato anche la storia del Paese (si pensi a fenomeni come il banditismo ed il brigantaggio).
La creazione di un livello di governo intermedio che fosse in grado di colmare questa distanza, da cui era discesa una ulteriore compressione delle autonomie in epoca fascista, all'indomani del secondo conflitto mondiale costituiva, pertanto, una necessità avvertita trasversalmente ed indeclinabilmente.
La dialettica centro-periferia, all'indomani della scelta di dar corpo ad un ordinamento regionale, d'altro canto, ha aperto la strada ad una concezione della democrazia che fosse fondata dal basso, al di là del fatto che il principio di sussidiarietà troverà consacrazione nel testo costituzionale solo nel 2001, in esito alle c.d. "riforme Bassanini", il cui merito, fosse solo questo il loro portato, resta evidente.
2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni
La vicenda regionale - come quella, connessa, dell'autonomia locale - ha seguito un percorso notoriamente accidentato.
Già in sede costituente è stata percepita la necessità di istituire, all'interno del genus regionale, speciesdiverse di autonomia, una differenziazione ante litteram o forse, più semplicemente, una prima differenziazione, di cui l'argomento del presente dibattito è - non si sa bene, se ultima - propaggine.
All'interno delle autonomie speciali regionali e di quella provinciale di Trento e Bolzano, tutte legate a ragioni storiche, politiche, amministrative ed economiche, si registrano tempi di attuazione e contenuti differenziati sui quali operare una reductio ad unum non era affatto semplice.
La Sicilia, in particolare, anche in ragione del fatto che la seconda guerra mondiale vide la sua conclusione reale ed effettiva nell'autunno del 1943 (a differenza delle regioni continentali, soprattutto di quelle più settentrionali, dove si consumarono gli ultimi drammatici momenti del regime, tanto da potersi considerare conclusa convenzionalmente il 25 aprile 1945), reclamò da subito - mutuando una espressione particolarmente cara ad Ignazio Marino - una forma di autonomia molto vicina alla secessione.
È, anzi, noto come nell'isola presero vita istanze di emancipazione dal potere centrale che, anticipando di gran lunga quanto avverrà a partire dagli anni '90 nel settentrione, si spinsero fino ad assumere il carattere di veri e propri movimenti secessionisti. A differenza dei moti di Bronte - come noto, inutilmente soppressi nel sangue da Nino Bixio - vi furono esperienze come la repubblica di Comiso, proclamata il 6 gennaio 1945, che si spinsero a chiedere l'indipendenza e la sovranità (il limite che la Corte costituzionale ha sempre posto anche alla più estrema delle autonomie speciali, tra cui la stessa Sicilia), forse anche la federazione agli Stati Uniti d'America.
Tanto basta per fare della Sicilia - in linea con un retaggio storico caratterizzato da diverse e sempre contrastate dominazioni - un unicum nel panorama delle autonomie speciali. Non a caso, lo statuto siciliano risale al 1946 e, al di là del suo "travaso" in legge costituzionale, non è mai stato realmente allineato alla sopravvenuta Carta costituzionale, costituendo, così, per mutuare una espressione cara a Salvatore Raimondi, privilegio e condanna del popolo siciliano.
Occorre aggiungere che, in generale, l'attuazione del disegno costituzionale regionale, così come preconizzato all'interno del Titolo V, non è stata più semplice, perchè a lungo fagocitata da una fase politica estremamente complessa, segnata dalla dialettica tra sinistra e partito popolare, risoltasi solo dopo che è apparso chiaro a tutti che i tempi per l'avvento delle prime alla guida del Governo non fossero ancora maturi.
Il disegno regionalista del 1948, inoltre, ha progressivamente mostrato la corda anche nella sua fase di attuazione: le Regioni ordinarie, tardivamente istituite, soprattutto nell’esercizio delle funzioni amministrative hanno finito per duplicare e persino mettersi in competizione con gli enti locali, cui ordinariamente era destinato, per il loro tramite, il decentramento preconizzato dall’art. 5 e declinato dall'art.118 della Carta costituzionale.
Si tratta di un tema assai delicato, frutto della – forse ineliminabile – politicizzazione dei centri di potere regionale, ma anche della burocratizzazione delle attività amministrative, mancando così di costituire quel necessario tassello di unitarietà dell’ordinamento che, e necessitate, doveva contemplare anche gli enti locali, la cui legge fondamentale, ex art. 128 Cost., è intervenuta solo nel 1990, cioè vent’anni dopo l’istituzione delle regioni ordinarie.
3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001
Gli elementi sommariamente ricordati hanno fatto sì che si delineasse - al di là della differenza tra gli statuti - un sistema a più velocità, scoordinato nella sua attuazione – come ebbe modo di rilevare già Calamandrei – ancorchè il disegno avesse una precisa (e condivisibile) logica.
Da un lato, l’istituzione delle regioni a statuto speciale è avvenuto “a singhiozzo” e non sempre in linea con la Carta costituzionale, segnando – come nel caso della Sicilia – addirittura ragioni di contrasto mai risolte; dall’altro lato, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario – teoricamente più semplice – ha sofferto di ritardi legati a contingenze storico-politiche dissipatesi solo dopo la metà degli anni ’60; dall’altro lato ancora, gli enti locali, veri destinatari dei benefici dell’istituzione dell’ordinamento regionale, sono rimasti relegati – almeno fino all’avvento della legge n. 142 del 1990 (e forse anche dopo) – ad un ruolo marginale, non recuperando il gap già segnato dagli allegati a) e b) della legge n. 2248 del 1865 ed in fondo ribadito dal t.u. della metà degli anni ’30.
Le esigenze dei territori e dei cittadini sono così rimaste per lungo tempo sullo sfondo di un centralismo mai sopito, che a quello statale ha visto sommarsi quello regionale.
La “spinta” discendente dall’attuazione dell’art. 128 della Costituzione ha segnato, quasi per paradosso, il de profundis della medesima norma, nel senso che la tardiva attuazione dello schema originario posto dall’art. 5 e dal titolo V ha fatto sì che, una volta compiuto il quadro, questo, quasi come nel ritratto di Dorian Gray, mostrasse già tutti i segni del tempo.
Le riforme Bassanini, come noto, sono intervenute, soprattutto al fine di dar luogo, dopo la controversa esperienza degli anni ’70, ad un nuovo trasferimento organico di funzioni amministrative, fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Preso atto, però, della difficoltà di operare le riforme “a Costituzione invariata” e del coevo fallimento della Bicamerale D’Alema, pur a colpi di maggioranza, è stata, infine, varata la riforma del Titolo V con la legge costituzionale n.3 del 2001, laddove gli assetti originari sono stati certamente modificati, forse non sconvolti, a dire il vero (della legge n. 3/2001, infatti, esiste una duplice lettura: profondamente riformatrice e riformatrice ma fortemente ancorata a precedenti vocazioni centraliste).
La norma più “ad effetto” è, probabilmente, l’art. 114, che capovolge il regime delle competenze alla luce del principio di sussidiarietà, ponendo, in tesi, sullo stesso piano i diversi livelli di governo in funzione del principio di leale collaborazione, declinato sulla risposta più immediata ed efficace alle varie ed assai complesse realtà territoriali del Paese (tutti aspetti ancora oggi di piena attualità).
Le norme di più forte impatto sono gli articoli da 116 a 120, in quanto disegnano i tratti fondamentali del nuovo regionalismo – almeno, tendenzialmente cooperativo, sicuramente non competitivo nelle intenzioni – riconoscendo un ruolo di maggiore momento al già stanco assetto regionale ordinario, rimasto fagocitato dalla sua tardiva attuazione, dal difficile trasferimento delle risorse e delle competenze, dalle inefficienze di una burocrazia restia ad amministrare ponendosi al centro dei rapporti stato-enti locali. Anzi, il moderno disegno della legge 142 del 1990, dando fortissimo impulso allo sviluppo di Province e Comuni (si pensi, a titolo di esempio, all’elezione diretta dei Sindaci ed alle “primavere” comunali da essa germinata, ma non solo), ha finito per costituire il traino per attribuire nuova linfa alla stessa struttura regionale, ponendo in tratto di dubbio quel “regionalismo di uniformità” che proprio l’art. 116 c. 3 tende a scardinare, al di là delle nuove competenze legislative primarie e del superamento del principio del parallelismo in nome del principio di sussidiarietà.
4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud
L’attuazione del nuovo titolo V, come noto, è risultata tutt’altro che semplice, non essendo state dipanate alcune questioni di fondo ancora oggi presenti nel dibattito scientifico (oltrechè politico ed economico) che hanno costituito e tuttora costituiscono il limite profondo ed immanente ad ogni tentativo di riforma.
Il divario nord-sud, la complessità dei trasferimenti finanziari provenienti dallo Stato, la relazione con i territori e con gli enti locali, la trasversalità di alcune materie di legislazione concorrente, il mai risolto tema dei diritti sociali e, più in generale, dei diritti fondamentali dei cittadini, la simmetria “possibile e sostenibile” tra le regioni (si pensi, per tutte, alla questione del diritto alla salute), le relazioni con Governo e Parlamento (anche alla luce dell’elezione diretta dei governatori regionali), la debolezza politica delle regioni, convertitesi in centri di gestione e di amministrazione, la sovrapposizione ed il mancato coordinamento delle competenze con gli enti locali, sono solo alcune delle questioni sul tappeto.
Una prima risposta, sulla quale ancora oggi dovrebbe lavorarsi, è stata le legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, i cui decreti attuativi, in particolare il n. 216 del 2010, hanno affrontato lo scottante tema della scelta, nel finanziamento pubblico, tra costi storici e costi standard in vista della individuazione dei LEP con riferimento ai diritti civili e sociali da realizzare sull’intero territorio ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. m).
Si tratta, però, di un processo che paga fatalmente le crisi che, a partire dal 2008, quasi ininterrottamente, hanno colpito la struttura economica e finanziaria dello Stato, determinando una serie di tagli lineari che hanno colpito in misura assai rilevante le regioni e gli enti locali. Il 2012, in particolare, segna l’avvento di una riforma costituzionale che apre una fase particolarmente faticosa per rientrare nei parametri dell’Euro (e non solo), in funzione di politiche eurounitarie improntate ai parametri dell’austerità accompagnata dalla sollecitazione ad operare riforme profonde per modernizzare e rendere efficiente la macchina amministrativa italiana, a tutti i livelli.
A tale fase è corrisposta, giocoforza, una risposta articolata dei territori e della autorità regionali e locali. Ma, mentre queste ultime hanno subito, per lo più, le difficoltà dell’austerità, ad un tratto, la reazione, tra il 2018 ed il 2019, si è (nuovamente) manifestata da parte di alcune regioni, segnatamente la Lombardia il Veneto e l’Emilia Romagna (ma poi anche di altre, tra cui la Campania), nel rivendicare il proprio ruolo istituzionale attraverso la richiesta di ulteriori e più estese forme di autonomia, differenziandosi dal resto del Paese, facendo appello ad una norma di complessa attuazione come l’art. 116 c. 3 del novello titolo V.
Nasce da qui quello che viene oggi battezzato come “regionalismo differenziato”, che, se rapportato al complessivo disegno costituzionale regionalista, in effetti, costituisce ulteriore differenziazione all’interno di un quadro nel quale campeggiavano (e si differenziavano per qualità degli statuti) le regioni ordinarie e quelle speciali.
Non si devono avere prese di posizione preconcette su questo punto: le rivendicazioni delle regioni a statuto ordinario sono pienamente legittime sul piano costituzionale (bisognerebbe vedere in quello amministrativo) e forse hanno una logica precisa in un contesto, anche a livello europeo, nel quale una struttura regionale maggiormente protagonista, pur nel rispetto dei limiti dell’interesse nazionale, delle scelte economiche, fiscali e politiche potrebbe costituire un motivo di forza e di sviluppo dei territori, una realizzazione della cittadinanza in armonia con gli artt. 174 e 175 del TFUE e, nel contempo, uno snellimento della struttura centrale, non sempre in grado di provvedere adeguatamente.
Vi è, però, che il regionalismo differenziato non può costituirsi prescindendo dalla risoluzione dei problemi che hanno caratterizzato l’ordinamento regionale nel suo complesso, dal divario Nord – Sud (il recupero del gap è, come risulta pacifico da tutte le relazioni stese sul punto, compresa quella della Banca d’Italia, fondamentale per la crescita del Paese), cui è connesso il corretto riparto delle risorse (finora non paritario), alla previa determinazione dei LEP sulla base dei costi storici e/o standard, dal mantenimento di un fondo perequativo, tale da non determinare un regionalismo competitivo e rimanere – come richiede la Corte costituzionale – nell’ambito di un regionalismo cooperativo.
Nel merito, le richieste rischiano di determinare un vero e proprio svuotamento della legislazione concorrente, aspetto che, in sé potrebbe risultare persino paradossale.
Nel metodo, la scelta è caduta – come pare ormai assodato – sull’utilizzo di una legge rafforzata di attuazione dell’art. 116 c. 3, che, però, nelle attuali formulazioni, mostra una sorta di “amministrativizzazione” non del tutto convincente. Immaginare, in particolare, come prevedeva il disegno di legge “Boccia”, si possa procedere oltre anche laddove non siano stati previamente determinati i LEP, facendo ricorso ai costi standard rischia di fare degenerare il processo di differenziazione, che, in tesi, mira ad ottenere risultati proficui in termini di efficienza e gestione delle risorse, anziché aggravare i divari esistenti, che non servono ad alcuno, anche in termini economici (Castronuovo).
5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione
Sul processo di differenziazione pendono altri problemi di fondo: il suo porsi in controtendenza con le scelte politiche di “accentramento” post Covid 19 ribadite dal PNRR, non avendo, peraltro, le Regioni dato sempre piena prova di riuscire a superare le attuali fasi di crisi (altro discorso è quello della competenza legislativa statale per materia). La pandemia ha certamente evidenziato la necessità di procedere ad una corretta riorganizzazione amministrativa sui territori che, da una parte, agevoli i processi di sviluppo, dall’altro non fagociti i diritti fondamentali dell’intera cittadinanza.
Anche le notevoli risorse destinate al Mezzogiorno dal PNRR, finalizzate allo sviluppo dei territori ed alla salvaguardia dei diritti di cittadinanza, passa attraverso la capacità di operare gli interventi e, concretamente, di "metterli in campo" (Manganaro).
Vi è un’altra obiezione all’immediata attuazione del regionalismo differenziato – fra le tante, non si pensa di esaurirle tutte – ossia il ruolo del principio di sussidiarietà posto dall’art. 118 della Costituzione novellata nel 2001, al centro del quale campeggia il Comune e non la Regione.
L’attuazione del regionalismo differenziato potrebbe dar luogo ad una sorta di riproposizione del parallelismo, ma rovesciato, non consentendo l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni. In altri termini, se è forse anche corretta l’idea secondo la quale la dipendenza dallo Stato costituisca la propaggine di un centralismo da scardinare – ancorché attualmente in una delle sua fasi di maggiore fulgore – in nome dell’originario disegno costituente posto dall’art. 5 (rispetto al quale la riforma del 2001 non può dirsi in contrasto), sarebbe stato preferibile riconoscere maggiore rilevanza alla sussidiarietà posta dall’art. 118, prima ancora che giungere a proposte, che, senza la soluzione dei nodi problematici che accompagnano il regionalismo italiano, rischiano di tradursi in ulteriori divisioni, al limite della secessione (beninteso, non si può parlare di secessione tout court), non utili allo sviluppo ed alla crescita dell’Italia.
Ciò per tacere del tema della fiscalità, che, come noto, è agganciata a principi che prescindono dalla produttività dei singoli territori e comunque è improntata alla redistribuzione equa tra tutti, ma anche del fatto che la neutralità del trasferimento non sarebbe facilmente considerabile né garantibile. In tal senso, va ricordato il contributo di Luciano Vandelli, il quale evidenzia la presenza di due pilastri: l’art. 118 in nome della differenziazione adeguatezza e sussidiarietà; quello costituito da “valori unitari e gli strumenti per la loro tutela, i livelli essenziali, la perequazione e la solidarietà del sistema finanziario, i principi fondamentali nelle materie concorrenti, la leale collaborazione, eccetera ex art. 117 e 119”.
In altri termini, si tratta di un contesto nel quale ben vengano le richieste autonomistiche delle regioni a statuto ordinario. Ma senza prescindere da una visione complessiva, a pena di determinare una fase nella quale venga ad incrinarsi gravemente, se non proprio a spezzarsi, l’unità dell’ordinamento.
6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost.
Viene, così, a delinearsi un quadro di luci ed ombre, attraversato dal dubbio che mascherati intenti egoistici dei “più ricchi” vadano a discapito dei “più poveri”.
Si tratta di una vulgata, a volte anche echeggiata in alcune affermazioni di carattere politico, a cui non si può e non si deve credere. Lo stesso Ministro Calderoli a più riprese ha chiarito che non si mira affatto a creare divisioni ed ingiustizie tra regioni e territori, ma a promuovere il sistema regionale, quello degli enti locali e lo sviluppo dei territori e del Paese (bisognerà vedere, però, cosa accadrà in concreto).
D’altro canto, sia nella bozza informale sia nel disegno di legge governativo, ciò risulta abbastanza chiaramente, pur con tutta una serie di perplessità che riguardano la stipula ed il valore delle intese e soprattutto il ruolo del Parlamento, a lungo esautorato da decisioni che riguardano l’intera collettività, la cui centralità va recuperata soprattutto in una fase politica nella quale sembrano archiviate le – pur necessarie – esperienze “tecniche” o “di larghe intese”, esperienze di governo non diretto frutto della volontà popolare.
Se, infatti, come insegna la quasi totalità della scienza costituzionale, i governi tecnici, pur pagando in termini di rappresentatività, sono perfettamente legittimi, d’altro canto, la parentesi storica che li ha contemplati è stata forse eccessiva.
La “tecnicizzazione” delle scelte politiche (come, in fondo, di quelle prettamente amministrative), del resto, porta con sé vantaggi e svantaggi: da una parte si tratta di scelte difficilmente discutibili, anche perché sovente necessitate dalla contingenza; dall’altra parte, però, la diretta legittimazione popolare e la possibilità (come è attualmente) di godere di una solida maggioranza (almeno nei numeri), consente di operare scelte "propriamente" espressione dell’indirizzo politico, cui non si vede perché rinunciare.
In un recente disegno di legge presentato dall’opposizione viene segnalato – anche questo è un importante aspetto sul quale riflettere – che diverse materie di legislazione concorrente previste dall’art. 117 (“produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, le “grandi reti di trasporto e di navigazione”, le “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito fondiario e agrario a carattere regionale”) richiedano un diverso riparto delle competenze, anche in funzione dell’attuale nuova fase storica e dei rapporti con l’Unione europea. Ma viene anche ricordato, segnatamente con riferimento alla bocciatura della richiesta regionale di trattenere i 9/10 dei tributi riscossi a livello regionale, che l’autonomia differenziata “come insegna anche la storia delle regioni a statuto speciale, non può essere considerata un fine in sé, quasi si trattasse di realizzare una statualità propria della regione richiedente, ma come un processo in cui sperimentare il miglioramento delle politiche pubbliche in un quadro di sussidiarietà che non intacchi l’unità nazionale”. Ovvero, si tratta di “competenze, quali quelle in materia di politiche attive del lavoro, di integrazione fra politiche attive e politiche passive, di organizzazione delle fondazioni ITS, di realizzazione di un sistema integrato di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale, di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, di governo del territorio funzionale alla rigenerazione urbana e alla prevenzione del rischio sismico°, che le regioni “possono gestire adattandole proficuamente ai diversi sistemi d’impresa che caratterizzano i nostri territori”.
Nel disegno di legge di cui si tratta – ovviamente, ben più definito della iniziale “bozza Calderoli” del novembre scorso (ma non pare con esso in totale contrasto) – viene precisato che l’attribuzione delle competenze alle regioni presuppone il rispetto degli artt. 118, 2 e 5 della Costituzione, “sentiti gli enti locali e tenuto conto delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane definite dalla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. p) della Costituizone”; inoltre, l’attribuzione delle competenze, ove riguardino materie che costituiscano livelli essenziali delle prestazioni (art. 117 c. 2 lett. m) possano essere attribuire alle regioni richiedenti solo dopo la definizione dei LEP.
In ogni caso il Parlamento (dopo una prima fase governativa ove si ha la sottoscrizione dell’intesa), è consultato con l’acquisizione del parere da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali e poi nella fase successiva alla sua sottoscrizione definitiva, con la trasmissione dello schema di disegno di legge di ratifica alle Camere ai sensi dell’art. 116 c. 3, con eventuale previo invio di una relazione dettagliata governativa circa eventuali difformità dalle indicazioni espresse dal Parlamento.
Vi è, poi, il profilo relativo ai LEP, che vanno previamente determinati, entro e non oltre un anno dalla entrata in vigore della legge, nonché il nodo delle risorse strumentali e finanziarie in uno al trasferimento delle competenze alle regioni, in base a quattro fondamentali principi: 1) il rispetto del principio di equilibrio dei bilanci pubblici; b) la tendenziale neutralità finanziaria e il rispetto degli equilibri di finanza pubblica; c) l’integrale copertura delle funzioni, ai sensi dell’art. 119; d) il periodico aggiornamento del quadro finanziario in rapporto all’evoluzione del quadro macro economico, nel rispetto della neutralità finanziaria.
Aspetto sul quale pare ci sia una convergenza tra maggioranza ed opposizione è quello del riferimento ai costi standard, ossia le risorse da assegnare in sede di intesa, risorse finanziarie assegnate in termini di compartecipazione al gettito dei tributi erariali del territorio regionale. Fino alla definizione dei costi standard, le risorse sono attribuite alla regione con riferimento alla spesa permanente sostenuta dallo Stato per l’erogazione delle corrispondenti funzioni.
Una differenza tra la bozza Calderoli ed il disegno di legge governativo è sul passaggio finale in sede parlamentare.
Mentre l’art. 2 c. 6 della bozza prevedeva la mera approvazione dell’intesa, adesso il riferimento è al solo art. 116 c. 3 della Costituzione. In realtà, il procedimento descritto nel disegno di legge governativo tende dichiaratamente a salvaguardare il ruolo del Parlamento, prevedendo la possibilità di esprimersi con atti di indirizzo. Occorrerà verificare cosa accadrà davvero.
7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata
Il 116 c. 3 non va inteso pregiudizialmente come contenente una clausola idonea a fondare un tertium genus di regionalismo: si tratta, invero, di uno strumento di razionalizzazione e perfezionamento del regionalismo ordinario, su matrice volontaria, opzionale e non obbligatoria.
Eppure, è stato sostenuto che l’art. 116, introdotto in modo approssimativo ed all’ultimo minuto, costituisca un modo per non affrontare la questione più profonda, che è quella della “federalizzazione” dell’ordinamento (Frosini), da cui dovrebbe discendere, quale primo passo, l’abolizione della specialità, in quanto, in uno stato federale, tutte le regioni sono “speciali”.
Da altra parte, poi – ed è una tesi ricorrente – si considera inattuabile l’art. 116 c. 3 perché carente “di strumenti flessibili di integrazione tra unità e differenziazione, tra competizione e cooperazione” (Palermo). Il rischio è che “una volta innescato il meccanismo differenziale, non sarà più possibile tornare indietro, almeno con decisione unilaterale dello Stato”, essendo l’accordo governabile solo attraverso soluzioni politiche e non istituzionali. Si creerebbe, cioè, altra specialità con un procedimento diverso da quello degli Statuti speciali e delle norme di attuazione, queste ultime, caratterizzate da riserva e separazione.
La c.d. “clausola di asimmetria” contenuta nell’art. 116 c. 3 è accompagnata da una serie di previsioni utili a compensare gli effetti negativi che riguardo alla distribuzione delle risorse, potevano scaturire da una differenziazione esasperata: la istituzione di un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119) e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale ex art. 117 c. 2 lett. m).
A ben guardare, però, l’attuazione dell’art. 116 c. 3 non è, almeno formalmente (ma su questo il disegno di legge governativo pare consentire maggiore ottimismo), subordinata alla istituzione del fondo perequativo ed alla fissazione dei LEP: in tesi, dunque, la sua attuazione potrebbe avvenire prescindendone, cioè senza le garanzie necessarie a salvaguardare la coesione economico-sociale del Paese e l’unità nazionale. Il fondo perequativo non è ancora stato istituito e non sono stati fissati in diversi importanti settori i LEP, né è stato applicato il principio dei fabbisogni standard per il calcolo dei costi delle funzioni.
Sta di fatto che il modello cui le regioni a statuto ordinario hanno guardato – anche questa è una communis opinio, seppure più fondata della precedente vulgata – è quello dell’autonomia speciale, ancorchè si tratti di un modello astratto, in quanto concretamente attuato in misura diversa da regione a regione. Ciò si ricava anzitutto dalla formulazione del quesito posto nel referendum consultivo del 2017 Veneto (l’unico fatto salvo dalla Corte costituzionale n. 118 del 2015), dal numero di materie (23) in cui è stata chiesta l’attivazione della clausola di asimmetria – non consentendo di parlare di una funzione integrativa e complementare rispetto alla vigente articolazione delle competenze, rinviando all’idea di un vero e proprio statuto speciale – e dalla previsione nelle bozze d’intesa che le modalità per l’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali e le forme di raccordo con le amministrazioni centrali per l’esercizio delle funzioni devolute dovrebbero essere determinate da un’apposita commissione paritetica, simile a quelle previste nelle regioni a statuto speciale.
Viene, però, in dottrina, rilevato che la composizione di queste commissioni è meno garantista delle paritetiche (in quanto ne fanno parte soggetti designati da organi di rappresentanza elettiva anziché dall’esecutivo) e che, a differenza dei decreti di attuazione degli statuti speciali (atti con forza di legge previsti da leggi costituzionali ed emanati dal P.d.R.) gli atti previsti dalle bozze d’intesa sarebbero decreti del P.d.Consiglio, privi di forza di legge e dall’incerta natura, mal celando l’intento di “privatizzare” il trasferimento di funzioni alle regioni, riservandolo al rapporto tra esecutivo nazionale e regionale (Morelli).
L’autonomia differenziata può, dunque, essere intesa come un modo per giungere all’autonomia speciale per altra via rispetto a quella dello statuto speciale di rango costituzionale? E poi: la riforma del 2001 ha, in qualche modo, decostituzionalizzato il procedimento di riconoscimento dell’autonomia speciale?
A questi quesiti si può rispondere in vario modo: la risposta più probabile è quella negativa, dal momento che il costituente ha distinto in modo chiaro tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario.
Altro discorso, ovviamente, è interrogarsi circa la perdurante utilità del regime duale esistente, in quanto integrato da regioni ordinarie differenziate.
Al proposito, in dottrina si è parlato di una nuova “specialità diffusa” (Ruggeri), predicando, cioè l’abbandono del modello duale in nome di nuovi percorsi autonomistici regionali e locali nei quali il tema della coesione politica e sociale, anche per quel che concerne i diritti sociali e di cittadinanza, istituendo fondi perequativi, fissando LEP, sia diversamente articolato. Preso atto dei percorsi possibili cui può dare la stura l’attuazione dell’art. 116 c. 3, infatti, vi è l’opportunità – e persino la necessità – “di abbandonare una buona volta e senza rimpianto alcuno il vecchio regime duale fondato sull’articolazione dell’autonomia in ordinaria e specie, mirando piuttosto (e decisamente) all’impianto di un sistema complessivo di specialità diffusa, eretto e incessantemente rinnovato con il fattivo concorso delle stesse regioni in forme idonee a salvaguardarne l’autonomia, nella cornice dalla unità-indivisibilità della Repubblica. Si tratta di un percorso che, tuttavia, richiede l’obbligatorio ricorso alla revisione costituzionale, non potendosi aggirare le norme della Carta fondamentale”.
Si è anche rilevato che l’attuale processo di differenziazione, diversamente da quanto prefigurato nel 2006 e poi nel 2018, segue una prospettiva di differenziazione generalizzata, ponendo in crisi la stessa distinzione rispetto alla tradizionale “specialità”. Nel silenzio dell’art. 116, tale circostanza metterebbe seriamente in discussione l’attuale impianto costituzionale, nel quale vige una ordinarietà governata dal Titolo V, con parziali deroghe per le regioni speciali.
Infine, è stato posto il problema della sostenibilità per la finanza pubblica di un regime differenziato generalizzato.
Insomma, il tema è se sia messa in discussione la stessa sopravvivenza della specialità, oltre alla potenziale integrale disattivazione dell’intero Titolo V, dando ragione a chi sostiene che debba abbandonarsi il regime duale in nome di una specialità diffusa. Unica vera alternativa è l’adeguamento degli statuti (ex art. 10 l. cost. n. 3/2001). Laddove il regionalismo differenziato sconfinasse in quello speciale, del resto, si potrebbe parlare di una surrettizia (e pericolosa) forma di violazione della Costituzione.
In tal senso, è stato rilevato che non è possibile far transitare tutte le Regioni ordinarie nel modello della differenziazione e, d’altro canto, non può porsi un vero e proprio limite quantitativo e temporale senza condurre un discorso maggiormente organico. La rivendicazione generalizzata della differenziazione incide e forse trasforma la stessa forma di Stato, perché diventano oggetto di discussione i modelli regionali. Il modello della differenziazione, dunque, va, molto probabilmente, inserito in un quadro costituzionale già esistente, senza assimilazione al modello della specialità.
Il "116" serve a trasferire ulteriori competenze legislative (o pezzi di esse), quindi il suo impatto è tutt’altro che irrilevante. Se si trattasse solo di trasferire funzioni amministrative sarebbe sufficiente l’art. 118 ed una legge ordinaria, non vi sarebbe ragione di ricorrere al 116 c. 3. In ogni caso, non vi è alcuna obiezione in relazione al fatto che il trasferimento di funzioni legislative coinvolga anche quelle amministrative, come dimostra il previo coinvolgimento degli enti locali in nome, evidentemente, del principio di sussidiarietà.
7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste
Quali sono, eventualmente, le ragioni che giustificano la permanenza del regime duale? La specialità risponde ad una logica top down, discendente e imposta dall’alto, frutto di negoziazione politica; il 116 c. 3 risponde alla logica bottom up, giacchè l’attribuzione delle condizioni particolari di autonomia discende da una legge approvata a maggioranza assoluta, a seguito di negoziazione politica e sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione interessata.
Mentre l’autonomia differenziata può essere istituita solo nelle materie indicate dall’art. 117, cui rinvia il 116 c. 3, l’autonomia speciale ha, in potenza, un ambito di estensione più ampio, perché non conosce limiti precostituiti, se non l’inserzione nelle leggi costituzionali di approvazione degli statuti speciali.
Dunque, l’autonomia speciale, in tesi, è complessivamente superiore rispetto a quella differenziata.
Ma quali esigenze le due forme di autonomia sono chiamate a soddisfare? L’autonomia speciale, in tesi, risponde ad una logica prevalentemente identitaria (e forse anche ideologica), quella differenziata ad una visione funzionalista, ossia come strumento per assicurare un’amministrazione efficace ed efficiente.
Sull’autonomia speciale, vi sono tesi opposte: vi è chi la ritiene un caposaldo storico dell’ordinamento italiano (D’Atena), pertanto sottratto alle volizioni politiche contingenti (Silvestri); ma anche chi considera le autonomie speciali come alcune tra le possibili declinazioni del principio autonomistico di cui all’art. 5, che, come tale, potrebbe trovare diverse (e forse anche più soddisfacenti) realizzazioni (Pajno).
In astratto, i modelli sono distinti: si trovano di fronte forme di autonomia speciale intangibile se non con il procedimento di revisione costituzionale, rispetto a potenziali autonomie differenziate, orientate da parametri di efficienza amministrativa e contenute entro i limiti dell’art. 119.
Ovviamente, passando dall’astratto al concreto, il discorso può trovare altra declinazione, considerato che le istanze identitarie e quelle funzionaliste non stanno in conflitto tra loro e possono anche convergere. La contrapposizione tra la declinazione politico-identitaria e quella funzionalista dell’autonomia “non deve essere enfatizzata alla luce del fatto che, anche se nella configurazione istituzionale di un livello territoriale di governo, si parte dell’esigenza di soddisfare al meglio gli interessi, non si può prescindere dalle risultanze storico-sociali e dalle intrecciate ragioni economiche legate alla comunità di riferimento” (Tarli Barbieri).
Le autonomie speciali, a loro volta, non costituiscono una categoria omogenea, nel senso che ogni statuto speciale presenta caratteri propri e peculiari (quelli che giustificano, in linea di principio, la specialità) ed anzi è noto che, per alcune regioni (soprattutto quelle insulari), la specialità ha finito per costituire un freno anziché una risorsa per lo sviluppo dei relativi territori.
Né gli orientamenti del legislatore e del giudice delle leggi hanno mai attraversato stagioni di particolare fulgore, nel senso che le aspirazioni di tutte le autonomie, regionali, ordinarie e speciali, hanno subito, in misura più o meno ampia, gli effetti di una logica orientata più all’omologazione che alla differenziazione.
7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato
Il 116 c. 3 è, indubbiamente formulato in modo non chiaro ed esaustivo: un intervento integrativo e correttivo di stampo costituzionale potrebbe, per vero, risultare molto utile, prima dell’adozione di una legge attuativa, peraltro non richiesta dalla stessa norma. Un intervento con legge costituzionale sarebbe giustificato da più ampie esigenze di sistema e soprattutto dalla necessità di impedire che già sul piano procedurale si producano discriminazioni in base al colore politico del governo della regione interessata alla trattativa, giacchè le regole procedurali non possono divenire oggetto di negoziazione politica.
La soluzione prescelta, fin dal 2018, tuttavia è quella della legge quadro, cui paiono coerenti le ulteriori e più recenti proposte. Ma anche tale legge (viene anche fatto riferimento, vista l’iniziativa regionale, all’art. 121 Cost.) non convince del tutto nel senso che non si offre alcun elemento riguardo alla tempistica e soprattutto ai principi cui informare il momento generativo dell’intesa tra Stato e regione.
La clausola di asimmetria, d'altro canto, si ritiene concerna solo le regioni a regime ordinario. A favore di tale tesi, a parte il dato testuale, vi è il fatto che per le regioni a statuto speciale, la via istituzionale è quella che prevede la revisione dei rispettivi statuti con legge costituzionale. Va, però, rilevato che nei due procedimenti la Regione ha un ruolo differente: nel primo caso (revisione costituzionale) meramente consultivo, nel secondo caso più probabilmente paritario. Quindi, se è vero che l’ampliamento dell’autonomia speciale, di regola, presuppone la revisione degli Statuti, in una prospettiva sperimentale (Morelli) il procedimento di differenziazione potrebbe servire per fare acquisire alle autonomie speciali competenze in materie di cui esse non avessero già la disponibilità. Tali competenze non verrebbero inserite negli statuti speciali, ma nulla impedirebbe, in caso di accordo politico con lo Stato, che tali competenze trovino inserimento in seguito negli statuti, in ossequio, peraltro, alla clausola di maggior favore prevista dalla legge cost. 3/2001, in quanto l’introduzione nello statuto speciale della previsione di una delle competenze oggetto di differenziazione, dopo un “periodo di prova”, rafforzerebbe, in via transitoria, la competenza stessa.
A questo si obietta che l’art. 10 varrebbe solo per le condizioni di autonomia di cui al Titolo V e non anche per quelle poste dall’art. 116 c. 3: di contro può osservarsi che la differenziazione è prodotto logico e diretto dell’attuazione del 116 c. 3, sicché non si vede perché escludere la possibilità di avvalersi della procedura che lo riguarda, ponendosi, a ben guardare, in contrasto con la ratio della stessa clausola di maggior favore, in quanto sarebbe impedito transitoriamente, in attesa della revisione degli statuti, alle regioni speciali di avere accesso al regionalismo differenziato.
Peraltro, l’art. 11 della legge n. 131/2003, nel richiamare l’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001 precisa che “le Commissioni paritetiche previste dagli statuti delle Regioni a statuto speciale, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell’articolo 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative”. Le norme di attuazione, in applicazione dell’art. 10 possono prevedere altresì “disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali di competenza in materia di rapporti internazionali e comunitari”. Secondo D’Atena, “una volta rovesciata l’enumerazione delle competenze legislative, il mantenimento dell’autonomia speciale nella sua originaria consistenza avrebbe posto gli enti che ne erano dotati in posizione deteriore rispetto agli altri. Per l’evidente ragione che le competenze individuate dai rispettivi statuti, con tecnica enumerativa, avevano un’estensione decisamente inferiore rispetto a quelle assicurate alle regioni ad autonomia ordinaria dalla clausola residuale”.
7.3. Le prospettive della differenziazione
Il regionalismo differenziato, nato in chiave funzionalista, attualmente ha finito per assumere una valenza simbolica ed identitaria, in vista del raggiungimento dell’autonomia speciale. Su questo nessuna obiezione, come si è detto. E tuttavia, una volta avviato il processo di differenziazione, la "via del ritorno" pare preclusa, anzi non è proprio prevista, evidenziandosi così una evidente lacuna normativa. Nonostante, infatti, sia prevista una revisione periodica dell’intesa dopo un decennio dall’entrata in vigore della legge attributiva delle nuove forme di autonomia, il ritorno al passato porrebbe enormi problemi pratici (anche nella riorganizzazione degli uffici) e sarebbe certamente interpretato come una sorta di spoliazione da parte del centro rispetto alla regione. Una legge costituzionale che disciplinasse questo passaggio sarebbe, quindi, auspicabile, potendo costituire, peraltro, parametro di legittimità costituzionale.
Una volta attuata la differenziazione, del resto, non è prevedibile immaginare quali conseguenze si avrebbero nelle relazioni con le regioni a statuto speciale.
Deve immaginarsi la crescita del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, la quale potrebbe fare ricorso a tutta la precedente giurisprudenza in tema di leale collaborazione, ragionevolezza e proporzionalità, per assicurare istanze unitarie, ridimensionando gli effetti della differenziazione in nome dell’interesse nazionale.
Un problema non secondario potrebbe porsi in rapporto alla tenuta economica complessiva del Paese, laddove si manchi di valorizzare le regioni della solidarietà interterritoriale.
8. La condizione di insularità come recupero della specialità
Le ragioni della specialità, soprattutto per le regioni insulari (Sicilia e Sardegna) trovano oggi particolare ed ulteriore fondamento in funzione del riconoscimento della condizione di insularità, le cui caratteristiche geografiche, economiche, demografiche e sociali sono assolutamente specifiche, sfidando le stesse politiche europee in ragione del mercato limitato e della difficoltà di realizzare economie di scala. Si pensi ai costi di trasporto sicuramente più elevati, alle relazioni inter-industriali, ai deficit di infrastrutture e di offerta di servizi per le imprese (rispetto alle realtà continentali), alla compressione dei servizi sociali e formativi ai cittadini, nonché in relazione ai recenti fenomeni migratori. Le misure di riequilibrio e di perequazione per la condizione geografica e di discontinuità territoriale devono consentire pari opportunità di sviluppo e accesso al mercato unico europeo anche rispetto alle altre regioni. Insularità e perifericità producono un incremento dei costi e creano ritardi e debolezze nel processo di sviluppo e coesione (Armao).
Significativa, sul punto la sentenza n. 9 del 2019 della Corte costituzionale per la quale il fattore insulare va declinato opportunamente sia sul piano dell’identità e specialità, sia con riferimento alle opportunità di studiare e lavorare, come anche di assicurare la libera circolazione dei beni, dei trasporti e delle persone garantendo l’esercizio dei loro diritti economici. La Corte costituzionale ha, infatti, ritenuto illegittimo l’art. 1 c. 851 l.n. 205/2019 “nella parte in cui non prevede, nel triennio 2018-2020, adeguate risorse per consentire alla regione autonoma Sardegna una fisiolgica programmazione nelle more del compimento, secondo canoni costituzionali, della trattativa finalizzata alla stipula dell’accordo di finanza pubblica”. La Corte, peraltro, aveva già ritenuto necessario un rapporto di leale collaborazione con le autonomie territoriali nella gestione delle politiche di bilancio (c.d. “tirannia” della ragione erariale). Il meccanismo della priorità dell’intervento finanziario, sempre secondo il Giudice delle leggi, connota “il principio dell’equilibrio dinamico come giusto contemperamento, nella materia finanziaria, tra i precetti dell’articolo 81 della Costituzione, la salvaguardia della discrezionalità legislativa e l’effettività delle pronunce del giudice costituzionale”.
Quanto alla condizione di insularità, pur essendo venuto meno l’esplicito riferimento un tempo contenuto nell’art. 119 c. 3 Cost., resta il dato normativo costituito dall’art. 27 della l.n. 42/2009 che garantisce l’adozione di meccanismi di perequazione fiscale ed infrastrutturale volti a garantire il riequilibrio dei divari: “in relazione alla mancata ridefinizione delle relazioni finanziarie tra Stato e regione autonoma .. secondo i canoni fissati dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, va sottolinea come, a quasi dieci anni dall’emanazione di tale legge, il problema dell’insularità non sia mai stato preso in considerazione ai fini di ponderare complessivamente le componenti di entrata e di spesa dell’autonomia territoriale” dato lo svantaggio economico determinato da tale condizione.
In tal senso, depongono le norme del TFUE, segnatamente l’art. 174 in tema di coesione sociale, economica e territoriale, al fine di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle Regioni attraverso il rafforzamento delle politiche di coesione, con particolare attenzione alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali, come le isole.
9. Brevi considerazioni conclusive
Il percorso del regionalismo differenziato è tuttora in fieri, avendo conosciuto nuova e significativa accelerazione sul piano politico.
Le perplessità riguardano, da un lato, la (in)completezza dell’art. 116 c. 3 della Carta costituzionale ed il modo migliore per darvi attuazione; dall’altro, gli effetti che ne possono derivare sul piano istituzionale e delle relazioni fra i livelli di governo.
Le regioni a statuto speciale solo apparentemente – cioè, perché il 116 c. 3 ad esse non fa riferimento – sono spettatrici di questo processo, ma, a ben guardare, ne sono coinvolte sotto molteplici profili, forse anche in forza dell'apposita clausola (art. 10) contenuta nella legge costituzionale n. 3/2001.
Ci si chiede, in primo luogo, cosa ne sarà dell’originario dualismo tra autonomia speciale ed ordinaria: in particolare, quali effetti potrà produrre, nelle reciproche relazioni, questo sensibile mutamento di assetto sia in termini di funzioni legislative, sia con riferimento a quelle amministrative.
Ci si chiede, in secondo luogo, se, una volta attuato il regionalismo differenziato, abbia ancora senso distinguere tra regioni a statuto ordinario e speciale, se, cioè, come pure sostenuto in dottrina, si dovrà pervenire ad una “specialità diffusa”, la cui attuazione, però, richiede e necessitate una riforma costituzionale.
Ci si chiede, in terzo luogo, cosa ne sarà delle relazioni tra regioni, Stato ed Unione europea, se, cioè, l’autonomia differenziata determinerà un differente assetto, in grado di conferire alle regioni “differenziate” una “speciale” qualità ed un nuovo ruolo nella interlocuzione con gli organi comunitari.
Ci si chiede, infine, se, al di là delle buone intenzioni (la buona fede si presume), l’attuazione del regionalismo differenziato preluda a (o, comunque, finisca per) minare gli equilibri profondi del Paese – soprattutto quelli economici e sociali, considerato l’enorme e crescente divario Nord/Sud – preservati fino ad oggi, da singole e specifiche, quanto giustificate, specialità e se questo sia il tempo per rivendicare nuova autonomia o esercitare bene quella che già si ha.
*L’articolo riproduce l’intervento al seminario tenuto nell’ambito de I Lunedì di Giustiziainsieme il 9 gennaio 2023 sul tema Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma.