ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia Insieme e il valore dell’accoglienza - Editoriale
1. Il biennio appena trascorso è stato segnato dalla rapida ed, apparentemente, inarrestabile esplosione di una pandemia, al cui contrasto sono state, quindi, dedicate le principali energie degli Stati Nazionali, impegnati, inevitabilmente, a dover fronteggiare, in primo luogo sul versante economico, le debolezze palesate di un’economia pur globalizzata.
In tale contesto sono state messe in atto una serie di iniziative, che hanno interessato, trasversalmente e non sempre in maniera organica, il settore economico, animate dall’obiettivo di sorreggere i settori maggiormente colpiti dagli effetti della pandemia e, quindi, dare compiuta attuazione al piano di ripresa e resilienza.
Il quadro si è, però, ulteriormente complicato lo scorso febbraio quando lo scacchiere economico e politico a livello internazionale, che ancora non aveva appieno assorbito le conseguenze della pandemia, è stato nuovamente scosso dallo scoppio del conflitto armato in Ucraina che ha visto milioni di persone costrette a lasciare il proprio Paese per sottrarsi alle conseguenze di un violento conflitto armato, riproponendo il dramma delle persone in fuga dalla guerra.
Da qui l’iniziativa della nostra Rivista di concepire e sviluppare un’ampia riflessione sul tema della gestione dei flussi migratori e dell’accoglienza, terreno questo oggetto di una costante tensione, figlia del portato culturale e della carica ideologica che fa da sfondo a tali questioni, tra esigenze di regolamentazione dei flussi migratori e quelle di tutela e rispetto dei diritti fondamentali e di valori costituzionali.
Oggi, infatti, l’affannosa ricerca di un possibile punto di caduta tra la salvaguardia di esigenze di sicurezza pubblica , diffusamente avvertite, e ordinata regolamentazione dei flussi migratori, anche per le incidenze di carattere socioeconomico[1], da un lato, e l’attuazione ed il rispetto di principi solidaristici, dall’altro, rende l’accoglienza uno dei temi maggiormente controversi nel dibattito sociale e caratterizzato da un certo tasso di “schizofrenia legislativa” che – senza con ciò voler anticipare quanto sarà oggetto degli approfondimenti che seguiranno – è andata, dapprima, a restringere lo spazio dell’accoglienza e, quindi, a distanza di appena un biennio a modificare quello stesso tessuto legislativo, formalmente senza ripudiare la scelta di tecnica legislativa fatta, ma, nella sostanza, andando a prevedere – anche attraverso il richiamo all’ampia formulazione dell’art. 8 della CEDU e all’interpretazione che di esso è stata offerta dalla corte di Strasburgo – spazi di tutela fors’anche maggiori, resi applicabili in virtù di una specifica disciplina transitoria.
2. Al fine di consentire al lettore un qualche elemento di contesto nel quale collocare gli approfondimenti che saranno in seguito pubblicati, sia consentito ricordare che accanto alle protezioni cd. maggiori, il cui quadro normativo di riferimento è costituito dal d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 e s.m. (in particolare la novella del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18), fonte attuativa delle disposizioni eurounitarie ed internazionali pattizie succedutesi nel tempo (le direttive 2004/83/CE, 2011/95/UE e la Convenzione di Ginevra del 28.4.1951 recepita dall’Italia attraverso la legge 24.7.1954 n. 754), sul piano del diritto interno, in attuazione dell’art. 10, comma 3, Cost., lo spettro delle condizioni suscettibili di giustificare la concessione di una misura di protezione è ampliato attraverso forme di protezione complementare che risultano introdotte da distinti e molteplici provvedimenti normativi, succedutisi nel corso del tempo.
Il d. lgs. 286/1998, recante la disciplina del «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero» (c.d. Testo Unico sull'Immigrazione), contemplava, in assenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale, la forma di tutela c.d. minore della «protezione umanitaria».
Come si accennava, tale istituto è stato abrogato dal d.l. n. 113/2018, recante «disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata» (c.d. «decreto sicurezza», convertito nella L. n. 132/2018), che ha eliminato ogni riferimento letterale all’istituto della protezione umanitaria presente nel Testo Unico sull'Immigrazione ed ha, contestualmente, introdotto nuove tipologie di tutela c.d. minore dei richiedenti protezione internazionale rappresentate dai permessi di soggiorno per calamità naturali, per atti di particolare valore civile, per cure mediche, per le vittime di violenza domestica, per le vittime di sfruttamento lavorativo, per i minori vulnerabili, ed è stato, poi, introdotto il «permesso per protezione speciale».
A distanza di appena due anni, il D.L. 130/2020 ha, però, apportato nuove modifiche al sistema della protezione ed in particolare: ha reintrodotto all’art. 5, comma 6, D. Lgs. 286/98, il riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano (soppresso dal D.L. 113/18), ma non anche il riferimento ai motivi di carattere umanitario (parimenti soppresso dal D.L. 113/2018)a introdotto all’art. 19, comma 1.1, T.U.I. una nuova ipotesi di divieto di espulsione, stabilendo che: «1.1. … Non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine»; ha ampliato i contenuti del permesso di soggiorno per protezione speciale, equiparandolo a quello del previgente (anteriormente al d.l. n. 113/18) permesso di soggiorno per motivi umanitari (in sintesi: durata biennale, rinnovabilità, convertibilità alla scadenza in permesso di soggiorno per lavoro).
La riforma in questione, quindi, se da un lato non ha voluto porre nel nulla il sistema di tipizzazione elaborato dalla previgente normativa, dall’altro, ha reintrodotto all’art. 5 comma 6 T.U.I. il riferimento al rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali, con ciò ripristinando l’attuazione legislativa del portato dell’art. 10 Cost.
L’ultima riforma non ha quindi cancellato tout court le modifiche introdotte dal d.l. 113/2018, scegliendo di conservarne gli sforzi di tipizzazione delle ipotesi di protezione assicurate dal diritto interno (la cd. protezione “minore”): al contempo, se è vero, infatti, che il D. L. 130/2020 non ha riproposto la stessa formulazione dell’art. 5, comma 6 T.U.I. nella versione precedente alle modifiche del 2018, è vero anche che è stato reintrodotto il divieto di revoca e di rifiuto del permesso di soggiorno se risulta contrario al necessario rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali, sì da garantire in ogni caso la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale.
Ciò in quanto, da un lato, la reintroduzione all’art. 5, comma 6, d.lgs. 286/98, del riferimento agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano – pur monco del riferimento ai seri motivi di carattere umanitario – e, dall’atro, l’introduzione, tra le ipotesi nominate di protezione minore, di un permesso di soggiorno per protezione speciale riconosciuto per la tutela della vita privata e familiare, sembra poter assicurare la presenza di una norma di chiusura, potenzialmente capace di garantire la tenuta costituzionale della nuova fattispecie e risultare del tutto congruente con la precedente formulazione dell’art. 5, comma 6 T.U.I. nella misura in cui assicura la presenza di una clausola aperta (gli obblighi costituzionali) attuativa del diritto di asilo[2].
Il quadro che si delinea è, pertanto, il seguente: da un lato, il legislatore, pur non introducendo, nuovamente, il riferimento ai “seri motivi di carattere umanitario” – richiamo di cui il “nuovo” art. 5, co. 6, rimane amputato – ha comunque ricordato il rispetto degli obblighi internazionali e costituzionali (tra cui l’art. 10 Cost.), il quale ben potrebbe saldarsi a previgente art. 5 comma VI t.u.i. garantendo la piena attuazione del precetto costituzionale dell’art. 10 Cost.[3]; dall’altro, la previsione di retroattività contenuta all’art. 15 del d.l. 130/2020 funge da norma di chiusura destinata a venire in rilievo con riferimento a tutte le domande di protezione presentate, quale che ne sia il regime applicabile, accordando una tutela potenzialmente anche maggiore.
3. I valori dell’accoglienza appartengono alla tradizione culturale dei popoli e sono la cifra della loro attitudine a crescere e a rinnovarsi attraverso il confronto delle diversità.
Dalle letterature classiche emerge il ruolo centrale dei valori dell’ospitalità e dell’aiuto dell’esule.
È Omero, nell’undicesimo Libro dell’Odissea, che fa dire ad Ulisse, rivolgendosi a Polifemo, che “…E ora alle tue ginocchia veniamo supplici, se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti ci regalassi qualcosa; questo è norma per gli ospiti. Rispetta, ottimo, i numi; siamo tuoi supplici. E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici, Zeus ospitale, che gli ospiti venerandi accompagna…”; ed è sempre Omero che, attraverso il personaggio di Nausicaa, descrive i Feaci come popolo attento alle regole fondamentali dell’ospitalità.
Si potrebbe, ancora, ricordare la lunga permanenza del troiano Enea presso la cartaginese Didone.
E, d’altro canto, Platone nel dodicesimo Libro delle Leggi ricorda che “…dobbiamo considerare che i rapporti con gli stranieri sono sacri al massimo grado; infatti, le offese commesse da uno straniero e quelle commesse nei loro confronti, confrontate con quelle contro un proprio concittadino, potremmo dire che attirano maggiormente la vendetta del dio. E questo perché lo straniero, che è senza amici o parenti, è tanto più oggetto della pietà umana e divina…”.
Non è, certamente, possibile ripercorre qui il tema del rapporto e della dimensione di “straniero” nel mondo classico, che già sul piano etimologico, manifestava la complessità del fenomeno.
Gli esempi appena ricordati ne evidenziano, però, la centralità del valore, senza che ciò implichi certo una rinuncia ad una necessaria regolamentazione del fenomeno.
In una ideale linea di continuità, spunti per una nuova valutazione della disciplina dell’accoglienza, sembrano tracciati da Corte Cost. 10 marzo 2022, n. 63 che, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 12, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 limitatamente alle parole «o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti», sembra muoversi nell’ottica di una massima valorizzazione della valutazione il principio solidaristico che sta alla base dell’accoglienza e che – rinviando a quanto sarà diffusamente osservato nei contribuiti che saranno pubblicati – consente di differenziare la condotta di aiuto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato compiuto in favore di singoli stranieri per finalità altruistiche dalla condotta posta in essere a scopo di lucro da gruppi criminali organizzati nei confronti di un numero più o meno ampio di migranti destinati a essere trasportati illegalmente nel territorio dello Stato (in termini anche Corte Cost. sentenza n. 331 del 2011).
In particolare, nel dichiarare costituzionalmente illegittima la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per tutte le ipotesi abbracciate dall’art. 12 t.u. immigrazione, la Corte aveva osservato che «le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante»; a tale differente fenomenologia corrisponde, prosegue la Corte Costituzionale nel 2022, una differente posizione dello straniero che, beneficiario nel favoreggiamento altruistico, diviene vittima della condotta criminosa “esposta ora a pericolo per la propria vita o incolumità, ora a trattamenti inumani e degradanti, ora al rischio di essere avviata alla prostituzione o sfruttata in attività lavorative, e comunque - nel caso ordinario in cui la condotta sia compiuta con finalità di profitto - costretta a sborsare ingenti somme di denaro in cambio dell'aiuto a varcare le frontiere”
4. Ecco quindi che, in questo quadro, i temi di discussione e gli spunti di approfondimento non solo sono molteplici ma richiedono, necessariamente, una visione “multiforme” del fenomeno migratorio al fine di farne emergere la complessità a fronte di un quadro normativo che certo non brilla per il suo nitore e che, anche in ragione di ciò, può prestarsi a semplicistiche letture quando non a propagandistiche semplificazioni che non tengono in adeguata considerazione la complessità umana del fenomeno, che, facendo proprie le parole impiegate nel considerato 4.3 di Corte Cost. 63/2022, “…non possono non richiamare alla mente le drammatiche immagini di viaggi su imbarcazioni di fortuna e sovraffollate, o in precari nascondigli in celle frigorifere destinate al trasporto di merci, che spesso sfociano in eventi fatali…”
Questa, dunque, è la sfida che Giustizia Insieme intende raccogliere scegliendo di inaugurare la trattazione del tema dell’accoglienza, proprio in occasione delle festività cristiane.
Tale compito è affidato, anzitutto, all’articolo di Franco Roberti avente ad oggetto “Gli accordi europei in tema di immigrazione” con il quale si inaugura l’approfondimento sul tema dell’accoglienza.
I successivi approfondimenti che la Rivista dedicherà al tema saranno, quindi, sviluppati da prospettive e con modalità differenti.
Seguiranno, infatti, un approfondimento sulla disciplina degli sbarchi, sull’evoluzione della protezione internazionale e, segnatamente, sulla valenza e l’interpretazione del permesso per protezione speciale.
Accanto a tali riflessioni, poi, Giustizia Insieme proverà ad offrire una visione trasversale del fenomeno dell’accoglienza e del fenomeno migratorio in generale, ponendosi nella prospettiva di chi vive concrete esperienze di accoglienza, sia mediante un contributo sugli hotspot, sia secondo il già sperimentato format dell’intervista, attraverso testimonianze dirette di chi, su base volontaria, è impegnato nella quotidiana gestione dei flussi migratori.
[1] La Corte Costituzionale ha da tempo definito l’ordinata gestione dei flussi migratori «bene giuridico "strumentale", attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici "finali", di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata» (sentenza n. 250 del 2010 e ivi numerosi precedenti in senso conforme, tra cui, da ultimo, Corte Cost. 63/2022), quali, in particolare, gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse (limitate) del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica.
[2] In questi termini cfr. Cassazione Civile, Sez. II, ordinanza 29/3/2021 n. 8713.
[3] Se pure l’art. 5, comma 6, t.u.i. nella formulazione che prevedeva la protezione umanitaria (“Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. (…)”) non è stato integralmente ripristinato, l’odierna formulazione appare pressoché del tutto congruente con la precedente (oggi disponendo l’art. 5, c. 6, t.u.i. che “il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.) e in ogni caso assicura la presenza di una clausola aperta (appunto, gli obblighi costituzionali) che, per un verso, impedisce l’immediata applicazione dell’art. 10 della Costituzione e per altro verso ne costituisce necessaria attuazione.
PPP, Bestia da Stile. Il massacro dell’intellettuale
di Aurora Caporali
Illud in his quoque te rebus cognoscere avemus,
corpora cum deorsum rectum per inane feruntur
ponderibus propriis, incerto tempore ferme
incertisque locis spatio repellere paulum,
tantum quod momen mutatum dicere possis.
De Rerum Natura, II, vv. 216-220
Sommario: 1. Un teatro di PPP: res et limina - 2. Quale guerra? - 3. Quale parola?
1. Un teatro di PPP: res et limina
La produzione teatrale di Pasolini, nella sua ricchezza e complessità, si presenta al lettore e allo spettatore come un sistema artistico e di comunicazione caleidoscopico: non c’è, infatti, un teatro pasoliniano incasellabile in un sistema chiuso di loci critici, stilemi e metrica, si assiste piuttosto ad una sorta di pioggia atomica, un clinamen di elementi che si spostano, quasi impercettibilmente, su un asse poco più o poco meno obliquo, materializzandosi, all’approdo sulla pagina o sulla scena, in un florilegio di forme e sostanze diverse e varie. Per questa ragione, quando si avvicina, con l’intento del commento, un testo di PPP è necessario puntellarne i contorni e codificare, con cura, i confini esegetici dell’indagine, perimetrare, sostanzialmente, il proprio oggetto, nonché definire il sistema d’analisi.
Si esplorerà, in questo lavoro, attraverso l’osservazione della parola pasoliniana, posta a fondamento di tutto il suo nuovo-teatro, la rappresentazione del conflitto ideologico-intellettuale dell’autore, disegnato dalla e nella Storia e che si fa, nella dimensione simbolica, carne e dolore, provocazione e rivoluzione: il dato metaforico e quello storiografico sono indissolubilmente fusi nella dialettica del dramma.
Bestia da stile, infatti, è un’autobiografia che offre, al contempo, gli elementi epifanico-catartici, propri dell’arte drammatica e le costruzioni analitico/auto-narrative di un autore complesso ed eccezionale: è una tragedia composta da nove episodi, il primo dei quali si apre sulle rive della Vltava, in Boemia, alla fine degli anni Trenta, in una domenica di primavera; l’ultimo, invece, vede fronteggiarsi le personificazioni del Capitale e della Rivoluzione nel contendersi Jan, la disputa richiama l’episodio dantesco di Buonconte da Montefeltro[1] che posiziona, proprio per questo, la contesa sul piano etico-identitario del bene contro il male e del giusto conto lo sbagliato. Le ultime battute spettano al Capitale che concede il protagonista alla Rivoluzione, senza particolare interesse o rammarico: Quanto a quest’uomo/ se proprio non vuoi perderlo,/ te lo lascio: ebbro/ d’erba e di tenebre.
2. Quale guerra?
Sarà fondamentale, in prima battuta, definire di quale guerra si stia parlando, infatti, i conflitti storiografici attraversati ed evocati da Jan, bestia da macello (umano e storico) sono numerosi: la Boemia degli anni Trenta, che vedrà l’invasione dei carri armati tedeschi e la deportazione degli ebrei, è il contesto d’apertura, ma già il nome Jan, che richiama Jan Palach, la Primavera di Praga e i relativi conflitti con l’URSS, si qualifica, anche nella dimensione cronologica, come particolarmente significativo, poiché sposta l’attenzione del pubblico al 1968, data dell’invasione della Cecoslovacchia ad opera dell’Armata Rossa, evento profetizzato, per altro, all’interno del testo stesso, in un momento di catabasi-orizzontale (episodio VIII), durante la quale l’ombra del padre di Jan, moderno Anchise, preannuncia il massacro.
ombra del padre
Nella mia sollecitudine di padre
che ha saputo soltanto essere pratico,
con pietà, e ha usato sempre poche parole,
voglio darti un avvertimento.
Il 21 Agosto 1968
i carri armati russi entreranno in Praga[2].
La scelta onomastica Jan, inoltre, posiziona l’autore (anch’egli personaggio designato, del testo) politicamente e culturalmente sul crinale dell’eresia comunista, scisso tra ideali e osservazione critica (nonché condanna) del “pensiero unico” sovietico: un conflitto che vede PPP come campione del principio di contraddizione, un terrorista dei dogmi del ’68.
La scrittura di PPP sottende un grande valore etico e civile, che è proprio della letteratura e degli intellettuali che la esercitano con intenzionalità ultra-estetica, infatti, l’attività pasoliniana ha i caratteri manifesti della critica, dell’inchiesta e del setaccio, che sottopone al vaglio (quasi filologico) i processi e le contraddizioni della storia, soprattutto quella a lui prossima, ovvero quella della ribellione-conformista degli anni ’70, conflitto inter-generazionale che affonda i suoi presupposti nello iato manicheo della guerra fredda.
Procedendo in ordine di occorrenze storiche, il primo conflitto che si incontra è la seconda guerra mondiale, evocata nella personificazione dell’anno 1938, personaggio parlante del II episodio del dramma, Semice (di cui si dirà in seguito).
Pasolini non intende, in questa sede, far riferimento precipuamente allo scontro che vede Asse e Alleati l’un contro l’altro armati, ma desidera fissare, con il personaggio 1938, l’incipit di uno scontro più pervicace, che sarebbe divenuto ancor più grande e millenario: la Guerra fredda.
La contrapposizione dei due blocchi vede opporsi modi di pensare diametrali, che nel ’68 raggiungono l’apice della loro rispettiva complessità e si traducono, negli anni a venire, in un processo globalizzante e globalizzato, sempre più contorto, ricco di contraddizioni e coesistenti-inconciliabilità.
Jan, bestia da macello, altri non è che Pasolini, destinato al massacro (fisico e culturale), ma è anche l’intellettuale critico ‘universale’, posto nel centro della disputa USA-URSS, che vede sé stesso accusato-condannato per eresia, oppure obbligato alla prostituzione della propria ratio.
Francesco Chianese[3] esplora con particolare dovizia il dissidio critico-culturale di PPP negli anni della Guerra fredda e rileva con grande puntualità il riverbero del conflitto in Bestia da Stile e, più in generale, nel teatro di parola: l’autore corsaro, infatti, ha certamente impersonato una delle forme più ingenue e oneste dello smarrimento dell’intellettuale italiano, sottoposto ai modelli culturali, affascinanti e seducenti, offerti dall’URRS e dagli USA. Pasolini procede oltre, infatti, non solo subisce (non senza consapevolezza) il magnetismo delle polarità in gioco, ma aggiunge al lavoro complesso di discernimento l’elemento ulteriore dello scetticismo verso il “posizionismo”, cioè la diffusa pratica che prevede la necessità di vincolare un processo critico ad una posizione politica definita[4]: è il “principio di contraddizione” (che passa letteralmente e direttamente da Le Ceneri di Gramsci a Luperini[5]).
Già in fase di elaborazione teorica, dunque, il “teatro di parola” era stato concepito per esprimere una posizione dialettica tra le due culture. La Cecoslovacchia comunista è ambientazione di […] Bestia da stile […]una tragedia che è presentata dall’autore come autobiografia, e che Marco Antonio Bazzocchi ha definito, piuttosto, una «allegoria del proprio percorso di scrittore». Tale allegoria è esplicitamente l’allegoria della crisi dell’intellettuale di fronte alle trasformazioni politiche, sociali, culturali seguite al 1956 e in particolare intercorse durante gli anni Sessanta[6].
La Cecoslovacchia e tutti i riferimenti politico-culturali che la riguardano sono presentati, in Bestia da stile (ma già in Orgia) come una sineddoche concettuale, una parte per il tutto: dove la parte, cioè la propaggine geografica, rappresenta il tutto, ovvero totale, fallimento culturale proposto dal blocco sovietico, ovvero quello dell’intellettuale marxista impegnato (e allineato).
Ed è sempre in relazione a questi sdoppiamenti di tradimento e colpa, innocenza e fama, che Jan, poeta per scelta ed elezione, attraverso il proprio doppio, cioè il personaggio di Sorella, fa i conti con la realtà dura e spietata che sottende la propria condizione: scegliere la verità o la cieca gloria.
sorella
Noi siamo perciò una Persona sola
(La Dissociazione la struttura delle strutture:
lo Sdoppiamento del personaggio in due personaggi
è la più grande delle invenzioni letterarie).
Io mi sono assunta il ruolo della vergogna
e ho lasciato a te quello della gloria[7].
In questo dualismo, sofferto e straziato, si concentra tutto il senso della ricerca pasoliniana di identità, personale e intellettuale, nonché di ordine, più precisamente, quella anelata è una trans-identità che dia ragione e dimensione ad un io complesso, letteralmente complex, composto di più parti, a cui non si richiedono i caratteri fondamentali di una leggibilità manichea, bensì l’accoglienza del molteplice, una sostanza ulteriore, che non sia frutto della «sommatoria di due facce, ma contenga una sorta di valore aggiunto e intangibile («illimitato») alla semplice addizione»[8].
Bestia da stile […] si può leggere, per la tensione metalinguistica e meta-teatrale che lo connota in profondità, come la pronunzia estrema e insieme il ripensamento-disfacimento di un’intera poetica. Quando il personaggio di Sorella si rivolge a Jan (n.d.r. nominando lo sdoppiamento) […], vuol dire che proprio lo sdoppiamento consente il ritorno all’unicità, così come le «opposizioni inconciliabili», che per Pasolini contrassegnano il movimento della realtà conservano nel profondo la ‘memoria’ dell’origine […]. Tuttavia non avvertiamo, in quei «versi senza metrica», destinati a «rendere riconoscibile l’irriconoscibile» (come afferma l’autore), che «la più bella selle invenzioni letterarie» (lo sdoppiamento) appartiene anch’essa ormai al più generale destino di impotenza e di afasia della figura del poeta, di una Bestia da stile condannata non più a compiere le sue «squisite» e nevrotiche fatiche, ma a citarle spasmodicamente come cifra di un passato senza futuro[9].
3. Quale parola?
In principio erat Verbum,/ et Verbum erat apud/Deum, et Deus erat Verbum.
Già solo dalla sua onomastica il teatro di parola assegna un potere sacrale, quasi evangelico, alla parola, come se, dando verbum alla scena, si potesse demiurgicamente creare, con divina potenza, una società nuova e diversa.
Nel manifesto programmatico Per un nuovo teatro (1968), Pasolini si rifà a quanto Moravia aveva proposto nel suo La chiacchiera a teatro (1967), scritto da cui emerge la volontà di generare un teatro non meramente mimetico-descrittivo, ma uno spazio drammatico nel quale tutto avviene e fuori del quale nulla può avvenire[10]: quello che si va configurando, dunque, è un teatro che incarna ed esercita una moderna funzione didattico-conoscitiva, una “militanza paideutica”, che prevede e permette il recupero di tutti gli aspetti del reale ivi compresi quelli culturali e storici[11].
In Pasolini il rito culturale del teatro di parola aveva una sua peculiare valenza ‘politica’: esso, nella misura in cui si rivolgeva a destinatari interni ai «gruppi culturali avanzati della borghesia», finiva poi col rivolgersi alla «classe operaia più cosciente», attraverso testi che […] dovevano fondarsi «sulla parola (magari poetica)» e su temi che avrebbero potuto essere tipici «di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico»[12].
Le parole di Jan e degli altri personaggi, rappresentano non solo momenti storici e peculiari, ma offrono una dimensione interpretativa ulteriore: esercitano il lettore (e lo spettatore) ad un esercizio iper-osservativo e producono ragionamento, idee, richiamano alla mente consapevole, tramite una raffinata maieutica della memoria, le cause prime (e ultime) delle circostanze sociali e culturali dei tempi occorrenti.
Basti pensare al personaggio (già citato) Anno 1938, che propone nel testo parole enigmatiche, un nonsense in prima lettura.
L’anno 1938
Tu conosci Presbitero
Michelin e Brill,
ma non il libero
liberale Stuart Mill.
Dunque che cosa aspetti
a riempire con la luna
che già nasce, questa
tua futura lacuna?[13]
Anno 1938 ci sottopone, appunto, due quartine dall’esegesi assai complessa: una strada di lettura la si può percorrere solo se si conduce l’analisi sotto l’egida della lingua prometeica di Pasolini, tenendo sempre conto, inoltre, delle inscrizioni della morte disseminate in tutta l’opera (e rintracciabili in vari altri scritti[14]).
Il dittico guerra-morte costituisce un topos letterario fecondo e largo, ma in PPP raggiunge una declinazione nuova e politicamente schierata: la guerra in corso è quella tra libertà e credenza, tra emancipazione e schiavitù.
In chiusura della prima quartina troviamo Stuart Miller, teorico del liberalismo, come rappresentazione perifrastica della morte, in un’allusione cifrata e complessa che vuol significare conoscenza e coscienza di una libertà triturata[15].
Tutto il teatro di Pasolini, pur ruotando intorno a temi ‘politici’ connessi col problema del potere (delle autorità, delle istituzioni, dei rapporti familiari) e con quello della contestazione e della integrazione-omologazione, attraverso il filtro decisivo della sua reazione al Sessantotto, contiene ed esibisce una ipertrofia autobiografica e mélo, che ne fa nel suo insieme […] una sorta di «processo formale vivente», di continua stratificazione, e che soprattutto costituisce la cifra dominante, la linfa pervasiva della scrittura […][16].
Dalla scrittura di PPP emerge, in definitiva, una stratificazione magmatica, al limite del lutulentus, che vede immagini di guerra e guerre comporsi attraverso il recupero mnemonico e l’evocazione che oscilla tra religione e mistica: il Secondo conflitto mondiale è l’inizio di un percorso di polarizzazione culturale che condurrà alla compartimentazione del mondo intellettuale, uno scontro granitico e dogmatico che vede il poeta corsaro massacrato e sconfitto. Il Sessantotto è un’epoca di guerra civile (inter cives) e sociale (cum sociis) da cui emergono contraddizioni notevoli, che Pasolini è disposto ad accogliere, in una logica che vede con favore la coesistenza di più realtà, la complessità del pensiero e l’occorrenza del non-posizionismo, ma che lo condannano alla gogna dell’eresia.
Jan-Pasolini vive in un testo (e in un contesto) ricco di ossimori che hanno conservato la formalità dell’opposizione, segnalando la cogenza del molteplice, ma che hanno abdicato alla dualità del contenuto, in favore di un dualismo esistenziale necessario.
Jan-Pasolini, anelando una poesia vissuta e una vita poetica, si posiziona, con consapevolezza, dentro una realtà ab-soluta e decide di restare, in questa costante rassegnata ricerca, ebbro/ d’erba e di tenebre.
Quando finisce la guerra il dramma è compiuto e non soltanto in termini di vittime umane. Chi è riuscito a sopravvivere non può certo ritenersi salvo, vive piuttosto l’appendice di una tragedia dove si frappongono e si scontrano socialismo e comunismo. Rivoluzione sociale e conseguente mutazione antropologica sono già sostanza. I contadini e i piccolo borghesi sono diventati aristocrazia operaia; il poeta futurista è divenuto realista. Jan e Novomesky diventano essi stessi appendici del fare poetico nella storia contemporanea, ossimoriche metafore […] «di un dramma ultimo, totale: il dramma, ormai comicamente livido, della impossibilità della scrittura»[17].
[1] Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, Bologna, Cuepress, 2019, p. 144.
[2] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 823.
[3] Per una riflessione completa relativamente a Pasolini intellettuale tra USA e URRS, si faccia riferimeto a F. Chianese, Pasolini tra URSS e USA: L’intellettuale italiano negli anni della Guerra Fredda, in L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, in “Between”, V, 10, 2015, pp. 1-25.
[4] Come anche Chianese segnala, significativo è il testo pasoliniano La posizione.
[5] R. Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2005.
[6] F. Chianese, Pasolini tra URSS e USA: L’intellettuale italiano negli anni della Guerra Fredda, in L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, in “Between”, V, 10, 2015, p. 12.
[7] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 821.
[8] S. Casi, I teatri di Pasolini,Bologna, Cuepress, 2019, p. 148.
[9] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 13-14.
[10] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 23-24.
[11] Ibidem.
[12] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, p. 8.
[13] PPP, Teatro, Milano, Mondadori, p. 776.
[14] Si fa riferimento, oltre che alla trilogia drammatica Porcile, Orgia, Bestia da stile, anche alla poesia Una disperata vitalità in Poesie in forma si rosa. Cfr. S. Agosti, La parola fuori di sé. Scritti su Pasolini, Lecce, Manni, 2004; G. Zigaina, P. Pasolini. Un’idea di stile: uno stilo!, Venezia, Marsilio, 1999.
[15] S. Agosti, La parola fuori di sé: scritti su Pasolini, Lecce, Manni, p.52
[16] P. Voza (a cura di), P. Pasolini, Bestia da Stile, Napoli, Palomar, 2005, pp. 15-16.
[17] G. Inzerillo, «La coscienza di questo dramma è la mia poesia». Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini, in “Il lettore di provincia”, LI, 154, 1, 2020, pp. 49-50.
Il processo a Pasolini difeso dal “fascista” Alfredo De Marsico
di Andrea Apollonio
Sommario: 1. Premessa. - 2. Lo scontro totale di Pasolini con la giustizia italiana. - 3. Le ragioni dell'importanza storico - giuridica dell' affaire "I racconti di Canterbury". - 4. La vicenda processuale: analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. - 5. Il (difficile?) rapporto tra Pasolini e De Marsico: alcune interpretazioni. - 6. Spunti conclusivi di riflessione.
1. Premessa
Nel settembre del 1972 al teatro comunale di Benevento venne proiettato in anteprima "I racconti di Canterbury", film diretto e sceneggiato da Pier Paolo Pasolini. Si tratta del secondo dei tre episodi della c.d. "Trilogia della vita", una composizione filmica che presenta in sequenza "Il Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972) e "Il fiore delle Mille e una notte" (1974); opere che rivisitano le omonime novelle medioevali, il cui tema centrale è, appunto, la vita, intesa come esperienza fisica avente come suo centro il corpo. A detta del regista, la Trilogia è infatti pervasa dalla necessità della rappresentazione dei corpi e, sopratutto, del loro simbolo culminante: il sesso. Tale necessità si inserisce "in quella lotta per la democratizzazione del "diritto a esprimersi" e per la liberazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e Sessanta"[1]. Sicché, non può meravigliare che tutti e tre i film (assieme a molte altre sue produzioni artistiche) siano stati oggetto - da parte di pubblico e critica - di grandi apprezzamenti ma anche di feroci critiche e di numerose denunce per oscenità, e posti così al centro di intricate vicende giudiziarie.
Non fece eccezione la pellicola "I racconti di Canterbury", per cui, come era già accaduto per il "Decameron", venne celebrato il processo - innanzi al Tribunale di Benevento, competente per territorio - nei confronti di Pier Paolo Pasolini per il reato di cui all'art. 528 c.p., che punisce, tra l'altro, la fabbricazione di immagini oscene per farne commercio o esporle pubblicamente. Un processo che, come gli oltre trenta che alla fine si conteranno, si concluderà con l'assoluzione, ma che, per le ragioni che esporremo, assume una importanza ed una significatività tutta particolare. Questa complessa vicenda (artistica e processuale) rappresenta dunque l'oggetto delle nostre riflessioni.
2. Lo scontro totale di Pasolini con la giustizia italiana
Si sostiene generalmente che la società italiana degli anni Settanta (o comunque buona parte di essa) non fosse "pronta" ad accogliere espressioni artistiche a sfondo sessuale quali erano quelle di Pier Paolo Pasolini, e che lo scontro frontale con la giustizia e la sottoposizione dell'intellettuale ad una sorta di inquisitio generalis acclarasse, in qualche misura, l'inadeguatezza delle leggi - che ancora in quegli anni derivavano, senza sostanziali modifiche, dal ventennio fascista - allo spirito dei tempi, che Pasolini intendeva interpretare; o, comunque, attraversare, per sconvolgerli.
In effetti, a determinare lo scontro di Pasolini con il potere giudiziario si poneva sopratutto la tutela penale della morale pubblica e del pudore apprestata dall'ordinamento, che secondo l'intellettuale si fondava ancora sulla "ridicola" concezione del pudore rigidamente limitata all'amplesso tra un uomo e una donna [2].
Ne derivò una contrapposizione totale. Uno scontro agonistico, impregnato di ideologia: da una parte e dall'altra. E certo taluni magistrati approfittarono dell'illustre controparte processuale per ritagliarsi fette di protagonismo e di consenso nell'opinione pubblica. Ad esempio, nel processo (celebrato nel 1963) centrato sul film "La ricotta", in cui l'accusa era quella di vilipendio di religione, il pubblico ministero, in dichiarata competizione intellettuale con Pasolini, così formulò la sua singolare requisitoria:
"Davanti a me è Pier Paolo Pasolini. E' l'imputato, perché deve rispondere di un'accusa mossagli dal pubblico ministero. Qui sono io, al banco del pubblico ministero, ma in quale veste? [...] Ebbene, io pure sono imputato! [...] Da varie fonti senza metafore mi si accusa: l'attentatore della libertà, il liberticida, l'inquisitore! Non occorre altro per rendersi conto che in questo processo gli imputati sono due: Pier Paolo Pasolini ed io. [...] Se voi condannerete Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora, ineluttabilmente, condannerete il mio operato"[3].
L'ingaggio di questa sfida con la giustizia italiana si protrasse per quasi trent'anni e produsse, come detto, oltre trenta processi, riducendosi - in parte per volontà dello stesso Pasolini - in un circo mediatico-giudiziario[4] senza periodi di chiusura; tanto che, chi si è incaricato di ricostruire tutti i passaggi processuali, ha avuto l'impressione di ripercorrere un unico grande "Processo"; o, più kafkianamente, il Processo [5].
In realtà, procedendo ad una più approfondita analisi, si dovrebbe evidenziare come, all'interno di questo scontro, si siano comunque generate vicende sintomatiche di una lenta ma progressiva evoluzione della società italiana, alcune delle quali assumono altresì un significato profondo nell'universo giuridico. La grande avversione dell'intellettuale nei confronti di quello che lui definiva uno Stato capitalista piccolo-borghese e della sua cultura letteraria di ristrette vedute, che attaccava strumentalmente le opere di un diverso e ne faceva scempio non era certo fine a se stessa: era volta a stimolare polemiche e dibattiti (quasi) sempre costruttivi, ed a smuovere dal fondale fangoso della cultura - artistica, politica, giuridica - italiana quelle tendenze progressiste ancora involute.
Ecco dunque che, collocandoci in tale prospettiva storica, il processo beneventano rappresenta un momento d'incontro suggestivo, che segnalerebbe, per l'appunto, il lento emergere della società dalle secche del passato: quello tra Pier Paolo Pasolini e Alfredo De Marsico, uno dei penalisti italiani più autorevoli che il Novecento abbia avuto. Si tratta, probabilmente, del punto di intersezione meglio sviluppato tra la dimensione giuridica e la dimensione artistica della vicenda pasoliniana, che ci permette di fotografare nitidamente, al contempo, la vis polemica dell'artista e l'originalità liberale del giurista. La cui congiunzione ha prodotto un risultato che, in chiave storica, non è probabilmente ancora stato valutato appieno[6].
3. Le ragioni dell'importanza storico-giuridica dell'affaire "I racconti di Canterbury"
Occorre allora chiederci quali sono le ragioni per cui assegnamo tanta importanza al processo di Benevento centrato su "I racconti di Canterbury". Esse, per vero, sono molteplici.
Anzitutto, si tratta del film che valse a Pasolini l'Orso d'oro al festival di Berlino del 1972 e che fin da subito acquisì, per ciò, un certo grado di celebrità nel panorama cinematografico internazionale. Fu poi questo l'ultimo film a sfondo sessuale del quale egli poté seguire la vicenda processuale, conclusasi appena due anni prima la sua tragica scomparsa del 1975. L'inevitabile processo che seguì alla pellicola "Salò o le 120 giornate di Sodoma" (un film che non rientrava però nella Trilogia, e che verrà presentato al pubblico quando il regista era già morto da qualche settimana), infatti, che pure rappresentava il gesto supremo di sfida alla censura[7], avrà un esito scontato (anche) per l'assenza del suo principale imputato[8]. Inoltre, "I racconti di Canterbury", assieme agli altri due della Trilogia, rimangono il compimento di un percorso "estremo" che Pasolini, se anche fosse rimasto in vita, non avrebbe replicato. E' infatti nota la sua pubblica "abiura" del complesso filmico, pronunciata pochi mesi prima del suo omicidio.
Ma l'attenzione del giurista ricade fatalmente sul processo di Benevento per una più specifica ragione: in quell'occasione, infatti, Pasolini fu difeso da uno dei più illustri esponenti del pensiero giuridico del Novecento italiano: Alfredo De Marsico.
Invero, il clamore mediatico che suscitavano puntualmente i processi che lo vedevano coinvolto aveva già permesso al poeta di godere del patrocinio di alcuni giuristi accademici tanto noti quanto "illuminati": è il caso di Francesco Carnelutti, uno dei padri del diritto civile italiano, che difese Pasolini nel 1962. Ma l'intervento del giurista napoletano, personaggio molto vicino alle gerarchie fasciste, poi nominato ministro della Giustizia nel febbraio del 1943 (dunque, per pochi mesi, fino alla caduta del governo presieduto da Mussolini, il 25 luglio dello stesso anno) [9], ha una rilevanza simbolica ancora maggiore, che parla da sé: l'intellettuale comunista e provocatore difeso da uno dei giuristi di spicco del regime fascista, che aveva in qualche misura collaborato ai lavori preparatori di quello stesso codice su cui si chiedeva la condanna di Pasolini per oscenità delle sue opere.
Eppure, ripercorrendo i suoi lavori ed i suoi processi, non stupisce che il giurista campano, nonostante i trascorsi politico-ideologici, abbia accettato la difesa di Pasolini. La sua concezione del diritto penale, come rivelano i suoi scritti, fu sempre particolarmente garantista e ancorata ad alcuni principi - quali il divieto di analogia in materia penale, o la necessaria correlazione tra il reato ed il bene giuridico da proteggere [10] - il cui rispetto e la cui salvaguardia, nel pieno della dittatura, non era affatto scontato. E' anche per questa ragione che, secondo alcune fonti, Mussolini era solito descrivere De Marsico come un "liberale del fascismo"[11], mentre quest'ultimo ebbe a dire di sé: "il Partito mi considerava un fascista non conformista"[12].
Ed è certo questo, in prospettiva storiografica, l'aspetto di più grande rilevanza. L'aver voluto, proprio lui, ex membro del Gran Consiglio del fascismo, difendere Pasolini in quel processo, dimostra nitidamente come gli esponenti più importanti del pensiero giuridico del tempo potessero rivelarsi profondamente liberali (e certamente più "illuminati" di altri, che con il regime non avevano avuto nulla a che fare) pur essendo stati fascisti. O che, sovvertendo i termini di un noto articolo di Pasolini, si poteva professare senza alcuna contraddizione, almeno in campo giuridico, un certo "antifascismo dei fascisti"[13].
4. La vicenda processuale: analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna
A distanza di oltre quarant'anni, l'unico modo per ricostruire i percorsi processuali beneventani, evitando di cadere in ricostruzioni approssimate o, peggio, inesatte, è quello di ricorrere all'analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. Il fascicolo su "I racconti di Canterbury", come su molti altri processi, venne infatti formato verso la fine degli anni Settanta da Laura Betti, grande amica del poeta (morta nel 2004), che intendeva preservare la memoria della parabola pasoliniana finanche nei suoi aspetti più dolorosi: è dunque grazie a lei che oggi è possibile avvicinarsi alla verità storica di quei frangenti.
Orbene, la vicenda che ci occupa può essere suddivisa due tre tronconi: il processo principale per oscenità, svoltosi nei tre gradi di giudizio tra l'ottobre del 1972 e il dicembre 1973 e il parallelo procedimento d'esecuzione, avviato dalla difesa di Pasolini e del produttore del film Alberto Grimaldi, volto ad ottenere il dissequestro della pellicola.
Il poeta è dunque chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 528 c.p. per aver dato, mediante il film, pubblico spettacolo di oscenità. Il processo segue senza intoppi l'iter che già era stato seguito negli altri processi che avevano riguardato i suoi film, e conduce ad una assoluzione piena. D'altronde, come si può leggere nella sentenza del tribunale, "la validità della direzione artistica, curata essenzialmente dal Pasolini, risulta dalla visione e dalla valutazione complessiva del film e dalla stessa personalità del regista, considerata la più significativa del secondo dopoguerra italiano"[14].
Non è giunta fino a noi, purtroppo, la trascrizione dell'arringa di De Marsico, tra le tante che sono poi state in seguito pubblicate, né ci sono giunti suoi appunti o riflessioni sul processo di primo o secondo grado. Secondo l'unica fonte che riporta la vicenda, egli "fornisce l'ennesima prova della sua limpida concezione dell'Avvocatura, nella quale il diritto alla libertà dell'individuo va anteposto a qualunque ragionamento di ordine politico"; mentre Pasolini, accanto, "ne resta ammirato, elogiandone il rigore semantico"[15].
Esiste però un passaggio (che merita di essere riportato per intero) tratto da una arringa fatta proprio in quegli anni, che - mutatis mutandis, e nonostante lo si estrapoli quasi forzosamente da un contesto del tutto diverso, ed in cui peraltro De Marsico difendeva non l'imputato, ma la parte civile - può forse consegnarci, con un margine di verosimiglianza accettabile, le parole che egli pronunciò innanzi alla Corte beneventana:
"Non sono qui, in quest'aula, uomini di lettere e artisti, poeti e pittori e drammaturghi che vengono a controllare se la loro stessa libertà di artisti non sia in pericolo e ad invocarne in muta ma tesa solidarietà la liberazione? Oseremo ancora retrocedere verso il medioevo, verso le tenebre di una ignoranza e di una barbarie anche più fitta di quelle medievali? E voi siete giudici o aguzzini e tiranni? Rappresentate lo Stato o un fideismo conventuale da respingere? Rappresentate la coscienza sociale e politica e morale del secolo o gli spettri assurdamente risorti dagli ipogei di una reazione che minaccia le conquiste più elementari ed essenziali del sapere e della libertà?"[16].
Arriviamo dunque all'ultimo passaggio del processo: la Corte di Cassazione, nel dicembre 1973, assolve in via definitiva gli imputati da ogni accusa [17]. Ai nostri fini è però interessante, al di là del dato di cronaca processuale, riprendere alcuni passaggi della memoria di Alfredo De Marsico e di Francesco Gianniti depositata in occasione della camera di consiglio dei giudici di Cassazione: stigmatizzando in essa la decisione di condanna della corte d'appello di Bologna intervenuta appena qualche mese prima in relazione al film "Ultimo tango a Parigi", basata su principi giuridicamente erronei, si rileva che "le sequenze presunte oscene suscitano più disgusto che erotismo, il che corrisponde alle asserite finalità del regista di demitizzare il sesso"; e, sopratutto, respingendo ogni concezione pedagogica dell'arte, si afferma - in linea con quanto già ribadito dalla Corte di Appello di Napoli nel procedimento de quo - che:
"occorre tenere ben distinto il principio etico-sociale sulla oscenità, che deve essere elaborato in relazione al sentimento medio del pudore, da quello esclusivamente filosofico di arte. Sono evidenti, per quanto riguarda quest'ultima indagine, l'impossibilità di fare ricorso a criteri empirici e la necessità per il giudice di interpretare il concetto di arte quale risulta recepito dal legislatore"[18].
È evidente - ed eloquente al contempo - come De Marsico vorrebbe che il concetto di arte "recepito" dal legislatore (fascista dell'epoca, potremmo aggiungere) venisse "interpretato" ed attualizzato dai giudici, riempiendosi di nuovi contenuti alla luce delle nuove sensibilità e delle tendenze attuali.
Il procedimento d'esecuzione volto al dissequestro della pellicola costituisce, come detto, il terzo troncone dell'affaire "Canterbury", quello che presenta più problematiche d'ordine giuridico.
Difatti, nonostante la sentenza di primo grado del 20 ottobre 1972 disponesse il dissequestro del film, lo stesso tribunale respingeva [19] la richiesta di immediata esecutorietà, sulla scorta del combinato disposto tra l'art. 240 c.p. in materia di confisca delle cose che servirono a commettere il reato e l'art. 622 c.p.p. (del previgente codice), che dispone, in via generale, la restituzione delle cose sequestrate solo dopo la sentenza irrevocabile di proscioglimento: insomma, non si poteva dare immediata esecuzione all'ordine di dissequestro poiché doveva pronunciarsi ancora il giudice d'appello.
La difesa guidata da De Marsico propone allora ricorso in Cassazione contro l'ordinanza, ricorso che viene accolto e che permette il dissequestro della pellicola. E' il 9 gennaio 1973, ed il film può finalmente tornare nelle sale cinematografiche grazie ad una nuova ordinanza del tribunale di Benevento.
Ma avverso tale incidente d'esecuzione - che la Cassazione aveva ritenuto ammissibile dal punto di vista procedurale - la Procura di Benevento ricorre nuovamente in Cassazione, la quale, con una decisione che non conosce precedenti, afferma il principio secondo cui la pellicola può essere dissequestrata solo a seguito di sentenza definitiva di assoluzione[20], annullando così l'ordinanza beneventana che disponeva il dissequestro. Il 2 aprile 1973 il film venne dunque nuovamente sequestrato (lo rimarrà fino al dicembre 1973, intercorsa la definitiva assoluzione degli imputati), scatenando una campagna di stampa contro la magistratura, oramai definita senza mezzi termini corpo fascista par excellance, braccio della censura del Governo[21].
È proprio in questa occasione, ed a fronte di queste problematiche, che emerge il profilo di fine giurista del Maestro, il quale, comprendendo la portata della questione giuridica che era stata posta dalla Procura prima, e del principio espresso dalla Cassazione poi, ingaggia una battaglia strenua con l'una e l'altra. L'Archivio Pasolini conserva la memoria (sottoscritta anche dall' avv. Giuseppe De Luca) che Alfredo De Marsico deposita presso la Cassazione in vista della decisione dell'aprile 1973 sul dissequestro del film. In essa, l'argomentazione si basa tanto su questioni di stretto diritto, tanto sui più importanti principi costituzionali: egli parte dall'art. 21 che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, passa sotto l'impalcatura dell'art. 33, a detta del quale l'arte e la scienza sono libere, per approdare infine all'art. 27 ed alla presunzione di innocenza costituzionalmente garantita. Ma non solo. Il giurista campano affronta anche il tema dell'eccessivo potere di cui gode la pubblica accusa in materia cautelare, il cui passaggio testale merita davvero di essere riproposto: "La libertà dell'arte restaurata dal giudice con la sentenza non può essere sottoposta ad una ulteriore "censura sospensiva" attuata "di fatto" mediante l'impugnazione di un organo (P.M.) che non gode costituzionalmente delle stesse garanzie di indipendenza del giudice (art. 107, ultimo comma)". Egli, dunque, così conclude: "Trattasi, evidentemente, più che di un sequestro a fini probatori, di una confisca anticipata del film, non prevista da alcuna norma di legge"[22].
Al di là della pregevole fattura della strategia difensiva, appare di tutta evidenza come De Marsico, il giurista di estrazione fascista, sia riuscito ad impostare la questione in termini non soltanto rigorosamente codicistici, ma anche - sopratutto - costituzionali; allargando così la vicenda oltre i suoi naturali confini e conferendo alla stessa un respiro "nazionale", una portata simbolica eccezionale, trasformandola in una "prova di resistenza" del principio di libertà di manifestazione del pensiero, come di altri fondamentali principi. La contemporaneità culturale e giuridica di De Marsico si schiude così agli occhi dello storico, come a quelli del giurista.
5. Il (difficile?) rapporto tra Pasolini e De Marsico: alcune interpretazioni
La società italiana che assiste al processo su "I racconti di Canterbury" sembra ancora spaccata, tra coloro che non intendevano arretrare d'un passo sul terreno del pudore e della morale pubblica e coloro che, all'opposto, sembravano pronti a cavalcare la "rivoluzione culturale" partita nel 1968. Fuori dai tribunali, dove veniva giudicata una figura così controversa qual era quella di Pier Paolo Pasolini, si svolgevano in parallelo, nell'opinione pubblica, processi ai processi, e ci si divideva puntualmente i ruoli: innocentisti da una parte, colpevolisti dall'altra.
Dunque, a concentrare la curiosità collettiva era il processo in sé, e l'atteggiamento dello stesso Pasolini davanti ai giudici e alla stampa, non certo i profili dei suoi avvocati, né tantomeno le loro strategie difensive. Le cronache dell'epoca danno, dei processi pasoliniani, pochissimo rilievo a tali personaggi.
Eppure, il rapporto tra Pasolini e De Marsico acquista d'un tratto rilevanza nell'opinione pubblica, ma tempo dopo le vicende processuali di cui si è dato conto. A processo oramai concluso infatti, il 19 gennaio 1975, dalle colonne del Corriere della Sera, Pasolini si prese "una piccola vendetta contro De Marsico"[23], per aver dichiarato, quest'ultimo, inammissibile il rapporto omosessuale in quanto inutile alla sopravvivenza della specie: "ora, egli, per essere coerente, dovrebbe, in realtà, affermare il contrario: sarebbe il rapporto eterosessuale a configurarsi come un pericolo per la specie, mentre quello omosessuale ne rappresenta una sicurezza"[24].
Si tratta di un "colpo basso", sferrato nell'ambito di un dibattito giornalistico sull'aborto. Lo stesso De Marsico, che non risponderà mai all'intellettuale per mezzo stampa, nei suoi diari annota la circostanza [25], e pochi giorni dopo riporterà sullo stesso quaderno personale, con velata ma percettibile amarezza: "Il mio nome non è fatto nelle cronache se non accompagnato dalla notazione di ciò che, da anni, si ripete stucchevolmente e che sanno anche le pietre e gli incavi in cui sono infisse: che ho più di 85 anni, che non sono ancora morto, e che mi batto con energia e lucidità e che (dimenticavo), sono stato il collaboratore di Mussolini"[26].
All'affermazione di Pasolini seguiranno poi alcune repliche, tra cui quelle di Umberto Eco e di Giorgio Bocca [27], i quali, pur mai citando il giurista campano, verranno comunque bollati da Pasolini - con l'intento evidente di inasprire il dibattito - come "compari di De Marsico"[28].
Ora, ci pare di scorgere, anche a distanza di quarant'anni, una polemica di bassa lega, puramente provocatoria (in pieno stile pasoliniano, del resto), e ci è difficile dire in che misura il suo attacco nei confronti del giurista (che Pasolini pubblicamente definiva "il mio amico De Marsico"[29]) debba essere considerato meramente strumentale; dall'altra parte, invece, così si esprimeva De Marsico nei confronti di Pasolini: "scrittore salace, ma libero e non legato ad alcun pregiudizio né compromesso. Lo preferisco come poeta; sommo come regista, quando non scivola nell'osceno, dalle cui conseguenze l'ho salvato tirandolo per i capelli"[30].
Al di là delle apparenze, sulla cui superficie si possono prefigurare frizioni ideologiche, il rapporto si è instaurato: i due personaggi avevano, del resto, un profilo ideologico meno marcato di quanto si possa immaginare[31], e i due - sulla scorta dei documenti di cui disponiamo - godevano l'uno della stima dell'altro, come abbiamo appena visto. Rimane però una fonte di curiosità difficile da soddisfare il fatto che Pier Paolo Pasolini abbia scelto proprio Alfredo De Marsico come suo difensore (e viceversa). Le interpretazioni che di questa relazione possono essere date sono tante, tantissime, e molte di esse, del resto, sono già affiorate: ad esempio, allorquando si è messo in evidenza il ruolo di Maestro del diritto di De Marsico, il suo non aver mai abbandonato, neppure in pieno regime, importanti principi di garanzia in materia penale, il suo - per utilizzare un'espressione semplicistica ma efficace - "antifascismo dei fascisti".
Ma è alle riflessioni di Mauro Mellini che intendiamo affidare l'ultimo, più importante, spunto interpretativo, giacché nessuno meglio di lui può immaginare come e perché questo rapporto si sia istruito: egli era infatti, negli anni Settanta, uno dei più noti avvocati italiani, un conoscitore profondo di quel mondo forense; ma sopratutto, è stato uno dei principali esponenti del Partito radicale, alle cui battaglie Pasolini spesso si era affiancato, negli ultimi anni della sua vita. Mellini, dunque, così legge in controluce l'incontro tra Pasolini e De Marsico:
"Alfredo De Marsico è stato uno dei più grandi avvocati italiani. Uno degli ultimi di quella “scuola napoletana” per la quale l’avvocato “principe del Foro” era una sorta di distillato dello spirito della città. Malgrado le sue vicende politiche Alfredo De Marsico era “soprattutto avvocato”. Ed ancora, nel 1972, quell’essere “grande avvocato” metteva in ombra ogni qualifica politica. [...] Nel 1972 si erano cancellati molti solchi tra gli italiani. E non se ne erano aperti del tutto altri che furono poi capaci di produrre follie e sangue. Ma, soprattutto, nel 1972 il processo penale non aveva quella connotazione politica che in seguito la “giustizia di lotta” di certi magistrati e la testimonianza politica degli stessi imputati nei processi trasformarono in eventi nei quali la sigla politica, la Sinistra e la Destra marchiarono tutti, giudici, P.M., avvocati, oltre agli imputati.
Così quel “grande avvocato” poté essere ancora il difensore dell’eretico comunista anche a prescindere dal fatto di essere stato, nei fatti se non anche nelle teorizzazioni, un “eretico fascista”. Credo che Alfredo De Marsico sentisse fortemente quell’essere “avvocato prima di tutto”. E mi piace pensare che Pier Paolo Pasolini lo abbia capito e lo abbia apprezzato, magari simulando di imporsi solo di tener conto delle “capacità tecniche” del difensore"[32].
6. Spunti conclusivi di riflessione
"Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana di quella dei tempi della povertà"[33]. L'impegno intellettuale di Pasolini era rivolto proprio contro questa falsa libertà sessuale, e le sue opere rappresentano il punto più alto di una provocazione puramente artistica, che non conoscerà eredi, né sarà mai più replicata: la sua vicenda può essere immaginata come un prisma, esemplare unico, dalle molte sfaccettature, in cui anche il diritto penale si specchia nella facciata che gli appartiene.
Per quanto ci concerne, il processo di Benevento - che è, come abbiamo visto, il proscenio dell'incontro tra Pasolini e De Marsico - rappresenta un'occasione formidabile per verificare, in un certo qual modo, a che punto fosse, nella prima metà degli anni Settanta, il processo di faticoso superamento dei retaggi culturali e giuridici in cui la società italiana era avvinta fin dalla caduta del fascismo. La sequenza beneventana permette, più in particolare, a due vicende personali che possono dirsi, ciascuna nei propri ambiti, ideali, di "illuminarsi" reciprocamente: da un lato ritroviamo Pasolini, "simbolo di tutto ciò che conservatori e fascisti in particolare odiano visceralmente"[34]; dall'altro De Marsico, il giurista più fine ma anche più "liberale" del regime (anzi, "dello Stato", come lui stesso ebbe a dire). Un rapporto all'apparenza impossibile, ma che pure si è istituito, si è alimentato e segna la congiuntura tra due mondi. E' stato Mauro Mellini, del resto, ad illustrarcelo magistralmente.
Insomma, in chiusura, potremmo anche dire che l'assunzione della difesa di Pasolini da parte di De Marsico ribadisce, sul fronte penalistico ove si collocava quest'ultimo, l'originalità liberale e l' "onestà" scientifica di un Maestro, il cui pensiero giuridico, nonostante avesse raggiunto la piena maturazione nel "ventennio", ha sempre mantenuto un atteggiamento di autonomia ed anzi, di distacco; ed una presa di distanza - per certi versi clamorosa, ma pienamente compatibile con il suo "modo" di essere stato fascista - dagli ambienti politici neofascisti dell'epoca, nei quali De Marsico non volle mai penetrare [35]; e sostanzia, sul fronte artistico di Pasolini, l'ennesima provocazione scagliata addosso ad una società ancora divisa tra clericali e atei, democristiani e comunisti, fascisti e antifascisti.
Come se, davanti all'opinione pubblica, si fosse incaricato di affermare "tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo"[36], come recita la sua più nota poesia: un atteggiamento, quello della scissione dei due piani - quello delle implicazioni ideologiche del passato e quello prettamente artistico-professionale - , che non difettò mai lungo il suo percorso intellettuale.
È, dunque, per queste ragioni che il film "I racconti di Canterbury", ed il seguente processo svoltosi a Benevento tra il 1972 e il 1973, ci fornisce lo spaccato ideale illustrativo dei rapporti - meno scontati di quanto si potesse immaginare in un primo momento - che intercorrono tra il pensiero pasoliniano e quello di De Marsico, tra il variegato mondo culturale e quello giuridico, attraversati entrambi da istanze e contributi d'ogni genere, e riesce ancora - ed il processo è di per sé impegnativo in tema di suggestioni - ad offrire un rimando quasi metafisico, certamente letterario, e probabilmente impossibile da replicare oggigiorno.
[1] P.P. Pasolini, Abiura della Trilogia della vita, in Lettere luterane, Torino, 1980, p. 71.
[2] Vd. quanto egli afferma in Cani (inedito), in Scritti corsari, 8° ed., Milano, 2011, p. 121.
[3] Citato in B. Castaldo, Imputato Pasolini: un caso di "diritto e letteratura", in Lawton - Bergonzoni (a cura di), Pier Pasolini. In living memory, Washington, 2009, p. 240 ss.
[4] Va nondimeno ricordato che l'espressione è divenuta d'uso comune soltanto con la pubblicazione del pamphlet di D.S. Larivière, Il circo mediatico-giudiziario (trad. it.), Macerata, 1994.
[5] "E' perfino banale scrivere che non ci sono tanti processi quanti sono i procedimenti giudiziari iniziati contro Pier Paolo Pasolini e che c'è, invece, un processo solo, ininterrotto per almeno vent'anni, che si gonfia e si assecchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità: mettere in dubbio la legittimità dell'esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana": S. Rodotà, Un solo processo, in L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, 1977, p. 279.
[6] In letteratura, l'unico (breve) riferimento al significativo incontro tra Pier Paolo Pasolini e Alfredo De Marsico si rinviene nella nota di D. Zampelli, Pasolini, l'assoluzione di Benevento, in La voce del Foro (rivista dell'Ordine degli Avvocati di Benevento), n. 4/2006, a margine della pubblicazione della sentenza in parola.
[7] Commentando l'uscita del film con l'editore Livio Garzanti, Pasolini affermò che lo aveva voluto come "ultima sfida alla censura" e aggiunse: "se lo lasciano passare, la censura non c'è più". Così rivela lo stesso Garzanti in Post-scriptum, in L. Betti (a cura di), Pasolini, cit., p. 404.
[8] Il produttore del film, Alberto Grimaldi, che divenne a quel punto il principale imputato dei processi che verranno celebrati per oscenità, verrà infine assolto e il film dissequestrato, ma a condizione di alcuni tagli per complessivi 5 minuti.
[9] Alfredo De Marsico, oltre ad essere deputato nazionale dal 1924, fu membro della commissione parlamentare per la riforma dei codici dal 1925 al 1942 e, come detto, ministro della Giustizia dal 6 febbraio al 25 luglio 1943.
[10] Egli, inoltre, aveva assistito con preoccupazione al progressivo allineamento ideologico con il nazismo tedesco, che riteneva in contrasto con i principi della civiltà giuridica italiana: cfr., ad es., A. De Marsico, Prime linee della riforma hitleriana del diritto penale, in Riv. pen., 1934, p. 18 ss.; Id., Dogmatica e politica nella scienza del diritto penale, in Annali dir. e proc. pen., 1941, p. 484 ss.
[11] Vd. P. De Luca, Alfredo De Marsico, il penalista emulo di Demostene, in La Repubblica, 7 agosto 2010.
[12] In M. Bianchi, Come e perché cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime, Milano, 1970, p. 281; nello stesso volume si riporta un fatto vieppiù significativo: De Marsico avrebbe assunto il suo incarico ministeriale presentando a Mussolini un programma di poche righe, tra cui l'affermazione: "nessun favore ai fascisti, nessuna persecuzione agli antifascisti. Sarò il Ministro dello Stato e non del Regime" (p. 281): una dichiarazione al limite dell'incredibile, assumendo come punto di riferimento l'allineamento assoluto alle direttive del fascismo che era richiesto a tutti gli uomini che ricoprivano cariche pubbliche, ed in particolare a coloro che erano parte del Governo.
[13] Il riferimento è a P.P. Pasolini, Il fascismo degli antifascisti (apparso col titolo "Apriamo un dibattito sul caso Pannella" sul Corriere della Sera del 16 luglio 1974), in Scritti corsari, cit., p. 65.
[14] Tribunale di Benevento, sentenza n. 308 del 20 ottobre 1972 (dep. 26 ottobre 1972). Ed anzi, i giudici si profondono in considerazioni elogiative de "I racconti di Canterbury": "Il film è opera valida a rinfacciarci i mali spesso ipocritamente celati; incita lo spettatore a riflettere sulla propria condizione e a sperare in un mondo individualmente e socialmente migliore. Opera d'arte, dunque, anche per il contenuto d'intuizione universale, per la fiamma ideale che risuscita, per l'elevatezza dell'aspirazione mistica cui conduce". Pertanto, "responsabilmente ed obiettivamente il Tribunale ravvisa nel film giudicato il carattere dell'opera d'arte tale da soverchiare largamente le oscenità e le scurrilità strumentalmente contenutevi; conseguenzialmente, a norma del capoverso dell'art. 529 c.p., e nel superiore interesse delle libertà dell'arte di cui all'art. 33 Cost., serenamente assolve gl'imputati perché il fatto non costituisce reato". La sentenza verrà poi confermata nei medesimi termini dalla Corte di Appello di Napoli nel luglio del 1973.
[15] D. Zampelli, Pasolini, cit.
[16] A. De Marsico, Arringhe, vol. V, Napoli, 1975, p. 325.
[17] Corte di Cassazione, sez. III penale, sent. n. 2073 del 20 dicembre 1973 (dep. 5 agosto 1974). La sentenza, peraltro, contiene passaggi interessanti, che rivelano interpretazioni giuridiche "eccentriche". Si consideri ad esempio quanto si afferma sulla valutazione dell' "opera d'arte": "è al complesso unitario dell'opera che occorre fare riferimento per stabilire, conformemente ai canoni dell'estetica crociana cui si ispira il vigente codice penale [risulta cancellato a penna: "recepita dal nostro Codice penale"] se l'opera manifesti una qualche intuizione, come oggettivazione di impressioni spirituali tradotte in espressione, giudizio cui deve essere estranea ogni suggestione che tenda a limitare la libertà dell'artista".
[18] De Marsico - Gianniti, Memoria nell'interesse di Alberto Grimaldi e Pier Paolo Pasolini, 30 novembre 1973, conservata presso l' Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna.
[19] Tribunale di Benevento, ordinanza del 7 novembre 1972, che afferma l'inammissibilità dell'incidente di esecuzione.
[20] Cassazione, sez. III penale, sentenza del 2 aprile 1973, in Foro it., vol. 96, 1973, p. 299 ss. Tale principio sarà poi superato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 82 del 27 marzo 1975, che dichiarerà costituzionalmente illegittima la tesi della Suprema Corte a proposito del sequestro del film "Nanà 70".
[21] La stampa consumò tutti i possibili titoli ad effetto: si guardi, ad esempio, quello de Il Messaggero del 3 aprile 1973: "Un film è colpevole finché non sia dimostrata la sua innocenza per tre volte di seguito". Cfr. anche l'articolo di N. Ajello, Da oggi c'è la censura, in L'Espresso, 8 aprile 1973, in cui il giornalista, penna di spicco del settimanale, afferma: "siamo fra coloro che si accaniscono a pensare - nonostante le brucianti smentite periodicamente offerte dalla cronaca - che il nostro paese sia ancora fornito di clandestine risorse capaci di fermare il suo ultimo passo verso il baratro dell'imbecillità. La più efficace di queste risorse potrebbe essere la sua propensione a non obbedire mai alle leggi, e perciò neppure, provvidenzialmente, a quelle assurde".
[22] Non inopportunamente si segnala che De Marsico, proprio in quegli anni, si batteva all'interno del mondo forense (in specie, nei Congressi nazionali dell'Avvocatura) sostenendo la tesi della necessaria "apoliticità" della magistratura e del singolo magistrato, che deve rimanere fedele all'interpretazione e all'applicazione della legge sulla scorta di scelte politiche già compiute dagli organi preordinati ad esprimere la volontà popolare, così da essere completamente obiettivo e imparziale. Egli avanzava così, in tempi "non sospetti", il tema del rapporto tra politica e magistratura, attirandosi le critiche degli ambienti di sinistra, che bollava la sua tesi dell' "apoliticità" come "aberrante" e "reazionaria". Il quadro è ben tratteggiato da L. Caponi, "Apoliticità": una tesi reazionaria, in L'Unità, 8 settembre 1973.
[23] P.P. Pasolini, Cani, cit., p. 116.
[24] P.P. Pasolini, Il coito, l'aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti (apparso sul Corriere della Sera del 19 gennaio 1975 con il titolo "Sono contro l'aborto"), in Scritti corsari, cit., p. 102.
[25] De Marsico parla dell' "articolo di Pasolini", senza null'altro specificare, il 21 gennaio 1975, come risulta nel volume che raccoglie i suoi appunti personali: A. De Marsico, "Il sole tramonta sul tavolo di questa Corte di Assise", Fasano, 1989, p. 60.
[26] A. De Marsico, "Il sole tramonta", cit., p. 62.
[27] Rispettivamente su Il Manifesto del 2 febbraio 1975 e su l'Espresso del 6 febbraio 1975.
[28] P.P. Pasolini, Cani, cit., p. 119.
[29] P.P. Pasolini, Il carcere e la fraternità dell'amore omosessuale, in Scritti corsari, cit., p. 198.
[30] A. De Marsico, "Il sole tramonta", cit.,p. 61.
[31] Con riguardo a Pasolini, si veda quanto egli afferma sul Corriere della Sera del 4 febbraio 1973: "Quanto poi ai miei attuali interessi ideologici, il loro insieme è troppo complesso e anche contraddittorio per poter essere qui definito". Su De Marsico, invece, già molto si è detto: basti ricordare, comunque, che - pur non rinnegando mai il fascismo né, però, quel voto nel Gran Consiglio che contribuì a demolirlo - tornò in Parlamento negli anni Cinquanta non nelle file dei "nostalgici" del M.S.I., partito dichiaratamente fascista: coerente con quel suo voto di sfiducia nei confronti di Mussolini, si presentò al Senato con il partito monarchico che, più che "nostalgico", era "vagheggiatore" di una Monarchia inesistente fin dai tempi della prima guerra mondiale.
[32] Così Mauro Mellini, rispondendo per iscritto alle sollecitazioni sul punto fatte dell'autore di questo articolo, in una lettera del 30 aprile 2015.
[33] P.P. Pasolini, Il coito, cit., p. 99.
[34] Ivi, p. 153.
[35] Ad ogni modo, la sensazione è che, con il passare del tempo, la figura di De Marsico si stia gradualmente nobilitando. Si prenda, ad esempio, il recente contributo elogiativo di V. Siniscalchi, La parola civile di De Marsico, in La Repubblica, 24 marzo 2006.
[36] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Le ceneri di Gramsci (5°ed.), Milano, 2009, p. 51.
La riforma della disciplina delle intercettazioni preventive dei Servizi di informazione per la sicurezza nella legge di bilancio di Federica Resta, Dirigente del Garante per la protezione dei dati personali-Le opinioni contenute nel presente contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità
Tra gli emendamenti governativi al disegno di legge di bilancio, approvati in Commissione alla Camera dei deputati, il 123.01.000 introduce disposizioni rilevanti in materia di intercettazioni preventive da parte dei Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica.
L’inserimento della disposizione nel disegno di legge di bilancio (che non può contenere norme a carattere ordinamentale: art. 15, c.2, l. 243 del 2012) è motivata essenzialmente in ragione dell’esigenza di modificare l’imputazione dei fondi destinati a coprire queste operazioni, spostandola dal relativo capitolo all’interno dello stato di previsione del Ministero della giustizia allo specifico programma di spesa (il 5.2), contenuto all’interno dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze. In questo modo, “si consente anche di evitare la circolazione al di fuori del Comparto intelligence di documentazione contabile contenente elementi di natura sensibile, come numeri telefonici e autorità giudiziaria autorizzante, che rende riconducibile la relativa attività ai Servizi di informazione, determinando un evidente vulnus alle esigenze di riservatezza che caratterizzano le suddette operazioni”.
Tuttavia, l’emendamento non si limita alla modifica dell’imputazione contabile ma incide anche sulla disciplina dell’istituto, con innovazioni significative e una sua complessiva “sistematizzazione”(così definita dalla Relazione illustrativa).
In particolare, l’emendamento mira ad autonomizzare la disciplina delle intercettazioni del Comparto intelligence rispetto a quella delle intercettazioni volte alla prevenzione di gravi reati (art. 226 disp.att.c.p.p.) cui, invece, l’art. 4 d.l. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla l. 155 del 2005, nel suo testo attuale rinvia integralmente.
L’esigenza di una disciplina autonoma è comprensibile, in ragione delle caratteristiche che connotano le operazioni captative di competenza dei Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica, finalizzate alla tutela di un interesse giuridico, quale la sicurezza nazionale, dallo statuto normativo del tutto peculiare. Così come comprensibile appare l’esigenza di sistematizzazione della disciplina, sinora caratterizzatesi per stratificazioni successive e rinvii normativi incrociati meritevoli, certamente, di un drafting migliore. L’emendamento, a tal fine, introduce, nel corpo del d.l. 144 del 2005, un apposito articolo, il 4-bis, recante appunto “Disposizioni in materia di intercettazioni preventive dei servizi di informazione per la sicurezza”.
In estrema sintesi, le innovazioni principali della disciplina concernono i presupposti autorizzatori delle operazioni captative (non solo di natura intercettativa), i termini per il deposito dei verbali, gli adempimenti successivi alle comunicazioni al Copasir e le possibilità di utilizzo degli elementi acquisiti mediante le operazioni.
Con riferimento alla diversa disciplina dei presupposti legittimanti le operazioni, va anzitutto segnalata la soppressione del riferimento- che resta invece, nell’art. 226 disp.att.c.p.p. per le intercettazioni preventive “di polizia”- al contenuto dell’obbligo motivazionale del provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica, relativo alla sussistenza di elementi investigativi che giustifichino l’attività di prevenzione e alla ritenuta (da parte dell’a.g.) necessità del compimento dell’atto. La norma proposta prevede ora che le intercettazioni siano autorizzate “quando risultano sussistenti le condizioni” che le giustificano, ossia quando siano ritenute indispensabili per l’espletamento delle attività rimesse alle Agenzie (Aise e Aisi). Si esclude, dunque, la necessità che l’istanza sia sorretta da “elementi investigativi” giustificanti la captazione.
Tale, almeno apparente, alleggerimento dell’onere motivazionale della richiesta, è tuttavia compensato dall’oggetto della valutazione rimessa al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, che con decreto (motivato, conformemente al requisito richiesto dall’art. 15 Cost.) dovrà accertare la sussistenza della (ritenuta) indispensabilità delle attività intercettative (anche ambientali, come del resto già prevede la disciplina vigente) per l’espletamento delle attività demandate alle Agenzie. Tale indispensabilità costituisce, infatti, il requisito legittimante le captazioni ai sensi del nuovo art. 4-bis, c.1, d.l. 144 del 2005. Resta, peraltro, fermo, rispetto al testo vigente, l’onere motivazionale relativo alla sussistenza di ragioni che rendano necessaria la proroga (eventuale) dell’intercettazione.
Innovazioni rilevanti caratterizzano anche la disciplina del deposito, presso il Procuratore generale, dei verbali delle operazioni di ascolto svolte e dei contenuti intercettati, oltre che dei contenuti captati e dei supporti mobili eventualmente utilizzati. In particolare, il termine per il deposito viene esteso da cinque (prorogabili a dieci in caso di traduzione) a trenta giorni. Il termine del deposito- che può avvenire anche “con modalità informatiche” da individuarsi con dPCM- può peraltro essere prorogato ad un massimo di sei mesi, su autorizzazione del Procuratore generale, in presenza di richiesta motivata che comprovi “particolari esigenze di natura tecnica e operativa”.
La norma, inoltre, onera espressamente il Procuratore generale della distruzione (in questo caso non qualificata dal requisito dell’immediatezza prescritto, invece, per il materiale depositato e le copie, anche informatiche, totali o parziali, dei contenuti) della documentazione da lui stesso detenuta, ad eccezione dei decreti autorizzatorii, una volta decorso il termine per l’adempimento, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, degli obblighi di comunicazione al Copasir.
In ordine alla disciplina dell’utilizzo successivo degli elementi acquisiti attraverso le operazioni captative, la data retention e il tracciamento delle comunicazioni “per lo sviluppo della ricerca informativa”, il generale divieto di utilizzo nel procedimento penale è confermato e anzi rafforzato. Il comma 5 del nuovo art. 4 bis sopprime, infatti, il riferimento (presente invece al comma 5 dell’art. 226 disp. att.c.p.p.) alla possibilità di utilizzo, ai soli fini investigativi, dei risultati delle intercettazioni (e delle altre operazioni descritte).
Tale differenza si spiega con la strutturale diversità dell’attività d’intelligence rispetto a quella disciplinata dall’art. 226 disp.att., che mira pur sempre alla prevenzione di delitti. Per la prima ben si giustifica, dunque, un’ancor più radicale separazione rispetto al procedimento penale. Essa è, peraltro, temperata pur sempre dal dovere, sancito dall’art. 23, c.7, della l. 124 del 2007 in capo agli Organismi (recte: ai loro direttori) di comunicare “informazioni ed elementi di prova relativamente a fatti configurabili come reati, di cui sia stata acquisita conoscenza nell’ambito delle strutture che da essi rispettivamente dipendono” alla polizia giudiziaria. L’adempimento dell’obbligo può essere peraltro ritardato, su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, “quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza”.
Significative sono, inoltre, le innovazioni che caratterizzano i presupposti legittimanti l’acquisizione dei tabulati e il tracciamento delle comunicazioni, ai sensi dell’art. 4-bis, c.4. Per tali operazioni, infatti, non è più previsto il requisito (sancito dall’art. 226 disp.att.) della necessità investigativa né il deposito di elementi a supporto, ma la mera finalizzazione di tali operazioni all’espletamento delle attività (genericamente indicate) demandate ai Servizi (non solo, a rigore, alle Agenzie, come invece dispone, per le intercettazioni, il comma 1 del’art. 4-bis). In tal senso depone, infatti, il riferimento operato dal comma 4 del citato articolo 4-bis, introdotto dall’emendamento, alle sole “modalità” di svolgimento delle operazioni di cui al comma 1 dell’articolo 4 del d.l. 144 del 2005 (ovvero previa richiesta di autorizzazione avanzata, anche dai direttori dei Servizi, su delega del Presidente del Consiglio dei Ministri).
Circa la “profondità cronologica” dell’acquisizione, ovvero la risalenza dei tabulati (tema oggetto di una copiosa giurisprudenza della Cgue), la norma continua, come per le operazioni di cui all’art. 226 disp.att.c.p.p., a far mero riferimento ai dati in possesso degli operatori (dunque, per i tabulati, con estensione del termine massimo di settantadue mesi tuttora in vigore ai sensi dell’art. 24 l. 167 del 2017). I tabulati, come già previsto dall’art. 226 disp.att., vanno distrutti entro sei mesi (termine prorogabile nel massimo a ventiquattro su autorizzazione del Procuratore generale, ma senza più la previsione del requisito, sancito invece dall’art. 226 disp.att., della indispensabilità per la prosecuzione dell'attività di prevenzione).
Tale nuova disciplina, pur sancendo presupposti meno stringenti dell’attuale rispetto alla data retention, sembra comunque compatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, che in materia ha avuto modo di rilevare come:
-la direttiva 2002/58 si applichi a ogni tipo di conservazione dei dati di traffico, seppur finalizzata ad un’eventuale acquisizione per fini di sicurezza nazionale. L’argomento sotteso a tale assunto è che il fine perseguito non muta l’attività di conservazione, ritenuta in quanto tale lesiva della riservatezza già prima di ogni acquisizione: cfr., in particolare, CGUE, sent. 6 ottobre 2020, C 623-17, Privacy international,, ove al punto 49 si afferma che “l’articolo 1, paragrafo 3, l’articolo 3 e l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letti alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, devono essere interpretati nel senso che rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva una normativa nazionale che consente a un’autorità statale di imporre ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica di trasmettere ai servizi di sicurezza e di intelligence dati relativi al traffico e dati relativi all’ubicazione ai fini della salvaguardia della sicurezza nazionale”;
-il fine di sicurezza nazionale legittimi, tuttavia, la deroga ai limiti stringenti previsti per la data retention “giudiziale” tali da consentire la conservazione preventiva (che invece con le sentenze di aprile e settembre 2021 la Corte esclude, salvo presupposti limitati, per la data retention giudiziale). Significativa, in tal senso, la sentenza del 20 settembre 2022, Space Net, cause riunite C-793 e 794/19 che, ai fini della disciplina dei tabulati, traccia una distinzione (rilevante anche in termini di “gerarchia assiologica”) tra “criminalità particolarmente grave” e minacce “per la sicurezza nazionale”, la cui importanza “è maggiore rispetto a quella degli altri obiettivi di cui all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58” (punto 72) . In replica a un’eccezione della Commissione europea tesa ad equiparare i due presupposti, la Corte ha infatti ribadito (punti 92-94) che la salvaguardia della sicurezza nazionale corrisponde “all’interesse primario di tutelare le funzioni essenziali dello Stato e gli interessi fondamentali della società, mediante la prevenzione e la repressione delle attività tali da destabilizzare gravemente le strutture costituzionali, politiche, economiche o sociali fondamentali di un paese, e in particolare da minacciare direttamente la società, la popolazione o lo Stato in quanto tale, quali le attività di terrorismo”. La Corte nota inoltre come, diversamente dalla criminalità, anche particolarmente grave, una minaccia per la sicurezza nazionale debba caratterizzarsi per requisiti di concretezza ed attualità o, quantomeno, prevedibilità, desumibili dalla ricorrenza di “circostanze sufficientemente concrete da poter giustificare una misura di conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, per un periodo limitato”. Tali diversità inducono la Corte a rigettare la tesi della Commissione volta ad equiparare la criminalità particolarmente grave alle minacce per la sicurezza nazionale, così introducendo, ad avviso dei giudici, una categoria intermedia tra la sicurezza nazionale e la pubblica sicurezza, applicando alla seconda i requisiti inerenti alla prima;
-le deroghe ammissibili per ragioni di sicurezza nazionale incontrino, tuttavia, il limite della proporzionalità, in quanto l’acquisizione non deve essere massiva. Come chiarisce la sentenza Privacy International ai punti 81 e 82, infatti, “una normativa nazionale che impone ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica di procedere alla comunicazione mediante trasmissione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione ai servizi di sicurezza e di intelligence eccede i limiti dello stretto necessario e non può essere considerata giustificata in una società democratica, così come richiesto dall’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE nonché degli articoli 7, 8 e 11 e dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta (…); l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE nonché degli articoli 7, 8 e 11 e dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale che consente a un’autorità statale di imporre ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, ai fini della salvaguardia della sicurezza nazionale, la trasmissione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione ai servizi di sicurezza e di intelligence”.
Tanto la disciplina vigente quanto quella proposta dall’emendamento sembrano, dunque, conformarsi al canone di proporzionalità indicato come dirimente nel reasoning della Corte e applicabile, appunto, anche alle operazioni limitative della riservatezza (quali, appunto, la conservazione dei tabulati) funzionali ad esigenze di sicurezza nazionale.
Ma il controllo sull’osservanza, in concreto, di questo principio fondativo risiede, principalmente, nel vaglio rimesso al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma sulla sussistenza dei requisiti legittimanti le operazioni. Un presidio importante, cui è affidato, in ultima analisi, il delicato equilibrio tra esigenze di salvaguardia della sicurezza nazionale e riservatezza individuale.
Ampliamento della giurisdizione oggettiva e nuovi limiti del giudicato dopo la sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19)
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. La sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19) e la vis expansiva dei dicta in essa contenuti. - 2. L’attuazione futura della pronuncia della Corte di Giustizia UE e i riflessi sulla natura e la disciplina dell’azione dichiarativa delle nullità di protezione. - 3. Le modalità di attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia UE alle procedure pendenti fondate su titoli esecutivi definitivi non contenenti l’esame espresso della questione della nullità. - 4. Sul rilievo costituzionale del giudicato. - 5. Dicta europei, fondamento del giudicato e distonia sistematica del giudicato c.d. implicito. - 6. Limiti oggettivi del giudicato, pregiudizialità logica espressa e l’esercizio dell’azione di nullità contrattuale di protezione come modalità di attuazione del diritto europeo.
1. La sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19) e la vis espansiva dei dicta in essa contenuti.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19), emessa insieme ad altre pronunce sul medesimo tema della speciale protezione attribuita ai consumatori dal diritto dell’Unione, ha stabilito, tra l’altro, che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ostano ad una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa - per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole.
Al par. 65 della motivazione, questa sentenza rileva che «una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali».
L’esigenza di effettività della tutela del consumatore, realizzata dal diritto comunitario, avuto riguardo all’interesse superindividuale oggetto di tale protezione, implica l’attribuzione al giudice nazionale, non solo del potere, ma anche del dovere di esaminare, pure in difetto di domanda di parte, l’eventuale carattere abusivo della clausola contrattuale; e questo dovere può ritenersi adempiuto solo se nel provvedimento giurisdizionale è contenuta specifica motivazione al riguardo.
La lettura di questo paragrafo della motivazione consente di intuire la vis expansiva dei dicta contenuti in questa e nelle altre pronunce del giudice comunitario: la questione non involge soltanto la disciplina del consumatore ma tutte le norme imperative poste a tutela della libertà negoziale delle partes debiliores e, dunque, tutte le nullità di protezione; inoltre, la portata dei principi affermati dalla Corte di Giustizia non è circoscritta al decreto ingiuntivo non opposto ma si estende a qualsiasi titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, in primo luogo alla sentenza, con riguardo alle statuizioni inespresse in esso implicitamente contenute che si pongono in rapporto di pregiudizialità rispetto alla statuizione principale resa sul diritto azionato in giudizio.
Lasciando da parte ogni considerazione sulle implicazioni delle pronunce del giudice europeo in ordine alla natura e ai caratteri sostanziali della disciplina sovranazionale di tutela del consumatore, sotto il profilo strettamente processuale il riferimento al dovere del giudice evoca la necessità di ritenere, se non del tutto disapplicati, almeno recessivi, in subiecta materia, i noti principi che regolano l’ordinario procedimento di cognizione, quali l’impulso di parte e il principio dispositivo in senso materiale, nonché, verosimilmente, per conseguenza, anche il principio dispositivo in senso formale. Per altro verso, l’evidenziazione che le norme imperative violate a danno del consumatore tendono alla tutela (anche) di un interesse pubblico, induce a ritenere che la domanda sia strumentale all’accertamento di un diritto indisponibile o, se si vuole, non pienamente disponibile, in quanto compromesso con un interesse generale: il che, implica, anche sotto questo profilo, un necessario inquinamento officioso ed inquisitorio del relativo procedimento. Infine, la necessità della motivazione espressa postula che sulla questione dell’abusività della clausola venga debitamente suscitato il contraddittorio: ciò che, per la verità, lungi dall’apparire destabilizzante, sembra del tutto connaturato al nostro sistema, atteso che l’obbligo del giudice di motivare l’accoglimento o il rigetto della domanda è sempre stato previsto nella nostra Costituzione (art. 111, già secondo comma, ora sesto) mentre quello di suscitare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio (cui segue, evidentemente, il dovere di motivazione esplicita) è stato introdotto ormai da diversi anni nel nostro codice di procedura civile (art.101, secondo comma, c.p.c., aggiunto dalla legge n. 69 del 2009), colmando un vulnus al diritto di difesa cui già la giurisprudenza aveva cercato di porre rimedio (cfr., già, Cass. 21 novembre 2001, n. 14637).
2. L’attuazione futura della pronuncia della Corte di Giustizia UE e i riflessi sulla natura e la disciplina dell’azione dichiarativa delle nullità di protezione.
In prospettiva futura, l’esigenza di attuare i dicta della Corte di Giustizia comporta la necessità di riconsiderare, sotto il profilo processuale, la natura e la disciplina dell’azione dichiarativa della nullità contrattuale, con specifico riferimento alle nullità di protezione, derivanti dalla violazione di norme finalizzate alla tutela di un interesse superindividuale.
Sul piano sistematico, l’operazione non dovrebbe essere particolarmente dolorosa poiché la nostra dottrina classica ha, già da epoca ormai risalente, denunciato l’esistenza, nel nostro ordinamento, di una categoria di processi in cui l’accertamento giudiziale non ha per oggetto (soltanto) il diritto soggettivo della parte, ma il dovere del giudice di provvedere al verificarsi di specifiche fattispecie previste dalla legge.
Si tratta di quei processi che Enrico Allorio denominò processi a contenuto oggettivo, ponendo in evidenza come essi non tendono alla tutela di una situazione soggettiva privata, ma piuttosto alla realizzazione di un interesse superiore e indisponibile, contrapponendosi così ai processi vertenti su diritti o stati personali (E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.).
Nell’ambito di questa categoria di procedimenti sono stati di volta in volta ricondotti processi eterogenei (quello di interdizione, diretto ad attuare l’interesse pubblico alla protezione dell’incapace: Vignolo, Principio inquisitorio e impulso d’ufficio nel procedimento di interdizione, in Riv. dir. civ., 1975, I, 339, 341; la querela di falso, diretta ad attuare l’interesse pubblico all’eliminazione dal commercio giuridico dei documenti falsi: V. Denti, Querela di falso, NDI, 1967, 658 ss.; la dichiarazione di assenza e morte presunta, tendente ad attuare l’interesse pubblico alla conservazione e chiarificazione dei rapporti giuridici: F. Carpi, L’efficacia ultra partes della sentenza civile, Milano, 1974, 63 ss.; la dichiarazione di adottabilità, tendente ad attuare l’interesse pubblico a fornire una famiglia sostitutiva al minore abbandonato: C.M.Bianca, Diritto civile, II, La famiglia - Le successioni, Milano, 1989, 312; il processo fallimento, diretto ad attuare l’interesse pubblico alla liquidazione delle imprese in crisi: G.A. Micheli, Il processo di fallimento nel quadro della tutela giurisdizionale dei diritti, in Riv. dir. civ., 1961, I, 6), nei quali, tuttavia, la presenza di un interesse superiore, alla cui realizzazione è funzionale la pronuncia del giudice, implica la comune operatività, pur in vario modo, del principio dell’impulso d’ufficio, del principio inquisitorio in senso materiale e del principio inquisitorio in senso formale.
La dottrina che ha approfondito lo studio di questi processi (F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) ha rilevato come, mentre l’assunzione del carattere officioso si traduce in modalità differenti di impulso processuale (dal mero allargamento della categoria dei legittimati, all’attribuzione del diritto di azione al pubblico ministero, sino alla configurazione - in casi limite, ormai quasi del tutto superati - di modelli di processo officioso puro), invero la tendenziale disapplicazione del criterio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (in favore del principio inquisitorio materiale) e del criterio della disponibilità delle prove (in favore del principio inquisitorio formale) si traduce in un effetto comunemente riscontrabile di tendenziale sottrazione alle parti sia della disponibilità dell’oggetto del processo sia della disponibilità della tutela giurisdizionale.
Tenendo conto della esistenza, nel nostro sistema processuale, di questa peculiare categoria di procedimenti e dell’altrettanto peculiare loro disciplina, è lecito chiedersi, alla luce delle sentenze del giudice dell’Unione Europea - che costituiscono fonti del diritto europeo, direttamente applicabile nell’ordinamento interno - se nell’ambito di essa possa essere ricondotta l’azione finalizzata alla declaratoria delle nullità contrattuali di protezione.
La questione non è nuova poiché la dottrina si è già domandata se i giudizi per la dichiarazione di nullità del contratto (e anche del matrimonio) costituiscano espressione di giurisdizione oggettiva.
Sulla tesi positiva - che trovava conforto nel dato normativo che non limita alla parte la legittimazione all’impugnativa, ma la estende a tutti coloro che vi abbiano interesse (art.117 c.c.; art.1421 c.c.); e che da tale dato traeva l’implicazione che il provvedimento giudiziale dichiarativo della nullità non è invocato a tutela del diritto di un singolo, ma per la realizzazione di un interesse pubblicistico, consistente nell’attuazione dell’ordinamento (F. Carpi, cit., 68 ss.) - è prevalsa la tesi negativa, fondata sul rilievo che l’allargamento della sfera dei legittimati non tocca la natura di processi su diritti che deve pur sempre riconoscersi ai giudizi di nullità del matrimonio e del contratto, atteso che chi esercita l’azione di nullità chiede al giudice una sentenza di accertamento, che dichiari l’insussistenza dei diritti che troverebbero la loro fonte nel negozio ritenuto nullo (F. Tommaseo, cit., 509).
Questa tesi potrebbe, peraltro, essere rimeditata alla luce della disciplina eurounitaria, con specifico riferimento al giudizio dichiarativo delle nullità di protezione, in cui al diritto soggettivo della parte si affianca (e probabilmente si sovrappone, divenendo l’interesse protetto in via preminente dal procedimento) un interesse generale di carattere superindividuale.
D’altra parte, per un verso, la riconducibilità del giudizio di nullità contrattuale di protezione alla giurisdizione oggettiva non contrasta con la (ma anzi potrebbe trovare specifica conferma nella) monumentale ricostruzione della disciplina sostanziale di tale istituto, operata nelle storiche pronunce delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione (Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243); per altro verso, la vis expansiva di tale categoria della giurisdizione, in funzione delle esigenze di tutela di interessi superindividuali che possono assumere rilevanza nel contesto sociale, è stata autorevolmente rimarcata dalla nostra dottrina classica (L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596).
Ove si avesse riguardo al carattere oggettivo del procedimento vertente alla dichiarazione delle nullità negoziali di protezione, dovrebbe dunque ritenersi che la relativa questione possa essere sollevata (anche, doverosamente, d’ufficio) nel processo, tutte le volte in cui, pur non costituendo oggetto diretto della domanda, assuma tuttavia rilevanza pregiudiziale, in funzione della statuizione sul diritto azionato.
Oltre che nei casi di pregiudizialità, la questione della nullità della clausola negoziale, potrebbe/dovrebbe essere sollevata anche nelle ulteriori ipotesi di connessione oggettiva con la domanda principale proposta, pur in difetto dei presupposti di volta in volta richiesti (ad es. dagli artt. 35 e 36 c.p.c.) e salve le implicazioni che il rilievo della questione possa avere in ordine alla modificazione della competenza del giudice.
Deve invece escludersi che il giudice possa/debba sollevare la questione persino nei casi in cui essa presenti, rispetto alla domanda principale, una connessione meramente soggettiva, per essere la controversia vertente su un diverso rapporto giuridico intercorrente tra le stesse parti. L’esigenza di tutela dell’interesse pubblico alla protezione della pars debilior, infatti, si traduce nella limitazione della disponibilità dell’oggetto del processo e della tutela giurisdizionale, ma non esige - né consente - l’integrale sostituzione del giudice alla parte che resti inerte nell’esercizio dei suoi diritti soggettivi. In tale prospettiva, la stessa Corte UE rimarca (par. 58 della motivazione della sentenza resa nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19) che la tutela del consumatore non è assoluta e non può essere somministrata dal giudice in spregio ai principi fondamentali del sistema processuale.
In tutti i casi in cui sussiste il potere-dovere del giudice di esaminare la questione di nullità, la statuizione su di essa deve essere espressamente motivata, in quanto, attraverso la motivazione, il giudice rende conto dei risultati del contraddittorio che necessariamente deve essere suscitato sulla questione di rilievo superindividuale.
Ove, però, la questione della validità del rapporto contrattuale non venga evocata da alcuna delle parti e il giudice ometta di procedere ad un esame d’ufficio dell’eventuale nullità della clausola, non si determina alcuna invalidità dell’accertamento condotto sul diritto azionato in giudizio.
Ciò, anche nell’ipotesi in cui la connessione tra la questione della nullità e la domanda formulata in giudizio si qualifichi come connessione per pregiudizialità.
In tal caso, questo accertamento, implicitamente compiuto, resterà un mero accertamento incidentale, senza l’idoneità a passare in giudicato.
3. Le modalità di attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia UE alle procedure pendenti fondate su titoli esecutivi definitivi non contenenti l’esame espresso della questione della nullità.
I dicta della Corte di Giustizia non valgono solo per il futuro ma anche per il passato, giacché il dovere di esaminare d’ufficio la questione della validità o invalidità del contratto, non già precedentemente esaminata, si pone in capo al giudice anche in pendenza del processo esecutivo, iniziato sulla base di un titolo che ha accertato, con efficacia di giudicato, un diritto che trova fondamento nel rapporto contrattuale e che, pertanto, ne presuppone necessariamente l’esistenza e la validità, da reputarsi a sua volta pregiudizialmente, ancorché implicitamente, accertata con il medesimo provvedimento divenuto cosa giudicata.
Sotto questo specifico profilo, le statuizioni del giudice comunitario sembrerebbero avere una portata dirompente, poiché, nel momento in cui pongono la necessità di condurre l’espresso esame, nel rispetto del contraddittorio e dell’obbligo di motivazione, anche di questioni che sono state già, sia pur implicitamente, risolte, sembrerebbero non tenere conto del fatto che quell’accertamento è ormai incontrovertibile, per avere acquisito l’autorità di cosa giudicata.
Potrebbe dunque maturarsi l’opinione che i dicta del giudice europeo, mentre, da un lato, attribuiscono una tutela eccessiva al diritto di difesa della pars debilior (riconoscendole il diritto ad un contraddittorio tardivo su una questione che avrebbe potuto sollevare precedentemente, durante il processo di cognizione finalizzato alla formazione del titolo esecutivo), dall’altro lato, recano un vulnus al diritto difesa dell’altra parte, la quale perderebbe il bene della vita acquisito attraverso il medesimo procedimento di cognizione, costituito dall’incontrovertibilità dell’accertamento giurisdizionale del suo diritto.
4. Sul rilievo costituzionale del giudicato.
La premessa logica necessaria di tale opinione sta nel ritenere che l’istituto del giudicato trovi fondamento, non già esclusivamente nelle norme del codice civile (art.2909 c.c.) e del codice di procedura civile (art.324 c.p.c.), bensì, al pari del contraddittorio, nella norma costituzionale che riconosce la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art.24, secondo comma, Cost.).
In questa prospettiva, dunque, si potrebbe persino pensare che i dicta della Corte di Giustizia, nel vulnerare il giudicato, finiscano per porsi in contrasto con un istituto che costituisce espressione dei principi costituzionali fondamentali e delle norme costituzionali che tutelano i diritti inviolabili della persona, i quali non solo non recedono dinanzi alla c.d. preminenza del diritto sovranazionale - ivi compreso quello eurounitario - ma operano invece come controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione Europea, legittimando il giudice nazionale a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati, per la sola parte in cui essa consente l’ingresso di regole sovranazionali incompatibili con gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale.
In contrario, può, peraltro, osservarsi che la qualificazione della cosa giudicata quale espressione del diritto costituzionale di difesa non trova conferma né nelle teorizzazioni dottrinali dell’istituto né nelle, ormai definitive (e per vero anche piuttosto risalenti), acquisizioni della giurisprudenza costituzionale.
Sia le une che le altre, infatti, in contrasto con una autorevole ma risalente tesi (E. Allorio, Saggio polemico sulla «giurisdizione» volontaria, in Trim., 1948, 487 ss.), tendono ad escludere il giudicato dai requisiti essenziali qualificanti l’attività giurisdizionale, sul rilievo che provvedimenti di schietta giurisdizione contenziosa, destinati ad incidere su diritti soggettivi, possono essere legittimamente assunti anche nell’ambito del procedimento camerale di cui agli artt. 737-742 bis c.p.c., sempre che vengano rispettate le garanzie fondamentali della difesa e del contraddittorio, stante, in ogni caso, la possibilità di proporre ricorso straordinario per cassazione (art.111, settimo comma, Cost.) contro tutti i provvedimenti decisori e definitivi (in tal senso, cfr., già, F. Cipriani, Procedimento camerale e diritto alla difesa, in Riv. dir. proc., 1974, 195, e V. Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv. dir. proc., 1975, 585; v., inoltre, Corte Cost. 10 luglio 1975 n.202 e Cass., Sez. Un., 9 aprile 1984 n.2255).
Oltre a ribadire che l’idoneità al giudicato non rappresenta un carattere indefettibile del provvedimento giurisdizionale (in tal senso, già G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 759, secondo cui «dal concetto dell’ufficio del giudice deriva necessariamente soltanto che la sentenza debba potersi mandare ad esecuzione, ma non che debba tenersi in futuro come norma immutabile del caso deciso»), la dottrina ha anche precisato che «da nessun precetto costituzionale discende come attributo dell’esercizio della funzione giurisdizionale la immutabilità degli effetti delle decisioni giudiziali, come è delineata dall’art.2909 c.c.» (così V. Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Trim., 1987, 326); il che risulta evidente se si pensa che la nostra Costituzione prescrive bensì che la funzione giurisdizionale venga esercitata da organi imparziali e indipendenti (artt.101, secondo comma; 104, primo comma; 106, primo comma; 107, primo comma; 108, secondo comma), che venga garantito l’esercizio del diritto di difesa (art.24, secondo comma) e che i provvedimenti giurisdizionali siano adeguatamente motivati (art.111, sesto comma); ma non prevede affatto che essi debbano necessariamente assumere l’incontrovertibilità propria della cosa giudicata.
5. Dicta europei, fondamento del giudicato e distonia sistematica del giudicato c.d. implicito.
A prescindere dalla sussistenza o meno di una “copertura” costituzionale dell’istituto del giudicato, sembrerebbe, poi, comunque eccessiva la tesi volta a ritenere che tale istituto sarebbe stato messo in sofferenza, o addirittura posto nel nulla, dalle pronunce della Corte di Giustizia.
Queste pronunce, infatti, non ripudiano affatto il concetto del giudicato e la sua utilità, quale istituto che trova fondamento nell’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, ma richiamano l’attenzione sulla altrettanto rilevante esigenza che - per lo meno nelle ipotesi in cui il provvedimento giudiziale tende alla protezione (anche) di interessi superindividuali, oltre che alla tutela di diritti soggettivi privati - la formazione del giudicato postuli un accertamento espresso e motivato, maturato a seguito dell’esercizio, ad opera delle parti, del diritto fondamentale al contraddittorio (diritto, quest’ultimo, senz’altro di matrice costituzionale e, dunque, non comprimibile).
L’esigenza, espressa dalle pronunce della Corte di Giustizia, che la formazione del giudicato nelle fattispecie di rilevanza pubblicistica, sia condizionata da un accertamento espresso e motivato, non contrasta con il fondamento tradizionale dell’istituto, il quale presuppone, sul piano sostanziale, in funzione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici (art.2909 c.c.), che non venga proposta più volte la stessa domanda (principio del ne bis in idem) e, sul piano formale, in funzione dell’esigenza che l’accertamento giudiziale sia il più possibile immune da errori (art.324 c.p.c.), che non vengano proposte domande diverse nei due gradi di giudizio (principio del doppio grado di giurisdizione).
La postulazione dell’accertamento espresso e motivato, fondato sull’esperimento del contraddittorio, è perfettamente in linea con il richiamato duplice fondamento del giudicato, giacché, invece, il mero accertamento implicito nuoce sia alle esigenze di certezza che a quelle di correttezza della decisione.
In tale prospettiva potrebbe ritenersi, per un verso, che il giudicato e il contraddittorio non vadano più riguardati come due istituti distinti, ma come un unico composito istituto, dal momento che la formazione del giudicato, almeno nelle decisioni di rilevanza superindividuale, presuppone il previo esperimento del contraddittorio; per altro verso, che ciò che sembra contrastare con il sistema processuale, non è il dictum della Corte di Giustizia, ma il concetto stesso di giudicato implicito, quale prodotto di una decisione non assunta in contraddittorio.
Del resto, ciò è stato già eloquentemente stigmatizzato da accorta dottrina, la quale ha lanciato la seguente provocazione: «se è fatto divieto al giudice di decidere in modo espresso una questione pure rilevabile ex officio, senza sottoporla prima al contraddittorio delle parti, come si può convenire sulla ammissibilità nella stessa identica situazione di una decisione implicita?» (così A. Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito, in Judicium, 2019, p.315).
6. Limiti oggettivi del giudicato, pregiudizialità logica espressa e l’esercizio dell’azione di nullità contrattuale di protezione come modalità di attuazione del diritto europeo.
L’attuazione dei dicta contenuti delle pronunce della Corte di Giustizia - che costituiscono, lo si ripete, norme di diritto europeo direttamente applicabili nell’ordinamento interno - determinando, con riguardo alle questioni di nullità di protezione, un restringimento del perimetro dei limiti oggettivi del giudicato, impone al giudice (pure in sede esecutiva) di rilevare anche officiosamente la nullità contrattuale e legittima la parte interessata a proporre la relativa azione se la questione non è stata espressamente esaminata, ma non a paralizzare l’esecuzione.
Dovrebbe, infatti, escludersi che, nell’ipotesi di soluzione implicita della questione (quale si verifica soprattutto nel caso - che ha determinato la pronuncia del giudice europeo - in cui l’accertamento del diritto principale è stato effettuato con decreto ingiuntivo non opposto, ma può ricorrere anche nell’ambito di un accertamento effettuato con sentenza), la parte esecutata possa far valere l’eventuale nullità del contratto, donde è sorta la sua obbligazione, attraverso il rimedio dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art.615 c.p.c.; così come, nel caso specifico del decreto ingiuntivo non opposto, dovrebbe escludersi la possibilità di esperire rimedi tardivi (ad es. quello di cui all’art.650 c.p.c.), quando non ne ricorrano gli specifici presupposti.
Piuttosto, dovrebbe prendersi atto, da un lato, che al giudice dell’esecuzione è sottratta ogni ingerenza sul titolo giudiziale; dall’altro, che il decreto ingiuntivo non opposto messo in esecuzione (ma la considerazione vale anche per la sentenza non impugnata) è ormai passato in giudicato e non è aggredibile con gli ordinari mezzi di gravame.
Peraltro, la disciplina generale della connessione per pregiudizialità prevede che le questioni pregiudiziali siano risolte in via meramente incidentale, in difetto di una disposizione di legge o di un’esplicita domanda di una delle parti dalle quali derivi la necessità di deciderle con efficacia di giudicato (art.34 c.p.c.).
Di questa regola - la cui letterale osservanza comporterebbe un notevole restringimento del perimetro oggettivo del giudicato - è prevalsa nel diritto processuale vivente un’interpretazione restrittiva: la sua operatività viene infatti limitata alla c.d. pregiudizialità tecnica, escludendosene l’applicazione alla c.d. pregiudizialità logica, che ricorre allorché l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura di un rapporto giuridico costituisce il presupposto di un diritto (così, ad es., l’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento e del conseguente diritto del lavoratore alla tutela reintegratoria o risarcitoria, presuppone l’accertamento dell’esistenza e del rapporto di lavoro subordinato; l’accertamento del diritto del locatore ad ottenere dal conduttore il pagamento di una o più mensilità del canone, presuppone l’accertamento dell’esistenza e della validità del rapporto di locazione).
Ne discende che tutte le volte che per decidere sulla domanda avente ad oggetto l’accertamento di un diritto, venga risolta anche la questione logicamente pregiudiziale relativa all’esistenza, validità e natura giuridica del rapporto che ne costituisce il presupposto (c.d. nesso di pregiudizialità logica), il giudicato costituito dalla sentenza di accertamento del diritto si estende anche alla questione pregiudiziale, che non può più essere messa in discussione in successivi processi.
L’attuazione dei dicta della Corte di giustizia impone una applicazione dell’art.34 c.p.c. più aderente al suo disposto testuale, rendendo necessaria, ai fini del passaggio in giudicato dell’accertamento della validità del contratto, allorché venga dedotta la violazione di una norma imperativa di protezione, l’espressa e motivata statuizione del giudice, previo esperimento del contraddittorio delle parti, eventualmente suscitato ex officio.
Viene così ad enuclearsi, tra le due categorie della pregiudizialità tecnica (in cui la questione pregiudiziale è decisa incidenter tantum) e della pregiudizialità logica (in cui la questione pregiudiziale è decisa con efficacia di giudicato), una terza categoria di pregiudizialità: la pregiudizialità logica espressa. Essa appartiene, concettualmente, alla pregiudizialità logica, ma produce gli effetti della pregiudizialità tecnica se non viene suscitato il contraddittorio sulla questione.
In altre parole, la questione di nullità, avente un rilievo pubblicistico e superindividuale, sarà decisa con efficacia di giudicato soltanto nel contraddittorio delle parti e con statuizione espressa e motivata; sarà, invece, decisa in via meramente incidentale, allorché la decisione sull’esistenza e validità del contratto sia implicitamente desumibile dall’accertamento del diritto azionato con la domanda principale.
In tale ultima ipotesi, il titolo contenente l’accertamento del diritto potrà ugualmente essere messo in esecuzione, ma la parte interessata, pur esecutata - ed eventualmente proprio in seguito al rilievo del giudice dell’esecuzione - potrà esercitare autonomamente, dinanzi al giudice competente, l’azione di nullità contrattuale, quale azione di giurisdizione oggettiva destinata all’accertamento di una questione non coperta da giudicato.
Se l’azione di nullità verrà esercitata in pendenza del processo esecutivo, esso sarà sospeso, ai sensi dell’art.623 c.p.c.; se invece l’esercizio dell’azione, in sé imprescrittibile, sopravverrà alla conclusione del procedimento esecutivo, residuerà, per la parte che ottenga la declaratoria di nullità, la sola tutela risarcitoria, restando da risolvere (particolarmente, ai fini della prescrizione) il problema se la responsabilità della controparte vada inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale o - come classicamente si suole ritenere nell’ipotesi di stipulazione di contratto invalido - in quello della responsabilità extracontrattuale di tipo precontrattuale.
In definitiva, in analogia con tutte le ipotesi in cui il titolo posto in esecuzione contiene accertamenti incidentali su connesse questioni tecnicamente pregiudiziali (si pensi, ad es., alla domanda di nullità del contratto, proposta dopo che è stato messo in esecuzione il titolo che ne dichiara la risoluzione: Cass. 5 dicembre 2002, n. 17313), l’attuazione dei dicta della Corte di Giustizia, anche nelle procedure esecutive pendenti in cui la questione del carattere abusivo delle clausole contrattuali non ha formato oggetto di espresso esame (questione legata alla domanda principale da un nesso di pregiudizialità logica espressa), si risolverà, non già nella paralisi dell’esecuzione, ma nella possibilità di introdurre una autonomo processo di cognizione, dinanzi al giudice ordinariamente competente, per la decisione di una questione non coperta da giudicato.
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