La giustizia civile nei ragionamenti critici di un giurista illuminista e riluttante
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Giuliano Scarselli
«Mala tempora currunt. Scritti sull’ultima riforma del processo civile»
Il libro, pubblicato da Pacini Giuridica nel mese di febbraio 2023, che raccoglie gli scritti di Giuliano Scarselli sull’ultima riforma del processo civile introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ma anche su alcuni temi alla stessa connessi, tra i quali: la nuova azione di classe, la composizione negoziata della crisi d’impresa, la riforma della magistratura tributaria, l’applicazione di schemi tipici di common law, la riforma dell’ordinamento giudiziario, il progetto di riforma volto ad inserire in Costituzione una c.d. Alta Corte quale organo di impugnazione delle decisioni del CSM) è l’occasione di questa conversazione a tutto campo con l’Autore che, come si legge nella seconda di copertina, invita i lettori ad una «riflessione sui mutamenti che stiamo vivendo, con il dovuto distacco e senso critico, e senza che niente sia dato per scontato e/o inevitabile».
V. A. Poso A cosa serve il processo civile? Una prima domanda che può sembrare, forse, troppo banale.
G. Scarselli Non è affatto una domanda banale.
Sinceramente, non so cosa rispondere.
Forse potrei rispondere utilizzando una frase di Giuseppe Chiovenda, il quale diceva che il processo civile “deve dare a chi ha un diritto, praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”.
Questo dovrebbe essere lo scopo del processo civile: in tutte le ipotesi di crisi di collaborazione, il processo, e quindi lo Stato, deve dare, e/o essere in grado di dare, alla parte che ha subito un torto, quelle stesse utilità che avrebbe avuto in forza del diritto sostanziale se quel torto non ci fosse stato.
Anche un bambino direbbe: certo, questo è lo scopo del processo civile! Non può essere altrimenti!
Il paradosso, però, è che oggi non solo il processo civile non è in grado di fare ciò, ma addirittura da più parti si ritiene che le finalità del processo civile non debbano più essere queste, perché, come taluni sostengono, questa è una visione troppo individualista, troppo liberale, del processo civile, perché bisogna invece mediare, perché bisogna tener conto della ragionevole durata dei processi, perché v’è il rischio che il cittadino abusi degli strumenti di tutela, perché il PNRR non vuole, e poi ce lo chiede l’Europa, vogliamo scherzare?
E allora, chissà. Un tempo si diceva che il processo servisse a far guadagnare gli avvocati, oggi escludo radicalmente che possa avere anche questa funzione, visto che gli avvocati non li paga più nessuno.
Non si sa, dunque, a cosa serva il processo civile; ed infatti, secondo me, a breve non ci sarà più; l’ho scritto anche in più di un saggio.
V. A. Poso Torniamo seri. Quanto c’è di tecnica, e quanto c’è di ideologia nel processo civile?
G. Scarselli Ci sono entrambi, in misura direi paritetica.
Prima, viene l’ideologia, e poi la tecnica. Prima si tratta di stabilire cosa si voglia fare, quali siano gli obiettivi, le priorità, gli equilibri; successivamente segue la tecnica, ovvero le modalità con le quali il tutto deve essere realizzato.
L’ideologia, poi, si riduce a questo: trovare un equilibrio tra libertà e autorità, tra privato e pubblico, tra cittadino e Stato.
Una volta trovato l’equilibrio, seguono le norme.
L’analisi di una riforma dovrebbe così separare questi due momenti.
Dovremmo chiederci: quali sono gli equilibri? Ci convincono? Sono corretti?
E, una volta risposto a ciò, dovremmo poi ancora domandarci: le norme scritte sono chiare, sono coerenti, hanno individuato il percorso più semplice e breve per raggiungere l’obiettivo dato?
Oggi, però, la parte ideologica, o meglio dire politica, del processo civile, sembra non interessare più la maggioranza della dottrina, che è invece soprattutto presa dall’analisi degli aspetti tecnici, dall’esegesi delle norme.
Io soffro un po’ di questa situazione.
Si va a verificare, ad esempio, se una norma, che disciplina un problema specifico e settoriale, può essere interpretata in un certo modo piuttosto che in un certo altro, quando a me, quasi sempre, mi sembra che interpretata in un modo o nell’altro, poco cambia.
Poi ci sono invece le rivoluzioni degli equilibri, i mutamenti dei rapporti tra cittadino e Stato, e di quelli nessuno parla, nessuno dice niente.
Per questo ho esclamato: mala tempora currunt!
V. A. Poso Nel corso degli anni molte sono state le riforme del processo civile, sempre per rispondere a esigenze contingenti, mai con uno sguardo d’insieme, di sistema.
G. Scarselli Direi che lo “sguardo d’insieme” si è perso da tempo; tuttavia, è forse opportuno precisare che con “sguardo d’insieme” possono intendersi due cose assai diverse tra loro.
Ed infatti per “sguardo d’insieme” può intendersi l’esigenza di fare sistema, ovvero di fare in modo che la disciplina processuale sia rispondente ad un ordine sistematico e scientifico; e per “sguardo d’insieme” può intendersi invece quell’equilibrio ideologico del quale abbiamo detto, la consapevolezza delle ricadute “politiche” che ogni scelta “tecnica” ha.
Orbene, quanto al primo aspetto, l’idea di dar ordine sistematico al processo civile era obiettivo dei nostri padri, dei processualisti del primo Novecento, di Giuseppe Chiovenda, di Francesco Carnelutti.
Oggi penso che il tema sia superato.
Il processo civile ha funzioni pratiche, serve per tutelare il diritto sostanziale, non può essere assimilato ad una scienza, sinceramente non credo lo sia.
Il processo civile deve funzionare in ordine all’obiettivo di rendere giustizia, non altro.
Per mia natura, poi, devo confessare, non amo l’ordine più del disordine, credo che entrambi siano necessari.
Importante, viceversa, a mio avviso, è che vi sia l’altro “sguardo d’insieme”, che non si trascuri che nel disciplinare il processo civile è prioritario stabilire il rapporto che si vuole tra libertà e autorità, e solo dopo aver chiaro questo aspetto si può procedere a comporre una norma processuale, oppure ad analizzarla.
E, vede, penso che anche su quest’ultimo aspetto sia necessario porre una nuova distinzione: poiché, a fronte di molti che sembrano oggi non percepire il problema, ve ne sono altri che non lo vogliono affrontare.
Non v’è commento della riforma che si occupi di questo aspetto, non v’è nessuno che si domandi in che modo si possa, ad esempio, ridurre i tempi del processo senza comprimere la misura di libertà che il cittadino ha diritto di pretendere a fronte dell’autorità.
V. A. Poso Sotto questo profilo vorrei muovere dalla stagione del riformismo coraggioso, dal nuovo processo del lavoro introdotto dalla l. 11 agosto 1973, n. 533, che ancora oggi rappresenta un modello per la tutela dei diritti. O non è così?
G. Scarselli La riforma del processo del lavoro fu senz’altro coraggiosa ed importante per l’epoca, e si inserì perfettamente nelle novità di quegli anni ’70, insieme alla legge sul divorzio, alla riforma del diritto di famiglia, allo statuto dei lavoratori.
Che possa però essere oggi un modello, direi senz’altro di no.
Non condivido in primo luogo l’idea che per superare le diseguaglianze tra i litiganti possono aumentarsi i poteri del giudice, poiché, tutto al contrario, dinanzi al giudice, le parti sono sempre, inevitabilmente, tutte eguali, e il giudice deve in ogni momento mantenere la sua equidistanza e la sua terzietà.
Il processo non ha infatti niente a che vedere con l’art. 3, 2° comma Cost.
Lo Stato deve superare le diseguaglianze tra i cittadini sul piano del diritto sostanziale, non su quello processuale.
Si tratta, questa, della principale differenza tra diritto sostanziale e processo, ed è una differenza che purtroppo il processo del lavoro del 1973 in parte dimenticò.
In secondo luogo, oggi l’idea che l’oralità possa costituire aspetto centrale del processo, secondo gli schemi del processo del lavoro del 1973, appare davvero superata.
Con la (sostanziale) soppressione delle udienze, secondo un percorso già tracciato dalla riforma del giudizio di cassazione del 2016 e portata ora avanti con i nuovi artt. 127 bis e ter c.p.c., l’oralità nel processo civile possiamo dire che è morta.
Poi andrebbero ripensate le preclusioni degli atti introduttivi del processo, sulle quali io personalmente ho avuto sempre posizioni critiche, che furono al contrario la grande novità del processo del lavoro del 1973.
V. A. Poso Preciso che condivido solo in minima parte queste sue osservazioni. Comunque sia, tralasciando altri interventi normativi si arriva alla l. 26 novembre 1990, n. 353 che, a Suo dire, è la pietra d’inciampo di una serie di errori che si sono avuti nei vent’anni successivi nel porre rimedio alla crisi della giustizia civile.
G. Scarselli Sì, a mio sommesso parere la riforma del 1990 è stata l’inizio della discesa.
È stata la prima riforma che in modo espresso si è mossa sulla base della sfiducia nella classe forense.
Basti pensare alla prima udienza ex art. 183 c.p.c., ove si prevedeva, appunto, la comparizione personale delle parti per consentire al giudice un contatto diretto con le stesse al di là degli avvocati.
È stata poi una riforma che, più che di problemi concreti, si è occupata della risoluzione di nodi teorici: si pensi, solo a titolo di esempio, alla nullità della citazione ex art. 164 c.p.c., o alla riforma della tutela cautelare ex artt. 669 bis e ss. c.p.c.
Ed è stata una riforma che ha avuto a modello proprio il processo del lavoro del 1973, con il preciso obiettivo di aumentare i poteri del giudice e di inquadrare i diritti delle parti entro rigide preclusioni fino ad allora inesistenti.
Le riforme che poi si sono susseguite hanno fatto propri questi criteri.
Con una aggravante, però, che è bene tener presente: esse, quasi sempre, sono state pensate e studiate dall’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, ovvero da magistrati, i quali, per loro forma mentis, le hanno quasi sempre progettate dal loro punto di vista, orientate, più che a risolvere i problemi del processo tout court, a risolvere i problemi che hanno i magistrati nell’adempiere ai loro compiti nel processo.
E gli avvocati, in queste dinamiche, non sono mai riusciti ad esercitare un ruolo, perché hanno tenuto (quasi sempre) in debita considerazione che per sedere ai tavoli delle commissioni dovevano avere posizioni morbide e accondiscendenti, ed hanno così quasi sempre accettato, con qualche sola rarissima eccezione, questo metodo riformatore.
Di riforma in riforma, non v’è stato poi niente di nuovo, solo l’aggravarsi del metodo già fatto proprio dalla riforma del 1990.
V. A. Poso Insomma, un rincorrersi di riforme tutte uguali alle precedenti.
G. Scarselli Sì, dal 1990 non si fanno che tre cose: si contrae il diritto di agire in giudizio, si aumentano i poteri del giudice, si aumentano i tributi giudiziari e/o comunque i rischi economici legati all’esercizio del diritto di azione. Non si fa altro.
Ed anche la riforma di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che oggi ci interessa, ha precisamente questi difetti.
Anch’essa, come le precedenti, vede nella parte che introduce una causa non il soggetto che ha subito un torto e chiede l’intervento dello Stato per porre rimedio a quel torto, ma solo e semplicemente un rompiscatole da arginare.
È vero che in alcuni casi la parte attrice è veramente un rompiscatole che pretestuosamente fa valere in giudizio un diritto che non ha, ma nella normalità dei casi, direi, è invece un soggetto che ha un problema, e che si rivolge allo Stato proprio perché spera che lo Stato gli risolva quel problema e gli renda giustizia.
E lo Stato, dinanzi a questi cittadini, e dinanzi anche a quelli che ormai, demoralizzati e demotivati, subiscono torti senza più nemmeno reagire, non può avere l’atteggiamento del disinteresse e della superficialità, non può dar tutela e attuazione al diritto sostanziale solo se il tutto possa farsi brevemente, non può chiedere, sempre e in primo luogo, di mediare, perché mediare è quasi sempre indurre la parte a rinunciare a qualcosa per chiudere velocemente un processo, e ciò costituisce deroga al principio chiovendiano secondo il quale, come abbiamo detto all’inizio, la tutela giurisdizionale deve invece dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
V. A. Poso Non a caso, riprendendo il titolo di una Sua raccolti di scritti pubblicata da Giuffrè Editore nel 2012 si faceva portatore di un manifesto di intenzioni «Per un ritorno al passato».
G. Scarselli Beh, sono considerato un conservatore, anche se non mi ritengo tale.
Non si tratta infatti di essere progressisti o conservatori; di volere il futuro o il passato.
Si tratta di definire gli equilibri che sopra ho indicato.
Il difetto di queste riforme, per me, non sta tanto nella tecnica, spesso anche pregevole, ma proprio nell’equilibrio.
V. A. Poso Arriviamo, quindi, all’ultima riforma, c.d. Cartabia, approvata dal Governo con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, in attuazione della delega contenuta nella l. 26 novembre 2021, n. 206. Qual è lo spirito di questa riforma, il cui evolversi ha seguito fin dal suo inizio, a partire dal maxiemendamento 1662/S/XVIII? Le chiedo anche: era proprio necessaria una riforma così estesa per rendere adeguato ai tempi (e alle richieste degli organi europei) il nostro processo civile?
G. Scarselli Evidentemente no, per ridurre i tempi della giustizia era sufficiente fare una cosa: aumentare il numero dei magistrati.
Lo ha detto anche il Presidente della Commissione Francesco Paolo Luiso, io l’ho rilevato altresì nella mia audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati: questa riforma non è pertinente con l’obiettivo che intende perseguire, non è in grado di ridurre i tempi del processo. Modificare il rito non serve per ridurre i tempi del processo, se vogliamo ridurre i tempi del processo va aumentato il numero dei magistrati.
Lo diceva soprattutto un grande magistrato del passato, Lodovico Mortara, nel 1919, nelle sue Istituzioni di ordinamento giudiziario, per il quale il numero dei magistrati e dei cancellieri deve essere portato ad una misura idonea al bisogno del pubblico servizio.
Ma su questa ovvietà, sa cosa mi è stato risposto? Che i soldi del PNRR non potevano essere spesi per questo, né impiegati per aumentare l’organico, ma solo per strutturare l’ufficio del processo; così vuole l’Europa.
E allora, dico io, andiamo avanti con l’ufficio del processo, e pace a Lodovico Mortara.
V. A. Poso Siamo sempre allo stesso punto: più risorse economiche e più persone, soprattutto magistrati. Ricordo, da ultimo, le proposte del Dott. Marco Modena e del Prof. Andrea Proto Pisani.
G. Scarselli Si, condivido sul punto le proposte del Dott. Marco Modena e del Prof. Andrea Proto Pisani.
V. A. Poso Tra i materiali della legge, tuttavia, ci sono anche i lavori della Commissione presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso che rappresentano il canovaccio sul quale è stato cucito il testo del decreto legislativo, che non ha recepito tutto ciò che gli studiosi avevano indicato.
G. Scarselli Sì, per quel che so io il canovaccio non è stato recepito, se non in parte.
Tuttavia, non ho informazioni precise perché non ho fatto parte della Commissione.
Il Governo ha rivisto il testo della relazione della Commissione Luiso (e dell’articolato normativo predisposto) e ha mantenuto inalterata la versione rimaneggiata anche dopo numerose critiche giunte a seguito della sua prima pubblicazione, e in quella forma lo ha presentato al Parlamento quale disegno di legge delega.
Il Parlamento lo ha dovuto approvare senza discussione, in quanto su esso veniva messa da parte del Governo la fiducia.
E, sempre al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega veniva riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662. Questo unico articolo era lungo ben 39 pagine.
Il tutto, sia consentito, in una situazione un po’ grottesca, poiché ai sensi dell’art. 76 Cost., una legge delega dovrebbe essere una legge con la quale il Parlamento delega il Governo a fare un decreto legislativo nel rispetto di certi principi; qui è stato il Governo che, imponendo la legge al Parlamento, di fatto ha delegato sé stesso a fare quella medesima cosa.
V. A. Poso Insomma, mi par di capire: gli studiosi consigliano e il Parlamento (e il Governo) decide. È così?
G. Scarselli Non il Parlamento, il Governo decide, e forse nemmeno il Governo, perché è la UE che dà le direttive.
Per scherzo ho scritto che non si sa più con chi prendersela.
V. A. Poso I temi della riforma, anche quelli trattati nel Suo libro, sono molti e non li possiamo affrontare tutti. Non sbaglio, però, se dico che, in estrema sintesi, la critica alla nuova riforma sia tutta nel pensiero di Montesquieu, tratto da Lo spirito delle leggi, che compare anche in esergo: l’esasperata semplificazione delle formalità della giustizia non considera che «le difficoltà, le spese, le lungaggini, i pericoli stessi della giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la sua libertà».
G. Scarselli Sì, trovo Montesquieu oggi ancora più attuale, e ancora più necessario che in passato, e per questo ho inserito in esergo quella frase tratta da Lo spirito delle leggi.
Sono oggi in discussione due valori che a me al contrario sembrano vitali: la libertà dei cittadini e la separazione dei poteri.
Dobbiamo difendere questi valori, e dobbiamo così non dimenticare mai questo grande filosofo francese.
V. A. Poso Le critiche, generalizzate, al processo telematico e digitale, che costituiscono nel volume la sua prima preoccupazione, le trovo ingenerose, anche perché tutto è nato prima della pandemia. C’è una ragione dirimente che possa convincere non solo me del contrario?
G. Scarselli Io non sono contrario a priori al processo telematico e digitale.
Ho scritto, e lo ripeto, che ben venga il processo telematico se serve per il deposito di atti, per procedere a comunicazioni e/o notificazioni, per consentire talune (ma solo talune) udienze a distanza, per facilitare la sottoscrizione e/o l’autentica di un atto o per avere immediato accesso al fascicolo del processo; ma certo il mezzo informatico non può essere utilizzato oltre ciò, e non può essere pensato né per condizionare o limitare l’esercizio del diritto di azione da parte degli avvocati, né per limitare e/o circoscrivere lo ius dicere del giudice.
Credo che su questo potremmo essere tutti d’accordo.
Altrimenti il rischio è quello di impedire ogni evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali e avere una giustizia che guarda solo al passato, mai al futuro; è quello di impedire ai cittadini, attraverso i loro difensori, di potersi esprimere, di ipotizzare degli scenari, di opporre una teoria o un orientamento; significherebbe considerare del tutto inutile, se non addirittura eversivo, il pensiero dottrinale; significherebbe impedire alle parti di sottoporre al giudice, oltre agli aspetti giuridici di una lite, anche quelli umani o di semplice equità; significherebbe trasformare la scienza giuridica in matematica, attribuendo al precedente una forza che nel nostro sistema non ha e non deve avere; preluderebbe ad un mondo di eguali e obbedienti, ad un mondo dove non esistono più i diritti soggettivi ma solo tanti, indistinti, interessi; preluderebbe ad un mondo dove la persona non è più il centro del sistema ma solo un irrilevante punto inserito in una grande macchina che tutto determina e decide.
In breve, si tratterebbe di reprimere tutto ciò che viceversa uno Stato libero e democratico deve garantire.
Spero che l’avvocatura (un tempo baluardo delle libertà), si renda conto che dinanzi a questa prospettiva non può restare silente come in tante recenti occasioni ha fatto, poiché certo nessuno si rivolgerà più ad un avvocato se il compito di questi sarà solo quello di riempire un formulario o mettere delle crocette su un modulo.
V. A. Poso Una seconda critica riguarda l’invadenza del Governo, soprattutto con il Ministero della Giustizia, in materie riguardanti l’esercizio della funzione giurisdizionale (norme sull’azione di classe, codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, riforma della magistratura tributaria).
G. Scarselli È un grande tema (e un segnale d’allarme) che, come vede, chiama ancora in causa Montesquieu.
Esattamente ho notato, nello studio delle ultime riforme ruotanti intorno alla giustizia civile, che sempre più il Governo, soprattutto con il Ministero della Giustizia, si è ricavato degli spazi nell’esercizio della funzione giurisdizionale che prima non aveva.
Sono piccole cose, molte certamente prive di quella malizia che io invece ho lasciato intendere vi sia stata.
Però il timore è che una giustizia che si immagina predittiva, se non addirittura presto resa almeno in parte da macchine, potrebbe trovare eccessive tutte quelle disamine del filosofo francese, e fuorvianti le idee dell’illuminismo rispetto alle nuove esigenze di celerità ed efficienza.
In Italia si ritiene ancora che una cosa sia la Giustizia, altra cosa il Ministro della Giustizia.
Dobbiamo vigilare affinché questa contrapposizione non si perda, dobbiamo ricordare che ai sensi dell’art. 110 Cost. il Ministro della Giustizia si deve occupare solo dei servizi, non dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
V. A. Poso Il principio di libertà della forma degli atti viene superato dalla riforma; e questo è oggetto di critica, al netto delle disarmonie rilevate tra la legge delega e il decreto legislativo di attuazione.
G. Scarselli Sì, è oggetto di critica sotto due profili: a) in primo luogo perché la determinazione delle forme viene demandata ad un decreto del Ministro della Giustizia, e a me pare veramente discutibile che il Ministro della Giustizia possa indicare a giudici e avvocati la misura e i criteri di redazione degli atti; b) ed in secondo luogo perché si sta marciando verso l’idea che gli atti giudiziari si debbano tutti adeguare a delle misure e a dei criteri standard perché una prima lettura degli stessi deve esser affidata a breve a delle macchine.
Non possiamo far finta che non ci siamo accorti di ciò.
Si tratta di una prospettiva non solo totalmente nuova, bensì anche, a mio parere, inquietante, poiché al Ministro della Giustizia spettano solo, lo ripeto, “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi”, e certo non rientrano, né sono mai rientrati, nel concetto di servizi relativi alla giustizia, le modalità di stesura degli atti processuali.
Si tratta di una novità che potrebbe alterare lo stesso rapporto che fino ad oggi abbiamo avuto tra giudici e Ministro.
V. A. Poso C’è poi il tema della valutazione, per così dire, in chiave economica, delle decisioni giurisdizionali, improntate a criteri di immediatezza e prevedibilità, con l’abbandono di inutili formalismi, che contraddicono, però, importanti principi costituzionali, primo fra tutti quello della indipendenza e della terzietà del giudice.
G. Scarselli Beh, quando uscì la proposta di riforma del processo civile da parte dell’Osservatorio conti pubblici italiani della Università Cattolica di Milano mi consultai con la mia cara amica Giuliana Civinini e sembrò ad entrambi una proposta così bizzarra da non credere.
Si proponeva di “disincentivare, sia per i clienti sia per gli avvocati, il ricorso in giudizio”, di “condannare l’attore soccombente in appello o in cassazione a pagare un importo pari al quadruplo del contributo unificato”, di “limitare la possibilità di ricorso in cassazione ai casi attualmente affidati alle sezioni unite”, di “creare un organo giurisdizionale di supporto (alla cassazione) che operi sotto la direzione del primo presidente per trasferire allo stesso la funzione di filtro”, di rendere il ricorso di cognizione sommaria “l’unica forma di atto introduttivo di una causa civile per tutti i livelli di giudizio”, fino a proporre il diniego di idoneità quadriennale ai magistrati “le cui cause vengono annullate dalla cassazione o totalmente riformate in appello in una percentuale superiore al 40 per cento della media nazionale”, o fino a sostenere che “Non c’è una ragione perché una controversia tra privati debba essere necessariamente gestita solo dallo Stato”.
Pensi: “creare un organo giurisdizionale di supporto”, veramente incredibile.
Ci si chiese come fosse possibile che simili proposte provenissero da una Università, e pensammo subito di scrivere insieme un articolo in risposta, se non altro per sottolineare che vi sono regole costituzionali che forse gli economisti ignorano ma che vanno rispettate, e che la ragionevole durata dei processi non può essere l’unico valore che lo Stato deve perseguire, perché, tutto al contrario, ci sono altri valori da tenere in considerazione, primo fra tutti la qualità delle decisioni giurisdizionali, la indipendenza e la terzietà del giudice, il diritto all’azione e al contraddittorio, il diritto alle prove e alle impugnazioni; ed anzi, se si deve dare una scala di valori, quest’ultimi diritti non possono venire affatto dopo la ragionevole durata, perché nessun processo è giusto se per durare poco sacrifica questi principi.
V. A. Poso L’esigenza di ridurre i tempi della giustizia civile, è, comunque, particolarmente sentita dagli operatori pratici e soprattutto dai cittadini. Ha una proposta concreta per realizzare positivamente questo obiettivo?
G. Scarselli Mi sia consentito separare la risposta in due momenti.
In primo luogo, io credo si debbano seguire le normali regole del rapporto tra domanda ed offerta per ridurre i tempi della giustizia.
Ho scritto da tempo che se la crisi del processo civile dipende da una sproporzione tra la domanda di giustizia dei cittadini e l’offerta di giustizia dello Stato, lo Stato semplicemente deve migliorare l’offerta per adeguarla alla domanda, non altro.
Invece la risposta che si dà per risolvere il problema, ormai da trenta anni, è quella di contrarre la domanda, non di migliorare l’offerta.
In tutti i sistemi economici una forte domanda è considerata in senso positivo, nella giustizia no.
Dobbiamo invece considerare che il numero eccessivo di cause non necessariamente è, né deve essere, un problema: esso è infatti segno di benessere e di consapevolezza dei cittadini di avere dei diritti.
Si migliori l’offerta invece di contrarre la domanda, ovvero si investa nel fenomeno giustizia potenziando mezzi e persone, e con un po’ di intelligenza il sistema giustizia potrebbe addirittura essere fonte di guadagno per lo Stato.
Sotto questo profilo torno alle proposte di Marco Modena e Andrea Proto Pisani.
In secondo luogo, poi, noi sentiamo tutti giorni questo mantra della durata eccessiva dei processi. Tutti i media ripetono questa cosa all’infinito, cosicché, alla fine, tutti si convincono che, effettivamente, il problema primo della giustizia sia indiscutibilmente quello della durata.
Io, però, non penso questo, e credo che anche molti giudici e avvocati siano di questo avviso.
Prima della ragionevole durata, ripeto, vengono il diritto alla difesa e al contraddittorio, il diritto alle prove, alle impugnazioni, all’accesso ad una giustizia che non sia semplicemente punitiva, all’idea che il giudice deve essere terzo, imparziale e indipendente, ecc.…
Per fortuna oggi questo è affermato solennemente anche dalla Cassazione (ordinanza 24 gennaio 2023, n. 2057), la quale ha statuito che: “Il principio della ragionevole durata del processo è certamente divenuto punto costante di riferimento nell’esegesi delle norme processuali…….ma, come è stato sottolineato anche in dottrina, mai è dato al giudice, in nome del citato principio, eludere distinte norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori di cui pure si sostanzia il processo equo: e tali sono per l’appunto il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto a un giudizio nel quale le parti siano poste in condizioni di interloquire con compiutezza nelle vari fasi in cui esso si articola”.
V. A. Poso Molti hanno enfatizzato l’ufficio del processo; ma davvero questo istituto è sufficiente a risolvere ogni problema?
G. Scarselli L’ufficio del processo, che più correttamente dovrebbe chiamarsi l’ufficio del giudice, certamente può migliorare la produttività di un Tribunale; tuttavia, presenta anche aspetti delicati ai quali non mi sembra sia stata data la giusta rilevanza.
La giustizia è infatti amministrata in nome del popolo, e quindi non può essere delegata ad un team di giovani, per quanto coordinati da un magistrato, appena usciti dalle università, assunti a tempo determinato e con compensi minimi; la giustizia deve essere resa personalmente dai magistrati, secondo scienza e coscienza, così come è sempre stato.
E tanto è più pericoloso l’ufficio del processo, quanto più si penserà ad esso in termini di riduzione dei tempi processuali, perché ogni tempo guadagnato con esso equivarrà ad una semplificazione e ad una banalizzazione della funzione giurisdizionale.
I Tribunali non sono aziende, e l’idea che il primo obiettivo da perseguire sia solo, o soprattutto, quello della brevità dei tempi, attraverso una standardizzazione aziendalistica delle decisioni, costituisce, a mio parere, un vulnus.
V. A. Poso È condivisibile la Sua critica alla «smaterializzazione della giustizia», che potrebbe essere anche la strada, veloce, per la rottamazione della giustizia civile. Farei, però, una distinzione tra udienze da remoto e udienze a trattazione scritta, anche in considerazione di quelli che sono gli effettivi adempimenti da realizzare e gli interessi delle parti da tutelare. E faccio mia la preoccupazione che, a lungo andare, il processo delle parti possa trasmodare nel processo delle carte, superando in tal modo il concetto stesso di udienza che necessariamente si deve svolgere di fronte al giudice, con il contraddittorio delle parti.
G. Scarselli Penso che quanto da Lei riportato sia esattamente il futuro che abbiamo dietro l’angolo.
L’idea tradizionale di udienza, ovvero l’idea che la giustizia si rende con l’incontro personale e diretto tra le parti, i difensori e il giudice, è idea che contrasta con un procedimento predittivo e meccanicizzato.
Se si vuole, gli artt. 127 bis c.p.c. e 127 ter c.p.c. rappresentano già il ponte tra il vecchio e il nuovo modo di intendere il processo, e certo una udienza a distanza è forse preferibile ad una udienza cartolare, ma credo che il problema resti nella sua interezza in entrambi i casi.
Ci attende una nuova procedura, dove le udienze non esisteranno praticamente più, perché l’udienza costituisce il momento dell’incontro tra gli esseri umani, e questa nuova giustizia vuole prescindere dall’essere umano, e ritiene infatti che gli esseri umani, meno si incontrano, meglio è.
Triste è poi per me immaginare che, per molti, la sparizione delle udienze sarà salutata con sollievo; si dirà: una perdita di tempo in meno, un contatto antipatico che i nuovi mezzi informatici riescono fortunatamente ad evitare.
V. A. Poso Una piccola digressione sull’atto di citazione, che Lei difende oltremodo. Mi ero fatto l’idea che fosse il ricorso lo strumento più adeguato di introduzione del giudizio, sempre che i tempi di fissazione dell’udienza risultassero contingentati e sottoposti a termini perentori (superando le prassi peggiori anche del rito del lavoro), seguendo il modello del ricorso per cassazione che porta all’attenzione del Supremo Collegio una causa già fatta, per così dire (con qualche rimodulazione necessaria per il giudizio di merito, per consentire l’attività istruttoria, in senso lato).
G. Scarselli Lo scritto sulla difesa dell’atto di citazione va considerato un gioco, nient’altro, un divertimento che mi sono concesso.
Senz’altro il ricorso può essere considerato lo strumento più adeguato di introduzione del giudizio, e senz’altro è così per i laburisti.
Mi sono semplicemente concesso il lusso di fare un passo indietro, di andare a scavare sull’ideologia che sta dietro la scelta tra citazione e ricorso.
Volevo fosse chiaro a tutti che la scelta tra citazione e ricorso non è soltanto tecnica, è una scelta anche ideologica.
Ho ricordato al riguardo la posizione del fascismo e mi sia consentito richiamarla anche qui: “Il congegno della citazione non ha per sé che la storia; trascurabile pregio per chi debba costruire un codice moderno; storicamente si spiega, appunto, la citazione, con una concezione del processo affatto opposta a quella che domina oggi ed ispira il progetto (Solmi) del quale si discute; quando si credeva che il processo fosse un affare tra le parti e perciò si riteneva che la domanda al giudice non potesse essere proposta se le due parti non fossero davanti a lui, era naturale che, prima di proporla, l’attore dovesse invitare il convenuto e perfino potesse trascinarlo in giudizio; ma adesso, quando sappiamo che in giudizio le parti non parlano tra loro, sibbene ciascuna di loro parla con il giudice, il principio del meccanismo dev’essere non tanto trasformato, quanto capovolto” (Giuseppe NAPPI, Commentario al codice di procedura civile, Società Editrice Libraria, Milano, 1942, II, 46).
In sostanza, la difesa dell’atto di citazione nient’altro era, per me, se non la difesa dell’ultimo simbolo della libertà nel processo civile.
V. A. Poso Nel novellato art. 342 c.p.c. (ma anche per il rito del lavoro con il riformato art. 434 c.p.c.) viene rafforzata l’inammissibilità dell’appello, anche per gli aspetti formali, con il rischio che la carenza dei requisiti formali ridondi nella carenza dei requisiti di cui ai nn. 1,2 e 3 dell’art. 324 c.p.c. Qualcosa di analogo vale anche con riferimento all’art. 366 c.p.c. per il ricorso per cassazione.
G. Scarselli Certo, si rischia che da domani un atto di impugnazione (e forse anche un atto difensivo tout court) possa essere dichiarato inammissibile perché privo di chiarezza oppure di sinteticità.
La trovo una cosa inammissibile, e scusate il gioco di parole.
Le Corti, infatti, a mio sommesso parere, non possono dare una esegesi delle disposizioni in tal senso, poiché l’inammissibilità di una impugnazione deve discendere da una condizione specifica e non da presupposti incerti e rimessi alla discrezionalità del giudice.
È la legge che, per prima, deve indicare in modo chiaro e specifico quali siano le ragioni di una possibile inammissibilità dell’impugnazione; e tra queste non possono esservi, nemmeno in via mediata e indiretta, quelle della chiarezza e/o sinteticità dell’atto di impugnazione.
Tra il serio e faceto si potrebbe allora dire questo: la chiarezza, la sinteticità e la specificità dell’atto non possono costituire condizioni di inammissibilità dell’impugnazione, poiché, a loro volta, non sono condizioni chiare e specifiche.
V. A. Poso Alcune critiche riferite al sistema sanzionatorio con l’aggiunta o la revisione, in senso peggiorativo, di pene pecuniarie diversamente modulate sono condivisibili. Ma l’abuso del processo può essere senza alcuna sanzione?
G. Scarselli Voglio essere chiaro sull’argomento, il testo dell’art. 96 c.p.c. nella versione degli anni ’50 era per me più che sufficiente; tutto quello che è stato fatto dopo è un eccesso, e non lo condivido.
Cerco di precisare, seppur nei limiti di una intervista: a) il diritto di azione comprende anche il diritto all’azione infondata; sanzionare l’azione infondata significa porsi in contrasto con l’art. 24 Cost.; b) l’abuso del processo deve essere tipicizzato dal legislatore, non può essere rimesso alla discrezionalità del giudice; c) l’abuso del processo non può costituire illecito amministrativo contro lo Stato ma solo illecito civile contro la parte che lo subisce; oggi lo si configura invece quale illecito amministrativo, per giunta senza le garanzie dell’illecito amministrativo, poiché tanto l’individuazione della fattispecie quanto la sanzione non è individuata dalla legge ma rimessa alla discrezionalità del giudice; d) l’abuso del processo non può che essere individuato dinanzi a liti di particolare gravità, poiché per tutto il resto deve suonare ancora forte l’avvertimento di Salvatore Satta: “se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”; e) l’aggravamento dei costi e dei rischi economici del processo è in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché danneggia i diritti delle classi meno abbienti; lo diceva un liberale, non un comunista, quale Pasquale Stanislao Mancini, già nell’ottocento, per il quale, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti”.
V. A. Poso Che la nostra tradizione di civil law debba essere preservata lo penso anche io (non fosse altro per la mia formazione non solo universitaria ma anche mentale, quale allievo di Giuseppe Pera), ma davvero, se questa scelta fosse ineludibile, l’affermazione della common law sarebbe così preoccupante?
G. Scarselli Si tratta di un fenomeno che deve essere studiato, si tratta di rendere tutti consapevoli che qualcosa sta cambiando, che le nostre tradizioni stanno subendo una modificazione.
Peraltro, il termine common law è stato usato da me in senso meramente riassuntivo del fenomeno e per niente preciso; per scherzo, mettendo insieme l’inglese con il dialetto romanesco, io l’ho chiamata la common law de noantri.
È preoccupante?
Poco, se è una evoluzione naturale del sistema di tutela dei diritti.
Molto, se è qualcosa che qualcuno forzatamente vuole.
V’è comunque da vigilare, poiché in una logica di globalizzazione i paesi di civil law potrebbero essere in qualche modo indotti od obbligati ad abbandonare le loro tradizioni in favore di quelle della common law, visto che questa ultima meglio si presta ad una semplificazione dei processi.
Il rischio è poi che questa trasformazione mini il concetto stesso di “diritto soggettivo” e trasformi ogni diritto delle persone in meri interessi.
In ogni caso questa globalizzazione, portata avanti in nome della semplificazione e della immediatezza, ha per conseguenza, per i paesi di civil law, la banalizzazione assoluta del lavoro dei giudici e degli avvocati.
Nel medioevo vi era il c.d. causidico (dal latino causidicus, ovvero, colui che: “dice la causa”) il quale poteva agire in giudizio senza essere esperto di diritto.
Egli, infatti, si limitava a riportare i fatti; e questo era sufficiente, in quanto il causidico era solo un rappresentante della parte e non svolgeva ulteriori particolari funzioni.
A breve (io spero di no, ma credo di sì) ritorneremo ai causidici, poiché nient’altro sarà infatti richiesto agli avvocati se non rappresentare i litiganti e riferire i fatti controversi.
V. A. Poso Gli interventi normativi volti a rafforzare la vincolatività dei precedenti, che si sono susseguiti dal 2006 in poi, sino all’ultima riforma, sono molti. Anche questo è oggetto di critiche da parte Sua. Non è disposto ad accettare l’onere della vincolatività, ma nemmeno il principio della tendenziale vincolatività dei precedenti? A me sembra, questo, un modo adeguato per arrivare alla certezza del diritto applicato.
G. Scarselli Certo, dobbiamo salvaguardare e tutelare la certezza del diritto e il trattamento eguale di tutti i cittadini di fronte alla legge e nei processi, non c’è dubbio di ciò.
Ho solo detto, però, che una cosa è la nomofilachia, altra cosa la vincolatività dei precedenti; una cosa la civil law, altra cosa la common law.
Oggi queste distinzioni sembrano perse, e questo mi preoccupa.
La nomofilachia non può estendersi fino a ricomprendere la vincolatività delle decisioni della Corte di Cassazione.
Sono due concetti diversi, e tale a mio parere devono restare.
Ad ogni modo si tratta di un tema complesso che non può essere dibattuto in un’intervista.
Sto scrivendo proprio in questi giorni un articolo su questo, che penso di pubblicare a breve.
V. A. Poso Una piccola digressione. In un articolo che non fa parte degli scritti raccolti nel libro recensito, pubblicato sulla Rivista Judicium, 25 gennaio 2023, Sulle relazioni dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Lei pone il problema della nomofilachia e dell’indipendenza interna dei magistrati e del rapporto con quest’ultima delle relazioni di detto Ufficio, degno di essere approfondito, come se ci fosse un condizionamento, seppure indiretto ( e non voluto) nei confronti di tutti i magistrati (compresi quelli della stessa Corte di Cassazione). A me sembra – e per questo non condivido le Sue conclusioni – che diversi sono i piani in cui si muovono la nomofilachia, derivante dalle decisioni assunte dalla Suprema Corte, e le relazioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo: che necessariamente sono funzionali alla nomofilachia (e in tal senso è varia la loro articolazione nel sistema interno della Corte), ma rispondono, anche, all’esigenza di una periodica informazione all’esterno sui principali orientamenti della Corte di Cassazione
G. Scarselli Lo scritto al quale Lei fa riferimento pretende solo di essere momento di discussione su un aspetto che non mi pare secondario.
Le relazioni dell’Ufficio del Massimario non si limitano ad informare all’esterno sui principali orientamenti della cassazione ma prendono posizione sull’interpretazione delle nuove leggi.
Peraltro la legge sull’ordinamento giudiziario non prevede che l’Ufficio del Massimario svolga funzioni per l’esterno, ma solo compiti per l’interno della Suprema Corte.
Le relazioni sono utili e quasi sempre ben fatte, ma non è questo il problema.
Il problema è che i giudici del merito possono trovarsi in imbarazzo nell’interpretare personalmente la nuova legge, se questa è già stata interpretata dall’Ufficio del Massimario, ovvero dalla stessa Corte di Cassazione.
È conforme ciò all’indipendenza interna della magistratura?
È chiaro che i giudici del merito non sono tenuti a rispettare le indicazioni del Massimario, né il Massimario lo pretende; ma in un sistema che sempre più va verso l’uniformità delle decisioni e verso la gerarchizzazione della magistratura, per un giudice del merito assumere una posizione non conforme alle indicazioni del Massimario potrebbe essere difficile.
Ho quindi invitato a dibattere questi aspetti e valutare quale debba essere il giusto equilibrio tra nomofilachia e indipendenza della magistratura.
V. A. Poso In alcuni scritti raccolti nel libro oggetto di questa conversazione viene criticata la tendenziale prospettiva della nostra giurisprudenza a rendersi (sempre più) fonte del diritto. Cosa è che non la convince? La libertà o l’arbitraria interpretazione dei giudici?
G. Scarselli Anche qui, ho solo rilevato un dato, non ho espresso giudizi.
Non è questione di vedere se la cosa convince o non convince; nel nostro sistema la giurisprudenza non è fonte di diritto, punto.
Se invece lo diviene, allora significa che il nostro sistema di diritto è mutato.
Questo ho scritto; ed anche questo non è un tema secondario che possa essere trascurato.
E certo, se si arriva a dire, come è stato fatto (v. Corte Cost. 24 ottobre 2013, n. 248 e Corte Cost. 2 aprile 2014, n.77) che il giudice, in forza dell’art. 2 Cost. può mutare il tenore delle clausole di un contratto se queste sono “sbilanciate a danno di una parte”; oppure si arriva a dire (così Cass. 5 novembre 1999, n. 12310, ma vedi anche Cass. 13 settembre 2005, n. 18128; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511; Cass. 20 aprile 1994, n. 3775), che il giudice, in una valutazione complessiva della relazione giuridica, “e a prescindere specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”, può determinare, il “dovere di agire” ritenuto più equo, io credo che qualche domanda sia necessario porsela.
Perché, sia consentito, la certezza del diritto non sorge solo dalla nomofilachia, sorge anche dall’antica circostanza che, se io stipulo un contratto, faccio affidamento sulla relazione giuridica che in base a quel contratto mi lega ad un'altra persona.
Ma se il giudice, in deroga al contratto, può stabilire un’altra cosa, allora un problema di certezza del diritto devo pormelo, oltre al fatto che mi devo chiedere se ciò sia conforme al nostro sistema di civil law, visto che da noi, appunto, la giurisprudenza non è fonte del diritto.
V. A. Poso Una conclusione puramente accademica e di scuola. Dei processualisti dell’età aurea chi ha interpretato meglio di tutti lo spirito del processo civile?
G. Scarselli Il problema è che “lo spirito del processo civile” è soggettivo; se cambia lo spirito, cambia anche il processualista classico che meglio di tutti lo abbia interpretato.
A mio parere, comunque, questi è stato Piero Calamandrei.
So che così la pensava anche Franco Cipriani.
V. A. Poso E dopo di lui possiamo ritenere Virgilio Andrioli, non giurista, ma Maestro di giuristi, di intere generazioni di studiosi, molti dei quali diventati Maestri come lui?
G. Scarselli Sì, Virgilio Andrioli è stato un uomo e un giurista eccezionale.
Ricordo in proposito le parole di Andrea Proto Pisani: “voglio ricordare soprattutto l’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di Andrioli e proporlo come esempio in questo difficile momento che l’Università e la società tutta sta attraversando, spesso avendo dimenticato i valori che la Costituzione negli articoli 2 e 3 voleva porre a fondamento della nostra convivenza”.
E poi quelle di Francesco Carnelutti, riferite alle Lezioni di Virgilio Andrioli sul processo civile: “Andrioli è, secondo me, il miglior fenomenologo del diritto processuale che noi abbiamo in Italia; oserei dire, se mi si perdona il bisticcio, che la sua padronanza dei fenomeni processuali, così sub specie legis come sub specie judicii, è fenomenale”.
Sempre Proto Pisani dice del Maestro: “giudice della Corte costituzionale o collega di facoltà scontroso perché per natura inadatto alla mediazione propria dei collegi”.
Orbene, devo confessare che ho sempre apprezzato Virgilio Andrioli anche per il suo carattere, e amavo soprattutto la sua parlata, con un romanesco ostentato.
E torno a Piero Calamandrei.
V’è la possibilità di ascoltare su YouTube il discorso celebre che egli tenne agli studenti di Milano sulla Costituzione il 26 gennaio 1955.
Se lo si ascolta, si nota che Piero Calamandrei parlava quasi in vernacolo.
Si pensi: Piero Calamandrei che parla fiorentino e Virgilio Andrioli che parla in romanesco; e tutti noi, oggi, che ci sforziamo a parlare in inglese!
V.A. Poso Condivido il giudizio su Piero Calamandrei e Virgilio Andrioli (di questi due Maestri Giuseppe Pera ci ha dato sempre diretta testimonianza).Mi viene alla mente un giudizio lusinghiero a proposito della Sua densa monografia “ La condanna con riserva”, Giuffrè Editore, Milano, 1989, in due lettere di Virgilio Andrioli del 6 febbraio 1990 ( pubblicate con il n. 64 e il n. 65 , in appendice al libro dedicatogli dai suoi allievi, a cura di Andrea Proto Pisani, “ L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un Maestro: Virgilio Andrioli. Ricordi dei suoi allievi e lettere”, Jovene Editore, Napoli, 2020, pp. 150 e 151). E ovviamente, per il tempo presente, il riferimento è proprio al Suo Maestro fiorentino, Andrea Proto Pisani, un’altra voce calamitosa contro l’ultima riforma.
G. Scarselli Sì, ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Virgilio Andrioli, una rarità per un giurista della mia generazione.
L’ho conosciuto la prima volta nel 1989: lui aveva 80 anni, io 29.
Non dimenticherò mai quell’incontro.
Il suo giudizio sul mio lavoro rimarrà per sempre la mia più grande soddisfazione professionale, qualunque altra cosa mi possa succedere.
Andrea Proto Pisani ha portato avanti la sua voce, e lo ha amato come un padre, forse più di un padre.
Voglio ricordare anche qui, a chiusura di questa intervista, un fatto per me indelebile.
Virgilio Andrioli, nell’ultimo periodo della sua vita, perse per ragioni di salute la capacità di intendere e volere, e Andrea Proto Pisani (Virgilio Andrioli non aveva figli) fu nominato dal Tribunale di Roma suo tutore.
Nell’ultimissimo periodo della sua vita Virgilio Andrioli non era più in grado di riconoscere le persone, ma Andrea Proto Pisani continuava egualmente a fargli visita, a passare del tempo con lui.
Virgilio Andrioli non lo riconosceva, e Andra Proto Pisani stava lì, stava lì egualmente.
Cos’altro posso aggiungere?
V. A. Poso Nulla. Questo e molti altri ricordi si possono leggere nell’intervista, intensa e passionale, che mi è stata rilasciata da Andrea Proto Pisani, “Ancora oggi in compagnia e a colloquio con il mio Maestro Virgilio Andrioli”, pubblicata su Giustizia Insieme il 7 novembre 2020.