ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici
di Maria Alessandra SANDULLI
Sommario: 1. L’iter dello Schema - 2. Premessa e principi generali - 3. Altre importanti novità - 4. Segue: la razionalizzazione del rapporto tra efficacia dell’aggiudicazione, accesso agli atti e alle offerte degli altri concorrenti, e termini di impugnazione.
1. L’iter dello Schema
Lo scorso 16 dicembre il Governo ha approvato “in via preliminare” lo schema del nuovo Codice dei contratti pubblici presentato dal Consiglio di Stato.
Come noto, il Governo con legge n. 78 del 21 giugno 2022 era stato delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi recanti la disciplina dei contratti pubblici, anche al fine di adeguarla al diritto europeo e ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, interne e sovranazionali, e di razionalizzare, riordinare e semplificare la disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, nonché al fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione da parte della Commissione europea e di giungere alla risoluzione delle procedure avviate”. Il comma 4 dell’art. 1 legge n. 78/2022 prevedeva peraltro che, ove il Governo intendesse demandare al Consiglio di Stato la formulazione del progetto di Codice ai sensi dell’art. 14 del t.u. n. 1954 del 1924, quest’ultimo dovesse avvalersi ai fini della stesura dell’articolato normativo “di magistrati di tribunali amministrativi regionali, di esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’avvocatura generale dello Stato”; e che sul testo governativo non dovesse essere più acquisito il parere del Consiglio di Stato.
Avendo il 30 giugno 2022 il Presidente del Consiglio dei Ministri comunicato al Presidente del Consiglio di Stato di volersi avvalere della suddetta facoltà, ricordando altresì che l’approvazione della riforma costituisce un importante obiettivo del PNRR, il 4 luglio scorso il Presidente Frattini ha quindi istituito una Commissione speciale, da lui presieduta e con il supporto di un board composto dal Presidente aggiungo (Luigi Maruotti) e da due vice (Luigi Carbone e Rosanna De Nictolis), Presidenti titolari di sezione del Consiglio di Stato di cui uno con compiti di coordinatore (Luigi Carbone, Presidente della Sezione del Consiglio di Stato per gli atti normativi). La Commissione, composta inoltre da otto Presidenti di sezione del Consiglio di Stato, trentadue Consiglieri di Stato, dieci Consiglieri di TAR, due Avvocati dello Stato, due Consiglieri della Corte di Cassazione e un Consigliere della Corte dei conti, otto Professori universitari di prima fascia in materie giuridiche e avvocati (tra i quali ho avuto l’onore di essere inserita), quattro avvocati e sei “esperti tecnici” (economisti, ingegneri, esperti di drafting, un informatico e un Accademico della Crusca), era divisa in sei gruppi di lavoro, ciascuno guidato da uno o due Presidenti di sezione del Consiglio di Stato (Gabriele Carlotti e Roberto Giovagnoli - gruppo I; Gabriele Carlotti e Fabio Taormina - gruppo II; Carlo Saltelli e Hadrian Simonetti - gruppo III; Carlo Saltelli e Claudio Contessa - gruppo IV; Giancarlo Montedoro - gruppo V; Michele Corradino - gruppo VI), con il coordinamento generale del Presidente Luigi Carbone, supportato dal cons. Gianluca Rovelli.
I gruppi hanno elaborato – lavorando in parallelo – gli schemi di articolato dei singoli Libri del codice (il lavoro dei gruppi II e III è poi confluito prevalentemente nell’unico Libro II).
Nonostante il periodo estivo, la Commissione ha lavorato molto alacremente. In considerazione dei tempi molto ristretti, i vari gruppi e i rispettivi coordinatori si sono riuniti con assidua frequenza e i singoli componenti hanno lavorato individualmente su specifici adempimenti, sfruttando anche i giorni festivi.
Come evidenziato nella Relazione illustrativa, i membri della Commissione hanno lavorato senza alcun compenso e senza riduzioni del carico di lavoro e i lavori si sono articolati in riunioni plenarie di gruppo, in sottogruppi che riferivano periodicamente sull’attività svolta in occasione delle plenarie di gruppo, nonché in riunioni tra i coordinatori di gruppo, sovrintese dal coordinatore generale, per un totale di oltre 170 riunioni. Le riunioni si sono svolte quasi tutte online e si è deciso su ogni questione sulla base delle posizioni prevalentemente espresse dai componenti della Commissione, con il filtro, per ciascun gruppo, dei rispettivi coordinatori.
I testi dei sottogruppi e dei gruppi, elaborati già nella prima metà di agosto, sono stati trasmessi dai relativi coordinatori agli altri gruppi. Si è avviata così la lunga e complessa opera di rilettura, coordinamento ed elaborazione dello Schema.
Come riportato si legge nella Relazione, il 20 ottobre, nel pieno rispetto del termine che il Governo aveva assegnato, è stato così consegnato uno “Schema preliminare di codice dei contratti”. Dopo l’insediamento del nuovo Governo, sulla base di una nuova interlocuzione avvenuta con nota del 14 novembre del Presidente del Consiglio dei Ministri, la Commissione ha continuato a lavorare, in composizione più̀ ristretta, con l’apporto soprattutto dei coordinatori, per affinare gli ultimi miglioramenti tecnici, curare il drafting, sciogliere alcune questioni giuridiche di particolare impatto, redigere un’accurata Relazione illustrativa per ogni singolo articolo (che intende fornire anche le linee guida per l’applicazione delle nuove norme) e predisporre gli allegati che garantiranno l’autoesecutività del nuovo Codice.
Lo “Schema definitivo di codice” sottoposto al Governo ha un numero di articoli analogo a quelli del Codice del 2016, ma ne riduce di molto i commi, riduce di quasi un terzo le parole e i caratteri utilizzati e, con i suoi allegati, abbatte in modo rilevante il numero di norme e linee guida di attuazione.
La Relazione precisa inoltre che “Gli allegati sono 35, molti consistono di poche pagine. Si tratta di un numero comunque contenuto, specie se si considera che solo le tre direttive da attuare hanno, in totale, 47 annessi e che nel nuovo codice gli allegati sostituiranno ogni altra fonte attuativa: oltre ai 25 allegati al codice attuale, essi assorbiranno 17 linee guida ANAC e 15 regolamenti ancora vigenti, alcuni dei quali di dimensioni molto ampie (tra cui il d.P.R. n. 207 del 2010, risalente addirittura all'attuazione del codice del 2006, nonché quello sui contratti del Ministero della difesa, ridotto da oltre 100 articoli a poco più di 10). Ciò è stato possibile anche rinviando, in vari casi, direttamente agli allegati delle direttive, assicurando sia uno sfoltimento della legislazione interna sia il suo adeguamento immediato e automatico alle future modifiche delle norme europee. In non pochi casi si è scelto di conservare – verificandone preventivamente il positivo impatto – le norme del codice vigente che, in sede applicativa, hanno dato buona prova di sé. Un testo a fronte le indica con chiarezza, per facilitarne la lettura e la riconoscibilità da parte di chi dovrà rispettarle. Ma anche le novità sono molteplici, tutte analiticamente illustrate nella relazione di accompagnamento, un “materiale della legge” (Gesetzmaterial) che si propone come un vero e proprio manuale operativo per l’uso del nuovo codice, assorbendo anche la funzione di indirizzo attuativo sinora rivestita dalle “linee guida non vincolanti”.
Il testo approvato in via preliminare dal CdM, non ancora diramato, verrà trasmesso alla Conferenza unificata e alle Commissioni parlamentari per i rispettivi pareri e tornerà al Governo per l’approvazione definitiva, che dovrebbe avvenire entro il 31 marzo 2023 (anche se gli organi di stampa segnalano già un possibile slittamento).
Lo Schema prevede peraltro una fase transitoria di tre mesi, disciplinata dagli artt. 225 e ss. anche per ciò che attiene all’abrogazione e alla perdurante efficacia del d.lgs. n. 50/2016 e delle altre disposizioni indicate dai suddetti articoli. L’ultimo articolo dello Schema (art. 229) stabilisce infatti che “il Codice entra in vigore con i relativi allegati il 1° aprile 2023”, ma che “le disposizioni del Codice con i relativi allegati, eventualmente già sostituiti e modificati, acquistano efficacia il 1° luglio 2023”.
Si confida che entro il 31 marzo 2023 l’individuazione delle disposizioni codicistiche (e di attuazione) cui dovranno fare riferimento gli operatori del settore non presenterà profili di incertezza.
2. Premessa e principi generali
Lo Schema di Codice presenta profili fortemente innovativi, tanto sul piano dell’impostazione che su quello dei contenuti. Merita anzitutto sin da subito evidenziare il chiaro riferimento del suo ambito applicativo, per quanto non diversamente stabilito, tanto agli appalti che alle concessioni (art. 13). Si è inoltre scelto di redigere un Codice che non rinvii a ulteriori provvedimenti attuativi e sia immediatamente “autoesecutivo”, consentendo da subito una piena conoscenza dell’intera disciplina da attuare. Ciò è stato possibile grazie a un innovativo meccanismo di delegificazione che opera sugli allegati al Codice (legislativi in prima applicazione, regolamentari a regime). La fonte regolamentare, pur evidentemente più agile di quella legislativa, ha il pregio di valere solo per il futuro e non creare la confusione derivante dalle linee guida ANAC.
Per una migliore comprensione e interpretazione dell’intero testo è fondamentale il confronto con l’ampia e dettagliata Relazione che costituisce una vera e propria guida alla lettura dell’articolato.
Ciò vale anche e in primo luogo per i “Principi generali”, cui il testo dedica ben undici articoli (l’art. 12 opera un rinvio esterno, per quanto attiene alle procedure di affidamento, alla legge generale sull’azione amministrativa e, per quanto attiene alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione, al Codice civile).
I principi enunciati nei primi tre articoli assumono una valenza particolare, in quanto l’art. 4 li individua espressamente come “criterio interpretativo e applicativo” delle disposizioni codicistiche.
Come evidenziato anche dai comunicati stampa, i primi due articoli introducono i principi del “risultato” (art. 1) e della “fiducia” (art. 2).
Il primo prevede che le “stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo […]”. Per evitare distorte chiavi di lettura della disposizione (che veda il valore preminente nella rapidità i lavori) merita però richiamare l’attenzione sull’espresso richiamo, oltre che alla “qualità”, al rispetto dei principi di “legalità, trasparenza e concorrenza”, che opportunamente chiude il primo comma (anche se la concorrenza è dichiarata poi funzionale a conseguire il miglior risultato possibile), e alla finalizzazione del principio del risultato all’interesse della comunità e al raggiungimento degli obiettivi dell’UE. Tali -necessari- temperamenti al criterio della rapidità sono invero parte integrante del principio del risultato e devono essere tenuti ben presenti anche nella lettura del quarto comma, che stabilisce che detto principio costituisce “criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva”.
In uno Stato di diritto la certezza e la prevedibilità delle regole è invero un principio e un canone ermeneutico irrinunciabile, che non può essere sacrificato in nome della rapidità ad ogni costo dell’affidamento e dell’esecuzione di prestazioni che, deviando dal rispetto delle regole, non assicurino la qualità soggettiva del contraente e contenutistica dell’offerta.
L’art. 2 afferma il principio della reciproca fiducia “nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”, ma, come risulta dai comunicati stampa e dai primi commenti, sembra essenzialmente mirare alla tutela dei funzionari pubblici, delimitandone la colpa grave, al fine di contrastare la c.d. “paura della firma”. Si ricorda tuttavia che (ad oggi fino al 2023) l’art. 21 del d.l. 76/2020 come prorogato dal PNRR ha limitato la responsabilità erariale dei funzionari pubblici ai casi di dolo, limitando la responsabilità per colpa grave ai casi di condotte omissive e si segnala che l’art. 17 dello Schema di Codice dispone semplicemente che il superamento dei termini della procedura di affidamento “costituisce silenzio inadempimento e rileva anche al fine della verifica del rispetto del dovere di buona fede, anche in pendenza di contenzioso”, e analoga disposizione è contenuta nel comma 7 dell’art. 18 nel caso di mancata o tardiva stipula del contratto. Scompare quindi il riferimento contenuto nell’art. 32 nel d.lgs. n. 50/2016 alla responsabilità erariale e disciplinare. Gli unici riferimenti nello Schema alla responsabilità del soggetto agente per danno erariale sono infatti contenuti nell’art. 215 a proposito dell’inosservanza dei pareri e delle determinazioni del Collegio consultivo tecnico. Nessuna disposizione dell’articolato fa invece riferimento alla responsabilità disciplinare.
Anche con riferimento al principio della fiducia lo Schema prevede in ogni caso, a ben vedere, dei temperamenti, laddove precisa che costituisce colpa grave “la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto”. Mentre “non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”.
Il tema delicato sarà il contenuto che si vorrà dare all’aggettivo palese. Si lascia quindi, in buona sostanza alla giurisprudenza, il temperamento tra la celerità che porterebbe a ridurre le “cautele, verifiche ed informazioni preventive” e la violazione delle regole di “prudenza, perizia e diligenza” che richiederebbero una attività istruttoria più complessa.
La consapevolezza dell’oggettiva difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra rapidità da un lato e correttezza e qualità dall’altro emerge dal comma 4 dell’art. 2, laddove dispone che “Per promuovere la fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale, nonché per riqualificare le stazioni appaltanti e per rafforzare e dare valore alle capacità professionali dei dipendenti, compresi i piani di formazione di cui all’articolo 15, comma 7”.
L’art. 3 - Principio dell’accesso al mercato – anch’esso significativamente richiamato tra i criteri applicativo e direttivo delle disposizioni codicistiche, conferma quanto detto sull’ineludibilità, in ogni caso, dei -tradizionali- “principi di concorrenza, imparzialità, e non discriminazione di pubblicità e trasparenza di proporzionalità”.
Gli altri articoli si occupano rispettivamente dei “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento” (art. 5); “Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale. Rapporti con gli enti del Terzo settore” (art. 6); “Principio di auto-organizzazione amministrativa (art. 7); “Principio di autonomia contrattuale. Divieto di prestazioni d’opera intellettuale a titolo gratuito” (art. 8, che, però, al comma 3, prevede la possibilità che le Amministrazioni ricevano “per donazione” beni e prestazioni rispondenti al pubblico interesse); “Principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale” (art. 9); “Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione” (art. 10); “Principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore. Inadempienze contributive e ritardo nei pagamenti” (art. 11, che fa in realtà riferimento anche ai contratti collettivi territoriali)).
Nel rinviare ad altra sede più ampie riflessioni su tali principi, merita evidenziare che l’art. 5, sotto il titolo “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento”, nel richiamare la valenza di tali principi nell’ambito dell’intera procedura di gara, anche prima dell’aggiudicazione, al comma 3 afferma che “In caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l’affidamento non si considera incolpevole [recte, non vi è legittimo affidamento: ndr] se l’illegittimità̀ è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti”. La disposizione sembra dare spazio a una presunzione di concorso di colpa dell’aggiudicatario illegittimo: presunzione che pone. a ben vedere problemi di coerenza con l’enunciazione al comma 1 dell’art. 2 del principio di fiducia “reciproca”. Il comma 4, pur ponendo l’accento sulla possibilità di un’azione di rivalsa della “stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso”, limita peraltro opportunamente la concorrente responsabilità dell’aggiudicatario illegittimo all’ipotesi in cui esso abbia conseguito l’aggiudicazione con un comportamento “illecito”. Negli stessi termini, l’art. 209, comma 4 dello Schema, sostituendo l’art.124 c.p.a., stabilisce al suo nuovo comma 1, 3° periodo, che “Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo”. Come rilevato in altre occasioni, non posso non esprimere serie preoccupazioni per le riferite disposizioni che, se lette nel contesto di un sistema di tutela giurisdizionale che indebitamente privilegia la tutela risarcitoria rispetto a quella soprassessoria e caducatoria (in evidente spregio anche alla qualità della prestazione), corre il rischio di ridurre il contenzioso sui contratti de quibus a una controversia tra privati. Il che oltretutto farebbe dubitare della ratio della sua attribuzione alla giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo.
Con riferimento al principio di auto-organizzazione amministrativa, va segnalato che l’art. 7 rinvia la disciplina dell’affidamento in house dei servizi di interesse economico generale a livello locale all’apposito decreto legislativo di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali, a sua volta approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 dicembre scorso, il quale rafforza l’obbligo motivazionale dell’affidamento, espressamente estendendolo anche al trasporto pubblico locale, con la sola strana eccezione delle funivie.
Merita particolare attenziona anche l’art. 10 (“Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione”), che afferma utilmente in modo chiaro il “divieto di affidamento” dei contratti pubblici “agli operatori economici nei confronti dei quali sia stata accertata la sussistenza di cause di esclusione espressamente definite dal codice” e che “Le cause di esclusione di cui agli articoli 94 e 95 sono tassative e integrano di diritto i bandi e le lettere di invito; le clausole che prevedono cause ulteriori di esclusione sono nulle e si considerano non apposte” e delimita i requisiti speciali (“Fermi i necessari requisiti di abilitazione all’esercizio dell’attività professionale, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono introdurre requisiti speciali, di carattere economico-finanziario e tecnico- professionale, attinenti e proporzionati all’oggetto del contratto, tenendo presente l’interesse pubblico al più ampio numero di potenziali concorrenti e favorendo, purché sia compatibile con le prestazioni da acquisire e con l’esigenza di realizzare economie di scala funzionali alla riduzione della spesa pubblica, l’accesso al mercato e la possibilità di crescita delle micro, piccole e medie imprese”).
3. Altre importanti novità.
Importanti novità riguardano poi la forte spinta verso la digitalizzazione, la programmazione di infrastrutture prioritarie, l’appalto integrato, una maggiore flessibilità per i settori speciali, il riordino delle competenze dell’ANAC (oltre all’eliminazione delle linee guida, il rafforzamento delle funzioni sanzionatorie e la titolarità in via esclusiva della Banca dati nazionale dei contratti pubblici, con l’anagrafe unica delle stazioni appaltanti, compreso l’elenco dei soggetti aggregatori, nonché l’anagrafe degli operatori economici), la revisione delle soglie al di sotto delle quali gli appalti potranno essere affidati senza gara, il partenariato pubblico-privato (cui è dedicato l’intero IV libro), l’introduzione del c.d. “subappalto a cascata”, la revisione prezzi (per la quale sono state trasposte nel Codice le norme emergenziali che fissano l’alea al 5% e la quota di copertura dei prezzi), le qualificazioni delle stazioni appaltanti (anche se il Governo ha alzato la soglia fino alla quale i piccoli comuni potranno affidare direttamente i lavori); la trasparenza delle procedure di affidamento e l’accesso ai relativi atti per i concorrenti non definitivamente esclusi; la decorrenza dei termini di impugnazione e l’inserimento nel Codice della disciplina del Collegio consultivo tecnico.
4. Segue: la razionalizzazione del rapporto tra efficacia dell’aggiudicazione, accesso agli atti e alle offerte degli altri concorrenti, e termini di impugnazione.
Nell’ottica di un’effettiva accelerazione della stipula del contratto e di una più effettiva tutela dei concorrenti non definitivamente esclusi, lo Schema è intervenuto anche sulle fasi delle procedure di affidamento, sulla trasparenza degli atti di gara, sulle comunicazioni e sulla decorrenza dei termini di impugnazione. A questi fini merita leggere in combinato disposto gli artt. 17, 18, 36, 90 e 209.
In particolare, l’art. 17, reintroduce la distinzione tra “proposta di aggiudicazione” e “aggiudicazione”, disponendo, al comma 5, che “L’organo preposto alla valutazione delle offerte predispone la proposta di aggiudicazione alla migliore offerta non anomala. L’organo competente a disporre l’aggiudicazione esamina la proposta, e, se la ritiene legittima e conforme all’interesse pubblico, dopo aver verificato il possesso dei requisiti in capo all’offerente, dispone l’aggiudicazione, che è immediatamente efficace” e, al comma 7, che “Una volta disposta l’aggiudicazione, il contratto è stipulato secondo quanto previsto dall’articolo 18”.
La decorrenza del termine dilatorio (c.d. standstill procedimentale) per la stipula del contratto e dei termini di impugnazione sono pertanto posticipati all’esito della verifica dei requisiti e alla conseguente comunicazione della -effettiva- aggiudicazione.
L’art. 18 dispone, infatti, opportunamente al comma 3 che “Il contratto non può essere stipulato prima di 35 giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione. (…)”
L’art. 36 dispone poi al comma 9 che “Il termine di impugnazione dell’aggiudicazione e dell’ammissione e valutazione delle offerte diverse da quella aggiudicataria decorre comunque dalla comunicazione di cui all’articolo 90”. La disposizione, ripresa dall’art. 209 -che sostituisce l’art. 120 c.p.a.- si combina con i commi 1 e 2 dello stesso art. 36 i quali dispongono che “1. L’offerta dell’operatore economico risultato aggiudicatario, i verbali di gara e gli atti, i dati e le informazioni presupposti all’aggiudicazione sono resi disponibili, attraverso la piattaforma digitale di cui all’articolo 25 utilizzata dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a tutti i candidati e offerenti non definitivamente esclusi contestualmente alla comunicazione digitale dell’aggiudicazione ai sensi dell’articolo 90. 2. Agli operatori economici collocatisi nei primi cinque posti in graduatoria sono resi reciprocamente disponibili, attraverso la stessa piattaforma, gli atti di cui al comma 1, nonché le offerte dagli stessi presentate.”.
In questo modo si reintroduce e si rafforza il sistema di accesso automatico e immediato (senza onere di richiesta) a tutti i verbali, dati, atti e informazioni della procedura, ivi comprese le offerte dei primi cinque candidati nelle parti che la stazione appaltante o l’ente concedente non ha ritenuto di dover oscurare (anche se occorrerebbe per chiarezza aggiungere “contestualmente alla comunicazione dell’aggiudicazione”). Il sistema mira così ad evitare i ricorsi “al buio” (con inutile consumo della risorsa giustizia) e a dare, sin da subito, massima informazione ai concorrenti interessati a verificare la correttezza della gara ed eventualmente a contestarne l’esito. A questi fini l’art. 36 introduce un rito specialissimo per contestare, rispettivamente, da parte dell’offerente, l’eventuale totale/parziale diniego di oscuramento e, da parte degli altri concorrenti, l’eventuale eccesso di oscuramento.
Più correttamente, pertanto, la decorrenza del termine di impugnazione - tanto per l’aggiudicazione, quanto, a maggior ragione, per l’ammissione e la valutazione delle offerte diverse dall’aggiudicataria (di cui l’art. 90 non prevede alcuna comunicazione, a meno che si inserisca nell’obbligo di comunicazione dell’aggiudicazione anche quello della graduatoria) - dovrebbe essere ancorata, per i vizi deducibili da atti ostesi successivamente alla comunicazione del provvedimento impugnato, al momento in cui tali atti vengono effettivamente resi disponibili.
La norma deve essere sotto questo profilo meglio coordinata con il nuovo art. 120 c.p.a. che, nel testo riscritto dall’art. 209 dello Schema, dispone che il termine di impugnazione degli atti delle procedure di affidamento e di concessione disciplinati dal Codice “decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici”.
Dal momento che la certezza del termine di impugnazione costituisce una garanzia di effettività della tutela assolutamente irrinunciabile, anche quest’ultima disposizione dovrebbe però essere opportunamente integrata al fine di rendere chiaro che (i) la dilazione non può essere un’opzione, ma vale solo per i vizi non ancora conoscibili; (ii) si tratta di una dilazione e non di una anticipazione: quest’ultimo chiarimento è essenziale per non dare spazio a strumentali eccezioni delle amministrazioni resistenti o dei controinteressati sulla necessità di anticipare l’impugnazione di verbali e atti endoprocedimentali casualmente conosciuti prima della comunicazione di quello effettivamente lesivo o, all’opposto, a un atteggiamento di estrema prudenza dei ricorrenti (c.d. “contenzioso cautelativo”) con inutile spreco della risorsa giustizia.
Il nuovo secondo periodo del comma 2 dell’art. 120 potrebbe a questi fini essere allora più opportunamente così riformulato: “Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione dell’atto impugnato ai sensi dell’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure, se si impugnano atti diversi e non direttamente comunicati oppure si denunciano vizi conoscibili dagli atti messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici, dai successivi momenti in cui tali atti sono stati effettivamente messi a disposizione”. Analogamente, il comma 9 dell’art. 36 potrebbe essere opportunamente integrato con la precisazione “o dai successivi momenti in cui la stazione appaltante o l’ente concedente abbia messo a disposizione gli atti impugnati e quelli da cui sono evincibili i vizi dedotti”.
La distinzione tra proposta e aggiudicazione e la posticipazione a quest’ultima della decorrenza del termine di impugnazione e dello standstill procedimentale ha comunque l’importante scopo di evitare inutili contenziosi anteriormente all’esito della verifica dei requisiti e, al contempo, “bruciare” la dilazione della stipula del contratto in un periodo che spesso è inferiore a quello necessario a tale verifica.
In un’ottica di migliore equilibrio tra i diversi interessi (di accelerazione e di tutela giurisdizionale) sarebbe peraltro a mio avviso più opportuno, come rappresentato anche nell’ambito della Commissione, anticipare la fase di eventuale contestazione degli oscuramenti delle offerte (contro il diniego o contro l’eccesso di oscuramento) al momento della proposta, in modo da utilizzare il tempo della verifica dei requisiti per definire il pur rapidissimo rito disegnato dallo stesso art. 36 per tale contenzioso.
A tali fini occorrerebbe aggiungere alle comunicazioni di cui all’art 90 quella della proposta di aggiudicazione e della sottostante graduatoria e prevedere la messa a disposizione degli atti di cui all’art 36, commi 1 e 2 contestualmente a tale comunicazione, facendo decorrere da tale momento i termini per contestare le decisioni sull’oscuramento delle offerte, sì che, al momento dell’aggiudicazione, i concorrenti abbiano la massima disponibilità del quadro fattuale di riferimento.
Ferma restando la necessità di ogni opportuna attività istruttoria e di verifica per raggiungere un risultato di qualità (soggettiva e oggettiva) dell’affidamento, è evidente invero che l’anticipazione del contenzioso sull’accesso -ma anche l’introduzione di un termine per la verifica dei requisiti e, a monte, per il rilascio delle informazioni all’uopo necessarie da parte delle autorità e degli organismi competenti- avrebbe l’ulteriore importante effetto di ridurre il ricorso agli affidamenti d’urgenza, che è di fatto un altro strumento per aggirare l’istituto dello standstill e (quel poco che resta del)la tutela cautelare.
Sul piano dell’effettività della tutela, merita peraltro, con soddisfazione, segnalare, per un verso, l’opportuna previsione, nel nuovo testo dell’art. 120 c.p.a., che per la proposizione di motivi aggiunti per impugnare gli atti della medesima procedura non è dovuto il pagamento di ulteriori contributi unificati, e, per l’altro verso, la “non trasposizione” nello Schema del decreto delegato, delle criticabili e criticate disposizioni del rito speciale PNRR inserite in sede di conversione del d.l. n. 68 del 2022 (sub art. 12-bis).
Novità normative dall’Unione Europea in materia di tutela penale dell’ambiente
di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente - 2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422) - 3. I profili critici.
1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente
É attualmente in corso presso le istituzioni europee l’iter di approvazione di una nuova Direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. Tale iniziativa normativa si inserisce nel contesto di un processo di complessivo rinnovamento delle politiche europee in materia ambientale.
Con l’avvio del c.d. “Green Deal”, l’Unione si è infatti impegnata ad attuare una nuova strategia globale per la protezione e il miglioramento dello stato dell’ambiente ed ha predisposto un ampio ventaglio di misure, volte a rafforzare la tutela degli ecosistemi e della biodiversità[1]. Al contempo, nell’ambito della Strategia dell’UE per contrastare la criminalità organizzata 2021-2025, la lotta alla criminalità ambientale è stata indicata come un obiettivo prioritario da perseguire, anche attraverso una revisione sia della normativa in materia di spedizione di rifiuti e di traffico di specie selvatiche, sia della direttiva 2008/99/CE sui reati ambientali[2].
Oltre che per effetto del mutato contesto politico ed internazionale, il processo in corso di revisione della direttiva si è poi reso necessario in ragione del fatto che l’adozione di tale atto era avvenuta prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, e cioè, sotto la vigenza di un quadro normativo molto diverso da quello attuale che invece assegna all’UE competenze penali più chiare e più ampie.
Il rapporto finale di valutazione del livello di implementazione della Direttiva vigente (Direttiva 99/2008/CE) esitato dalla Commissione UE ha riportato un quadro davvero sconfortante rispetto al conseguimento dell’obiettivo in origine prefissato dall’UE di realizzare un livello almeno sufficiente di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali in materia ambientale. L’implementazione del testo è avvenuta in modo alquanto eterogeneo, a causa dell’ampio margine di discrezionalità con cui gli Stati hanno potuto interpretare il contenuto delle relative disposizioni. L’estrema vaghezza dei termini utilizzati dal legislatore europeo per la descrizione delle condotte penalmente rilevanti ha infatti resto elastico il significato degli obblighi di incriminazione imposti a monte, generando a valle una notevole varietà delle soluzioni normative adottate dai singoli ordinamenti nazionali.
Approcci differenti sono stati seguiti tanto sul versante della ricezione della clausola di illiceità speciale, quanto sotto il profilo della definizione dei contrassegni dell’offese tipiche.
Con riguardo al profilo del carattere illecito delle condotte sanzionate, l’art. 2 della Direttiva 2008/99/CE stabilisce, com’è noto, un requisito di specifica illiceità delle condotte punite, consistente nella violazione normativa europea adottata ai sensi del trattato CE o EURATOM ed allegata alla direttiva; di un atto legislativo, un regolamento amministrativo o una decisione, adottati da uno Stato membro o da una sua autorità competente in attuazione della legislazione comunitaria di settore. Si tratta, cioè, di un rinvio tassativo alla legislazione europea, elencata in coda al testo ed alla normativa interna, nonché ai provvedimenti amministrativi dei singoli Stati, attuativi della disciplina di cui agli allegati alla direttiva e che riguardano in prevalenza la materia ambientale, ma non anche ambiti affini; come la tutela della salute, del paesaggio, della sicurezza sul lavoro etc.
Ebbene, la Commissione ha constatato come molti ordinamenti statali abbiano trasposto tale clausola, a volte richiamando genericamente la contrarietà a norme giuridiche, ad una disposizione di legge o ad una decisione della pubblica autorità; in altri casi invece, si richiede la violazione di norme di legge. L’impiego di formule onnicomprensive ha comportato l’automatica inclusione nello spettro applicativo delle norme penali di qualunque futura modifica o aggiornamento tanto della legislazione nazionale di recepimento della normativa europea a tutela dell’ambiente, quanto di quest’ultima[3]. Ciò ha senza dubbio complicato l’esegesi delle normative penali interne, vista la notevole frammentazione degli atti giuridici di attuazione della disciplina ambientale di fonte europea. Tra gli ordinamenti statali esaminati dalla Commissione, soltanto quello maltese ha implementato in modo letterale la definizione di cui all’art. 2 della Direttiva, facendo riferimento alla disciplina elencata in allegato alla stessa. Al guadagno così ottenuto in termini di maggiore precisione nella descrizione del fatto tipico si è però affiancato il contro-effetto della eccessiva fissità della clausola di illiceità speciale, incapace di adattarsi ai mutamenti che hanno nel tempo investito la normativa extra-penale oggetto del rinvio.
Risultati altrettanto insoddisfacenti si registrano sul versante dell’implementazione dei requisiti offensivi del fatto, ove la disomogeneità delle soluzioni adottate a livello nazionale ha nella sostanza impedito l’armonizzazione degli ambiti applicativi delle rispettive fattispecie di reato. Nella maggior parte dei casi si è scelto di ricorrere ad una trasposizione quasi pedissequa della nozione di "danno sostanziale" utilizzata nel testo della Direttiva. La vaghezza di tale definizione ha però finito con l’affidare al formante giurisprudenziale il compito di definire gli effettivi contorni dell’offesa penalmente rilevante.
Fra le legislazioni statali che hanno utilizzato formule più precise si è invece riscontrata una non trascurabile eterogeneità rispetto al modo di intendere il disvalore di evento. Alcuni Stati hanno definito la soglia di rilevanza penale dell’evento lesivo attraverso parametri di carattere economico, quantificando il danno in termini monetari secondo schemi in genere impiegati in ambito civilistico. In altri invece, il danno rilevante è stato connotato in termini di durata, reversibilità e di impatto sull’ambiente.
La normativa austriaca richiede per esempio un “deterioramento duraturo dello stato dell'acqua, del suolo e dell'aria”. L’ordinamento portoghese stabilisce invece criteri di tipo qualitativo, mentre la giurisprudenza polacca intende il danno significativo come danno irreparabile che colpisce la vegetazione o un gran numero di animali. Nozioni altrettanto vaghe sono - com’è noto - presenti nel nostro ordinamento ove l’evento del delitto di inquinamento è definito come “compromissione e deterioramento significativo e misurabile” e il disastro ambientale consiste nell’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o nell’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente gravosa.
La Commissione segnala infine analoghi problemi di non uniforme implementazione della direttiva sul versante della trasposizione della nozione di “quantità non trascurabile di rifiuti” oggetto del traffico illecito. Anche in tal caso, talvolta, si è scelto di riprendere letteralmente l’espressione usata dal legislatore europeo, altre volte invece, si è preferito ricorrere all’indicazione di soglie di carattere quantitativo.
Non trascurabili paiono le differenze intercorrenti tra le legislazioni penali nazionali sul fronte della tipizzazione delle condotte e delle offese. Il fatto che il profilo delle sanzioni sia rimasto fuori dal campo applicativo della Direttiva 2008/99/CE perché già regolato dalla quasi coeva decisione quadro sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale[4], ha consentito agli Stati membri di procedere in ordine sparso rispetto alla scelta del tipo e delle misure di pene da applicare agli illeciti contro l’ambiente. Ne è derivato un quadro composito, contrassegnato da una forte discontinuità dei regimi applicativi (soprattutto in materia di sanzioni pecuniarie), talmente variegato da rendere impossibile la comparazione tra i rispettivi sistemi nazionali[5].
2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422)
Tra le principali novità della Proposta di direttiva si segnalano, sul fronte della tipizzazione delle condotte penalmente rilevanti, l’ampliamento e l’aggiornamento delle attività punibili; ora comprensivo anche dei casi di immissione nel mercato di prodotti pericolosi; di fabbricazione e immissione nel mercato o di uso di sostanze pericolose; delle violazioni delle normative in materia di AIA; degli scarichi inquinanti da navi; dell’installazione, esercizio o smantellamento di impianto in cui si svolge attività pericolosa o si immagazzinano o utilizzano sostanze pericolose; dell’estrazione di acque superficiali o sotterranee etc. (art. 3 della Proposta).
L’area della protezione penale dell’ambiente fagocita dunque fattispecie di diversa natura, normalmente annoverate tra quelle a tutela della salute individuale o collettiva; come taluni reati in materia di danni da prodotto. Si tratta di una scelta dogmaticamente discutibile, che potrebbe peraltro generare seri ostacoli nel processo di implementazione della futura direttiva.
Da annotare il fatto che la Commissione ha fortemente voluto l’inserimento tra le condotte punibili dell’estrazione illecita di acque superficiali e sotterranee, considerata la loro considerevole incidenza e diffusione anche nel territorio UE. Stupisce il dato criminologico. Esso smentisce l’idea che questo tipo di attività illegali riguardi soprattutto i Paesi in via di sviluppo, ed in misura minore i Paesi più ricchi.
Sotto il profilo della tipizzazione delle offese, la nuova direttiva - come la precedente - circoscrive l’area delle incriminazioni alle condotte che cagionano un danno o un pericolo concreto rilevanti alla vita o all’incolumità delle persone; oppure, alla qualità delle matrici ambientali, ma si preoccupa di meglio definire i contrassegni dell’accadimento lesivo, attraverso la tipizzazione di una serie di indicatori sintomatici della rilevanza della lesione. Con riguardo all’evento di danno, si fa riferimento: 1) alle condizioni originarie dell’ambiente colpito; 2) alla durata del danno; 3) alla gravità del danno; 4) alla diffusione del danno; 5) alla reversibilità del danno (art. 3 par. 3 della Proposta).
Rispetto al pericolo rilevante, si tiene invece conto dei seguenti elementi a) se l’attività è ritenuta rischiosa o pericolosa e richiede un’autorizzazione che non è stata ottenuta o rispettata; b) in quale misura sono superati i valori soglia legislativi definiti o contenuti nell’autorizzazione; c) se il materiale o la sostanza è classificato come pericoloso o altrimenti elencato come nocivo per l’ambiente o la salute umana (art. 3 par.4 della Proposta).
Non è tuttavia ben chiara la natura giuridica dei suddetti indici. La direttiva non precisa infatti, se si tratta di indici meramente probatori o sintomatici della dannosità del fatto, o di elementi costitutivi della fattispecie tipica. La questione non è di rilievo puramente teorico. Se gli indicatori fossero ritenuti di natura esclusivamente processuale/probatoria, essi verrebbero in rilievo alternativamente. Ai fini dell’accertamento del reato, non sarebbe, cioè, necessario che fossero presenti nella loro totalità; così come, il reato potrebbe ritenersi integrato, anche in loro assenza. Ove invece si trattasse di elementi del fatto tipico, in assenza di uno o più di tali contrassegni, il reato non si realizzerebbe.
La Proposta stabilisce parametri standard per la determinazione della non trascurabile quantità di rifiuti, oggetto delle condotte di traffico illecito. Si prevede infatti che la legislazione degli Stati membri specifichi che, nel valutare tale requisito quantitativo, ai fini delle indagini, dell'azione penale e delle decisioni giudiziarie riguardo ai reati di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere e), f), l), m) e n) della proposta di direttiva, si debba tenere conto, secondo il caso, dei seguenti elementi (Art. 3 par. 5): a) il numero di elementi oggetto del reato; b) in quale misura è superato il valore, la soglia regolamentare o un altro parametro obbligatorio; c) lo stato di conservazione della specie animale o vegetale in questione; d) il costo di ripristino dei danni ambientali.
Si tenta altresì di incrementare lo standard di tassatività della clausola di illiceità speciale, restringendone la portata alla violazione della disciplina extra-penale europea e a quella nazionale interna di attuazione, riguardante esclusivamente la materia ambientale; e non anche altri ambiti di tutela (salute, sicurezza sul lavoro etc.).
Significativo è il dato che l’assenza di autorizzazione o di altro titolo abilitativo non rilevi come requisito di illiceità speciale delle condotte, bensì come indice sintomatico della loro pericolosità; mentre soltanto l’autorizzazione illecitamente o fraudolentemente ottenuta connota il fatto di un ulteriore profilo di illiceità.
Sul versante sanzionatorio, la Proposta obbliga gli Stati a prevedere sanzioni detentive massime di almeno 10 anni in caso di morte o lesioni gravi alle persone; sanzioni detentive massime di almeno 4 anni per gli illeciti-base e sanzioni accessorie, interdittive, ripristinatorie etc. (art. 5 della proposta).
3. I profili critici
Rimane ancora sostanzialmente indeterminata la nozione di danno penalmente rilevante, nonostante il richiamo alla nozione di peggioramento qualitativo delle matrici ambientali, faccia di queste ultime, e non degli ecosistemi, l’oggetto materiale del reato. Ciò certamente agevola l’accertamento del fatto, circoscrivendone l’incidenza del risultato lesivo ai singoli corpi recettori (acqua, aria, suolo etc.). Inspiegabilmente però, l’ecosistema riappare nelle ipotesi aggravate che puniscono più severamente gli illeciti ambientali da cui derivino o da cui possono derivare la distruzione o i danni irreversibili e duraturi ad un ecosistema (art. 8 della Proposta di direttiva).
Sanzioni più elevate vengono poi previste se dal fatto derivano il decesso o le lesioni gravi ad una o più persone. Come per le ipotesi delle lesioni ambientali irreversibili o durature, anche per i casi di conseguente morte o lesione, la struttura dell’incriminazione richiama lo schema dei reati aggravati dell’evento. L’implementazione di tale modello nell’ordinamento italiano implicherebbe l’abbandono della distinzione attualmente tracciata dal codice fra il reato di inquinamento ambientale ed il reato di disastro ambientale. Quest’ultimo dovrebbe infatti assumere la forma di un’ipotesi aggravata di inquinamento ambientale, tanto rispetto alle ipotesi di maggiore offesa all’ambiente, quanto per l’ulteriore offesa ai beni della vita o dell’incolumità personale.
Appare infine criticabile la scelta di restringere la portata della clausola di illiceità speciale alle sole violazioni della disciplina extra-penale a tutela dell’ambiente in quanto si rischia così di lasciare prive di copertura penale condotte contrassegnate dall’inosservanza di prescrizioni amministrative e legislative orientate alla tutela di interessi diversi dall’ambiente, ma in concreto lesive di quest’ultimo[6].
[1] La Comunicazione della Commissione UE sul Green Deal dell’Unione Europea è consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?qid=1670924725082&uri=CELEX:52019DC0640.
[2] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Strategia dell’UE per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025 (COM/2021/170 final), in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52021DC0170.
[3] V. Documento di lavoro dei servizi della Commissione - Valutazione della direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell'ambiente, cit., p. 26.
[4] Decisione quadro 2003/80/GAI relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, Bruxelles, 4 ottobre 2002, annullata dalla Corte di Giustizia il 13 settembre 2005 (causa: C-176/03).
[5] La pena detentiva massima prevista per il delitto di inquinamento oscilla per esempio dai 20 anni previsti dalla legislazione austriaca ai tre della normativa francese.
[6] Sul punto, sia consentito rinviare al nostro, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti”: una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, p. 202 e ss.
Gli accordi europei in tema di immigrazione
di Franco Roberti
Sommario: 1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione - 2. La gestione europea dell’immigrazione - 3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto - 4. Le ultime iniziative della Commissione europea - 5. Conclusioni.
1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione
A un quadro politico e normativo dell’Unione europea sempre più polarizzato sugli aspetti logistici ed organizzativi, su come gestire e possibilmente fermare l’arrivo di migranti irregolari e dei richiedenti asilo, fa da contraltare una narrazione pubblica e mediatica in cui la distinzione tra richiedenti asilo, rifugiati, irregolari, migranti economici o climatici, è liquidata per far posto all’immagine di una massa indistinta, simile a un enorme tsunami, pronta a varcare le frontiere. Questa situazione si è determinata anche per la sperimentata difficoltà di adottare una legislazione migratoria comune, dato che le decisioni dell’Unione europea nel settore dell’immigrazione, non supportate da una specifica ed esclusiva competenza, necessitano dell’unanimità dei Paesi membri. Ne consegue che, fintanto sarà richiesto il voto unanime, il tema dell’immigrazione sarà condizionato delle opportunità politiche del momento. D’altronde, basta dare un’occhiata ai numerosi tentativi di legiferare a livello europeo per rendersi conto che finora i governi hanno badato solo ai propri interessi nazionali di pura convenienza politica, indifferenti al dettato dell’articolo 79 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che chiama gli Stati Membri ad adottare “una politica comune sull’immigrazione per assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, la prevenzione e il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.
Ne consegue che i flussi migratori, da fenomeno demografico causato da fattori sociali, economici, ambientali e ultimo, ma non per importanza, da drammatiche situazioni di guerre endemiche, sono affrontati come problema di sicurezza e di gestione delle frontiere, diventate ormai barriere protettive. Tale spostamento ha provocato una narrativa politica e mediatica di natura prettamente securitaria a vantaggio delle formazioni politiche più propense a cavalcare le paure, il risentimento, la rabbia sociale, il rifiuto dello straniero, il dubbio sul valore dell’ospitalità a favore di un atteggiamento difensivo delle proprie rassicuranti radici culturali. Tutti elementi che trovano nelle incertezze normative a livello comunitario in materia di accoglienza e redistribuzione il terreno propizio nel quale si sedimenta e si articola la giustificazione delle scelte egoistiche dei Paesi membri dell’Unione, preoccupati in materia di immigrazione essenzialmente da valutazioni e tornaconti nazionali.
Si può osservare tale dinamica nel dettaglio. I Paesi del nord Europa, nonostante frequenti richiami rivolti al rispetto dei diritti fondamentali e al principio di accoglienza a fronte di un numero relativamente basso di arrivo di migranti, cadono in contraddizione tra un discorso pubblico improntato al valore della solidarietà e un esercizio del potere dei governi quasi sempre orientato alla ricerca di vantaggi politici di rendita del consenso. Questa posizione, seppur distante da quella tipica dei Paesi del Gruppo di Visegrád, caratterizzata da una totale chiusura sul principio di solidarietà comunitaria, rigettando di fatto il criterio delle quote di redistribuzione, è diventata per quei Paesi occasione per denunciare non solo la falsa coscienza tipica di chi predica bene ma agisce male, ma anche un’argomentazione per rimandare al mittente il mito di un’Europa unita come falso. Ed è proprio da questa frattura, prodotta dall’incapacità di trovare un accordo comune che regoli armonicamente le diverse sensibilità nazionali in materia di immigrazione, che nasce l’attuale paralisi politica e legislativa dell’UE, nonché la difficoltà di spronare i Paesi più riottosi ad assumersi le proprie responsabilità. Il che significa che i Paesi di primo ingresso, quelli del Mediterraneo, dovrebbero continuare a sbrigarsela da soli ed affrontare il dramma quotidiano degli arrivi, che mettono a dura prova le strutture di accoglienza, senza la certezza giuridica di poter contare su un aiuto da parte degli altri membri dell’Unione, trincerati dietro le norme del Regolamento di Dublino.
2. La gestione europea dell’immigrazione
A partire dal giugno 1990, con la convenzione firmata a Dublino da 12 Stati membri UE (tra cui l'Italia), emergeva la necessità di regolamentare, mediante un quadro normativo comune, i flussi migratori che interessavano l’Unione.
Tale convenzione rappresentava il primo accordo intergovernativo nel definire le regole europee sul diritto d’asilo. Tra i diversi obiettivi, il primo si incentrava sul carattere umanitario tendendo ad assicurare a ciascuna persona protezione e diritto d’asilo all’interno, almeno, di uno Stato Membro. Il tutto per evitare il fenomeno dei cosiddetti “rifugiati in orbita” ovvero cittadini stranieri rinviati da uno Stato all’altro, senza aver nemmeno ricevuto una valutazione della domanda d’asilo. Altro obiettivo prefissato era quello di contrastare le “domande multiple” ovvero la condizione nella quale il richiedente asilo, presentando la domanda in un determinato paese, in caso di rifiuto del riconoscimento, potesse rivolgersi senza alcun limite agli altri Stati Membri.
Da qui la decisione di avvalersi del principio del primo Paese di arrivo. Quest’ultimo, quale Paese di primo approdo, si assumeva tutte le responsabilità, nonché gli oneri, relativi alla gestione delle richieste d’asilo e del sostentamento dei cittadini stranieri. Nel 2003, la convenzione venne sostituita dal Regolamento di Dublino II. La modifica più sostanziale riguardava l’implementazione nel diritto comunitario, sotto forma di regolamento, delle previsioni originali della precedente Convenzione. La variazione era tuttavia formale, non modificando i criteri di definizione dei Paesi coinvolti direttamente in prima battuta che restano, ancora, quelli di frontiera.
Il 1 gennaio 2014 entra in vigore il regolamento Dublino III che, pur con dei punti di continuità rispetto al precedente, presenta alcune novità. Tra quest’ultime emergono le tematiche relative all’ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare, alla possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e alla maggiore tutela dei minori. Ancora, il nuovo regolamento incentiva l’utilizzo del database Eurodac (European dactyloscopie), mediante il quale raccogliere e schedare i dati sensibili dei cittadini stranieri. Tali misure correttive non risolvono le difficoltà affrontate dagli Stati frontalieri, mancando un approccio comune e solidale per la risoluzione del fenomeno in crescita esponenziale che raggiunge il suo acme nel 2015.
L'acuirsi della crisi migratoria avvenuta nel 2015 ha sollecitato l’Unione europea a muoversi nuovamente per cercare di stabilire nuovi criteri di gestione del fenomeno al fine di uniformare le posizioni, ancora contrastanti, dei diversi Stati Membri. Questi ultimi sono esortati a rispettare il principio della solidarietà, seppure in maniera non del tutto chiara, e, per la prima volta, è posta al centro dell’attenzione la tutela dei diritti dei migranti, con particolari indicazioni sulle linee da adottare nei confronti dei richiedenti asilo. Il nuovo tentativo si risolve in un totale fallimento: la mancata approvazione, nel 2017, della riforma del regolamento Dublino III: “Abbiamo provato a ribaltare quella logica ipocrita e a sostituirla con un principio che desse sostanza a quelli che sono scritti nei trattati e cioè: la solidarietà e la equa condivisione di responsabilità”.[1]
Eppure nel 2016, a seguito della proposta legislativa presentata dalla Commissione Europea, finalizzata alla riforma del Regolamento di Dublino, il Parlamento Europeo si è riunito dando l’avvio alla discussione e all’ardua negoziazione sul tema.
Nonostante nel corso di quest’ultima vi sia stata l’approvazione del testo in prima lettura (ottobre 2017) e la successiva delibera in plenaria con 390 voti a favore, 175 contrari e 44 astenuti, l’iter ha subito una drastica battuta d’arresto, fermandosi alla fase successiva. Tra le cause la mancanza di una visione comune da parte degli Stati Membri i quali manifestano, in sede di Consiglio Europeo, posizioni contrastanti, esplicativa, tra tutte, la visione dei Paesi Visegrád
La mancanza di coesione comunitaria è stigmatizzata nelle parole di Elly Schlein:
“E devo dire che è stato un negoziato durissimo, ci abbiamo lavorato per due anni per riuscire a costruire una maggioranza storica che, nel novembre del 2017, con il sì di quasi due terzi del Parlamento europeo ha ribaltato quella logica, cancellando il criterio del “primo Paese di accesso” e sostituendolo con un meccanismo “permanente automatico di ricollocamento”, che obblighi tutti i Paesi europei a fare la propria parte sull’accoglienza con un sistema di “quote” obbligatorio. Quote stabilite in modo oggettivo sui criteri del PIL e della popolazione di ogni Stato […] Questo ve lo racconto perché trovo vergognoso che, mentre il Parlamento europeo faceva questo sforzo, i governi che siedono al Consiglio Europeo non sono riusciti a trovare un briciolo di accordo su questa riforma. Eppure quelle che siedono al Consiglio sono le stesse famiglie politiche di quelle che siedono al Parlamento. Le medesime nazionalità. E com’è possibile che al Parlamento si trovi una soluzione davvero europea condivisa e invece al Consiglio si continui a trovare, balbettando, delle soluzioni ad hoc che non danno una risposta strutturale e che lasciano bloccate vergognosamente le persone in mezzo al mare?”.[2]
Di fronte alle politiche di chiusura nei confronti di Paesi terzi, la Corte di Giustizia dell´Unione europea è intervenuta più volte allo scopo di contemperare il diritto degli Stati Membri con la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo migrante. Ciò è stato possibile perché il migrante ha acquisito gradualmente un nucleo minimo di diritti con l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - la Carta di Nizza - che, dopo il Trattato di Lisbona, ha uguale valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione. Il che comporta che i diritti in essa riconosciuti sono a tutti gli effetti giuridicamente vincolanti, pure nel settore delle politiche migratorie e, pertanto, inderogabili per le Istituzioni europee e la cui osservanza da parte degli Stati membri è soggetta al giudizio della Corte di giustizia.
Sul tema della migrazione è emblematico l’articolo 19, primo comma, della Carta, che vieta le espulsioni collettive ed ogni respingimento alla frontiera e allontanamento coercitivo dal territorio senza prima aver effettuato un esame individuale del soggetto richiedente asilo.
Qui giova ricordare alcune recenti pronunce delle Corte di Giustizia dell’Unione europea. Proprio l’articolo 19, secondo comma, che vieta l’allontanamento, l’espulsione o l’estradizione verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposti alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, è stato evocato dalla Corte per dichiarare che le norme della ”direttiva rimpatri” 2008/11, a cui la legislazione nazionale ha l’obbligo di riferirsi in materia di rimpatrio, devono essere interpretate alla luce della Carta dei diritti fondamentali. Cosi nelle cause riunite C391/16, C77/17 e C78/17, dove la Corte ha deciso di non revocare lo statuto di rifugiato a tre cittadini extracomunitari colpevoli di un reato nonostante il parere contrario dei tribunali nazionali. La sentenza recita che “fintanto che il cittadino di un Paese extra-UE o un apolide abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d’origine o di residenza, questa persona deve essere qualificata come rifugiato indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato sia stato formalmente riconosciuto”. È palese il riferimento al principio che nessun cittadino può essere rimpatriato verso un paese dove rischia la sua vita o la sua libertà o di andare incontro a tortura e trattamenti inumani.
Va pure richiamata la sentenza nella causa C-808/18 Commissione contro Ungheria, nella quale si “dichiara che l’Ungheria è venuta meno al proprio obbligo di garantire un accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale 8, in quanto i cittadini di Paesi terzi che desideravano accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, a tale procedura si sono trovati di fronte, di fatto, alla quasi impossibilità di presentare la loro domanda e che l’obbligo imposto ai richiedenti protezione internazionale di rimanere in una zona di transito durante l’intera procedura di esame della loro domanda costituisce un trattenimento ai sensi della direttiva «accoglienza”. Considerazioni che fanno sì che venga respinto “l’argomento dell’Ungheria secondo cui la crisi migratoria avrebbe giustificato una deroga a talune norme delle direttive «procedure» e “accoglienza”, al fine di mantenere l’ordine pubblico e di salvaguardare la sicurezza interna, conformemente all’articolo 72 TFUE”. Infine per condannare l’Ungheria nel suo essere “venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva «rimpatrio», in quanto la normativa ungherese consente di allontanare i cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio è irregolare senza rispettare preventivamente le procedure e le garanzie previste da tale direttiva.
Va infine ricordata la sentenza della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-653/15 e C-647/15, di rigetto dei ricorsi della Slovacchia e dell’Ungheria contro il Consiglio per il meccanismo provvisorio di ricollocazione obbligatoria dei richiedenti asilo. A giudizio della Corte “l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE consente alle istituzioni dell’Unione di adottare tutte le misure temporanee necessarie a rispondere in modo effettivo e rapido ad una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di migranti” I giudici precisano altresì che, “poiché la decisione impugnata costituisce un atto non legislativo, la sua adozione non era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei parlamenti nazionali e il carattere pubblico delle deliberazioni e dei voti in seno al Consiglio”. Oltre a ciò, la Corte osserva “che il Consiglio non era tenuto ad adottare la decisione impugnata all’unanimità”. La Corte ritiene altresì “che il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata non costituisce una misura manifestamente inadatta a contribuire al raggiungimento del suo obiettivo, ossia aiutare la Grecia e l’Italia ad affrontare le conseguenze della crisi migratoria del 2015”. In conclusione, la Corte osserva “che il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, segnatamente, la mancanza di cooperazione di alcuni Stati membri”.
3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto
Con tali premesse, il 23 settembre 2020 la Commissione Europea ha proposto il Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo, presentato come “un pacchetto di proposte normative e di altre iniziative per un nuovo corso in materia di politica di migrazione e di protezione internazionale.”[3] Il documento, ponendosi in continuità e, talvolta, in discontinuità con il regolamento preesistente, mira al disegno di una strategia organica e fattuale che sia, al contempo, umanitaria e sinergica. In primis, si cerca di integrare le laconiche norme relative ai procedimenti di asilo e rimpatrio, stabilendo, altresì, una serie di misure da applicare in caso di flussi migratori irregolari straordinari; in secondo luogo ci si riferisce al consolidamento di nuove relazioni solidali da istituire tra gli Stati Membri di frontiera, più colpiti dal fenomeno, ed il resto dell’Unione. Ancora si spinge verso la creazione di rapporti collaborativi tra l’Unione e i Paesi Terzi di origine e/o transito. Il Patto regolamenta, altresì, le procedure e le misure di sostegno in termini di ricollocamento e rimpatrio, aggiornamento del quadro giuridico di Eurodac, procedura di screening, asilo e reinsediamento.
Le singole azioni citate, dovrebbero essere svolte con estrema flessibilità e sensibilità, valutando la specificità e le necessità di ciascun individuo, oltre le condizioni che lo Stato Membro interessato si troverebbe ad affrontare.
Nonostante l’aggiornamento e l’integrazione dei criteri di gestione del fenomeno, il disegno si presenta ancora incompleto e disorganico e le problematiche preesistenti non hanno trovato concreta risoluzione.
Tra le criticità che emergono da una puntuale analisi della proposta, all’esame del Parlamento, le più significative riguardano la gestione delle frontiere, la ripartizione asimmetrica degli oneri tra gli Stati Membri e la contrazione dei diritti dei soggetti migranti.
Partendo dal primo punto critico, bisogna sottolineare che l’iter proposto per la gestione delle frontiere si pone, ancora una volta, a scapito dei cosiddetti Paesi di primo approdo. Infatti, la procedura dello screening, a partire dalla fase di identificazione e registrazione ed ancora dei controlli sanitari e di sicurezza, fino alla prima scrematura, grava, nella sua totalità, su di essi. Inoltre la formalizzazione dei luoghi deputati allo svolgimento di dette operazioni, i cosiddetti hotspot, si pone ai limiti della legalità. Nello specifico, il sistema hotspot, nato in risposta alla crisi migratoria del 2015, nella sua mera trasformazione da strumento eccezionale a strumento formale legale, esplicita tutti i suoi punti di debolezza soprattutto in termini di violazione dei diritti umani e di lesione del diritto di difesa, che vengono trascurati in tutte le differenti fasi della procedura in esame.
I cittadini stranieri, nell’attesa dell’esito del procedimento di screening, sono privati della libertà e della parola, non avendo la possibilità di esprimere preferenza alcuna e, talvolta, costretti a subire passivamente il respingimento o l’invio in altro Stato straniero.
Il secondo punto critico riguarda il sistema di ripartizione asimmetrico degli oneri relativi alla gestione del fenomeno migratorio tra i Paesi UE, che si pone a svantaggio degli Stati Membri frontalieri. Tale squilibrio viola il “principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.”[4] Nel tentativo di aggirare il problema, la Commissione ha proposto un innovativo meccanismo collaborativo incentrato sul sistema della sponsorizzazione. Lo Stato, definito sponsor, si adopera al fine di sostenere logisticamente e finanziariamente i rimpatri degli altri Stati entro un limite temporale di otto mesi (quattro nei periodi di crisi), decorsi i quali lo stesso Stato sarà obbligato ad accogliere nel proprio territorio i migranti per accompagnarli fino al momento del rimpatrio.
La metodologia proposta si dimostra però inefficace in quanto, più che risolvere le problematiche relative alla questione dell’asilo, appare come un espediente per raggiungere un maggiore accordo tra gli Stati Membri. Inoltre, questa sorta di “flessibilità”, fa si che il processo non trovi poi concreta attualizzazione sia per il carattere discrezionale dei supporti forniti dai cosiddetti sponsor che per la differenza, tra i Paesi frontalieri e quelli di Visegrád, delle relazioni e degli accordi consolidati con i Paesi Terzi. Esplicativo il caso italiano che, insieme alla Spagna e alla Francia, gestisce più del 70%[5] degli accordi di riammissione con i Paesi africani.
Il terzo ed ultimo punto critico interessa la contrazione dei diritti dei richiedenti asilo. Il Patto sembra non considerare il fenomeno dal punto di vista del migrante, preservando l’atavico approccio securitario incentrato sulle misure restrittive e di respingimento, più che sulle nuove potenziali procedure di asilo.
In detta direzione infatti, già a partire dalla fase dello screening, i cittadini stranieri sono soggetti a misure di trattenimento con conseguente privazione della libertà. Le procedure di controllo, inoltre, rischiano di sfociare nella “razzializzazione” del diritto di asilo, prediligendo alcune nazionalità piuttosto che altre, senza effettuare analisi puntuali, attente alle necessità del singolo individuo. Quest’ultimo viene, altresì, privato della possibilità di manifestare i propri bisogni e di indicare una preferenza sullo Stato Membro di destinazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, le dinamiche di trasferimento assumono un carattere coercitivo a scapito, in primis, dei diritti umani e, a seguire, del margine di successo delle operazioni, con relativo dispendio di fondi, energie e risorse.
4. Le ultime iniziative della Commissione europea
La situazione di stallo nella trattazione parlamentare del Patto ha indotto la Commissione a rivedere l’approccio e la metodologia fino ad ora utilizzate. Questa la considerazione alla base dei recenti “action plans” proposti (nella fattispecie due), concernenti, rispettivamente, la rotta del Mediterraneo centrale e quella dei Paesi balcanici.
Il piano che interessa la prima area d’intervento individuata, ovvero il Mediterraneo centrale, è costituito da 20 misure il cui obiettivo è quello di arginare l’emergenza migratoria, soprattutto quella a carattere irregolare, fornendo linee guida in termini di ricerca e soccorso, sicurezza e solidarietà. Tre i pilastri fondanti il piano d’azione: lo sviluppo di una collaborazione sinergica tra i Paesi dell’Unione, i Paesi partner e le organizzazioni internazionali, il miglioramento del cosiddetto meccanismo di solidarietà volontaria nel rispetto di una visione comune e la promozione di una nuova politica di ricerca e soccorso. In tal senso, la linea d’azione proposta dalla Commissione, in un settore difficile da legiferare vista la competenza nazionale nelle rispettive zone di ricerca e salvataggio, è una maggiore cooperazione tra Stati membri, Paesi costieri e le Ong. Un impegno collaborativo viene richiesto ai Paesi membri anche con l’Organizzazione marittima internazionale (IMO), per porre le basi su un possibile codice di condotta europeo inerente le operazioni di ricerca e salvataggio.
Il piano d’azione previsto a sostegno degli Stati Membri che si trovano a gestire la crescente pressione migratoria che interessa l’area dei Balcani occidentali, d’altro canto, mira ad incentivare la cooperazione tra gli stessi e i relativi partner extra-UE. Anche per quest’ultimo sono previste 20 misure operative, raggruppate in cinque macro-categorie d’azione. Nello specifico: la prima riguarda la gestione delle frontiere lungo la rotta al fine di ridurre il traffico di migranti. In tal senso, significativi sono gli accordi extraeuropei raggiunti con Albania, Montenegro Serbia e Macedonia Nord i quali consentono dispiegamenti sul territorio da parte dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (FRONTEX).
La seconda linea d’azione mira ad accelerare le procedure di asilo e sostenere la capacità di accoglienza nei confini con i partner balcanici garantendo alloggi ed esigenze di base attraverso lo strumento di assistenza preadesione (IPA).
Terzo elemento è il potenziamento cooperativo nella lotta al traffico dei migranti lungo la rotta balcanica. Tale obiettivo è perseguibile attraverso la task-force operativa di Europol - recentemente rafforzata - al confine serbo-ungherese ed il programma regionale IPA, da 30 milioni di euro, per favorire lo svolgersi di indagini, procedimenti giudiziari e condanne da parte delle autorità giudiziarie dei Paesi balcanici, in stretta collaborazione con le agenzie europee.
Il rafforzamento della cooperazione per la riammissione e i rimpatri è il quarto elemento del piano d’azione che prevede un impegno maggiore da parte dell’Unione nell’aumentare i ritorni di persone direttamente dai Paesi dei Balcani Occidentali. A tal fine è previsto, entro il 2023 un nuovo programma che comprenda i rimpatri volontari e non volontari dalla regione, per potenziare la cooperazione e il coordinamento sul piano operativo tra l'UE, i Balcani occidentali e i Paesi di origine.
L’ultima categoria di azione mira all’allineamento della politica dei visti da parte dei Balcani. A quest’ultimi si richiede un rapido adeguamento al quadro normativo europeo in materia di visti per il corretto funzionamento del regime di esenzione.
Tutte le indicazioni citate rientrano, tra l’altro, nel più ampio progetto inclusivo dell’Unione a seguito, altresì, dei continui sforzi dei Paesi Balcanici per allinearsi alle norme comunitarie.
Il quadro giuridico europeo nel settore della migrazione continua, dunque, nei fatti a gravitare su tre strumenti: contenere/bloccare, rimpatriare, esternalizzare le frontiere, che sono il braccio armato della questione della sicurezza, che orientano e plasmano le norme vigenti in materia di immigrazione.
Come già osservato, le nuove proposte non sembrano apportare alcun cambio sostanziale: gli interventi previsti riproducono le scelte e gli strumenti che erano alla base del Regolamento di Dublino, tra cui i centri di prima accoglienza, la chiusura delle frontiere nonché un processo di esternalizzazione della responsabilità consegnata ai Paesi terzi, senza tener conto adeguatamente dello stato e della tutela dei diritti umani in tali Paesi. Resta non solo in vigore ma anche consolidato il principio dello Stato di primo ingresso, contestato dai Paesi con frontiere esterne come l’Italia, la Grecia, la Spagna. Pare del tutto carente il meccanismo di solidarietà per accogliere e ridistribuire gli immigranti, così tanto ventilato e sbandierato nelle conferenze stampa, quanto più escluso, depennato o al massimo infarcito di vaghi richiami ai valori fondanti dell’Unione europea nelle dichiarazioni comuni dei ministri dei Paesi membri.
Le norme previste nel nuovo Patto appaiono ancora prive di misure capaci di fornire risposte unitarie ai flussi e alle rotte migratorie. In effetti, restano responsabili della stragrande maggioranza degli arrivi solo alcuni Paesi: situazione non equa e nemmeno sostenibile per i primi Paesi di accoglienza, dato che il principio della solidarietà verrebbe applicato solo in via eccezionale. Sorprendente marcia indietro rispetto al già citato articolo 80 del TFUE che prevede che “tutte le politiche siano governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”.
Persino il nuovo criterio della sponsorizzazione dei rimpatri rischia di tradursi in una messa tra parentesi della solidarietà a favore invece di una politica dove alcuni Stati assumono le proprie responsabilità mentre altri voltano le spalle. Le divisioni dei Paesi membri tengono in scacco l’intero pacchetto di proposte ancor lontano dall’essere adottato e che, purtroppo, continua a poggiare su due pilastri: bloccare alle frontiere e rimpatriare appena possibile. Infatti, gli accordi di partenariato che traducono la pratica di esternalizzazione si riducono in sostanza ad esercitare pressioni di ogni genere per obbligare i Paesi d’origine e di transito a fermare i migranti diretti in Europa, attraverso la creazione di campi di respingimento alle frontiere. Su queste misure di filtro, volte a contrastare la mobilità delle persone, esiste un consenso generale, mentre manca essenzialmente un’intesa su come normare un sistema comune di asilo, rinviando le decisioni in materia alla volontà dei singoli Stati.
In sintesi, l’azione europea segue la strategia di spostare le frontiere verso l’esterno delegando a Stati terzi il compito di contenere e trattenere i migranti, disinteressandosi in buona parte, se non lanciando appelli alla salvaguardia dei diritti e delle condizioni di vita in cui si trovano i migranti nei campi di segregazione libici, nelle zone franche dei Paesi balcanici, nelle tendopoli delle isole greche, nei dormitori in Turchia. Tale dislocamento dello spazio geografico dei confini europei segue tre rotte: quella orientale-mediterranea, grazie agli accordi con la Turchia e allo scudo protettivo creato nelle isole greche; la rotta balcanica organizzata mediante controlli ferrei di polizia alle frontiere; la rotta africana pianificata attraverso accordi di partenariato infarciti di aiuti economici, convertendo i Paesi africani in territori presidiati militarmente anche da contingenti militari europei. In sostanza, la migrazione è collocata sotto l’egida della politica di sicurezza e di difesa comune.
Altro elemento da considerare è rappresentato dal fatto che il nuovo patto sulla migrazione lascerebbe da parte i 4 / 5 milioni di persone che già si trovano in situazione di irregolarità nei Paesi europei costretti a restare nell’ombra, dato che l’Europa non fa altro che sigillare le frontiere.
Infine, l’ultimo aspetto lasciato in sospeso dal nuovo patto è il tema della migrazione legale: materia su cui gli stati membri mantengono ferma la volontà decisionale indipendente, pur sapendo che l’assenza di uniformità legislativa dell’Unione insieme alla scarsa possibilità di ingresso per motivi economici dà forza alla migrazione irregolare.
5. Conclusioni
La strategia delineata dal Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo e dai più recenti actions plans, per quanto innovativa negli intenti, si dimostra ancora legata al precedente regolamento (Dublino III), soprattutto sul piano fattuale. Emerge, innanzitutto, la volontà di contrastare il fenomeno migratorio più che di stabilire un iter organico e omogeneo cui gli Stati Membri possano fare riferimento. A ciò si aggiunge il coinvolgimento parziale degli Stati UE, spesso in contrasto tra di loro, che adagiandosi sull’ambiguità dei differenti punti previsti e sul principio di solidarietà flessibile, partecipano con interventi per lo più economici e amministrativi, a carattere emergenziale. Di conseguenza, l’onere assistenziale continua a ricadere sui Paesi frontalieri.
Le proposte presentate, in conclusione, non risolvono le problematiche preesistenti come l’assenza di collaborazione sinergica tra gli Stati UE, la mancanza di solidali accordi con i Paesi Terzi che vivono in stato di emergenza e la sistematica violazione dei diritti umani.
Tutto ciò appare incompatibile con i valori e i principi su cui si fonda l’Unione europea e che ne dovrebbero garantire la sopravvivenza in un quadro geopolitico in rapido cambiamento.
[1] E. Schlein, relatrice-ombra della riforma, in Migranti la gestione dei flussi migratori: verso la revisione del trattato di Dublino, a cura di F. Roberti, Guida ed. 2019.
[2] E. Schlein, op. loc. cit.
[3] https://temi.camera.it/leg19DIL/post/19_nuovo-patto-sulla-migrazione-e-l-asilo.html
[4] ART 80 TFUE
[5] Cfr. P. Cassarino, Readmission, Visa Policy and the “Return Sponsorship” Puzzle in the New Pact on Migration and Asylum, in ADiM Blog, 30 novembre 2020.
Giustizia Insieme e la riforma Cartabia: gli approfondimenti della dottrina (penale e procedura penale) - Editoriale
Proseguono le iniziative della nostra rivista sulla riforma Cartabia.
Come si è già osservato in precedenza, rispetto a quelle che hanno preso il nome dei due precedenti Ministri della Giustizia, il testo che porta il nome dell’ex Ministro Marta Cartabia appare connotata da una inedita pervasività, poiché investe il diritto civile e processuale civile, quello penale e processuale penale nonché le norme ordinamentali.
Per quanto riguarda il settore penale, essa modifica – in più punti ed a volte in maniera profonda – ogni aspetto del processo, dal momento di apertura del procedimento penale alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, oltre ad incidere su alcuni rilevanti aspetti di diritto sostanziale.
Tocca inoltre il rapporto tra sanzioni ed esecuzione delle medesime, alcuni dei contrappesi esistenti tra le parti del processo, il senso stesso della sanzione penale affiancandole per la prima volta i percorsi (vedremo quanto accidentati) della giustizia riparativa; sancisce l’inizio dell’era del processo penale telematico.
In altri termini, si propone di modificare radicalmente il panorama in cui gli operatori del diritto si trovano ad operare, per di più facendolo “in corsa” e senza una parallela riforma strutturale e di organico della magistratura, che prevedibilmente soffrirà nell’affrontare le modifiche in una situazione di drammatica scopertura di organico.
I temi di discussione e gli spunti di approfondimento sono dunque numerosi e hanno richiesto una risposta multilivello.
Dopo una prima analisi dell’impianto della riforma, con lo scritto di Giorgio Spangher pubblicato il 6 settembre del 2022 e intitolato “La riforma Cartabia: alcuni fils rouge”, si è imposto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma un approfondimento su un aspetto particolarmente controverso e di immediato impatto.
L’articolo, scritto da Andrea Apollonio su “Il regime intertemporale della rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice nella riforma Cartabia”, è stato pubblicato il 21 ottobre 2022.
A seguire, il 28 ottobre 2022, è stato pubblicato l’articolo di Giuseppe Amara dal titolo “Riforma Cartabia. Principali questioni sul tappeto relative alla modifica del regime di procedibilità”.
Sono poi state pubblicate, nei giorni precedenti, ben 18 schede tematiche redatte dai giudici dellla Sezione penale del Tribunale di Vicenza diretta da Lorenzo Miazzi in cui sono state esposte in modo sintetico le modifiche principali apportate al Codice penale e di procedura penale ed indicate le possibili criticità applicative.
L’ultima serie di riflessioni che Giustizia Insieme dedica alla riforma riguarda sei articoli che usciranno a cadenza settimanale in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, distinti per fase processuale che in partilare approfondiranno:
1. Le modifiche in tema di indagini preliminari
2. Il sistema sanzionatorio e i rapporti tra cognizione ed esecuzione
3. La giustizia riparativa
4. L’applicazione delle sentenze CEDU
5. Dibattimento e procedimenti speciali
6. Impugnazioni.
Inauguriamo oggi questa ultima parte dei nostri approfondimenti con l’articolo della professoressa Roberta Aprati su “le nuove indagini preliminari”.
Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
di Roberta Aprati
Sommario: 1. Premessa a mo’ di conclusione. - 2. I criteri di priorità. - 3. L’iscrizione della notizia di reato. - 4. I controlli sulle iscrizioni. - 5. I tempi delle indagini preliminari contro ignoti e i loro controlli. - 6. I termini delle indagini preliminari contro persone note e i loro controlli. - 7. I termini delle determinazioni e i loro controlli. - 8. L’avocazione. - 9. L’archiviazione. - 10. La riapertura delle indagini.
1. Premessa a mo’ di conclusione
Anche se metodologicamente potrebbe sembrare un errore, illustrando le “novità” in tema di indagini preliminari, appare necessario aprire con una conclusione. L’inversione di metodo si giustifica perché se si analizzassero, una per una, tutte le nuove disposizioni, senza una visione d’insieme, ciascuna sembrerebbe andare verso una diversa direzione. Va allora prima individuato il sistema che si è voluto costruire e, alla luce di esso, va ricercato il senso e il significato delle parole utilizzate nelle singole disposizioni introdotte.
Ebbene, il legislatore si è mosso con un’unica idea: evitare la celebrazione dei processi. In quest’ottica vanno lette tutte le novità. In pratica, l’obiettivo non è la semplificazione dell’iter procedimentale del singolo processo, che, anzi, in alcuni casi è assai più complesso, ma piuttosto “l’abbattimento” del numero dei procedimenti.
E proprio sul tema delle indagini preliminari emerge chiaramente tale quadro: il legislatore invita, quasi ossessivamente, a non mettere in moto il procedimento processuale, o comunque, se avviato, a chiuderlo il prima possibile.
Si deve iscrivere di meno (come emerge dai nuovi parametri per l’iscrizione della notizia di reato oggettiva e soggettiva di cui all’art. 335, commi 1 e 1-bis, c.p.p.), si deve cestinare di più attraverso l’archiviazione anomala (alla luce della nuova definizione di notizia di reato oggettiva), si deve archiviare di più contro ignoti (in ragione della nuova definizione di notizia di reato soggettiva) ed entro i termini predeterminati (in ragione del nuovo assetto dei termini delle indagini), si deve archiviare di più nei confronti di persone note (in forza della nuova definizione della regola generale di archiviazione di cui all’art. 408 c.p.p.) e anche qui entro termini precisi (in ragione del nuovo assetto dei termini delle indagini e delle determinazioni), si deve archiviare di più in tema di particolare tenuità del fatto (per effetto dell’allargamento delle relative ipotesi contenute nell’art. 411 c.p.p.), si deve archiviare di più per estinzione del reato – con correlate sospensioni – per esito positivo della messa alla prova (stante l’allargamento delle relative ipotesi) o per adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo accertatore (si pensi all’introduzione di una nuova disciplina per i reati di igiene alimentare), si deve archiviare di più per mancanza di una condizione di procedibilità (considerando l’ampliamento dei reati perseguibili a querela), si deve archiviare di più per le nuove ipotesi tipizzate di remissione tacita di querela (introdotte in tema di giustizia riparativa).
Il tutto alla luce dei criteri di priorità, con i quali si permette di rinviare le indagini per un gran numero di procedimenti, in attesa che siano prima trattate le questioni più importanti.
Il mutato quadro normativo implica allora una serie di assestamenti conseguenziali, i quali inevitabilmente ricomprendono anche le norme rimaste invariate e, soprattutto, le prassi.
2. I criteri di priorità.
L’intervento culturalmente più significativo della riforma probabilmente va visto nell’introduzione dei “criteri di priorità per la trattazione delle notizie di reato e per l’esercizio dell’azione penale” (art. 3 disp. att. c.p.p. e art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 106/2006) [1].
Si è infatti andato ad incidere sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, baluardo sì del principio di legalità/uguaglianza in sede processuale, ma in via di fatto in perenne crisi a causa della sua concreta inesigibilità. L’azione rimane obbligatoria, così come immutato è l’obbligo di indagare, ma l’effettivo esercizio dei due connessi doveri viene modulato: le notizie di reato che presentano certe caratteristiche – individuate dai criteri di priorità - devono essere prese in carico, tanto per l’avvio dell’indagine quanto per la scelta sull’azione, con precedenza sulle altre. E tutto questo impone una seria riflessione sulla compatibilità con l’art. 112 Cost.
Ebbene, tutto il sistema delle priorità appare condizionato, nella sua effettiva “applicabilità”[2], dall’approvazione della legge del parlamento sui criteri generali (ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 106/2006). Ma la proverbiale lentezza del legislatore fa sorgere il dubbio che bisognerà attendere a lungo. Certo, la riforma del processo penale è nata dalla necessità di adeguarsi a quanto ci chiede l’Europa, nonché ad ottenere i fondi del PNRR, sicché si può anche pensare che la marcia di adeguamento non si fermerà.
Appare allora legittimo interrogarsi su come bisognerà comportarsi in assenza, o comunque in attesa, dell’intervento legislativo.
Bisogna partire dal presupposto che la disciplina previgente taceva sul punto; erano state piuttosto le famose circolari del C.S.M. a regolare la materia. Sicché in senso tecnico qui non si pone un problema di “ultrattività” del precedente assetto normativo[3], ma solo di “applicabilità sospesa” della nuova disciplina (ovverosia degli artt. 3 e 127-bis disp. att. c.p.p. e dell’art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs. 106/2006) in attesa dell’intervento normativo.
Si potrebbe allora ritenere che nella parte relativa alle priorità rimane a regime il vecchio sistema: possibilità – e non già obbligatorietà – dei progetti organizzativi di continuare a prevedere le priorità in virtù delle indicazioni del C.S.M. E sappiamo che in tutti i progetti organizzativi delle procure è ormai presente la regolamentazione delle priorità.
Occorre allora domandarsi in che modo - oggi, ma anche domani - le priorità agiscono e agiranno concretamente nell’ambito delle modifiche avvenute sulle indagini preliminari.
E da questo punto di vista si pongono due versanti di indagine: come trattare i reati non prioritari, in armonia con il principio di obbligatorietà; come garantire effettività alla trattazione prioritaria.
Dal primo punto di vista occorre capire il destino dei reati non prioritari, sul versante delle iscrizioni, così come su quello dei termini delle indagini e delle relative proroghe, nonché sulle scelte relative all’azione.
Sebbene si stia ipotizzando che per i reati non prioritari si dovrebbe imporre l’adozione di un provvedimento esplicito di sospensione della stessa iscrizione nei registri delle notizie di reato (collocandoli nel frattempo nel registro degli atti non costituenti notizia di reato), va decisamente esclusa questa possibilità: sarebbe in aperto contrasto con l’art. 112 della Cost.
Si deve piuttosto ritenere, da una parte, che la notitia criminis relativa a fattispecie non prioritarie vada del pari iscritta nei modelli 21 o 44, e, dall’altra parte, che comunque i termini delle indagini continuino a decorrere. Di conseguenza, anche per questi procedimenti dovranno prendersi le esplicite decisioni conclusive circa l’azione alla scadenza dei termini finali o entro i termini di determinazione se la notizia è stata già iscritta nel registro delle persone note.
“Priorità” vuol dire solo “precedenza”, la quale deve comunque intendersi riferita al contesto delle cadenze temporali previste, e il cui rispetto deve essere garantito indifferentemente. I reati non prioritari, quindi, non possono essere abbandonati a loro stessi, in attesa che si prescrivano, così che si precostituiscano le condizioni dell’archiviazione per avvenuta estinzione del reato. Questa, del resto, è una prassi già oggi pienamente affermata, ed è proprio alla sua eliminazione che è volta l’azione legislativa.
Invero anche i reati non prioritari devono essere, nel rispetto dei termini, oggetto di una decisione, nella quale chi ha interesse possa contraddire.
Sicché vedremo di volta in volta (infra, §. da 3 a 9) come nelle trame della nuova disciplina delle indagini si inserisce il trattamento di tali fattispecie non prioritarie, al fine di non violare l’obbligatorietà dell’azione penale.
Quanto al secondo tema di indagine, ossia quello dell’effettività delle priorità, occorre interrogarsi fin da ora su quanto sarà cogente il sistema delineato dalle riforme del 2022, una volta che entrerà a pieno regime con l’adozione della legge del parlamento e dei conseguenti progetti organizzativi. In pratica si tratta di capire se siano individuabili delle sanzioni, o comunque delle reazioni, da parte dell’ordinamento qualora non si rispetti l’ordine di precedenza nell’avvio delle indagini ovvero nell’esercizio dell’azione penale.
Va subito sottolineato però che l’inosservanza delle disposizioni relative alle priorità è configurabile solo nel caso in cui una notizia di reato non venga lavorata con precedenza, e non già nell’ipotesi contraria, in cui un reato non prioritario sia preso in carico senza attesa. L’affermazione trova la sua ragione nella formulazione dell’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 106/2006, nel quale si precisa che le notizie di reato prioritarie devono essere esaminate con precedenza rispetto ad altre. La violazione, dunque, riguarda solo il reato prioritario post-trattato. L’ipotesi contraria, al più, potrebbe configurarsi come indice sintomatico di una trasgressione, perché allora ci sarà un reato prioritario trascurato, e solo qui si anniderebbe l’eventuale invalidità.
Tale situazione, a prima vista, potrebbe sembrare una violazione relativa all’iniziativa del p.m. nell’esercizio dell’azione penale, ma invero è solo apparente la sussunzione della situazione nella nullità generale di cui all’art. 178, comma 1, lett. b), c.p.p. L’iniziativa riguarda le azioni non esercitate dal p.m., l’esercizio officioso dell’azione, e non già la mera inerzia.
Ma non solo, se anche si volesse sostenere che la materia attiene all’iniziativa del p.m., dal punto di vista strutturale non c’è un atto da annullare e poi reiterare conformemente al dettato normativo. Sicché il sistema di reazione che scaturisce dalla dichiarazione di nullità non avrebbe ragion d’essere.
Qui invero è necessario trovare dei meccanismi che consentano di dar corso al procedimento prioritario.
La materia allora va coordinata – per quanto riguarda le priorità nell’esercizio dell’azione - con tutto il nuovo sistema previsto dal legislatore nei casi in cui il p.m. non assuma le sue determinazioni entro i termini previsti dal nuovo art. 407-bis, comma 2, c.p.p.
In tali ipotesi si è costruito un complesso sistema di “messa in mora”, che trova il suo apice nella richiesta dell’indagato e della persona offesa rivolta al giudice di ordinare al p.m. di determinarsi (ex artt. 415-bis, comma 5-quater, e 415-ter, comma 3, c.p.p.). In tal modo tanto l’indagato, quanto soprattutto l’offeso, potranno reclamare il rispetto anche – se pur non solo - delle priorità.
In merito invece all’inerzia investigativa su un reato prioritario, la forma di reazione dell’ordinamento va trovata nel procedimento di archiviazione. L’opposizione della parte offesa per inerzia investigativa è la sede elettiva per lamentarsi della mancata indagine su un reato prioritario. Senza contare che in sede di udienza di archiviazione il giudice anche d’ufficio, con l’ordine di indagare, può stimolare il supplemento investigativo su un reato prioritario.
Ma l’aspetto più significativo di tutela delle priorità (tanto di quelle investigative quanto di quelle sull’azione) si rinviene nella nuova disciplina dell’avocazione (ex art. 412 c.p.p.), la quale a sua volta si inserisce – anche se non solo - nell’ambito del procedimento di messa in mora del p.m. che non si determini (ex artt. 415-bis c.p.p. e 415-ter c.p.p.).
Per le priorità nell’azione, l’avocazione può infatti essere disposta in tutti i plurimi casi in cui (e vedremo che non sono pochi) si verifichi un’inerzia sulle determinazioni conclusive delle indagini; e, inoltre, in tutte le ipotesi in cui vi sia inerzia sull’adempimento prodromico all’azione, ovverosia quello relativo all’ostensione degli atti (infra §. 7 e 8).
Ma anche rispetto alla violazione delle priorità investigative, l’avocazione costituisce uno strumento utile. Se viene aperta l’udienza di archiviazione, il Procuratore generale può sostituirsi al pubblico ministero e far valere la necessità di indagare sul reato prioritario.
Non è allora casuale che il legislatore abbia esplicitamente fatto menzione dei criteri di priorità nella disciplina dell’avocazione (ex il nuovo art. 127-bis. disp. att. c.p.p.): si è così introdotto un sistema di controllo gerarchico sui criteri di priorità, di tipo eventuale e di carattere sostitutivo. In definitiva i reati prioritari andrebbero avocati con priorità rispetto ai non prioritari, ferma restando la facoltatività dell’avocazione.
Probabilmente questo nuovo sistema dovrà pregiudizialmente fare i conti con il quadro costituzionale.
È palese che i criteri si pongano in maniera assai problematica rispetto all’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale; ed anche la selezione delle “reali” priorità è in grado di suscitare seri attriti con l’art. 3 Cost.
Occorre allora capire come la Corte costituzionale possa essere investita di un eventuale sindacato di legittimità costituzionale.
A ben vedere, però, assai difficilmente si potrebbe configurare la possibilità di sollevare un giudizio incidentale. Il problema risiede nel fatto che, almeno prima facie, non appare individuabile una sede processuale nella quale la questione possa essere sollevata o qualificata come “rilevante”.
Se già pregiudizialmente non è configurabile una nullità (o altra sanzione processuale) rispetto al mancato rispetto della disciplina delle priorità, a maggior ragione, viene a mancare la tipica sede processuale nella quale avviare l’incidente di costituzionalità.
Si potrebbe poi discutere se la sede per sollevare la questione possa individuarsi nell’ambito del procedimento per messa in mora del p.m. ritardatario nelle determinazioni circa l’azione (ovvero se si tratti di un “giudizio” di fronte ad un “giudice”[4]). Ma non vale la pena scioglier il nodo, perché in tali contesti la questione sarebbe comunque irrilevante: le norme da applicare non contengono alcun riferimento ai criteri di priorità, sicché non sarebbe applicabile nel processo a quo la disciplina che si vuole sindacare sotto il profilo della compatibilità costituzionale[5]. E la medesima conclusione – ovverosia l’assenza di rilevanza – va tratta rispetto il procedimento di archiviazione.
Invero l’unica strada possibile, per evitare un cortocircuito normativo in cui una legge del parlamento sia insindacabile dalla Corte costituzionale, è quella di prevedere la possibilità di esercitare un conflitto di attribuzioni.
Il procuratore della repubblica è il titolare dell’azione penale obbligatoria, e in tale veste – come ci ha spiegato la Corte costituzionale[6] - è legittimato a sollevare un conflitto di attribuzioni per tutelare le sue prerogative costituzionali in merito, proprio, all’azione. Analoga conclusione può trarsi poi rispetto al procuratore generale presso la corte d’appello, ma solo dopo che abbia avocato il procedimento ai sensi dell’art. 412 c.p.p. e di conseguenza sia investito delle scelte relative all’azione.
Ebbene: la legge del parlamento che regolerà i criteri generali delle priorità ben potrebbe incidere sulle attribuzioni del p.m., nel “modo” e nella “misura” in cui interferisca sull’obbligo dell’azione in violazione degli artt. 112 e 3 Cost.
E la Corte costituzionale ormai da tempo ha ritenuto che il conflitto di attribuzioni possa avere ad oggetto una legge, a condizione però che non sia configurabile una sede incidentale in cui far valere la questione[7]. Ma non solo: in tali contesti – in assenza di un atto – è consentita la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge che lede le prerogative dell’organo, producendone così l’annullamento in analogia a quanto avviene nel giudizio incidentale.
Si può poi discutere se la legittimazione a sollevare il conflitto di attribuzioni competa solo al procuratore della repubblica e al procuratore generale, o, invece, anche ad ogni p.m. La soluzione dipende ancora una volta da una pregiudiziale: è necessario prima capire se con la riforma si è configurata una “titolarità esclusiva” dell’azione penale in capo al procuratore capo, o, al contrario, una “titolarità diffusa” in capo a ogni singolo p.m.
3. L’iscrizione della notizia di reato.
Si è dunque codificato ciò che fino a ieri era lasciato alla determinazione dell’interprete e della prassi[8].
I commi 1 e 1-bis dell’art. 335 c.p.p. indicano le condizioni affinché le notizie di reato possano essere iscritte nei relativi registri: se contengano la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi ad una fattispecie incriminatrice (per il modello 44); se risultino indizi a carico di una persona (per il modello 21)[9].
Guardando alla nozione oggi ricavabile dall’art. 335 c.p.p. di notizia di reato oggettiva, la tentazione sarebbe di affermare che nulla sia cambiato: anche ieri non si potevano iscrivere fatti inverosimili, indeterminati e non riconducibili ad una fattispecie di reato, sarebbe stato certo un abuso.
Ma alle tentazioni occorre resistere e affermare, al contrario, che si è alzata la soglia dell’iscrizione oggettiva: il legislatore sta invitando con forza a “cestinare” tutte quelle notizie nelle quali non sia già descritta una “pre-imputazione” vera e propria.
Se ieri si riteneva che nella notizia fosse sufficiente l’indicazione anche dei soli elementi nucleari del reato (condotta e/o evento) [10], oggi appare necessario – proprio a causa della parola “fatto” inserita nell’art. 335 c.p.p. - descrivere tutti gli elementi fattuali richiesti da una fattispecie astratta: condotta, evento, nesso causale, presupposti e modalità della condotta[11].
Fatti “acefali”, in cui emerga solo un frammento della fattispecie incriminatrice non possono più essere iscritti. Occorre quindi descrivere, per esempio, la finalità del profitto o la modalità abusiva della condotta, o quella violativa di norma di legge, o ancora, il metodo mafioso, e così dicendo per tutti gli elementi fattuali che denotano e connotano il nucleo essenziale del reato. Questo vorrà dire che probabilmente si iscriveranno più notizie relative alla fattispecie di reato “generale” piuttosto che alla corrispondente fattispecie di reato “speciale” (corruzione per l’esercizio della funzione piuttosto che la corruzione propria), e, di conseguenza, potrebbero aumentare i casi in cui sarà necessario aggiornare la notizia di reato[12]. Ma, al contrario, potrebbe assistersi ad una diminuzione degli aggiornamenti rispetto agli elementi fattuali non specializzanti[13].
Insomma, se va confermato che il termine “fatto” all’interno del codice è usato dal legislatore in più significati (ai fini, per esempio, del contenuto dell’imputazione, o delle modifiche dell’imputazione), si deve ritenere che in tale contesto esso valga ad indicare tutti gli elementi del “fatto tipico” descritti in una fattispecie incriminatrice, allo stesso modo in cui è stato inteso dalla Corte Costituzionale in riferimento al divieto di un secondo giudizio, ex art. 649 c.p.p.[14]
Ma non solo, viene così confermato che i fatti esposti nella notizia devono già corrispondere di per sé agli elementi astratti del reato. Fatti che solo in via inferenziale e indiretta riportano ad una fattispecie incriminatrice vanno ora sicuramente cestinati, come ad esempio tutte le descrizioni di fatti che secondo l’id quod prelunque accidit sono solo indici sintomatici – anche se ad altissima valenza - della commissione di un reato (il c.d. sospetto che sia stato commesso un reato).
In merito alla non inverosimiglianza e alla determinatezza, invece, sembrerebbe che il legislatore stia sollecitando ad escludere dall’iscrizione tutti i fatti che “non hanno l’apparenza di essere veri e reali”. Ma la “non apparenza al vero” dipende dalla descrizione dei fatti, che non a caso devono essere determinati. Probabilmente i due requisiti vanno letti insieme: è l’analiticità che consente di valutare la non inverosimiglianza. La determinatezza, quindi, dovrebbe essere intesa come necessità di caratterizzare i fatti che si affermano avvenuti. Senza dubbio, quindi, non può essere considerata notizia di reato una proposizione referenziale che, nella sua formulazione, risulti corrispondente alla proposizione legislativa: è il caso, ad esempio, dell’informazione che si limiti semplicemente ad affermare che “qualcuno ha cagionato la morte di un uomo”, o che “qualcuno si è impossessato di una cosa mobile altrui sottraendola a chi la deteneva”. Ma la determinatezza impone di superare il più possibile tale soglia, in quanto è necessario raggiungere un livello che permetta una valutazione concreta, e non già solo astratta, sulla apparente realtà del fatto. È sempre possibile, astrattamente, che qualcuno abbia rubato, ma concretamente i fatti descritti devono apparire come realmente avvenuti. Non si tratta però di escludere solo i fatti “assurdi” o “abnormi”, ovverosia di impossibile verificazione, ma anche quelli che, proprio per mancanza di determinazione, non appaiono come realmente avvenuti. È, insomma, necessario un racconto.
E qui si tratta di operare una valutazione solo in fatto, che però ha ad oggetto la rappresentazione: i “fatti rappresentati” devono essere determinati e verosimili, e non già i “fatti reali”. La verosimiglianza non è una soglia probatoria da raggiungere prima dell’iscrizione, ma un carattere dell’affermazione, della narrazione. Da questo punto di vista, allora, nulla è cambiato rispetto al passato: la notizia di reato oggettiva continua ad essere un’informazione “nuda”; non richiede la presenza di elementi investigativi volti a dimostrare che non è inverosimile che il fatto sussista e costituisca reato, perché è sufficiente che il fatto narrato appaia come sussistente e costituente reato[15]. Non sembra, insomma, che il legislatore abbia abiurato alla scelta fatta con l’adozione del Codice Vassalli: la verifica processuale inizia dopo l’iscrizione e non già prima.
E sotto tale profilo è emblematico l’inserimento nell’art. 335 c.p.p. del sintagma “in ipotesi”. Si tratta del giudizio conclusivo cui è chiamato il p.m. nel momento in cui iscrive: i fatti rappresentati, se fossero in ipotesi veri, sarebbero “previsti dalla legge come reato”, e su questa ipotesi di lavoro si apriranno le indagini preliminari[16].
In definitiva, la notizia di reato è, come nel passato, “l’ipotesi” su cui si indagherà, che diventerà “tesi” qualora fosse formulata l’imputazione, e che diventerà - dopo la “critica” dibattimentale - “verità” con la sentenza, secondo l’attuale accezione relativistica e scientifica del concetto di verità[17]. Ma si tratta ora di un’ipotesi ben strutturata.
Dal punto di vista della notizia di reato soggettiva, invece, la novità appare assai più evidente: non è più sufficiente che il nome del possibile responsabile sia indicato o sia comunque identificato, occorre piuttosto che risultino degli indizi a suo carico. In pratica oggi è consentito ciò che ieri appariva vietato: direzionare l’indagine verso un sospettato ben identificato, senza che sia necessaria la previa iscrizione soggettiva, perché quest’ultimo adempimento presuppone che già risulti un quadro probatorio indiziario[18]. L’iscrizione, quindi, impone una valutazione dei risultati investigativi: sono gli esiti dei singoli atti di indagine che consentono, ad un certo momento, di procedere all’iscrizione. Viene dunque invertito il meccanismo rispetto al passato: prima si indaga e solo dopo si iscrive, e non più il contrario.
In particolare, il legislatore si è servito della regola giurisprudenziale utilizzata per sindacare la qualifica del dichiarante nell’art. 63 c.p.p.
In via generale si può subito osservare che la soglia probatoria da raggiungere si pone a metà strada fra il sospetto e i gravi indizi: sono necessari degli indizi - e non dei meri sospetti - ma gli indizi non devono ancora essere gravi.
Si tratta di una soglia sicuramente “vaga”: il passaggio dalla categoria più bassa (il sospetto) a quella intermedia (gli indizi) a quella alta (i gravi indizi) non è individuabile con precisione ed oggettivamente: ma questa è proprio la caratteristica dei termini vaghi[19]. Non a caso tale aspetto di vaghezza si riflette – e poi lo vedremo meglio - sul controllo che è chiamato a fare il giudice: la retrodatazione dell’iscrizione presuppone una inequivocità del ritardo, ovverosia che con certezza si sia passati dalla soglia più bassa a quelle più alta, o addirittura alla successiva. Nella progressione è proprio la soglia intermedia ad essere in assoluto – obiettivamente - incerta, rispetto alle altre due, e - ancor di più - alle ipotesi concrete che si pongono al confine fra l’una e le altre due[20].
La conseguenza più vistosa di tale mutamento di prospettiva è l’allargamento delle ipotesi in cui si deve iscrivere nel registro delle notizie di reato contro ignoti e - a cascata - l’allargamento dei casi di archiviazione contro ignoti.
In conclusione, finché si indaga su un mero sospettato, la notizia di reato è ancora oggettiva, e dunque va lasciata nel registro delle notizie di reato contro ignoti. Scaduti poi i primi sei mesi di indagine, di fronte a dei meri sospetti, si può o chiedere l’archiviazione per essere rimasto ignoto l’autore del reato, o, in alternativa, la proroga delle indagini.
Alla luce di tale inedito quadro occorre fare delle riflessioni di sistema, soprattutto in relazione alle prassi codificate nelle circolari e nei progetti organizzativi delle Procure, nonché nelle circolari e delibere del C.S.M., che probabilmente andranno riviste. E appare opportuno a tal fine distinguere fra notizie di reato tipiche e atipiche.
Rispetto le notizie di reato tipiche, si configureranno degli “oneri” aggiuntivi in capo a chi le presenta.
I difensori che eventualmente cureranno per una parte offesa una querela, o anche eventualmente una denuncia, dovranno con molta più precisione descrivere i fatti che portano all’attenzione degli organi investiganti. E lo stesso si può dire per i titolari dell’obbligo di referto o comunque di denuncia. Il rischio altrimenti è l’auto-archiviazione delle comunicazioni. Senza contare che rimane ferma la possibilità di presentare già, insieme alla notizia di reato, elementi a conferma di quanto segnalato.
Occorre poi capire quale sia il protocollo da seguire se una denuncia o una querela - ma fermiamoci ora alla notizia di reato in cui non è indicato alcun autore – non sia dotata dei requisiti richiesti dalla legge ai fini dell’iscrizione. Di fronte ad una notizia di reato qualificata, idonea soltanto a far sorgere il sospetto che un reato sia stato commesso, perché acefala o non troppo determinata, o contenente la descrizione di fatti solo indirettamente sussumibili sotto una fattispecie incriminatrice, nascono vari dubbi.
Se la notizia di reato ancora non iscrivibile viene presentata alla polizia giudiziaria, è incerto se permanga il dovere di trasmetterla al p.m. E, di conseguenza, occorre chiedersi se sia stato spostato il confine fra gli atti di indagine compiuti ex art. 347 c.p.p. (ovverosia dopo che sia acquisita una notizia di reato e prima che sia trasmessa al pubblico ministero) e i c.d. atti pre-investigativi – non regolati dalla legge - compiuti al fine di formare una notizia di reato iscrivibile[21].
Sono temi discussi da sempre. Si potrebbe infatti affermare - senza mai errare - tutto e il contrario di tutto:
- che la notizia tipica priva dei caratteri richiesti dal 335 c.p.p. vada cestinata direttamente dalla polizia giudiziaria, non costituendo informazione da trasmettere al p.m.;
- che non sia possibile procedere all’immediata cestinazione, ma che sia comunque necessario per la polizia giudiziaria verificare preliminarmente se l’informazione tipica acquisita in realtà nasconda una notizia di reato vera e propria, cosicché solo all’esito della verifica si imporrebbe la trasmissione al p.m., o addirittura solo in caso di esito positivo della stessa.
- che vada trasmessa al p.m. senza nessun approfondimento, né investigativo, né pre-investigativo. E in questo ultimo caso occorre chiedersi ancora se il titolare delle indagini debba subito inviarla all’archivio della procura, o possa decidere lui se sottoporla ad una verifica preliminare, ad una pre-inchiesta, che porterà all’iscrizione o alla cestinazione.
Dubbio, quest’ultimo, che riguarda anche le notizie di reato tipiche, sempre non iscrivibili, che vengono acquisite direttamente dal p.m., senza il tramite della polizia giudiziaria.
Invero per le notizie di reato tipiche prive dei caratteri di cui all’art. 335 c.p.p. sembrerebbe che debba rimanere ferma la regola secondo cui è il p.m. a dover valutare se iscriverle o meno ai sensi dell’art. 109 disp. att. c.p.p.: la polizia giudiziaria non può dunque cestinarle, attraverso la non informazione al p.m. Eppure, sembra che le prime circolari delle procure stiano andando in una direzione contraria, ovviamente giustificata dalla difficoltà oggettiva di gestire le enormi masse di notizie di reato tipiche che vengono trasmesse. Si stanno infatti esortando gli uffici di p.g. a trasmettere solo notizie di reato ben determinate e già provviste di un solido quadro investigativo.
Invero andrebbe coltivata una diversa e nuova prospettiva. Per esempio, immaginando un’informativa cumulativa, nella quale la p.g. trasmetta alla procura tutte quelle notizie di reato tipiche, che non presentino i requisiti richiesti dal nuovo art. 335 c.p.p. ai fini dell’iscrizione. Senza dunque che vengano svolte né pre-investigazioni, né indagini preliminari vere e proprie. Ferma restando poi la facoltà del pubblico ministero di individuare quelle che ritiene meritevoli di approfondimento, attraverso una pre-inchiesta, delegata o meno, finalizzata ad una scelta più ponderata fra iscrizione o auto-archiviazione[22]. Va invece escluso con forza che in tal caso possano essere compiuti già atti investigativi a tutti gli effetti.
Certo è che se già rispetto alle notizie di reato iscritte operano (ora in via facoltativa, nel futuro con la legge che dovrà essere approvata dal parlamento in via obbligatoria) criteri di priorità per indagare, occorre domandarsi se sia coerente un sistema che, da un lato, inviti a tralasciare l’indagine di una notizia iscritta ma non prioritaria e, dall’altro, consenta di verificare – tramite una pre-inchiesta - se una denuncia non costituente ancora una notizia di reato possa arrivare alla soglia dell’iscrizione.
La conseguenza dovrebbe essere quella di sottoporre la scelta di aprire una eventuale pre-inchiesta sulla notizia di reato tipica, ma non iscrivibile ai sensi dell’art. 335 c.p.p., quantomeno alle stesse priorità investigative delle notizie di reato, se non addirittura a “priorità pre-investigative” ancora più selettive.
E la stessa considerazione può estendersi alla presa di iniziativa delle notizie di reato.
In riferimento alla c.d. ricerca delle notizie di reato, per esempio, se un’intercettazione preventiva informa sulla commissione di un reato, rimane doverosa la pre-inchiesta, così come se la notizia sia trasmessa dai sevizi di informazione. E lo stesso può predicarsi per le morti sospette: si tratta di notizie relative per lo più a reati prioritari. Ma le medesime riflessioni si possono fare per la ricerca della notizia di reato che trova la sua fonte in qualunque altra informazione: occorrerà solo verificare la priorità o meno del fatto. E questo dovrebbe valere tanto per una generica inchiesta giornalistica, quanto per una denuncia anonima, tanto per una notizia appresa da un informatore di polizia, quanto per quella appresa a seguito di un colloquio investigativo eseguito da organi di polizia giudiziaria, o per notizie acquisite durante lo svolgimento di attività amministrative di tipo ispettivo, o rispetto a quelle comunicate per legge al p.m. (sentenze di fallimento, nuove procedure regolate dal codice della crisi d’impresa, attività bancarie o finanziarie sospette). In tutti i modi in cui una pre-notizia di reato arriverà al p.m. o alla polizia, non muta l’esigenza di una eventuale pre-inchiesta per ciò che dovrebbe diventare una notizia di reato prioritaria.
In riferimento invece alle notizie di reato atipiche che consentono invece un’immediata iscrizione, nulla muta, se non che, essendosi alzata la soglia dell’iscrizione, si è allargata la categoria delle pre-notizie di reato che richiedono – per arrivare all’iscrizione - una pre-investigazione e, di contro, si è ridotta la categoria delle notizie di reato atipiche già formate e immediatamente iscrivibili.
In pratica, perquisizioni preventive, indagini e acquisizioni provenienti dal procedimento di prevenzione antimafia, atti di indagine e prove acquisite in altri procedimenti, inchieste giornalistiche specifiche e determinate, notizie di reato raccolte dai collaboratori di giustizia o durante i colloqui investigativi svolti dal procuratore antimafia continuano ad essere notizie di reato, a condizione però che superino la soglia oggi pretesa dal legislatore: dunque, si impone una più accurata ponderazione del contenuto di tali atti.
Rispetto invece all’iscrizione nel registro delle notizie di reato contro persone note, appare in qualche modo semplificato il sistema.
Da una parte, richiedendosi indizi, appare quasi scontato che ci saranno meno occasioni di coincidenza fra l’apprensione della notizia di reato oggettiva e soggettiva.
Dall’altra, e di conseguenza, ben difficilmente si verificherà l’esigenza di una pre-investigazione soggettivamente indirizzata, che anzi a questo punto andrebbe in assoluto esclusa.
Infine, probabilmente si allargheranno di molto i numeri delle archiviazioni per essere rimasto ignoto l’autore del reato.
Dal punto di vista operativo, poi, si dovrà con maggiore attenzione verificare il passaggio da un mero sospetto all’indizio, attraverso un’attenta lettura degli atti investigativi compiuti. Va evitato da subito che possa intervenire un provvedimento di retrodatazione.
In conclusione, se si guarda all’obiettivo generale che si vuole realizzare, - iscrivere meno procedimenti – si dovrebbero modificare i documenti organizzativi del C.S.M. e delle singole procure.
Vi dovrebbe essere un invito rivolto ai p.m. e alla polizia giudiziaria: su tutte le notizie di reato relative a “reati non prioritari” che non raggiungono la soglia dell’iscrizione non deve essere svolta alcuna verifica preliminare.
Dovrebbe poi rimanere ferma la prassi, per i “reati prioritari”, di svolgere la pre-investigazione rispetto a quelle informazioni - tipiche o atipiche – che non raggiugano la soglia dell’iscrizione oggettiva, al fine di verificare se possa invece essere raggiunta.
Parallelamente a ciò dovrebbe essere inserito un ulteriore invito rivolto alla polizia giudiziaria: di svolgere gli atti investigativi veri e propri nel periodo che va dalla acquisizione della notizia di reato alla sua trasmissione al p.m. ex art. 347 c.p.p. , solo nei casi in cui la notizia di reato relativa a un reato prioritario già presenti – senza dubbio - i caratteri per procedere all’iscrizione, ribadendo che in tal caso possano essere compiuti atti soggettivamente indirizzati, sia ai fini della mera identificazione, sia, se necessario, ai fini della eventuale responsabilità.
Si dovrebbe poi sottolineare il dovere in capo al p.m. di far decorrere la data dell’iscrizione dal primo atto investigativo vero e proprio compiuto dalla p.g. prima della formale iscrizione.
Infine, si dovrebbe sottolineare la possibilità per il p.m. di cestinare le notizie – tipiche o atipiche - che, se pur oggetto di iniziale indagine preliminare vera e propria da parte della polizia di sua iniziativa ex art. 347 c.p.p., non siano considerate – a differenza di quanto ha ritenuto la polizia giudiziaria - notizia di reato iscrivibili ai sensi dell’art. 335 c.p.p.
4. Il controllo sulla correttezza delle iscrizioni
Alla fine si è introdotto ciò che da anni si reclamava: il sindacato sulle date di iscrizione nei registri delle notizie di reato[23].
Ed è questa la ragione fondamentale per la quale il legislatore ha individuato i parametri che devono guidare le iscrizioni sui registri nell’art. 335 c.p.p.: se si introduce un controllo, è necessario fornire le regole su cui effettuarlo, altrimenti all’ampia discrezionalità del p.m., si sarebbe solo sostituita quella del giudice[24].
Si è al cospetto di un sistema virtuoso, che ha guardato più in là della tanto attesa facoltà da parte dell’indagato di reclamare la retrodatazione dei termini della sua indagine: si è infatti còlta l’occasione per costruire un sistema più ampio, in cui il controllo sulle iscrizioni viene diversificato per contenuto, per legittimazione attiva e per momenti processuali di intervento[25].
Quanto al contenuto, va distinto il controllo sulla mancata iscrizione soggettiva (che porterà alla c.d. iscrizione coatta), dal sindacato sulla data di effettiva iscrizione oggettiva e soggettiva (che porterà alla retrodatazione di iscrizioni già avvenute).
Quanto ad iniziativa, l’omissione dell’iscrizione soggettiva è attribuita alla sola iniziativa officiosa del g.i.p., mentre il sindacato sulle date di iscrizione viene costruito come un’eccezione dell’indagato o dell’imputato rivolta al giudice procedente. Al p.m., invece, è lasciato solo un intervento autocorrettivo sulle date di iscrizione, con il quale si cerca di prevenire l’eccezione di parte[26].
Quanto al momento di intervento, il g.i.p. può ordinare l’iscrizione soggettiva tanto nella fase delle indagini contro ignoti, quanto in quella contro persone note, compresi i relativi procedimenti di archiviazione; di contro la persona indagata può – necessariamente - chiedere il sindacato soltanto dal momento in cui diviene indagato, ma anche dopo in qualità di imputato. Da parte sua, il p.m. può autocorreggersi solo al momento della prima iscrizione, tanto oggettiva quanto soggettiva.
Venendo più nel dettaglio, in merito all’art. 335-ter c.p.p. si è al cospetto di una inedita ipotesi di iscrizione soggettiva coatta “diffusa”[27]. Il giudice per le indagini può ordinare al p.m. di iscrivere il nominativo di un indagato quando sia investito di una qualunque decisione riservata alla sua competenza. In pratica, il giudice può imporre l’iscrizione durante lo svolgimento sia delle indagini contro ignoti, sia contro noti, individuando in questo secondo caso ulteriori indagati.
Tale forma di controllo troverà nelle procedure di richiesta di proroga delle indagini contro ignoti o nella corrispondente archiviazione – nella quale era già prevista - la sua sede elettiva; probabilmente tale momento procedimentale – rispetto al passato - sarà destinato a decollare, molto più di quanto sia successo fino ad oggi e lo vedremo (§. 5).
Per il resto la disposizione – nei procedimenti contro ignoti – potrebbe permettere l’iscrizione coattiva qualora sia stata richiesta un’intercettazione o un controllo sui tabulati telefonici.
Per i procedimenti contro persone note, invece, è immaginabile un assai più ampio ricorso: l’ordine di iscrivere ulteriori indagati potrebbe normalmente nascere tanto da una richiesta cautelare, quanto da un interrogatorio di garanzia; tanto da una richiesta di intercettazione, quanto da quella volta all’acquisizione dei dati esterni alle comunicazioni; ma, soprattutto, in sede di proroga delle indagini e di archiviazione, ipotesi, quest’ultima già praticata diffusamente. Va invece per lo più escluso che da una convalida di una misura pre-cautelare, o da una richiesta di incidente probatorio, il giudice possa trarre le informazioni necessarie per individuare altri indagati, sebbene non sia normativamente escluso.
Va infatti ricordato che per procedere all’ordine di iscrizione soggettiva al giudice deve palesarsi che vi siano indizi nei confronti della persona. Qui il sindacato dipende dal materiale che il giudice è chiamato a valutare per prendere la decisione di cui è investito: potrebbero essere tutti gli atti fino a quel momento raccolti, ma anche solamente una loro selezione[28]. Probabilmente è questo il motivo per cui è previsto, da un lato, che il p.m., quando presenta una richiesta al g.i.p. deve sempre indicare i reati e i nominativi completi dei vari indagati (ex art. 110-ter disp. att. c.p.p.), e, dall’altro, che l’ordine di iscrizione del giudice ai sensi dell’art. 335-ter c.p.p. sia preceduto dall’interlocuzione con il p.m.[29]
Va poi escluso che in tale sede si possa valutare se la mancata iscrizione sia giustificata o inequivocabile, in analogia con quanto previsto per il sindacato sulla retrodatazione. Qui la norma tace: l’omissione non entra quindi nella fattispecie, imponendo un accertamento volto a verificarne le ragioni e i caratteri, a differenza di quanto accade per il ritardo ai fini della correzione della data di iscrizione.
Non a caso il g.i.p. d’ufficio può ordinare solo l’iscrizione soggettiva, e non già la data da cui essa inizia a decorrere: tale scelta verrà fatta dal p.m. nel momento in cui gli venga ordinata l’iscrizione e solo dopo potrà essere sindacata, attraverso l’eccezione di parte volta alla retrodatazione, allo stesso modo di quando iscriva di sua iniziativa.
Al p.m. però è concessa una facoltà: può indicare una data precedente a far corso della quale si intende iscritta la notizia. È un potere esercitabile ogni volta che egli procede alla prima iscrizione (tanto oggettiva, quanto soggettiva; tanto spontanea, quanto coattiva), volto a prevenire a monte le eccezioni sulla retrodatazione, sebbene anche l’intervento autocorrettivo sia sindacabile con la successiva eccezione di parte.
Le ragioni sono ovvie e varie: il p.m. valuta meglio l’esistenza degli indizi, magari nel momento di passaggio fra l’iscrizione da un modello all’altro; si rende conto che un reato ulteriore – per lo più connesso o collegato - già emergeva agli atti; si accorge che la polizia giudiziaria ha compiuto una serie di rilevanti attività investigative prima della trasmissione dell’informativa; ma si possono immaginare le più svariate ragioni.
È escluso invece che possa essere compiuta un’auto-correzione in un momento successivo alla prima iscrizione, attraverso una sorta di retrodatazione in itinere. Durante lo svolgimento di un’inchiesta al p.m. è solo consentito di procedere a nuove iscrizioni. La ragione va ricercata nella necessità di non rendere la data di inizio delle indagini (tanto oggettive, quanto soggettive) troppo fluida e incerta: e così sarebbe inevitabilmente se il p.m. in ogni momento potesse correggersi.
Invero solo alla persona indagata – o imputata - spetta di avviare la procedura che porterà, se accolta, a modificare la data di decorrenza dei termini delle indagini durante l’iter procedimentale; di contro, solo in tale contesto, il giudice potrà indicare, in accoglimento dell’istanza, la data dalla quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.
A tal fine, l’art. 335- quater c.p.p. regola un vero e proprio procedimento, invero assai complesso[30].
La richiesta, a pena di inammissibilità, deve indicare le ragioni e gli atti su cui si fonda: il requisito richiama palesemente la giurisprudenza sui ricorsi autosufficienti. Non spetterà dunque al giudice verificare la consistenza di tutto il quadro investigativo raggiunto nel momento in cui viene fatta la richiesta, ma dovrà limitarsi agli atti indicati dall’istante, così che non è da escludere – proprio in analogia con i principi giurisprudenziali sui ricorsi autosufficienti – che sarà richiesta anche la “produzione” degli stessi[31].
Bisognerà dunque individuare gli “specifici indizi” a carico della persona poi indagata, emersi precedentemente alla data in cui è avvenuta l’iscrizione soggettiva. Si richiederà quindi la comparazione fra gli atti investigativi compiuti, perché occorrerà ricostruire lo sviluppo investigativo, al fine di individuare il momento di passaggio fra il mero sospetto e gli indizi specifici.
Il giudice, di contro, potrà pronunciare la retrodatazione solo in assenza di una causa di giustificazione[32], e in mancanza di equivocità del ritardo[33]. Si tratta di presupposti che evocano assai la terminologia penalistica.
Il primo requisito farà sì che la retrodatazione non potrà essere ordinata per la presenza di contrapposti interessi tutelati da parte dell’ordinamento, come, ad esempio, la necessità di mantenere ancora riservata l’indagine dal punto di vista soggettivo, perché in corso operazioni sotto copertura, o, più in generale, perché ricorrono le condizioni che oggi giustificano una richiesta di posticipazione della discovery ai sensi degli artt. 415-bis e 415-ter c.p.p.: pericolo di vita, sicurezza pubblica, o svolgimento di particolari attività investigative che sarebbero frustate anche dalla semplice iscrizione tempestiva.
Il secondo requisito, invece, determinerà la necessità di accertare, ai fini dell’ordine di iscrizione, un ritardo evidente: si pensi, per esempio, al caso in cui si stiano svolgendo inchieste particolarmente complesse, con pluralità di persone coinvolte; così che, se a posteriori è possibile con chiarezza individuare il passaggio fra il sospetto e l’indizio, a priori tale operazione risulta impraticabile. Si potrebbe ritenere che qui venga in rilievo una valutazione che richiama una sorta di mancata colpevolezza, non psicologica però, ma fattuale, che si concretizza in un giudizio “ora per allora”, come avviene per il delitto tentato di cui all’art. 56 c.p. Più in generale, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto risolvere la difficoltà obiettiva di individuare con precisione il momento in cui emergano degli indizi. L’idea insomma è di evitare troppe questioni sul punto, semplificando l’accertamento: in questa prospettiva, va individuato il momento in cui non è più controversa la consistenza probatoria nei confronti dell’indagato.
Si tratta di due requisiti che dal punto di vista degli oneri probatori sembrerebbero – per come è costruita la disposizione - degli “elementi negativi” della fattispecie “ritardo”, così che spetterebbe all’indagato il relativo onere, con conseguenziale necessità di fornirne la piena prova: nel dubbio o nell’assenza di prova, la retrodatazione non può essere concessa.
Ma ricostruita in questi termini, la fattispecie rischia di dar luogo ad una probatio diabolica, soprattutto per il profilo che attiene alla mancata giustificazione: è noto, del resto, che il riparto dell’onere probatorio debba basarsi altresì sulla vicinanza della prova. Il problema può essere risolto allora ricorrendo alla giurisprudenza sulle cause di illiceità speciali: spetta qui al p.m. allegare la giustificazione[34]. Si tratta però di un semplice onere di allegazione dei motivi non conosciuti né conoscibili dal giudicante, né dalla persona indagata, sicché non potrà essere ordinata la retrodatazione in presenza di un mero principio di prova o di una prova incompleta; di contro, dovrà essere ordinata la retrodatazione in difetto assoluto di prova sull’assenza di giustificazione oltre che in presenza prova contraria[35].
Un requisito aggiuntivo poi è previsto nella sola ipotesi in cui la questione sia sollevata durante un incidente che si apre nel corso delle indagini, qui è infatti richiesta la rilevanza della questione, nel senso che la retrodatazione deve essere elemento che concorre alla decisione. L’idea sottesa, probabilmente, va individuata nella volontà di non appesantire le decisioni con questioni che esulano dal tema. In quest’ottica, certamente, il requisito della “rilevanza” è soddisfatto se la retrodatazione è finalizzata a far valere l’inutilizzabilità di atti che devono essere utilizzati per la decisione richiesta (come, ad esempio, per le misure cautelari). Si può poi ipotizzare una diversa “rilevanza” per l’incidente probatorio, laddove la retrodatazione incida sulla qualifica che riveste la persona che si vuole sentire (quella di testimone o quella di parte). Ma, ancora, la questione è “rilevante” in sede di richiesta di proroga delle indagini, ai sensi dell’art. 406 c.p.p.: ben potendo il giudice negare la proroga se gli ulteriori termini che si chiedono sono stati già impiegati ritardando l’iscrizione soggettiva.
A pena di inammissibilità, è poi previsto un termine di venti giorni da quando si è venuti a conoscenza degli atti investigativi che giustificano l’istanza. La ragione è chiara: da una parte, il ritardo presuppone una relazione rispetto alla sequenza delle attività (di per sé un singolo atto non ci può dire molto se non è comparato con quelli precedenti); dall’altra, per evitare l’eventualità di un impiego strumentale dell’eccezione (conservarla e sollevarla per la prima volta solo nei giudizi di impugnazione), si è deciso di introdurre un termine, che, se rispettato, legittima poi la riproposizione dell’istanza eventualmente denegata durante tutta la sequenza processuale, in analogia con il regime delle nullità.
Certo, dal punto di vista sistematico è un po’ un pasticcio, perché l’incidente non è volto a far valere l’inutilizzabilità, ma piuttosto è finalizzato alla sola retrodatazione, la quale, dunque ha un suo regime specifico[36]. La conseguenza è però l’emergere di una inutilizzabilità, la quale dovrebbe conservare il suo statuto.
Invero qui si è in presenza di una inutilizzabilità eventuale: fino a quando non è modificato il termine, l’inutilizzabilità non esiste, è solo potenziale, secondum eventum. Ma non solo: è anche destinata a sparire e poi ricomparire, qualora ogni giudice investito del riesame sulla retrodatazione prenda una decisione diversa. Senza dimenticare che, una volta dichiarata, la questione di inutilizzabilità potrà essere fatta valere sempre, qualora l’atto sia comunque utilizzato senza che sia preliminarmente ribaltato il sindacato sull’iscrizione. Non ha allora più senso continuare ad applicare l’eccentrico regime della inutilizzabilità relativa, codificato dalla giurisprudenza in riferimento all’art. 407 c.p.p.
Quanto al regime giuridico, il sistema varia a secondo della sede e del momento in cui è proposta.
Se nasce come incidente specifico durante le indagini, il regime è costruito ad imitazione della richiesta di proroga, ma con delle differenze. Essendo invertiti i ruoli delle due parti, l’istante è qui l’indagato, mentre la domanda va notificata al p.m. a sua cura, in quanto deve darne prova contestualmente all’istanza; sono poi previste delle controdeduzioni scritte di entrambi, dopo l’iniziale confronto fra l’istanza dell’indagato e le memorie scritte del p.m.; infine nell’eventuale contraddittorio orale, convocato con un avviso e senza termini pre-indicati dal legislatore per la fissazione, è assente il richiamo alle forme dell’art. 127 c.p.p. Probabilmente il legislatore vuole evitare il più possibile che l’incidente sia fonte di invalidità e costringa ad un’inesigibile ripetizione.
Ma durante le indagini si può anche scegliere di proporla direttamente nei contesti in cui il g.i.p. è già chiamato a prendere una decisione con la partecipazione delle parti: in tal caso le forme di proposizione e di decisione sono quelle del sub-procedimento in cui si inserisce.
Infine, l’istanza può essere presentata durante l’udienza preliminare e il giudizio: depositata in cancelleria o presentata direttamente in udienza, e trattata e decisa secondo le regole delle relative sedi.
Il disegno è chiaro: si cerca di favorire la trattazione in un contesto processuale già in atto, evitando così un ulteriore sub procedimento. Ma la scelta della sede è rimessa alle parti, compatibilmente però con le scadenze temporali: invero proprio i venti giorni concessi predeterminano in massima parte la scelta del momento in cui far valere la questione[37].
Vi sono poi delle regole comuni che valgono per tutto il sistema: non si può duplicare la richiesta nelle diverse sedi; una volta proposta, è comunque preclusa, ma questo non esclude la proposizione di una domanda nuova fondata su nuove ragioni; le parti posso chiederne un riesame.
Quanto a tale ultima facoltà, si è costruito un sistema ad imitazione delle eccezioni sulle nullità relative: onere di risollevare la questione in ogni momento utile previsto a tal fine, così da renderla poi oggetto di impugnazione.
Si è così consentito il ricorso in cassazione: sarà dunque la Suprema Corte, quale organo della nomofilachia, a spiegarci come vada interpretata tutta questa complessa disciplina. Ma, a differenza del passato, con decisioni destinate ad imporsi, in quanto direttamente applicabili ai procedimenti portati alla sua attenzione. Se infatti anche nel passato la Corte di cassazione ci aveva detto che l’iscrizione soggettiva presuppone degli indizi, tale indicazione rimaneva comunque solo esortativa, non essendo ancora previsto il sindacato sull’iscrizione.
5. I termini delle indagini preliminari contro ignoti e i loro controlli
Le conseguenze provocate dalle modifiche normative, in un sistema processuale, sono imprevedibili, perché tutti i momenti processuali sono in qualche modo connessi gli uni agli altri, così che non sempre è possibile da subito cogliere tutti gli effetti che si provocano nei contesti diversi da quelli in cui si è intervenuti direttamente.
E proprio per tale regione appare opportuno prendere le mosse dai termini delle indagini preliminari contro ignoti, anche se in apparenza sembrerebbe che nulla sia qui cambiato.
A seguito della novella legislativa, l’art. 415 c.p.p. è infatti rimasto invariato, a parte lo spostamento meramente topografico della c.d. iscrizione soggettiva coatta (ora collocata nell’art. 335-bis c.p.p.), che dunque rimane immutata nella sua applicazione in tale contesto.
Nella disposizione, da una parte, continua ad essere prevista la necessità per il p.m. di rivolgersi al giudice se entro sei mesi non ha iscritto il nome di almeno un indagato nel relativo registro, chiedendogli o la proroga o l’archiviazione; dall’altra parte, permane l’assenza dell’indicazione della durata della proroga eventuale concessa e dei motivi che la giustificano, né compaiono indicazioni sui termini finali di tale indagine e, di conseguenza, su una possibile distinzione fra tipologie di reato. Sicché continuerà ad essere necessaria l’integrazione di tali vuoti (ex art. 415, comma 3, c.p.p.) con la disciplina generale che governa i tempi delle indagini contro persone note, la quale, però, è sensibilmente variata con la riforma, come vedremo (infra, §. 6)
Ebbene, rispetto all’art. 407 c.p.p., se si mettono in risalto gli obiettivi generali della novella - archiviare il più possibile e prendere le decisioni il prima possibile – e si rapportano alle ragioni che avevano giustificato nel passato una valutazione di compatibilità – il termine finale garantisce l’obbligatorietà[38] - ne consegue che la norma sia ancora applicabile nei procedimenti contro ignoti, là dove individua, innovando, tre diversi termini di durata massima dell’indagine (dodici, diciotto o ventiquattro mesi a seconda della tipologia di reato).
E le stesse ragioni portano a confermare la perdurante compatibilità dell’art. 406 c.p.p., nella parte in cui continua a fissare in sei mesi la durata della proroga[39].
Più controvertibili invece sono le valutazioni di compatibilità rispetto all’art. 405 c.p.p., in riferimento alla durata iniziale delle indagini, e all’art. 406, comma 2, c.p.p., dove specifica che la proroga può essere autorizzata una sola volta. Le due disposizioni sono strettamente connesse, sicché o si applicano entrambe o nessuna delle due.
Sul punto è necessario considerare – nella valutazione di compatibilità - la disciplina innovativa della riforma, volta a porre fine all’abusivo superamento dei termini delle indagini contro persone note con nuova forza. Ebbene l’art. 415 c.p.p., là dove stabilisce che “il p.m. entro sei mesi presenta richiesta di proroga”, paradossalmente sembrerebbe scritto proprio per soddisfare tale rinnovata esigenza: il p.m. si dovrebbe rapportare il prima possibile con il giudice, affinché quest’ultimo vigili in itinere se l’indagine sia già soggettivamente indirizzata ex art. 335-bis c.p.p. In tema di ignoti, allora, si dovrebbe ritenere che il termine iniziale sia di sei mesi e sia regolato solo dall’art. 415 c.p.p., con esclusione, quindi, dell’art. 405 c.p.p., come invece si era ritenuto nel passato[40]. La conseguenza sarebbe allora che in tema di indagini contro ignoti si potrebbero chiedere più proroghe, nei limiti dei termini finali previsti dall’art. 407 c.p.p., così che si arriverebbe a due proroghe per i delitti diversi da quelli previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. e ben a tre per questi ultimi.
Così ritenendo, i termini iniziali delle indagini contro ignoti sarebbero di sei mesi per tutti i reati, i termini finali complessivi sarebbero invece differenziati per classi di illeciti, e sarebbero raggiungibili attraverso la possibilità di chiedere più proroghe.
Certo, la soluzione proposta aumenterebbe gli adempimenti, che vanno contro la logica della riforma; tuttavia non va trascurato che la richiesta di proroga in tale sede è assai agile e che in tal modo si limiterebbe il rischio che venga sollevata successivamente l’eccezione di retrodatazione, o quantomeno che sia accolta, con le gravi conseguenze che porterebbe in tema di inutilizzabilità; in tal modo, poi, si favorirebbe la possibilità di chiudere celermente la fase, perché, costringendo il p.m. a presentarsi al giudice per le sue richieste ogni sei mesi, si favorirebbe la possibilità di avviarsi già in questo momento verso l’archiviazione in tutti i casi in cui il p.m. ritenga che non ci siano le condizioni per iscrivere, né quelle per ottenere una proroga.
E proprio sulla unica ragione che giustifica oggi la proroga ai sensi del nuovo art. 406 c.p.p., ossia la complessità investigativa, la valutazione di compatibilità con il procedimento contro ignoti appare assai controversa.
Ebbene, se si ritenesse che la proroga possa essere concessa solo per tale motivo, in tutti i casi in cui non si è svolta alcuna indagine, si legittimerebbe l’immediata richiesta di archiviazione (ovverosia entro sei mesi dall’iscrizione) per essere rimasto ignoto l’autore del reato: se non si è indagato, non si può proprio valutare se un’indagine sia o meno complessa, poiché è lo stesso concetto di “complessità” ad implicare uno svolgimento[41].
Di contro, se si è indagato da tempo nei confronti di un sospettato, ma ancora non si è riusciti ad arrivare alla soglia degli indizi richiesta dall’art. 335, comma 1-bis, c.p.p., l’indagine si configura senza dubbio come complessa. Senza contare che in tale sede il giudice potrebbe ritenere già superata la soglia probatoria e ordinare l’iscrizione soggettiva coattiva ex art. 335-bis c.p.p. Il potere affidato al giudice sull’iscrizione trova proprio nella richiesta di proroga delle indagini contro ignoti – ancor più che nella richiesta di archiviazione contro ignoti dove la logica è piuttosto l’effettività dell’obbligatorietà - il suo momento saliente. Se ormai, finché c’è un sospettato, l’indagine è ancora contro ignoti, sarà questo il momento istituzionale del controllo sull’avvenuta iscrizione, si dovrà valutare a fondo se ancora si è in presenza di un sospettato o se invece vi sia già un indiziato. In pratica è proprio in questa sede in cui si valuta se – di fronte ad un’indagine in corso di svolgimento effettivo - sia stata già raggiunta la soglia probatoria richiesta dall’iscrizione, per evitare che venga ulteriormente posticipata. E tutto questo già di per sé implica una complessità investigativa.
A maggior ragione, appare “complessa” un’indagine regolarmente svolta in cui non si è nemmeno arrivati alla individuazione o all’identificazione di un possibile indagato, pur avendo indagato a fondo. Anche qui vi è una palese complessità investigativa, che legittima e fonda la richiesta del p.m., fermo restando il potere del giudice di negarla qualora ritenga non risolvibile lo stallo.
E tale soluzione sembra essere proprio quella voluta dal legislatore, il cui obiettivo è quello di accelerare le decisioni conclusive del procedimento.
In tal modo si stroncherebbe la prassi in forza della quale per molti reati, in tale fase, si attende inerti che si consumi la prescrizione, a volte passando per una generica proroga per giusta causa, a volte nemmeno per questa, per poi arrivare a chiedere l’archiviazione per estinzione del reato ex art. 411 c.p.p.
Insomma, se si ammettesse che la proroga possa essere concessa solo per complessità investigativa, si creerebbe un nuovo percorso, assai più celere e trasparente: l’immediata richiesta di archiviazione – trascorsi sei mesi dall’iscrizione – tutte le volte in cui siano assenti – per inerzia investigativa – gli elementi di prova idonei a raggiungere la soglia dell’indizio nei confronti di qualcuno.
In tal modo, poi, l’offeso troverebbe maggior tutela, perché mentre di fronte alla richiesta di archiviazione per estinzione del reato non potrebbe certo interloquire, nella richiesta di archiviazione motivata dalla non individuazione dell’indagato, potrebbe far valere da subito le sue ragioni, nell’ambito di un contraddittorio strutturato, in cui potrebbe anche offrire elementi probatori importanti al fine di portare il giudice a ordinare il supplemento investigativo, o addirittura a ordinare l’iscrizione coatta ai sensi del nuovo art. 358-bis c.p.p.
Tutto il sistema così congeniato presuppone però una condizione: non può essere il p.m. a scegliere i reati da accantonare per le difficoltà organizzative. E a ciò provvedono i criteri di priorità, oggi adottati da pressoché tutte le Procure, ma destinati a diventare obbligatori con la riforma (v. anche retro §. 2 e infra. §. 6, 7, 8 e 9).
Si potrebbe allora immaginare una richiesta cumulativa di archiviazione, avente ad oggetto tutte le notizie di reato iscritte nel registro degli atti costituenti notizie di reato contro ignoti e relative a reati non prioritari, in cui si specifichi che, essendo scaduti i termini per l’indagine senza aver potuto indagare a causa delle precedenti priorità, si chiede l’archiviazione per assenza di indizi nei confronti di alcuno. Fermo restando il potere del giudice di escludere dall’archiviazione cumulativa ciò che ritenga comunque – concretamente - meritevole di approfondimento, convocando l’udienza di archiviazione, sia o meno stata fatta l’opposizione dell’offeso.
Accantonati così i reati non prioritari, per quelli prioritari riemergerebbe la possibilità concreta, fattuale di indagare, per cui alla scadenza dei sei mesi avrebbe senso subordinare la proroga alla ricorrenza della complessità investigativa.
Dopodiché, scaduti tutti i termini (prorogati o meno) si apre la via conclusiva dell’iscrizione o dell’archiviazione.
E va notato come sia possibile scegliere la via dell’iscrizione soggettiva non solo quando ricorrono i presupposti indicati dall’art. 335, comma 1-bis, c.p.p., ma anche qualora la persona sia ancora solo sospettata. L’iscrizione del sospettato non è certo sanzionata, né sindacata, a differenza del ritardo nell’iscrizione.
Richiesta invece l’archiviazione, spetterà ancora una volta al giudice valutare se concederla o se ordinare l’iscrizione coatta ex art. 335-bis c.p.p., al ricorrere delle condizioni regolate dall’art. 335, comma 1-bis, c.p.p., in ossequio al principio di obbligatorietà, inteso qui come necessità di agire.
Qualsiasi sia il percorso che porta all’iscrizione soggettiva, da questo momento decorrono i termini per le indagini preliminari contro persone note.
6. I termini delle indagini contro persone note e i loro controlli
La durata delle indagini preliminari è stata rimodulata dalla novella legislativa, attraverso l’interpolazione degli artt. 405, 406 e 407 c.p.p. [42].
L’intervento correttivo è qui, a livello di meccanica processuale, assai semplice.
Il legislatore ha ritenuto – come già accennato - di diversificare la disciplina, individuando tre categorie di reati, sottoposte a termini via via più lunghi: sei mesi per le contravvenzioni; diciotto mesi per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p.; dodici mesi per tutti gli altri delitti[43].
È poi prevista una sola proroga di sei mesi, giustificata dalla “complessità delle indagini”.
Il meccanismo operativo rimane invece invariato, sebbene debba ricordarsi che in tale sede – caratterizzata comunque da un contraddittorio (cartolare o orale) – l’indagato potrà sollevare l’eccezione di retrodatazione ai sensi dell’art. 335-ter c.p.p., finalizzata alla mancata concessione della proroga per essere già stati consumati i tempi investigativi (v. amplius, §. 3 e 4). Del pari, nella stessa sede, il g.i.p. potrebbe d’ufficio ordinare nuove iscrizioni soggettive ex art. 335-bis c.p.p., qualora dalla lettura degli atti emergessero altri indiziati del reato (v. amplius, §. 3 e 4).
Va poi segnalato che forse sarebbe stato opportuno abrogare il riferimento all’ordine di provvedere, in caso di diniego di proroga, ancora previsto dal comma 7 dell’art. 406 c.p.p.
In via generale, è plausibile assumere che l’unica ipotesi per cui può essere concessa la proroga possa desumersi da quelle codificate nell’art. 407, comma 2, lett. b), c) e d), c.p.p., le quali, effettivamente, tipizzano casi tutti riconducibili al concetto generale di “complessità investigativa”, ferma restando la possibilità di qualificare in tal modo anche altre situazioni fattuali[44].
Il dubbio che qui sorge – come per le indagini contro ignoti - è se possa essere concessa la proroga qualora vi sia stata semplicemente un’inerzia investigativa, giustificata dalla materiale impossibilità di dedicarsi pienamente all’inchiesta per gli alti numeri dei procedimenti da seguire[45]. Si tratta di un quesito che costituisce una linea rossa che unisce tutta la riforma (su cui v., amplius, retro §. 2 e 5 e infra §. 7 e 9).
In realtà, il problema veniva sollevato già prima della riforma, sebbene oggi vi sia un nuovo dato su cui riflettere: il legislatore sta puntando ad accelerare le decisioni conclusive delle indagini in tutt’uno con la riduzione dei processi da celebrare. E per arrivare a tale obiettivo ha deciso di regolare esso stesso le inerzie procedimentali. Il riferimento non è solo ai più famosi termini di determinazione, ma proprio all’eliminazione della giusta causa di proroga delle indagini, in tutt’uno con la scelta di introdurre per legge i criteri di priorità.
Rispetto ai reati non prioritari appare dunque giustificata l’inerzia investigativa - lo abbiamo già visto in tema di indagini contro ignoti – al punto che, anche qui, scaduti i nuovi termini iniziali dell’indagine dell’art. 405 c.p.p., si dovrebbe chiedere l’archiviazione, senza possibilità del passaggio intermedio finalizzato ad ottenere una proroga: se non si è indagato, non si appalesano né la “complessità” per cui può essere richiesta la proroga, né, a maggior ragione, i presupposti dell’azione.
Senza contare che tali reati già dovrebbero essere stati archiviati nella fase delle indagini contro ignoti. Tuttavia, se per qualsiasi ragione su di essi si è già iscritta la notizia di reato soggettiva, non muta la conclusione: dovrebbe scattare immediatamente la successiva fase della determinazione.
Di contro, per i reati prioritari il legislatore parte dalla premessa che per essi ormai si possa indagare a fondo: visto il congelamento dei reati non prioritari, non si dovrebbe più verificare l’ipotesi di inerzia investigativa. Di conseguenza la proroga – in via di fatto - dovrebbe sempre essere richiesta per un’indagine effettivamente in corso di svolgimento. Sicché si può valutare se essa sia o meno complessa.
Se, dunque, l’indagine non è complessa, la conseguenza dovrebbe essere quella di aprire subito la fase della determinazione[46] alla scadenza dei termini iniziali delle indagini (ovvero i termini non prorogati); ma lo stesso si dovrebbe predicare se poi non si è indagato affatto, nonostante la priorità, e gli auspici di un legislatore ottimista.
Se ci si interrogasse sulla ragionevolezza di un sistema così strutturato, occorrerebbe osservare che esso è la conseguenza non già della nuova modulazione dei termini investigativi, né dell’introduzione dei criteri di priorità, ma della scelta più generale di sottoporre a termini le indagini, già fatta dal codice Vassalli nell’89. Ma è noto come la Corte costituzionale abbia ritenuto compatibili con il principio di obbligatorietà le conseguenze che scaturiscono dalla predeterminazione dei termini di indagine, valorizzando il diritto della persona indagata a veder ad un certo punto comunque chiusa la sua posizione[47]. E tale osservazione legittima ad affermare che il medesimo valore possa essere tutelato anche quando non si indaghi per nulla, dolosamente, colposamente, o in virtù dei criteri di priorità trasparenti, predeterminati e uniformi.
7. I termini delle determinazioni e i loro controlli
Il nuovo art. 407-bis c.p.p. introduce gli inediti “termini per le determinazioni”: entro la loro scadenza il p.m. deve decidere se richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale[48]. Ma non solo, al rigoroso rispetto degli adempimenti che devono essere svolti entro tali termini è dedicata un’analitica ed innovativa disciplina negli artt. 415-ter e 415-bis c.p.p.[49].
Si è così creata - in maniera meno equivoca rispetto al passato - una vera e propria fase procedimentale, in cui viene collocata l’attività di delibazione, finalizzata a concedere esplicitamente del tempo al p.m. per riflettere sulle importanti scelte cui è chiamato.
Tuttavia, va subito sottolineato che, in un sistema in affanno, tali termini non sono tanto volti a consentire la riflessione sul “singolo fascicolo”, ma piuttosto pensati per permettere la gestione di “tutti i fascicoli”: di fatto, la loro previsione consente al p.m. di organizzarsi meglio, essendo oggettivamente impossibile, per la mole di lavoro, richiedere che la determinazione avvenga in coincidenza della scadenza dei termini investigativi[50].
Invero, se si volesse scavare più a fondo, si potrebbe anche notare che il legislatore ha voluto avocare a sé il problema relativo all’inesigibilità di gestire tutti i procedimenti di cui è titolare ogni p.m., avendo come obiettivo principale quello di frenare la prassi in forza della quale molti procedimenti vengono in via di fatto accantonati – id est non indagati - in attesa della prescrizione, per poi essere avviati all’archiviazione ai sensi dell’art. 411, comma 1, c.p.p. ad avvenuta estinzione del reato, prescindendo dalle cadenze temporali previste dal previgente art. 407 c.p.p.[51]
Si sono quindi volute regolare tali prassi sommerse, rendendo “trasparente” il modo – in pratica, necessitato - in cui alcuni procedimenti devono essere destinati all’archiviazione: scaduti i termini delle indagini, bisogna subito rivolgersi al giudice se non si è in grado di esercitare l’azione, senza attendere che maturi la prescrizione.
E proprio per garantire a tutti i costi che ad un certo punto – in attuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale - le relative decisioni siano comunque prese, malgrado le difficoltà organizzative, si è introdotto un portentoso deterrente: se nonostante l’introduzione di una fase per decidere, l’inerzia persiste, viene attivato un vertiginoso meccanismo di reazione, che possiamo denominare – prendendo a prestito la terminologia amministrativistica – “procedimento per il silenzio inadempimento del p.m.” (artt. 415-ter e 415-bis c.p.p.) con il quale si arriva ad ottenere ciò che è stato omesso.
Certo si tratta di un sistema assai complesso, che rischia di paralizzare le procure, basti pensare che sono previste nel complesso dieci nuove comunicazioni/notifiche, otto nuove ipotesi di avocazione, due nuovi incidenti che richiedono l’intervento del g.i.p.
Sicché è palese il fortissimo effetto deterrente; la procedura rischierebbe di mettere in seria difficoltà tanto le Procure, quanto le Procure generali a livello organizzativo e gestorio; senza contare i riflessi, non tanto disciplinari, quanto sulla valutazione delle carriere dei singoli magistrati: un’avocazione è sicuramente qualcosa da evitare.
Per risolvere tali oggettive perplessità, appare necessario aggiungere il fondamentale tassello dei criteri di priorità.
Se per molte notizie di reato l’indagine si può posticipare per dare preferenza a quelle prioritarie, occorrerebbe allora fare in modo che da subito siano selezionati i procedimenti da collocare in stasi investigativa, insomma andrebbe formalizzata, esternata, documentata la selezione dei procedimenti relativi a notizie di reato non prioritarie: esagerando, addirittura con un nuovo registro.
Una volta scaduti i termini delle indagini, tali procedimenti dovrebbero essere tutti avviati all’archiviazione, senza necessità di una particolare riflessione: non essendosi indagato è palese che non si sia raggiunta la soglia prevista dal nuovo art. 408 c.p.p., ovverosia la prognosi di condanna (cfr. §. 5 e 6 e 8).
Si deve allora costruire una procedura standardizzata che permetta di formulare la richiesta di archiviazione immediatamente, a ridosso della scadenza dei termini di indagine, senza consumare quelli di determinazione.
E abbiamo già visto che a tal fine si potrebbero immaginare delle richieste cumulative, che mettano insieme tutte le notizie di reato già protocollate come non prioritarie e per cui siano scaduti i termini delle indagini senza che nulla sia stato fatto perché ancora si è stati impegnati sui procedimenti prioritari (cfr. sul tema §. 5, 6 e 8). Insomma, si dovrebbe pensare ad un adempimento quasi automatizzato e “burocratico”.
In tal modo, il termine per le determinazioni diventerebbe veramente “per la riflessione” e cesserebbe di essere “per l’organizzazione”, riguardando solo i procedimenti per cui effettivamente si è indagato, che numericamente dovrebbero essere assai meno.
Del pari, la procedura del “silenzio inadempimento” ridurrebbe notevolmente il suo campo di operatività, trovando di fatto applicazione solo rispetto a situazioni veramente e propriamente patologiche, in quanto tali eccezionali. In quest’ottica, più che rimediare ad un’inesigibilità fisiologica, il sistema consentirebbe, questa volta sì, di neutralizzare possibili condotte abusive.
Venendo alla regolamentazione, il legislatore ha dunque scelto di introdurre una specifica fase nella quale devono essere prese le determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale. Essa si apre alla scadenza dei termini finali delle indagini preliminari, eventualmente prorogati, o dalle date di scadenza previste dall’art. 415-bis, commi 3 e 4, c.p.p., qualora sia stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari; e si chiude entro nove mesi per i reati indicati nell’art. 407, comma 2, c.p.p. ed entro tre mesi per tutti gli altri[52].
Scelta ragionevole o meno[53], in ogni caso questi sono i tempi entro cui il p.m. deve decidere la sorte di tutti i procedimenti.
Tutto il nuovo sistema ruota attorno all’effettività di tali termini di riflessione, attraverso il procedimento del “silenzio inadempimento del p.m.” la cui caratteristica più vistosa è senza dubbio l’enorme complessità. Con esso si garantiscono tanto l’ostensione degli atti, quanto le determinazioni circa l’azione. Sul piano strutturale, poi, il medesimo si distingue in due sotto procedure, quella per l’inerzia totale e quella per l’inerzia parziale, che tuttavia sono meno distanti da quello che possa a primo impatto apparire.
In merito all’inerzia totale (art. 415-ter c.p.p.), il procedimento prende avvio da un’omissione plurima: il p.m. non ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale, né, ancora, ha richiesto l’archiviazione alla scadenza dei termini iniziali per le determinazioni di cui all’art. 407-bis, comma 2, prima parte, c.p.p. È insomma rimasto totalmente dormiente. E si tratta dei casi più critici e anche dei più diffusi: o si è al cospetto di procedimenti non trattati che vengono abbandonati a loro stessi; o, al contrario, si è in presenza di procedimenti a cui si è dedicato molto tempo, ma che per varie ragioni richiederebbero ancora tempo e riservatezza.
Il p.m. deve allora provvedere ad un nuovo e inedito adempimento, sostitutivo dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari: all’ostensione spontanea di tutti gli atti di indagine, depositando la relativa documentazione nella sua segreteria e notificando l’adempimento alla persona indagata, all’offeso che ha richiesto di essere informato sugli esiti delle indagini e al procuratore generale. La notifica contiene anche l’avviso della possibilità di richiedere al giudice un provvedimento con il quale si ordini forzatamente al p.m. di determinarsi, oltre che della possibilità di esaminare la documentazione depositata e estrarne copia [54].
Se il p.m., però, rimane inerte, non depositando, la fase continua con un’ostensione forzosa. Il procuratore generale può - se non avoca le indagini - ordinare al p.m. di provvedere all’adempimento entro il termine forzoso di venti giorni (notificando l’ordine anche all’indagato e alla persona offesa che abbia richiesto di essere informata dell’esito delle indagini). Tali facoltà sono esercitabili dal procuratore generale quando siano passati dieci giorni dalla scadenza dei termini di determinazione (che conosce in virtù delle comunicazioni del nuovo art. 127 disp. att. c.p.p.), eventualmente prorogati dal differimento autorizzato del deposito (ai sensi dell’art. 415-ter, comma 4, c.p.p.), senza che riceva la notifica dell’avvenuto deposito.
Se le indagini sono avocate, il procedimento passa in mano al procuratore generale, e analizzeremo dopo le conseguenze di tale trasferimento.
Se invece avviene il deposito, spontaneamente o forzatamente, la fase comunque si chiude.
Per il legislatore è ora arrivato il momento delle decisioni relative all’azione.
Il p.m. a questo punto può ancora spontaneamente determinarsi: gli viene infatti concesso un termine supplementare di un mese o tre mesi per reati dell’art. 407, comma 2, c.p.p., il cui inizio decorre o dalla notifica del deposito spontaneo che ha inviato anche al procuratore generale, o dalla notifica dell’ordine di deposito forzoso che aveva ricevuto dal procuratore generale.
Scaduto tale termine, se ancora rimane inerte, il procuratore generale può avocare il procedimento. Altrimenti la procedura continua per passare alla determinazione forzosa: scaduti i termini supplementari, la persona indagata o l’offeso possono chiedere al giudice di ordinare al p.m. di determinarsi (e qui il giudice deve pronunciarsi entro venti giorni), e il p.m. – se l’ordine è dato - deve decidere entro un termine forzoso di venti giorni.
In tal caso, se il p.m. rimane ancora inerte, l’unico rimedio – comunque facoltativo - è l’avocazione, la cui praticabilità, anche qui, è condizionata da una serie di comunicazioni e notifiche reciproche: il giudice deve notificare il suo provvedimento a chi ha sollevato l’istanza, e comunicarlo al p.m. e al procuratore generale; di contro il p.m. deve trasmettere la copia delle sue determinazioni al procuratore generale e al giudice.
Infine, si potrebbe aprire un’ulteriore fase: se il p.m., in attuazione dell’ordine, opta per la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, decorrono anche qui degli ulteriori termini supplementari per permettergli di determinarsi spontaneamente (un mese o tre mesi per i reati di cui all’art. 407, comma 2, c.p.p.).
Se per caso non si determinasse ancora, l’unico rimedio sarebbe ancora una volta l’avocazione per inerzia sulle determinazioni.
In merito invece all’inerzia parziale ex art. 415-bis c.p.p., il procedimento è analogo rispetto a quello dell’art. 415-ter c.p.p., ma si caratterizza per una maggiore contrazione delle fasi, tanto di quella dell’ostensione, quanto di quella della determinazione.
La procedura si mette in moto nel caso in cui sia stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ma il pubblico ministero non abbia poi optato né per l’azione, né per l’archiviazione alla scadenza dei termini di riflessione dell’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p.
Per quanto riguarda la fase discovery, essa è qui caratterizzata per essere rivolta solo all’offeso. In tale contesto l’indagato ha già ricevuto l’avviso di conclusione dell’indagine preliminare, mentre l’offeso non è a conoscenza di nulla (ad eccezione delle persone offese dei reati di cui all’art. 572 e 612-bis c.p.). Sicché anche qui, scaduti i termini di determinazione, il p.m. deve comunque notificare alla persona offesa l’avviso che gli atti sono stati depositati, informandolo che può mettere in moto il meccanismo attraverso cui si arriva all’ordine del giudice di determinarsi. Ma non solo, se l’avviso non è inoltrato, scatta anche la fase dell’ostensione forzosa su ordine del procuratore generale, il quale, in alternativa, può invece avocare.
In merito alla fase della determinazione, invece l’indagato e l’offeso, già alla scadenza dei termini dell’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p., possono chiedere al giudice di ordinare al p.m. di determinarsi, senza dover attendere ulteriori termini supplementari, come invece accade ai sensi dell’art. 425-ter c.p.p. Per il resto si segue la procedura già analizzata in sede di inerzia totale, compresa la facoltà del procuratore generale di avocare in caso di inerzia all’ordine del giudice.
Per evitare l’avvio del procedimento di silenzio inadempimento - tanto per inerzia totale che per quella parziale - è concesso al p.m. di richiedere un differimento dell’ostensione degli atti al procuratore generale (ex artt. 415-bis, comma 5-bis, e 415-ter, comma 4, c.p.p.).
In tal modo, il p.m. può ottenere una proroga sia del termine per notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari (e in tal caso l’istanza va presentata prima della scadenza dei termini delle indagini eventualmente prorogati), sia del termine relativo al nuovo adempimento del deposito degli atti e alla sua notifica (e in tal caso l’istanza va presentata prima della scadenza dei termini di determinazione) [55].
Il procedimento per ottenere la proroga è il medesimo: identici sono i motivi tassativi per cui può essere richiesto e, di conseguenza, concesso; uguali sono gli eventuali termini di differimento accordati (fino al massimo di sei mesi o un anno per i reati di cui all’art. 407 comma 2 c.p.p.); in ambedue il procuratore generale, se non accorda la proroga, può ordinare di provvedere ai due adempimenti entro i termini forzosi di venti giorni e avocare se poi non si provveda; in ciascuna delle situazioni il provvedimento di diniego va notificato alla persona indagata e all’offeso che ha richiesto di essere informato sugli esiti delle indagini.
Le due procedure vanno invece distinte per alcune conseguenze.
Rispetto all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, se il p.m. comunque non notifica l’atto dopo aver ottenuto il differimento, o dopo il diniego al differimento e in spregio all’ordine di notificare, si apre la procedura dell’inerzia totale dell’art. 415-ter c.p.p.
In pratica si torna indietro, e l’adempimento da effettuare diventa il deposito degli atti con la relativa notificazione – e non più dell’avviso di conclusione delle indagini -. In tal caso, però, il differimento del deposito non può essere richiesto. Avendo già presentato la richiesta in relazione all’avviso di conclusione dell’indagine preliminare, la domanda è preclusa: in pratica, né può cumulare una seconda proroga, se già l’ha ottenuta; né, se è stata respinta, può insistere, essendo medesimi i motivi.
Rispetto al deposito degli atti e della relativa notificazione, invece, se il p.m. non adempie spontaneamente alla scadenza del differimento ottenuto, la procedura si innesta sempre sull’art. 415-ter c.p.p., ma direttamente al comma 2, ovverosia alla fase della ostensione forzosa; quindi: ordine del procuratore generale, termine forzoso per provvedere, avocazione per inerzia e via dicendo. Nel caso, invece, in cui non abbia ottenuto il differimento - e quindi è stato già dato l’ordine di provvedervi da parte del procuratore generale - la procedura si innesta direttamente nella fase della determinazione (art. 415-ter, comma 3, c.p.p.).
Volendo famigliarizzare con il funzionamento di tale complesso procedimento, si possono individuare una serie di parole chiave, che consentano di mettere subito in luce come, al di là delle apparenze, i tasselli che ne compongono l’insieme sono sempre i medesimi, anche se di volta in volta diversamente incastrati: invero la complessità è solo apparente. Si tratta, a ben vedere, di un procedimento in cui per superare le eventuali inerzie sono previsti dei meccanismi tanto sollecitatori, quanto coattivi e sostitutivi, che si ripetono più volte, al reiterarsi delle inerzie.
Dal punto di vista sistematico il legislatore ha bipartito la materia, distinguendo il procedimento di “inerzia totale” (415-ter c.p.p.) da quello di “inerzia parziale” (415-ter c.p.p.), ma le due procedure sono analoghe e hanno molti vasi comunicanti, sicché dall’una si passa all’altra e viceversa, a seconda degli accadimenti.
All’interno di ambedue i procedimenti si possono individuare una serie di fasi.
Le fasi dedicate alle “determinazioni relative all’azione”: una “prima” (art. 407-bis comma 2 c.p.p.); poi una “seconda” (artt. 415-ter, comma 3, primo, secondo e terzo periodo e 415-bis comma 5-quater, c.p.p.); e infine una “terza” (art. 414-ter, comma 3, ultimo periodo, c.p.p.).
Le fasi dedicate “all’ostensione degli atti”: quella della “posticipazione dell’ostensione” (artt. 415-ter, comma 4 e 415-bis, commi 5-bis e 5-quater, c.p.p.), e poi quella della “ostensione” vera e propria (art. 415-ter, commi 1 e 2, e 415-bis, comma 1, c.p.p.).
All’interno di ciascuna fase, poi, appaiono tanto adempimenti spontanei, quanto forzosi. In particolare si incontrano prima le “determinazioni spontanee” e dopo le “determinazioni forzose” circa l’azione, a seconda che vi provveda di sua iniziativa il p.m. o siano ordinate dal giudice su richiesta (artt. 415-ter, comma 3, e 415-bis, comma 5-quater, c.p.p.); del pari, si individuano prima “le ostensioni spontanee” e dopo le “ostensioni forzose” a seconda che vi provveda di sua iniziativa il p.m. (artt. 415-ter, comma 1, e 415-bis, comma 1, c.p.p.) o siano ordinate d’ufficio dal procuratore generale ” (art. 415-ter, comma 1, e 414-bis, comma 2 e 3, c.p.p.).
Poi sono previsti una serie di termini. Per le determinazioni relative all’azione penale si individuano i “termini iniziali” (tre o nove mesi, art. 407-bis, comma 2, c.p.p.), i “termini suppletivi” (uno o tre mesi, artt. art. 415-ter, comma 3, primo, secondo e ultimo periodo, c.p.p.) e i “ termini forzosi” (venti giorni, art. art. 415-ter, comma 3, terzo periodo e 415-bis, comma 5-quater, c.p.p.); di contro, per le ostensioni si incontrano i “termini iniziali” (prima della conclusione dei termini delle indagini, art. 415-bis comma 1 c.p.p., e prima della scadenza dei termini di determinazione, art. 415-ter, comma 1, c.p.p.), i “termini prorogati” (sei mesi o un anno, artt. 415-bis, comma 5-ter, primo periodo e 415-ter, comma 4, c.p.p.) e i “termini forzosi” (venti giorni, art. 415-bis, comma 5-ter, secondo periodo e 415-ter, comma 2 e 4, c.p.p.).
Infine, ci sono gli interventi sostitutivi del procuratore generale presso la corte d’appello: “l’avocazione per inerzia sulle determinazioni” (alla scadenza del “termine ordinario”, del “termine suppletivo” e del “termine forzoso”), oltreché “l’avocazione per inerzia sulle ostensioni” (alla scadenza dei “termini ordinari”, dei “termini prorogati” e dei “termini forzosi”).
Venendo alle regole generali di funzionamento, il procedimento si presenta più o meno lungo a secondo che vi sia stata “un’inerzia totale” o “un’inerzia parziale”.
Ambedue si compongono della “fase della “ostensione” e delle “fasi di determinazioni”, se pur in maniera diversamente combinata.
In ogni caso l’inizio del procedimento di silenzio-inadempimento, tanto per quello di inerzia totale, quanto per quello di inerzia parziale, può essere evitato da una richiesta di “differimento dell’ostensione”, che mette in moto un subprocedimento, che poi, attraverso percorsi alternativi, si rinnesta a quello principale.
Nella fase di ostensione interviene solo il procuratore generale, nelle fasi di determinazioni prima interviene il giudice e dopo, eventualmente, anche il procuratore generale, sicché ogni inerzia (tanto delle determinazioni, quanto delle ostensioni) è sempre accompagnata dalla possibilità di avocare.
Tutto il meccanismo, dal suo avvio, alla sua progressione, fino alla sua conclusione, dipende dal verificarsi di rinnovate inerzie: il non aver disposto, il non aver esercitato, il non aver richiesto, si ripetono più volte.
Inoltre, è sempre l’omissione totale degli adempimenti che viene considerata, non si qualifica mai come inerzia il mancato perfezionamento dell’iter che comunque è stato avviato. L’inerzia è: il non aver disposto la notifica dell’avviso di conclusione, a prescindere se sia arrivata o meno al destinatario; il non aver richiesto l’archiviazione, a prescindere se sia già stata presentata al giudice e se la notifica sia arrivata all’offeso o all’indagato se è convocata l’udienza; il non aver esercitato l’azione penale, a prescindere se sia stata già depositata nella cancelleria del giudice e sia stata notificata la richiesta di rinvio a giudizio. Non a caso anche le comunicazioni settimanali delle notizie di reato che devono essere trasmesse al procuratore generale ex nuovo art. 127 disp. att. c.p.p. guardano a tali omissioni.
E questo si riflette sulla decisione con la quale il giudice ordina di determinarsi, perché bisognerà accertare se vi sia una vera e propria inerzia: se l’adempimento è avvenuto, ma sia ancora in itinere, l’adempimento forzoso non può essere decretato. Si tratta poi di una valutazione meccanica, senza che possa “giustificarsi” l’omissione. Non ci sono indicazioni testuali sul punto, né è previsto un contraddittorio nel quale si potrebbe discutere la questione (né nella forma della interlocuzione fra le parti, né con un mero apporto del p.m.). Insomma, è un controllo di mera legalità formale: accertati i requisiti, deve ordinare di procedere [56]. La motivazione del decreto, allora, va vista come un mero resoconto della presenza o assenza dei presupposti di fatto che legittimano l’una o l’altra soluzione.
8. L’avocazione
Il sistema dell’avocazione è stato totalmente rinnovato, ed ora va coordinato con tutto il procedimento di “silenzio inadempimento”, fermo restando che è ancora prevista l’avocazione nel caso in cui si apra l’udienza di archiviazione[57].
In via generale due sono le regole che governano l’avocazione: la facoltatività e la necessità di tener conto dei criteri di priorità.
Quanto alla prima, si tratta di un ripensamento del legislatore, vista l’inesigibilità pratica della precedente obbligatorietà[58].
Quanto alla seconda, si tratta di un invito ad avocare prima i procedimenti prioritari, e non già di un divieto rispetto ai non prioritari. In pratica, l’art. 127-bis disp. att. c.p.p. regola le priorità dell’avocazione e stabilisce che i reati prioritari sono da intendersi tali anche con riferimento a quest’ultima (cf. amplius §. 2).
In merito alle singole ipotesi, invece, emerge come in ogni momento del complesso procedimento contro l’inerzia decisionale del p.m. si inserisca la possibilità di avocare.
Il procuratore generale è messo nelle condizioni di intervenire tutte le volte cha al p.m. è richiesto un adempimento sull’azione o sulla discovery e quest’ultimo rimanga invece inerte: così nel caso in cui il p.m. non sciolga l’alternativa fra azione e archiviazione entro i termini di volta in volta previsti; altrettanto laddove il p.m. non depositi gli atti entro i termini concessi, senza esclusione della mancata notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini a seguito di proroghe e seguenti ordini[59].
L’idea sottesa è quella di lasciare alla valutazione del procuratore il momento di intervento: appena si manifesti l’inerzia; dopo che non si è deciso nonostante siano stati concessi ulteriori termini; in un momento ancora successivo, a seguito dell’ordine del giudice rimasto inevaso[60]. Volendo, tale regolamentazione potrebbe consentire – sempre che la norma decolli nella prassi - di approntare una sorta di protocollo predeterminato del tipo: “si avoca subito per una certa tipologia di reati; per altri si aspetta prima la risoluzione spontanea; per altri ancora l’avocazione si posticipa al momento in cui arriva l’ordine del giudice”.
Va poi evidenziato come in tema di deposito degli atti e di avviso della conclusione delle indagini, il sistema sia più pregnante, perché il procuratore deve comunque attivarsi. Egli è qui coinvolto necessariamente: o ordinando la discovery o avocando. Nelle inerzie sulle azioni, invece potrebbe non apparire mai.
Per consentire il funzionamento di tale sistema, sia a livello operativo, sia a livello programmatico, il legislatore ha imposto la trasmissione di elenchi settimanali (ex art. 127 disp. att. c.p.p.) di tutti i procedimenti in cui è registrabile un’inerzia, così che si possa monitorare di continuo lo stato in cui si trovano, oltreché conteggiare il termine da cui si può avocare: dei procedimenti in cui sono scaduti i termini di riflessione dell’art. 407-bis, comma 2, c.p.p. senza alcuna decisione (tre o nove mesi); di quelli in cui ancora non vi sia una determinazione entro i termini suppletivi concessi dopo il deposito degli atti (un mese o tre mesi); di quelli in cui sono scaduti i termini entro cui deve decidere a seguito dell’ordine del giudice (venti giorni); di quelli in cui, in adempimento dell’ordine del giudice, si sia notificato l’avviso di conclusione delle indagini, ma poi non si sia sciolta l’alternativa fra azione e archiviazione entro i termini di cui all’art. 407-bis, comma 2, c.p.p. ridotti (un mese o tre mesi). Tale ultima ipotesi va inserita nell’elenco, perché non è altro che una fattispecie che entra nella categoria generale indicata nella lett. a) della disposizione. Non a caso il legislatore invece che indicare direttamente il termine di un mese o tre mesi, utilizza la perifrasi “entro i termine del 407-bis ridotti di un terzo”.
Infine, va segnalato che se il procuratore avoca, ma poi è lui che diviene inerte, non determinandosi entro trenta giorni, per le parti scatta anche qui la possibilità di rivolgersi al giudice per richiedere l’ordine di provvedere (ex art. 412, comma 1, ultimo periodo, c.p.p. allorché richiama, in quanto compatibili, gli artt. 415-bis, commi 5-quater e 5-quinquies, e 415-ter, commi 1 e 3, c.p.p.)[61].
Più nel dettaglio, e volendo fornire una sistematica delle ipotesi di avocazione, con riferimento all’art. 415-ter c.p.p., sono enucleabili cinque diversi momenti in cui il procuratore generale può esercitare il potere di avocazione di cui è titolare.
1) Quando vi è l’inerzia assoluta iniziale: ovverosia quando sono scaduti i termini per le determinazioni di cui all’art. 407-bis, comma 2, prima parte, c.p.p., e sono trascorsi altri dieci giorni, se il p.m. non abbia né agito, né richiesto l’archiviazione, né notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, e se il procuratore generale non abbia ricevuto la comunicazione relativa all’avvenuta notifica dell’avviso di deposito degli atti (la disciplina di riferimento è contenuta nell’art. 412 c.p.p. nella parte in cui fa riferimento all’art. 407-bis, prima parte, c.p.p., oltreché direttamente nell’art. 415-ter, comma 2, c.p.p.).
2) Quando vi è l’inerzia nella seconda fase della determinazione in riferimento all’adempimento spontaneo: ovverosia quando sono scaduti i termini supplementari di uno o tre mesi che decorrono dal deposito degli atti ex art. 415-ter c.p.p., se il p.m. ancora non abbia preso alcuna determinazione (la norma che qui viene in rilievo è l’art. 412 c.p.p. là dove fa riferimento all’art. 415-ter, comma 3, c.p.p.; richiamo da intendersi riferito ai soli primo e secondo periodo).
3) Quando vi è inerzia nella seconda fase della determinazione in riferimento all’adempimento coattivo: ovverosia quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni che decorrono dall’ordine del giudice di determinarsi, se il p.m. ancora non abbia preso alcuna determinazione (qui la disciplina si rinviene nell’art. 412 c.p.p. nella parte in cui fa riferimento all’art. 415-bis, comma 5-quater, c.p.p., il quale, a sua volta, trova applicazione altresì nell’ipotesi di cui all’art. 415-ter, comma 3, c.p.p. in forza del richiamo contenuto nel terzo periodo).
4) Quando vi è l’inerzia nella terza fase della determinazione: ovverosia quando sono scaduti i termini supplementari di uno o tre mesi, che decorrono dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini inoltrato in adempimento dell’ordine forzoso del giudice, se il p.m. non abbia optato né per l’azione né per l’archiviazione (il fondamento normativo qui deve rintracciarsi nell’art. 412 c.p.p., là dove fa riferimento ai termini dell’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p.).
5) Quando vi è inerzia nella fase del differimento dell’ostensione: ovvero quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni, che decorrono dalla mancata autorizzazione al differimento del deposito degli atti, e il procuratore generale non abbia ricevuto la comunicazione dell’avvenuta notifica dell’avviso di deposito degli atti (l’ipotesi è contemplata nell’art. 412 c.p.p., nella parte in cui richiama l’art. 415-bis, comma 5-ter, c.p.p., il quale, a sua volta, trova applicazione nell’ipotesi di cui all’art. 415-ter, comma 4, c.p.p. in forza del richiamo ivi contenuto).
Analogamente, ricostruendo la disciplina dell’avocazione con riferimento all’ipotesi di inerzia parziale (art. 415-bis c.p.p.), possono individuarsi tre diversi momenti, posti in progressione tra di loro, nei quali il procuratore generale può esercitare il potere di avocazione.
1) Quando vi è l’inerzia parziale iniziale: ovverosia quando sono scaduti i termini della riflessione di cui all’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p., se il p.m. non abbia né agito, né richiesto l’archiviazione (l’ipotesi è disciplinata nell’art. 412 c.p.p., là dove fa riferimento all’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p., oltreché direttamente nell’art. 415-ter, comma 2, c.p.p. il quale, a sua volta, trova applicazione nell’ipotesi di cui all’art. 415-bis, comma 5-quinquies, c.p.p., alla quale si deve applicare anche il comma 5-sexies, così che se vi è una parte offesa per un reato diverso da quelli degli art. 572 e 612-bis c.p., è necessario attendere altri dieci giorni per procedere all’avocazione, in attesa della notifica a quest’ultima dell’avviso di deposito degli atti).
7) Quando vi è inerzia nella seconda fase della determinazione in riferimento all’adempimento forzoso: ovverosia quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni, che decorrono dall’ordine del giudice di determinarsi, se il p.m. non abbia optato né per l’azione né per l’archiviazione (l’ipotesi trova riferimento nell’art. 412 c.p.p. dove si richiama l’art. 415-bis, comma 5-quater, c.p.p.)
8) Quando vi è inerzia nella fase del differimento dell’ostensione: ovvero quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni, che decorrono dalla mancata autorizzazione al differimento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, se il p.m. non abbia provveduto alla notifica (la norma che viene in rilievo qui è l’art. 412 c.p.p. là dove fa riferimento all’art. 415-bis, comma-5 ter, c.p.p.).
9) Rimane poi ferma la classica ipotesi di avocazione, nel caso in cui si apra l’udienza di archiviazione.
9. L’archiviazione
Dal punto di vista ideologico, l’innovazione più eclatante della riforma è senz’altro rinvenibile nel mutamento della regola di giudizio che governa, in maniera speculare, l’archiviazione e l’udienza preliminare: la scelta tra azione ed inazione e, correlativamente, quella tra rinvio a giudizio e sentenza di non luogo a procedere sono oggi fondate sulla possibilità - per il giudice e, ancor prima, per il p.m. - di «formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca» sulla scorta degli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari[62].
Nelle trame della scelta legislativa si riconosce l’influenza di quella impostazione - minoritaria, ma già presente nella vigenza dell’art. 125 disp. att. – secondo cui il p.m. avrebbe dovuto prescegliere la via dell’archiviazione a fronte dell’impossibilità di prevedere un esito dibattimentale favorevole alla tesi accusatoria[63]. E tuttavia oggi il riferimento alla condanna è esplicito nel discorso normativo: quanto meno sul piano formale, la distanza tra i due sistemi è netta[64].
Rimane invece aperto l’interrogativo che concerne il piano dell’applicazione concreta, la cui soluzione non può prescindere da una pregiudiziale teorica. Qualsiasi lettura si voglia dare alla nuova disposizione, esiste una soglia interpretativa che non può comunque essere superata: la «ragionevole previsione di condanna» non può significare che l’azione si esercita solo quando, se si potesse decidere nel merito allo stato degli atti, si condannerebbe. In tal modo, invero, si negherebbe la valenza epistemica del dibattimento, si ripudierebbe il senso e il significato del principio del contraddittorio nella formazione della prova e si disconoscerebbe il valore della “falsificazione della tesi” come metodo scientifico di ricostruzione dei fatti.
La “tesi” avanzata dal p.m. con l’esercizio dell’azione penale allora deve essere supportata non solo sugli elementi di prova raccolti (che, a monte, consentono di delinearne i contorni), ma altresì sulla prospettiva del contraddittorio e sulla sua capacità di resistere alla fase di “falsificazione” che esso implica. Insomma, è proprio guardando agli aspetti critici, controversi o dubbi della sua ipotesi che il p.m. deve formulare il giudizio prognostico. In quest’ottica, la condanna è “ragionevolmente prevedibile” quando sia possibile assumere che l’accusa sia capace di resistere ai tentativi di confutazione implicati dallo scontro dialettico tipico della fase dibattimentale.
In considerazione di tali premesse irrinunciabili, il giudizio prognostico di certo non viene meno. Ciò che rispetto al passato pare mutare è piuttosto l’oggetto di tale previsione: la valutazione invero non è più rivolta genericamente «alle superiori risorse cognitive del dibattimento», ma piuttosto «a quelle applicazioni del metodo del contraddittorio che possono avvalorare le prospettive di accoglimento dell’ipotesi accusatoria»[65]. Ogni situazione di dubbio, di incertezza, non dovrebbe più giustificare la celebrazione del dibattimento[66]. E, in questo senso, può affermarsi che, rispetto a ieri, il confine fra azione ed archiviazione si sia “spostato in avanti”: alla “sostenibilità dell’accusa in giudizio” si sostituisce la “ragionevole previsione di condanna”; all’in dubio pro actione si sostituisce l’in dubio pro reo[67]. Certo, siamo ancora una volta di fronte a termini vaghi, la cui esatta definizione rimane affidata all’esercizio concreto dell’ampia discrezionalità che viene di fatto rimessa all’interprete.
Le considerazioni fin qui svolte consentono però di anticipare alcune conclusioni di ordine pratico e, in particolare, di ritenere che, tra i motivi dell’archiviazione giustificati dalla impossibilità di formulare una ragionevole previsione di condanna non possa rientrare la valutazione sulla possibile prescrizione del reato nel corso del processo.
È lo stesso contenuto della regola decisoria a vietarlo: il legislatore richiede la formulazione di un giudizio prognostico fondato “sugli elementi raccolti nel corso delle indagini”; mentre la valutazione della prescrizione ha ad oggetto tutt’altro[68].
Piuttosto, la ragionevole previsione di prescrizione dovrebbe rilevare su un diverso piano, quello dei criteri di priorità. In particolare, bisognerebbe introdurre un criterio di priorità dal tenore: “sono prioritari i reati in cui non c’è un rischio di prescrizione durante il giudizio di primo grado”. Si tratta di una valutazione che, alla luce dei tempi di durata delle indagini (predeterminati) e dei tempi di durata media del primo grado, è ben possibile formulare immediatamente, già dal momento in cui la notizia di reato perviene a conoscenza degli organi inquirenti.
In questo sistema, i reati rispetto ai quali si propone il rischio della prescrizione in primo grado andranno trattati solo dopo quelli per i quali un medesimo rischio non si pone.
E, se del caso, andranno archiviati perché, se non si è indagato, su di essi non si sono raccolti gli elementi probatori necessari a formulare una ragionevole prognosi di condanna, e non già perché c’è una prognosi sulla prescrizione.
In definitiva, alla scadenza dei termini, tali notizie di reato sfoceranno nell’archiviazione per mancanza di un quadro investigativo che permetta di esercitare l’azione (v. anche retro §. 6 e 7), come già avviene con riferimento alle indagini contro ignoti (retro §. 5).
Invero l’archiviazione per mancanza di indagini è una conseguenza legata alla scelta di predeterminare i tempi investigativi, tale possibilità è già nel sistema dall’89, non è certo una novità; ora, però, con i criteri di priorità è quantomeno deciso dal legislatore dove direzionare l’inerzia investigativa (sul punto v. retro, §. 6).
Volendo poi, il giudice potrebbe anche decidere di superare lo sbarramento rispetto al reato non prioritario in sede di archiviazione, sulla base di una valutazione tutta concreta. In un sistema così congeniato, poi, l’offeso non verrebbe più lasciato in balia delle istanze non formalizzate, volte a stimolare il p.m. ad indagare: in sede di archiviazione, se ha già manifestato vero interesse per il procedimento, potrebbe far valere le sue pretese, in un contraddittorio perfetto. Inoltre, ad archiviazione avvenuta, qualora recuperasse qualche ulteriore elemento, potrebbe offrirlo al p.m. (c.d. “sopravvenuti” nella terminologia dei progetti organizzativi), stimolando così una riapertura delle indagini.
Ma si tratta di ipotesi più teoriche che realmente realizzabili, in quanto ambo le evenienze troveranno riscontro effettivo solo nei casi di inerzia rispetto ai reati prioritari, come già abbiamo visto (v. retro, amplius, §. 2).
Certo questa è la fine dei reati di piccolo calibro; ma è comunque un passo avanti rispetto alla disdicevole prassi di archiviarli per tenuità del fatto, senza che venga prima valutata la consistenza probatoria, come invece impone il legislatore.
Il punto insomma è che l’intero sistema non può essere letto senza considerare il ruolo, centrale ed innovativo, dei criteri di priorità. Questi già oggi - ma a maggior ragione quando saranno codificati dal legislatore e dunque assumeranno il rango di regole processuali a tutti gli effetti - sono destinati ad incidere profondamente sulla struttura e sulla prassi del processo. Tanto l’archiviazione per essere ancora ignoti i responsabili, quanto l’archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p. saranno destinate ad accogliere i reati non prioritari sul presupposto che per essi non si è ancora indagato e sono nel frattempo scaduti i termini delle indagini.
In conclusione, va ormai immaginato un doppio binario: reati prioritari e reati non prioritari.
10. La riapertura delle indagini
In sintonia con il sistema fin qui analizzato, si colloca la modifica del regime relativo alla riapertura delle indagini preliminari[69].
Come si è visto, l’intero sistema riformato risulta chiaramente proteso ad evitare a monte l’apertura del procedimento e, quand’anche esso risulti oramai avviato, a concluderlo il prima possibile; e proprio alla medesima logica risponde la scelta legislativa di frapporre maggiori ostacoli alla riapertura del procedimento medesimo[70]. Ad una visione d’insieme, insomma, appare evidente come una soluzione diversa sul punto sarebbe risultata contraddittoria.
Il legislatore in questa sede interviene, in primo luogo, riformulando - in termini più stringenti rispetto al passato - la regola che deve guidare il giudice nell’autorizzare la riapertura del procedimento già archiviato; e, in secondo luogo, introducendo nel nuovo comma 2-bis dell’art. 414 c.p.p. un’espressa previsione di inutilizzabilità degli atti di indagine «compiuti in assenza di un provvedimento di riapertura del giudice»[71].
L’idea di fondo è che la riapertura delle indagini non possa essere fondata su una mera rilettura degli elementi già presenti[72]. In particolare, la modifica normativa agisce su due fronti: da un lato, impone al p.m. di motivare la richiesta sull’esigenza di nuove investigazioni; dall’altro, specifica che il giudice è chiamato a respingere tale richiesta «quando non è ragionevolmente prevedibile la individuazione di nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare l’esercizio dell’azione penale» (art. 414, comma 1, c.p.p.).
La disposizione, in sostanza, introduce un inedito “giudizio di ammissione” degli atti investigativi.
Per poter dar corso alla nuova inchiesta è necessario che «le nuove investigazioni» da compiere siano “determinanti” («determinare») e “decisive” («da sole o insieme alle altre») in riferimento alla regola decisoria che consente l’azione («all’esercizio dell’azione»), e non già rilevanti e non superflue rispetto all’imputazione da formulare.
E la soglia di tale giudizio di ammissione si assesta sulla “ragionevole previsione” che gli atti investigativi indicati siano determinanti e decisivi. La ragionevolezza connota tale valutazione collocandola in una posizione, per così dire, “intermedia”: essa invero risulta, da un lato, innalzata rispetto a quella fissata dall’art. 190 c.p.p., nel quale si chiede il “non manifestamente” e, dall’altro, più specificata e selettiva rispetto a quella individuata dall’art. 507 c.p.p. (“assolutamente necessaria”).
Nel suo complesso, la nuova formulazione dell’art. 414 c.p.p. - e, soprattutto la ratio che le è sottesa - apre all’interrogativo relativo al suo ambito di applicazione: vale cioè domandarsi se a tutt’oggi rimanga ferma l’esclusione di tale procedura per le archiviazioni contro ignoti[73].
La soluzione della questione passa inevitabilmente dalla individuazione del valore che la disciplina della procedura di riapertura delle indagini mira a tutelare.
È chiaro, infatti, che se la finalità della norma viene ravvisata, in via esclusiva, nell’esigenza di apprestare una tutela nei confronti del soggetto indagato - il quale ha beneficiato di un provvedimento di archiviazione - l’esclusione per incompatibilità permane[74].
Se invece - valorizzando la ratio deflattiva sottesa all’intervento riformatore, per cui i procedimenti devono essere aperti solo nel caso in cui sia veramente necessario - si intendesse sottesa alla disciplina in questione anche un’esigenza di “tutela del sistema”, il principio meriterebbe quanto meno di essere rimeditato. In quest’ottica - pensando soprattutto ai casi di archiviazione per totale inerzia investigativa, che, dal punto di vista numerico, sono i più significativi -, si potrebbe concludere che il procedimento possa esser riavviato previa autorizzazione, solo se c’è la possibilità di acquisire un atto di indagine risolutivo. Tanto più se si considera che tale circostanza è, di fatto, quella che, già nella realtà operativa, porta il p.m. a determinarsi per riaprire i processi contro ignoti nei quali, invece, si è indagato a fondo.
[1] Sul tema, più amplius, v. E. Albamonte, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, in Penalista.it, 22 settembre 2021; R. Aprati, Criteri di priorità e progetti organizzativi delle procure, in Leg. pen., 24 maggio 2022; R. Aprati, I criteri di priorità per la trattazione delle indagini preliminari e per l’esercizio dell’azione penale, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 165 ss.; P. Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, in Proc. pen. e giust., 2021, 4, p. 1141.
[2] Per applicabilità di una norma si intende “l’obbligo di applicarla da parte degli organi giurisdizionali e amministrativi”, R. Guastini, Le fonti del diritto, Giuffrè, Milano, 2010, p. 283.
[3] “Diremo ultrattiva una norma che connetta conseguenze giuridiche a fatti successivi alla sua abrogazione”, R. Guastini, Op. cit., p. 286.
[4] Cfr. A. Cerri, Giustizia costituzionale, Napoli, 2019, 101 ss.
[5] Cfr. A. Cerri, op. cit, 114 ss.
[6] Cfr. Cort. cost., 16.12.1993, n. 462.
[7] Cfr. Cort. cost., 14.12.1999, n. 457; Cort. cost., 9.5.2001, n. 139; Cort. Cost. 22.5.2002, n. 221.
[8] Su cui per una prima e completa analisi v. D. Curtotti, L’iscrizione della notizia di reato e il controllo del giudice, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 198 ss.; C. Gittardi, Le disposizioni della riforma Cartabia in materia di indagini: tempi e “stasi” delle indagini, discovery degli atti e controllo giurisdizionale delle iscrizioni, in www.giustiziainsieme.it. Per una analisi del testo della legge delega, A. Marandola, Notizia di reato, tempi delle indagini e stadi procedurali nella (prossima) riforma del processo penale, in Dir. pen. proc., 2021, 1566;
[9] Per la funzione di certezza e uniformità che assume la definizione v. D. Curtotti, Op. cit., 202 s.
[10] Cfr. R. Aprati, La notizia di reato nella dinamica processuale, Jovene, Napoli, 9 ss.; A. Marandola, I registri del pubblico ministero, Cedam, Padova, 2001, p. 46 ss.;
[11] Con esclusione quindi di quelli relativi all’autore, quali, in primis, la colpevolezza, intesa in senso lato come tutto ciò che è necessario per imputare soggettivamente il fatto all’autore, facendo riferimento alla teoria quadripartita del reato (un fatto tipico, colpevole, antigiuridico e punibile).
[12] Tutto ciò potrebbe influenzare il problema della utilizzabilità delle intercettazioni in caso di mutamento della fattispecie incriminatrice, riducendone le ipotesi di concreta verificazione.
[13] Rispetto a tale tema continua ad essere fondamentale la distinzione fra “aggiornamenti” e “nuove iscrizioni”, considerando appunto che è dall’iscrizione che decorrono i tempi dell’indagine: si avrà nuova iscrizione se continua la permanenza, se si iscrivono fatti nuovi ed ulteriori siano o meno connessi o collegati, o indagati aggiuntivi; mentre l’elemento specializzante è solo un aggiornamento.
[14] Cfr. Corte cost., 31.5. 2016, n. 200.
[15] In senso contrario D. Curtotti, Op. cit., p. 203.
[16] Cfr. E. Naville, La logica dell’ipotesi, Rusconi, Milano, 1989, p. 130 s.: «le tre operazioni del pensiero che si ritrovano nella soluzione di ogni problema scientifico [sono]: osservare, supporre, verificare».
[17] Cfr. P. Ferrua, Modello scientifico e processo penale, in Dir. pen. proc., Dossier, La prova scientifica nel processo penale, 2008, p. 16 s., il quale nota che «anche nel processo penale si dovrebbe abbandonare l’idea di “metodo scientifico”, se con esso s’intendesse quello in grado di garantire il risultato di giustizia. Ma, quando lo concepisca alla stregua del paradigma popperiano – problemi-teorie-critiche – nulla vieta di qualificare come scientifico il metodo che si segue per l’accertamento della colpevolezza. Il “problema” in cui si inciampa è la notizia di reato. La “teoria” equivale alla formulazione dell’accusa che dà inizio al processo in senso stretto. La “critica” corrisponde al contraddittorio fra accusa e difesa o, più in generale, al dibattimento a seguito del quale sarà emessa la sentenza».
[18] Cosi già D. Curotti, Op. cit., p. 203.
[19] «La vaghezza sorge dall’impossibilità di stabilire quali siano le qualità essenziali o definitorie nella nozione [...]. Non esiste un numero chiuso di proprietà necessarie e sufficienti comuni [al termine indizio per esempio] e solo ad esso; nel concetto espresso vi è una pluralità di fuochi o di nuclei concettuali [...]», E. Luzzati, Prìncipi e principi, Giappichelli, Torino, 2012, p. 9.
[20] «Di fronte ad un caso marginale, cioè ad un caso che cade ai margini della trama, può discrezionalmente decidere se la fattispecie in esame debba o non debba essere inclusa nel campo di applicazione della norma in questione», G. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, p. 75 s.
[21] Sulle nozioni di “pre notizia di reato”, di “atti pre-investigativi” e di “pre-inchiesta” si rinvia a R. Aprati, La notizia, cit., p. 45 ss.
[22] Qui potrebbero valere le considerazioni circa l’opportunità di formalizzare tutta la sequenza dell’attività di ricerca della notizia di reato, su cui già R. Aprati, La notizia, cit., p. 47 s.
[23] Su cui per una prima e completa analisi v. D. Curtotti, L’iscrizione della notizia di reato e il controllo del giudice, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 198 ss.
[24] Per analoghe considerazioni già D. Curtotti, Op. cit., p. 302 s.
[25] Sulla natura “costitutiva” del rimedio v. F. Di Vizio, Il nuovo regime delle iscrizioni delle notizie di reato al tempo dell’inutilità dei processi senza condanna, in dicrimen.it, 12 novembre 2022, p. 17 s.
[26] Cosi già D. Curtotti, Op. cit., 204 s.
[27] K. La Regina, L’archiviazione del vortice efficientista, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 300 s., la quale - rilevando perplessità circa l’efficacia della misura rispetto allo scopo nei casi in cui il p.m. «possa esercitare un potere di selezione degli atti da trasmettere» - mette in evidenza come «nella configurazione dell’area del controllo giudiziale» abbia giocato un ruolo centrale «il pesante vulnus al principio di legalità perpetrato attraverso una dilatazione surrettizia dei tempi delle indagini, che impatta enormemente sulla salvaguardia delle garanzie individuali, compresa quella della ragionevole durata complessiva del procedimento la quale, oltretutto, apre un fronte contro cui si stagliano le aperte critiche del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, oltre che innumerevoli condanne inflitte al nostro Paese dalla Corte di Strasburgo».
[28] In senso critico sull’ipotesi in cui il controllo avvenga su atti di indagine selezionati cfr. K. La Regina, Op. cit., p. 300.
[29] Sui profili di criticità relativi all’interlocuzione del p.m. v. F. Di Vizio, Il nuovo regime delle iscrizioni, cit., p. 20.
[30] Sulla formulazione del comma 1 dell’art. 335 quater v. D. Curtotti, Op. cit., p. 205, la quale rileva come il legislatore sembri “sganciare” la richiesta di verifica della tempestività da quella della retrodatazione, osservando sul punto che però «non è pensabile […] che l’istanza contenga solo una verifica della tempestività dell’iscrizione senza una successiva richiesta di retrodatazione della stessa. Dal che se ne deduce che la dualità dell’attività è solo apparente. Il legislatore ha inteso sottolineare, indicando in questo l’oggetto della richiesta, l’esigenza di fondo del controllo giurisdizionale, ossia la tempestività della individuazione del dies a quo di durata delle indagini preliminari. Ma, nel farlo, forse ha scambiato il fine con il mezzo».
[31] Sottolinea la funzione acceleratoria di tali requisiti D. Curtotti, Op. cit., 206 s.
[32] Sull’eventualità di un ritardo “giustificato” da «carenze organizzative o dal sovraccarico dell’ufficio» v. F. Di Vizio, Il nuovo regime delle iscrizioni, cit., p. 22.
[33] Sulla portata dei due requisiti cfr. altresì D. Curtotti, Op. cit., p. 207 s.
[34] Sez. I, 7 luglio 1992, n. 9708, Giacometti, in C.E.D. Cass., n. 191886.
[35] Vista la complessità degli accertamenti richiesti, si potrebbe ipotizzare la necessità di individuare degli “indici sintomatici” dell’inadempimento ingiustificato e inequivoco. E, in quest’ottica, si potrebbe considerare “indice sintomatico elettivo” la “carenza di motivazione” negli atti investigativi che richiedono un provvedimento (del giudice o del p.m.). Diventerà allora quanto mai necessario, per esempio, spiegare nella richiesta di intercettazioni del p.m. le ragioni per cui si è deciso di intercettare una certa persona non iscritta nel registro: così che la presenza di una motivazione completa permetterà al giudice di valutare la doverosità o meno dell’adempimento relativo all’iscrizione; mentre una totale assenza di indicazioni sul tema configurerà l’indice sintomatico elettivo del “ritardo ingiustificato ed inequivocabile” richiesto dalla proposta di legge delega. Altro indice sintomatico, va individuato nella audizione della persona, poi iscritta, come persona informata dei fatti in un momento successivo alla prime battute delle indagini. Sicuramente si impone di sentire la persona come informata dei fatti, e non già come indagato solo all’inizio dell’indagine; se invece già ci sono altri atti investigativi che direzionano, si deve iscrivere prima e dopo sentirlo come persona indagata: in teoria non si dovrebbe più creare la situazione di cui all’art. 64, comma 2, si è rafforzata la reazione all’abuso. Le due norme vanno coordinate.
[36] Sul punto, cfr. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, in www.questionegiustizia.it, p. 10.
[37] A tal proposito v. D. Curtotti, Op. cit., p. 206, la quale individua come sede elettiva un incidente subito dopo l’avviso di conclusione delle indagini, perché assai difficilmente si avranno a disposizione gli atti su cui fondare l’istanza.
[38] Cfr. Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 1304, in C.E.D. Cass., n. 233197.
[39] Cfr. Sez. Un.,28 marzo 2006, n. 1304, in C.E.D. Cass., n. 233197.
[40] Sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 1295, in C.E.D. Cass., n. 223588.
[41] Così già F. Alonzi, Tempi nuovi per le indagini?, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 249 ss., se pur in riferimento alle indagini contro persone note.
[42] Per una prima ed esaustiva analisi della nuova disciplina v. F. Alonzi, Op. cit., p. 242 ss.; G. Garuti, L’efficienza del processo tra riduzione dei tempi di indagine, rimedi giurisdizionali e “nuova” regola di giudizio, in Arch, pen., 2022, p. 3 ss. Per una analisi del testo della legge delega G. Amato, Passa la “rivoluzione” temporale dei termini delle investigazioni, in La riforma del processo penale. Commento alla legge n. 134 del 27 settembre 2021, Giuffrè, Milano, 2021, 137; C. Valentini, The untouchables: la fase delle indagini preliminari, l’ufficio del pubblico ministero e i loro misteri, in Arch. pen. online, 2022, 1.
[43] Per le ragioni in forza delle quali il termine di diciotto mesi riguarda solo i delitti si cui all’art. 407 comma 1 lett a), v. F. Alonzi, Op. cit., p. 245 ss.
[44] Così già F. Alonzi, Op. cit., p. 249 ss. Sulla valenza delle ipotesi di cui all’art. 407, comma 2, lett. b), c), e d), c.p.p. v. A. Camon, Le indagini preliminari, in Fondamenti di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2020, p. 4002.
[45] Così già F. Alonzi, Op. cit., p. 249 ss
[46] In questi termini si vedano già le considerazioni di F. Alonzi, Tempi nuovi, cit., p. 251.
[47] Corte cost., 27 novembre 1991, n. 436; Corte cost., 15 aprile 1992, n. 174; Corte cost., 25 maggio 1992, n. 222, Corte cost., 10 febbraio 1993, n. 48.
[48] Per una prima ed esaustiva analisi della nuova disciplina dell’art. 407-bis c.p.p. v. F. Alonzi, Op. cit., p. 252 ss.;
[49] Per una prima ed esaustiva analisi della nuova disciplina degli artt. 415-bis e 415-ter c.p.p. v. G.M. Baccari, I nuovi meccanismi per superare le stasi procedimentali dovute all’inerzia del pubblico ministero, in in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 263 ss.; G. Garuti, Op. cit., p. 3 ss. Per una analisi al testo della legge delega v. R. Fonti, Strategie e virtuosismi per l’efficienza e la legalità delle indagini preliminari, in “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge delega tra impegni europei e scelte valoriali, a cura di A. Marandola, Giuffrè, Milano, 2022, 91 ss.; A. Sanna, Cronometria delle indagini e rimedi alle stasi procedimentali, in Proc. pen. giust., 2022, 43.
[50] Cosi già F. Aolonzi, Op. cit., p. 260.
[51] Cosi già G.M. Baccari, Op. cit., p. 263.
[52] Sulla bipartizione dei termini di riflessione, v. F. Alonzi, Op. cit., p. 253, e G.M. Baccari, Op. cit., p. 265.
[53] Per l’irragionevolezza della disciplina, e in particolare per il suo contrasto al canone costituzionale della ragionevole durata del processo v. F. Alonzi, Op. cit., p. 258 ss., soprattutto p. 261.
[54] Per la ratio di tale adempimento v. G.M. Baccari, Op. cit., p. 267 ss.
[55] Su cui v., per la ratio, F. Alonzi, Op. cit., p. 257, e G.M. Baccari, Op. cit., p. 270 s.
[56] Così già G.M. Baccari, Op. cit., p. 273 s.
[57] Per una prima e completa analisi della nuova disciplina v. K. La Regina, Op. cit., p. 291 ss.
[58] Sullo “stato di crisi” di effettività dell’avocazione già G.M. Baccari, Op. cit., p. 266, K. La Regina, Op. cit., p. 291.
[59] Cos’ già K. La Regina, Op. cit., p. 291
[60] Cfr. K. La Regina, Op. cit., p. 293, dove mette in luce l’idea di extrema ratio dell’avocazione rispetto una possibile soluzione spontanea dello stallo procedimentale.
[61] Cfr., per una soluzione parzialmente diversa K. La Regina, Op. cit., p. 294.
[62] Il legislatore oltre ad incidere sull’ampiezza del filtro sull’accusa, è intervenuto altresì sulla sua portata applicativa «attraverso l'introduzione, per tutti i procedimenti di competenza del tribunale monocratico, di un’udienza predibattimentale», come evidenziato da M. Daniele, La riforma della giustizia penale e il modello perduto, in www.dirscrimen.it, 13 luglio 2021.
[63] Per un’analisi delle posizioni affermatesi circa l’interpretazione da offrire al criterio della “sostenibilità dell’accusa in giudizio” enucleabile dagli artt. 408 c.p.p. (precedente formulazione) e 125 disp. att. (oggi abrogato) v. K. La Regina, Op. cit. p. 276 ss.
[64] In questo senso, la riforma senz’altro assolve una “funzione pedagogica”, R. Aprati, Le indagini preliminari nel progetto di legge delega della Commissione Lattanzi, in www.questionegiustizia.it, 9 novembre 2021, p. 9.
[65] Così già K. La Regina, Op. cit., p. 284.
[66] Sul profilo critico dei rapporti tra “regola di giudizio” e “presupposti del singolo provvedimento” v. le riflessioni di P. Ferrua, Brevi appunti in tema di udienza preliminare, appello e improcedibilità, in www.discrimen.it, p. 25.
[67] In tal senso v. già M. Daniele, Op. cit., p. 3 s., il quale osserva che «il canone dell’in dubio pro reo è chiaramente affermato – sia pure in via prognostica – superando l’ambiguità della […] formula dell’inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio». In senso analogo, v. F. Alvino, Il controllo giudiziale dell’azione penale: appunti a margine della “riforma Cartabia”, in Sist. pen., 10 marzo 2022, p. 32.
[68] In senso analogo, v. F. Alvino, Op. cit., cit., p. 32.
[69] Per un’analisi della quale v. K. La Regina, Op. cit., p. 296 ss.
[70] La nuova previsione, si è notato, determina un rafforzamento dell’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, pur lasciando al giudice margini notevoli di discrezionalità: cfr. K. La Regina, L’archiviazione, cit. p. 296. Sull’efficacia preclusiva dell’archiviazione v. altresì G. Ruta, Verso una nuova, cit., p. 15
[71] Si tratta del recepimento espresso di un’acquisizione oramai pacifica nel sistema. Con specifico riferimento al giudizio abbreviato cfr. Sez. V, 22 novembre 2017, n. 11942, in C.E.D. Cass., n. 272709.
[72] Vale tuttavia di segnalare come già la giurisprudenza affermatasi durante la vigenza della vecchia formulazione dell’art. 414 c.p.p. escludesse che la riapertura potesse essere accordata a fronte di una mera rilettura delle risultanze investigative. In tal senso cfr. Sez. un., 22 marzo 2000, n. 9, in Cass. pen., 2000, p. 2610.
[73] Sul tema, nel senso della esclusione dell’archiviazione del procedimento contro ignoti dall’ambito della riformata disciplina, già F. Di Vizio, Il nuovo regime, cit., p. 34.
[74] In tal senso si è finora chiaramente espressa la Cassazione: sul punto cfr. Sez. II, 13 ottobre 2015, n. 42655, in C.E.D. Cass., n. 265128; nonché Sez. un. 28 marzo 2006, n. 13040, ivi, n. 233198.
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