ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Con questi interventi completiamo la pubblicazione degli atti del Convegno presso l'Università Bocconi di Milano il 27 giugno scorso sul tema dell'autogoverno della giustizia tributaria.
Sommario: 1. La legge n. 130 del 2022 e le attribuzioni del Consiglio di presidenza. – 2. Il ruolo e l’attività del Consiglio nella prima applicazione della legge n. 130 del 2022. – 3. Il rapporto con il Ministero dell’economia e delle finanze. – 4. Il nuovo ufficio ispettivo – 5. L’Ufficio del Massimario nazionale. – 6. Note conclusive.
1. La legge n. 130 del 2022 e le attribuzioni del Consiglio di presidenza
Il testo della riforma della giustizia e del processo tributario, definitivamente approvato con legge 31 agosto 2022, n. 130, pur non introducendo tutte le auspicate modifiche al ruolo e all’attività del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, incide in modo rilevante sui suoi compiti e sulle sue attribuzioni.
Mentre, anche se con qualche perplessità, può immaginarsi che la riforma organica della giustizia tributaria sia legata al Piano nazionale di resistente e resilienza, difficilmente può pensarsi che analoga conclusione sia riferibile alla riforma dell’organo di autogoverno alla quale non si fa riferimento nella Milestone M1C1-35. Negli ultimi anni, il Consiglio di presidenza ha dovuto affrontare numerose e complesse problematiche – dall’emergenza Covid alla gestione delle procedure di mobilità orizzontale e verticale, al processo tributario telematico per citarne solo alcune – le sfide e gli impegni che lo interesseranno nel prossimo futuro appaiono, se possibile, più impegnativi e complessi in quanto, da un lato, diverse delle attività ordinariamente svolte seguiranno regole nuove o comunque diverse da quelle in precedenza applicate e, dall’altro, il Consiglio dovrà attuare le innovazioni introdotte dalla riforma.
Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria è l’organo di autogoverno della giustizia tributaria, fondamentale presidio dell’autonomia e della indipendenza della magistratura tributaria. L’importanza del Consiglio è particolarmente avvertita nella giustizia tributaria in considerazione dello stretto legame tra la stessa magistratura e il Ministero dell’economia e delle finanze.
La Corte di giustizia UE ha, in più occasioni, affermato che il requisito dell’indipendenza, “è essenziale per il buon funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria costituito dal meccanismo di rinvio pregiudiziale”; tale requisito, in particolare, comporta che le funzioni siano esercitate “senza soggiacere a vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni di qualsivoglia origine” e si traduce: lungo un versante “esterno”, nella “inamovibilità”, principio in base al quale i giudici possono continuare ad esercitare le proprie funzioni “finché non abbiano raggiunto l’età obbligatoria per il collocamento a riposo o fino alla scadenza del loro mandato, qualora quest’ultimo abbia una durata determinata”, salve le eccezioni giustificate “da motivi legittimi e imperativi, nel rispetto del principio di proporzionalità”, come ad esempio nel caso di rimozione discendente da illeciti disciplinari e nel rigoroso rispetto del principio di legalità; lungo un versante “interno”, nella “imparzialità”, intesa come equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima. Questo aspetto, precisa la Corte, “impone il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica” (cfr. Corte di giustizia UE, 13 giugno 2017, C‑258/14, Florescu; 27 febbraio 2018, C‑64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, in Foro amm., 2018, 163; 7 febbraio 2019, C‑49/18, Escribano Vindel; 19 novembre 2019, C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, A.K.).
Nel caso della giustizia tributaria, come noto, la Direzione della giustizia tributaria, organo che sovrintende l’operato delle Corti, è inquadrata nel Dipartimento delle Finanze, rientrante nel Ministero dell’economia e delle finanze. Ciò al pari della Direzione Agenzie ed Enti della Fiscalità, la quale in sintesi coordina e monitora l’attività dell’Agenzia delle Entrate. Si tratta di una commistione di competenze che coinvolge la funzione giurisdizionale, le azioni del potere esecutivo, l’organo di autogoverno, nonché, nella sostanza, una delle parti del processo tributario, amministrazione da cui promanano gran parte degli atti impugnati. La riforma in questione non è andata nella auspicata direzione di superare il citato problema ordinamentale, anzi la riforma del 2022 e i successivi interventi legislativi (art. 20, commi da 2 bis a 2 sexies d.l. n. 44 del 2023, convertito con modificazioni in l. n. 74 del 2023) hanno determinato un consistente rafforzamento delle strutture del Ministero che si occupano della giustizia tributaria.
Sarebbe stato utile operare, quantomeno, un maggiore rafforzamento del Consiglio dotandolo di un ruolo autonomo del personale, indipendente da quello del Ministero, rafforzando al tempo stesso la presenza di giudici tributari all’interno delle strutture dedicate allo svolgimento di attività amministrative e istituzionali relative alla giustizia tributaria (ufficio studi, servizio per l’informatica, addetti al segretariato).
In ogni caso, il legislatore è intervenuto espressamente sulle funzioni del Consiglio di presidenza, come disciplinate da d.lgs. n. 545 del 1992, prevedendo al suo interno la costituzione di uno specifico ufficio ispettivo, il cui rafforzamento dell’autonomia contabile e disciplinare-ispettiva consente indirettamente di tutelare l’indipendenza dei giudici, che la riforma ha strutturalmente inquadrato come dipendenti del Ministero. Tale rafforzamento, come evidenziato in dottrina, non appare tuttavia in grado di superare una modalità governativa, condizionata dall’impronta amministrativa, che continuerà a reclutare i propri giudici per il tramite del Ministero.
2. Il ruolo e l’attività del Consiglio nell’applicazione della legge n. 130 del 2022
Il Consiglio di presidenza, come rilevato, è chiamato a un rilevante sforzo e a una consistente attività in relazione alla citata riforma.
Nei rapporti tra legge n. 130 del 2022 e Consiglio di presidenza si possono immaginare alcuni effetti diretti, in tutte le ipotesi in cui il legislatore attribuisce espressamente taluni compiti ovvero obbliga il consiglio a svolgere determinate attività, e altri indiretti, in tutte le ipotesi in cui il legislatore intervenendo sulla disciplina previgente obbliga il consiglio a modificare precedenti delibere o regolamenti.
Sarà inoltre fondamentale che il Consiglio continui e incrementi l’attività di interlocuzione con gli altri organi di autogoverno (in primis il CSM, in considerazione della circolare adottata da tale organo in data 13 aprile 2022, con cui ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina in tema di “incarichi extragiudiziari ed esercizio delle funzioni di giudice tributario”, con specifico riferimento all’attività svolta dai giudici ordinari in relazione alla loro attività di giudici tributari) e con il Ministero dell’economia e delle finanze, tenuto a una serie articolate di attività idonee a incidere sull’attività dei giudici e dei magistrati tributari.
Nel dettaglio, a carico del Consiglio sono state previste le seguenti attività:
- svolgere alcuni adempimenti legati al nuovo concorso per l’assunzione di magistrati tributari con decorrenza già dal 2023;
- definire i criteri e le modalità per garantire con cadenza periodica, la formazione continua e l’aggiornamento professionale dei giudici e dei magistrati tributari (art. 1, comma 1, lett. g);
- attivare e disciplinare il nuovo ufficio ispettivo nominandone i componenti (art. 1, comma 1, lett. q);
- attivare e disciplinare il nuovo ufficio del massimario nazionale, nominandone i componenti (art. 1, comma 1, lett. r);
- adeguare la disciplina esistente alle nuove regole e alla tempistica per l’assegnazione dei giudici e dei magistrati tributari nello stesso o in diverso incarico, anche con riferimento alla attività di vigilanza del Consiglio e al giudizio di demerito che dovrà esprimere nei confronti dei giudici e dei magistrati tributari nel caso in cui ricorrano le condizioni descritte all’art. 1, comma 1, lett. p), n. 5);
- concludere l’iter connesso al transito dei magistrati ordinari e delle altre giurisdizioni nella giurisdizione tributaria.
- con una previsione molto criticata dai primi commentatori e dalle associazioni rappresentative dei giudici tributari, il legislatore ha previsto (art. 1, comma 12) che, entro il 31 gennaio 2023, il Consiglio è tenuto individuare le sedi delle Corti di giustizia tributaria nelle quali non è possibile assicurare l’esercizio della funzione giurisdizionale in applicazione dell’art. 11, comma 2, d.lgs. n. 545 del 1992, al fine di assegnare d’ufficio alle predette sedi, in applicazione non esclusiva, giudici tributari appartenenti al ruolo unico di cui all’art. 4, comma 39-bis, l. n. 183 del 2011;
- adottare, come fatto, un nuovo regolamento elettorale;
- prevedere una maggiorazione di indennità per il personale (art. 1, comma 15, l. n. 130 del 2022, ai sensi del quale, il Consiglio, nell’ambito della propria autonomia contabile e a carico del proprio bilancio, individua le misure e i criteri di attribuzione della maggiorazione dell’indennità di amministrazione e della retribuzione di posizione di parte variabile in godimento del personale dirigenziale e non dirigenziale del Ministero assegnato, avuto riguardo alla natura e alla tipologia delle attività svolte).
3. Il rapporto con il Ministero dell’economia e delle finanze
Come anticipato, la riforma attribuisce al Consiglio di presidenza numerosi compiti, ma nella fase attuativa della riforma un ruolo centrale è comunque svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze.
Il Consiglio dovrà svolgere costanti interlocuzioni con il Ministero, al fine di verificare che gli atti di sua competenza siano coerenti con le esigenze dei magistrati e dei giudici tributari nonché rispettosi delle prerogative istituzionali dello stesso Consiglio.
A titolo esemplificativo: la ridefinizione della geografia giudiziaria delle Corti giudiziarie di primo e secondo grado; gli adempimenti sottesi all’indizione del concorso per la nomina a magistrato tributario; il rapporto tra l’attività di massimazione da parte dell’Ufficio del massimario nazionale e la gestione della banca dati da parte del Ministero (nuovo art. 24, commi 3 e 4, d.lgs. n. 545 del 1992); il rapporto tra i due nuove uffici dirigenziali di livello non generale aventi funzione in materia di status giuridico ed economico dei magistrati tributari e di organizzazione e gestione delle procedure concorsuali prima e il nuovo Dipartimento e le strutture del Consiglio.
Occorre ancora che il Consiglio vigili e segnali eventuali disfunzioni derivanti dall’applicazione della riforma a cominciare dall’art. 1, comma 1, lett. n), numero 2.2), in tema di riduzione dell’età di cessazione dell’incarico dei componenti delle corti di giustizia tributaria, nonché verifichi che sia correttamente determinata da parte del Ministero la misura del compenso variabile spettante al presidente, al presidente di sezione e al giudice per le controversie di competenza del giudice monocratico. Sul punto, in realtà, in conformità con le osservazioni delle Associazioni rappresentative dei giudici e dei magistrati tributari, il Consiglio ha adottato un parere critico verso la bozza di DPCM proposta dal Ministero, evidenziando che i compensi, oltre ad essere inadeguati in senso assoluto, non tengono in alcuna considerazione le modifiche del costo della vita e l’incremento dell’attività lavorativa derivata anche per effetto della l. n. 130 del 2022 (in particolare: abolizione del trattamento premiale di cui all’art. 37 d.l. n. 98 del 2011 e del comma 3-ter dell’art. 12 d.l. n. 16 del 2012; invarianza dei compensi variabili rimasti i medesimi già determinati dal d.m. del 24.3.2006 e tenuti fuori da meccanismi perequativi di rivalutazione; mancata previsione di compensi aggiuntivi per i provvedimenti assunti sulle istanze cautelari di sospensione dell’atto impugnato; esiguità del rimborso spese forfetario di euro 1,50 e comunque mancata previsione di analogo rimborso per i giudici tributari residenti in Regioni diverse da quelle della Corte di giustizia di appartenenza).
La riforma introduce una serie articolata di novità ordinamentali e processuali e solo con il costante dialogo tra le istituzioni e ascoltando le istanze e le esigenze dei giudici e delle relative associazioni di categoria sarà possibile attuare, nel modo migliore possibile, una riforma che ha inciso in maniera profonda su un sistema efficiente e con elevate professionalità acquisite in anni di esperienza sul campo.
4. Il nuovo ufficio ispettivo
L’art. 24 del d.lgs. n. 545 del 1992 elenca le attribuzioni del Consiglio di presidenza. Il secondo comma della disposizione, nella sua versione vigente anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 130 del 2022, prevede una specifica attività di vigilanza del Consiglio sul funzionamento dell’attività giurisdizionale delle Corti di giustizia tributaria e la possibilità per lo stesso Consiglio di disporre ispezioni nei confronti del personale giudicante, affidandone l’incarico ad uno dei suoi componenti.
L’attività ispettiva è quindi svolta, nella prospettiva del legislatore del 1992, tramite una delega operata dal Consiglio a uno dei suoi componenti. Lo svolgimento secondo le citate modalità la rende difficilmente efficace e comunque subordinata a una valutazione casistica operata nella singola seduta e con riferimento alla specifica attività. Con la riforma è stato eliminato l’inciso “affidandone l’incarico ad uno dei suoi componenti” ed è stato istituito un nuovo ufficio ispettivo all’interno del Consiglio.
In particolare, vengono introdotti dal n. 2 della lettera q) del comma 1 dell’art. 1, due nuovi commi all’art. 24, i commi 2-bis e 2-ter.
Con il comma 2-bis, al fine di garantire l’esercizio efficiente delle attribuzioni di vigilanza sul funzionamento dell’attività giurisdizionale delle corti di giustizia tributaria, presso il Consiglio di presidenza è istituito, con carattere di autonomia e indipendenza, l’Ufficio ispettivo, il quale può svolgere, con il supporto della Direzione della giustizia tributaria del Dipartimento delle finanze, attività presso le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di competenza.
In luogo, quindi, di una delega a un singolo componente del Consiglio, il legislatore ha istituito un nuovo ufficio, evidenziandone i profili dell’autonomia e indipendenza, con carattere di stabilità, cui sono assegnati sei magistrati o giudici tributari, tra i quali è nominato un direttore.
Al successivo comma 2-ter si prevede che i componenti dell’Ufficio ispettivo sono esonerati dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali presso le Corti di giustizia tributaria.
L’art. 8, comma 2, della legge in esame prevede che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettere q) e r), si applicano a decorrere dal 1o gennaio 2023. L’attività di vigilanza sui giudici tributari è prevista nel “Regolamento per il procedimento disciplinare nei confronti dei componenti delle Commissioni tributarie regionali e provinciali” (delibera n. 2980/2015), integrato con la modifica dell’art. 15 apportata dalla Delibera n. 739/2021. L’unica disposizione ivi contenuta diretta disciplinare la vigilanza sui giudici tributari è prevista alla sezione I, art. 1, dove si prevede che il Consiglio di presidenza vigila sul funzionamento delle corti di giustizia tributarie e può disporre le ispezioni affidandone l’incarico ad uno o più dei suoi componenti. Il secondo comma attribuisce poi compiti di vigilanza al presidente delle Corti di giustizia tributarie di secondo grado sulla attività giurisdizionale delle corti di giustizia di primo grado aventi sede nella circoscrizione della stessa e sui loro componenti. Il presidente di ciascuna corte di giustizia tributaria esercita la vigilanza sugli altri componenti. La disposizione riprende nella sostanza il contenuto dell’art. 15 d.lgs. n. 545 del 1992.
Ne discende una struttura piramidale a controllo diffuso.
Il Consiglio, con la delibera n. 440/2023 ha approvato il regolamento per l’istituzione dell’ufficio ispettivo, con il primario compito di svolgere attività presso le Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, finalizzate alle verifiche di rispettiva competenza. L’ufficio, composto da 6 componenti, in carica per sei anni non rinnovabili, esonerati dalle funzioni giurisdizionali tributarie, svolge funzioni di controllo dell’operato dei soggetti appartenenti alla giustizia tributaria, nei limiti posti dalla legge a salvaguardia dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, mediante attività di accertamento imparziale ed obiettivo di situazioni e comportamenti oggetto di segnalazione o rilevati in via autonoma, nonché della regolarità delle condotte tenute nell’adempimento dei doveri d’ufficio.
L’importanza dell’attività di vigilanza compiuta dal Consiglio di presidenza e delle funzioni svolte dall’ufficio ispettivo appaiono notevoli, non solo nella prospettiva di un eventuale giudizio disciplinare, ma anche in relazione al giudizio di demerito che il Consiglio di presidenza esprime in caso di sanzione disciplinare ovvero nel caso in cui il rapporto annuo tra il numero dei provvedimenti depositati oltre il termine di trenta giorni a decorrere dalla data di deliberazione e il totale dei provvedimenti depositati dal singolo candidato sia pari o superiore al 60 per cento (nuovo art. 11 d.lgs. n. 545 del 1992). Giudizio di demerito che incide sulle progressioni di carriera e sulle varie vicende relative alla vita professionale del giudice o del magistrato tributario (procedura di interpello di cui all’art. 1, comma 6; assegnazione al medesimo o a diverso incarico per trasferimento dei componenti delle corti di giustizia tributaria).
Poste tali premesse, la nuova legge introduce anche il criterio mediante il quale determinare il compenso spettante ai giudici tributari componenti l’ufficio ispettivo, precisando trattarsi di un compenso sostitutivo di quello previsto dall’art. 13 d.lgs. n. 545 del 1992 e corrispondente alla metà dell’ammontare più elevato corrisposto nello stesso periodo ai giudici tributari per l’incarico di presidente di corte di giustizia tributaria.
5. L’Ufficio del Massimario nazionale
L’art. 1, comma 1, lett. r) della l. n. 130 del 2022 ha inserito, dopo l’art. 24 d.lgs. n. 545 del 1992, l’art. 24 bis, rubricato “Ufficio del Massimario nazionale”, con il compito di rilevare, classificare e ordinare in massime le decisioni delle corti di giustizia tributaria di secondo grado e le più significative tra quelle emesse dalle corti di giustizia tributaria di primo grado.
Il Consiglio di presidenza ha quindi adottato, con delibera n. 158/2023 (pubblicata sul sito istituzionale del Consiglio in data 28.2.2023), il regolamento attuativo dell’Ufficio del massimario nazionale, attribuendogli, tra gli altri, i seguenti compiti: rilevazione, classificazione e riordino in massime delle decisioni emesse dalle corti di giustizia tributaria di secondo grado e di quelle più significative emesse dalle corti di primo grado tenuto conto di specifici criteri selettivi (nuova questione o nuova normativa priva di giurisprudenza; questione interpretativa controversa; mutamento di indirizzo giurisprudenziale; fattispecie di rilevante interesse); gestione e implementazione della banca dati di giurisprudenza di merito nazionale di cui all’art. 24 bis, comma 4, d.lgs. n. 545 del 1992, relazionandosi con continuità e avvalendosi del supporto dell’ente gestore dei servizi informatici del sistema informativo della fiscalità del Ministero; coordinamento e supervisione delle attività di massimazione effettuate, a seguito di stipula di appositi protocolli, dagli enti che hanno contribuito alla realizzazione della banca dati di giurisprudenza di merito e conseguente caricamento in banca dati delle massime redatte; collaborazione e supporto all’attività della istituenda Scuola Superiore della Giustizia Tributaria. L’Ufficio è composto da 15 componenti e un direttore, con esonero facoltativo dalle funzioni giurisdizionali tributarie e con durata quinquennale decorrente dalla loro nomina (l’incarico non è rinnovabile).
L’ufficio del Massimario svolge un ruolo centrale per gli operatori e per i giudici, in quanto consente di garantire la conoscenza o la conoscibilità dei precedenti della giurisprudenza di merito e la loro diffusione. Costituisce, pertanto, un fondamentale strumento per evitare i c.d. contrasti sincronici casuali e per contribuire alla calcolabilità del diritto, agevolando le attività dei giudici e dei magistrati tributari nonché di tutti gli operatori del diritto. In prospettiva, l’istituzione dell’Ufficio appare in linea con gli obiettivi del PNRR e, quindi, con la riduzione dell’arretrato o, più precisamente, funzionale ad evitare la formazione di nuovo arretrato.
In considerazione del ruolo dell’Ufficio appare senz’altro fondamentale ragionare sul rapporto tra le attività di sua competenza e il progetto Prodigit, il quale si occupa progetto sperimentale a supporto della giustizia tributaria: dalla digitalizzazione dei servizi alla creazione dell’hub del GT; dalla prevedibilità delle decisioni alla competitività del comparto; tecnologie ICT ed AI al servizio di contribuenti, difensori, giudici. Il progetto si propone di attuare un importante processo di innovazione della giustizia tributaria, con il supporto della tecnologia digitale e della intelligenza artificiale, ed è volto a realizzare un miglioramento della trasparenza e della efficienza della stessa mediante cinque linee di intervento specifiche, che si aggiungono a tre linee di intervento trasversali:
1) digitalizzazione dei processi interni del CPGT;
2) reingegnerizzazione del sito istituzionale del CPGT;
3) implementazione della banca dati nazionale di giurisprudenza di merito;
4) realizzazione di un modello di giustizia predittiva;
5) creazione sperimentale del laboratorio del giudice tributario denominato Tribhub.
Il coordinamento tra il prodotto delle attività realizzate con il Prodigit e l’attività del Massimario appare di rilievo centrale, anche al fine di garantire lo svolgimento delle complesse attività del Massimario, tenendo conto dell’elevato numero delle sentenze annualmente depositate dalle Corti di giustizia tributaria e la connaturale esigenza di avere un prodotto di qualità elevata. Al tempo stesso, occorrerà garantire un adeguato supporto locale all’attività del Massimario nazionale in relazione all’eccellente lavoro fino a poco tempo fa svolto dai Massimari regionali, illogicamente eliminati dalla riforma.
6. Note conclusive.
Il legislatore ha introdotto una consistente riforma della giustizia tributaria, modificando tra l’altro la struttura della giustizia tributaria, le modalità di reclutamento dei giudici e, in prospettiva, le relative piante organiche e circoscrizioni giudiziarie.
Il Pnrr non prevedeva una necessaria riforma organica della giustizia tributaria, con la creazione di un giudice professionale e la fine dell'attuale assetto, ma che si migliorasse l'efficienza del sistema della giustizia tributaria e si eliminasse l'arretrato presente in Corte di cassazione. La creazione dell’Ufficio ispettivo e del Massimario nazionale, effettivamente, sembrano andare verso quella direzione, ma maggiore spazio e tutela andrebbero garantiti alle professionalità oggi esistenti nella giustizia tributaria maturate in numerosi anni di esperienza, sia in termini economici che di status, anche se, a differenza degli altri d.d.l. presentati in Parlamento, la riforma ha almeno il merito di mantenere tutti i giudici in servizio fino alla naturale cessazione del rapporto.
In ogni caso, essendo rimasto immutato il rapporto tra Ministero e giustizia tributaria, non appare ulteriormente procrastinabile un rafforzamento dell’organo di autogoverno della giustizia tributaria fondamentale presidio dell’autonomia e della indipendenza della magistratura tributaria, mediante la formazione di un ruolo autonomo del personale e di un generale rafforzamento della relativa struttura, nella consapevolezza che l’organo dovrà svolgere un ruolo non solo esecutivo ma anche proattivo con il Ministero e le autorità politiche competenti al fine di contribuire al miglioramento della giustizia tributaria e dello status giuridico ed economico dei giudici e dei magistrati tributari.
Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria nel contesto istituzionale di Alessio Lanzi
1. A seguito della Legge 130/2022 molto è cambiato nella Giustizia Tributaria; e, conseguentemente, il suo Consiglio di Presidenza è chiamato a svolgere il ruolo e la funzione di un organo di autogoverno “adeguato” alla giurisdizione che amministra.
La prospettiva è quella di operare nel contesto dei principi costituzionali che presiedono le attività delle giurisdizioni, e, fra queste, di quella tributaria.
La principale norma di riferimento è, indubbiamente, quella di cui all’articolo 111 della Costituzione che, nel disciplinare compiutamente il “giusto processo”, espressamente prevede, al comma 2, come il giudice debba essere “terzo” e “imparziale”.
Non richiama, la norma costituzionale, anche l’“indipendenza”; e questa è una circostanza di grande rilievo perché i criteri oggettivi che la legge deve assicurare sono la “terzietà” e “l’imparzialità”; mentre “l’indipendenza” è uno status del soggetto, conseguenza del fatto di dover essere terzo e imparziale.
In pratica, un giudice cui si assicurano tali peculiarità oggettive, riesce – se vuole - ad essere anche indipendente nel contesto in cui opera; la legge gli consente e gli assicura l’indipendenza (art. 108 Cost.) proprio in quanto è terzo ed imparziale.
Ma è una indipendenza in qualche modo “condizionata”; infatti l’art. 101 della Costituzione prevede che egli è soggetto, e quindi subordinato, alla Legge.
Questa è la formidabile costruzione dello Stato di diritto di matrice illuministica: il giudice è indipendente da ogni potere ma è soggetto, solo, alla Legge.
In questa il giudice trova la matrice della propria indipendenza ma anche il suo preciso limite.
Solo grazie all’osservanza della Legge un giudice terzo ed imparziale riesce ad essere anche indipendente.
Per l’indipendenza, dunque, è richiesta – necessariamente – la piena conoscenza e l’osservanza della legge; ed è così, per quanto riguarda la giustizia tributaria, che acquista grande rilievo la nuova e specifica “Scuola superiore” di prossima apertura, che si occuperà proprio della formazione e dell’aggiornamento dei giudici tributari; aspetti essenziali per consentirne la piena indipendenza.
2. Un simile contesto normativo emerge anche dalla normativa europea.
L’articolo 6 della CEDU, a proposito del “Diritto ad un processo equo”, richiama la necessità che vi sia un tribunale “indipendente e imparziale”; e anche l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta, ribadisce una tale necessità.
Tali regole sovranazionali fortificano la disciplina costituzionale interna.
In un tale quadro gli articoli 111 e 101 della nostra Costituzione, e le norme ordinarie che li attuano, possono così trovare serena applicazione senza alcun problema di possibili contrasti con le normative dirette o convenzionali europee, e senza la prospettiva di dover ricorrere ai meccanismi previsti dagli articoli 10 e 11 della Costituzione per la loro attuazione.
3. In questo scenario, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria può dunque operare al fine di assicurare l’affermazione delle caratteristiche di terzietà e imparzialità dei giudici tributari, consentendone così l’indipendenza da ogni potere.
E questo è un rilevante e qualificante compito per tale organo di autogoverno nel contesto istituzionale.
4. Vanno poi considerate talune peculiarità di carattere generale che possono anche agevolare un buon autogoverno da parte del CPGT: fra queste l’assegnazione degli incarichi, che avviene sulla base di indici oggettivi di punteggio predeterminati qualora non ricorra un giudizio di demerito, ben tipizzato, sul candidato; con la regola che a parità di punteggio prevale l’anzianità anagrafica (art. 11 D.Lgs. 31.12.1992 n. 545, nell’attuale versione).
Una tale semplificazione e rilevanza oggettiva consente di prevenire possibili fenomeni di “correntismo” che potrebbero intervenire qualora le scelte fossero affidate a criteri eccessivamente discrezionali; come anche i casi di incompatibilità - ex articolo 8 D.Lgs. 545/1992 – sembrano ben definiti e puntuali nella loro previsione.
In un tale contesto, e precipuamente in coerenza con lo spirito innovatore alla base della riforma operata con la Legge 130/2022, il Consiglio di Presidenza può dunque ben operare e assolvere a quel ruolo istituzionale che gli compete.
Ruolo che consiste anche in numerosi rapporti – disciplinati ex lege – con altre Istituzioni.
A tal proposito va ricordato come l’articolo 16 D.Lgs. 545/1992 preveda che il procedimento disciplinare sia promosso anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri; come, secondo l’articolo 24, fra le attribuzioni del Consiglio vi sia quella di costante interlocuzione col MEF; come, ex art. 29, il Consiglio sia coinvolto nelle attività di “Alta sorveglianza” del Presidente del Consiglio dei Ministri; come, solo con provvedimento del Presidente della Repubblica, il Consiglio di Presidenza possa essere sciolto (art. 28).
Dunque, senza alcun dubbio, l’organo di autogoverno della giustizia tributaria esercita il suo ruolo nel contesto istituzionale.
L’auspicio è quello che adempia ai suoi compiti e alle sue prerogative in modo tale che la Giustizia Tributaria si possa compiutamente inserire, e correttamente operare, nel corretto quadro dei principi costituzionali e del contesto normativo previsti per tale importante tipo di giustizia; privilegiandosi così, e soprattutto, la cultura della giurisdizione.
Sommario: 1. Il Fondo di solidarietà comunale nel modello del federalismo fiscale municipale - 2. Le criticità del finanziamento del Fondo di solidarietà comunale a seguito della legge 30 dicembre 2021, n. 234 - 3. Il bilanciamento tra la tutela dell’autonomia finanziaria comunale e la necessità di «non regredire rispetto all’ “imprescindibile” processo di definizione e finanziamento dei LEP». Quali soluzioni legislative all’attuale perequazione ibrida?
1. Il Fondo di solidarietà comunale nel modello del federalismo fiscale municipale.
Nel definire i principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali la legge delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione, ha classificato le spese relative alle funzioni di comuni, province e città metropolitane, distinguendo «le spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione» (l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 11, co. 1, lett. a, 1), da quelle «relative alle altre funzioni» (l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 11, co. 1, lett. a, 2).
Per le funzioni fondamentali e per i «livelli essenziali delle prestazioni da esse implicate» si prevede che il finanziamento integrale, in base al fabbisogno standard, sia «assicurato dai tributi propri, da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali, da addizionali a tali tributi, la cui manovrabilità è stabilita tenendo conto della dimensione demografica dei comuni per fasce, e dal fondo perequativo» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. b). Le spese relative alle altre funzioni, invece, sono finanziate «con il gettito dei tributi propri, con compartecipazione al gettito di tributi e con il fondo perequativo basato sulla capacità fiscale per abitante» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. c).
Secondo i principi e criteri direttivi concernenti l'entità e il riparto dei fondi perequativi per gli enti locali, il fondo a favore dei comuni dovrebbe essere rappresentato «da un fondo perequativo dello Stato alimentato dalla fiscalità generale con indicazione separata degli stanziamenti per le diverse tipologie di enti, a titolo di concorso per il finanziamento delle funzioni da loro svolte» (l. n. 42 del 2009, art. 13, co. 1, lett. a).
In attuazione della suddetta legge delega, le disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale hanno introdotto nell’ordinamento due nuove «forme di imposizione fiscale» – un’«imposta municipale propria» e un’«imposta municipale secondaria» (d. lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 7). In seguito, con le disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, è stato istituito il Fondo di solidarietà comunale (FSC) – considerato di carattere perequativo[1] –finanziato da «una quota dell’imposta municipale propria, di spettanza dei comuni» (l. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, co. 380, lett. b). Come evidenziato dalla Corte dei conti, tale fondo avrebbe dovuto essere alimentato tramite «fiscalità generale, cioè con risorse del governo centrale. Successivamente (d. lgs. n. 23 del 2011), il concorso dello Stato è venuto meno, disponendo invece che il fondo fosse alimentato da quote di gettito di tributi locali»[2]. Il modello inizialmente delineato dal legislatore si configurava come un «sistema perequativo misto, di direzione verticale per la perequazione delle funzioni fondamentali, e di natura orizzontale per la perequazione delle spese relative alle altre funzioni. Tuttavia, l’evoluzione legislativa ha in parte neutralizzato e modificato l’iniziale assetto, con il risultato di rendere meno trasparente il meccanismo di assegnazione del fondo perequativo»[3]. La Corte costituzionale ha già avuto modo di soffermarsi sul FSC evidenziando la «“distorsione” del criterio perequativo»; affermando che l’attuale struttura del FSC «è divenuta interamente orizzontale, tanto da determinare, dal 2015 al 2020, un “trasferimento negativo”, nel senso che è il comparto dei comuni a trasferire risorse allo Stato»; chiarendo che sull’evoluzione della disciplina del FSC avrebbero «inciso le difficoltà e i ritardi nell’attuazione del federalismo fiscale»[4]. Secondo questa ricostruzione «il FSC presentava – almeno in origine – una natura mista (orizzontale e verticale), in quanto veniva alimentato prevalentemente dai comuni mediante la trattenuta di una parte del gettito standard derivante dall’IMU e da una quota minoritaria di risorse trasferite dalla Stato»[5].
2. Le criticità del finanziamento del Fondo di solidarietà comunale a seguito della legge 30 dicembre 2021, n. 234.
Con alcune norme del bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024 (l. 30 dicembre 2021, n. 234, art. 1, commi 172, 174, 563 e 564) il legislatore ha incrementato la dotazione del FSC. Trattasi delle disposizioni normative sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale con ricorso promosso dalla Regione Liguria per asserito contrasto con gli artt. 5 e 119, commi 3, 4, 5, Cost. La ricorrente riteneva, in specie, che assieme all’incremento della dotazione del FSC il legislatore avesse al contempo assoggettato tali risorse aggiuntive a vincoli di destinazione, in contrasto con la disciplina costituzionale in tema di perequazione (art. 119, co. 3 e 5), violando l’autonomia finanziaria dei comuni.
La Regione riteneva che la normativa impugnata, andando a definire ulteriori finanziamenti per gli asili nido (art. 1, co. 172), dissimulasse un intervento di perequazione speciale, indicando stringenti obiettivi di servizio in violazione del divieto di «vincoli di destinazione» (art. 119, c. 3 Cost.): trattandosi di funzione attribuita ai comuni, l’ulteriore finanziamento di tal tipo non avrebbe dovuto trovare collocazione nel FSC (art. 119, c. 4 Cost.). Analogo ragionamento veniva prospettato con riferimento alla norma che aumenta il finanziamento per il trasporto di studenti disabili (art. 1, co. 174) e a quella che prevede risorse finalizzate al finanziamento e allo sviluppo dei servizi sociali comunali (art. 1, co. 563), anch’essa impugnata perché asseritamente in contrasto con il divieto di vincoli di destinazione a valere sulle quote del FSC. Infine, anche la norma che si riferisce alla rideterminazione complessiva del FSC (art. 1, co. 564) veniva impugnata, sebbene nel solo inciso inziale dove richiama le altre norme impugnate.
Fatte salve le parti delle norme che incrementano gli importi annui del FSC, la ricorrente chiedeva una «pronuncia di carattere sostitutivo» in grado di rimuovere il vincolo di destinazione e ricondurre il finanziamento al criterio generale di riparto del fondo.
L’Avvocatura generale dello Stato riteneva che «non sarebbe “‘il contenitore’ finanziario ad essere dirimente ai sensi della Costituzione” per affermare la sussumibilità delle suddette risorse nell’ambito del terzo comma o in quello del quinto comma dell’art. 119 Cost., “ma la natura e la finalità dello specifico stanziamento”»; inoltre, «l’intervento in questione darebbe attuazione al monito contenuto nella sentenza n. 220 del 2021 di questa Corte in ordine al ritardo nella definizione dei LEP, destinando coerentemente le risorse per il finanziamento degli stessi, attraverso un approccio di perequazione speciale in favore delle aree meno sviluppate»[6]. L’Avvocatura concludeva che «dalla natura perequativa del FSC non discenderebbe la sottrazione delle relative risorse alle esigenze di solidarietà o di riequilibrio ove destinate dal legislatore statale alla fruizione di diritti essenziali».
3.Il bilanciamento tra la tutela dell’autonomia finanziaria comunale e la necessità di «non regredire rispetto all’ “imprescindibile” processo di definizione e finanziamento dei LEP». Quali soluzioni legislative all’attuale perequazione ibrida?
Nella pronuncia qui commentata la Corte chiarisce che le prime tre disposizioni impugnate (art. 1, commi 172, 174, 563, l. n. 234 del 2021) «intervengono sulla disciplina del fondo di solidarietà comunale (FSC) – istituito dall’art. 1, comma 380, lettera b), della l. n. 228 del 2012 – incrementandone la dotazione, attraverso risorse statali, in modo consistente e progressivo e, nel contempo, stabiliscono specifici vincoli di destinazione sulla relativa spesa, in funzione del raggiungimento di livelli essenziali delle prestazioni o, nell’attesa della definizione di questi ultimi, di obiettivi di servizio». Con riferimento, invece, alla quarta disposizione impugnata (art. 1, co. 564), afferma che questa «ridetermina, in considerazione delle nuove risorse, l’ammontare complessivo del FSC».
Definendo «farraginoso e sempre meno trasparente il funzionamento del FSC», la Corte ha evidenziato come al suo interno abbiano nel tempo «iniziato a comparire una nuova componente perequativa, che, da un lato, ha assunto carattere vincolato anche al finanziamento di LEP contemporaneamente indicati, ma, dall’altro, ha previsto, come sanzione del mancato impiego delle risorse per tale finalità, la mera restituzione delle stesse», sicché «all’interno del FSC e in aggiunta alla tradizionale perequazione ordinaria – strutturata, fin dalla sua istituzione, secondo i canoni del terzo comma dell’art. 119 Cost. e quindi senza alcun vincolo di destinazione – è stata, dunque, progressivamente introdotta, a partire dal 2021, una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale, ma puntualmente vincolata a raggiungere livelli essenziali e obiettivi di servizio», senza che tuttavia fosse previsto alcun meccanismo di controllo simile a quello stabilito per i livelli essenziali in sanità (c.d. LEA). A differenza del meccanismo previsto nel caso del mancato rispetto della garanzia dei livelli essenziali di assistenza in sanità (commissariamento regionale)[7], in effetti, la violazione del vincolo imposto dalle norme impugnate non troverebbe alcun meccanismo di garanzia dell’effettivo raggiungimento. Il nuovo assetto normativo – ad avviso della Corte – avrebbe generato «all’interno dell’unico FSC storicamente esistente, un’ibridazione estranea al disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria, il quale, a tutela dell’autonomia degli enti territoriali, mantiene necessariamente le due forme di perequazione».
Da tempo la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato che «nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo Stato può erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all’art. 119, terzo comma, della Costituzione»[8].
La Corte afferma che «nell’unico fondo perequativo relativo ai comuni e storicamente esistente ai sensi dell’art. 119, terzo comma, Cost., non possono innestarsi componenti perequative riconducibili al quinto comma della medesima disposizione, che devono, invece, trovare distinta, apposita e trasparente collocazione in altri fondi a ciò dedicati, con tutte le conseguenti implicazioni, anche in termini di rispetto, quando necessario, degli ambiti di competenza regionali».
E, tuttavia, la Corte dichiara inammissibili tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate, adottando una sentenza monitoria in cui afferma che «il compito di adeguare il diritto vigente alla tutela costituzionale riconosciuta all’autonomia finanziaria comunale […] al contempo bilanciandola con la necessità di non regredire rispetto all’ “imprescindibile” (sentenza n. 220 del 2021) processo di definizione e finanziamento dei LEP (la cui esigenza è stata più volte, come detto, rimarcata dalla Corte), non può che spettare al legislatore, dato il ventaglio delle soluzioni possibili»[9]. La Corte, nel richiamare il legislatore a «intervenire tempestivamente per superare, in particolare, una soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119 Cost.», afferma che sono molteplici le modalità con cui il legislatore può rimediare al contrasto di tali norme col divieto del vincolo di destinazione dei fondi (art. 119, co. 3 Cost.): «queste possono essere individuate dal legislatore senza compromettere quel percorso di definizione e di garanzia dei LEP sulla cui necessità, in più occasioni, la Corte ha insistito».
In effetti, per superare l’attuale modello di perequazione ibrida, il legislatore potrebbe distinguere tra un fondo perequativo per il finanziamento delle funzioni fondamentali e un fondo perequativo per il finanziamento delle altre funzioni: tale soluzione troverebbe fondamento proprio nei principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali, dove si distingue tra un fondo perequativo per il finanziamento delle spese riconducibili alle funzioni fondamentali e di quelle relative ai «livelli essenziali delle prestazioni eventualmente da esse implicate» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. b) e un fondo perequativo per il finanziamento delle spese relative alle altre funzioni (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. c).
La questione si intreccia con quella della definizione dei LEP. Già nella citata sentenza n. 220 del 2021 la Corte ha valutato negativamente «il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché “il nucleo invalicabile di garanzie minime” per rendere effettivi tali diritti», evidenziando che i LEP «rappresentano un elemento imprescindibile per lo svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali», trattandosi di un «valido strumento per ridurre il contenzioso sulle regolazioni finanziarie fra enti». Il dovere di definire i LEP è stato peraltro considerato «particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) (legge 1° luglio 2021, n. 101)»[10]. E la questione della loro definizione è altresì urgente nella prospettiva della realizzazione di una maggiore autonomia delle Regioni a Statuto ordinario nella forma dell’autonomia differenziata regionale[11], tanto che di recente è stato istituito un Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale[12].
L’urgenza di un intervento del legislatore per superare una «soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119, Cost.», i cui principi debbono trovare rispetto in ogni forma di maggiore autonomia regionale (art. 116, c. 3, Cost.), sembra andare ben al di là delle esigenze del rispetto del PNRR e della questione dell’autonomia differenziata, poiché indispensabile ai fini della garanzia effettiva dei diritti sociali attraverso la necessaria definizione dei LEP.
In tal senso il monito della Corte per una soluzione legislativa dell’attuale perequazione ibrida invita a fare chiarezza su quali risorse debba contenere il FSC, quale sia il fondo per i LEP e quello per le altre funzioni; una chiarezza che si riflette sulla garanzia del nucleo essenziale di quei diritti sociali che la Repubblica deve garantire (artt. 2, 3, 117, c. 2, lett. m, Cost.), a prescindere dalle questioni d’autonomia e di competenze, di finanziamento e di bilancio[13].
[1] Cfr. il Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 21, «la perequazione comunale avviene attraverso il fondo di solidarietà comunale, la cui alimentazione è affidata a una quota del gettito standard dell’IMU (il 22,43 per cento). […] In questa metodologia si annidano alcuni elementi di criticità del fondo di solidarietà comunale».
[2] Cit. Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 22.
[3] Cit. Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 20.
[4] C. cost., sent., n. 220/2021.
[5] C. cost., sent., n. 220/2021.
[6] Per la letteratura in materia di LEP si rinvia qui, per tutti, a M. Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione), in Politica del diritto, n.3/2002, pp. 345-360; R. Balduzzi, Note sul concetto di «essenziale» nella definizione dei LEP, in Rivista delle politiche sociali, n. 4/2004, pp. 165-182; C. Pinelli, Sui «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in Diritto pubblico, n. 3/2002, pp. 881-908; C. Tubertini, Pubblica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. Il caso della tutela nella salute, Bologna, 2008, p. 46; V. Molaschi, I rapporti di prestazione nei servizi sociali. Livelli essenziali delle prestazioni e situazioni giuridiche soggettive, Torino, 2008, p. 162 ss. Per la copiosa giurisprudenza costituzionale sui livelli essenziali cfr., ex plurimis, C. cost., sent., n. 282/2002; sul livello essenziale come nucleo irriducibile cfr. C. cost., sent., n. 309/1999; C. cost., sent., n. 509/2000.
[7] F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2019, p. 8, dove fa riferimento all’art. 120, c. 2 Cost.
[8] C. cost., sent., n. 370/2003.
[9] Sull’ «imprescindibile esigenza di salvaguardare i valori unitari e gli strumenti per la loro tutela» nell’affrontare il tema del regionalismo differenziato M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in Corti supreme e salute, fasc.1/2020, p. 254; F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, 2019, n. 5, p. 5-9; L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, in Rivista AIC, 4 settembre 2019, p. 580, «Sui livelli essenziali. Dobbiamo distinguere nettamente le diverse situazioni che caratterizzano i livelli essenziali. In qualche materia, i livelli essenziali sono vigenti; in altre, mancano completamente. Sui livelli essenziali esistenti, come è noto, il caso più evidente è proprio quello della sanità; mentre sui livelli essenziali mancanti - per fare un problematico esempio, in qualche modo adiacente alla sanità - ci riferiamo anzitutto ai servizi sociali».
[10] C. cost., sent., n. 220/2021.
[11] Cfr. F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2019, p. 8, «Prima di dar corso ad intese sul regionalismo differenziato sarebbe, quantomeno, necessario, individuare con legge i livelli essenziali delle prestazioni (Lep e Lea) […] come si possono attribuire forme particolari e differenziate di autonomia se non si sa neppure cosa sono i livelli essenziali e se, in ogni caso, non sono stati determinati i relativi finanziamenti che lo Stato deve garantire?»; M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in Corti supreme e salute, n. 1/2020, p. 255, è nell’ottica «solidaristica e collaborativa, ad oggi scarsamente attuata, che deve muoversi il nuovo “regionalismo differenziato”, per evitare il rischio che esso, in un sistema finanziariamente impreparato, aumenti le diseguaglianze nella garanzia di diritti primari, come quelli all’istruzione e, prima ancora, alla salute, con inevitabili conflitti istituzionali e conseguente complessivo indebolimento del Paese»; A. Giannola; L. Bianchi, Valorizzare le autonomie e ridurre le diseguaglianze: un federalismo fiscale solidale per l’unità del Paese, in Rivista economica del Mezzogiorno, n. 3-4/2019, pp. 647-669. Sul tema del regionalismo differenziato si rinvia a B. Caravita di Toritto, Un doppio binario per l’approvazione del regionalismo differenziato?, in federalismi.it, n. 13/2019; E. Grosso, A. Poggi A., Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in Il Piemonte delle Autonomie, n. 2/2018, pp. 1-5; F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna?, in federalismi.it, 20 marzo 2020, n. 6/2020; D. Mone, Autonomia differenziata come mezzo di unità statale. La lettura dell’art. 116, comma 3 Cost., conforme a Costituzione, in Rivista AIC, n. 1/2019, pp. 329-350; A. Cauduro, Di Maio, A. DI Majo, Dalle aporie del decentramento regionale alla ricerca dello Stato perduto, in Rivista economica del Mezzogiorno, fasc. 1, marzo 2021, p. 103 ss.
[12] Sulla composizione del Comitato e le relative modalità di lavoro si rinvia al sito del Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio dei Ministri:
https://www.affariregionali.it/il-ministro/comunicati/2023/marzo/ministro-roberto-calderoli-annuncia-61-esperti-comitato-lep-al-lavoro-con-cabina-regia-per-individuare-e-garantire-diritti-di-tutti/
e
https://www.affariregionali.it/il-ministro/comunicati/2023/maggio/autonomia-insediato-comitato-lep-calderoli-cede-timone-a-capitano-cassese-sfida-storica-da-affrontare-buon-lavoro-a-tutti/
[13] La garanzia del nucleo essenziale dei diritti fondamentali non può essere compressa dai vincoli di bilancio, ma semmai «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione», così C. cost., sent., n. 275/2016; poi anche C. cost., sent., n. 62/2020.
Sommario: 1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta. - 2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici. - 3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta.
Nelle ultime ore il programma di riforme del processo penale annunciato a più riprese dal Governo si è arricchito di un nuovo tassello: l’abolizione della norma che attribuisce al Giudice delle indagini preliminari la facoltà di ordinare al Pubblico Ministero, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, di formulare l’imputazione (articolo 409, 5° comma c.p.p.).
L’idea di un intervento così specifico - ed apparentemente interessante solo per i tecnici del processo penale - scaturisce, come già altre volte accaduto negli ultimi sei lustri, da una specifica ordinanza emessa da un magistrato in un procedimento che vede coinvolto un esponente politico del Governo in carica.
In particolare, al termine di un’indagine aperta a carico di un sottosegretario del Ministro della Giustizia, il Pubblico Ministero ha avanzato una richiesta di archiviazione, ritenendo insussistenti gli elementi del reato ipotizzato; il G.I.P., di contrario avviso, ha risposto emettendo un’ordinanza di “imputazione coatta”, ordinando cioè al Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale nei confronti dell’indagato.
Alla notizia del provvedimento sono seguite immediate reazioni di “fonti” governative e del Ministero della Giustizia, seguite da interviste ad esponenti politici e consiglieri giuridici della maggioranza, che hanno preannunciato l’inserimento nella ormai prossima “riforma Nordio” dell’abolizione dell’istituto azionato dal G.I.P., ritenuto anomalo ed irrazionale.
In questa sede non è possibile (né, forse, interessante) fare riferimento al merito della vicenda processuale. Suscita tuttavia qualche riflessione l’impianto teorico a cui hanno fatto riferimento i fautori della paventata abolizione normativa, poiché dai loro ragionamenti sembra emergere una concezione del nostro processo penale ed in generale del sistema accusatorio inedita e a tratti sorprendente.
2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici
Per comprendere la ratio della nuova determinazione di espungere dal sistema processuale un istituto mai fino ad ora menzionato nelle decine di ipotesi di riforma che hanno costellato la travagliata vita del Codice di procedura penale, occorre in primo luogo vincere la naturale ritrosia degli operatori del diritto ad argomentare criticamente su documenti anonimi.
È infatti esercizio insolito, per chi è abituato a non poter fare alcun uso nel processo penale di qualsiasi scritto o dichiarazione anonima (art. 240 c.p.p.), quello di prendere a base di un ragionamento giuridico frasi non riferibili ad alcuno.
Nel caso di specie, tuttavia, i primi accenni critici all’imputazione coatta da cui evincere le ragioni della possibile sua abolizione nella prossima “riforma Nordio” sono contenuti in una nota che i quotidiani hanno riportato genericamente come “diffusa dal Ministero della Giustizia”.
Pur se non attribuibile con certezza direttamente al Ministro, questa nota contiene però un articolato ragionamento giuridico che non può essere ignorato in questa sede.
In quella che è stata la prima reazione “ufficiale” del Ministero della Giustizia sui fatti di cronaca prima ricordati si è affermato infatti, per spiegare le ragioni per cui l’istituto è “irrazionale” e dovrà essere abolito, che il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”.
Ad ulteriore dimostrazione dell’asserita irrazionalità dell’istituto è stato inoltre osservato che, nel processo conseguente all’esercizio dell’azione penale indotto dal GIP, “l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna, non farà altro che contraddire se stesso”.
L’assunto di base da cui il ragionamento parte è condivisibile: è fuor di dubbio che nel nostro sistema il Pubblico Ministero è l’unico organo deputato ad esercitare l’azione penale.
È proprio per non intaccare questa potestà esclusiva, del resto, che è previsto l’istituto dell’imputazione coatta: anche quando il GIP non ritiene di accogliere la richiesta di archiviazione ed è convinto che si debba procedere ad una verifica dibattimentale, non potrà mai sostituirsi al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma solo imporre a quest’ultimo di procedere in tal senso.
Potestà esclusiva non vuol dire però insindacabilità, sicché non si comprende quale sia il nesso tra l’affermare che il P.M. è l’unico ad avere il potere di esercizio dell’azione penale e il fatto che l’esercizio di questo potere non possa essere soggetto a controlli.
Peraltro, una conclusione del genere sarebbe del tutto eccentrica rispetto al nostro sistema processuale, in cui tutti gli atti delle indagini preliminari più importanti sono sottoposti al vaglio costante di un giudice terzo.
Non è forse superfluo ricordare che il cardine del nostro sistema processuale è il principio di separazione delle fasi (per il quale gli atti compiuti nelle indagini preliminari non costituiscono prova, salvo eccezioni, perché non assunti in contraddittorio davanti ad un giudice terzo).
Ebbene, uno dei corollari del predetto principio di separazione della fasi processuali è costituito dalla previsione del ruolo del giudice delle indagini preliminari, che, a norma dell’art. 328 c.p.p., “provvede sulle richieste del Pubblico Ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato”, in alcuni casi previsti dalla legge.
In particolare, si tratta di tutti i casi in cui, durante le indagini preliminari e pur in assenza di prove (perché queste devono ancora essere formate) è consentita la compressione di diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la proprietà privata (art. 42 Cost.), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.): in queste evenienze è previsto che intervenga un giudice terzo ed imparziale per verificare che la predetta compressione dei diritti sia necessaria e bilanciata da effettive esigenze di indagine.
È dunque previsto che non sia il Pubblico Ministero procedente ad emettere le ordinanze di custodia cautelare, i sequestri preventivi, i decreti di intercettazione ma un Giudice la cui potestà viene attivata in seguito a specifiche richieste del magistrato inquirente: anche questa previsione discende dunque dalla separazione della fasi e delle funzioni di cui si è detto.
In tutte le menzionate ipotesi è consentito all’indagato una sorta di diritto al contraddittorio (al limite, nelle forme dell’impugnazione), sebbene differito ad un momento successivo all’atto in relazione alla segretezza che di norma caratterizza la fase delle indagini preliminari.
Proprio come in tutte le fasi più delicate delle indagini preliminari è previsto l’intervento di un giudice ed una forma di contraddittorio compatibile con la segretezza delle indagini, a maggior ragione tale esigenza è avvertita per il passaggio dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale.
È dunque connaturata al sistema processuale accusatorio ed alla divisione in fasi l’immanenza di un controllo giurisdizionale su tutti i momenti di particolare rilevanza nella fase precedente al dibattimento, in cui pur non essendosi ancora formalmente aperta la “contesa” tra accusa e difesa la persona sottoposta ad indagini può subire rilevanti conseguenze negative anche dalla semplice esistenza di un procedimento penale a suo carico.
Tra questi momenti, va sicuramente annoverata proprio la scelta del Pubblico Ministero di intraprendere - o non intraprendere - un processo pubblico e con accuse formalizzate a suo carico, che comporta l’assunzione della qualità di imputato e la sottoposizione ad un giudizio.
In merito, va ricordato che le determinazioni che il Pubblico Ministero può prendere all’esito delle indagini sono immancabilmente o l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.
Nel primo caso dunque, in ossequio ai principi esposti, il Pubblico Ministero non può direttamente determinare l’apertura di un processo a carico dell’imputato ma solo sollecitare il controllo del giudice terzo in contraddittorio tra le parti.
Come è evidente dunque, potestà esclusiva di esercitare l’azione penale non vuol dire assenza di controlli.
Per incidens, se per scelta legislativa – dettata da criteri di mera economica processuale - fino a poco tempo fa tale verifica era riservata ai procedimenti per reati più gravi (dove è prevista un’apposita fase, quella dell’udienza preliminare), con la riforma Cartabia il vaglio del giudice terzo sull’esercizio dell’azione penale è stato esteso a tutti i reati, poiché per quelli a citazione diretta è oggi stata introdotta l’udienza predibattimentale, che tra i suoi compiti più importanti ha proprio quello di affidare a un giudice terzo il vaglio sulla scelta del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale.
Anche laddove il Pubblico Ministero ritenga che non vi siano i presupposti per processare l’imputato, tuttavia, non si può tenere aperto indefinitamente un procedimento penale che porta, per la sua stessa esistenza, conseguenze potenzialmente dannose per l'indagato: il procedimento penale deve dunque essere "archiviato", cioè inviato materialmente nell'archivio della Procura.
Il diritto dell'indagato di vedere la sua posizione definita e di non essere più considerato, a termini di legge, sottoposto ad indagini, costituisce dunque il fine principale a cui tende l'istituto dell'archiviazione.
Accanto a questo diritto vi è l'interesse dello Stato a sottoporre comunque a verifica l'operato del magistrato inquirente, che potrebbe -per colpa o addirittura dolosamente - evitare di esercitare l'azione penale pur in presenza dei presupposti per affrontare un processo.
Non va dimenticato infatti che l'azione penale è nel nostro ordinamento, per disposto costituzionale, obbligatoria (articolo 112 della Costituzione), il che implica tra l'altro che non sono consentite stasi o inerzie in tema di azione penale nè che si possa rinunciare alla stessa[1].
Pertanto, proprio come le determinazioni del Pubblico Ministero quando veste i panni della parte accusatrice sono sottoposte alla verifica da parte di un giudice terzo ed imparziale allo stesso modo anche la sua eventuale decisione di non esercitare l'azione penale deve essere sottoposta ad un vaglio da parte di un giudice.
Per questo motivo, l'archiviazione del procedimento è prevista come provvedimento finale di un procedimento articolato, eventualmente all'esito di un vero e proprio giudizio da svolgersi in camera di consiglio nelle forme disciplinate dall'articolo 127 del codice di procedura penale con la partecipazione delle parti.
Appare evidente che il controllo, per essere esercitato effettivamente e non ridursi ad una mera presa d’atto, deve implicare piena libertà da parte del giudice di determinarsi sia in senso conforme alle richieste del Pubblico Ministero (emettendo così un decreto di archiviazione) sia in senso difforme.
Quest’ultimo caso è disciplinato dai commi 4 e 5 dell’articolo 409 del codice di procedura penale, ove si prevede la possibilità per il GIP di non accogliere la richiesta di archiviazione e restituire il fascicolo al PM perché continui a svolgere indagini da lui individuate ed imposte o – se ritenga che non vi siano ulteriori indagini – perché eserciti l’azione penale.
Da quanto sopra descritto appare evidente che l’affermazione sopra riportata secondo cui il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede” appare difficilmente applicabile al nostro sistema processuale.
Di più: essa sembra tradire l’idea di un Pubblico Ministero votato inevitabilmente all’accusa, incapace di mantenere l’equilibrio necessario a valutare con serenità la sussistenza di elementi di reato.
Solo così si spiega la sorpresa che trapela dietro l’ipotesi che un giudice possa spingersi, in questa valutazione, addirittura al di là della convinzione accusatoria di un pubblico ministero.
Anche questa ricostruzione del ruolo del Pubblico Ministero contrasta di fatto con il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e del nostro codice, che vuole invece nel magistrato inquirente un organo deputato a verificare la fondatezza delle notizie di reato ma nella piena libertà di autodeterminarsi e libero nei fini; sicché può ben verificarsi, ed appartiene anzi alla fisiologia del sistema, che egli arrivi al termine delle indagini preliminari e si determini per la richiesta di archiviazione anche in presenza di elementi che ad un altro magistrato (magari proprio il GIP che quella richiesta di archiviazione riceve) possono sembrare idonei al processo.
La stessa libertà dei fini che caratterizza l’azione del Pubblico Ministero nel corso delle indagini lo svincola dall’obbligo, pure paventato, di insistere nella sua idea, ben potendo invece egli – una volta esercitata l’azione penale su impulso del GIP – portare avanti con convinzione l’accusa e chiedere la condanna.
Tale ipotesi non vuol dire “contraddire se stesso” ma mantenere intatta fino al termine del processo la libertà dei fini, allo stesso modo in cui può accadere ed accade l’ipotesi contraria, di un PM che dopo avere chiesto il rinvio a giudizio di un imputato ne chieda poi al termine del processo l’assoluzione, dopo avere rivalutato in senso favorevole all’accusato gli elementi che in un primo momento gli erano sembrati idonei ad una prognosi di condanna.
3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
Ad arricchire ulteriormente il dibattito sull’abolizione dell’istituto in esame si sono successivamente aggiunte le dichiarazioni del consigliere Giuridico del Ministro della Giustizia, prof. Bartolomeo Romano, che in un’intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica l’8 luglio ha dichiarato: “Una cosa è vigilare su cosa chiede il pubblico ministero in materia di libertà personale, altro è sostanzialmente sostituirsi a lui. E’ vero che la legge prevede l’imputazione coatta, ma dal mio punto di vista si tratta di una possibilità che contrasta con la natura stessa del processo accusatorio, come del resto la previsione che il PM faccia indagini a favore dell’indagato”.
Si tratta di dichiarazioni particolarmente interessanti perché provengono da fonte altamente qualificata e disvelano non solo un pensiero, del tutto simile a quelli esaminati in precedenza, sull’istituto dell’imputazione coatta ma anche sul sistema accusatorio.
La prima affermazione sembra voler limitare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero ad un potere di vigilanza che non sfoci in un potere di sostituzione: applicato alla richiesta di archiviazione – come chiarito dallo stesso Romano in un punto successivo della sua intervista – questo renderebbe ammissibile un’ordinanza con cui il G.I.P. suggerisca indagini al P.M. (istituto già previsto dall’articolo 409, 4° comma c.p.p.) ma non l’imputazione coatta.
Sul punto appare sufficiente richiamare quanto già detto in precedenza: con l’ordinanza che impone al PM di formulare l’imputazione il Giudice non si sostituisce al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma gli impone di rivedere le sue determinazioni, per contrastarne l’eventuale inazione o un uso (non legittimo) discrezionale della sua potestà esclusiva di esercitare l’azione penale.
Il controllo del giudice, ineliminabile per quanto detto, non potrebbe estrinsecarsi solo nella possibilità di suggerire indagini per il semplice motivo che non sempre ci sono indagini da suggerire.
A fronte di un’indagine completa e in cui sono presenti agli atti tutti gli elementi per instaurare un processo, cosa dovrebbe fare un GIP a fronte di una richiesta di archiviazione che ritiene errata? Suggerire nuove indagini anche se non servono? E se il PM, svolte le indagini prescritte, reiterasse la richiesta di archiviazione, come si eviterebbe lo stallo, e in definitiva quale sarebbe il rimedio all’inazione del Pubblico Ministero?
Ma l’affermazione che desta maggiori perplessità della ricostruzione del consigliere giuridico del Ministro riguarda l’asserita incompatibilità dell’imputazione coatta con il sistema accusatorio.
Probabilmente il mezzo utilizzato (intervista ad un quotidiano) non consentiva approfondimenti tecnici e la necessità di sintesi ha conferito alla frase un’assertività maggiore del voluto: tuttavia, non può non sorprendere l’idea che un istituto che prevede il controllo da parte di un giudice terzo, in contraddittorio paritetico tra le parti, di una richiesta di una di esse sia incompatibile con il sistema accusatorio, che sostanzialmente in questo consiste.
La sorpresa aumenta laddove il ragionamento prosegue con l’accostamento ad altro istituto ritenuto pure incompatibile con il sistema accusatorio: la norma che impone al Pubblico Ministero di svolgere (anche) “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (articolo 358 c.p.p.).
Giova ricordare che il nostro ordinamento assegna al Pubblico Ministero una funzione particolare, facendone un ibrido: egli è al contempo una parte processuale pura – portatore di una visione parziale, quella dell’accusa - ed un organo dello Stato, che rappresenta gli interessi collettivi della giustizia; per questo motivo è tenuto non solo alla ricerca degli elementi di accusa ma anche di quelli a favore dell’indagato.
Come detto in precedenza, il Pubblico Ministero è indifferente alle sorti del processo, contrariamente alle altre parti: in nessun caso egli è obbligato a chiedere il rinvio a giudizio o la condanna dell’imputato, né è titolare di un “mandato ad accusare” analogo e simmetrico al mandato difensivo, che gli imponga di sostenere le ragioni dell’accusa anche se non ne è convinto.
Al contrario, la sua funzione è di rappresentare in ogni fase l’interesse dello Stato ad un esito del procedimento penale conforme a giustizia, ciò che vuol dire sia individuare e chiedere la punizione i responsabili dei reati che sollecitare pronunce favorevoli alla persona indagata o imputata in mancanza delle condizioni per andare avanti.
Tali caratteristiche - libertà dei mezzi e indifferenza dei fini – non sono affatto in contrapposizione con il sistema accusatorio, che impone come pure si è rilevato la separazione delle fasi e la formazione della prova in contraddittorio tra le parti davanti a un giudice terzo.
Il fatto che una delle parti sia libera nei fini e non vincolata ad accusare un imputato della cui innocenza è convinto aumenta il tasso di garantismo del processo.
Non si vede come lo svolgimento di indagini a favore dell’indagato possa dunque essere ritenuto elemento incompatibile con il sistema accusatorio, a meno di non considerare accusatorio un sistema in cui la pubblica accusa sia “costretta” a chiedere prima il rinvio a giudizio e poi la condanna dell’accusato, lasciando al solo giudice il compito di agire senza pregiudizi.
È paradossale poi che contemporaneamente ad un pubblico ministero ridotto ad accusatore non imparziale si auspichino minori controlli da parte del giudice, come avverrebbe nel caso dell’abolizione dell’imputazione coatta.
Un processo in cui l’accusatore agisce sempre e solo avendo di mira la condanna anche di un accusato che sa innocente e il giudice non ha sufficienti strumenti per limitarne gli eventuali abusi (che possono consistere, come si è visto, anche nell’esercitare l’azione penale a discrezione o scegliere di non esercitarla affatto, o per abbandonare l’accusa o per tenere un soggetto nella condizione di indagato eternamente e senza una verifica in contraddittorio) porterebbe ad un cospicuo arretramento delle garanzie ed al sostanziale tradimento del sistema accusatorio che si propugna di voler difendere.
[1] “Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione; dall’altro, quello del controllo del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale” (così Corte Cost 88/1991).
Sara Zinone, giovane magistrata (DM 3/2/17) dopo la prima sede, Lodi, era Sostituto a Piacenza dal 13.06.2022. E' morta a 36 anni, dopo una breve, incurabile malattia. Pubblichiamo il ricordo di Grazia Pradella, Procuratore di Piacenza.
Sara era una giovane donna, una giovane donna magistrato. Estroversa, brillante, parlava del suo essere pubblico ministero con passione, con profondo rispetto degli interessi chiamata a tutelare, mostrando tutta la tenacia e, nel contempo, la grande umiltà nell’affrontare un mestiere che sapeva essere difficile.
Fin dal nostro primo incontro ho colto in lei una grande generosità nei confronti delle esigenze dell’Ufficio: si è resa disponibile ad affrontare qualsiasi materia, anche diversa da quelle assegnate durante la precedente esperienza presso la Procura della Repubblica di Lodi, purché utile all’Ufficio. Sapendo che la gran parte dei sostituti e io avevamo una lunga anzianità di servizio, voleva soprattutto imparare , apprendere nuove tecniche d’indagine , fare tesoro delle esperienze altrui.
Aveva capito che essere “squadra”, soprattutto in Ufficio di piccole dimensioni e con un notevole carico di lavoro, era importante e con semplicità, simpatia ed intelligenza si è inserita con facilità e rapidamente nel nostro gruppo.
Sara aveva un marito, Franco, ed una famiglia molto orgogliosi di lei e con cui condivideva i sentimenti che nutriva per la propria professione. Circondata di amici un po’ sparsi per l’Italia, mi parlava delle tante cene, delle gite e delle risate con loro. Quando ho avuto l’occasione di incontrare il marito, la madre e le sue sorelle, mi sono resa conto che loro sapevano molto di me, dei magistrati di Piacenza, della sua attività perché Sara aveva raccontato loro quale era la nostra e la sua quotidianità.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Piacenza, dopo aver discusso delle indagine da delegare in un fascicolo che le avevo appena assegnato, giunta sulla porta, si è voltata verso di me e, con aria serena, mi ha detto che l’indomani mattina sarebbe arrivata un po’ più tardi in ufficio perché doveva sottoporsi ad un accertamento medico. Probabilmente la mia espressione mostrava preoccupazione e lei sorridendomi mai ha detto : “ capo (mi chiamava così per scherzo, con quall’accento marcatamente toscano che la connotava), poi torno in ufficio e scrivo la delega, non ti preoccupare, non sarà nulla…”. Quell’immagine di Sara mi è rimasta e mi rimarrà sempre impressa: quell’ottimismo è stato stroncato da quella terribile diagnosi che in meno di un anno l’ avrebbe portato via.
Eppure, nei primi mesi di cura Sara veniva in Ufficio appena le sue condizioni glielo consentivano; era rammaricata di non poter fare quanto avrebbe voluto, ma con una forza ed un coraggio sorprendenti continuava a fare come se di quella malattia non le importasse molto, tanto era sicura di guarire, per dare il “100 per cento” (sua espressione) di sé alla Procura.
Poi, a poco a poco le sue condizioni non le hanno più consentito di venire in ufficio, così ci scrivevamo tutti i giorni, anche più volte: lei mi parlava dei dolori insopportabili e delle terapie, ma soprattutto della sua ferma convinzione di tornare a lavorare. Si faceva portare i fascicoli a casa, per poter dare indicazioni alla P.G. e continuare così a lavorare; non voleva sentire ragioni, voleva continuare a dare una mano e basta.
Nell’ultimo messaggio che mi ha scritto , circa un mese fa, mi ha chiesto se poteva prendersi le ferie ad agosto ( era sicura di poter tornare); voleva fare un viaggio in Sicilia con Franco, per trovare parenti ed amici. E così io l’ho inserita nelle tabelle feriali in agosto.
Sapevamo entrambe che quel viaggio non ci sarebbe mai stato, ma Sara era così, ottimista e forte, tanto forte.
Da quel giorno, non ha più avuto le forze né per leggere, né per scrivere e si è pian piano allontanata da tutti. Notizie di lei mi erano date quotidianamente dal marito.
Così Sara se ne è andata senza che io o altri magistrati dell’Ufficio potessimo trasmetterle un po’ delle nostre esperienze; lei, invece, ci ha insegnato tanto, il coraggio nell’affrontare una terribile sorte e l’amore incondizionato per il suo mestiere di Pubblico Ministero.
Domani , io e tutti i colleghi saremo a Pistoia per dare un’ultima carezza a Sara , per farle sentire che è e sarà sempre una di noi.
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