ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il volume di Lauréline Fontaine e la prefazione di Alain Supiot - 2. La funzione di un Consiglio costituzionale quale contro-potere a tutela dei diritti di libertà dei cittadini - 3. Le critiche di Lauréline Fontaine al funzionamento della giustizia costituzionale francese. I legami con il mondo politico e l’assenza di una vera indipendenza - 4. Segue: l’inadeguatezza dei membri che la compongono - 5. Segue: l’inadeguatezza dell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della decisione, normalmente rimesso alle indicazioni del Governo o del Parlamento - 6. Segue: l’inadeguatezza della procedura e delle motivazioni delle decisioni - 7. Osservazioni riassuntive delle questioni sollevate.
1. Il volume di Lauréline Fontaine e la prefazione di Alain Supiot
Ho avuto occasione di leggere questo libro di Lauréline Fontaine, La Constitution maltraitée, Paris, 2023, e mi fa piacere presentarlo ai lettori di Giustiziainsieme, in quanto l’ho trovato sbalorditivo, in Italia nessuno si permetterebbe di scrivere cose del genere.
Si tratta, come può comprendersi dal titolo del lavoro, di un’analisi che ella compie sul Consiglio costituzionale francese, e il suo pensiero al riguardo viene così sintetizzato nella quarta di copertina: “Lauréline Fontaine getta una luce cruda sulla realtà della giustizia costituzionale sotto la V Repubblica, ella pone una diagnosi travolgente: lontano da essere una vera Corte costituzionale, il Consiglio costituzionale resta una istanza essenzialmente politica, non costituisce un contro-potere ma una anomalia democratica”.
Questo giudizio si ha (ancora quarta di copertina): “al termine di una riflessione solidamente argomentata, tanto in fatto che in diritto”, con la quale Lauréline Fontaine “sfata, uno ad uno, i miti che circondano - les sages de la rue de Montpensier-”.
E ancora: “L’assenza di una procedura a contraddittorio paritetico tra le parti e di misure di sicurezza volte a prevenire conflitti di interesse, dimostra che il modo con il quale la giustizia costituzionale è resa in Francia è assolutamente incompatibile con i principi elementari di democrazia e di Stato di diritto”(sempre dalla quarta di copertina).
Si tratta, quindi, di una posizione gravemente critica, con un atteggiamento che, ripeto, vanamente si potrebbe ricercare negli scritti giuridici italiani; e tuttavia Lauréline Fontaine non può essere considerata ne’ una sprovveduta, ne’ un’ignorante: ella è infatti professore di diritto pubblico e costituzionale presso la Sorbonne Nouvelle à Paris, e quindi va annoverata tra gli esperti del diritto costituzionale francese, senz’altro una studiosa.
Il libro, poi, contiene una prefazione di Alain Supiot, un giurista e sociologo noto in Francia, professore emerito del Collège de France, avendo insegnato lì dal 2012 al 2019.
Alain Supiot, nella presentazione del volume, precisa che “il libro potrà sembrare a qualcuno troppo severo, a tratti brutale” (pag. 19); tuttavia esso è il frutto “di una ricerca approfondita, ricca di dati fattuali, di casi concreti” (pag. 14).
Alain Supiot ricorda il Vangelo di Matteo: “con il metro con il quale giudicate sarete giudicati” (pag. 13), e poi afferma che Lauréline Fontaine, con “una ricerca sociologica e un’analisi giuridica solidamente argomentate”, ha fatto la stessa cosa, e i risultati della ricerca sono inquietanti “sia che si tratti della composizione del Consiglio costituzionale, della motivazione delle sue decisioni, dell’equità delle sue procedure, del modo di designazione dei suoi membri, delle loro competenze giuridiche, del loro statuto materiale e deontologico o delle loro condizioni di lavoro, vanamente si potrebbe ricercare un solo registro sul quale la Francia possa dare delle lezioni al resto del mondo” (pag. 13).
E ancora Alain Supiot: “Salvo rare eccezioni, i suoi componenti non devono la poltrona a una dimostrazione d’indipendenza di spirito e di alte competenze giuridiche, ma piuttosto al favore politico”.
Egli arriva, con una espressione che a noi suona offensiva, a considerare il Conseil constitutionel una specie di “casa di riposo” (maison de retraite) “des anciens présidents de la République” e “pour les personnalités bien en cour” (pag. 14/5).
Sottolinea che lo spirito di Lauréline Fontaine è quello di “aprire un dibattito su la riforma continuamente rinviata del nostro sistema di controllo di costituzionalità delle leggi”; anche se, avverte: “Lauréline Fontaine ci chiarisce le ragioni profonde dello strano consenso che vi è presso il Conseil constitutionel per mantenere lo status quo” (pag. 16).
Nei ringraziamenti Lauréline Fontaine conclude altresì asserendo che: “Negli ultimi tempi, mi è spesso stato detto di essere coraggiosa” (pag. 271), e può apparire paradossale che nella terra di Voltaire l’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sacro e inviolabile, possa considerarsi un atto di coraggio.
Ci sono quindi elementi sufficienti a giustificare una segnalazione del volume, e ciò, se si vuole, anche alla luce del dovere di diffondere, all’interno dell’unione europea, lo studio e la ricerca giuridica.
2. La funzione di un Consiglio costituzionale quale contro-potere a tutela dei diritti di libertà dei cittadini
Ciò premesso, nella introduzione l’autrice precisa che l’esistenza di una Corte costituzionale: “distingue uno Stato di diritto da uno Stato arbitrario, uno Stato liberale da uno Stato autoritario” (pag. 25).
Infatti, si può sostenere, avere una Corte costituzionale significa soprattutto avere: “la possibilità di regolare il diritto in virtù della costituzione, di limitare l’esercizio del potere politico a partire dal riconoscimento dei diritti di libertà e dell’essere umano” (pag. 25).
Lauréline Fontaine ricorda poi che il Conseil costitutionel nasceva in Francia nel 1958 “per controllare la conformità delle leggi al testo della costituzione” (pag. 26), e la sua storia ha avuto fasi diverse: nasceva nella V° Repubblica per volere soprattutto del generale De Gaulle, e, nel primo periodo, “semplicemente incaricato di proteggere il potere esecutivo, cioè il Governo e il Presidente della Repubblica dagli eccessi del parlamento”; non a caso, nei primi anni, il Conseil costitutionel taluni lo nominavamo “il cane da guardia dell’esecutivo (chien de garde de l’exécutif)” (pag. 27).
La svolta si aveva nel 1971, dopo la morte del generale De Gaulle, che già nel 1969 aveva lasciato il potere.
“Il Consiglio rende una decisione con la quale censura una legge modificante le condizioni di esercizio della libertà di associazione……….detto in altri termini, con ciò nasceva il controllo di costituzionalità di garanzia dei diritti e delle libertà. Il Consiglio non cesserà in seguito di impegnarsi in questo percorso, censurando oppure validando le leggi sottoposte al suo esame, sempre sul fondamento dei diritti di libertà protetti dalla Costituzione. I francesi avevano finalmente la loro giustizia costituzionale” (pag. 28).
Ma le cose cambiavano ancora avvicinandosi ai nostri giorni.
Lauréline Fontaine nota che “molti osservatori della vita politica e giuridica francese constatano come, da trenta anni a questa parte, le libertà siano progressivamente e rigorosamente diminuite…..le leggi adottate dal Parlamento, quasi sempre assunte ad iniziativa del Governo, hanno abbassato costantemente e sicuramente il livello di protezione dei diritti di libertà, ovvero dei diritti di libertà individuale, di libertà di circolazione, di pensiero, di espressione, di riunione e di manifestazione, di protezione della vita privata, di protezione dalle decisioni arbitrarie del potere amministrativo e giudiziario” (pag. 29).
E aggiunge: “ora, però, queste leggi sono state egualmente validate dal Conseil costitutionel, che non ha dunque niente impedito” (29); e seppur sia purtroppo questa la realtà, intorno al Conseil costitutionel si è costruito un vero catechismo (véritable catéchisme) in senso contrario dal 1970 “che gli studenti di giurisprudenza apprendono dal primo anno di studi, e che quindi in seguito è difficile smontare. Anche i più ardenti difensori dei diritti cedono sorprendentemente dinanzi a questi discorsi” (pag. 30).
Lauréline Fontaine critica duramente il Conseil costitutionel e asserisce: “i rudimenti di una giustizia indipendente, imparziale e democratica sono ignorate ad un punto tale che, alle volte, è difficile da credere” (pag. 30).
Ella rileva ciò in base a più fattori, che poi nel corso del libro cerca di spiegare e dimostrare: “à la déontologie”, a ”gli incarichi concessi come compiacimento del potere (une complaisance que le pouvoir leur a fait)”, a “les pratiques de conseil” a “la motivation de ses décisions”, ecc….(pag. 31).
In conclusione, il giudizio che Lauréline Fontaine dà del Conseil costitutionel è tranchant: “In breve” ella scrive: “il consiglio costituzionale non può essere considerato un giudice indipendente e imparziale, presenta una giustizia al ribasso, ove la riflessione costituzionale non ha quasi mai spazio” (pag. 32).
Il Consiglio costituzionale, che dovrebbe svolgere la funzione di garanzia per i cittadini e di contro-potere (contro-pouvoir) a fronte dell’esercizio del potere esecutivo e legislativo, non svolge più la sua funzione, e ciò con gravi conseguenze poiché “è in gioco la democrazia del paese……..e ciò sotto ogni livello di questioni che si voglia porre: dall’indipendenza, l’imparzialità, l’etica, la deontologia dei giudici…..Se in questo paese noi non conosciamo la giustizia costituzionale, è perché questa non è più un contro-potere e non è più all’altezza degli enunci di una Costituzione considerata la fonte del nostro sistema di libertà (pag. 32/33)”.
3. Le critiche di Lauréline Fontaine al funzionamento della giustizia costituzionale francese. I legami con il mondo politico e l’assenza di una vera indipendenza
Ma quali sono più precisamente gli argomenti di Lauréline Fontaine per rivolgere al Conseil costitutionel critiche così severe?
La prima, come anticipato, è quella di non essere indipendente, soprattutto nei confronti del governo e del mondo politico.
Lauréline Fontaine premette che quando il Conseil costitutionel deve verificare la costituzionalità di una legge “giudica il lavoro di più attori: il Governo, che è spesso all’iniziativa della legge, il Presidente della Repubblica, che ne può aver dato l’impulso, e il Consiglio di Stato, che si è pronunciato a monte sul progetto”; e in questo contesto è evidente che dunque: “il Governo svolge un ruolo di difensore della legge davanti al Consiglio costituzionale” (pag. 39).
Ora, a fronte di ciò, si ha invece una situazione nella quale il Conseil costitutionel “è essenzialmente composto di personalità tutte uscite dal mondo politico che dovrebbe essere controllato. Dal 1959 sono infatti soprattutto nominate personalità la cui carriera è stata principalmente politica, e che sono stati implicati nella preparazione o nell’adozione delle leggi che il Consiglio è chiamato a giudicare” (pag. 40/1).
Precisa Lauréline Fontaine: “in seno al Conseil costitutionel si possono trovare ex Presidenti della Repubblica, ex primi ministri (attualmente due, di cui uno presiede l’istituzione), ex ministri (attualmente due), ex titolari delle più alte posizioni amministrative (attualmente un ex segretario generale dell’Assemblea nazionale), o ex direttori di gabinetti ministeriali (attualmente due). Non vi si trovano personalità che non hanno avuto attività direttamente legate all’esercizio del potere se non in via di eccezione (attualmente nessuna)” (pag. 41). Ciò fa sì che: “un consigliere deve controllare una legge che egli stesso può aver concorso a fare, o a livello di iniziativa, o a livello di adozione, e ciò quando egli era ancora membro del Consiglio, o era ministro, o direttore di gabinetto, o parlamentare” (pag. 41).
Nelle pagine successive Lauréline Fontaine fa esempi concreti in cui ciò è avvenuto, con tanto di nomi e di date.
Sono casi che non interessano un pubblico italiano, ma sui quali Lauréline Fontaine, per dimostrare la bontà delle sue tesi, si dilunga: ricordo solo la decisione 1 aprile 2022 a proposito della legge urbanistica detta ELAN; due membri del Conseil costitutionel avevano conosciuto la legge quali ministri, uno di questi aveva addirittura adottato la circolare attuativa della legge (pag. 44); v’è poi l’esempio della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, di cui un membro del Conseil aveva partecipato all’approvazione della legge (décision n° 2001-446 DC); o quella relativa alla legge sull’indipendenza dei professori universitari, di cui una personalità aveva avuto un ruolo prima in Parlamento e poi in seno al Conseil costitutionel (décision n° 2010-20/21 QPC), ecc…..(pag. 45).
Spesso, avverte Lauréline Fontaine, la nomina a consigliere avviene “Quando questi sono ancora membri del governo o del parlamento” (pag. 45), e fa gli esempi di Jacqueline Gourault e Laurent Fabius (presidente del Conseil dal 2016), nominati quando ancora erano ministri in esercizio, o di Jacques Mézard e Francois Pillet, che al momento della nomina sedevano ancora in Senato (pag. 46).
Ed inoltre: “Al momento di prendere le funzioni Laurent Fabius indicava in effetti che egli avrebbe conservato la presidenza del COP 21 (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), e a tale titolo conservava un ufficio a Quai d’Orsay” (pag. 172).
Sono molti i casi del genere e così Lauréline Fontaine sottolinea che v’è indiscutibilmente presso il Conseil costitutionel: “una concezione leggera delle incompatibilità con l’esercizio d’altre funzioni” (pag. 196).
A colorire la situazione v’è poi la questione delle decorazioni della Légion d’honneur: “Ora, queste decorazioni sono sotto la responsabilità del Presidente della Repubblica, gran maestro dell’Ordine della Légion d’honneur. Tra coloro che hanno accettato questo onore mentre erano giudici del Conseil costitutionel si conta Louis Gros, Léon Jozeau-Marigné, Louis Joxe, Pierre Mazeaud, Pierre Steinmetz, Hubert Haenel, Lionel Jospin, Laurent Fabius; nessuno di loro, peraltro, era estraneo al mondo politico. Domenique Schnapper, ex membro del Conseil costitutionel fa questa constatazione: Alcun testo lo vieta, ma sarebbe più dignitoso, per sottolineare l’indipendenza del Consiglio, di accettare queste decorazioni alla fine del mandato, o, in ogni caso, di evitare che esse siano rimesse dall’autorità che ha il potere di nomina dei consiglieri quando questi sono ancora nell’esercizio delle loro funzioni. Una tale interdizione esiste per i parlamentari, è sbalorditivo che al contrario non esista per i membri del Conseil costitutionel” (pag. 171).
Evidentemente, osserva Lauréline Fontaine “Cette situation de double casquette est un problème pour la garantie d’un procès équitable”.
Ne’, prosegue ancora Lauréline Fontaine, avverso simili situazioni esistono norme che consentano “la ricusazione dei giudici che non offrono sufficienti garanzie d’imparzialità” (pag. 50); anzi, ella ricorda, a tal fine, che la legge 6 luglio 2016, che sottoponeva la magistratura al controllo delle incompatibilità e delle obbligazioni deontologiche, veniva dichiarata incostituzionale dal Conseil costitutionel in data 28 luglio 2016 (décision n° 2016 -732 DC): a) per quanto riguarda l’autorità giudiziaria ordinaria nella parte in cui sottoponeva detto controllo dell’Alta Autorità per la trasparenza della vita pubblica, e ciò, evidentemente, in nome dell’autonomia del potere giudiziario; b) e invece interamente, e in ogni sua disposizione, nella parte in cui essa si applicava anche ai membri del Conseil costitutionel: “Questi due pesi e due misure tra i membri del Consiglio costituzionale e i magistrati dell’ordine giudiziario sembra indegno. Il Consiglio così evita dunque ancora una volta di sottostare a delle regole ispirate dalla deontologia” (pag. 176).
Lauréline Fontaine ricorda infine il pensiero di Léon Duguit, che nel 1923 aveva detto: “se una Corte costituzionale si recluta per cooptazione, ella diventerà presto una sorte di corpo aristocratico incompatibile con una democrazia moderna”
Osserva Lauréline Fontaine: “Egli aveva visto giusto, poiché cento anni dopo, i membri del Consiglio costituzionale in Francia si reclutano con una procedura assimilabile a quella della cooptazione, ovvero con un semplice sistema di ricompensa per la carriera politica svolta” (pag. 66).
4. Segue: l’inadeguatezza dei membri che la compongono
La seconda critica mossa al Conseil costitutionel è quella che i suoi membri, in molti casi, non sono all’altezza dei compiti che devono svolgere.
I compiti di una Corte costituzionale sono infatti assai delicati e difficili, e quindi dovrebbero essere svolti da giuristi di chiara fama, indipendenti, i migliori che uno Stato abbia a disposizione.
Al contrario, secondo Lauréline Fontaine, in Francia: “si scelgono soprattutto delle personalità che hanno una carriera politica a livello nazionale…..pure quando sono nominati autentici magistrati di carriera, ciò avviene perché essi hanno una carriera all’interno dell’organizzazione amministrativa della giustizia" (pag. 94), ed anzi: “dal 1959 le autorità aventi potere di nomina hanno scrupolosamente tenuto a nominare delle personalità uscite dal mondo politico, e abbastanza spesso senza formazione o esperienza giuridica effettiva…….Questa pratica ignora le qualità necessarie che deve avere chi rende detto tipo di giustizia, e così il rischio che l’organo possa diventare un vero contro potere si riduce……..Il Consiglio è piuttosto considerato come un collaboratore del quale si ammette assai raramente che l’azione possa effettivamente contrariare quella di una maggioranza o di una coalizione in carica” (pag. 95); “Il potere politico, infatti, in tanto tollera una Corte costituzionale in quanto questa non va contro i suoi interessi” (pag. 102).
Ed ancora: “Qualcuno dei componenti del Conseil costitutionel ha avuto una formazione giuridica, ma dati alla mano ha sempre riguardato solo una minorità tra loro, e in tutti casi erano tutte personalità legate all’esercizio del potere politico. Quattro membri sono usciti dall’ENA, di cui due ex primi ministri, un ex direttore di gabinetto del presidente del Senato, e un ex direttore generale del gruppo AXA; un membro è stato un tempo professore di storia e geografia, esercitando in seguito funzioni locali e senatoriali e infine ministeriali, due membri sono avvocati di lunga esperienza ma hanno quasi sempre contemporaneamente esercitato delle funzioni politiche elettive, un membro infine è stato allievo della scuola nazionale della magistratura e poi magistrato” (pag. 93).
In sostanza: “Uno dei vecchi consiglieri lo confessa: il Consiglio vive in un clima di povertà intellettuale” (pag. 134); “Il Consiglio costituzionale manca di competenze e di esperienza nel campo della discussione giuridica” (pag. 135).
Si richiamano, infine, le testimonianze di Domenique Schnapper, universitaria e sociologica di formazione, membro del Conseil costitutionel dal 2001 al 2010, al termine del mandato ha scritto un libro dal titolo : “Une sociologue au Conseil costitutionel” (pag. 135/6). Onestamente ha confessato di essersi messa umilmente a studiare il diritto al suo ingresso al Consiglio, ma di essersi subito accorta che la formazione giuridica non era poi così necessaria per decidere i casi. E poi ancora così si rivolgeva Olivier Becht, in Assemblea nazionale, alla consigliera Jacqueline Gourault: “Non è precisato da nessuna parte della Costituzione che è necessario aver fatto studi di diritto per poter sedere al Conseil costitutionel. Voi avete, signora, esperienza di Stato e più ancora, quelle delle collettività locali. Voi disponete di tutte le competenze e di tutte le qualità richieste, il pragmatismo e il senso dell’equilibrio non sono inferiori per esercitare quelle funzioni” (pag. 137).
Lauréline Fontaine fa le sue osservazioni su questa situazione: “Valutare la costituzionalità delle leggi non è fare della politica, è stabilire al contrario cosa la politica può fare e cosa non può fare……..il lavoro del giudice costituzionale deve essere a distanza dalla politica………la cultura giuridica normalmente è assente tra i membri del Conseil costitutionel, soprattutto quella del diritto costituzionale. Se questa mancanza di conoscenze può far parte del giuoco nel momento della fabbricazione delle leggi, si comprende che tale ignoranza a livello della giustizia compromette il futuro stesso di una società secondo diritto” (pag. 139).
5. Segue: l’inadeguatezza dell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della decisione, normalmente rimesso alle indicazioni del Governo o del Parlamento
La terza critica mossa al Conseil costitutionel è quella di non svolgere una vera funzione giurisdizionale.
Lauréline Fontaine osserva in proposito che la giustizia costituzionale, diversamente dalla funzione giurisdizionale ordinaria, non accerta sostanzialmente i fatti.
Si tratta di un aspetto non secondario, che è bene precisare.
Un giudice, infatti, prima di decidere, deve accertare i fatti controversi, e solo sull’accertamento di quei fatti, che egli compie personalmente e quale autorità terza e imparziale, provvede poi a rendere la sua determinazione di diritto, e quindi la sua decisione.
Nella giustizia costituzionale, al contrario, il momento dell’accertamento del fatto non esiste nelle modalità tipiche dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
E se alle volte l’accertamento del fatto non è rilevante nel giudizio di costituzionalità, e quindi la diversità della giustizia costituzionale con la giustizia ordinaria non pone problemi, altre volte invece la determinazione del fatto può essere rilevante, e ciò avviene soprattutto nei casi, sempre più frequenti, nei quali il giudizio di costituzionalità dipende da un’attività di bilanciamento tra diritti che si ritengono contrapposti tra loro.
Scrive Lauréline Fontaine: “nel controllo di costituzionalità di una legge nell’ambito di un giudizio di proporzionalità, le misure restrittive di un diritto devono effettivamente contribuire al perseguimento dell’obiettivo che si intende raggiungere, di tal sorta che non le si possa considerare eccessive rispetto al fine dato. L’idea essenziale che traversa questo controllo è, non lo si dirà mai abbastanza, che se delle misure meno restrittive possono egualmente raggiungere quel fine, allora quelle oggetto di controllo devono essere dichiarate sproporzionate. Si parla in proposito altresì di un controllo sulla necessità delle misure”. (pag. 123).
A pensarci, infatti, nei giudizi c.d. di bilanciamento, il giudizio di costituzionalità, potremmo dire, più che su una legge, cade su dei fatti, e precisamente cade su quei fatti in forza dei quali possa dirsi o meno corretto e proporzionato il sacrificio di un diritto in favore di un altro.
Lauréline Fontaine fa degli esempi, tra i quali v’è anche quello, ovviamente, relativo al Covid 19 (pag. 124 e ss.), e poi quelli: “alla lotta contro il terrorismo, lotta contro l’immigrazione clandestina” (pag. 230), oppure quelli nei quali: “Il Consiglio proclama esplicitamente la protezione dell’ambiente e la possibilità a questo fine di limitare la libertà imprenditoriale” (pag. 235), ecc…….
Ed infatti, e a titolo di esempio: se la condizione Covid 19 è grave, detta gravità giustifica per l’appunto la restrizione del diritto alla libertà di circolazione o l’imposizione dell’obbligo vaccinale; se la situazione dell’immigrazione è grave, detta gravità può giustificare talune compressioni del diritto di asilo e/o di accesso e/o soggiorno nel territorio dello Stato; se la situazione climatica e ambientale è grave, il livello di inquinamento generale e di degradazione delle condizioni del pianeta possono giustificare talune restrizioni alla libertà personale o imprenditoriale, oppure imporre talune altre condotte finalizzate alla salvaguardia dell’ambiente e/o della salute; ancora, se vi sono in corso minacce terroristiche od altri fatti gravi e concreti volti a minare la sicurezza personale dei cittadini, leggi repressive straordinarie possono ritenersi costituzionalmente legittime alla luce della situazione di fatto del momento; se infine la circolazione stradale produce ogni anno un numero assai elevato di morti o di feriti, talune limitazioni alla circolazione in automobile potrebbero essere poste in essere nel rispetto dei principi costituzionali, ecc……
In tutti questi casi, come ben si vede, il giudizio di costituzionalità non ha ad oggetto la legge, poiché la legge, infatti, escludendo un diritto di libertà garantito costituzionalmente, di per sé è sempre incostituzionale; il giudizio ha ad oggetto, al contrario, quei fatti in forza dei quali si ritiene che sia egualmente legittimo comprimere un diritto per salvarne un altro; e in tutti questi casi non è la legge che è costituzionale o incostituzionale; sono i fatti che la rendono, o non la rendono, tale.
Ora, però, ed è questa la questione, l’accertamento di questi fatti non è dato, nella sostanza delle cose, in modo terzo e imparziale dall’organo costituzionale che è tenuto ad esprimere il giudizio, bensì è dato dalla stessa pubblica amministrazione che ha posto la legge e che dinanzi al giudice costituzionale la difende.
Lauréline Fontaine: “Le ragioni presentate dal legislatore (e, nei fatti, dal Governo, che difende la legge davanti il Consiglio costituzionale) per giustificare una restrizione ai diritti, è data come vera”; e ciò perché: “secondo la formula normalmente usata, il Conseil costitutionel non dispone d’un potere generale d’apprezzamento dei fatti e di decisione della stessa natura del Parlamento.” (pagg. 126/7).
In sostanza, il Conseil costitutionel valuta la costituzionalità delle leggi sulla base degli elementi di fatto forniti dal legislatore e dal Governo e non ha la possibilità, ne’ rientra tra i suoi compiti, quella di indagare sulla bontà delle ragioni che hanno giustificato la legge.
“Il Conseil costitutionel espone dei fatti e delle idee: “sans avor l’air de les vérifier”, e quindi: “Il consiglio non svolge dunque una vera funzione di giudice, ma si basa precisamente sulla dinamica della posizione del legislatore per valutare la costituzionalità della legge” (pag. 125); seppur: “Il giudice costituzionale è teoricamente un giudice” (pag. 127).
Oltre agli esempi sopra richiamati, Lauréline Fontaine ne porta altri, e ricordo qui, per tutti, il caso Georg Vedel, relativo alla legge sulla cittadinanza del 12 dicembre 1981, nel quale si discuteva se il Conseil costitutionel potesse entrare nel merito dei fatti e delle idee che avevano indotto il legislatore a fare certe scelte: “Il problema della nazionalizzazione oppone una filosofia dirigista ad una liberale, il Consiglio non può entrare in questi giudizi” (pag. 128).
Dunque, la questione penso sia chiara: la circostanza che nei giudizi di costituzionalità c.d. di bilanciamento oggetto del giudizio siano soprattutto i fatti che giustificano la legge, e la circostanza che la fissazione di questi fatti non è data dal giudice ma dal potere politico, o da enti che a quel potere sono riconducibile, fa sì che la giustizia costituzionale debba considerarsi in tutti quei casi una giustizia al ribasso (Une justice au rebais, pag. 133 e ss.), ovvero inidonea a tutelare i diritti di libertà che uno Stato democratico assicura ai suoi cittadini.
Aggiungo che la questione, se si vuole, può presentarsi anche in Italia.
Il problema non esista in teoria, poiché il teoria il procedimento dinanzi alla nostra Corte costituzionale prevede una possibile attività istruttoria agli artt. 13 e ss. della l. 10 marzo 1953 n. 87, il problema esiste in pratica e a livello di consuetudine procedimentale, poiché a me personalmente non risulta che la Corte costituzionale abbia mai sfruttato questa possibilità a fronte invece dei molti giudizi basati sul bilanciamento di contrapposte esigenze.
E direi che questa è anche la posizione della nostra dottrina, se è vero che G.A. FERRO, Modelli processuali ed istruttoria nei giudizi di legittimità costituzionale, Torino, 2012, 252 ha asserito che: “Il giudice delle leggi ha voluto mantenersi sempre –nell’esercitare i propri poteri istruttori- entro i confini cognitivi della sfera del potere pubblico”, e G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1988, 291, ha altresì precisato che il Governo “è spesso soggetto interessato, e comunque la sua attività di reperimento dei dati richiesti si svolge fuori di qualunque controllo e di ogni contraddittorio” (v. infatti, G. RAGONE, L’attivazione del potere istruttorio, AIC, 2020, I, 231).
6. Segue: l’inadeguatezza della procedura e delle motivazioni delle decisioni
È chiaro, e torno immediatamente in Francia, che una simile situazione incide altresì sul procedimento e sul giudizio.
Il procedimento dinanzi al Conseil costitutionel, escluso l’accertamento indipendente dei fatti rilevanti, si manifesta, conseguentemente, poco equo e poco rispettoso del principio del contraddittorio paritario tra le parti (“peu équitable et peu contradictoire”, pag. 202).
Le parti, infatti, sotto questo punto di vista, non stanno sullo stesso piano, poiché la parte che chieda la dichiarazione di incostituzionalità della legge non ha tuttavia la possibilità di contraddire e/o far verificare la ricostruzione dei fatti sulla base dei quali si fonda la ragione di bilanciamento tra diritti.
Lauréline Fontaine osserva che: “Ci sono, nel processo costituzionale, degli attori previlegiati: il Governo, il Segretario generale” (pag. 220), soprattutto quest’ultimo, visto che: “l’esperto della legge sulla quale il Conseil costitutionel deve pronunciarsi è proprio il Segretario generale del Governo, che può considerarsi come il più agguerrito e il più formato sulle questioni che devono essere dibattute” (pag. 203).
E’ di tutta evidenza, poi, che questi limiti incidono inoltre sulla qualità delle decisioni.
Su questo, Lauréline Fontaine si dilunga.
Osserva che, normalmente, i presupposti di fatto sono meramente riportati in sentenza sulla base della prospettazione presente negli atti difensivi dell’avvocatura dello Stato, e la motivazione delle sentenze normalmente non contengono disamine giuridiche particolari, ma solo la dichiarazione che il bilanciamento già effettuato dal Governo e/o dal Parlamento per legittimare la legge è conforme a Costituzione e proporzionato.
Lauréline Fontaine: “Il Conseil costitutionel chiude la porta all’argomentazione giuridica e risponde con una procedura che possiamo considerare tautologica. Nella premessa, il Consiglio normalmente ricopia l’enunciato dei valori costituzionali che ha scelto come referenza. Ma non esplicita le ragioni della scelta di quei principi, ne’ la sua origine, ne’ il suo contenuto. In seguito, il Consiglio non spiegherà le ragioni per le quali le disposizioni da giudicare sono o non sono contrari ai principi di referenza scelti. Tutte le decisioni rese dal Consiglio possono servire da esempio.” (pag. 147).
Gli esempi contenuti nel volume di Lauréline Fontaine sono molti, e non avrebbe senso riportarli in questa sede.
L’autrice ne evidenzia soprattutto le caratteristiche più ricorrenti.
La prima regola generale è quella di richiamare tutti i precedenti, alle volte in modo esteso: “Una prima soluzione consiste nell’andare a ricercare dei precedenti” (pag. 154).
Ciò, si osserva, può allungare la misura delle pagine dedicate alla motivazione, ma non renderla sufficiente se questa si limita, come in molti casi, a dei richiami meramente formali con argomenti di tipo tautologico.
Normalmente, secondo meccanismi ben conosciuti e ben rodati: “il giudice stabilisce l’opportunità di decidere in un modo o nell’altro, e solo dopo va a cercare le ragioni per giustificare la scelta che a monte aveva già fatto” (pag. 112)
V’è poi: “La pratica del Conseil costitutionel che consiste nel far passare ciò che dice come evidente” (pag. 152). O ancora: “Per mascherare una incostituzionalità il Conseil costitutionel può dare le apparenze della necessità di una tale violazione” (pag. 114). “Oppure può ricorrere a una nozione puramente e semplicemente inventata per l’escludere l’idea che la costituzione sia stata violata” (pag. 117). Od ancora il Conseil costitutionel può usare la tecnica della brevità, e: “la brevità della decisione fa passare per evidenti le circostanze particolari della fattispecie” che evidentemente possono però non esserlo (pag. 118). Lauréline Fontaine fa in proposito l’esempio della motivazione (standard): “tenuto conto delle circostanze particolari della fattispecie non v’è luogo di giudicare che questa legge (organica) sia stata adottata in violazione delle regole previste dall’art. 46 della Costituzione” (pag. 118)
O “Il Conseil costitutionel usa costantemente dei concetti generali che non sono formulati tra i valori costituzionali per legittimare scelte di politica legislativa” (pag. 120). Tra questi ricorda soprattutto l’interesse generale, la lotta contro qualcosa (lotta contro il terrorismo, lotta contro l’immigrazione clandestina, lotta contro l’evasione fiscale, lotta contro la delinquenza minorile, ecc…..pag. 121), o il controllo di proporzionalità (pag. 123 e ss.), o ancora quello del cavalier législativ, una espressione “che designa il fatto che il legislatore ha introdotto nella legge delle disposizioni che non hanno alcuna pertinenza, nemmeno indirettamente, con l’oggetto della legge o con l’oggetto delle altre disposizioni della legge stessa” (pag. 176), con ciò rendendo possibile, evidentemente, l’espulsione dalla legge, a discrezione, di un po’ tutto quello che si vuole.
“Altra tecnica del Consiglio consiste al riguardo a minimizzare la portata restrittiva posta in essere su un diritto garantito costituzionalmente da una parte, e a aumentare e potenziare la portata dell’interesse generale che è perseguito a scapito di quel diritto, da altra parte” (pag. 124).
Alle volte le decisioni del Conseil costitutionel sono lunghe e procedono per pagine e pagine di motivazione, “Ma una decisione più lunga non costituisce garanzia di una decisione argomentata” (150), poiché come nel caso della décision n. 2016-745 DC su eguaglianza e cittadinanza: “la decisione del Conseil costitutionel è lunga perché ha ad oggetto cinquanta diverse disposizioni di legge” (pag. 150).
Le osservazioni di queste prassi trovano critiche severe, e forse anche esagerate, da parte di Lauréline Fontaine: “In conclusione può dirsi che i consiglieri non hanno ne’ la formazione ne’ l’esperienza sufficiente per giudicare in queste condizioni. Ma l’idea che essi hanno della giustizia costituzionale non li conduce ad allarmarsi di ciò poiché essi non ritengono che il loro lavoro debba essere qualcosa di complesso, paziente e particolarmente esigente. Il risultato è che le decisioni sono povere, senza alcuna vera argomentazione, e non fanno apparire la giustizia costituzionale come un contro-potere ma come un'altra maniera d’esercitare il potere. Il problema è che nemmeno gli osservatori fino ad oggi hanno ritenuto di denunciare la situazione. Presso i giuristi l’idea è che si debba interpretare le decisioni del Consiglio con i magri elementi a disposizione, non altro. In questa maniera il Consiglio e i suoi membri hanno persistito nell’ignoranza di cosa sia una giustizia costituzionale degna di uno Stato democratico e continuano a considerarlo un semplice lavoro di collaborazione al potere politico…..e la lealtà della quale hanno dato prova all’esercizio del potere esecutivo è considerata come un atto necessario e salutare. La concezione minimalista della giustizia costituzionale regna dunque in seno al Consiglio” (pag. 165/6).
Con toni un po’ forti Lauréline Fontaine titola alcuni paragrafi del libro: “La justice constitutionnelle: un club privé” (pag. 202); “Les lobby à l’assaut de la justice constitutionnelle” (pag. 209); “La désillusion sociale de la justice constitutionnelle” (pag. 223), ecc...
7. Osservazioni riassuntive delle questioni sollevate
In conclusione, io credo che questo libro possa suscitare tre diverse reazioni, a seconda delle sensibilità:
a) alcuni possono ritenere che si tratti solo della posizione di una giurista, affatto corrispondente alla realtà, e relativa esclusivamente alla sua soggettiva interpretazione dei dati;
b) altri possono invece ritenere che le argomentazioni di Lauréline Fontaine sono documentate, e quindi che la sua rappresentazione dello stato della giustizia costituzionale sia reale, ma che tuttavia essa rappresenta solo la realtà della Francia e nient’altro;
c) ed altri ancora potrebbero essere indotti a valutare quanto di quelle critiche possono corrispondere a dei possibili difetti anche della nostra giustizia costituzionale, e ciò a prescindere dal fatto, sotto un certo profilo non di primordine, che Lauréline Fontaine abbia torto oppure ragione.
Aggiungerei che, in ogni caso, seppur i modi di Lauréline Fontaine siano inusuali per la dottrina italiana, e in taluni momenti brutali, le questioni che solleva, affinché il Conseil costitutionel mantenga la sua funzione, così come la indicava il Presidente Roger Frey nel 1977, “in favore della difesa delle libertà e della protezione dei diritti dei cittadini nei diversi ambiti assegnati al suo controllo dalla Costituzione” (pag. 260), non appaiono anodine, e a tal fine le riassumerei:
aa) la funzione della giustizia costituzionale è quella, si ripete ancora: “di limitare l’esercizio del potere politico a partire dal riconoscimento dei diritti di libertà e dell’essere umano” (pag. 25).
bb) In questa ottica ne consegue che i giudici costituzionali non devono avere legami con la politica e non devono aver svolto in precedenza funzioni governative, ed è altresì necessario che questa indipendenza dalla politica da parte dei giudici costituzionali vi sia anche nelle apparenze, e sia mantenuta successivamente alla cessazione dell’incarico.
cc) È necessario altresì che i giudici costituzionali siano giuristi di indiscutibile preparazione e indipendenza, i migliori tra quelli che lo Stato dispone, e non siano nominati con funzione premiale per le attività precedentemente svolte quali ministri, parlamentari o alti funzionari dello Stato.
dd) È necessario che nel giudizio di costituzionalità, così come avviene in tutti gli altri procedimenti aventi carattere giurisdizionale, il giudice accerti in autonomia e indipendenza i fatti rilevanti ai fini della decisione, e senza che gli elementi fattuali che servono per esprimere il giudizio di bilanciamento, o di congruità e/o di proporzionalità dei sacrifici imposti da una legge per favorire la protezione di altri valori, siano quelli prospettati dal Governo o da enti riconducibili al potere esecutivo.
ee) È infine necessario che le decisioni costituzionali siano compiutamente motivate, ove per motivazione completa debba intendersi qualcosa che non sia la mera ripetizione, o la semplice tautologia, di quanto già le relazioni governative e/o parlamentari hanno esplicitato per giustificare la legge in ordine alla sua legittimità costituzionale.
E possiamo, così, terminare con le parole di Alain Supiot, il quale osservava che, in fondo, “niente di così drammatico fortunatamente si trova nella storia del Conseil costitutionel tracciata in questo libro. Piuttosto qualche -épisode burlesques-, come quello della certificazione dei conti relativi alla campagna di M.M. Chirac e Balladur nel 1995. O francamente inquietante, la giurisprudenza covid, che ha sospeso, nel marzo 2020, il controllo di costituzionalità delle leggi nel momento preciso nel quale le restrizioni di libertà senza precedenti in tempo di pace l’avrebbero reso particolarmente necessario” (pag. 18).
E ancora cita Montesquieu: “c’est une expérience éternelle que tout homme qui a du pouvoir est porté à en abuser; il va jusqu’à ce qu’il trouve des limites” (pag. 18).
Garanzia di questi limiti è, appunto, il giudizio di costituzionalità delle leggi.
Sommario: 1. La forza contagiosa del rinvio pregiudiziale nel sistema delle relazioni fra giudici (nazionali e sovranazionali). - 2. Il Protocollo n.16 annesso alla CEDU ed i protocolli di dialogo fra le Corti nazionali e la Corte edu: tutti figli del rinvio pregiudiziale di matrice eurounitaria. - 3. Il fattore tempo e le tecniche decisorie delle Corti sovranazionali e nazionali (di ultima istanza). Dal rinvio pregiudiziale “esterno” a quello “interno” - art.363 bis c.p.c.-. - 4. La proposta di modifica delle competenze in tema di rinvio pregiudiziale “esterno”. - 5. Il concetto scivoloso di “materia” alla base della competenza sul rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia e Tribunale. - 6. Lo smistamento del rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia UE e Tribunale. - 7. Gli effetti indotti dalla modifica dello Statuto della Corte di giustizia. Dal piano sovranazionale a quello nazionale. - 8. Il giudice nazionale e le triangolazioni fra le Corti alla prova del nuovo rinvio pregiudiziale. - 9. Deferenza e fiducia fra le Corti nazionali e sovranazionali alla prova del “nuovo” rinvio pregiudiziale.
1. La forza contagiosa del rinvio pregiudiziale nel sistema delle relazioni fra giudici (nazionali e sovranazionali)
La riflessione che segue riguarda la proposta fondata sull’articolo 281, secondo comma, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha presentato, chiedendo al Parlamento UE ed al Consiglio la modifica del Protocollo n. 3 sullo Statuto della stessa Corte di giustizia volta a determinare le materie specifiche nelle quali il Tribunale sarebbe competente, ai sensi dell’articolo 256, paragrafo 3, TFUE a conoscere delle questioni pregiudiziali sottoposte dalle giurisdizioni degli Stati membri ai sensi dell’articolo 267 di tale trattato[1].
Il ragionamento che si intende condividere è fortemente condizionato di una prospettiva culturale che si è nutrita ed alimentata a pane e rinvio pregiudiziale da alcuni lustri, quando a dialogare con la Corte di giustizia era soltanto il giudice comune, mentre la Corte costituzionale si interrogava, dubbiosa, se potesse o meno interagire con il giudice di Lussemburgo. È stato così naturale evidenziarne il senso ed il ruolo[2], avendolo sperimentato più volte come componente di collegi della Corte di cassazione che, in materia fiscale - IVA e doganale-[3], spesso si è rivolta alla Corte di giustizia in una prospettiva sulla quale altre volte ho avuto l’occasione di riflettere[4].
Questa prospettiva assolutamente personale reca in sé la precisazione, abbastanza scontata, che le considerazioni successive impegnano unicamente chi parla e non certo la Corte di cassazione, della quale peraltro chi scrive non ha alcuna veste rappresentativa.
Si tratta di una chiave prospettica che è andata peraltro progressivamente arricchendosi di nuova linfa giungendo nell’ultimo periodo addirittura a vedere in quello strumento le radici di un nuovo modo di essere giudice del giudice nazionale per effetto di nuovi istituti di matrice interna – dei quali si dirà nel prosieguo - a loro volta figli del rinvio pregiudiziale di matrice UE.
2. Il Protocollo n.16 annesso alla CEDU ed i protocolli di dialogo fra le Corti nazionali e la Corte edu: tutti figli del rinvio pregiudiziale di matrice eurounitaria
In effetti, la capacità espansiva e contagiosa del rinvio pregiudiziale è particolarmente evidente nel sistema internazionale e nazionale di protezione dei diritti.
È figlia del rinvio pregiudiziale[5] la richiesta di parere preventivo alla Grande Camera della Corte edu che il Protocollo n.16 annesso alla CEDU ha inaugurato[6], essendosi i grandi saggi che il Consiglio d’Europa – fra i quali erano presenti autorevoli giuristi che avevano per l’appunto fatto parte della Corte di giustizia di Lussemburgo – ispirati a quell’istituto per offrire ai giudici nazionali – recte alle Alte giurisdizioni nazionali – l’opportunità di dialogare con la Corte edu. Opportunità assolutamente ignota al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, tutto al contrario, vedeva le autorità giudiziarie di ultima istanza elemento certo indefettibile del giudizio innanzi alla Corte di Strasburgo, ma unicamente come “osservato speciale” – se non come imputato-muto, assolutamente muto rispetto al proprio operato unicamente rappresentato dal provvedimento decisorio “impugnato” innanzi alla Corte edu.
Un sistema, dunque, quello convenzionale che non si nutriva affatto del dialogo fra le Corti, anzi fondandosi sull’opposto meccanismo della sussidiarietà che presuppone la definitività della risposta giudiziaria nazionale e che fondava lo stesso sistema di protezione sovranazionale sulle relazioni verticali fra le Corti stesse imponendo alla Corte edu il compito – recte il dovere – di condannare lo Stato al cui interno la giurisdizione aveva contribuito a determinare la violazione convenzionale.
Si badi bene, ancora, strumento, quello della richiesta di parere preventivo che, nelle corde dei suoi mentori, intendeva rappresentare un possibile rimedio al fattore tempo che pure affanna la Corte edu, vittima del proprio successo – sul punto tornerò nel prosieguo quanto al successo della Corte di giustizia – al punto da non riuscire ad offrire decisioni rispettose del canone della ragionevole durata del processo per il numero imponente di ricorsi a fronte della composizione numerica e strutturale di quell’organismo.
In questa prospettiva, il contatto preventivo con la Corte edu delle Alte Corti nazionali e lo strumento del parere non vincolante, si pensò, avrebbe potuto, a regime, ridurre il contenzioso innanzi alla Corte, così incidendo sul fattore tempo e dunque sull’effettività delle decisioni della Corte edu attraverso pareri capaci di offrire ai giudici nazionali dei paesi contraenti – e dunque non solo dei giudici che utilizzano la richiesta di parere – elementi importanti per orientarsi nella interpretazione convenzionalmente orientata dei sistemi interni. Strumento che aggrava, in apparenza, il peso dell’attività della Corte edu e non lo allevia ed ancora “allunga” i tempi del processo interno, ma sul quale la Corte edu ha comunque deciso di investire anche a costo di destinare, in termini organizzativi, una corsia privilegiata alla decisione dei pareri preventivi – e dunque di sottrarre risorse ai ricorsi ordinari – pur essendo come detto la Corte edu subissata di ricorsi[7]. Cogliendo, appunto, l’enorme potenzialità di un meccanismo preventivo di risoluzione di potenziali conflitti con le Corti apicali, per l’appunto destinato a ridurre, nel tempo, i fattori di innesco di nuovi contenziosi innanzi alla Corte edu. Un orizzonte, dunque, che si è inteso scrutare con una lente protesa più sul lungo periodo che sul breve, sfruttando un nuovo meccanismo – disegnato pur con le ovvie differente – sul rinvio pregiudiziale UE per suscitare il dialogo e la cooperazione franca fra le Corti.
Su un versante solo apparentemente diverso si colloca la creazione del protocollo di dialogo tra la Corte edu e la Corte di cassazione e del seguito, costituito dal gruppo di attuazione creato fra le due Corti. Un luogo di discussione pariodinato ed equiordinato, nato nella prospettiva di anticipare l’entrata in vigore del Protocollo n.16 e che si è andato arricchendo di nuovi contenuti e di nuove prospettive cooperative[8]. Una prospettiva di ricomposizione e riconfermazione del quadro giurisprudenziale interno che la Corte di cassazione – poi seguita dalle Alte corti nazionali – ha inteso favorire ed alimentare, consapevole della mutazione genetica della nomofilachia interna e sovranazionale[9].
3. Il fattore tempo e le tecniche decisorie delle Corti sovranazionali e nazionali (di ultima istanza). Dal rinvio pregiudiziale “esterno” a quello “interno” -art.363 bis c.p.c.-
Il contagio prodotto dall’idea sottesa al rinvio pregiudiziale di stampo UE si è fatto sentire anche sul piano interno.
Si avverte, così, come il fattore tempo rispetto alle pronunzie ed alle tecniche decisorie delle Corti sovranazionali e nazionali condizioni notevolmente le scelte di politica legislativa rispetto al “come” quelle Corti devono far fronte ai compiti che istituzionalmente loro competono quando dialogano con le Corti nazionali[10].
Su queste ultime, d’altra parte, ricadono in via conseguenziale gli effetti del fattore tempo che questo dialogo determina.
Del resto, è noto a chi ascolta quanto il fattore tempo abbia costituito, a torto o ragione, lo spauracchio per il nostro legislatore interno che, evocando l’irragionevole durata dei processi che avrebbe determinato la sospensione del procedimento in attesa del parere preventivo della Corte edu, ha congelato il Protocollo n.16 di cui si è già detto escludendone la ratifica. E già altre volte si è tentato di evidenziare forse l’eccessiva enfatizzazione del fattore tempo, dovendosi distinguere le cause patologiche che protraggono irragionevolmente il processo da quei tempi “virtuosi” che sono tempi di giustizia, utili al migliore esercizio delle funzioni del giudicare riservati ai soggetti-giudici che entrano a vario titolo in contatto nel corso del processo[11]. Enfatizzazione che, nel caso del Protocollo, ha indotto il legislatore addirittura a non ratificare il Protocollo n.16, facendo del fattore tempo un super valore capace di costituire un avamposto delle garanzie costituzionali interne.
Ma a parte la posizione isolazionista scelta, almeno allo stato, dal nostro Paese rispetto al Protocollo n.16 attraverso un uso nazionalista del fattore tempo, il forte appeal per l’idea sottesa al rinvio pregiudiziale si è approfondito ulteriormente allorché con la riforma Cartabia – art.363 bis c.p.c. – è stato introdotto il meccanismo del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione per ottenere lumi sull’interpretazione di norme relative a questioni esclusivamente di diritto non esaminate in precedenza dal giudice di legittimità in modo da suscitare l’adozione di un principio di diritto destinato a vincolare il giudice a quo. Meccanismo, quest’ultimo, che ha letteralmente scompaginato il sistema dei rapporti fra giudice di merito e di legittimità, introducendo una forma di dialogo, sulla quale non è possibile qui dilungarsi, il cui tratto caratterizzante prende sicuramente spunto oltre che similari istituti di derivazione transalpina anche dal rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE[12].
E tanto chi parla è stato condizionato da questa prospettiva dialogica che, come Presidente relatore della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Agrigento, ha di recente proposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione in materia tributaria[13], chiedendo l’interpretazione di una norma sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice tributario in tema di ristori post COVID sulla quale era sorto contrasto fra diverse pronunzie delle corti di merito[14]. Questione di estrema delicatezza – involgendo a monte la possibilità stessa di utilizzare il rinvio pregiudiziale da parte dei giudici di merito tributari e, a valle, quella di sollecitare, alla Corte di cassazione, con il rinvio pregiudiziale l’interpretazione di una disposizione che regola la giurisdizione, i plessi giurisdizionali – che la Prima Presidente della Corte di cassazione[15], alla quale spetta il filtro di ammissibilità sul rinvio pregiudiziale, ha rimesso all’esame delle Sezioni Unite civili.
Si tratta di un tema che si collega a doppia mandata a quelli oggetto di esame in questo convegno per due evidenti ragioni.
Ed infatti, lo strumento del rinvio pregiudiziale interno alla Corte di cassazione potrebbe collegarsi al rinvio pregiudiziale “esterno”- id est, alla Corte di giustizia UE – da parte della Corte di cassazione o, a monte, dallo stesso giudice di merito. Il che impone di chiedersi se in tali evenienze la Corte di cassazione operi come giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno (at.267 par.3 TFUE) e debba dunque considerarsi come “tenuta” a sollevare obbligatoriamente il rinvio pregiudiziale ovvero se il ruolo svolto nell’ambito della speciale competenza attribuitale dal rinvio pregiudiziale interno offra elementi per ritenere che la stessa non sia da considerare giudice di ultima istanza, ma unicamente organo investito di una peculiare forma di giurisdizione destinata unicamente a fisare un principio di diritto.
Ed è evidente che la questione non sia di scarso rilievo, chiamando l’interprete ad interrogarsi su un fascio di questioni complesse che si potrebbero racchiudere evocando tematiche già affrontate in passato in altro contesto quali quelle della “doppia pregiudizialità”, dell’efficacia del principio di diritto fissato dalla Corte di cassazione rispetto alla contrarietà con il diritto UE, della sollevazione da parte del giudice di merito di rinvio alla Corte di giustizia successiva in esito al principio di diritto fissato dalla Cassazione incidente sul diritto UE senza che la Corte di legittimità abbia ritenuto di rivolgersi alla Corte di giustizia. Questione collegate alla natura ed alla forza della decisione resa dalla Cassazione in sede di rinvio pregiudiziale interno quale regola di giudizio sull’interpretazione della legge o quale “giudicato”.
Tutto ciò ancora una volta dimostrando quanto non sia per nulla indifferente ai fini della configurazione del rinvio pregiudiziale “esterno” individuare sotto il profilo soggettivo le autorità dialoganti, per come si dirà in seguito.
Orbene, tornando alle misure appena descritte, non sfuggirà che quanto fin qui ricordato a proposito del rinvio pregiudiziale interno e del Protocollo n.16 rappresenta, indiscutibilmente, un modo di affrontare il problema dell’arretrato che affligge la Corte di ultima istanza e dell’effettività dei tempi di decisione, investendo sulla naturale capacità deflattiva che tali strumenti possiedono rispetto all’aumento del contenzioso.
Entrambi gli strumenti di cui si è detto, tuttavia, tendono a guardare al ( e governare il ) tema fattore tempo, muovendo dal presupposto comune che il raccordo fra plessi giurisdizionali anticipato rispetto alla decisione di una lite è capace di produrre effetti “di sistema” attraverso l’intervento sollecitato dall’autorità giudiziaria che deve giudicare in via definitiva sulla lite. Prospettiva che non sembra ammettere l’idea che il dialogo fra le Corti debba essere implementato o ridimensionato cambiandone i naturali protagonisti ancorché in apparenza aggravino: a) il peso del lavoro dei dialoganti; b) i ruoli della Corte edu con le richieste di parere preventivo; c) i ruoli della Corte di cassazione che, come si dirà, già di suo affronta centomila ricorsi decisi all’anno. Si tratta, infatti, di un aggravio che richiede la gestione del peso aggiuntivo sui carichi di lavoro e che, proiettato su un orizzonte di medio lungo periodo, induce le Corti coinvolte a creare misure organizzative interne adeguate e corsie preferenziali in modo da favorire questo dialogo[16], attente ai tempi dei processi che, in entrambi i casi- parere preventivo alla Corte edu e rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Cassazione- determinano la sospensione del procedimento a quo.
4. La proposta di modifica delle competenze in tema di rinvio pregiudiziale “esterno”
Direi che la riflessione potrebbe arrestarsi, offrendo in modo più o meno nitido uno spaccato in punto di comparazione che già sembra entrare in una qualche frizione con la proposta di modifica dello Statuto promossa dalla Corte di giustizia.
Ma sarebbe troppo facile per chi parla fermarsi qui e troppo poco onesto per chi invece si attende una opinione, per quello che vale, sulla proposta della Corte di giustizia.
Essa si inserisce su un tema ormai risalente e già da temo fatto oggetto di indagini approfondite da parte della dottrina, in questo modo rinvenendosi posizioni fra le più disparate, a volte indirizzate a ridurre in entrata la possibilità del rinvio pregiudiziale, altre a prevedere ipotesi di filtro da parte della Corte di giustizia o di individuazione di organi giurisdizionali nazionali dotati di specifiche competenze interpretative del diritto UE, altre ancora indirizzate a rendere effettiva la possibilità di rinvio pregiudiziale al Tribunale, secondo quanto previsto dall’art.225, p. 3, TCE.
In questa prospettiva si inserisce apertamente la proposta che qui si commenta.
Se la si guarda con l’occhio del giudice nazionale (e soprattutto quello di ultima istanza) la proposta potrebbe destare delle preoccupazioni, come ha già preconizzato la Professoressa Amalfitano nel saggio dedicato al tema[17].
Vi è anzitutto, da ragionare, sulla fonte di innesco della proposta che è, per l’appunto, rappresentata dalla Corte di giustizia UE.
Non proprio in linea con uno dei più noti brocardi latini- nemo iudex in causa propria- la Corte di giustizia UE, utilizzando un potere di impulso su Parlamento e Consiglio a modifiche normative del proprio Statuto riservatole dal TFUE (art.281, c.2) si fa in prima persona promotrice di una modifica del sistema del rinvio pregiudiziale. Ed il fatto che analogo potere venga riservato dallo stesso Trattato alla Commissione che sul tema non lo ha esercitato, invece esprimendo un parere (sostanzialmente positivo) alla proposta della Corte di Giustizia[18].
In questa prospettiva sembra emergere l’anima politica della Corte di giustizia che, in nome della salvaguardia dell’efficienza del procedimento di rinvio pregiudiziale e della “buona amministrazione della giustizia”, vorrebbe che si attribuissero al Tribunale alcune materie specifiche per rendere più agevole ed efficace il suo ruolo nelle questioni pregiudiziali “che contano”.
Il dato della lunghezza dei rinvii pregiudiziali – recte, dell’incremento che esso ha subito nell’ultimo torno di anni – se si guardano alle statistiche allegate alla stessa proposta è forse opinabile come già messo in evidenza dalla dottrina (Amalfitano).
Ma in disparte da questa considerazione fattuale v’è da dire che il fattore tempo sembra essere stato soltanto l’occasione per un intervento che pare avere altre ambizioni, nemmeno celate dalla Corte di giustizia.
Certo, alla Corte UE, sotto questo profilo, bisogna riconoscere una notevole dose di trasparenza per avere operato alla luce del sole, apertis verbis, con una proposta destinata, prima di diventare operativa, a passare al vaglio di tutti i soggetti che hanno la legittimazione a determinare la modifica dello Statuto.
Vi è tuttavia da osservare che la prospettiva, quella reale, che anima la proposta sembra essere quella di volere liberare la Corte di Giustizia di fette di contenzioso non “nobile”, in modo che essa resti giudice dell’interpretazione solenne del diritto UE per quello “nobile” perché relativo non solo a questioni e materia che tocchino il sistema dell’UE, ma più in generale che valorizzino il tratto costituzionale di quel giudice, avvicinandolo a quello delle Corti costituzionali nazionali.
E così, il fattore tempo è solo l’occasione della modifica e non il fine. Se intendo diventare giudice dei diritti fondamentali e delle questioni centrali per il sistema UE e non di altro la circostanza che la mia decisione giunga entro 15 o 17 mesi sembra infatti assumere marginale rilievo, a fronte della scelta valoriale che sta alla base della proposta e che, indubbiamente, colpisce se appunto si riflette sul fatto che questa prospettiva provenga dalla Corte di giustizia stessa. Certo, se si pensa alla natura pretoria di gran parte della giurisprudenza della Corte di giustizia in diverse questioni che poi hanno contribuito alla costruzione dell’edificio europeo, le preoccupazioni qui ventilate potrebbero apparire eccessive. Ma forse la comparazione con quanto appena rappresentato non torna utile, qui discutendosi dell’architettura costituzionale del sistema di tutela dei diritti all’interno del diritto dell’Unione europea. E che sia uno dei soggetti ad individuare le linee di questo cambiamento radicale del sistema non finisce di convincere per quel forse bizantino convincimento che le riforme del sistema debba pensarle il legislatore senza che questo senta il peso e l’autorevolezza di una proposta di normazione proveniente da chi è espressione massima della giurisdizione europea e che dovrebbe essa stessa beneficiare di questa riconfermazione del proprio ambito giurisdizionale per effetto di una proposta da essa stessa pesata, congegnata e partorita. Tanto più che questa nuova risagomatura delle competenze in tema di rinvio pregiudiziale va a toccare il ruolo e la funzione di altra autorità giurisdizionale che nel sistema è posta in posizione subordinata rispetto alla Corte di giustizia, lasciando in sottofondo la funzione delle autorità giudiziarie nazionali, rispetto alle quali l’idea di base della proposta sembra essere che per queste ultime è totalmente indifferente il cambio di competenza e cioè su chi debba decidere il rinvio pregiudiziale e se questi sia o meno l’autorità giurisdizionale comunitaria alla quale viene attribuito il ruolo di garante ed interprete dell’unità del sistema UE, fin qui unanimemente individuata nella stessa Corte di giustizia.
5. Il concetto scivoloso di “materia” alla base della competenza sul rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia e Tribunale
Veniamo al merito della proposta di modifica dello Statuto.
Nella scelta delle materie “trasferite” al Tribunale ecco dunque emergere complessi di contenzioso in materia fiscale (IVA, accise, codice doganale, classificazione tariffaria delle merci, compensazione pecuniaria, scambio di quote di emissione di gas ad effetto serra) assolutamente eterogenei, in qualche caso addirittura bagatellare – compensazione per i passeggeri – in altri fortemente tecnici – classificazione tariffaria delle merci, gas ad effetto terra – in altri ancora di notevole impatto finanziario – IVA, accise –.
Qualche breve annotazione sul punto.
All’eterogeneità corrisponde, ovviamente, la diversa rilevanza delle materie. E fra queste quella dell’IVA rappresenta sicuramente quella che sembra essere meno bagatellare o meno nobile delle altre.
La proposta di modifica sembra muovere dall’idea che il trasferimento al Tribunale non debba riguardare tutto il contenzioso indicato nelle aree testé indicate, ma unicamente quello che non coinvolga questioni che, pur ricadendo nel concetto di materia, “siano “sensibili”. Il che val quanto dire che se venissero in rilievo questioni relative ai diritti fondamentali, alla coerenza del sistema UE, alle libertà fondamentali, la materia sia “altra” e, dunque, tale da giustificare il trattenimento innanzi alla Corte di giustizia o comunque l’attrazione del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in caso di questioni connesse a quelle appena ricordate.
Questa idea di fondo, oltre che di non facile attuazione secondo parametri prestabiliti ex ante e dunque capaci di offrire quelle garanzie procedurali alle quali pure la proposta fa riferimento- prima delle quali rappresentata dall’individuazione a monte del giudice naturale- sembra certificare la debolezza del Tribunale che non potrà mai avere “piena” cognizione del rinvio pregiudiziale ad esso demandato.
Il tribunale, privato della possibilità di interpretare le disposizioni che più si prestano ad operazioni di innovazione e creazione della portata di senso delle stesse, viene depotenziato a mero giudice chiamato ad emettere giurisprudenza riproduttiva, se si vuole “non nobile” in quanto collegata all’applicazione di disposizioni contemplate da testi normativi che poco si prestano a costruzioni giurisprudenziali di valore.
Se dunque si toglie ad un giudice la possibilità di misurarsi con le regole primarie, con i principi, con ciò che rappresenta il sistema UE nel suo complesso, non si crea forse un giudice dimidiato, un giudice cadetto e di serie B?
Se così fosse la stessa specializzazione per materie che pure si ipotizza da parte del Tribunale competente sui rinvii pregiudiziali non consentirà comunque a quel giudice di ragionare sul sistema trasferito quando in gioco ci sono diritti fondamentali o questioni concernenti l’architettura complessiva del sistema UE. Viene a questo punto spontaneo chiedersi quale autonomia si possa dunque riconoscere ad un giudice specializzato che conosce di una materia ma non può decidere su quella materia quando su essa si innesta un diritto fondamentale di matrice UE una questione che intercetta problemi relativi al modo con il quale opera il sistema UE.
Orbene, è immaginabile che nel nostro momento storico un giudice internazionale che ha il governo dell’interpretazione del diritto UE- su specifiche materie - non abbia alcuna legittimazione a decidere un rinvio pregiudiziale sulla sua materia sol perché in gioco vi sia un diritto fondamentale, spesso inscindibilmente connesso alla fisiologia stessa assunta da un istituto regolato dal diritto UE? Quale garanzia può offrire un giudice che decide quando a monte sa che, ove dovesse emergere dall’esame del caso il coinvolgimento di un diritto fondamentale che merita di essere considerato nell’attività di bilanciamento propria di qualunque giudice, non potrà affrontare il contenzioso allo stesso demandato con l’occhio proteso ai diritti fondamentali o al sistema UE nel quale la materia si innesta?
Che giudice sarà il Tribunale se, quando interpreta il diritto relativo alla materia oggetto di dubbio da parte del giudice nazionale, non ha nella sua cassetta degli attrezzi le chiavi per tenere in considerazione i diritti fondamentali, il sistema UE, i principi cardine che lo governano, le questioni relative all’efficacia diretta e via discorrendo, le libertà fondamentali se incise dall’interpretazione che viene offerta? Come potrà ragionare sulle questioni di ordine sostanziale e processuale che ormai continuamente agitano i contenziosi in ambito nazionale proprio in ragione dell’esplosione del tema dei diritti delle persone, soprattutto nell’era del post Covid? E, ancora, se davvero in tutte le ipotesi che qui si è cercato di evidenziare nessuna competenza potrà mai riconoscersi al Tribunale, rimando la stessa ancorata alla Corte di giustizia quale potrà essere, in termini concreti, l’effetto positivo in termini di efficienza e riduzione dei tempi dei rinvii pregiudiziali trattati dalla Corte di giustizia?
Le perplessità appena espresse non si attenuano se si guarda alle ricadute sul piano delle autorità nazionali, delle quali la proposta sembra totalmente prescindere, provando a sfruttare il canone della comparazione fra sistemi diversi.
Colpisce, per un verso, che tutte le materie trasferite alla competenza del Tribunale quanto al rinvio pregiudiziale riguardino, sul piano interno, prevalentemente il giudice ordinario-tributario e non quello amministrativo. Il che rileva sotto due punti di vista.
Per un verso, la suddivisione di competenze (solo) in tema di rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia UE e Tribunale fa ricordare, pur con gli ovvi debiti distinguo, la storia del rapporti fra g.o. e g.a. sul piano interno e le contese, nemmeno in atto totalmente sopite, per la individuazione di fette di contenziosi in sede di riparto di giurisdizione dalla quale è derivata la suddivisione dei plessi giurisdizionali sempre più basata, in nome di un’esigenza di semplificazione rispetto a criteri di riparto considerati più complessi e tortuosi, sulla base di “blocchi di materie” fra giudice ordinario e giudice amministrativo[19].
Quel riparto di competenze (giurisdizionali) ruota attorno all’esercizio del potere ed all’esistenza di una posizione giuridica sui generis rispetto al diritto soggettivo – quella dell’interesse legittimo – emergente quando la p.a. esercita autoritativamente le sue prerogative istituzionali.
Ora, analoghi problemi a quelli prodotti da quel riparto sembrano, mutatis mutandis, già intravedersi all’orizzonte sullo spezzettamento del rinvio pregiudiziale fra Corte di Giustizia e Tribunale.
Basti qui accennare al tema – agitato – della incidenza, ai fini del riparto di giurisdizione, dei diritti fondamentali sulle “materie” di giurisdizione esclusiva e sul potere dell’amministrazione e sulla incidenza di tali diritti fondamentali ai fini del riparto delle giurisdizioni[20].
Ora, la Corte di giustizia UE sembra muovere dall’idea che se nei settori trasferiti entrino in gioco i diritti fondamentali – o i principi del diritto UE o l’unità del diritto UE o le libertà fondamentali del diritto UE – il rinvio pregiudiziale sollecitato non rientrerebbe più nelle materie trasferite al Tribunale, ma dovrebbe rimanere alla Corte di giustizia.
Come dire…corsi e ricorsi storici dimostrativi di quanto sia complesso pensare ad una frammentazione delle competenze per una materia sol perché si discuta dell’interpretazione di un diritto fondamentale o di una libertà fondamentale le quali, verrebbero in gioco rispetto con specifico riferimento alla questione pregiudiziale e non in termini generali. Da qui, ritornando per saltum alle contese interne fra g.o. e g.a. – affidate alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione – le eterne contrapposizioni fra g.o. e g.a.[21] sulla incidenza ai fini del riparto di diritti fondamentali rispetto all’agire della p.a., alla natura del potere rispetto al diritto fondamentale in gioco.
6. Lo smistamento del rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia UE e Tribunale
Se ora si passa alla riflessione sulle modalità operative concernenti l’individuazione concreta del giudice UE chiamato a decidere i rinvii pregiudiziali rispetto alle materie specifiche individuate nella proposta i dubbi non si attenuano.
Ed invero, la sensazione, a prima lettura, è quella di un sistema non privo di difficoltà che introduce una sorta di filtro in entrata delle questioni pregiudiziali riservato alla Corte di giustizia UE, giustificato in nome di una asserita semplificazione offerta al giudice nazionale, il quale non avrà dunque il dubbio su chi investire.
Ed invero, benché la Corte di giustizia si periti di chiarire che “la verifica effettuata dalla Corte in tale contesto non consiste in una valutazione vertente l’opportunità di rinviare la causa dinanzi al Tribunale o di trattenerla presso la Corte” mirando “esclusivamente a garantire il rispetto del principio di attribuzione delle competenze” sembra che tale meccanismo possa realmente rappresentare una sorta di filtro in entrata da parte della Corte di giustizia, alla quale spetterà così di verificare se esso riguardi o meno la materia riservata al Tribunale ma anche se esso metta in gioco, come si diceva questioni “di sistema”.
Se, infatti, dovesse risultare che la Corte di giustizia, all’atto della presentazione del rinvio pregiudiziale, potrà indirizzarlo verso il Tribunale o trattenerlo in base alla previa verifica della portata del rinvio e delle sue implicazioni di sistema, ci si troverebbe in presenza di una verifica preliminare “in entrata” che non potrà non considerare il contenuto sostanziale del rinvio pregiudiziale e dei quesiti posti. Meccanismo che appare sicuramente un novum rispetto alla disciplina contenuta nell’art. 256 TFUE, ove era prevista la competenza secca del Tribunale in materie specifiche[22].
Un test che condurrà il rinvio pregiudiziale dunque verso l’una o l’altra corsia giudiziaria in base alla scelta che passa dall’interpretazione del rinvio stesso da parte della Corte di giustizia, evidentemente considerata come organo di vertice della giurisdizione UE.
Insomma, una competenza delicata, evidentemente di natura giurisdizionale, preliminare e preventiva anche se volta a verificare che in tesi la ricevibilità e/o strumentalità di una richiesta di rinvio pregiudiziale che involga in modo non pertinente e/o non rituale la prospettata violazione dei diritti e libertà fondamentali del diritto UE connessa al rinvio rispetto alle specifiche materie rimesse all’esame del Tribunale.
Ora, è ben evidente che questo vaglio preliminare potrebbe essere visto positivamente se appunto inteso a salvaguardare l’unità del sistema e, dunque ad evitare la trattazione innanzi al Tribunale di cause “delicate” per i contenuti che esse sollecitano.
Ma questa verifica fino a quale punto potrà spingersi e fino a che punto limiterà la competenza del Tribunale?
Riguarderà le ipotesi nelle quali, ad esempio, l’autorità giurisdizionale nazionale ipotizzi un overrulling rispetto alla giurisprudenza consolidata in essere presso la Corte di giustizia rispetto alle materie trasferite? Ed in tali casi la Corte di Giustizia, proprio in nome della salvaguardia del sistema UE, scenderà in sede di vaglio preliminare a verificare le chances di cambiamento per poi ponderarle al fine della scelta sul trattenere o meno la decisione sul rinvio? E a questo punto la scelta orienterà verso la Corte di giustizia quando e perché? E, vista invece da parte del Tribunale – e di coloro che sollevano il rinvio pregiudiziale –, quale sarà la libertà di quell’organo giurisdizionale nel decidere il rinvio rispetto alla giurisprudenza consolidata che ha costituito la base di partenza per il trasferimento di settori al Tribunale? Sarà pienamente libero di interpretare il diritto UE relativo alla materia o si sentirà in dovere di orientarsi sui binari già fissati dalla Corte di giustizia, con il rischio di incorrere nella procedura di riesame innanzi alla Corte di giustizia stessa?
Ne esce un quadro a tinte in atto non molto nitide, pieno più di interrogativi che non di risposte, rispetto al quale verosimilmente seguirà un’attuazione della riforma con l’attribuzione del rinvio senza alcuna motivazione esplicita o articolata delle scelte operate al momento dello smistamento del rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia, ma semplicemente una para-motivazione volta a riconoscere unicamente la ricorrenza della materia riservata al Tribunale o, in caso contrario, la competenza della Corte di giustizia in ragione della ritenuta esistenza di materie connesse.
Il che, a ben considerare, solleva sicuramente il giudice a quo dai problemi di individuazione del suo interlocutore, ma lascia incerto il destino del rinvio, che rimarrà ignoto al giudice nazionale quando questi si propone come dialogante con il giudice UE.
L’essere in magistratura da circa trentadue anni ha portato chi scrive a cogliere in chiaro l’esistenza di un che di politico nelle scelte decisionali di qualunque plesso giurisdizionale ed a ragionare in più occasioni sul volto politico della Corte costituzionale a proposito della scelta di campo inaugurata dalla sentenza n. 269/2017[23]. sulla quale tornerò nel prosieguo.
Qui interessa solo evidenziare che la dimensione politica della Corte di giustizia sembra emergere con la proposta di cui discutiamo. Come che sia, da questo test iniziale si comprende bene che il dialogo in sede di rinvio potrebbe uscire ridimensionato o geneticamente modificato.
In altri termini, se a decidere il rinvio sarà il Tribunale ci si potrà legittimamente chiedere – da parte del giudice nazionale – quale ambito di autonomia tale organo avrà nell’esaminare le questioni rimesse?
Un Tribunale che sarà per l’un verso gratificato dall’avere ricevuto il rinvio pregiudiziale e che già in questa prospettiva immagina che la Corte di giustizia abbia stimato che la controversia non presenti un rilievo tale, vuoi per la concorrente esistenza di questioni di altra natura, vuoi per la ritenuta insussistenza di presupposti per immaginare un overruling capace di incidere sulla certezza del diritto, sull’unità del sistema o sui diritti e libertà fondamentali – salvo a domandarsi lui stesso, al momento dell’esame del rinvio pregiudiziale, se anche la ricorrenza delle ipotesi anzidette costituiscano una sorta di controlimite al rinvio al Tribunale tanto che in presenza di questioni che attengono alla forza dei giudicati nazionali o alle altre che ordinariamente si pongono all’interno di controversie nelle quali entra in gioco il diritto UE- efficacia diretta, efficacia orizzontale, contraddittorio ecc., – lo stesso non potrà che rimettere la soluzione del rinvio alla Corte di giustizia?
Ora è indubbio che l’autonomia, indipendenza ed autorevolezza dei giudici del Tribunale non possa né debba essere messa in discussione. Ma qui non si tratta di valutare le qualità personali dei giudici che compongono la Corte di giustizia e il Tribunale, nessuno potendo e volendo dubitare della assoluta autorevolezza di entrambi i plessi giurisdizionali, quanto del fatto che il cambio di regole sulla competenza incide sul piano soggettivo degli organi chiamati a dialogare e della loro posizione all’interno della struttura degli organi che non pare essere affatto neutra rispetto a chi solleva il rinvio pregiudiziale.
Se infatti cambiano i soggetti che dialogano e cambia il ruolo che gli stessi assumono nell’architettura dell’ordinamento UE non sembra peregrino pensare che cambi anche il meccanismo e i rapporti fra i dialoganti, come si avrà modo di precisare alla fine di queste riflessioni.
Resta poi il fatto che il cambio di giurisprudenza o comunque la presa di posizione del Tribunale rispetto alla giurisprudenza consolidata già formatasi sulle materie trasferite appaiono remote se appunto il criterio base utilizzato dalla Corte di giustizia per individuare le materie trasferite è stato quello dell’esistenza di un diritto consolidato, leggermente incrinando l’immagine del Tribunale come organo che dialoga (ma solo in via mediata) con il giudice nazionale dopo il semaforo verde della Corte di Lussemburgo. Immagine ancor più messa in discussione se si pensa alla possibilità che le decisioni del Tribunale in sede di rinvio pregiudiziale possano essere messe sotto tutela dalla Corte di giustizia in caso di richiesta di riesame proveniente dall’Avvocato generale – stando a quanto previsto dall’art.256 TFUE –.
Insomma, meccanismi tutti sui quali si può oggi ragionare solo in astratto perché immaginati in vitro e non in vivo in mancanza di precedenti – e delle norme regolamentari che verosimilmente seguiranno alla introduzione della modifica dello Statuto – dai quali comprendere come si orienterà la Corte. Ma che già si dimostrano forieri di dubbi non marginali.
Il che val quanto dire che le risorse necessarie per affrontare i nodi che qui si sono ipotizzati e gli esiti stessi di questi possibili test e verifiche, ex ante ed ex post, rischiano di depotenziare l’effetto voluto dalla proposta – id est il risparmio di tempo nei procedimenti trattenuti dalla Corte di giustizia – se si pensano al modo con il quale si dovrà intendere il concetto di materia e quello delle questioni che giustificano il “trattenimento”.
Se dunque la delimitazione dei confini non si immagina essere agevole e, soprattutto, sembra molto condizionata da scelte valoriali della Corte di giustizia – e solo di questo organo – in entrata o dell’Avvocato generale della Corte di giustizia, che è sempre organo esterno al Tribunale nel valutare la richiesta di riesame, le ragioni dubbiose sulla proposta crescono più che attenuarsi, venendo quasi naturale chiedersi quale si debba intendere la relazione ed il rapporto fra Corte di Giustizia e tribunale e, soprattutto se la tipologia di questo rapporto debba essere fissata sulla base di una proposta che viene dall’interno dei plessi giurisdizionali coinvolti – recte da uno dei plessi che rivendica, probabilmente non infondatamente, una certa primazia sul Tribunale –.
7. Gli effetti indotti dalla modifica dello Statuto della Corte di giustizia. Dal piano sovranazionale a quello nazionale
Passando ora al piano delle riflessioni che riguardano più direttamente il giudice nazionale, anticipando il senso delle conclusioni del ragionamento, sembra di poter dire che il rinvio pregiudiziale potrebbe uscire in qualche modo depotenziato nella parte che soprattutto riguarda le autorità giudiziarie nazionali.
Invero, di tutto sembra preoccuparsi la proposta tranne che dell’altro dialogante naturale del rinvio pregiudiziale e, appunto, di quel dialogante che ha dato alla Corte di giustizia l’occasione di diventare centrale nei sistemi di tutela giurisdizionale dei paesi membri. Il che, a ben considerare in parte sembrerebbe distonico a quell’immagine del rinvio pregiudiziale che vedeva rispetto alle parti assoluto protagonista il giudice nazionale, investito di un potere (dovere nel caso di giudice di ultima istanza) di rilievo centrale per la formazione del diritto al UE, al punto di essere indicato come “collega” al quale chiedere l’interpretazione del dato UE in modo che di esso possa tenersi conto.
È ben evidente che il sistema del rinvio pregiudiziale si basa su un sistema di checks and balances estremamente delicato, rispetto al quale la proposta di modifica dello Statuto, apparentemente di mera natura organizzativa, muove dall’idea che per il giudice nazionale sia totalmente indifferente a che la decisione sul rinvio pregiudiziale provenga dal Tribunale o dalla Corte di giustizia, quasi che tali autorità giudiziarie possano essere considerate come tra loro fungibili e quasi che il giudice nazionale abbia unicamente la necessità di confrontarsi con qualcuno, Corte o Tribunale che sia, che gli “risolva un problema interpretativo” relativo al diritto UE. Idea che sembra non considerare adeguatamente il caso in cui a dialogare con il giudice UE sia un giudice nazionale di ultima istanza. E non è qui un discorso di autoreferenzialità o di fastidio rispetto ad un eventuale interlocutore che non occupa nel sistema UE un rilievo ed un ruolo pariordinato a quello del giudice di ultima istanza nazionale, ma di vera sostanza. La circostanza che il Trattato prevede la possibilità di demandare materie specifiche al Tribunale non supera i rilievi fin qui espressi laddove appunto il rinvio al Tribunale sia attuato con le modalità previste all’interno della proposta.
Ora, la professoressa Amalfitano si è chiesta come sarà considerato il nuovo volto del rinvio pregiudiziale dal giudice di ultima istanza e, stando alle materie trasferite, dalla Corte di cassazione italiana più che da altri plessi giurisdizionali.
Non ho il dono oracolare di Prometeo, ma mi sento in qualche modo destinatario di alcuni dei doni che egli fece all’uomo sfidando Zeus e fra questi quello della coscienza.
A pensar male si potrebbe ritenere che il giudice di ultima istanza, consapevole del nuovo sistema e della sorte che potrebbe subire il rinvio pregiudiziale e per garantirsi un interlocutore pariordinato rispetto al ruolo assunto nell’ordinamento interno potrebbe o spostare la leva del rinvio su tematiche di sistema in modo da sperare che il rinvio venga esaminato dalla Corte di giustizia ovvero ridurre i casi di dubbi in ordine all’interpretazione del diritto UE che viene in considerazione.
Ad indurre questi cattivi pensieri, del resto, come si diceva in precedenza, potrebbe spingere la paura che il suo interlocutore a Lussemburgo possa, anche solo in astratto, essere un giudice in qualche modo dimidiato delle sue prerogative per le considerazioni appena espresse e che, comunque, non abbia in sé le caratteristiche di equiordinazione che hanno fin qui costituito il dato di rilievo unificante delle giurisdizioni di ultima istanza nazionali con la Corte di giustizia UE. In gioco, d’altra parte, quando il rinvio è proposto dal giudice di ultima istanza, vi è l’uniforme interpretazione del diritto che costituisce un valore che assume rilevanza anche costituzionale se esso viene visto come proiezione del principio di effettività e di certezza del diritto.
Solo un cenno, a campione, si può qui fare all’IVA che è “materia” di estremo interesse per l’UE – EPPO è stata creata soprattutto per contrastare fenomeni criminali di evasione dell’IVA su scala transfrontaliera e nell’ambito dell’IVA si pongono i maggiori problemi in tema di proporzionalità delle sanzioni di ne bis in idem e di frodi fiscali, aventi anche rilievo penale – e che proprio su temi centrali quali quelli delle operazioni inesistenti vede i singoli Paesi dell’Unione confrontarsi con questioni di indubbio rilievo, spesso riguardanti “gli interessi dell’UE” e coinvolgenti i diritti fondamentali protetti dalla Carta UE – art.47 per esempio[24] –.
Il discorso non è affatto posto, questa volta, in vitro ma, in vivo.
Basti menzionare, per l’Italia, la recente riforma processuale che ha innovato, secondo una larga opinione dottrinaria, il sistema in tema di prova fra fisco e contribuente- art.5, c.7 bis d.lgs. n.546/1992, introdotto dalla l.n.130/2022-. Materia assolutamente nuova che sta già condizionando le decisioni della giustizia tributaria di merito e la dottrina[25] che, verosimilmente vedrà prima o poi coinvolta la Corte di cassazione, al fine di comprendere se l’attuale diritto vivente che può dirsi consolidato in ordine all’onere della prova in materia di operazioni soggettivamente o oggettivamente inesistenti possa o debba essere rivisitato.
Ed è ben chiaro che la scelta del giudice nazionale di investire o meno quello comunitario rispetto al tema dell’onere della prova ed alla sua riconducibilità o meno al diritto UE – in via diretta o mediata – si presta a raffinate operazioni interpretative che, sicuramente il giudice nazionale (nel caso di specie la Corte di cassazione) è pienamente in grado di svolgere proprio per il ruolo e la funzione che essa persegue nel sistema di protezione dei diritti interno.
Andando al fondo del problema, ci si dovrà chiedere se l’assenza di una legislazione UE in materia di prova sull’Iva, che la Corte di giustizia ha spesso evocato per escludere incursioni sugli ambiti interni, sia tale da escludere l’intervento del giudice UE sulla questione relativa alla portata, innovativa o meno che sia, della nuova normativa interna visto che il restraint della Corte di giustizia incontra per sua stessa precisazione il solo limite che le norme interne non pregiudichino l’efficacia del diritto dell’Unione-cfr., fra le più recenti, Corte giust., 1 dicembre 2022, causa C‑512/21, p.31-.
Limite al limite, quest’ultimo che, leggendo le decisioni della Corte di giustizia in materia, in parte fa forse comprendere la voglia di “liberazione” da una materia in bilico fra il pendolo comunitario e quello interno, che sembrerebbe da un lato poco richiedere il compito “alto” del giudice posto al vertice delle istituzioni giudiziarie ma che, dall’altro, evoca giustificazioni riduzioniste magari comprensibili emotivamente, meno sul piano della centralità della materia per il sistema UE e del ruolo che la Corte di giustizia ha nell’ambito della giurisdizione UE.
Ciò a conferma della debolezza del criterio che ha indotto la Corte di giustizia a spogliarsi di contenzioso che riguarderebbe, per un verso, un numero significativo di procedimenti e, per altro verso, si fonderebbe su un diritto vivente consolidato tale da non fare preconizzare l’insorgenza di dubbi consistenti sul “come” decidere i rinvii pregiudiziali.
Ed è in questo contesto che sembra pure annidarsi qualche punto non pienamente condivisibile nel ragionamento che proietta sul Tribunale contenziosi – qui quello dell’IVA – che non sono mai rientrati nelle corde della competenza di quello stesso giudice e per i quali l’esistenza di un ormai “diritto consolidato” formatosi nel tempo per mano della Corte di giustizia dovrebbe costituire al tempo stesso la ragione del trasferimento della competenza – one evitare l’insorgenza di contrasti con la Corte di giustizia – e fattore tale da ridurre il numero stesso dei rinvii pregiudiziali.
Il che, per le considerazioni da ultimo esposte, costituisce un dato ipotetico tutto da verificare proprio in ragione della centralità e delicatezza del settore fiscale nel quale gli ordinamenti nazionali continuano a confrontarsi con risposte spesso eterogenee. Ancora una volta, la prospettiva del giudice nazionale non sembra essere stata fra le corde principali della proposta.
8. Il giudice nazionale e le triangolazioni fra le Corti alla prova del nuovo rinvio pregiudiziale
Ma a questo punto entra in campo un’altra ed ulteriore preoccupazione anch’essa collegata questa volta ai rapporti ed alle relazioni o meglio alle triangolazioni fra giudice comune nazionale Corte costituzione e Corte di giustizia[26].
La questione è troppo nota ai presenti per meritare anche solo di essere riassunta[27]. Merita semmai sottolineare che all’indomani dell’idea di un riaccentramento verso la Corte costituzionale della verifica di coerenza dell’ordinamento interno rispetto ai diritti della Carta UE dei diritti fondamentali una volta riconosciutane la natura materialmente costituzionale, erano emerse anche fra i giudici comuni riflessioni volte a mostrare i pericoli rispetto all’idea che sembrava prendere campo con quella pronunzia. Si disse poi che quelle preoccupazioni erano state eccessive e in definitiva mal poste, poiché non si era capito che non si voleva affatto realizzare quel progetto di riaccentramento.
Orbene, prima della proposta di modifica dello Statuto il giudice costituzionale lascia libero il giudice comune di scegliere la strada che meglio ritiene rispetto al caso, pur apertamente mostrando di assecondare con maggiore entusiasmo le scelte che ad essa si rivolgono da parte del giudice comune – cfr. Corte cost.n.20/2019 e Corte cost.n.63/2019[28] –.
Ma il punto è che già oggi e ancora oggi il sistema dei rapporti fra diritto interno, diritto UE e controllo di costituzionalità e di conformità alla Carta UE è tutt’altro che stabile, bastando pensare anche alle recenti schermaglie fra la Corte di cassazione e la Corte costituzionale originate dalle sentenze nn.50/2019 e 67/2022[29] alle quali ha fatto riferimento, di recente, l’ordinanza della Cassazione n. 6979 depositata l’8 marzo 2023 della Corte di cassazione. Essa ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, 1, n. 388/2000, nella parte in cui condiziona la corresponsione dell’assegno sociale ai cittadini extracomunitari al possesso della (ex) carta di soggiorno, in relazione agli artt. 3 e 38, comma 1°, Cost., nonché in relazione agli artt. 111 e 117 Cost., con riferimento all’art. 34 CDFUE e all’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE. E questo giudizio incidentale di costituzionalità è stato attivato ritenendo che proprio la sentenza n. 269/2017 rendesse necessario l'intervento del giudice costituzionale per la concorrenza di parametri- costituzionali e della Corte UE-.
Ora in questo terreno ancora minato da incertezze e prese di posizione, più o meno ideologiche, la riforma del rinvio pregiudiziale potrà soffiare come un vento che porta verso il profilo nazionale più che verso quello UE?
9. Deferenza e fiducia fra le Corti nazionali e sovranazionali alla prova del “nuovo” rinvio pregiudiziale
Per descrivere lo stato dei rapporti fra le Corti nazionali e sovranazionali non è infrequente l’uso da parte di studiosi e giuristi insigni del termine “deferenza” ad esso attribuendosi ruoli e portata non sembra omogenea.
Ci si riferisce, in particolare, a due importanti contributi della Presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra ed al Prof. Luciani- nei quali a me è parso, sperando di non errare, di cogliere un atteggiamento di base non omogeneo sul ruolo della deferenza, intesa dalla prima come esempio di cooperazione virtuosa ed alla pari fra giurisdizioni nazionali e sovranazionali che hanno a cuore i diritti delle persone[30] e dal Prof. Luciani come alternativa e risposta secca- ed auspicabile - al “judicial activism” ed all’incedere del diritto moderno, ormai lontano sideralmente dal diritto dei padri, dalle categorie, dalla individuazione di parametri agganciati alla certezza ed alla legalità nazionale costituzionale[31] e dalla dignità della legislazione[32].
Piace allora qui ricordare, come tertium comparationis rispetto alle visioni che stanno a monte del canone della “deferenza” come categoria para giuridica o sociologica le Conclusioni dell’Avvocato Generale Colomer presentate il 25 giugno 2009 nella causa C-205/08, ove si intravede nel dialogo pregiudiziale uno strumento straordinario per il “rafforzamento della voce istituzionale di un potere degli Stati membri: la giustizia”. Tanto, in definitiva, significa valorizzare il ruolo centrale dei giudici nello spazio costituzionale europeo. È dunque la giurisdizione “in quanto potere basato sull’indipendenza, sul rispetto della legge e sulla risoluzione delle controversie” a godere di “una voce singolare, staccata dallo scenario politico e legata unicamente alla volontà del diritto”. Diceva, ancora, Colomer, “L’autorevolezza dell’ordinamento europeo è quindi intrisa di una forte componente giudiziaria. Non è esagerato ritenere che la Corte di giustizia sia il responsabile ultimo del diritto dell’Unione grazie ai giudici nazionali”. Sempre Colomer non mancava di sottolineare che sotteso al rinvio pregiudiziale vi era da parte della Corte di giustizia l’intenzione di rispettare e mostrare una certa deferenza nei confronti della concezione della funzione giurisdizionale in ciascuno Stato membro.
Ora, il concetto di deferenza al quale si riferivano Colomer e la Prof.ssa Sciarra potrebbe uscire ridimensionato e depotenziato dalla proposta di modifica dello Statuto, che preoccupandosi quasi esclusivamente della nuova fattura da dare al rinvio pregiudiziale sembra avere considerato in modo marginale la fiducia che fin qui ha tenuto uniti il giudice nazionale e quello UE. Quella cooperazione che ha costituito la fonte del successo della Corte di giustizia.
Per tali ragioni la struttura portante del rinvio pregiudiziale non può limitarsi, ad avviso di chi parla, a coglierne il dato obiettivo, ma involge ineludibilmente la centralità delle componenti soggettive che lo hanno alimentato e lo alimentano senza sosta, apparendo entrambi gli elementi indissolubilmente legati fra loro da una reciproca fiducia.
È proprio la consapevolezza della complessità e della imprescindibilità del dialogo e della cooperazione a “riscrivere” l’imperatività e l’inoppugnabilità del giudicato ed a consumare il passaggio da una fase in cui la sovranità del potere giurisdizionale si esprimeva con la forza del giudicato -pari alla legge- ad una realtà nella quale il giudice non decide solo quando decide, ma decide anche quando non decide, instillando meccanismi di confronto fra giudici altri che coinvolgono inevitabilmente altri operatori del diritto: il ceto forense, l’accademia e, in definitiva, le parti, la carnalità delle questioni che innanzi a loro si agitano. Il caso Ramstad[33], che tanto ha agitato le acque della dottrina e di alcuni settori della magistratura, altro non è stato se non il frutto di un confronto aperto, solare e costruttivo fra le Corti su questioni che il giudice nazionale per costituzione chiamato ad esaminare motivi inerenti la giurisdizione ha condiviso con la Corte di giustizia, inserendola in un circuito di dialogo fino a quel momento intercorso soltanto con la Corte costituzionale ed il Consiglio di Stato. Un frutto fecondo e virtuoso si è andato così aggiungendo all’interno di una questione complessa, nella quale ha davvero poco senso ragionare in termini di vincitori e vinti.
Tutto questo attesta il passaggio progressivo da un periodo di rappresentazione della giustizia centrata essenzialmente sui concetti di imperatività e decisorietà ad un altro più mite e al contempo più oneroso, della giustizia dialogante fatta di condivisione e cooperazione – ed anche di frizioni più o meno manifestate – di diverse autorità giudiziarie – nazionali e sovranazionali – sempre più inserite in un sistema nel quale ciascuna di esse non è monade che decida una causa, ma turbina capace di produrre decisioni idonee a migliorare il sistema nel suo complesso, favorire prevedibilità senza ridurre il respiro ai diritti fondamentali, ridurre gli ambiti di discrezionalità interni a ciascun plesso giurisdizionale in ragione della piena consapevolezza del ruolo centrale svolto dagli altri plessi giurisdizionali. Il che sembra dimostrare quanto tali meccanismi siano agli antipodi da prospettive antidemocratiche o irrispettose della centralità della legislazione, ma tutto al contrario si sforzino di offrire una risposta giudiziaria che non tralasci alcun aspetto capace di renderla monca, fidandosi dei propri interlocutori.
Ora, cambiare le regole del gioco unilateralmente, pur sulla base di esigenze legate all’indubbio accrescimento del quadro normativo comunitario, come se fosse totalmente indifferente per l’altro dialogante l’identità del giudice con il quale dialogare rischia di minare la fiducia reciproca che insieme alla deferenza reciproca stanno alla base di quel dialogo.
Quello della fiducia è un concetto che non può essere riservato soltanto a campi estranei al diritto, esso al contrario tendendo ad assumere, progressivamente, anche in quel contesto notevole rilevanza come Tommaso Greco ha dimostrato brillantemente nel suo recente saggio[34].
E non pare affatto casuale che Alessandro Pajno abbia dedicato anche lui una riflessione sulla rilevanza della fiducia nell’amministrazione della giustizia, mettendola condivisibilmente in diretto contatto con il bisogno di verità[35], pur offrendone una lettura forse limitata, correlata al solo piano interno, quasi che essa possa e debba costituire collante dei soli rapporti fra le giurisdizioni nazionali. E così, indirettamente, mostrando forse di non nutrire grande fiducia nel ruolo delle giurisdizioni sovranazionali. A dimostrazione di quanto sia delicato il tema dei rapporti fra giudici nazionali e corti sovranazionali.
Ora, sembra a chi scrive che il cambio di rotta del rinvio pregiudiziale per mano del dialogante sovranazionale non abbia adeguatamente considerato la fiducia e la deferenza e che le istanze nazionali, soprattutto (ma non solo) quelle di ultima istanza, avevano riposto in un modo di essere giudici assolutamente nuovo e diverso dal “giudicare”, nel quale cioè il giudicante si fa prima ancora che decisore del caso, artefice di un modo di esercitare la giurisdizione al servizio della giustizia, si potrebbe dire del composito “sistema giustizia” quale esso è diventato nel terzo millennio.
Un sistema nel quale la soluzione di un caso da parte del decisore di turno condiziona ineludibilmente l’intero sistema di tutela giurisdizionale al di là del ruolo, apicale o non, ricoperto all’interno del sistema, al punto che una pronunzia su rinvio pregiudiziale non potrà non condizionare il futuro del diritto vivente anche delle Corti supreme, mettendone in discussione l’orientamento proprio per effetto della “forza” del precedente proveniente dalle Corti sovranazionali.
Tutto questo ha un senso e può avere un senso in quanto il dialogo avvenga fra giudici dotati pleno iure di tutte quelle caratteristiche che vengono riconosciute a qualsiasi autorità giudiziaria, interna o sovranazionale, fra le quali spiccano quelle della autonomia e dell’indipendenza e, soprattutto, della libertà di considerare nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni i principi fondamentali che tengono sempre e comunque unito il sistema. Se, in definitiva, il dialogo fra autorità giudiziarie diverse nasce in modo tale da porre in discussione l’essenza paritaria, autonoma e indipendente del dialogo stesso, sottoponendolo a limitazione del tipo di quelle qui rassegnate non è ardito pensare ad un ripensamento radicale delle virtù che in esso si sono fin qui viste, malgrado la ben nota obbligatorietà del rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza e l’obbligo di motivazione sullo stesso incombente in caso di omesso rinvio.
Si diceva che queste riflessioni non si attagliano unicamente ai rapporti fra giudici di ultima istanza e giudice dell’UE ma investo, forse in modo ancora più profondo, il rapporto fra giudice “non” di ultima istanza e Istituzioni giudiziarie dell’UE.
Giovano ancora una volta, le profonde riflessioni dell’Avvocato Generale Colomer rese il 16 maggio 2006 nelle cause C- ove era necessario affrontare il tema, spinoso, della disapplicazione da parte del giudice di merito di norme comunitarie andando in contrario avviso con la giurisprudenza di ultima istanza del proprio paese. In tale contesto Colomer osservava che
“La funzione primaria della Corte di giustizia consiste nel garantire con carattere esclusivo l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme europee. Il rinvio pregiudiziale mira, secondo la sentenza 24 maggio 1977, Hoffmann-La Roche, ad «impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie». Un mezzo diretto per conseguire ciò può essere quello di mediare nella disputa giuridica tra gli organi giudiziari di un paese con riferimento all’interpretazione dell’ordinamento dell’Unione effettuata da un giudice di grado superiore. 88. In questa linea di pensiero, nella sentenza 16 gennaio 1974, Rheimühlen-Dusseldorf , la Corte ha ammesso che la questione pregiudiziale svolge la funzione essenziale di garantire che il diritto istituito dal Trattato abbia la stessa efficacia in tutto il territorio della Comunità; ha aggiunto che intende anche assicurare l’applicazione uniforme, «offrendo al giudice nazionale il mezzo per sormontare le difficoltà che possono insorgere dall’imperativo di conferire al diritto comunitario piena efficacia nell’ambito degli ordinamenti giuridici degli Stati membri» (punto 2), con una discrezionalità molto ampia per sottoporre la questione alla Corte di giustizia (punto 3), di modo che «il giudice che non si pronuncia in ultimo grado, qualora ritenga che il vincolo a rispettare le valutazioni contenute nella sentenza di rinvio del Tribunale superiore possa risolversi in pratica in una sentenza incompatibile con il diritto comunitario deve rimanere libero di interpellare la Corte di giustizia sui punti che gli paiono nebulosi» giacché, se fosse vincolato, senza sottoporre la questione, la competenza della Corte di giustizia e l’applicazione del diritto comunitario in ogni grado di giudizio dinanzi alle magistrature nazionali «ne verrebbero pregiudicate», salvo se le questioni «[fossero] materialmente identiche» a quelle formulate dal giudice di ultimo grado (punto 4). 89. Senza dubbio, la proposta genera inconvenienti, come la proliferazione del numero di questioni pregiudiziali o l’apparente rottura della gerarchia dell’organizzazione giudiziaria nello Stato. Il primo svantaggio è privo di rilevanza, poiché il carico di lavoro non deve condizionare l’opzione giuridica adeguata ). Il secondo svantaggio ignora la funzione della Corte di giustizia quale supremo interprete dell’ordinamento europeo, vertice essenziale per l’esistenza di una vera comunità di diritto. In ogni caso, gli inconvenienti sarebbero minori che se si adottasse qualsiasi altra alternativa- corsivo aggiunto).
Ora, le riflessioni di Colomer, quasi vaticinatrice dei problemi che sarebbero insorti alcuni lustri dopo, non manca di sottolineare che il ruolo dell’interprete giudiziario del diritto dell’Unione è fondamentale e attiene esso stesso all’unità del diritto, al rispetto dei principi fondamentali che governano le relazioni ed i rapporti fra gli organi decisori nazionali e l’UE. Di guisa che immaginare che il cambio di giudice competente sul rinvio pregiudiziale sia neutro rispetto alla funzione allo stesso affidata tralascia forse di considerare che solo l’autorità di vertice della giustizia comunitaria può e deve assumersi il ruolo centrale ad essa affidato. Ruolo che, come si è visto è di interpretare il diritto UE, ma appunto anche di dare il là ad operazioni di disapplicazione del diritto interno contrastante con l’UE, di orientare la risoluzione dei contrasti interni fra giurisprudenze difformi dei paesi. Insomma, un ruolo che è centrale e non può che essere affidato all’autorità giurisdizionale più elevata dell’Unione europea, a pena di incrinare il senso di fiducia nel quale la Corte di giustizia ha investito fin dalla sua nascita. Una fiducia che mette nel conto le diversità di prospettive, i contrasti, le eventuali non risposte o le risposte ritenute non adeguate, ma non sembra possa e debba deflettere da alcuni capisaldi.
In conclusione, il fatto che con la proposta qui esaminata non si modifichi se non in parte il contenuto del rinvio pregiudiziale ma il (o, recte, la competenza del) giudice chiamato a deciderlo e le forme con le quali esso si andrà a manifestare, sottoponendo il Tribunale ad un sistema di controlli tutto ancora da decifrare, non sembra rispondere all’esigenza di perseguire un’idea di giustizia coerente con le fondamenta dei rapporti fra Paesi membri e UE né pare andare verso una giustizia più automaticamente giusta.
Il rinvio pregiudiziale è e deve rimanere la chiave di volta del sistema giurisdizionale come afferma solennemente il p.176 del parere n.2/2013 della Corte di giustizia del 18 dicembre 2014[36]; esso ha alle sue spalle un delicato bilanciamento creato fra i dialoganti sulla base di un sistema rodato e di successo che pone sempre e comunque al centro la persona ed i diritti che ad essa fanno capo. Ed è quella storia a non potere essere dimenticata, facendone costantemente memoria, soprattutto in nome di un efficientismo che snaturerebbe il controllo affidato al Tribunale, disegnandone una cornice di subalternità di fatto e sostanziale che non sembra in alcun modo favorire il dialogo né pare in linea con la funzione stessa del rinvio pregiudiziale quasi che esso si risolvesse in una mera operazione di interpretazione del diritto UE.
In conclusione, le criticità qui evidenziate sulla proposta della Corte di giustizia UE intendono solo propiziare, per quel nulla che possano valere, nuove riflessioni capaci di rafforzare la fiducia fra i dialoganti e, in definitiva, la fiducia e deferenza che, reciprocamente, devono costituire la colla capace di tenere uniti i giudici-dialoganti che hanno fin qui dato un senso profondo allo strumento del rinvio pregiudiziale.
*Il presente scritto trae spunto dall’intervento svolto nel corso del seminario di studio su “La proposta di riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea”, organizzato dal Dipartimento di diritto pubblico italiano e sovranazionale dell’Università di Milano il giorno 12 giugno 2023.
[1] Domanda presentata dalla Corte di giustizia UE ai sensi dell’articolo 281, secondo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al fine di modificare il Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, in https://curia.europa.eu.
[2] da ultimo, R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (giudicedonna.it). In precedenza, id., I dubbi del Consiglio di Stato sul rinvio pregiudiziale alla Corte UE del giudice di ultima istanza. Ma è davvero tutto così poco “chiaro”? (Note a prima lettura su Cons. Stato 5 marzo 2012 n.4584), in Diritticomparati, 1 aprile 2012; id., Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: dalla pratica alla teoria, in Questionegiustizia, 7 maggio 2013, D. Domenicucci, Circa il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in Foro it., 2011, IV, 461.[3] V., volendo, R. G. Conti, Le sentenze interpretative della corte di giustizia dell'unione europea in materia tributaria e i loro effetti negli ordinamenti nazionali, in Diritto tributario europeo e internazionale. Fonti, principi, singole imposte, tutele stragiudiziali, a cura di A. Giordano, Milano, 2020, 123 ss.
[4] R. G. Conti, Le sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’unione europea in materia tributaria e i loro effetti negli ordinamenti nazionali, in Diritto Tributario Europeo e Internazionale, a cura di A. Giordano, Milano 2021, 123 ss.
[5] V., infatti, B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, Giustiziainsieme, 29 gennaio 2021
[6] V., volendo, R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte Europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in Consultaonline; R. Conti, La Corte di cassazione italiana e il ruolo svolto da Guido Raimondi nel dialogo con la Corte edu, Liber amicorum Guido Raimondi, Intersecting Views on National and International Human Rights Protection, Tilburg, 173.
[7] B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo 16, cit., coglie puntualmente il nodo problematico dei tempi del processo che per effetto dei plurimi rinvii possono incidere negativamente sull’esigenza di giustizia, ma offre una lettura ragionata del problema quando afferma che “Vi è tuttavia da chiedersi quanto graverebbe, in ordine di tempo, un doppio rinvio e se tale dilatazione della durata rispetto alla tutela dei diritti in gioco, non sia comunque giustificata, ragionevole e proporzionata. Non lo sarebbe qualora i meccanismi di diritto interno, considerata la sospensione del processo nazionale, fossero complessi e non tempestivi, pregiudicando, alla fine, la tutela effettiva della persona. Ma non sarebbe questo un buon argomento per non ratificare il Protocollo cui non sono imputabili lacune o deficienze del diritto interno.”
[8] R. G. Conti, ll Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Questionegiustizia, 30 gennaio 2019.
[9] R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, relazione al convegno “Le questioni ancora aperte nei rapporti tra le Corti Supreme Nazionali e le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo” - 23 e 29 ottobre 2014-, organizzato presso la Corte di Cassazione dalle Strutture territoriali di formazione decentrata della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Roma, in http://www.cortedicassazione.it; id., Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2021 e, nella versione aggiornata, in Quaderno n.20, Il giudizio civile di Cassazione, in I quaderni della Scuola superiore della magistratura, a cura della Scuola superiore della magistratura Roma, 2023, 177.
[10] Il fattore tempo ha condizionato ormai da tempo le modalità decisorie della Corte di cassazione per effetto della "pluralità di riti decisori". Ed infatti, la Corte di Cassazione decide utilizzando forme decisorie diverse in relazione alle tipologie diverse del ricorso. Questa pluralità di riti è "figlia" di alcune riforme processuali che si sono susseguite nel nostro Paese- provo ad indicarle succintamente qui (l.n.69/2009, l.n.134/2012, l.197/2016, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 recante attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206) e che hanno introdotto importanti modifiche al modo di "fare Cassazione" nel nostro Paese. Senza qui soffermarsi sulle specifiche riforme, è sufficiente ricordare che il discrimen fra le modalità decisorie è dato dalla "rilevanza della questione di diritto deve pronunziare la Corte (art.375 c.2 c.p.c.) in modo da rendere opportuna la decisione con sentenza che avrà funzione di "precedente". In sostanza, mentre le cause decise con ordinanza non presentano una funzione nomofilattica, quelle decise in pubblica udienza, meritano una sentenza perché costituiscono precedente e rendono manifesta la funzione per la quale è stata istituita la Corte di cassazione unica, quella appunto di garantire l'unità del diritto oggettivo nell'ordinamento interno. Questo sistema, nel 2021, si è ulteriormente modificato inserendo un rito accelerato (art.380 bis c.p.c., cd. PDA) che tenda ad una definizione della lite traghettata dalla proposta adottata da un singolo componente della Corte per i casi di improcedibilità o manifesta inammissibilità del ricorso. Strumento che rende palese l’introduzione di un meccanismo capace di modificare notevolmente la struttura decisoria dei provvedimenti resi dal giudice di legittimità in una prospettiva che tende a superare la centralità della decisione a favore di meccanismi affidati alle scelte processuali delle parti e che sono, comunque, condizionati da un nuovo modo di ius dicere della Corte. Quelle qui sommariamente sintetizzate rappresentano dunque un fascio di riforme destinate ad incidere sia sulle modalità organizzative della Corte di cassazione- posto che le ordinanze seguono il rito della cameralizzazione senza udienza pubblica- che sulla “sostanza” dell’attività giurisdizionale del giudice della nomofilachia.
[11] V., volendo, R. Conti, Chi ha paura del Protocollo 16, in Sistema penale, nel quale osservammo che “…La richiesta di parere preventivo delle Alte giurisdizioni interne alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo voluto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU si pone dunque sul cammino della sempre più efficace ed effettiva tutela dei diritti fondamentali. Non si capisce, se si segue questa prospettiva, come la maggior durata del processo in relazione all’attivazione del meccanismo possa costituire remora all’attuazione del Protocollo in Italia, la stessa rappresentando tutto al contrario un’occasione imperdibile per offrire alla giurisdizione interna delle opinioni non vincolanti sull’interpretazione delle questioni di principio da parte della Corte edu, in tal modo consentendo al giudice nazionale un’attività destinata a ridurre le occasioni di conflitto fra giurisdizione nazionale e CEDU e soprattutto i costi che i privati devono sostenere per prospettare un ricorso a Strasburgo all’esito dell’esaurimento delle vie di ricorso interno. Il tempo di durata del processo sarà dunque “tempo di giustizia” – parafrasando l’art.1 c.8 della l.n.219/2017 – e non, come pure prospettato nel corso di alcune delle audizioni, tempo perso incidente sulla ragionevole durata del processo.” Sulla mancata ratifica del protocollo n.16 v., tra i tanti contributi, L’estremo saluto al Protocollo n.16 annesso alla CEDU(editoriale), in Giustiziainsieme,12 ottobre 2020 ed i contributi successivamente pubblicati di di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare – B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto cit.,e A. Esposito, La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu; e, da ultimo, v. Il Parlamento riapra il cantiere sulla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU - Gruppo Area Cassazione, in Giustiziainsieme, 9 febbraio 2022.
[12] E. Scoditti, Brevi note sul rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questionegiustizia,30 settembre 2021 e R. D’ANGIOLELLA, Riflessioni sulla riforma del processo tributario in Cassazione. La nuova Sezione Tributaria della Cassazione, la pace fiscale ed il rinvio pregiudiziale, in questa Rivista, 15 dicembre 2022.
[13] Corte giust. Tributaria di primo grado di Agrigento, 31 marzo 2023, in www.cortedicassazione.it.
[14] Cfr., Primo rinvio pregiudiziale alla Cassazione nel processo tributario, in Dirittoegiustizia, 11 aprile 2023. Di recente, F. Pistolesi, Il primo caso di rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione in materia tributaria, in Giustiziainsieme, 13 giugno 2023.
[15] C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale nell’architettura giurisdizionale dell’Unione europea, in DUE, n.3/2022, 32 e ss.
[16] V. decreto Primo Presidente Corte di cassazione n.16 dell’8 febbraio 2023.
[17] Decreto Primo Presidente Corte di cassazione, 18 aprile 2023, in www.cortedicassazione.it, - Comunicati Stampa
[18] Commission Opinion on the draft amendment to Protocol No 3 on the Statute of the Court of Justice of the
European Union, presented by the Court of Justice on 30 November 2022, 10 marzo 2023, COM (2023) 135 final.
[19] R. Conti, Corte costituzionale, riparto delle giurisdizioni e art. 34 D.Lgs. n. 80/98: fu vera rivoluzione?, in Urb.app., 2004, 1035.
[20] Cfr. Cass.S.U. n.4873/2022, su cui N. Vettori, Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione. Nota a Cass., SU, 15.02.2022, n. 4873 sul diritto alla salute dei richiedenti asilo ospitati nei CAS, in Dir. imm.cittad., n.3,2022, 269.
[21] G. Montedoro, E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questionegiustizia,11 dicembre 2020.
[22] Sulla nuova ripartizione di competenze fra i giudici comunitari v., in generale, S. Boni, Verso una nuova ripartizione di competenze fra i giudici di Lussemburgo? in DUE, 2002, 153; R. Mastroianni, Il Trattato di Nizza ed il riparto di competenze tra le istituzioni giudiziarie comunitarie, in Nascimbene B., Il processo comunitario dopo Nizza, 2002, 21; A.Tizzano, La Cour de justice apres Nice:le transfert de competence au tribunal de premiere instance, in DUE, 2002, 597; J. Azizi, Opportunities and limits for the transfer of preliminary reference proceedings to the Court of first instance in Kokott, Pernice, Saunders, The future of the European judicial system in a comparative perspective, Baden Baden, 2006, 241. In generale v., M. Condinanzi,- R. Mastroianni, Il contenzioso dell’Unione europea, Torino, 2009, 186 ss.
[23] La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?, Intervista di R.G.Conti a P. Mori, B. Nascimbene, R. Mastroianni, in Giustiziainsieme, 27 aprile 2019; ib., La Carta UE in condominio fra Corte costituzionale e giudici comuni. Conflitto armato, coabitazione forzosa o armonico ménage?, Intervista di R. Conti a L.Trucco, G. Martinico e V. Sciarabba, 9 maggio 2019.
[24] Corte giust., 1° dicembre 2022, C-512/21, Aquila Part Prod Com SA, p.31:” Poiché il diritto dell’Unione non prevede norme relative alle modalità dell’assunzione delle prove in materia di evasione dell’IVA, tali elementi oggettivi devono essere stabiliti dall’autorità tributaria secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale. Tuttavia, tali norme non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione”. Sul ruolo della giurisprudenza della Corte di giustizia nell’ordinamento tributario comunitario v. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2010,115 e G. Melis, Libertà di circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e principio di non discriminazione nell’imposizione diretta: note sistematiche sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in Rassegna Tributaria n. 4/2000.
[25] V. M.Golisano, Riflessioni in ordine all'impatto del nuovo comma 5bis, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento alle imposte indirette, in Riv. Tel. Dir. Trib., 2023, 1 e ss.
[26] L. S. Rossi, Il 'triangolo giurisdizionale' e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della Corte costituzionale italiana, in Federalismi.it, 1 agosto 2018. Aveva già usato tale espressione R. Caponi, parlando dei rapporti fra Corti nazionali, Corte di giustizia e Corte edu, in R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, in www.europeanrights.eu, 29.09.2009.
[27] V., per tutti, A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in Diritticomparati,n.3/2017, 234. V. volendo, R. Conti, La Cassazione dopo Corte cost. n. 269/2017. Qualche riflessione, a seconda lettura, in Forum Quaderni costituzionali, 28 dicembre 2017, id, An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è 'in gioco' la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, in Giudicedonna, n.4/2017.
[28] Sulla sentenza della Corte costituzionale indicata nel testo, v. volendo, R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2019.
[29] Su tale ultima pronunzia v. L.R. Rossi, “Un dialogo da giudice a giudice”. Rinvio pregiudiziale e ruolo dei giudici nazionali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia in Aiusde, n.4, 23 maggio 2022,76.
[30] S. Sciarra, Identità nazionale e corti costituzionali. il valore comune dell’indipendenza, in Identità nazionale degli stati membri, primato del diritto dell’unione europea, stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali, 5 settembre 2022, 8.: “Le corti costituzionali – come quella italiana – attive all’interno di ordinamenti democratici rispettosi dello stato di diritto, devono contribuire all’avanzamento dell’integrazione europea fornendo esempi di razionalità ed equilibrio nell’argomentazione, senza cedere a una deferenza acritica nei confronti della CGUE e tuttavia avendo ben chiaro che l’obiettivo comune prioritario consiste nella permanente adesione ai valori fondanti dell’Unione.” S. Sciarra, Lenti bifocali e parole comuni: antidoti all’accentramento nel giudizio di costituzionalità, in Federalismi, 27 gennaio 2021:” Per le corti costituzionali la collaborazione non può essere disgiunta dalla deferenza, da intendersi come rispetto per il legislatore e per le sue prerogative, ma anche come impegno attivo nella difesa dei diritti. Deferente, proprio perché rivolto a massimizzare l’affermazione dei diritti fondamentali, può essere anche l’atteggiamento delle corti costituzionali verso la CGUE. Anche in questo caso deferenza è sinonimo di conoscenza delle reciproche aree di intervento. Per guardare a questi scenari servono lenti bifocali: uno sguardo da vicino e uno da lontano, quest’ultimo proiettato nel tempo, oltre che nello spazio visivo.”
[31] M. Luciani, L’attivismo, la deferenza e la giustizia del caso singolo, in Questionegiustizia, 29 dicembre 2020.
[32] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano, 2023, 114.
[33] Sul tema, nella sconfinata messe di contributi e solo per un indicazione generale del problema v. La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i "seguiti" a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia?, Interviste di R. Conti a Fabio Francario, Giancarlo Montedoro, Paolo Biavati, Renato Rordorf ed Enzo Cannizzaro, in Giustiziainsieme, Editoriale, 10 gennaio 2022.
[34] T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2022.
[35] A. Pajno, Ricostituzione della fiducia e dialogo fra le giurisdizioni, in Questionegiustizia, n.2/2021: “Fiducia” è una parola antica, ma capace di evocare radici profonde. Fiducia indica, innanzi tutto, una relazione, un affidamento nei confronti di qualcuno (in Dio, nel prossimo), in un sistema di valori, nelle istituzioni. Lingue come il francese e lo spagnolo evocano il connotato sociale della fiducia attraverso il prefisso “con” (confiance, confianza) e la lingua inglese pone in luce un’altra importante relazione, quella con la verità, grazie alla parola trust, che deriva da true, vero. Non può esserci fiducia senza verità. La fiducia investe anche il rapporto con il tempo: essa suppone una relazione con un passato su cui si fa affidamento, e nello stesso tempo un rapporto con il futuro. In esso, la fiducia si proietta e diviene speranza. La fiducia riguarda pertanto le relazioni personali e sociali, l’economia (non c’è mercato senza fiducia), le istituzioni, che hanno il compito di promuoverla (non a caso la fiducia è divenuta un istituto della democrazia parlamentare e ha un ruolo fondamentale nelle scienze giuridiche).”
T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2022.
[36] Espressione che L. S. Rossi ricorda nel suo incipit in L.R. Rossi, “Un dialogo da giudice a giudice”. Rinvio pregiudiziale e ruolo dei giudici nazionali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia cit., 50.
"Correggere una Costituzione non è impresa minore del costruirla la prima volta"
(Aristotele, Politica, IV, 1289 a, 5)
1. Una premessa generale.
Il "libro" della riforma ordinamentale della giurisdizione tributaria, contenuto nella Legge 130/2022, è scritto (non sempre bene) solo in parte. Mancano interi capitoli, nei capitoli mancano interi paragrafi, nei paragrafi mancano parti essenziali.
Bisogna affermare con chiarezza che la "base normativa" della riforma ossia la legge 130/2022 è largamente insufficiente e sostanzialmente inadeguata in ordine a ulteriori, plurimi, fondamentali, aspetti.
Innanzitutto, sotto il profilo della tecnica di legislazione, il Legislatore si è limitato a interpolare -in modo alquanto approssimativo - il testo del d.lgs. 545/1992 (questa sì una vera e propria "legge di ordinamento giudiziario") e ne è uscito un abito di Arlecchino di incerta "vestibilità".
In termini generali, manca una normativa ordinamentale che, per un verso, delinei in maniera chiara i confini dell’indipendenza dell’attuale e futura magistratura tributaria, per altro verso, che esprima un chiaro, complessivo e coerente disegno organizzativo.
Nello specifico e nell’immediato del vissuto ordinamentale, mancano completamente le regole della coesistenza tra la vecchia e la nuova magistratura e non si è intervenuto per rescindere “il cordone ombelicale che lega gli organi di giustizia tributaria a una delle parti in causa e, quindi, l’incardinamento degli organi della giustizia tributaria, non più nell’ambito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, bensì in quello del Ministero della Giustizia, come i Tribunali ordinari, o quanto meno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al pari degli altri giudici speciali come TAR e Corte dei Conti”[2].
2. Una questione pregiudiziale: indipendenza, autonomia ed autogoverno della magistratura tributaria.
Sotto quest’ultimo profilo la riforma era, anzi, intervenuta addirittura peggiorando la situazione. Infatti, con la previsione di quote di riserva elettive, intaccando il principio di rappresentanza, indeboliva in misura rilevante il ruolo, la funzione e l’autorevolezza del CPGT, rafforzando di converso l’azione e la preponderanza del MEF nell’organizzazione della Giustizia tributaria.
Era il "capitolo" della Riforma scritto peggio, inevitabilmente al servizio di interessi micro-corporativi, se non addirittura individuali. Una strada o meglio una scorciatoia, senz'altro errata e gravemente lesiva dei principi di rappresentatività elettiva del Governo autonomo. Vi sarebbero stati eletti ex lege che, nella sostanza, sarebbero stati rappresentativi soltanto di sé stessi o di pochi altri.
L’abrogazione della disposizione transitoria elettorale di cui all’art. 8, comma 5, legge 130/2022, appunto quella della “quota di riserva” per i magistrati professionali “optanti” per la nuova magistratura tributaria, va quindi salutata con grande soddisfazione e favore.
Questo - brutto - capitolo è stato fortunatamente eliminato dal "Libro della Riforma" grazie ad un saggio ripensamento del Legislatore, provocato dalla forza convincente dell'elaborazione condivisa – partita dal basso - da parte della magistratura tributaria, che ha condotto a far vincere le ragioni abrogative di detta - platealmente incostituzionale - norma.
Si tratta di un ottimo esempio di virtuosa sinergia tra Istituzioni e magistratura, del quale il futuro Consiglio di Presidenza dovrà tener conto per rafforzare il proprio ruolo e per avere una capacità rinnovata, anzi per meglio dire nuova, nello svolgimento delle funzioni di governo autonomo della magistratura tributaria.
Per colmare le ulteriori lacune della riforma, per riequilibrare il rapporto tra il Ministero dell'economia e delle finanze e il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, bisogna percorrere ulteriori sentieri, anche e soprattutto nell'immediato, della normazione secondaria.
E’ senz’altro urgente intervenire perché la recente e innovativa (nel Ministero della Giustizia esiste una Direzione generale per i magistrati inserita nel Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e non un superiore Dipartimento) istituzione il Dipartimento della giustizia tributaria nell'ambito del Ministero dell'economia (art. 20, commi da 2 bis a 2 sexies del D. L. n. 44/23, convertito in Legge n. 74/2023), se da una parte appare finalizzata ad adeguare l'organizzazione dei servizi della giustizia tributaria alle esigenze della riforma, dall'altra, se lasciata priva di ulteriori interventi, rischia di accentuare lo squilibrio funzionale e ordinamentale in favore del Ministero.
Infatti, un organo di autogoverno può dirsi indipendente dal punto di vista ordinamentale solo se lo è anche dal punto di vista funzionale.
E ciò è tanto vero se si pone a mente la storia istituzionale del CSM, che ha visto il compimento definitivo della parabola costitutiva del suo assetto ordinamentale di piena indipendenza solo quando si è giunti alla definizione del ruolo autonomo del personale.
Per la giustizia tributaria nel medio e fors’anche lungo periodo questa soluzione non mi pare realisticamente attingibile. Quindi occorre “cucinare la pietanza” dell'indipendenza funzionale del consiglio di Presidenza a fuoco lento e con gli ingredienti consentiti dalla normazione secondaria.
Gli ambiti di intervento immediato possono essere individuati nella costruzione di un nuovo rapporto tra il Ministero dell'economia e Consiglio di presidenza, che si nutra in maniera feconda del principio di leale cooperazione.
La scelta dei ruoli di collaborazione fiduciaria da parte del Consiglio di Presidenza dovrebbe avvenire in maniera libera e priva di vincoli, anche e soprattutto dal punto di vista dimensionale (appare veramente esigua la previsione nel futuro Dipartimento di soli due posti dirigenziali a supporto del Consiglio di Presidenza) e secondo le procedure disegnate in altri ordinamenti dalla scansione del concerto invertito.
A ciò andrebbe aggiunta una revisione della procedura per l'individuazione del Segretario generale del Consiglio di Presidenza, che va aperta alla possibilità di scandagliare tutte le professionalità, a partire da quelle magistratuali, presenti nell'alta burocrazia statale onde vitaminizzare adeguatamente il necessario ed indispensabile rapporto fiduciario tra funzione integrata in una professionalità e organo di autogoverno.
3. L'organizzazione della giustizia tributaria - in generale.
I tempi prossimi che attendono la giurisdizione tributaria saranno complessi e fondativi, perché siamo di fronte ad una riforma straordinaria da attuare con strumenti fuori dall’ordinario.
Entrando in metafora, la legge n. 130/2022 può essere raffigurata come un treno che a tanti del "personale di bordo" non è piaciuto, per come è stato costruito, per la direzione verso la quale sembra essere diretto, per la velocità impressa al suo andare. Purtuttavia, occorre pensarlo condotto a destinazione da un’opera dell’Autogoverno avveduta, graduale e con il pieno utilizzo di tutte le scansioni temporali previste dalla legge, fino all'ultima possibile.
Allora si evidenzia che il comune impegno degli "addetti ai lavori" è che il treno della riforma non vada troppo veloce e deragli oppure vada troppo piano e non arrivi a destinazione.
Quindi, ponderazione, gradualità nei tempi, attenzione agli effetti e attuazione ragionata: questo è l’arduo compito che il prossimo Consiglio di Presidenza, vero e proprio cuore della Riforma, ha davanti.
Abbiamo una cornice normativa minima e sghemba, ma non il quadro chiaro della nuova magistratura e del nuovo autogoverno.
Occorre dipingerlo con uno sfondo: sollecitare, indirizzare e favorire la maieutica delle necessarie modifiche legislative migliorative del testo approvato, che presenta, come tutti sappiamo, errori, lacune, scelte non troppo pensate e norme che vanno implementate e con un tema: elaborare la normazione secondaria, che sarà del tutto decisiva.
I “colori” da usare sono quelli della piena applicazione dei principi di autogoverno, di indipendente esercizio della giurisdizione e di rafforzamento dell'efficacia e dell'autorevolezza della giurisdizione tributaria.
Questi a mio avviso i punti fermi:
I. la magistratura tributaria non è una magistratura minore; è una magistratura che ha visto consolidato e validato il suo ruolo nella Costituzione e nelle sentenze della Corte costituzionale. Con la riforma ne è consacrata la pari dignità rispetto alle altre giurisdizioni quale quinta magistratura!
II. La magistratura tributaria "della riforma", complessivamente considerata, allo stato della legislazione non è una magistratura onoraria!
4. L'organizzazione della giustizia tributaria - in concreto.
Peraltro, il punto centrale di questo, di per sé precario, "equilibrio" complessivo era la costituzione immediata di un nucleo duro di giudici del nuovo ruolo dei magistrati tributari, attingendo dalle altre magistrature "professionali".
Fallita questa misura (allo stato circa 30 optanti sui 100 previsti) e quindi in particolare fallito il tentativo di rafforzamento del secondo grado della giurisdizione di merito, dall' equilibrio precario si è passati al disequilibrio manifesto. Ed a questo punto non si sa più bene nella fase di start up della riforma "chi farà cosa e, soprattutto, come e dove".
Su questo punto si gioca la Riforma in un tempo che sarà lungo, ma che occorre preparare da subito, facendo tesoro dell’insegnamento manzoniano di andare avanti senza paura -‘adelante, ma con giudizio’- così da evitare i tumulti dell’incertezza seminati dal Legislatore e i segni negativi della “peste” rinvenienti dalle omissioni riformatrici, con particolare riferimento al destino non scritto, non pensato e fors’anche non voluto della magistratura tributaria “laica”.
E sul piano del cronoprogramma della riforma va valutata con attenzione la prima vera e propria misura correttiva recentemente introdotta al livello legislativo (art. 18, decreto-legge 75/2023, in fase di conversione). Infatti, aver ritarato i tempi, le quantità ed i modi dei concorsi per l'assunzione dei nuovi magistrati tributari è senza dubbio alcuno una scelta positiva e riequilibrante.
Peraltro, in prospettiva di medio-lungo periodo, sarà necessario “fare i conti” (finalmente) con la struttura alquanto diversificata del contenzioso tributario, che, nei suoi “grandi numeri” (in flessione storica, ma comunque sempre assai consistenti), accomuna una massa prevalente di procedimenti di minor valore e almeno tendenzialmente, di minor complessità (40% fino a 3.000 euro, 37% da 3.000 a 50.000 euro; fonte: Relazione annuale del MEF sullo stato del contenzioso tributario per il 2022) ad una quota percentualmente inferiore di cause di maggiore valore e, tendenzialmente, di maggiore complessità.
A fronte di questa peculiarità assolutamente consolidata della domanda di giustizia tributaria, appare dunque indispensabile differenziare l’offerta ossia adottare moduli organizzativi e processuali adeguati alla diversa “qualità”, al diverso “peso specifico”, dei giudizi di merito, secondo un canone di ragionevole flessibilità, anche territoriale, posto che «un solo modello è probabilmente inadeguato sia rispetto all’esigenza di rapido smaltimento dell’arretrato, sia rispetto all’approfondimento necessario per le liti più complesse.»[3]
5. L'organizzazione della giustizia tributaria - nel futuro.
Appare in ogni caso necessaria un'ampia, radicale, manovra correttiva del quadro normativo attuale della riforma ordinamentale della giustizia tributaria; una manovra da sviluppare su più piani e con il concorso delle Istituzioni interessate, secondo il già evocato principio costituzionale della leale cooperazione.
Le linee guida sono:
- sincronizzare/coerenziare i tempi sfalsati della dinamica -di lungo periodo- della sostituzione del personale giudicante, a partire dall' inevitabile pieno utilizzo e valorizzazione della professionalità delle risorse esistenti, sino all’ultima scansione temporale del percorso ordinamentale che gli attuali magistrati tributari hanno intrapreso per legge; nello specifico, individuare una forma di transizione nei ruoli della "magistratura tributaria" degli attuali giudici tributari "non togati", anche con soluzioni normative innovative, ma che traggano linfa ispiratrice da altre esperienze riformiste degli ordinamenti magistratuali ordinario e amministrativo; come detto sopra, questo percorso è stato avviato con la rimodulazione dei concorsi per l'assunzione dei nuovi magistrati tributari; tale misura dev'essere quindi coordinata e coerenziata con quelle indicate relative al personale giudicante attuale, anche alla luce dell’esperienza mutuata dai concorsi per magistrati ordinari che richiedono per accompagnare un vincitore di concorso all'uscio della potestà decidente del caso concreto una durata di almeno quattro anni;
- prevedere un disegno chiaro per la dirigenza degli uffici, oltre il breve periodo ossia quello dato dalla proroga oltre il 70° anno di età dei giudici del ruolo unico, con riguardo alle effettive, territorialmente diversificate, esigenze delle Corti; nello specifico, anche per riaprire l'opzione delle magistrature professionali, ma con destinazione esclusiva alle vacanze direttive e semidirettive ritenute "strategiche";
- allo stesso tempo, rafforzare la professionalità, la specializzazione e la formazione permanente degli attuali magistrati tributari;
- ripensare all'attività finora svolta dal Consiglio di presidenza in termini di gestione della “carriera” del magistrato tributario. C’è bisogno di una politica della mobilità sul territorio dei magistrati tributari - mobilità orizzontale e mobilità verticale prioritariamente indirizzata verso le funzioni e gli uffici maggiormente gravati – e di conferimento degli incarichi da parte del Consiglio di presidenza che scriva e dissodi regole di trasparenza e di parità di condizioni nelle procedure che saranno adottate per garantire mobilità e conferimenti;
- realizzare un salto di qualità nell'informazione istituzionale fatta dal Consiglio di presidenza e un’azione efficace per lo sviluppo degli strumenti di interazione informatica fra i magistrati e il Consiglio stesso.
6. Considerazioni conclusive.
Su queste direttrici attuative della legge 130/2022, il prossimo CPGT ha da esercitare un ruolo fondamentale sia sul piano dello stimolo delle scelte di politica legislativa (plesso Governo/Parlamento), sia sul piano della normazione secondaria e dell'attività provvedimentale, generale ed individuale, di sua competenza.
Dunque, secondo detto principio costituzionale, dovrà affinare e rinforzare in misura esponenziale la cooperazione con le altre Istituzioni coinvolte nel processo riformatore ed impegnarsi al massimo nell'esercizio delle proprie attribuzioni.
In relazione al primo profilo risulta indispensabile l'implementazione forte del rapporto con le Istituzioni di autogoverno delle altre giurisdizioni ed in particolare, per omologia funzionale, con il Consiglio Superiore della Magistratura, essendo rimasta la giurisdizione tributaria in co-gestione tra le Corti territoriali di merito e la Corte di Cassazione.
E' perciò evidente che la consiliatura che fra poco si aprirà ha un ruolo sostanzialmente co-fondativo della giurisdizione rinnovata. Ruolo che deve innervarsi della forza e autorevolezza della sua rappresentanza, che il Parlamento ha già effettuato, vivificandola con la scelta di alti profili e professionalità di donne e uomini delle istituzioni, che hanno sempre praticato i principi di granito della disciplina ed onore nel servizio pubblico.
Vasto programma verrebbe da dire, ma è l’unico possibile per rendere viva realtà il governo autonomo della magistratura tributaria e scolpire il sembiante riconoscibile e autorevole dell’autonomia, indipendenza e professionalità della magistratura tributaria vecchia e nuova.
Ho il fondato e ragionevole convincimento che anche la magistratura tributaria saprà fare lo stesso nelle prossime scelte elettorali.
*Presidente di sezione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Veneto
[1] Intervento tenuto al Convegno organizzato dall’Università Bocconi il 27.06.2023 dal titolo “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma”.
[2] cfr. Angelo Contrino e Francesco Farri: “GIUSTIZIA TRIBUTARIA: UNA RIFORMA DA COMPLETARE” in sito web del Centro studi Livatino – 09/2022.
[3] Massimo Basilavecchia, Misure deflative del processo tributario. Serve un cambio di passo del legislatore, IPSOA Professionalità Quotidiana, editoriale del 24 giugno 2023.
“Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate …”
(P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, 2008, 269)
Sommario: 1. Motivazione come dialogo - 2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale - 3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia - 4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice.
1. Motivazione come dialogo
È bella, prima ancora che felice e particolarmente calzante, l’immagine della motivazione come dià-logos: che etimologicamente è “parola che si lascia attraversare da una parola altra”[2].
Perché il dialogo è un percorso: di apertura accogliente, di ascolto attento e silenzioso, di confronto libero e rispettoso, di riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni[3].
Così, anche la motivazione mette capo ad un percorso: che è il processo.
Esso è la fonte esclusiva di legittimazione del giudice: tale soltanto nel processo, che potrebbe essere anche inteso come lo spazio costitutivo di riconoscimento dell’essere giudice, se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che “senza processo non vi è giurisdizione, quindi azione, giurisdizione, processo sono tre facce della stessa realtà”[4].
È infatti nel processo, e attraverso il processo, che si invera compiutamente lo “ius dicere” del giudice, che in tal modo appunto attua la “giurisdizione … mediante il giusto processo regolato dalla legge” (art. 111, primo comma Cost.).
Non si può allora non condividere l’“immagine finale” del“la regolarità del processo come unica possibile garanzia positiva della giustizia del risultato”[5]: sicché, davvero la giustificazione della legittimità di una decisione giurisdizionale risiede nell’essere pronunciata, rispettando le “regole del gioco” stabilite per la funzione giurisdizionale[6].
Ebbene, all’interno dell’attività procedimentale, organizzata nella sequenza elementare fatto – situazione giuridica – atto[7] e in esito al percorso processuale reso possibile dalla presenza e dal contributo delle parti e dei loro difensori, nei tempi scanditi dalla direzione (art. 175 c.p.c.), l’esercizio della giurisdizione si realizza, normalmente[8], in un provvedimento, appunto motivato.
2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale
Si comprende bene, e giova averlo chiaro, che la decisione della controversia non stia (se non come epilogo) nel provvedimento risolutivo del giudice (sentenza, piuttosto che ordinanza, o decreto: a seconda del rito o del procedimento adottati) e nella loro motivazione, ma nella direzione “impressa” dal giudice al percorso processuale. Volutamente ho utilizzato un participio atecnico, per meglio illustrare come la direzione del giudice debba essere rettamente intesa: non già come un astratto indirizzo autoritario, bensì piuttosto quale orientamento coerente con gli elementi introdotti dalle parti, sotto i profili di allegazione e deduzione probatoria, nel rispetto del principio dispositivo regolante il processo civile, salva la previsione di esercizio di poteri officiosi (artt. 183, 421, 437 c.p.c.).
E la direzione del giudice deve assicurare, alla fine, una sola, fondamentale garanzia: quella del rispetto del “principio del contraddittorio” tra le parti (“et audietur altera pars”), che è cardine del processo civile, per il suo diretto ancoraggio costituzionale nel diritto di difesa, “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, secondo comma Cost.) e nel quale tutti gli altri principi e tutele sostanzialmente si risolvono.
È noto il suo riferimento normativo nell’art. 101, secondo comma c.p.c., secondo cui “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”, novellato dall’art. 3, settimo comma d.lgs. 149/2022 dall’aggiunta nell’esordio: “Il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione al diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni.”[9].
La disposizione è stata opportunamente introdotta con l’art. 45, tredicesimo comma della legge n. 69/2009, per dare forza di diritto positivo ad un formante giurisprudenziale, che, per rimediare ad un purtroppo non raro cattivo costume (rectius: vizio) motivazionale, aveva individuato, nel sistema anteriore all’introduzione dell’art. 101, secondo comma c.p.c., il dovere costituzionale di evitare sentenze cosiddette “a sorpresa” o della “terza via”, poiché adottate in violazione del principio della “parità delle armi”, nel fondamento normativo dell’art. 183 c.p.c., che al terzo (poi quarto) comma faceva carico al giudice di indicare alle parti “le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, con riferimento, peraltro, alle sole questioni di puro fatto o miste e con esclusione, quindi, di quelle di puro diritto[10].
Non per nulla la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione[11].
3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia
La motivazione di “tutti i provvedimenti giurisdizionali” non è soltanto doveroso adempimento costituzionale (art. 111, sesto comma Cost.), ma essenza stessa della Giurisdizione.
Essa non è prerogativa del giudice declinata come potere proprio, bensì servizio: che neppure gli appartiene, se non per esercitarlo, nella soggezione soltanto alla legge (art. 101, secondo comma Cost.). E che amministra “in nome del popolo” (art. 101, primo comma Cost.), cui appartiene “la sovranità”, da esercitare – qui attraverso il Giudice – “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1, secondo comma Cost.): così come deve essere intesa, secondo il limpido dettato costituzionale. Al riguardo, giova riprendere una chiosa davvero preziosa, per essere sempre avvertiti che “sovranità e soggezione all’impero della legge si presentano … come fossero due facce della medesima medaglia”[12].
Ed è bene anche ribadire che “la motivazione non può essere indifferente alla diversa funzione, che, a seconda dei casi, essa è chiamata a svolgere”: “endoprocessuale”, “per dare conto essenzialmente solo alle parti ed ai loro difensori del perché della decisione”; oppure funzione anche “extraprocessuale”, “per consentire il controllo dell’opinione sull’esercizio dell’attività giurisdizionale e per contribuire alla formazione di orientamenti giurisprudenziali in grado di perpetuarsi quado si ripresentino casi simili”[13].
Si comprende allora come il legame della motivazione, e quindi della Giurisdizione, con la Democrazia sia più stretto di quanto normalmente si pensi: la motivazione è, infatti, esercizio alto e delicato di democrazia.
Perché è “rendere conto” della funzione del giudicare, rettamente intesa: non già alla stregua di apodittica affermazione di un potere gelosamente e insindacabilmente esercitato come proprio, ma quale giustificazione, criticabile in quanto esplicitata in un dialogo argomentato sostenuto da un pensiero, di un “servizio di autorità”, consegnato al Giudice dalla Costituzione, in un circuito virtuoso che parta dal Cittadino (sovrano) e, attraverso il suo Giudice naturale (art. 25, primo comma Cost.), ad esso ritorni.
Ma ciò può, e deve, avvenire soltanto se essa spieghi, in modo trasparente e comprensibile, le ragioni effettive del decidere.
È vero che la chiarezza della motivazione non è prescritta in modo esplicito dal codice di rito, ma costituisce evidentemente la condizione indispensabile perché possa assolvere il suo compito[14]. Prescrivono l’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. che la sentenza debba, in particolare, contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” e l’art. 118 disp. att. c.p.c. che: “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4 del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (primo comma); “Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio e indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. … ” (secondo comma); “In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici.” (terzo comma).
L’interpretazione giurisprudenziale ha, come noto a tutti, meglio chiarito ed esplicitato il significato del dettato normativo. E così, soltanto per una rapida ed esemplificativa silloge di riferimenti, la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato:
“in tema di contenuto della sentenza, la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, non risultando identificabili gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (Cass. 10.11.2010, n. 22845; Cass. 20.1.2015, n. 920; Cass. 15.11.2019, n. 29721); sicché sussiste il vizio di nullità della sentenza per omessa motivazione allorché essa sia priva dell'esposizione dei motivi in diritto a fondamento della decisione (Cass. 16.7.2009, n. 16581; Cass. 10.8.2017, n. 19956)”[15];
“il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza sussiste solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo nelle altre ipotesi un mero errore materiale (Cass. 30.12.2015, n. 26077; Cass. 27.6.2017, n. 16014; Cass. 17.10.2018, n. 26074); in particolare, presupposto indefettibile della prospettata nullità della sentenza è l’insanabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione, in quanto rechino affermazioni del tutto antitetiche tra loro; la prospettata insanabilità non sussiste quando la motivazione sia invece coerente rispetto al dispositivo, limitandosi a ridurne o ad ampliarne il contenuto, senza tuttavia inficiarne il contenuto decisorio e se ne possa escludere qualsiasi ripensamento sopravvenuto, essendo la motivazione saldamente ancorata ad elementi acquisiti al processo: in tal caso, la divergenza tra dispositivo e motivazione non preclude il raggiungimento dello scopo ed esclude la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 156, secondo comma c.p.c. (Cass. 10.5.2011, n. 10305); inoltre, nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della sentenza deve essere individuato, non già alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice: con la conseguenza della prevalenza della parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale (Cass. 10.9.2015, n. 17910; Cass. 18.10.2017, n. 24600); sicché, ove manchi un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una delle due parti del provvedimento, da interpretare secondo l’unica statuizione in esso contenuta (Cass. 11.7.2007, n. 15585; Cass. 17.7.2015, n. 15088; Cass. 21.6.2016, n. 12841). E sempre che il principio dell’interpretazione del dispositivo mediante la motivazione non si estenda fino all’integrazione del contenuto precettivo del primo con la statuizione desunta dalla seconda, attesa la prevalenza da attribuirsi al dispositivo (Cass. 12.2.2020, n. 3469, p.to 1.3. in motivazione)”[16];
“è inconfigurabile, alla luce del novellato testo dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., la censura di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, co. 6 Cost., individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza) di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. s.u. 7.4.2014, n. 8053; Cass. 12.10.2017, n. 23940); ricorre violazione dell’obbligo di motivazione anche qualora essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile), realizzandosi in tal caso una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. (Cass. 25.9.2018, n. 22598)”[17].
4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice
A conclusione delle riflessioni svolte, mi piace sottolineare come la motivazione sia la cartina di tornasole di chi sia davvero il giudice, rivelandone la “postura” e la “qualità”, umana e professionale.
La “postura” è la posizione che il giudice assume abitualmente nel processo, e quindi nella motivazione dei provvedimenti.
Essa dovrebbe auspicabilmente essere quella di chi conosca la trama della controversia, per averne compreso gli elementi fattuali e le ragioni giuridiche, avendo diretto il processo in dialogo con le parti, nella chiara individuazione dei principi di diritto da applicare. E di chi sappia discernere le effettive ragioni del decidere, spiegandole con linguaggio semplice e tecnicamente appropriato, in uno stile sobrio, conciso ma esauriente al tempo stesso, che soprattutto non indulga ad inutili e fuorvianti digressioni, insidiose per le parti e per gli altri giudici, in caso di impugnazione.
Qui si aprirebbe un discorso davvero lungo, che non ho qui il tempo di affrontare, ma che mi preme comunque anche soltanto accennare, in particolare riferimento alla delicata distinzione tra le rationes decidendi (le ragioni argomentative ad effettivo sostegno del ragionamento decisorio) dai meri obiter dicta (le affermazioni volatili, assolutamente superflue; etimologicamente: “buttate là”).
Una tale distinzione rileva, infatti, per i riflessi di inammissibilità dei motivi di impugnazione della sentenza, se non esattamente individuate o riconosciute nella genuina natura, sotto due principali profili:
a) di non corretta denuncia di doppie rationes decidendi, qualora una di esse non sia stata confutata affatto o lo sia stata in modo infondato, per sopravvenuto difetto di interesse, posto che quelle relative alle altre ragioni oggetto di doglianza non potrebbero comunque condurre, per l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione[18];
b) per carenza di interesse, in relazione alla censura di un’argomentazione svolta “ad abundantiam”, siccome avente natura di mero “obiter dictum”, ininfluente sul dispositivo della decisione[19].
In altre parole, con espressione più diretta: la motivazione deve essere resa “per quel che serve”, senza nulla di meno ma neppure di più, in una consapevole e prudente auto - limitazione[20].
La qualità, “umana e professionale”, è il requisito coessenziale all’esercizio di ogni attività, che aspiri ad essere semplicemente degna della donna e dell’uomo.
E così, per chi svolga l’esercizio della giurisdizione l’essere, prima di ogni altra cosa, cittadina o cittadino consapevole, è inseparabile dalla qualità professionale, di magistrato (ossia, di impiegato dello Stato), per status giuridico e di giudice, per investitura di una delicata funzione costituzionale, quella appunto di esercizio della giurisdizione: funzione da svolgere nel rispetto di quell’armonico ordito di equilibri e di garanzie, di diritti di libertà e di valori di giustizia[21], che è Valore sommo della nostra Costituzione, in una coesistenza mite, perché richiede che ciascun valore e ciascun principio “sia assunto in una valenza non assoluta, compatibile con quelli con i quali deve convivere[22]”, in quanto “carattere assoluto assume solo un meta–valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori … e del loro confronto leale”[23]. Ed essa è patto di fiducia a fondamento dell’ordinamento democratico del nostro Stato di diritto, che costruisce spazio di inclusione politica e sociale[24].
E allora, accanto e prima ancora di una doverosa competenza tecnico – giuridica, nel Giudice doti essenziali mi paiono quelle di: umiltà (che è giusta considerazione di sé e degli altri attori del processo, in un ascolto orientato dal desiderio di capire davvero), equilibrio (che è senso della realtà e della misura, oltre che onestà intellettuale), equidistanza (che non è indifferenza né disinteresse, ma serenità di giudizio, libertà da pre–giudizi, ben oltre la cosiddetta “prevenzione cognitiva”)[25], attenzione alle persone che domandano giustizia e sensibilità agli effetti della decisione, sia giuridica sotto il profilo sistematico, sia di “buon senso” della ricaduta concreta della soluzione della controversia sulla vicenda sottesa alla fattispecie[26].
Tali caratteri traspaiono dalla motivazione del provvedimento, che, se ci sono, li illustra …
[1] Relazione rielaborata tenuta a Roma 17 maggio 2023 per il Corso di Tirocinio Mirato Mot. D.M. 2022.
[2] E. Bianchi, L’altro siamo noi, Torino, 2010, 14.
[3] A. Patti, Ascolto via al dialogo, Cinisello Balsamo (Milano), 2018, passim.
[4] S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 225.
[5] G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 744.
[6] A.J.D. Perez Ragone, Profili della giustizia processuale (procedural fairness): la giustificazione etica del processo civile, in Riv. dir. proc., 2008, 1033, part. 1049.
[7] G. Fabbrini, op. cit., 721 ss.
[8] Laddove non si pervenga ad un esito conciliativo, ulteriormente sollecitato dalla novellazione del d.lgs. 149/2022, a norma in particolare degli artt. 183, 185, 185bis, 420 c.p.c.
[9] Il principio è ribadito nel giudizio di cassazione dall’art. 384, terzo comma c.p.c., secondo cui: Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.
[10] Cass. 7 novembre 2013, n. 25054; Cass. 23 maggio 2014, n. 11453; Cass. 27 novembre 2018, n. 30716: Cass. 12 settembre 2019, n. 22778; Cass. 6 febbraio 2023, n. 3543.
[11] Cass. 18 dicembre 2014, n. 26831; Cass. 21 novembre 2016, n. 23638; Cass. 20 novembre 2020.
[12] R. Rordorf, Il giudice e la legge, in Magistratura Giustizia Società, Bari, 2020, 81.
[13] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 391.
[14] Ivi, 389.
[15] Cass. 28 ottobre 2021, n. 30526 (in motivazione, sub p.ti 3, 3.1).
[16] Cass. 9 dicembre 2021, n. 39050 (in motivazione, sub p.ti da 3 a 3.2).
[17] Cass. 16 aprile 2019, n. 10573 (in motivazione).
[18] Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3307; Cass. 15 luglio 2020, n. 15114; 11 maggio 2022, n. 14995).
[19] Cass. 18 dicembre 2017, n. 30354; Cass. 11marzo 2022, n. 7995.
[20] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 390: “Ma la sinteticità risponde soprattutto ad un più generale principio di economia dei mezzi rispetto al fine, il quale consiste nel dare conto della ragione della decisione e non nel manifestare il pensiero giuridico dell’estensore alla maniera di un saggio di dottrina. Per essere efficace la motivazione di un provvedimento deve dire tutto quel che occorre per far comprendere che cosa ha indotto il giudice a decidere in un determinato modo, ma nulla più di questo”.
[21] A. Patti, Perché la legalità? Le ragioni di una scelta, Milano, 2013, 51.
[22] In tale senso anche, in particolare: Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85 (in materia di garanzia del diritto alla salute e all’ambiente salubre); Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 20 (in materia di garanzia del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza), secondo le quali: “Ogni diritto costituzionalmente protetto non può espandersi illimitatamente e divenire “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, poiché la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza”.
[23] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 11.
[24] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 135.
[25] Essa si sostanzia nell’imparzialità, che è condizione essenziale per la realizzazione degli altri valori (di giustizia) del diritto, per la sua funzione di assicurare il modo di raggiungimento di un risultato, nel rispetto di tutti gli interessi in gioco: I. Trujillo, Imparzialità, Torino, 2003, 226.
[26] R. Rordorf, L’equità e la legge, in Magistratura Giustizia Società, cit., 107: “Non bisogna dimenticare che il diritto non è un esercizio mentale astratto ma si confronta continuamente con la realtà storica dei fatti ai quali è destinato ad applicarsi e con i quali è indissolubilmente intrecciato”.
Il 27 giugno 2023 presso l’Università Bocconi di Milano si è tenuto un interessante convegno sul tema “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di presidenza della giustizia tributaria e la sua agenda.” Introdotto dal “padrone di casa”, prof. Angelo Contrino, direttore del Master di diritto tributario presso detta Istituzione accademica, l’incontro è stato autorevolmente coordinato dal Presidente dell’Associazione italiana studiosi e professori di diritto tributario, prof. Maurizio Logozzo, dell’Università Cattolica di Milano. Sono intervenuti il prof. Alessio Lanzi, componente del CPGT nominato dal Senato della Repubblica, il dott. Lanfranco Maria Tenaglia, presidente di sezione della CGT di secondo grado per il Veneto, la prof. Adriana Salvati dell’Università della Campania “Vanvitelli”, il dott. Raffaele Tuccillo, giudice CGT di primo grado di Roma. La sintesi conclusiva è stata tratta dal prof. Giuseppe Zizzo dell’Università LIUC di Castellanza.
Dato il rilievo culturale dell’iniziativa, la Rivista pubblicherà gli interventi scritti dei relatori, a partire da quello del dott. Tenaglia, cui seguiranno gli altri.
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