ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
[In copertina, ritratto di Michela Murgia di Giulia Iofrida]
La notte del 10 agosto, la notte delle stelle cadenti, Michela Murgia si è spenta all’età di cinquantuno anni a causa della sua malattia.
L’indomani mattina alle 6:30 ero, senza un apparente motivo, irrimediabilmente sveglia, come se qualcosa, nel mio inconscio, avesse prevalso sulla gioia del non sentire il suono della sveglia il primo giorno di vacanza del mese di agosto. Costretta dalla noia e da un senso di ignoto turbamento ad alzarmi, avevo acceso la tv sul canale del notiziario, rituale sottofondo di caffè e spremute d’arancia di prima mattina.
Il dolore profondo fu confortato da tante, tantissime belle parole che le erano state dedicate e che seguirono nei giorni successivi e alle quali oggi si aggiunge il mio modesto ricordo.
Avevo conosciuto “televisivamente” Michela Murgia diversi anni fa, quando si occupava di una rubrica dedicata a recensioni di libri e consigli di lettura nella trasmissione Quante storie, allora ancora condotta da Corrado Augias, che vedevo con mio padre le volte che pranzava a casa con me, quasi a spezzare la monotonia di noiose giornate di studio.
Quando l’ho “ritrovata” due anni fa mentre presentava il suo ultimo libro, non ho potuto non riconoscerla dal marcato accento sardo, oltre che dall’ossimoro della forza dei contenuti che esprimeva e la pacatezza della forma con cui li rivestiva. Il libro in questione si intitolava Stai zitta - titolo tristemente tratto da un episodio accadutole in diretta radiofonica - e sentirgliene parlare aveva acceso una spia, qualcosa che dentro di me era ancora latente ma che ricongiungeva tante scene che - da giovane donna che si stava affacciando al mondo del lavoro - notavo sempre più, seppur con un senso critico ancora acerbo.
Come per qualunque cosa che desti il mio interesse, ho avvertito la necessità di saperne di più. Così ho iniziato a documentarmi su di lei e a “seguirla” nel modo un po’ desueto e bibliotecario in cui una persona che rifugge i social oggi può seguire un personaggio pubblico.
La mia attenzione si soffermò, in realtà, già a metà del primo rigo della sua biografia. Mi colpì il fatto che era nata a Cabras, un paese semideserto della provincia di Oristano in cui appena l’estate prima avevo fatto tappa per visitare le splendide spiagge della penisola del Sinis. Lì i miei occhi erano stati accecati dai giochi di riflessi che i raggi del sole creavano sul mare trasparente e via via turchese, che con le sue onde abbracciava immense distese di chicchi di quarzo. Sì, non granelli di sabbia, ma piccoli, minuscoli sassolini di quarzo. Alcuni bianchi, altri bianchissimi, altri ancora ambrati. Meraviglie della natura da fare invidia alle più blasonate località turistiche dell’isola sarda, ma poco commercializzate perché rese decisamente poco accattivanti dalla quasi totale assenza di servizi e di una benché minima offerta ricreativa e raggiungibili macerando chilometri e chilometri di un paesaggio arido, brullo, simile alla tundra.
Il legame intenso e mai interrotto con quella terra - magica e brutale allo stesso tempo - e il suo portato culturale ha da sempre marchiato a fondo gli scritti e le riflessioni di Michela Murgia, costituendone un tratto identitario molto forte, e quell’angolo remoto della Sardegna ha continuato ad essere una fucina continua di ispirazione ed un topos costante.
La seconda cosa che mi colpì fu il suo percorso, formativo e poi lavorativo: il corso di studi in teologia per assecondare il gusto per il pensiero astratto ed ancor prima per sottrarsi al destino da contabile nella piccola attività di famiglia che era stato progettato per lei e in cui avrebbe potuto spendere il suo diploma di istituto tecnico. E poi i tantissimi lavori che aveva variato per difendere quella scelta di autonomia e per affermare la propria indipendenza, che avevano suscitato in me ammirazione ma che mi avevano anche rincuorato, portandomi a pensare che forse esistono davvero inevitabili trafile che accomunano le vite delle anime erranti, anche le più tenaci.
Cameriera, insegnante di religione, portiera notturna, telefonista di call-center sono alcuni dei mestieri che Michela Murgia ha fatto prima di esordire come scrittrice. Da quelle esperienze lavorative, tuttavia, aveva sempre saputo trarre - come si direbbe in linguaggio microeconomico - la massima utilità possibile, convertendo ogni aspetto negativo in occasione di opportunità. E così, dal lavoro di venditrice di telemarketing è nato il blog Il mondo deve sapere, in cui denunciava con taglio satirico lo sfruttamento economico e la manipolazione psicologica a cui era sottoposta quella forma di precariato. Blog diventato nel 2006 il suo primo libro e che ha ispirato il film del 2008 di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.
Da allora, la carriera di Michela Murgia è stata una parabola in continua ascesa, che risulta quasi impossibile sintetizzare. Il successo iniziale è certamente legato a doppio nodo al talento nella scrittura. Piena, vera ma immaginifica, delicata e potente, di quelle che ti prendono per mano e ti portano a spiare le vite altrui e a visitare luoghi con la mente, come le penne dei grandi scrittori sanno fare.
Nei suoi romanzi e nei suoi lavori successivi di diverso genere letterario ha affrontato gli argomenti più vari, ma in cui è sempre presente, e via via sempre più forte, l’eco della sua coscienza sociale.
Nel 2009 ha pubblicato Accabadora, che le è valso il premio Campiello, in cui, attingendo alle sue origini e alla cultura popolare sarda, ha intrecciato il tema dell’eutanasia con la realtà dei filli de anima, espressione con cui, nella Sardegna degli anni Cinquanta, si chiamavano quei figli che non erano nati all’interno della propria famiglia, ma che venivano accolti ed amati come tali. Una pratica spontanea di accudimento, una forma di “accoglienza perpetua”, che non pretendeva di recidere i rapporti con la famiglia di appartenenza del bambino, né di sostituirsi ad essa. Dinamiche affettive che richiamano fortemente l’attualità e che ci fanno interrogare sul fondamento dei legami familiari, nelle quali io ho sempre visto una grande verità. Da una parte, pensando al modo che ho avuto fin da piccola di costruire rapporti che fungessero da famiglie parallele, porti sicuri in cui ripararmi, che colmassero vuoti, che sanassero ferite. Dall’altra, pensando a quell’innata esigenza di amare che, per una strana legge del contrappasso, spesso diventa ancora più forte quando di amore si sente di averne ricevuto poco o comunque non abbastanza.
Nel 2011 ha pubblicato Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, saggio in cui spiega come coniugare l’identità cattolica con quella femminista.
Della sua formazione teologica e della sua fede cattolica, d’altronde, non ne ha mai fatto un limite. Anzi, spesso partendo o facendo ricorso proprio a passi e luoghi delle Sacre Scritture, ne ha fatto humus fecondo di idee, traendo premesse logiche dalle quali giungere a sviluppi inediti.
La politica è sempre stata una costante, perché, come lei credeva e come ha ripetuto efficacemente l’amica Chiara Valerio ricordandola nel giorno dei suoi funerali, “tutto è politica”. E, sebbene la politica abbia pervaso tutto il suo pensiero, ad essa ha apertamente “dedicato” nel 2018 il provocatorio pamphlet Istruzioni per diventare fascisti.
Da sempre convinta del potere della narrazione, in Noi siamo tempesta - pubblicato nel 2019 - ha raccontato, con un significato politico e pedagogico ben preciso, storie di successi ed imprese “collettive”, esempi concreti dell’“unione fa la forza”, di sinergie e comunioni di menti e braccia, che ha opposto alla invalsa retorica dell’eroe individuale, con la quale tutti siamo cresciuti e che abbiamo inconsciamente introiettato. E che è negativa tanto per il singolo - l’eroe - perché destinato ad essere schiacciato dal potere, quanto per tutti gli altri - la collettività - in quanto inevitabilmente deresponsabilizzati.
L’etichetta di scrittrice, tuttavia, non l’ha mai definita pienamente. Estremamente poliedrica, Michela Murgia non si è infatti limitata alla parola scritta dei suoi libri ma, spaziando dalle forme di comunicazione più canoniche - come tv, radio e giornali - a quelle più fluide - come podcast, social media, canali Youtube – ha saputo essere una comunicatrice a trecentosessanta gradi. Senza inoltre mai rinunciare alla fisicità delle piazze, dei festival culturali, delle università e delle scuole, dove era costantemente invitata a parlare, e in cui sapeva alternare, all’occorrenza e con dovizia, un registro alto e sufficientemente posato con il linguaggio informale della chiacchiera da bar.
E poi il femminismo e il ruolo di attivista a tutela dei diritti delle donne e delle minoranze - l’altra grande anima di Michela Murgia - che ha affiancato alla produzione letteraria e alla sua attività, spesso alimentandola. Tante le questioni per cui si è spesa in prima persona, spesso facendo scelte decise - come il contro-festival di sole donne organizzato a Verona nel settembre del 2020 in risposta al panel, composto esclusivamente da uomini, del Festival della Bellezza, tenuto pochi giorni prima nella medesima città - o scelte ritenute controverse - come l’“ingresso” nella carta stampata dello schwa, il suono vocalico che consente di rendere neutre le desinenze nella lingua italiana, in favore di un linguaggio più inclusivo - rivendicando la libertà espressiva del suo ruolo di scrittrice, da tener distinto da quello dei linguisti.
E ancora, si è battuta per l’uso del lessico di genere, quale necessità e al tempo stesso educazione ad un linguaggio che rispecchi la realtà e non la deformi; per il divario retributivo di genere, che ancora persiste e che contribuisce ad acuire dislivelli nei ruoli familiari prima ancora che nella società; per una reale garanzia del diritto all’aborto, spesso reso di difficile attuazione per l’elevata percentuale di obiettori di coscienza.
Ha raccontato, all’interno del ciclo Morgana, assieme alla scrittrice e amica Chiara Tagliaferri, storie di donne controcorrente, che hanno fatto scelte scomode e impopolari, ma che hanno così contribuito a ridefinire e ampliare il concetto di “femminile”, spesso limitante perché fallace nella sua parzialità; e storie di donne economicamente potenti, perché la vera emancipazione passa necessariamente attraverso l’indipendenza economica.
Fra le sue convinzioni, l’animava l’idea che il femminismo potesse generare un modello di potere realmente alternativo rispetto a quello esistente, capace di dar corpo ad una classe dirigente nuova, dove la cura e l’ascolto reciproco prendessero il posto di becere logiche di prevaricazione e in cui dar finalmente atto che “contro il potere che si struttura sempre avverso qualcosa, è possibile mettere in campo un qualcosa che invece è essere potenti insieme”.
A queste ed altre parole di Michela Murgia devo non solo di avermi avvicinato al femminismo, ma di avermi aiutato innanzitutto a riconoscere e a destrutturare il maschilismo che era in me e di cui ignoravo l’esistenza, e di questo le sarò per sempre grata. Perché, come lei a buon ragione diceva, “tutti - seppur incolpevolmente - siamo maschilisti, donne comprese, perché nasciamo e viviamo in una società patriarcale”. Ed è proprio questa radice culturale che rende il maschilismo subdolo, ed è per questo che di maschilismo siamo ancora tutti impregnati e chiamati a farci i conti, sia che esso si celi in episodi di corrente quotidianità, sia che esso si manifesti nella violenza più vile.
Ecco perché penso che voci come quelle di Michela Murgia, che piacciano o meno, siano importanti. Perché sono capaci di rompere gli schemi, di alimentare il dubbio, di aprire fessure che poi diventano varchi e da cui nascono labirinti. Ecco perché già manca e mancherà a persone come me, che la apprezzavano, e a persone per cui, pur non apprezzandola, sapeva essere fiamma che accende la miccia.
Quando attraverso l’intervista di Aldo Cazzullo, pubblicata a maggio sulle colonne de Il corriere della sera, ha rivelato pubblicamente la sua malattia, a lasciare di stucco non è stato solo l’atteggiamento stoico di fronte a quella sentenza di morte certa, ma la positività e la gratitudine per quanto aveva vissuto e quanto aveva ancora da vivere.
Rifiutando quel registro bellico che non l’è mai appartenuto, nel suo ultimo romanzo, Tre ciotole, solo in parte autobiografico, ha raccontato il processo di accettazione di quella “nuova formazione di cellule” all’interno del proprio corpo come una parte, ennesima, della propria complessità. Certo, un errore nel sistema, un bug, ma pur sempre una parte del proprio sistema, una parte di sé.
Pur non potendolo sapere, Michela Murgia è già la storia, scritta nell’aria, di una delle donne coraggiose che ci avrebbe raccontato. Una donna che non si è mai risparmiata, che si è rivelata forte nella propria e per la propria umana fragilità. Che è stata sovversiva fino al punto giusto, dirompente nel suo pensiero, senza filtri, libera sempre. Anche quando, poco prima di morire, ha aperto al mondo la realtà della sua famiglia, lontana anni luce da quella che semplicisticamente definiamo “tradizionale”. Fino all’ultimo, nelle occasioni pubbliche a cui ha partecipato, non ha mai fatto mancare il sorriso e la sua incessante ironia.
Il testimone che ci ha lasciato è certamente impegnativo ma è un testimone che, come lei avrebbe voluto, va afferrato - seppur ognuno nella propria individualità - a più mani. L’invito che ci ha fatto, attraverso il modo in cui ha affrontato la morte, è un richiamo assordante alla vita. Per cui, non aspettiamo di stare sull’orlo del precipizio per provare il brivido sulla pelle, non aspettiamo che arrivi una notizia nefasta a scuoterci per vivere senza riserve. Semplicemente viviamo nel senso pieno di ciò che significa vivere e anche di ciò che comporta. Con impegno, con passione, con dedizione, con consapevolezza, per noi e per gli altri. Per non morire vivendo, per non morire da ignavi.
Il reato permanente: profili processuali ed evoluzione giurisprudenziale. Di Maria Teresa Orlando
Sommario: 1. Premessa - 2. Disciplina espressamente dettata dal codice penale e dal codice di procedura penale - 3. Evoluzione giurisprudenziale - 4. Iscrizione nel registro degli indagati del reato permanente e contestazione aperta o chiusa - 5. Termini di scadenza delle indagini preliminari - 6. Art. 414 c.p.p.: Riapertura delle indagini - 7. L’imputazione: art. 407 bis c.p.p. inizio dell’azione penale e art. 516 c.p.p.: modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento - 8. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il reato permanente si caratterizza per il fatto che l’offesa al bene giuridico tutelato dall’ordinamento si protrae nel tempo, in virtù di una condotta persistente e volontaria.
Nel codice penale e nel codice di procedura penale ci sono tre riferimenti a questa figura di reato (art. 158 c.p., artt. 8 e 382 c.p.p.), ma manca una definizione univoca dello stesso ed una elencazione dei suoi elementi strutturali.
Si tratta di un reato che viene definito di durata, caratterizzato dal fatto che l’evento lesivo e la sua consumazione perdurano nel tempo. L’offesa, pertanto, è rivolta nei confronti di un bene che non è suscettibile di una distruzione definitiva bensì solo di una compressione temporanea, come la libertà personale nell’ipotesi del reato di sequestro di persona, sanzionato agli articoli 605 e 630 del codice penale.
I reati permanenti ricomprendono sia fattispecie rivolte verso beni immateriali (ad esempio la libertà) sia quelle lesive di beni materiali, purché ovviamente suscettibili di compressione e non di distruzione definitiva.
Una definizione di tale categoria di reati si rinviene già in una pronuncia delle Sezioni unite risalente al 1956, che aderiva alla teoria bifasica: “la nozione di reato permanente richiede che alla struttura tipica dell'illecito appartenga, secondo la descrizione contenuta nella norma incriminatrice, tanto la causazione del risultato proprio del reato che integra la fase consumativa primaria quanto il mantenimento volontario dello stato di antigiuridicità che ne è conseguito, attraverso cui si realizza una fase ulteriore della già avverata consumazione. - trattasi di ipotesi in cui il precetto penale presenta, alla analisi, un duplice contenuto: anzitutto il divieto o il comando di cagionare l'evento tipico descritto dalla norma; in secondo luogo il comando conseguenziale di rimuovere lo stato di antigiuridicità già prodottosi, sicché, ove l'autore della condotta non provveda immediatamente, pur potendolo, a farlo cessare, la fase consumativa della violazione permane fino a tanto che duri il predetto stato di antigiuridicità”.* Cass Sez. U, Sentenza n. 16 del 00/00/1956 Ud.
La più recente impostazione, sia dottrinale che giurisprudenziale, ha superato la concezione bifasica e considera permanente il reato qualora una condotta, per sua stessa natura, non possa esaurirsi in un unico momento.
La Cassazione in particolare ha definito come reato permanente quale quella particolare ipotesi delittuosa «per la cui esistenza la legge richiede che l’offesa al bene giuridico si protragga nel tempo per una durata che è legata alla persistente condotta volontaria del soggetto agente» (Cass. pen., Sez. unite, 13 luglio 1998, n. 11021).
La premessa in ordine alle caratteristiche fattuali di tale categoria di reati è necessaria al fine di verificare quale sia la disciplina concretamente applicabile a tali fattispecie, in relazione alla specificità delle caratteristiche di tali illeciti.
2. Disciplina espressamente dettata dal codice penale e dal codice di procedura penale
Il legislatore ha infatti espressamente previsto delle norme ad hoc in tema di reato permanente, rispetto all’istituto sostanziale della prescrizione e agli istituti processuali dell’arresto e della competenza territoriale.
È compito invece dell’operatore del diritto inquadrare complessivamente gli istituti non espressamente disciplinati da norme specifiche e verificare in che termini si applichino alle fattispecie permanenti.
L’unica norma nel codice penale che fa espresso riferimento al reato permanente è in tema di prescrizione: all’art. 158 è stabilito che il termine della prescrizione decorre, per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza.
La norma rileva perché evidenzia che il protrarsi della condotta criminale non incide sulla durata del termine, ma sulla decorrenza. I termini naturalmente sono i medesimi dei reati istantanei, quello che è diverso, essendo la condotta criminale in atto, è il momento da cui parte il computo.
Nel codice di procedura penale due sono i riferimenti espressi al reato permanente, l’articolo 8 in tema di competenza territoriale, e l’articolo 382 in tema di arresto in flagranza.
Il Tribunale competente è individuato nel luogo in cui ha avuto inizio la consumazione.
Anche la ratio di questa norma è chiara: la condotta può protrarsi e realizzarsi in luoghi diversi e l’unico dato certo, se le indagini iniziano mentre il reato è in fase di realizzazione, è quello dell’inizio della permanenza, atteso che, tra l’altro, la consumazione può spostarsi in luoghi diversi. Si pensi sempre al reato di sequestro di persona, dove la vittima può essere spostata anche più volte.
L’articolo 382 c.p.p. al secondo comma stabilisce inoltre che nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza. A dire il vero questa norma potrebbe ritenersi una superfetazione, essendo implicito, da uno sguardo sistematico all’ordinamento penale, che la condotta che si protrae nel tempo rientra già nello stato di flagranza descritto al primo comma della norma, del soggetto che viene colto nell'atto di commettere il reato.
Trattandosi tuttavia di prevedere una stringente limitazione della libertà personale il legislatore ha preferito chiarire e disciplinare espressamente la disciplina dell’arresto da parte della polizia giudiziaria quando ricorra la flagranza anche in un reato permanente.
Le norme sinora riportate in tema di reato permanente non sono tuttavia eccentriche rispetto alle caratteristiche di tali fattispecie, e di fatto chiariscono la portata della perduranza della condotta criminale, rispettando i canoni generali dettati in tema di istituti processuali e sostanziali.
Quid iuris rispetto a istituti non disciplinati espressamente per le fattispecie permanenti?
3. Evoluzione giurisprudenziale
Le sentenze in tema di reato permanente hanno affrontato soprattutto questioni processuali attinenti ai termini delle indagini.
La sentenza della Sez. 6, Sentenza n. 38865 del 07/10/2008 Cc. (dep. 15/10/2008 ) Rv. 241751 sul punto è tranchant: “La natura permanente del reato autorizza l'esecuzione delle indagini preliminari per tutta la sua durata”
La fattispecie su cui la Corte si è pronunciata era relativa ad associazione di stampo mafioso, e la Corte ha rigettato l'eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, secondo il ricorrente compiute dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari stabilito dall'art. 405 cod.proc.pen., perchè al momento del loro svolgimento il reato associativo era ancora in atto.
La sesta Sezione della Cassazione, con la sentenza n. 9097 del 17/01/2013 Cc. (dep. 25/02/2013 ) Rv. 254583 – 01, sempre in tema di durata delle indagini preliminari, correttamente individua il termine di durata delle indagini di sei mesi anche in relazione al reato di associazione per delinquere, salvo che nei casi in cui questa sia diretta alla commissione dei reati previsti dall'art. 380, comma secondo, lett. a), b), c), d), f), g) ed i) cod. proc. pen., e sia quindi obbligatorio l'arresto in flagranza.
Il tribunale, nel provvedimento impugnato, era caduto in errore sulla valutazione del termine di durata delle indagini, ritenendo che il reato di associazione per delinquere finalizzato ai furti avesse un termine annuale di durata delle indagini.
La questione giuridica fondamentale, che la sentenza non affronta, tuttavia riguarda l’individuazione della decorrenza del predetto termine.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta la questione in termini innovativi, ma, ad avviso di chi scrive, non del tutto condivisibili.
Con sentenza n. 10687 del 18 gennaio 2023 (dep. 13 marzo 2023), la sesta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata infatti sul rapporto tra iscrizione della notizia di reato, termine massimo delle indagini e perduranza del reato permanente, evidenziando la necessità di una nuova iscrizione allo scadere dei due anni di indagine, previsti come termine massimo dall’art. 406 c.p.p.
La decisione della Corte parte dal pacifico assunto che, qualora oltre i termini di durata delle indagini preliminari emergano elementi di perdurante attualità della condotta delittuosa anche oltre il termine massimo delle stesse (come nel caso dell’ulteriore protrarsi della partecipazione del singolo al sodalizio mafioso), l’attività d’indagine del Pm non può interrompersi, altrimenti “si dovrebbe giungere alla paradossale conseguenza di imporre al PM la chiusura delle indagini già avviate e l’esercizio dell’azione penale per quel reato fino a tale data nonché, al contempo, l’apertura di un nuovo procedimento per lo stesso reato e verso la stessa persona dalla stessa data in poi, a quale dovrebbero rimanere estranee le acquisizioni istruttorie del procedimento chiuso (…)”.
La sentenza in questione parte col criticare l’orientamento, costantemente in passato condiviso dalla giurisprudenza della Suprema Corte e riportato nella sentenza sopra citata del 2008, che stabilisce che, qualora si proceda per un reato permanente, l’esecuzione delle indagini deve ritenersi autorizzata per tutta la durata della condotta.
I giudici hanno ritenuto che questa interpretazione cozzi con il dettato dell’art. 407 c.p.p., che “non prevede eccezioni al principio della durata predeterminata delle indagini preliminari in relazione alla tipologia dei reati, ma soltanto un tempo più ampio per alcune fattispecie più complesse e/o di maggiore allarme sociale”. D’altro canto, tuttavia “laddove, nel corso di un'attività investigativa già avviata in relazione ad un dato reato permanente (ma lo stesso vale per quelli abituali e, comunque, per tutti quelli la cui condotta si protragga nei tempo), successivamente alla scadenza del termine legale emergano nuove circostanze attestanti il perdurare della condotta delittuosa dell'indagato, nulla vieta al Pubblico ministero di procedere ad una nuova iscrizione per lo stesso reato e nei confronti della medesima persona”.
Il collegio evidenzia in particolare che nessuna norma lo impedisce.
La sentenza termina con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto: “Qualora il Pubblico ministero acquisisca, nel corso delle indagini preliminari, elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona già iscritta nel registro di cui all'art. 335, cod. proc. pen., deve procedere a nuova iscrizione ed il termine per le indagini preliminari, previsto dall'art. 405, cod. proc. pen., decorre in modo autonomo per ciascuna successiva iscrizione nell'apposito registro, senza che possa essere posto alcun limite all'utilizzazione di elementi emersi prima della detta iscrizione nel corso di accertamenti relativi ad altri fatti (Sez. 3, n. 32998 del 18/03/2015, M., Rv. 264191). Nel corso delle indagini preliminari, il Pubblico ministero deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato quando acquisisce elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona; ne consegue che il termine per le indagini preliminari decorre in modo autonomo da ciascuna successiva iscrizione (Sez. 2, n. 22016 del 06/03/2019, Nicotra, Rv. 276965: principio affermato in fattispecie - del tutto analoga a quella in rassegna - relativa a più iscrizioni successive nei confronti della stessa persona per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa a seguito dell'acquisizione di nuovi elementi in forza dei contributi dichiarativi di ulteriori collaboratori di giustizia / in relazione a diversi periodi di tempo)”.
La questione, riportata in questi termini, si allaccia necessariamente alle modalità di contestazione della fattispecie permanente, dunque all’originaria iscrizione della notizia di reato e alla scelta che spetta al Pubblico ministero al momento dell’esercizio dell’azione penale.
Dunque, di seguito si affronteranno le questioni relative alle fattispecie permanenti in relazione agli istituti di diritto processuale partendo dall’inizio del procedimento e seguendo l’ordine dettato dal codice di procedura penale.
4. Iscrizione nel registro degli indagati del reato permanente e contestazione aperta o chiusa
Il momento iniziale di apertura del procedimento penale, di iscrizione della notizia di reato nel registro delle notizie di reato da parte del pubblico ministero, è già caratterizzato da una peculiarità rispetto all’iscrizione relativa a reati istantanei.
La contestazione dell’arco temporale in cui si è realizzata la condotta di reato, oggetto dell’imputazione, può essere effettuata in forma aperta o chiusa.
Al primo comma dell’art. 335 il codice di procedura penale prevede espressamente che nell’iscrizione siano indicate, ove risultino, le circostanze di tempo e di luogo del fatto.
Dunque il pubblico ministero, quando iscrive, e poi successivamente, fino a quando esercita l’azione penale, dovrebbe procedere alla contestazione indicando con precisione le circostanze di tempo e così determinando il momento della cessazione della permanenza, o, qualora la condotta non sia cessata, dovrebbe contestarne la perduranza. Lo stesso articolo al comma 2 prevede che, ove il fatto risulti diversamente circostanziato, il pubblico ministero ne curi l’aggiornamento senza procedere a nuove iscrizioni.
Unanimemente la giurisprudenza ritiene corretta una contestazione della condotta nel reato permanente che dia atto che la stessa è in corso.
Viceversa, la sentenza citata nel paragrafo che precede ritiene che la fattispecie permanente consenta, o meglio, imponga al pubblico ministero iscrizioni che si susseguano per segmenti temporali, e per ogni segmento si applichino le norme del codice alla stregua di singoli reati autonomi.
L’impostazione del collegio, portata alle estreme conseguenze, in pratica, prevederebbe di procedere a iscrizioni per segmenti temporali con decorrenza dalla precedente iscrizione e scadenza al giorno della successiva iscrizione.
Aderendo a questa impostazione - benché la sentenza si sia occupata in concreto di una nuova iscrizione, successiva al decorso dei due anni d’indagine dall’originaria iscrizione - sarebbe astrattamente possibile e anzi, doveroso per il Pubblico Ministero, procedere a ulteriori iscrizioni ogni qualvolta la polizia giudiziaria segnali ulteriori condotte che integrino la fattispecie. E per tali segmenti ripartirebbe il termine delle indagini previsto dall’art. 405 c.p.p.: l’impostazione che deriva dall’adesione alla ricostruzione giuridica effettuata dalla sentenza imporrebbe al Pubblico Ministero di procedere a una serie di contestazioni “chiuse”.
Questo approccio tuttavia cozza con la possibilità, derivante dalla caratteristiche stesse del reato e sinora pacificamente ritenuta dalla costante giurisprudenza, di procedere a una contestazione “aperta” sin dalla fase delle indagini, ed in particolare sin dalla prima iscrizione della notizia di reato. Infatti, come è pacificamente consentita la contestazione “aperta” al momento dell’esercizio dell’azione penale, ne deriva che questo potere di valutazione della fattispecie concreta spetta al PM sin dall’inizio dell’indagine.
La previsione di iscrizioni che si susseguono stride in particolare rispetto a talune fattispecie permanenti quali la commissione del reato di sequestro di persona, che è caratterizzata, rispetto al reato associativo, dal dato tendenzialmente chiaro dell’inizio della permanenza, e dove balza all'occhio il dovere dello Stato di proseguire le indagini nei confronti di eventuali soggetti iscritti per tutto il tempo in cui la condotta criminale prosegua (quindi eventualmente anche oltre i due anni previsti dall’art. 406 c.p.p.), e a prescindere dalla richiesta la proroga delle indagini, né può apparire corretta l’iscrizione reiterata del medesimo reato avente ad oggetto la stessa vittima.
5. Termini di scadenza delle indagini preliminari
Il tema attualmente più controverso, in tema di indagini, è risultato essere quello relativo ai termini di scadenza delle indagini preliminari.
Il codice di procedura penale, all’art. 405 stabilisce il termine entro il quale il pubblico ministero è tenuto a chiudere le indagini, che decorre dall’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato per la commissione del reato.
L’art. 406 c.p.p. detta la disciplina per la proroga di tale termine.
La riforma Cartabia ha inciso sulla durata di tali termini, ma non sulle questioni giuridiche legate all’interpretazione di tali norme.
La ratio della norma è chiara: prevedere un termine entro il quale le indagini devono essere concluse, a tutela dell’indagato, onde impedire che una persona risulti sottoposta a indagini sine die e senza un controllo da parte del giudice sull’operato del PM.
Nulla quaestio rispetto ai reati istantanei: si consumano nel momento in cui il colpevole realizza la condotta o l'evento vietati, senza che l'azione si protragga nel tempo. Il fatto nella sua materialità si è realizzato, e il pubblico ministero ha un arco temporale, a partire dall’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p, variabile in relazione alla fattispecie di reato – peraltro modificato dalla riforma Cartabia -, entro cui effettuare le indagini, verificare gli elementi a carico dell’indagato e concludere le indagini, determinandosi per l’esercizio dell’azione penale o per la richiesta di archiviazione del procedimento.
In relazione ai reati permanenti, la norma è pienamente applicabile nei medesimi termini quando la permanenza è cessata: se vi sono atti di recesso dall’associazione, se vi è la prova che l’associazione è stata sciolta, se il sequestro di persona si è concluso e la vittima è stata liberata o è deceduta, la permanenza riguarda un periodo temporale anteriore all‘iscrizione nel registro delle notizie di reato e il pubblico ministero non può indagare sine die, ma deve determinarsi in relazione al fatto nel termine previsto, essendo la situazione equiparabile a quella dei reati istantanei.
La situazione fattuale tuttavia risulta diversa se la condotta criminale è in atto.
La proroga delle indagini avrebbe senso limitatamente al segmento di condotta contestato fino alla data dell’iscrizione. Le condotte di reato successive a quella data potrebbero essere coperte dal limite temporale imposto dall’art. 405 c.p.p.
La citata sentenza prospetta la possibilità – che dovrebbe tradursi in un dovere per il PM – di procedere ad ulteriore iscrizione. Ma la questione giuridica di fondo si riallaccia alle modalità di contestazione dell’illecito penale: l’imputazione, al momento dell’esercizio dell’azione penale, e nella valutazione dei giudici al momento della sentenza sarà una, perché il fatto, sia giuridicamente che naturalisticamente inteso, è uno. Opera come fictio iuris l’interruzione dettata dalla sentenza di primo grado. Dunque la suddivisione in eventuali successive iscrizioni per la medesima fattispecie di reato, onde contestare, rispetto allo stesso fatto, archi temporali che si succedono, cozza contro la necessità di procedere con un’unica imputazione a contestare un fatto di reato unitario.
6. Art. 414 c.p.p.: Riapertura delle indagini
Una ulteriore istituto, che ha richiesto una riflessione in tema di applicazione concreta della norma e sul quale la giurisprudenza si è soffermata, è quello disciplinato all’art.414 c.p.p.
La giurisprudenza di merito e della Suprema Corte è uniforme nel ritenere che, in relazione alle indagini nei confronti di reati permanenti con condotta in atto – la maggior parte delle sentenze sono relative al reato di partecipazione a reato associativo – non sia necessario chiedere la riapertura delle indagini per procedere all’iscrizione, qualora la fattispecie sia stata in precedenza archiviata dal giudice per le indagini preliminari, senza che questo escluda la possibilità di utilizzare elementi probatori raccolti nel procedimento archiviato.
La riapertura risulta tuttavia necessaria se si intenda procedere anche per quel frammento temporale di condotta antecedente alla richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero.
La ratio si rinviene nella circostanza che, se la condotta criminale è in atto, solo per l’arco temporale antecedente alla richiesta di archiviazione vige la preclusione rispetto alla possibilità di procedere. Per la condotta in atto la disciplina applicabile è la stessa di una nuova fattispecie di reato: si procederà a una nuova iscrizione da parte del Pubblico Ministero, sulla base di elementi raccolti che siano temporalmente successivi rispetto alla richiesta di archiviazione. Se si ritiene di dover procedere anche per l’arco temporale antecedente, per il quale è stata ottenuta l’archiviazione, si dovrà invece procedere con richiesta al giudice, ai sensi dell’art. 414 c.p.p., motivando l’esigenza di nuove investigazioni, e il giudice valuterà la prevedibilità in ordine all’individuazione di nuove fonti di prova. (Cass. Sez. 2, n. 14777 del 19/01/2017, Caponera, Rv. 270221; Sez. 5, n. 43663 del 14/05/2015, Caponera, Rv. 264923; Sez. 2, n. 26762 del 17/03/2015, Sciascia, Rv. 264222; Sez. 6, n. 6547 del 10/10/2011, dep. 2012, Panzeca, Rv. 252113).
L’articolo 414 del codice di procedura penale dunque troverà la sua applicazione solo rispetto al segmento della condotta rispetto al quale vi è stata la richiesta del PM e il provvedimento del giudice.
Numerose sentenze si sono soffermate sui reati associativi: il fatto integrativo dell’associazione criminale «può essere scisso in vari "segmenti temporali"; di conseguenza, l'archiviazione pronunciata rispetto a un determinato "segmento", cui non si accompagni il decreto autorizzativo di cui all’art. 414, comma 1, c.p.p., non preclude lo svolgimento di nuove indagini e, quindi, l'esercizio dell'azione penale in relazione a fatti e comportamenti atti a dimostrare la consumazione dell'illecito de quo limitatamente a "segmenti temporali" successivi alla detta archiviazione» (in questi termini, Sez. 2, n. 26762 del 17/03/2015, Sciascia, cit.).
La Cassazione ha inoltre individuato il limite temporale, rispetto al quale non si può procedere alla contestazione della permanenza se non si sia proceduto alla riapertura, nella richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero. Per i segmenti temporali successivi a quella data sarà consentito l'esercizio dell'azione penale per il medesimo titolo di reato, ove sia proseguita la condotta criminosa oggetto dell'originaria contestazione, con mutamento della caratteristiche strutturali del reato (risultando diverso, in ogni caso, il contesto temporale, al di là degli eventuali altri elementi della condotta tipica, quali i partecipi dell'associazione e le modalità oggettive dell'organizzazione del sodalizio, che possono modificarsi nel corso del tempo, sia pure in relazione allo stesso sodalizio oggetto di indagine.
Dunque la sanzione di inutilizzabilità derivante dalla violazione dell'art. 414 cod. proc. pen. colpisce solo gli atti che riguardano lo stesso fatto oggetto dell'indagine conclusa con il provvedimento di archiviazione, che deve essere inteso con riferimento all’arco temporale oggetto dell’investigazione, e non anche fatti diversi o successivi, benché collegati con i fatti oggetto della precedente indagine (Sez. 5, n. 43663 del 14/05/2015, Caponera, cit.; Sez. 2, n. 3255 del 10/10/2013, dep. 2014, Rostan, Rv. 258528),
L’efficacia preclusiva dell'archiviazione, intesa come inutilizzabilità delle antecedenti acquisizioni conoscitive, rispetto a tali fattispecie impedisce soltanto che - in caso di mancata riapertura delle indagini - l'azione investigativa prosegua sulle frazioni temporali della condotta illecita già considerate in precedenza e sfociate nella archiviazione.
La V Sezione della Corte di Cassazione, nella sentenza 33032 del 2017 evidenzia che “ (…) Di tal che non soltanto non è interdetto lo svolgimento di indagini in presenza di nuovi fatti o epifenomeni indicativi di una condotta criminosa (permanente) del soggetto agente della stessa natura di quella archiviata, ma è altresì possibile e logico che, proprio in funzionale connessione con la struttura ontologica del reato permanente, anche i segmenti di condotta sviluppatisi nel quadro della pregressa vicenda processuale siano apprezzati come sintomatico corollario della complessiva condotta di partecipazione associativa criminosa riferibile all'imputato”.
7. L’imputazione: art. 407 bis c.p.p. inizio dell’azione penale e art. 516 c.p.p.: modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento
Con la formulazione dell’imputazione il pm esercita l’azione penale e circoscrive il fatto di reato da provare.
Quando si procede a una contestazione aperta, la regola di "natura processuale" è che la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado. Per giurisprudenza costante, in relazione ai reati associativi – ma la ratio riguarda tutti i reati permanenti – l'accertamento contenuto nella sentenza di condanna delimita la protrazione temporale della permanenza del reato con riferimento alla data finale cui si riferisce l’imputazione ovvero alla diversa data ritenuta in sentenza o, nel caso di contestazione cd. aperta alla data della pronuncia di primo grado (da ultimo Sez.6 n.3054 del 14/12/2017 in proc. Olivieri ed altri Rv. 27213801).
Naturalmente è compito dell'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale (Sez. 2, n.23343 del 01/03/2016, Ariano, Rv. 267080; Sez. 1, n. 39221, del 26/02/2014, Saputo, Rv. 260511).
Peraltro, la giurisprudenza ritiene che rispetto al reato associativo “qualora il reato sia stato contestato senza specificazione del termine finale della condotta, ma con indicazione della sola data di accertamento, il giudice del dibattimento deve verificare in concreto se la fattispecie decritta nell'imputazione si sia già esaurita prima, dopo o contestualmente a tale accertamento o sia ancora in atto, poiché, in tale ultimo caso, deve ritenersi che la contestazione comprenda anche l'ulteriore eventuale permanenza e se ne può tenere conto a ogni effetto penale, senza la necessità di un'ulteriore contestazione da parte del pubblico ministero” (Sez. 2 - , Sentenza n. 15551 del 04/11/2021 Ud. (dep. 21/04/2022 ) Rv. 283384 – 01) .(Vedi: Sez. U., n. 11930 del 1994, Rv. 199170-01). Dunque, il giudice che decide in ordine al reato associativo contestato, ha la potestà di stabilire se in concreto la condotta si sia protratta e se dunque la condotta sia perdurante sino alla sentenza di primo grado anche in mancanza di una contestazione esplicita da parte del PM. Evidentemente la struttura essenziale del reato permanente impone al giudice, quando la contestazione è generica, di valutare fino a quando la condotta si sia protratta, salvo che il PM non abbia espressamente delimitato temporalmente il fatto di reato.
Un dato certo è che, al di là delle iscrizioni che possono essersi succedute, con l’esercizio dell’azione penale il fatto sarà cristallizzato in un’unica imputazione, e vi sarebbe una discrasia rispetto alla pluralità di iscrizioni, suggerite dalla sentenza n. 10687 del 18 gennaio 2023.
È tuttavia possibile modificare l’imputazione ai sensi dell’art. 516 c.p.p. nel corso del processo, ove il fatto risulti diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio. Ciò comporta, in relazione alle fattispecie trattate, la valutazione della modifica in relazione all’arco temporale oggetto della contestazione.
La giurisprudenza ha infatti affrontato anche la questione della delimitazione del "tempus commissi delicti" del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso inizialmente contestato in forma "aperta", operata dal pubblico ministero in udienza, quale forma anticipata di interruzione giudiziale della permanenza.
La questione affrontata è se la stessa integri o meno una ritrattazione dell'azione penale, e dunque se sia consentita o meno.
8. Considerazioni conclusive
Alla luce delle considerazioni sinora effettuate, la questione interpretativa rispetto alle durata delle indagini nei reati permanenti deve partire dal dato “naturale” e fattuale che caratterizza tali fattispecie.
Da una lettura sistematica emerge dunque che il dato della condotta che si prolunga nel tempo, che caratterizza il reato permanente, impone di considerare unitariamente la fattispecie sino al momento in cui non vi siano provvedimenti “definitivi” dell’Autorità Giudiziaria.
Tale è certamente la sentenza di condanna di primo grado, che giudizialmente interrompe la decorrenza del reato. Lo stesso effetto è stato riconosciuto alla richiesta di archiviazione del PM, che pure interrompe la permanenza qualora venga emesso dal GIP un decreto di archiviazione.
Non si può invece ritenere che il provvedimento di iscrizione produca lo stesso effetto, essendo invece in linea con i provvedimenti di esercizio dell’azione penale, in cui il Pubblico Ministero si limita a riconoscere e a contestare la situazione di fatto: se la condotta perdura nel tempo, il Pubblico Ministero ne prende atto nel suo provvedimento.
Dal momento della cessazione della decorrenza, sia essa di diritto o di fatto, decorrono i termini previsti dal codice.
Anche l’art. 382 cpp in tema di arresto in flagranza porta nella stessa direzione: nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza.
Se si aderisse alla tesi della necessità di proroga delle indagini e di nuova iscrizione, la polizia giudiziaria, per quello stesso reato, potrebbe arrestare l’indagato, mentre il Pubblico Ministero, che non abbia richiesto la proroga delle indagini o che non abbia effettuato una nuova iscrizione, non potrebbe dirigere le stesse indagini.
Di conseguenza la richiesta di proroga delle indagini preliminari, e il relativo decreto, qualora la condotta sia in atto, non trova ragione giuridica. Sul punto soccorrono gli articoli del codice penale e del codice di procedura penale già richiamati. L’art. 158 c.p. detta un principio – logico – di carattere generale: La decorrenza dei termini, nei reati permanenti, deve ritenersi spostata al momento della cessazione della condotta. Armonica risulta la disciplina se il termine decorre dalla cessazione della permanenza.
Come non decorrono i termini di prescrizione, così, ad avviso di chi scrive, per le stesse ragioni non decorrono i termini di durata delle indagini quando la condotta criminale è in atto.
1. Il tema della restrizione della libertà personale prima della condanna è da sempre oggetto di approfondimenti e riflessioni tra gli studiosi del processo. L’approccio è fortemente condizionato da molti elementi non ultimo dei quali quello del modello processuale.
Non senza alcune – rozze – semplificazioni si potrebbe essere tentati di dire che il modello processuale inquisitorio tendenzialmente sia orientato a prevedere la carcerazione preventiva, come peraltro emerge anche dalla nostra Carta costituzionale, che senza previsione della finalità (c.d. vuoto dei fini, riempito dalla giurisprudenza costituzionale e da quella ordinaria) è orientata – fermi solo i limiti massimi – a concepirla come funzionale al sistema (v. anche il riferimento all’autorità giudiziaria). Ciononostante naturalmente, nella evoluzione del modello non sono mancati recuperi di garanzia (controlli nel merito, pluralità di misure, gradualità, proporzionalità e tutto il coacervo di norme che ne accompagnano ora l’applicazione). Cose note, frutto di una lenta ma evidente evoluzione, contrassegnata da moltissime modifiche sia nei presupposti (sufficienti indizi versus gravi indizi), esigenze cautelari (variamente individuate) sia nelle soglie di pena, sia nelle esclusioni applicative, sia nelle presunzioni di pericolosità, sia con riferimenti soggettivi (soggetti deboli), sia a tutela delle vittime.
Si afferma, all’opposto – anche in questo caso con una nettezza facilmente confutabile – che un sistema accusatorio, impostato sulla presunzione di innocenza o di non colpevolezza, non ammetterebbe (forse si teoricamente) una carcerazione preventiva (al di là della presenza della concessione onerosa della cauzione), dato peraltro di cui è agevole sostenere la fallacia, come emerge dai sistemi anglosassoni impostati sul modello accusatorio.
Invero, al di là dei semplicisti schematismi così delineati, che non sono in grado di reggere di fronte ad una tematica complessa, va considerato che anche questo tema – come tutto il processo – risente di molti elementi quali storia, cultura, ordinamento giudiziario, contesti criminali, e l’evoluzione sociale e politica e il contesto sovranazionale, così da non poter essere meramente ricondotto entro schemi rigidi.
Del resto, il provvedimento restrittivo, a differenza delle decisioni di merito, è caratterizzato da tre elementi molto peculiari: è emesso (quasi sempre) senza contraddittorio (a sorpresa); è immediatamente esecutivo; l’impugnazione (quasi sempre: art. 310 c.p.p.) non ne sospende l’esecuzione.
Tutto questo trova conferma nella attuale disciplina del libro IV del Codice di rito penale. Com’è noto, superando la fase del c.d. rito ambrosiano, la riforma del 1988, autentico sistema, dentro il codice del 1988 (non casualmente fatto proprio addirittura dalla c.d. legge anticipatrice) è stato interessato, oltre a varie modifiche puntuali e specifiche (si pensi alle misure a tutela della vittima: art. 282 bis, 282 quater, c.p.p.), da due grandi passaggi riformatori che hanno rimodulato la materia nel senso di assicurare al soggetto da sottoporre a misura, maggiori garanzie (l. n. 332 del 1995; l. 47 del 2015).
Questa premessa, del tutto insufficiente a delineare un quadro complesso, molto articolato, a volte casistico, intessuto di modifiche normative e di apporti giurisprudenziali (con moltissime decisioni a sezioni unite) costituisce una solo abbozzata e ovviamente incompleta premessa per affrontare i profili sulla materia contenuti nel d.d.l. Nordio.
2. Il tema è affrontato nell’art. 2 del citato d.d.l., attraverso l’interpolazione di molteplici emendamenti agli artt. 291, 292, 294, 299, 309, 313 e 328 c.p.p.
Due sono gli assi portanti della riforma: il contraddittorio anticipato e la collegialità nell’applicazione della misura della custodia in carcere e della provvisoria applicazione della misura di sicurezza detentiva.
Anche se quest’ultimo aspetto viene differito (di due anni) all’assunzione in ruolo dei 250 magistrati di cui al reclutamento straordinario, per assicurare la funzionalità dei piccoli tribunali (stante la possibilità di situazioni di incompatibilità), sarà necessario tener conto comunque di questo elemento, per valutare la prospettiva riformatrice nella sua complessità e completezza.
Incrociando i due elementi, pare possibile affermare che, fermo quanto previsto dall’art. 284, comma 2, c.p.p., e quanto regolato in tema di responsabilità degli enti, sulla richiesta del pubblico ministero il giudice procederà all’interrogatorio anticipato ove la misura custodiale e non custodiale sia richiesta al di fuori dei pericula di cui alla lett. a e b dell’art. 274 c.p.p., nonché con esclusione dei gravi reati di cui alla lett. c sempre dell’art. 274 c.p.p., di cui all’art. 407, comma 2, lett. a c.p.p. e all’art. 362, comma 1 ter, c.p.p., ovvero dei gravi delitti commessi con uso delle armi o con altri mezzi di violenza personale.
Pertanto, difettando le altre esigenze (lett. a e b), si procederà all’interrogatorio anticipato solo in presenza delle situazioni di cui al secondo periodo della lett. c dell’art. 274 c.p.p.: a ben vedere si tratta delle situazioni che erano state oggetto del referendum, che, peraltro, non aveva raggiunto il quorum richiesto.
Come anticipato, la misura cautelare sarà disposta dal collegio solo nel caso in cui si debba applicare la custodia cautelare in carcere.
Nel valutare la misura da applicare e pertanto le modalità procedurali in relazione alla gravità del reato, sarà necessario considerare le situazioni per le quali le esigenze cautelari sono presunte, in termini assoluti o relativi dell’art. 275 c.p.p., con la conseguenza nel primo caso o di non applicare nessuna misura per la mancanza di esigenze ovvero di procedere alla decisione collegiale senza previo interrogatorio; ovvero nel secondo caso, relativamente alle diverse situazioni prospettabili, di procedere alla decisione collegiale, di non procedere alla decisione collegiale e di non procedere all’interrogatorio anticipato (ferma sempre la possibilità di non applicare nessuna misura).
3. I possibili percorsi procedurali, seppur così sommariamente tracciati, consentono di introdurre alcune prime riflessioni problematiche sottese alla riforma.
Così, esclusa la necessità della collegialità nel caso in cui il p.m. non chieda la misura della custodia cautelare in carcere, potrà il giudice, prima di determinarsi, valutare la richiesta del pubblico ministero o sarà vincolato dalla richiesta del suo contenuto?
In altri termini, richiesto della misura del carcere, dovrà procedere ad investire il collegio oppure, valutando di non applicare la misura inframuraria, procedere al contraddittorio anticipato, escludendo anche quelle esigenze cautelari che come visto la precludono?
Come dovrà essere valutata una richiesta di arresti domiciliari con braccialetto ovvero sarà necessario procedere collegialmente nel caso in cui alla richiesta del carcere il giudice ritenga di dare una misura meno afflittiva?
Le questioni emergono dalla formulazione dell’art. 291, 1 quater, c.p.p., ove si afferma che il giudice procede all’interrogatorio “prima di disporre la misura” facendo intendere che ci debba (o possa) essere una valutazione preliminare (del giudice singolo).
Del resto, sarebbe assurdo pensare che ritenendo infondata la richiesta del p.m. il giudice debba procedere comunque all’interrogatorio, con possibilità, forse, di dare in tal modo risposta agli interrogativi precedenti.
Ancora. Dovrebbe ritenersi, alla luce di quanto disposto indirettamente in materia di aggravamento delle esigenze ex art. 299 c.p.p., che una volta disposta collegialmente la misura del carcere spetti al collegio valutare la successiva concedibilità, a richiesta della difesa, delle misure meno afflittive, soprattutto nel caso in cui sia stata disposta, in caso di mancato accoglimento della richiesta del carcere, la misura degli arresti domiciliari (con o senza braccialetto) (con o senza contraddittorio anticipato, in relazione alle prospettate situazioni).
Sembrerebbe necessario considerare che se nel caso dell’eventuale rigetto de plano della richiesta del p.m. il materiale probatorio trasmesso sarà restituito senza che l’imputato ne abbia conoscenza, nel caso del rigetto successivo all’interrogatorio il segreto sugli atti verrebbe meno.
È evidente che se nel periodo che precede la decisione, mancando ogni ipotesi di arresto provvisorio, maturassero le esigenze cautelari preclusive del contraddittorio, il giudice potrebbe (rectius, dovrebbe) pronunciarsi senza attendere la presentazione dell’indagato.
Mancano precisi riferimenti procedurali conseguenti alle attività successive allo svolgimento dell’interrogatorio.
Resterebbe anche da considerare se, alla luce di quanto previsto dal novellato art. 292 c.p.p., a mente del quale l’ordinanza cautelare dovrà contenere una specifica valutazione degli elementi esposti nel corso dell’interrogatorio e del riformato 309, ove si prevede che sia trasmesso al tribunale della libertà (“in ogni caso”) il verbale dell’interrogatorio anticipato, il giudizio di riesame conservi la sua natura, ovvero se in questo caso non si accentui la natura di impugnazione, con la conseguente esigenza per la difesa di prospettare motivi di gravame.
Qualche interrogatorio potrebbe prospettarsi, pur in presenza del contraddittorio anticipato, sotto il profilo della collegialità, nel caso dell’applicazione del carcere nell’udienza di convalida.
Forti perplessità suscitano i profili delle garanzie difensive a tutela del soggetto che rende l’interrogatorio: manca, invero, a differenza di quanto previsto dall’art. 294 c.p.p., ogni riferimento – con le logiche conseguenze in punto di natura dell’invalidità ex art. 179, comma 1, c.p.p. – alla obbligatoria presenza del difensore, anche senza tener conto che manca ogni riferimento alla nomina di un difensore d’ufficio o di uno di turno.
Esistono, poi, perplessità sullo strumento per il timore di condizionamenti confessori, di chiamate in correità, di collaborazioni tese ad evitare le misure, soprattutto per quei soggetti non difficilmente identificabili sottoposti alla verifica anticipata.
Non possono, infine, negarsi le ricadute (negative) legate alla c.d. doppia collegialità sugli sviluppi processuali.
4. Ricollegandosi alle considerazioni iniziali si può sottolineare che nell’intento di rafforzare la tutela dell’indagato si assiste ad un ulteriore tentativo di anticipazione attraverso il contraddittorio del momento applicativo della misura, peraltro, in una misura che resta marginale e coinvolgente solo situazioni connesse al pericolo di reiterazione di reati, in una dimensione ipotizzata di non elevata criminalità.
Quanto alla collegialità, a parte il differimento della sua operatività, resta problematico il profilo della incidenza della pronuncia nei casi di contraddittorio anticipato sugli sviluppi processuali, aggravati da una eventuale decisione in sede di riesame, che forse le difese eviteranno (accentuando quanto già oggi succede) di richiedere.
Forti perplessità suscitano le segnalate carenze difensive, decisamente incomprensibili per una riforma che vorrebbe tutelare la libertà personale.
Sommario: 1. Il volume di Bruno Capponi su Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile. - 2. Alcune puntualizzazioni su: funzione, compiti, procedimento. - 3. La nomofilachia e la funzione della Corte. - 4. I nuovi compiti della Corte di Cassazione. - 5. Il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. e la logica del respingimento.
1. Il volume di Bruno Capponi su Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile.
Bruno Capponi ha raccolto in un volume Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile, ESI, 2023, i suoi più recenti scritti in argomento.
Sono molti, e alcuni sono stati pubblicati in questa rivista; io li ho seguiti (direi) uno ad uno, nel momento in cui uscivano, interessato all’argomento e a prendere atto del pensiero di un processualista che stimo e che conosco da quando eravamo ragazzi.
È un piacere quindi per me presentare il volume appena uscito ai lettori di Giustiziainsieme.
Il volume, in terza di copertina, spiega in estrema sintesi la posizione di Bruno Capponi in ordine alla Cassazione civile.
La tesi di fondo è che la Corte sta progressivamente perdendo la sua funzione di garanzia per le parti e di controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito per acquisire una funzione di interprete sganciata dalla decisione del caso singolo e, a volte, per acquisire una funzione di vera e propria creatrice di nuovo diritto: “Non più giudice dei casi concreti, ma giudice delle questioni astratte, che somministra principi di diritto cui dovrebbero adeguarsi i giudici di merito secondo una concezione della giurisdizione più autoritaria che in passato”; e quindi: “alla ricerca di una funzione in purezza, con i rischi di una operazione destinata a snaturare ruolo e funzione della Corte” (pag. 78/79).
Questa idea di fondo emerge un po’ in tutti gli scritti di Bruno Capponi: v’è negli scritti dedicati alla nomofilachia, La Corte di Cassazione e la nomofilachia, pag. 47 e ss; La nomofilachia tra equivoci e autoritarismi, pag. 209 e ss.; v’è, ancora, dinanzi ai dubbi che possono nutrirsi nell’affidare alla Corte nuovi compiti quando questa è già oberata di lavoro e sommersa di ricorsi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, pag. 111 e ss.; è una idea che si trova altresì negli scritti dedicati più propriamente al procedimento, Una novità assoluta per il giudizio di legittimità: il giudice monocratico nel procedimento, pag. 261 e ss., Un piccolo dubbio sul rinvio civile, pag. 229 e ss., Notarella sull’art. 372 c.p.c. e sul rispetto del contraddittorio in Cassazione, pag. 235 e ss.; e soprattutto dedicati a quelle pronunce che hanno costituito creazione di diritto più che interpretazione dello stesso, Gli orientamenti nomopoietici, l’esempio di Cass., sez. III, n. 26285/2019, pag. 243 e ss., A proposito di Cass. SS.UU. 6 aprile 2023 n. 9479; e infine è presente nei molti scritti dedicati alla motivazione, pag. 121 e ss., nonché dedicati ai formalismi che regnano (purtroppo) sovrani dinanzi alla Suprema Corte, Il formalismo in Cassazione, pag. 81 e ss., Brevità, concentrazione, non ripetizione, pag. 91 e ss.
Accanto a ciò v’è poi la trattazione di un ulteriore tema, che è quello secondo il quale la giurisdizione costituisce una risorsa limitata, con la conseguenza quindi, in una certa misura, che non è scorretto cercare di contenere il numero dei ricorsi, e soprattutto tendere a dichiararli sovente inammissibili e/o manifestamente infondati, in una logica che Bruno Capponi definisce del respingimento.
Così, non solo una nuova nomofilachia che si astrae dai casi concreti e si trasforma, in taluni casi, in nomopoiesi, ma anche formalismi e respingimenti, oggi regolati dal nuovo art. 380 bis c.p.c. di cui alla recente riforma c.d. Cartabia, d. lgs. 149/2022. A tutto ciò è dedicato il volume.
Si legge infatti nella premessa: “A questa Corte magmatica, che sembra alla ricerca perenne di una sua propria identità, sono dedicati gli scritti qui raccolti. In attesa di un possibile annus mirabilis”. (pag. 10).
2. Alcune puntualizzazioni su: funzione, compiti, procedimento.
Ora, i temi sono molti e non possono essere tutti oggetto di commento.
Si tratta allora di fare una cernita, e soprattutto di sintetizzare le varie tematiche; e io credo che le questioni di fondo siano tre:
a) si tratta in primo luogo di indagare sulla funzione della Corte di Cassazione, ovvero sul ruolo c.d. nomofilattico che le è stato assegnato dall’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941 n. 112;
b) si tratta poi di esaminare i compiti che specificamente le sono attribuiti, e che secondo Bruno Capponi sono aumentati in questi anni, alcuni addirittura in via di autoattribuzione in assenza di specifica previsione normativa;
c) e si tratta infine di valutare il procedimento con il quale questi compiti sono svolti, e quindi la funzione esercitata.
A questi tre momenti dedico le brevi osservazioni che seguono.
3. La nomofilachia e la funzione della Corte.
Per affrontare il tema della nomofilachia, mi sembra preliminarmente utile riportare alcuni passi del volume: “La Corte ha due anime: una deriva dall’art. 65 ord. giud. quale frutto di una concezione statalista e accentratrice anche della giurisdizione; l’altra deriva dall’art. 111, comma 7 (originariamente, comma 2) Cost., ed è frutto di una concezione garantistica per le parti, che sanno di poter sempre contare sul controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito”. (pag. 279).
“Queste due anime per lungo tempo hanno camminato insieme perché la Corte, decidendo il ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.), affermava il principio di diritto a valere per i casi futuri. La garanzia per le parti (art. 111, comma 7, Cost.) era dunque l’occasione per far emergere la funzione nomofilattica di orientamento della giurisprudenza (art. 65 ord. giud.) che peraltro si esprimeva in pronunciamenti non costituenti un vero e proprio vincolo per gli interpreti, poiché, secondo l’opinione più accreditata, il giudice di merito, soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.) e superiorem non recognoscens (art. 107, comma 3, Cost.), ha il dovere di conoscere gli orientamenti della S.C. e di eventualmente motivare le decisioni in dissenso, ma non ha anche il dovere di uniformarsi acriticamente ai princìpi affermati dalla Corte” (pag. 280).
E tuttavia, sottolinea Bruno Capponi: “Le due anime della Corte sono destinate a entrare in conflitto qualora si voglia distaccare la funzione nomofilattica dalla funzione di garanzia……. allora la funzione della Corte rischia di scivolare fuori dal circuito francamente giurisdizionale per approdare in un contesto nuovo, dove si presuppone che il dialogo sia con la norma e non con il caso, e si presuppone anche che il frutto di un simile dialogo sia vincolante per ogni interprete (e non soltanto per le parti in lite)” (pag. 281).
In altri termini: “la Cassazione non è più o non più soltanto un giudice bensì un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria” (pag. 78).
Il concetto è ripreso anche nelle conclusioni: “La tendenza che sta prendendo piede all’interno della Corte è così quella di fare della Cassazione non più o non soltanto un giudice bensì – come è stato scritto – un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, interessato assai più alla interpretazione del diritto che non alla sua applicazione in quei casi pratici che, per i tramiti delle impugnazioni, ascendono verso l’Organo di legittimità” (pag. 289).
Dunque, sulla contrapposizione di queste due anime, qualche parola deve essere spesa, anche perché, sempre con le parole di Bruno Capponi “Individuati in apicibus questi due compiti, il legislatore si è disinteressato dei dettagli” (pag. 279).
3.1. Io direi, in primo luogo, che nessuno mette oggi in discussione la funzione di nomofilachia della Corte di Cassazione, nessuno mette in discussione l’esigenza del trattamento paritario delle parti in giudizio nel rispetto dell’art. 3 Cost., e nessuno mette in discussione che una certa uniformità delle decisioni giurisdizionali sia un valore della nostra Repubblica.
Onestà intellettuale vorrebbe, però, dopo ciò, si ricordasse che mentre l’anima c.d. garantista fu voluta dai nostri costituenti e costituzionalizzata con l’art. 111 Cost, l’anima c.d. uniformista, se mi si passa questo termine, fu discussa ed espressamente bocciata in Assemblea.
Sono circa trenta anni che ricordo (senza alcun riscontro) che Piero Calamandrei, in sottocommissione, cercò di far approvare una norma di analogo contenuto all’art. 65 ord giud, ma che tale progetto trovò l’opposizione della stragrande maggioranza dei componenti, tra i quali Targetti, Bozzi, Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia (v. La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958-9).
Calamandrei veniva così messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946: “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”.
Piero Calamandrei, però, successivamente, con dubbio comportamento, riproponeva il medesimo testo bocciato in sottocommissione nel plenum dell’Assemblea.
Avverso ciò prendeva la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda in sottocommissione e il ritiro di quel testo da parte dello stesso Piero Calamandrei, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”.
La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito, e in Assemblea, tutto al contrario, si discuteva del solo progetto di Giovanni Leone, volto a riconoscere a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti.
Sarà quello il nuovo art. 111 Cost.
Ripeto: nessuno mette in discussione l’odierno valore della nomofilachia, però è deprimente, a mio parere, che nessuno ricordi mai questo fatto storico, e tralasci il diverso peso delle due anime della Cassazione, per dirla con le parole di Bruno Capponi.
Si riesce addirittura a leggere monografie in argomento che non trattano di questa vicenda e affermano brevemente che il principio di nomofilachia è un principio costituzionale perché vi è l’art. 3 Cost.
3.2. Ciò premesso, si tratta di ribadire che il principio di nomofilachia, seppur non messo in discussione, necessita tuttavia di talune precisazioni, ed io direi, con Bruno Capponi, quanto segue.
a) La nomofilachia, in primo luogo, non deve concepirsi quale rispetto tassativo del precedente per i giudici di merito, non può assimilarsi alla tecnica dello stare decisis, poiché ciò, oltre a comportare un evidente immiserimento della funzione giurisdizionale, ci condurrebbe a metodi che non appartengono alla nostra tradizione giuridica di civil law.
Scrive Bruno Capponi che: ”nel nostro ordinamento non esiste la cultura del precedente, ed anzi da noi si riscontra una cultura che vede il singolo giudice come l’esponente superiorem non ricognoscens di un potere orizzontalmente diffuso” (pag. 50).
Sotto questo profilo dobbiamo infatti tutti ricordarci che la magistratura, nel nostro sistema, è, e deve rimanere, un potere diffuso, così come stabilito negli artt. 106 e 107 Costituzione.
E la magistratura non sarebbe più un potere diffuso ove questa dovesse solo riprodurre l’esistente.
b) In secondo luogo l’esigenza di trattare in modo paritario tutti i cittadini non può far venir meno il principio secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge e rispondono del loro operato secondo scienza e coscienza.
Un tempo si chiamava questo senso della giurisdizione, che, ritengo, non debba smarrirsi.
In questo quadro, è necessario che la nomofilachia non si renda nemica della pluralità e che non venga interpretata in senso rigorosamente verticale.
Possiamo e dobbiamo immaginare invece una nomofilachia che sia capace di rispettare l’indipendenza, anche interna, del giudice, e si muova e si formi in senso anche orizzontale, ovvero che riesca a trovare conferma, aggiustamento e integrazione con le motivazioni e le ragioni dei giudici del merito, che la condividono e la integrano, e alle volte, perché no?, la disattendono, se non ne sono, in scienza e coscienza, convinti.
Bruno Capponi: “Il giudice di merito ha il dovere di conoscere gli orientamenti della Suprema Corte e di eventualmente motivare le decisioni in dissenso, ma non ha anche il dovere di uniformarsi acriticamente ai princìpi affermati dalla Corte” (pag. 280).
c) In terzo luogo la nomofilachia non può trasformarsi nel potere di libera creazione del diritto, ed è altresì necessario che la Corte di Cassazione non si trasformi in un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, non essendo ciò contemplato da nessuna norma costituzionale e/o ordinaria.
È discutibile, infatti, che in ipotesi sempre più frequenti la Cassazione "non assicuri più l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge bensì integri la disciplina positiva con previsioni generali e astratte in alcun modo collegate con le norme che ha scrutinato” (pag. 258); e questo perché “La Cassazione è un giudice, non un legislatore di complemento ne’ un consulente giuridico ne’ un libero dispensatore di regole di comportamento indirizzate ai pratici” (pag. 259).
Con espressioni un po’ forti, il concetto è comunque chiaro: la nomofilachia non fa della Cassazione una fonte del diritto, ed è imbarazzante, al contrario, trovarsi sempre più spesso dinanzi “a decisioni che non interpretano bensì creano nuovo diritto” (pag. 299).
3.3. Dunque, in estrema sintesi, sempre per Bruno Capponi: “Le due anime della Corte debbono tornare a camminare insieme, e questa è forse la sfida più importante che attende la Cassazione nel prossimo futuro” (pag. 291).
4. I nuovi compiti della Corte di Cassazione.
V’è, poi, il tema dei compiti affidati alla Corte di Cassazione, e su ciò a me pare sia vero che, negli anni, essi siano sensibilmente aumentati.
Scrive Bruno Capponi che: “Ogni volta che il legislatore si occupa della Cassazione, finisce per attribuirle compiti nuovi” (pag. 28).
Forse non è inutile ricordarli.
4.1. Alcuni sono quelli assegnati dall’ultima riforma del processo civile.
Bruno Capponi scrive: “nel caso ultimo del d.lgs. n. 149/2022, oltre a quelli assegnati al giudice monocratico (si fa riferimento all’art. 380 bis c.p.c. di seguito trattato), nuovi compiti derivano dal rinvio pregiudiziale interpretativo (art. 363-bis c.p.c.) e dalla speciale ipotesi di revocazione introdotta all’art. 362 c.p.c., al quale è stato aggiunto un ulteriore comma in forza del quale le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono essere impugnate per revocazione, ai sensi del nuovo art. 391-quater c.p.c., quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero a uno dei suoi Protocolli. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’impugnazione di merito, che tuttavia il legislatore – confermando il continuo passaggio della Cassazione verso orizzonti nuovi – ha inteso attribuire al giudice di legittimità”. (pag. 28).
Dunque, nuovi compiti sono disciplinati degli artt. 362, 363 bis 380 bis e 391 quater c.p.c., e su questi, in questa sede, non aggiungerei altro, vista l’ampia letteratura della quale godono.
Sul rinvio pregiudiziale Bruno Capponi ha specificamente scritto il saggio che si trova nel volume a pagg. 111 e ss., e mi limito a tale richiamo.
4.2. Tra i nuovi compiti, inoltre, può essere annoverato anche quello disciplinato dall’art. 363 c.p.c., al quale, di nuovo, Bruno Capponi dedica un saggio (pag. 47 e ss.).
Si tratta, come è noto, della possibilità riconosciuta alla Corte di Cassazione di emanare un principio di diritto anche in assenza di domande di parte per esigenze di “interesse della legge”.
Questa possibilità, che in una certa misura allontana la Cassazione dalle parti e la trasforma, così come indica Bruno Capponi, in un giudice delle questioni non litigiose, è sempre più utilizzata dalla Corte di Cassazione, e v’è stato un caso eclatante con la recente sentenza Cass. sez. un. 6 aprile 2023 n. 9479, pronunciata infatti in un processo rinunciato (v. pag. 293 e ss.).
L’istituto può dirsi nuovo perché l’art. 363 c.p.c. subì una importante novellazione nel 2006, che ne estese l’ambito di applicazione: la norma, da quel momento, è rubricata “principio di diritto nell’interesse della legge” e non più “ricorso nell’interesse della legge”; il PG, nell’interesse della legge, può impugnare anche i provvedimenti non ricorribili in cassazione; e la Corte può pronunciare il principio di diritto anche d’ufficio quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile.
L’istituto era già considerato da Mortara al suo sorgere di “poca simpatia” e di “ripugnanza logica” (v. Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, 21-2); in origine infatti il ricorso nell’interesse della legge aveva finalità politiche, poiché le procure, fino alla nostra Repubblica, dipendevano dall’esecutivo.
Con detto istituto il potere politico, così, del quale il procuratore dipendeva, aveva la possibilità di chiedere l’annullamento delle sentenze non gradite anche se non impugnate dalle parti.
Oggi, al contrario, con l’indipendenza degli uffici delle procure dal governo, l’istituto non sembra più rispondere ad alcuna logica, se si considera che il PM è già presente nel processo ai sensi degli artt. 69 e 70 c.p.c. e può impugnare la sentenza.
La riforma del 2006, invece di sopprimere un istituto storicamente superato, decideva di rafforzarlo, così attribuendo alla Cassazione una funzione nuova che fino a quel momento non aveva avuto, e che Bruno Capponi indica asserendo che la Cassazione ha oggi perso la sua funzione di garanzia per le parti e di controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito per acquisire una funzione di mera interprete del diritto, anche d’ufficio, e fuori da una dimensione più strettamente contenziosa.
Scrive inoltre Bruno Capponi: “Non più decisione della controversia, bensì affermazione di un’astratta regola rivolta alla generalità degli interpreti” (pag. 59); dal che: “Va ripensata la disciplina complessiva della pronuncia nell’interesse della legge………..Un dialogo esclusivo tra Procura e Corte non appare infatti adeguato a istruire una questione……..È bene riaffermare la regola di base, secondo la quale la Cassazione enuncia principi di diritto quando decide i ricorsi, quando cioè afferma la regola del caso e, incidentalmente e conseguentemente, quella a valere per i casi futuri” (pag. 70/71).
4.3. Da segnalare, infine, il nuovo compito che si è assegnato l’Ufficio del Massimario, il quale, oramai da anni, provvede con periodiche relazioni ad esporre ed interpretare le novità legislative.
Su ciò scrive Bruno Capponi: “Del resto, non può non notarsi – ed è stato infatti notato – che le relazioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, liberamente consultabili sul sito della Corte, sono sempre più orientate verso l’analisi dei nuovi testi legislativi (numerose quelle dedicate ai vari aspetti del d.lgs. n. 149/2022), piuttosto che verso la giurisprudenza della stessa Corte, come in verità dovrebbe essere secondo le istruzioni impartite dal primo presidente, che parlano di «analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, condotta allo scopo di creare un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte di Cassazione) necessaria per il miglior esercizio della funzione nomofilattica della stessa Corte» Con ciò, anche l’ufficio del Massimario e del Ruolo tende a proporsi come primo interprete delle nuove norme, a fini non soltanto interni alla Corte, quasi integrando, da corpo burocratico, quell’attività interpretativa dei testi legislativi mediante la quale la Corte vorrebbe esercitare la “nomofilachia” svincolandosi dalle sue funzioni di giudice”. (pag. 290).
4.4. Che dire di tutto questo?
Mi limito, ancora, a riportare il pensiero di Bruno Capponi: “La Corte, dal canto suo, sembra alla costante ricerca di compiti nuovi, che esaltino le sue funzioni più nobili”. (pag. 280); mentre dovrebbe essere: “di elementare evidenza che una Corte Suprema schiacciata dalla mole dei ricorsi dovrebbe pensare a limitare e selezionare i propri interventi, non certo ad acquisire compiti nuovi che si affastellano su quelli già esistenti” (pag. 280).
Si tratta di temi sui quali una riflessione è forse necessaria.
5. Il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. e la logica del respingimento.
Quanto al procedimento, esso è oggi in gran parte regolato dal nuovo art. 380 bis c.p.c.
Si tratta di una novità dirompente, poiché, nella sostanza, la decisione in Cassazione, dopo esser passata dalla sentenza all’ordinanza, oggi passa dall’ordinanza alla proposta del singolo consigliere.
Come è noto il nuovo testo prevede che dopo la comunicazione di detta proposta, la parte debba presentare una precisa istanza per ottenere il provvedimento decisionale collegiale, e l’istanza deve essere sottoscritta dal difensore munito di nuova procura; e se poi la decisione è conforme al parere, la parte sarà automaticamente (o almeno così sembra) condannata ad ogni sanzione di cui al terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c., visto che la Corte, se: “definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.”.
Bruno Capponi evidenzia come incongruente questa nuova procedura, e rileva come: “Il provvedimento del giudice singolo è dunque una decisione vera e propria, una anticipazione di giudizio in forma sommaria (perfettamente idonea a definirlo) che dovrebbe produrre una vera e propria incompatibilità del consigliere proponente a far parte del collegio giudicante, qualora la parte, nonostante tutto, intenda richiedere una decisione nel merito del ricorso. E invece, par di capire che quello stesso consigliere che ha tentato di sbarrare la strada al ricorrente, facilmente farà da relatore nella camera di consiglio” (pag. 270).
Effettivamente, credo anch’io che il nuovo art. 380 bis c.p.c. possa dare qualche problema di conformità ai nostri principi costituzionali e comunitari, e a tal fine desidero portare l’attenzione sui suoi stessi precedenti storici.
5.1. C’era una volta, come si diceva nelle favole, l’opinamento ottocentesco.
Nicola Picardi in uno scritto relativo al periodo della prima formulazione del art. 380 bis c.p.c. (Picardi, L’ordinanza opinata nel rito camerale in Cassazione, Giusto proc. civ., 2008, 321 e ss.), osservava non a caso che: “A ben vedere non si tratta di una novità (faceva riferimento al nuovo art. 380 bis c.p.c.), ma di un meccanismo processuale che ha una lunga storia ed ha avuto applicazione significative in altre epoche”.
L’opinamento, infatti, era un antico istituto che autorizzava il giudice ad anticipare ai difensori la propria decisione (o ad esternare preventivamente i dubbi che su essa egli aveva), e ciò al fine di raccogliere la loro opinione, rinviando il deposito del provvedimento definitivo a momento successivo.
L’opinamento, in questo modo, garantiva una decisione più retta, poiché estendeva il contraddittorio, che normalmente si esercita tra le parti, anche tra le parti e il giudice; e questa estensione del contraddittorio, o se si vuole questa anticipazione del giudizio da parte del giudice, era finalizzata a contenere possibili errori della decisione, con un meccanismo analogo a quello che oggi abbiamo solo per il deposito della CTU, visto che il CTU può depositare la sua relazione finale solo dopo che ne abbia inviato alle parti una bozza, e solo dopo che abbia recepito da esse le relative osservazioni (art. 195 c.p.c.).
L’opinamento era disciplinato in alcuni nostri Stati preunitari, e Nicola Picardi ricordava le regole dello Stato pontificio, e io quelle del Granducato di Toscana (Scarselli, La Corte di Cassazione a Firenze, 1838 – 1923, Giusto proc. civ., 2012, 623 e ss.).
Scriveva Nicola Picardi che: “nella procedura rotale, prima di emanare la sentenza irretrattabile, veniva comunicata alle parti la decisio, cioè sostanzialmente un progetto di motivazione, perché queste potessero controdedurre e la Rota potesse ritornare eventualmente sulle proprie decisioni: Nella prassi forense tale istituto veniva designato opinamento o sentenza opinata”; e sottolineava ancora Nicola Picardi: “l’opinamento è appunto risposta ad un dubbio; all’atto di volontà (sentenza) si arriva più tardi, quando risulti che le parti non chinano il capo al ragionamento del giudice”.
Io invece ricordavo l’art. 779 del Motu proprio del 2 agosto 1838 di Leopoldo II di Toscana, relativo al Regolamento di procedura civile, il quale prevedeva che il relatore potesse esternare alle parti i “dubbi” emersi nel corso della Camera di consiglio, invitando le parti a fornire per iscritto “schiarimenti” nel termine di otto giorni; ricevuta la comunicazione dei dubbi, le parti potevano anche produrre nuovi documenti, sempre a chiarimento dei punti controversi, e solo al termine di questi scambi di “opinioni” tra parti e giudici veniva pronunciata la sentenza.
5.2. Orbene, come detto, l’art. 380 bis c.p.c. nel suo testo originario, ricordava detta antica disciplina, prevedendo infatti che il relatore depositasse “in cancelleria una relazione con la coincisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”; la relazione veniva notificata alle parti e queste avevano la possibilità di depositare memorie “non oltre cinque giorni prima” e addirittura potevano “chiedere di essere sentiti”.
Poi, però, la norma veniva considerata da alcuni troppo garantista, e quindi veniva modificata.
A seguito di una prima modificazione il relatore depositava in cancelleria solo “una coincisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia”.
Poi l’art. 380 bis c.p.c. si modificava ancora: le parti ricevevano a questo punto semplicemente una comunicazione della fissazione della camera di consiglio e la memoria da depositare, sempre cinque giorni prima, non poteva più avere una funzione di effettiva replica alla posizione del relatore; inoltre le parti perdevano il diritto di “chiedere di essere sentiti”.
E si arrivava così al testo odierno ove un consigliere formula “una sintetica proposta di definizione del giudizio” alla quale non segue una decisione, è essa stessa la decisione, se la parte non ha il coraggio di avventurarsi nei rischi dell’art. 96 c.p.c.
Il mutamento è evidente: nell’opinamento il giudice era interessato alla posizione dei difensori, oggi questo interesse è scomparso; nell’opinamento la posizione del difensore era considerata un contributo ai fini della decisione, oggi la posizione del difensore è considerata un atto di abuso del processo; nell’opinamento la prima decisione in forma breve era solo un mezzo per farne una migliore in via definitiva, oggi è essa stessa la decisione finale, visto che la legge non prevede l’incompatibilità tra il giudice del parere e quello della decisione, e visto che la conformità dell’uno con l’altra fa scattare automaticamente le sanzioni di cui all’art. 96 c.p.c.
5.3. Io credo, allora, conformemente a quanto Bruno Capponi ha scritto, che l’art. 380 bis c.p.c. necessiti di una lettura costituzionalmente orientata, la quale non possa non rispettare (almeno) questi criteri:
a) si tratta di evitare che il consigliere che ha depositato la proposta possa comporre il collegio decidente nel caso di istanza di cui al 2° comma dell’art. 380 bis c.p.c.;
b) e si tratta di immaginare che la decisione conforme alla proposta non comporti automaticamente l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 96 c.p.c., come una interpretazione meramente letterale della norma indurrebbe a fare “applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.”, ma la comporti nei soli casi nei quali, effettivamente, vi sia stato un atteggiamento difensivo da considerare abusivo.
Una esegesi costituzionalmente orientata deve infatti esclude che la richiesta di una decisione collegiale, a fronte di un parere reso da un giudice singolo, possa di per sé costituire abuso del processo; e parimenti deve escludersi che la decisione conforme al parere, di per sé, sia sempre la dimostrazione dell’esistenza di tale abuso.
La richiesta della decisione può dipendere dalle ragioni più varie: il parere del consigliere potrebbe aver trascurato fatti rilevanti, oppure orientamenti giurisprudenziali contrari esistenti, oppure contenere una motivazione del tutto insufficiente e/o incoerente, e tutto questo senza che ciò debba necessariamente comportare una differente decisione.
Quindi credo che sia necessario che la Corte di Cassazione, a fronte di ogni richiesta di decisione ai sensi del 2° comma dell’art. 380 bis c.p.c., non si limiti alla mera constatazione della conformità della decisione alla proposta, ma valuti in concreto se detta richiesta abbia i caratteri dell’abuso del processo e non sia invece giustificata da effettive esigenze di giustizia o da obiettive carenze della proposta stessa, e dia corso alle misure sanzionatorie di cui al 3° comma dell’art. 380 bis c.p.c. nelle sole ipotesi in cui la richiesta di decisione sia del tutto ingiustificata, ricordando sempre che una decisione completa e collegiale del ricorso presentato è un diritto costituzionalmente garantito ai cittadini ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost.
5.4. Ovviamente a questo tema è infine strettamente collegato quello che Bruno Capponi definisce logica del respingimento.
Credo che niente di meglio vi sia al riguardo se non richiamare i dati statistici.
Scrive Bruno Capponi: “Secondo l’Annuario statistico 2022 (periodo 1° gennaio 2022/31 dicembre 2022 e serie storiche dal 2012 al 2022), pubblicato dall’Ufficio di statistica presso la Corte di cassazione nel gennaio 2023, le declaratorie di inammissibilità, dal 2012 al 2022, sono cresciute più di tre volte. Se nel 2012 venivano definiti con declaratoria di inammissibilità l’11,9% dei ricorsi, nel 2022 tale esito ha riguardato il 27,3% dei ricorsi. E giacché le statistiche riguardano la definizione del giudizio, e non anche le inammissibilità di singoli motivi che non precludono l’esame nel merito di altri motivi ammissibili, può affermarsi con sicurezza che l’esito dell’inammissibilità riguarda certamente più di un terzo dei motivi di ricorso per cassazione proposti, e quasi un terzo dei ricorsi. Si tratta di un numero importante, che rende chiara la variazione del rapporto tra regola ed eccezione: se, fino a poco prima del 2012, l’inammissibilità era un esito eccezionale, attualmente è un esito che si attinge almeno nel 30% dei casi. È un dato che fa riflettere di per sé, e che vieppiù colpisce se posto in relazione col potere che alla Corte compete a norma del comma 3 dell’art. 363 c.p.c.” (pag. 284).
Questa logica del respingimento non può giustificarsi sul presupposto del carico di lavoro della Corte oppure su quello dell’ignoranza degli avvocati.
Vi sono infatti ricorsi che vanno senz’altro respinti, ma il respingimento non può essere considerato un obiettivo.
Bruno Capponi, osserva al riguardo che “Ciò ha comportato l’emersione, nel tempo, di una esigenza organizzativa che ben presto si è trasformata in un ostacolo frapposto tra il cittadino e la tutela che lo Stato deve garantirgli attraverso il processo civile: la degiurisdizionalizzazione (pag. 13), e ciò, in sostanza, ha fatto sì che: “nelle impugnazioni prevale, quindi, la logica del respingimento, che abbiamo già visto propria della degiurisdizionalizzazione. È una logica perversa, che classifica come normale la possibilità che un’impugnazione non sia decisa nel merito, ma dichiarata inammissibile per difetto di prescrizioni formali” (pag. 23).
Credo che le perplessità sul punto di Bruno Capponi siano condivisibili, e non a caso questa sua posizione, sia consentito, ricorda un po’ un mio scritto di anni fa, con il quale, tra il serio e il faceto, indicavo L’Arte di respingere le domande (in Questionegiustizia), ovvero le tecniche con le quali questa logica del respingimento si concretizza, avvantaggiando il resistente sul ricorrente, e quindi infrangendo quello che dovrebbe essere il trattamento paritario delle parti nel processo.
Ancora Bruno Capponi: “Altro è il formalismo, insomma, altra la concezione del processo come trappola o labirinto: un campo minato in cui non è dato sapere con quale salvifico percorso ti salvi la pelle” (pag. 87).
Neppure il nuovo Vangelo della sinteticità e specificità degli atti sembra al riguardo salvifica.
Ricordo un ultimo passo di Bruno Capponi: “La lettera del Primo Presidente sembra dare per scontato che gli atti di parte siano lunghi e le sentenze brevi. Nonostante l’art. 132 c.p.c., opportunamente richiamato dal Primo Presidente, non sempre così è. Si tratta di argomento noto…….capita anche di leggere monografie di 600 pagine che potrebbero essere sintetizzate egregiamente in un quarto della loro estensione”. (pag. 100/102).
“La morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l'esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano.”
Il monito che, col suo Candido, lancia Leonardo Sciascia è un invito a ricordare con discrezione e delicatezza chi non è più tra i vivi ma è stato conosciuto attraverso i suoi scritti o le sue opere.
Ciò vale soprattutto in occasione del ricordo del magistrato Rocco Chinnici, autentico e nobile servitore dello Stato, la cui morte è stata decisa, ed eseguita con modalità efferate, dagli esponenti mafiosi di vertice di “cosa nostra”, come accertato dalle sentenze passate in giudicato emesse dall'autorità giudiziaria di Caltanissetta.
Il 29 luglio 1983 si disse “Palermo come Beirut”.
Il Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, Rocco Chinnici, fu ucciso alle 8 del mattino di quel 29 luglio a seguito dell’esplosione di una Fiat 126 parcheggiata dinanzi la sua abitazione in via Pipitone Federico imbottita con 75 kg di esplosivo; in quell'esplosione insieme a lui persero la vita il Maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'Appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della sua scorta, ed il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, che come ogni mattina, li aveva appena salutati. Unico superstite della strage fu l'autista giudiziario Giovanni Paparcuri.
Un evento tragico che faceva seguito ad altri atti di guerra compiuti in quegli anni in danno dello Stato dalla mafia siciliana.
Dunque, né il primo né l’ultimo. Fu però il primo a “ferire” la città con l'uso dell’esplosivo. Le terribili immagini di via Pipitone Federico fecero il giro del mondo e Palermo apparve come un luogo di battaglia appena bombardato, proprio come Beirut.
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Ho avuto il privilegio di imbattermi nel testamento morale lasciatoci dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici quando, a metà degli anni ’90, all'inizio della mia attività professionale, sostenni l'accusa in giudizio davanti al Tribunale di Caltanissetta, in un processo nei confronti di un magistrato - oggi deceduto - che aveva svolto le funzioni di giudice istruttore presso il Tribunale di Termini Imerese e successivamente, presso il Tribunale di Palermo, imputato per gravi reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni e per il periodo successivo al settembre 1982, anche per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nell'ambito di tale dibattimento il Tribunale esaminò come testimoni tre magistrati, all’epoca in servizio presso l’ufficio istruzione diretto da Rocco Chinnici al quale avevano riferito di richieste di notizie e informazioni formulate dal magistrato predetto, successivamente destituito, in relazione a procedimenti pendenti presso l’Ufficio Istruzione di Palermo riguardanti indagini delicate e riservate su noti esponenti mafiosi volte a perorare la causa degli indagati.
Si trattava di raccomandazioni fatte dal loro collega nei riguardi di esponenti di rilievo di “cosa nostra”, in ragione della circostanza che a sua volta all’imputato del processo erano stati segnalati dal portiere dello stabile ove abitava o dalla persona di servizio o dal suo pescivendolo.
I magistrati esaminati in dibattimento fecero riferimento al rigore morale e alla adamantina correttezza del loro dirigente Rocco Chinnici il quale li mise in guardia da tali raccomandazioni invitandoli a predisporre una relazione di servizio su quanto accaduto.
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A distanza di quarant’anni dalla strage di via Pipitone Federico, il suo ricordo attualizza e rende viva l’eredità morale del magistrato Rocco Chinnici che, in un contesto torbido e irto di difficoltà -come testimoniato anche dai riferimenti presenti nei suoi Diari oltreché dai numerosi interventi pubblici riportati nel profilo che il CSM gli dedica - ha invertito il modo di essere magistrato in grado di svolgere il proprio servizio in favore unicamente dello Stato, esercitando la propria attività - anche di dirigente - con disciplina e onore, senza alcun interesse personale o di gruppo, nel pieno rispetto della deontologia professionale.
Si tratta di un modo di essere magistrato - lontano dal fare il magistrato - cui tutti noi oggi (che non abbiamo avuto il privilegio di conoscere il magistrato e l’uomo Chinnici) abbiamo il dovere di ispirarci per vivere quotidianamente l’autonomia e l’indipendenza del magistrato così come proclamata nella nostra Costituzione.
Grazie all’esempio di Rocco Chinnici, ed in forza dello stesso, abbiamo il dovere di acquisire e rafforzare gli anticorpi contro ogni forma di pressione, segnalazione o sollecitazione, di qualunque natura e provenienza, diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi in cui amministrare la giustizia rifiutando il quieto vivere e modi comodi, burocratici e confortevoli.
In quegli anni difficili, ora lontani, il magistrato Rocco Chinnici invitava - ed ancora oggi la sua memoria lo fa - a dimostrare con forza e con dignità l'importanza ed il privilegio di indossare la toga, di rispettare il principio di autonomia e di indipendenza da ogni centro di potere, di avere il coraggio delle scelte anche difficili, di avere la capacità di innovare l’essere magistrato anche in contesti non limpidi, densi di tranelli e agevoli scorciatoie.
Nell’ambito della sua attività professionale, come emerge nitidamente dalle relazioni dei suoi dirigenti in occasione delle valutazioni che lo riguardavano, il magistrato Chinnici non è stato indifferente rispetto all’impegno quotidiano, ha allontanato il quietismo burocratico tipico di un certo “modo di fare” il magistrato.
Rocco Chinnici si è impegnato in prima persona istruendo e portando a compimento processi “nuovi” per quell’epoca, gravidi di conseguenze pericolose per la sua vita soprattutto in quel periodo, esponendosi in prima persona con il Diritto in mano e la toga nel cuore.
Dal profilo del sito del CSM sopra citato si legge: “Quello per l'omicidio di Francesco Mazzara e soprattutto quello per la strage di Viale Lazio, saranno i primi processi di mafia istruiti dal giudice Chinnici. A partire dal 1970, si occuperà del fenomeno mafioso arrivando a comprendere l’esistenza dei legami internazionali e di quelli con ambienti politico-istituzionali dell'associazione criminale. Di questi intrecci, dell'importanza degli appalti e della commistione fra "uomini d'onore" e politici ed imprenditori, nonché di quella escalation mafiosa che, secondo Rocco Chinnici, aveva posto le basi nell'omicidio del boss locale Francesco Mazzara e nella strage di viale Lazio, nonchè dei rapporti e delle differenze fra la mafia siciliana e le 'ndrine calabresi, può trovarsi testimonianza in una relazione tenuta per il Consiglio Superiore della magistratura nei primi giorni di giugno del 1982 dal titolo "La mafia oggi e sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata".
Rocco Chinnici innovatore nel suo lavoro, anche nell’attività di coordinamento dell’Ufficio Istruzione per avere adottato una nuova metodologia investigativa.
La circostanza che ciascun magistrato seguisse i propri processi, pur attribuendo grande autonomia, comportava al tempo stesso l'estrema parcellizzazione delle conoscenze. Inoltre, spesso, i processi venivano celebrati per singoli episodi, per singoli reati.
Egli intuì – la sua grande intuizione - che un fenomeno radicato, globale, come quello della criminalità mafiosa richiedesse invece di essere affrontato nel suo complesso, non combattendo reato per reato, processo per processo. Decise così di costituire un gruppo di lavoro: chiamò all’Ufficio Istruzione Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e, dopo, Giuseppe Di Lello, e con loro istituì a livello informale quello che sotto la guida di Antonino Caponnetto prenderà il nome di pool antimafia.
Paolo Borsellino nella prefazione ad uno scritto di Rocco Chinnici dal titolo “L’illegalità protetta” così scrisse: “Credeva fermamente nella necessità del lavoro di equipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione delle informazioni tra «i suoi»”.
In una intervista Chinnici disse: «Un mio orgoglio particolare è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d'Italia. I Magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero»
Il metodo Chinnici è quello che tutti noi, soprattutto negli uffici di Procura della Repubblica, dobbiamo convintamente perseguire divenendo il caposaldo di ogni Progetto Organizzativo delle Procure per rispettare la memoria di Rocco Chinnici e perché la sua intuizione è stata vincente.
Il cittadino e magistrato Rocco Chinnici ebbe la piena consapevolezza che la risposta giudiziaria non è l’unica soluzione del problema della criminalità organizzata: occorre una crescita culturale della società civile e delle Istituzioni che va perseguita e costruita quotidianamente, partecipando con entusiasmo e professionalità a iniziative e lezioni di legalità nelle scuole, per invitare i giovani a vivere da persone libere ed aumentando sempre più gli spazi di legalità nel sociale così da assicurare la libertà e la democrazia.
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai»
Gli insegnamenti e l’eredità morale del giudice Chinnici sono più che mai attuali anche nella sua definizione di mafia come “un’associazione per delinquere con finalità d’arricchimento illecito…la mafia ha sempre una finalità ben precisa: arricchirsi in qualsiasi modo con qualunque mezzo ma cambia i sistemi ed i metodi” (intervista pubblicata in “Segno” n. 10 – 11 ottobre-novembre 1981, “Palermo, una città dominata dalla mafia”).
Oggi abbiamo il privilegio di percorrere l'autostrada della legalità nata da una piccola “trazzera” di campagna, irta, buia e tortuosa, trasformatasi con l'impegno di chi - come Rocco Chinnici, Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi – ha per questo sacrificato la propria vita.
Una grande eredità che abbiamo il dovere di ravvivare e rafforzare.
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