ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La disapplicazione della legge di conversione del Milleproroghe, a pochi giorni dalla promulgazione dissenziente del Presidente della Repubblica. - 2. Nomofilachia balneare e processo amministrativo d’impugnazione. - 3. Tre argomenti non considerati. - 4. Proroghe giurisprudenziali, proroghe legislative e diritto nazionale vigente (sull’applicabilità dell’art. 16 D.lgs. n. 59/2010).
1. La disapplicazione della legge di conversione del Milleproroghe, a pochi giorni dalla promulgazione dissenziente del Presidente della Repubblica.
La stagione estiva 2023, oramai entrata nella sua fase culminante, vede ancora irrisolto l’interrogativo sulla scadenza delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo. Nelle osservazioni che seguono non si vorrà rivisitare, se non nei limiti dello stretto indispensabile, la problematica, lungamente e vivacemente dibattuta, del modo in cui l’adunanza plenaria ha assolto alla propria funzione di nomofilachia[1]. Ci si accontenterà di riflettere su uno degli ultimi sviluppi della vicenda, attorno al quale gli studiosi non hanno mancato di fornire un resoconto – anche perché si è imposto per qualche giorno all’attenzione della cronaca – ma che non è stato molto approfondito in sede dottrinale[2], quasi si trattasse di un episodio meritevole soltanto di essere menzionato come evoluzione lineare di una questione già ben definita.
Lo scorso mese di marzo il Consiglio di Stato[3] ha avuto occasione di applicare a sezioni semplici i princìpi stabiliti dall’adunanza plenaria nelle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021, con una pronuncia che non rileva tanto per l’ennesima declaratoria di “anticomunitarietà” delle norme che prorogavano al 2033 le concessioni demaniali marittime – esito di per sé scontato (anche i termini del ricorso erano identici) – quanto per la chiosa che compare nell’ultima frase della motivazione: in cui si giudica incompatibile con il diritto U.E. e si dispone che dovrà essere ritenuto inefficace da parte di «qualsiasi organo dello Stato» l’art. 10-quater, comma 3, del decreto-legge 29 dicembre 2022, n. 198 (cd. Milleproroghe), interpretato dal giudice come una nuova ipotesi di «proroga automatica delle concessioni demaniali marittime», anch’essa «in frontale contrasto» con l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE.
Nel giudizio di primo grado, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, appellante al Consiglio di Stato, si era vista respingere dal TAR Puglia sezione di Lecce il ricorso proposto contro una delibera comunale di proroga delle concessioni demaniali marittime adottata nel 2020, ovviamente in applicazione delle uniche norme nazionali di proroga allora vigenti (art. 1 commi 682 e 683 legge n. 145/2018).
Il Consiglio di Stato, sulla base di un riepilogo dei «princìpi enunciati in sede di nomofilachia», ha capovolto l’esito del giudizio di primo grado, disapplicando l’art. 1 commi 682 e 683 della legge n. 145/2018 e annullando il provvedimento impugnato, ma si è fatto carico di «soggiungere», un attimo prima della formulazione del dispositivo di accoglimento, «che, sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato».
Come molti ricorderanno, il 23 febbraio 2023, sette giorni prima del deposito della sentenza, l’opinione pubblica aveva dato ampio risalto alla notizia che la legge di conversione del decreto n. 198/2022 era stata promulgata dal Presidente della Repubblica con lettera di motivazione contraria[4].
Ciò che il Quirinale aveva segnalato al Parlamento erano «molteplici profili critici» del decreto, tra i quali il «più evidente» erano le norme di proroga delle concessioni demaniali marittime, ritenute «contrastanti» con le sentenze del Consiglio di Stato e «difformi» dal diritto dell’Unione europea.
Il dissenso del Presidente della Repubblica nasceva da alcune disposizioni della legge 24 febbraio 2023 n. 14, di conversione del decreto-legge n. 198/2022, che hanno di nuovo allungato il periodo di efficacia delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo e sportivo rispetto al termine che il Parlamento aveva previsto, sul finire della XVIII^ legislatura, con la legge n. 118/2022, nel quadro di un intervento che intendeva adeguare la legislazione italiana agli obblighi comunitari sanciti dall’adunanza plenaria (e dalla sentenza Promoimpresa e Melis della Corte di Giustizia dell’Unione europea, V Sez., 14 luglio 2026, C-458/14 e C-67/15), mentre pendeva la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea con lettera C(2020)7826 del 3 dicembre 2020.
Più precisamente, con la legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021), le Camere – già sciolte dal 21 luglio 2022[5] in vista delle elezioni politiche – avevano riconosciuto i princìpi affermati dalla plenaria e operato alcune importanti modifiche; in rapida sintesi:
a) abrogazione delle disposizioni (art. 1 commi 675-683 della legge 30 dicembre 2018 n. 145) che prevedevano la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime al 31 dicembre 2033, dichiarate dall’adunanza plenaria incompatibili con il diritto dell’Unione europea (art. 3 comma 5);
b) delega al Governo ad adottare, nel termine di sei mesi (inutilmente scaduto il 27 febbraio 2023), uno o più decreti legislativi in materia di affidamento delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative e sportive (art. 4);
c) delega al Governo ad adottare, nel termine di sei mesi, portati a undici dal decreto Milleproroghe (dal 27 febbraio 2023 al 27 luglio 2023), un decreto legislativo per la mappatura e la trasparenza dei regimi concessori di beni pubblici (art. 2);
d) fissazione una proroga “tecnica” di durata identica a quella individuata dall’adunanza plenaria (31 dicembre 2023), per consentire alle amministrazioni locali di espletare i nuovi affidamenti delle concessioni, una volta entrato in vigore il nuovo regime legislativo delegato (art. 3 comma 2).
Mette solo conto di aggiungere che il governo italiano ha fatto leva proprio sull’emanazione della legge n. 118/2022 e sull’abrogazione delle norme di proroga delle concessioni al 31 dicembre 2033 per sostenere, in un altro processo pendente davanti alla Corte di giustizia (C-348/22), la perdita di rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dal TAR Puglia sezione di Lecce – l’unico giudice italiano di primo grado che notoriamente non condivide la tesi della plenaria[6] – in merito alla efficacia self-executing dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. L’eccezione è stata respinta e la questione è stata decisa dalla Corte di giustizia nei termini che sappiamo, con la sentenza del 20 aprile 2023[7]. Non può tuttavia passare inosservato che, accreditando alla legge “concorrenza” il merito di aver cambiato la situazione giuridica nazionale, l’Italia abbia rappresentato ai Giudici dell’Unione europea un quadro normativo interno non più difforme dagli obblighi sanciti della sentenza Promoimpresa e Melis.
Nel frattempo, fuori dal contesto appena ricordato, la maggioranza parlamentare insediatasi con la XIX^ legislatura aveva confermato di non volersi attenere alle scelte operate dalla legge n. 118/2022[8]. Nel “punto stampa” tenutosi in occasione di una visita ad Algeri, sul finire del mese di gennaio 2023, la Presidente del Consiglio aveva dichiarato, a nome del Governo, che gli «imprenditori balneari» sarebbero stati «difesi» e messi «in sicurezza» da una direttiva europea (n. 2006/123/CE) che ad essi «non andava applicata»; e che tale intento politico sarebbe stato realizzato attraverso una soluzione «non temporanea», bensì di tipo «strutturale». Non era ancora certo che il disegno, com’è poi accaduto, si materializzasse negli «emendamenti» confluiti nella legge di conversione del decreto-legge n. 198/2022, dalla quale emerge un uso gravemente inappropriato del potere di conversione. Basti ricordare che il Governo stesso, con il decreto-legge n. 198/2022, si era disinteressato delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo. Anzi, per queste ultime aveva ribadito i termini previsti dalla legge “concorrenza”, disponendo un’unica ipotesi di proroga, giustificata da finalità di sostegno alla «società» e alle «associazioni sportive dilettantistiche senza scopo di lucro». Per il resto, doveva restare «fermo (…) in ogni caso quanto previsto per le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali» dalla legge n. 118/2022.
La legge n. 14/2023 è intervenuta su quanto previsto per le concessioni dalla legge n. 118/2022, manifestando, appunto, quell’intento di riforma «strutturale» estraneo e scientemente accantonato dal decreto-legge convertito. Un simile modo di esercizio del potere di conversione meriterebbe un attento scrutinio di omogeneità rispetto al provvedimento governativo e, naturalmente, a questo punto il discorso dovrebbe ampliarsi in una direzione che qui non pare consentita. Una cosa però si può dire: tanto più si sottolinea il “divorzio politico” tra la legge n. 14/2023 e la legge n. 118/2022, e tanto più si pone l’accento sull’originalità della soluzione organizzativa che la nuova maggioranza parlamentare ha voluto tradurre in emendamenti creativi di nuovi articoli del testo del D.L. n. 198/2022, quanto più forte è il sospetto che la legge di conversione incorra nella violazione dell’art. 77 comma 2 Cost. per aver soggiunto disposizioni “intruse”, prive d’interrelazione con l’atto soggetto a conversione; vizio più volte acclarato dalla Corte costituzionale anche e proprio in merito ai decreti “Milleproroghe”[1].
La sentenza n. 2192/2023 non ha colto, e forse non poteva cogliere questo profilo, non foss’altro perché una questione di costituzionalità sarebbe risultata del tutto irrilevante, essendo la disapplicazione del Milleproroghe un mero obiter (come vedremo più avanti).
Resta da valutare se la Sezione VI^ abbia fatto bene a cogliere l’altro aspetto, il medesimo che ha formato oggetto delle già menzionate preoccupazioni del Presidente della Repubblica: l’inversione di rotta verso l’adempimento degli obblighi comunitari in materia di concessioni “balneari”, che con la legge n. 118/2022 sembrava aver finalmente raggiunto un punto di approdo.
2. Nomofilachia “balneare” e processo amministrativo d’impugnazione.
Ora non è dato sapere se il messaggio del Presidente della Repubblica abbia avuto un peso sulla decisione del giudice. Esiste tuttavia un motivo per cui la sentenza della Sezione VI^ n. 2192/2023 non può restare senza un commento. Si tratta di una pronuncia che fa riferimento a una singola disposizione del decreto Milleproroghe (art. 10-quater del D.L. n. 198/2022, convertito), non per “disapplicarla”, ma per compiere un’operazione interpretativa di più ampio rilievo sistematico: dichiarare che i princìpi enunciati in sede nomofilattica sono assimilabili a fonti di una vera e propria disciplina normativa transitoria delle concessioni, la cui derivazione sopranazionale non lascia al legislatore altro che un’attività di pura e semplice esecuzione.
Il principio sottinteso alla disapplicazione del Milleproroghe è che non può, il Parlamento, neppure variare il giorno di scadenza della proroga tecnica (31 dicembre 2023) autorizzata dalla plenaria per dar tempo alle amministrazioni di procedere ai nuovi affidamenti (e, al legislatore, di riformare la disciplina dell’affidamento delle concessioni demaniali marittime): o le Camere accettano tutto il pacchetto preconfezionato in sede di nomofilachia, oppure ogni legge sulla durata delle concessioni è contraria al diritto dell’Unione.
Sembra piuttosto evidente che in questo modo si innalzi ulteriormente il livello della “pretesa” del Consiglio di Stato, nonché la sua propensione – in parte manifestata anche dall’adunanza plenaria[9] – a far proprie le logiche di funzioni extragiudiziarie. Può darsi che l’idea di stringere le maglie del sindacato incidentale sulla compatibilità euro-unitaria della legge sia consequenziale alle pronunce di nomofilachia. Sta di fatto che la sentenza n. 2192/2023 non può essere intesa come una mera “propaggine” di queste ultime: l’impressione è di una sentenza con la quale la Sezione VI^ è stata probabilmente (si permetta l’espressione) «più realista del Re».
Il riferimento è anzitutto alla qualificazione del termine del 31 dicembre 2023, che per la Sezione VI^ è tanto inderogabile quanto lo è quello di recepimento di una direttiva; mentre nella realtà è solo una data equitativamente stabilita dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nell’esercizio del suo potere di graduare nel tempo gli effetti di una sentenza di annullamento. La messa in mora con la quale la Commissione europea contesta a uno Stato membro di essere in ritardo nell’attuazione di una direttiva, ad esempio, ben può essere fondata su un anno di ritardo, a maggior ragione ove ciò derivi dalla volontaria posticipazione delle procedure di adattamento. Nel caso che ci occupa, il 31 dicembre 2023 non è fissato da un atto-fonte comunitario, ma è il risultato della valutazione prognostica di un giudice nazionale, che lo ha «congruamente» stabilito. E non si può dire, rispetto al diritto dell’Unione, che la data del 31 dicembre 2024 sia meno congrua del 31 dicembre 2023, solo perché il Milleproroghe, a differenza della legge n. 118/2002, nasce senza l’avallo del giudice amministrativo.
Gli elementi di frizione, peraltro, oltre che con il decreto Milleproroghe, sono anche con il Codice del processo amministrativo e, paradossalmente, con alcuni princìpi affermati dalla stessa plenaria.
Nessun dubbio che lo slancio della Sezione VI^ sia generosamente diretto ad anticipare la soglia d’intervento contro le leggi elusive di ciò che la plenaria ha stabilito. Ma, anche a sorvolare sul fatto che non siamo ancora al 31 dicembre 2023 – e che non si può dare per scontato che al 1 gennaio 2024 il Milleproroghe sia ancora in vigore – la Sezione VI^ allarga il suo potere di disapplicazione fino a ricomprendervi una norma della quale non aveva alcun obbligo di applicazione, trattandosi di norma sopravvenuta, non disciplinante il provvedimento del Comune di Manduria, il quale aveva prorogato le concessioni al 31 dicembre 2033 unicamente sulla base dell’art. 1 commi 682 e 683 della legge n. 145/2018, a carico dei quali la Sezione VI^ (questa volta correttamente) accerta, nella prima parte della sentenza, lo stesso regime d’inefficacia già acclarato in sede di nomofilachia.
Difficile sfuggire all’impressione che la “chiosa” sul Milleproroghe concretizzi un giudizio su poteri non ancora esercitati, non consentito dal Codice del processo amministrativo (art. 34 comma 2) e non richiesto, a me pare, neanche dalla plenaria. Quest’ultima, com’è noto, aveva soggiunto che una «eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire (…) andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.». Perciò aveva concluso che l’obbligo di disapplicazione fosse da intendersi esteso ad eventuali disposizioni legislative che «in futuro dovessero ancora disporre» la «proroga automatica» delle concessioni.
Tuttavia, a parte ogni considerazione sulla fondatezza di simili assunti, non c’è motivo di ritenere che quest’obbligo di disapplicare leggi «ulteriori» non sottintendesse la pendenza di controversie concrete, nate da ricorsi contro provvedimenti amministrativi o, comunque, dalla censura di specifici atti o fatti di esercizio di potere conformi a nuove leggi di proroga delle concessioni; non vi è ragione di pensare che l’allusione della plenaria a proroghe future volesse derogare allo schema del processo amministrativo d’impugnazione.
La Sezione VI^ sembra invece essersi accontentata di due cose: il fatto che una legge del Parlamento avesse prorogato le concessioni demaniali marittime e, nel contempo, l’intuizione del pericolo che la nuova legge, ove non fosse stata dichiarata inapplicabile già in sede di cognizione, potesse in qualche misura interferire con l’attuazione del giudicato, frustrando l’effetto della sentenza che la stessa Sezione stava pronunciando.
3. Tre argomenti non considerati.
In margine a questo convincimento, giova puntualizzare tre aspetti.
In primo luogo, il decreto Milleproroghe, anche dopo la conversione nella legge n. 14/2023, sposta solo (o quasi) termini legislativi: mantiene inalterato l’intento della legge “concorrenza” e non rappresenta un ritorno al modello accolto dalla legge di bilancio 2019. È vero che i poteri del Tavolo tecnico istituito dall’art. 10-quater del decreto Milleproroghe, per la definizione dei criteri ricognitivi della scarsità della risorsa, ricordano (con qualche variazione di compagine) le funzioni di mappatura del litorale che i ministri avrebbero dovuto esercitare per l’emanazione del DPCM previsto dall’art. 1, commi 675, 676 e 677 della legge n. 145/2018. Così come è fuori di dubbio che il Milleproroghe voglia superare entrambe le deleghe legislative previste dalla legge concorrenza, non solo quella per la riforma delle procedure di affidamento (scaduta il 27 febbraio 2023), ma anche quella sulla mappatura della risorsa, prorogata di undici mesi, ma sostanzialmente svuotata e destinata anch’essa a cadere nel vuoto il 27 luglio 2023. Insomma è probabile che il reale obiettivo del decreto-legge n. 198/2022, dopo le modifiche apportate in sede di conversione, sia solo quello di restituire all’amministrazione, sottraendoli alla legislazione, i poteri di “regìa” (determinazione della scarsità della risorsa) che condizionano l’inizio delle nuove procedure.
Ciononostante resta in piedi, nel Milleproroghe, il fine ultimo della legge concorrenza: cambiare le regole in tempi brevi per avviare le procedure di affidamento. La proroga di un anno, dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024, non può avere – non presuntivamente – lo stesso disvalore della proroga quindicinale che era stata stabilita dall’art. 1 comi 675 e seguenti della legge di bilancio 2019. Se non altro, al decreto-legge Milleproroghe non si può addebitare la restituzione di quel “diritto d’insistenza” sul bene demaniale marittimo, lacuale o fluviale, da cui ha avuto origine il contenzioso comunitario in merito alla durata delle concessioni.
In secondo luogo, sussiste il problema dell’individuazione dell’articolo del Milleproroghe da disapplicare. Nella sentenza n. 2192/2023 questo importante passaggio – la “focalizzazione” della norma responsabile della proroga anti-comunitaria – non sembra portato correttamente a compimento.
Sul punto occorre soffermarsi un attimo di più, non per semplice gusto di disquisizione logico formale o solo per sottolineare un errore del giudice d’appello; del resto è comprensibile che un convincimento maturato nello spazio di qualche giorno, come quello del Consiglio di Stato, origini da una valutazione sommaria e possa di conseguenza incontrare qualche inesattezza. Non può tuttavia sfuggire – ed è quello che interessa – l’origine dell’errore, a mio avviso da ricercare nella formulazione per più versi difettosa, nell’estrema disorganicità della legge di conversone del Milleproroghe, che suggeriva – e suggerisce obbiettivamente – molta prudenza prima di formulare un giudizio incidentale di inapplicabilità “astratta” di una o più disposizioni.
L’art. 10-quater comma 3, individuato dalla Sezione VI^, non prevede una proroga automatica e generalizzata delle concessioni. La norma è stata scritta «ai fini dell’espletamento dei compiti del tavolo tecnico di cui comma 1», che dovrà definire i «criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa disponibile». Se non che letteralmente la norma posticipa al 31 dicembre 2025 il solo termine previsto dai «commi 3 e 4» dell’art. 3 della legge n. 118/2022, i quali autorizzano la proroga delle concessioni durante l’iter dei nuovi affidamenti, a causa di sopravvenute «ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva» (pendenza di un contenzioso, difficoltà oggettive, ecc.). La fattispecie su cui interviene l’art. 10-quater è dunque quella di una procedura già avviata, posticipabile in conseguenza del verificarsi di situazioni obbiettive. La data non può eccedere il 31 dicembre 2025, che continua però a rappresentare, nell’art. 3 comma 3 della legge concorrenza, solo un termine massimo, all’interno del quale il differimento dev’essere disposto «con atto motivato» e per il «tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura». La normalità di un differimento a data posteriore al 21 dicembre 2023, ma anteriore al 31 dicembre 2025, individuata volta per volta, emerge, d’altronde, anche dalla clausola con la quale la stessa disposizione (art. 3 della legge n. 118/2022) tollera, fino al 31 dicembre 2025, l’«occupazione dell’area demaniale da parte del concessionario uscente», che «è comunque legittima anche in relazione all’articolo 1161 del codice della navigazione».
La vera e propria proroga «automatica e generalizzata» delle concessioni – che nella legge concorrenza è disciplinata al comma 1 dell’art. 3 – è stabilita dal nuovo art. 12 comma 6-sexies, lettere a) e b) del D.L. n. 198/2022, che fissa la scadenza di tutte le concessioni alla data del 31 dicembre 2024.
Ora, non è chiaro cosa voglia stabilire, l’art. 10-quater comma 3, nella parte in cui prevede che «ai fini della conclusione del tavolo tecnico» le parole «31 dicembre 2024» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2025». Forse la norma vorrebbe dire che il “tavolo tecnico” può operare fino al 31 dicembre 2025.
Non, di certo, che le concessioni sono prorogate al 31 dicembre 2025.
Di nuovo sorge qualche dubbio, però, leggendo l’ultimo inciso dell’art. 10-quater comma 3, per cui le concessioni in essere continuano «in ogni caso» ad avere efficacia sino alla data di rilascio dei nuovi provvedimenti concessori. I dubbi nascono dalla circostanza che la norma – la quale, di per sé, non denoterebbe difficoltà interpretative – può apparire anch’essa come una regola che trae significato dalla combinazione con la finalità espressa all’art. 10-quater comma 1, ovverosia l’affidamento al Tavolo tecnico, ivi costituito, dell’attività di definizione dei criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa. Ove se ne dovesse ricavare che fino alla conclusione dei lavori del tavolo tecnico le concessioni sono prorogate[10], il termine della proroga diverrebbe più incerto e dovrebbe essere rimesso in discussione. Se non altro, ammesso che il tavolo possa operare fino al 31 dicembre 2025, la proroga al 31 dicembre 2024 assumerebbe un significato puramente “nominalistico”.
Ma le incongruità del decreto Milleproroghe non si fermano qui.
Si dovrebbe citare, per completezza, una terza disposizione, che in astratto concorre con quella disapplicata dalla Sezione VI^. Si tratta del nuovo art. 12 comma 6-sexies, lettera c), il quale, al pari dell’art. 10-quater comma 3, interviene sull’art. 3 comma 3 della legge n. 118/2022, dedicata al prolungamento per «ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva». La norma in parola lascia tuttavia invariato il termine al «31 dicembre 2024»: lo stesso previsto, dalla legge “concorrenza”, nella disposizione sostituita. Tutto lascia dunque supporre, di conseguenza, che si tratti di una svista, di un refuso legislativo.
Singolare è anche una quarta disposizione, che introduce una sorta di “proroga indiretta”, aggiungendo un nuovo comma 4-bisall’art. 4 della legge n. 118/2022, il quale vieta di procedere all’emanazione dei bandi di assegnazione fino all’adozione dei decreti legislativi di riforma dell’affidamento delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo e sportivo. Decreti legislativi che, come si è già avuto modo di precisare, dovevano essere adottati entro il 27 marzo 2023, in forza dell’art. 4 della legge n. 118/2022.
Sorge dunque immediatamente il dubbio che anche questa norma sia tamquam non esset, poiché il termine per l’esercizio del potere delegato, spirato proprio al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione del Milleproroghe, avrebbe necessitato anch’esso di una proroga, che la legge di conversone non ha previsto, trasferendo i relativi compiti al Tavolo tecnico di cui all’art. 10-quater comma 1.
Anche qui però non v’è certezza, giacché, ora che il potere delegato si è estinto, resta in qualche modo consacrato l’intento del Parlamento di lasciare in essere le concessioni fino a nuova disciplina. Sarebbe probabilmente eccessivo dedurne una proroga sia sine die, ma qualche dubbio sulla durata della proroga rimane: fino al 31 dicembre 2024 o, in ogni caso di ritardo governativo, fino al 31 dicembre 2025, o anche oltre?
O si taglia alla radice il nodo interpretativo e si assume che l’unica norma di proroga, al 31 dicembre 2024, sia l’art. 12 comma 6-sexies, lettere a) e b) del decreto Milleproroghe – ed allora si dirà che la sentenza n. 2192/2023 è incorsa in un mero errore materiale – oppure permangono, anche solo in parte, i dubbi prospettati: nel qual caso occorrerà ammettere che la sentenza n. 2192/2023 è il prodotto di una difficoltà insita nel provvedimento legislativo interpretato, che una disapplicazione “astratta” non è forse possibile, perché soltanto un concreto atto di amministrazione, ritualmente impugnato, potrà permettere al giudice di focalizzare la norma alla quale risalire e, ove del caso, imporre la sua “disapplicazione” con effetti limitati al caso deciso.
Il terzo ed ultimo aspetto da precisare concerne l’accertamento incidentale del dovere di disapplicazione del decreto Milleproroghe, che, com’è stato scritto[11], si sostanzia un semplice obiter dictum. Notazione esattissima, in quanto il decreto-legge n. 198/2022, rispetto all’oggetto del processo amministrativo, era da considerare ius superveniens: irrilevante ai fini dell’effetto demolitorio dell’annullamento dell’atto impugnato, per cui bastava ed anzi s’imponeva la sola disapplicazione dell’art. 1 commi 682 e 683 della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (in forza dei quali era stato adottato). Ma irrilevante anche ai fini dell’effetto conformativo del giudicato. Tocchiamo qui l’elemento che ha più verosimilmente persuaso la Sezione VI^: la necessità di neutralizzare l’effetto retroattivo dello ius superveniens anticipando in sede di cognizione la dichiarazione della sua inefficacia.
Tuttavia, a ben vedere, neppure questa tesi convincerebbe del tutto.
Mentre infatti fino al 31 dicembre 2023 è consentita la riedizione del potere (essendo operativa la proroga disposta dalla plenaria e dalla legge n. 118/2022, nessun obbligo di attuazione è “esigibile”), dal 1 gennaio 2024 un atto del Comune di Manduria potrebbe prorogare le concessioni solo fino al 31 dicembre 2024 e, per quanto invalido, sarebbe comunque il risultato di un autonomo esercizio del potere, non potendosi ritenere che gli effetti della sentenza n. 2192/203 siano tecnicamente “differiti” al 1 gennaio 2024, in difetto di una esplicita graduazione temporale che la Sezione VI^ avrebbe dovuto stabilire, se avesse voluto coinvolgere nell’effetto di giudicato eventuali atti di proroga successivi al 31 dicembre 2023. V’è da chiedersi allora se si possa persino astrattamente o ipoteticamente prospettare un qualche profilo di violazione o di elusione del giudicato formatosi con la sentenza n. 2192/2023. È indubbio che, per effetto della sentenza che stiamo commentando, al 31 dicembre 2023 le concessioni prorogate dal Comune di Manduria scadranno. Ma resta egualmente difficile supporre un’utilità pratica della sentenza, anche qualora si volesse ammettere, superando l’ostacolo sopra accennato, un effetto di giudicato “implicitamente” posticipato a una data successiva al 1 gennaio 2024. Ferma restando ovviamente, da quest’ultima data, l’illegittimità dell’occupazione del demanio, tutto ciò che si potrebbe immaginare è che le amministrazioni locali possano essere convenute nel giudizio di ottemperanza per vedere attuato il loro obbligo di avviare le attività amministrative tese all’affidamento delle concessioni, le quali occuperebbero approssimativamente il periodo che va dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024, concretandosi così, nei fatti, una situazione non troppo diversa da quella prevista dal decreto Milleproroghe (disapplicato). Ciò che si vuol dire insomma è che la “disapplicazione” di una legge di proroga annuale rischia di sfuggire, nel concreto dell’esperienza giuridica, alle maglie del processo amministrativo di legittimità. Né si può dare per certo, come si accennava, che alla data del 1 gennaio 2024 il Milleproroghe sia ancora in vigore.
Ci si ritrova quindi, con qualche chiarimento in più, al punto di partenza: la natura meramente ipotetica della disapplicazione prescritta dalla sentenza n. 2192/2023, che incide sui rapporti concessori in modo tale da rendere imprevedibile il loro destino e conferma, in conclusione, i dubbi che la Sezione VI^ abbia fatto buon governo dell’art. 34 del Codice del processo amministrativo (rispetto ai princìpi enunciati dalla plenaria).
4. Proroghe giurisprudenziali, proroghe legislative e diritto nazionale vigente (sull’applicabilità dell’art. 16 D.lgs n. 59/2010).
Le critiche sviluppate fino a questo momento non devono far perdere di vista la sostanziale esattezza della sentenza n. 2192/2023, che si sarebbe tuttavia apprezzata maggiormente se il Consiglio di Stato avesse soprasseduto, nella parte conclusiva, al giudizio incidentale sul decreto Milleproroghe.
Così come formulato, il coinvolgimento del D.L. n. 198/2022 è solo apparentemente consequenziale alle pronunce dell’adunanza plenaria: in realtà non risponde alla questione sottoposta all’esame della Sezione VI^; non ha nemmeno più le caratteristiche di una decisone esecutiva dei princìpi enunciati in sede nomofilattica, costituendone piuttosto un’integrazione, dettata dalla medesima ratio di uniformità dell’interpretazione della legge e di unità del diritto oggettivo, motivata da una norma sopravvenuta il cui ambito applicativo è completamente estraneo al caso da decidere. Nel far giustizia, come doveva, di un atto amministrativo non conforme al diritto dell’Unione europea, la sentenza n. 2192/2023 finisce dunque per sbilanciare nuovamente il rapporto tra giustizia e politica, su un terreno già segnato da numerose contraddizioni: tra nomofilachia ed esercizio ordinario della giurisdizione, tra compiti della giurisdizione e compiti dell’amministrazione, tra sfera dell’interpretazione e sfera della produzione normativa[12].
Si permetta un ultimo cenno. L’art. 16 del D.lgs n. 59/2010 traspone nell’ordinamento nazionale l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, sulle modalità di rilascio dei titoli autorizzativi in caso di scarsità della risorsa. La norma è ordinariamente applicata dalla giurisprudenza nei vari settori di attività “contingentate”, quali ad esempio servizi di noleggio[13], di trasporto[14], di affissione pubblicitaria[15], talvolta attraverso il richiamo del giudice al proprio potere di ricercare autonomamente le norme giuridiche applicabili alla fattispecie e di porre a fondamento della decisione principi di diritto e ricostruzioni anche diversi da quelli richiamati dalle parti» (iura novit curia)[16].
Ogni riferimento all’art. 16 viene invece evitato dalla giurisprudenza amministrativa quando si tratta di concessioni demaniali marittime, per le quali si preferisce l’applicazione diretta dell’art. 12 della direttiva. Eppure l’art. 16 è una norma prodotta da un atto avente forza di legge: non è più generica, più vaga, più indeterminata, meno tassativa, di altre disposizioni di legge dedicate a procedure selettive. Esattamente al pari dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, fornisce «tutti gli elementi necessari per consentire alle Amministrazioni di bandire gare per il rilascio delle concessioni demaniali» (sono parole della plenaria).
Moratorie generalizzate e proroghe “tecniche”, come quelle a cui abbiano assistito negli ultimi anni, possono essere ritenute incompatibili con il diritto dell’Unione europea. Ma nel dichiararle tali il giudice non ha motivo di avvertire il senso del vuoto legislativo, della lacuna, che obbiettivamente non esiste. E non ha motivo di graduare o differire nel tempo gli effetti delle proprie decisioni, onde «soccorrere» il legislatore. Non solo perché così facendo in realtà il giudice invade la sfera del potere legislativo, ma perché prima ancora travisa la consistenza dell’ordinamento giuridico, laddove la norma da applicare per l’affidamento delle concessioni demaniali marittime esiste già: non è quella comunitaria, è quella nazionale.
Non si sottovaluta in questo modo il delicato problema della definizione uniforme delle regole della procedura. Si ha tuttavia l’impressione che questo sia un problema diverso: di rispetto del principio costituzionale di riserva di legge da parte di norme già in vigore; non di violazione degli obblighi comunitari per via dell’inerzia nell’introdurre un riordino generale della materia delle concessioni demaniali marittime. Può darsi che le amministrazioni locali non sappiano cosa fare per riassegnare le concessioni. Ma non si comprende perché lo stesso problema non si sia aperto, almeno non con la stessa enfasi, per i servizi “contingentati” di cui si accennava. E del resto, considerazioni simili dovrebbero valere, ove ve ne fosse ragione, per tutte le leggi amministrative che recepiscono disposizioni di direttive europee senza aggiungere, né togliere alcunché alla loro formulazione originaria.
Si converrà allora che la proroga giudiziaria delle concessioni demaniali marittime sia basata non solo, com’è stato esattamente notato, su un «ennesimo, indebito slancio “paranormativo”»[17] della plenaria, ma anche sul discutibile presupposto che non esista in Italia una legge nazionale immediatamente applicabile. E non è tutto. Ove si ritenesse che l’obbligo di affidamento selettivo delle concessioni sia in qualche modo risalente alla sentenza Promoimprea e Melis della Corte di giustizia, un altro principio consolidato si imporrebbe. Non si può infatti non ricordare che spetta solo alla Corte di giustizia, «alla luce dell’esigenza fondamentale dell’applicazione uniforme e generale del diritto dell’Unione, decidere sulle limitazioni nel tempo da apportare all’interpretazione che essa fornisce». In altri termini, «la modulazione degli effetti temporali di una sentenza che decide su un rinvio pregiudiziale può essere disposta esclusivamente dalla medesima Corte e solo nell’ambito della stessa pronuncia». Questo principio è stato ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 263/2022, riguardo al caso della sentenza Lexitor della Corte di giustizia[18], i cui effetti erano stati “graduati” dal legislatore italiano in difformità dagli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost. Ora non si vede perché il rilievo riguardo alla sentenza Lexitor non possa valere anche per la sentenza Promoimpresa e Melis: l’obbligo delle amministrazioni di procedere immediatamente con procedura selettiva, donde il divieto di modulazione degli effetti temporali, non viene meno solo perché è infranto, anziché dal legislatore, dal giudice amministrativo[19].
Ragione in più per notare che la sentenza n. 2192/2023, ove la Sezione VI^ indica la necessità di disapplicare una legge di proroga per permettere la riviviscenza di un’altra, a sua volta originata dalla volontà del Parlamento di conformarsi alle proroghe discrezionalmente individuate dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, è in ultima analisi essa stessa poco in linea con il diritto dell’Unione europea.
[1] Tra le più recenti, Corte cost., 9 dicembre 2022, n. 145.
[1] Senza pretesa di completezza, vista l’enorme quantità di contributi sul tema, si rimanda anzitutto al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021, La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, con saggi di M.A Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria (anche in questa Rivista, 16 febbraio 2022); F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?; G. Morbidelli, Stesse spiagge, stessi concessionari?; M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?; R. Dipace, L’incerta natura giuridica delle concessioni demaniali marittime: verso l’erosione della categoria; M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria; E. Lamarque, Le due sentenze dell’Adunanza plenaria… le gemelle di Shining?; R. Rolli, D. Sammarro, L’obbligo di “disapplicazione” alla luce delle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021 del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria); E. Zampetti, La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’Adunanza Plenaria; G. Iacovone, Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione; M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?; P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela; B. Caravita di Toritto e G. Carlomagno, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime, e recensione di F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 28 gennaio 2022; Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma. Si veda inoltre A. Police, A.M. Chiariello, Le concessioni demaniali marittime: dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria al percorso di riforma. Punti critici e spunti di riflessione, in amministrativ@mente, n. 2 (2022), 47 ss.; R. Caranta, Concessioni demaniali – Es gibt noch Richter in Berlin! Stop alle proroghe delle concessioni balneari, in Giur. it., 2022, 1204 ss.; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee?, in questa Rivista, 30 dicembre 2021; A. Cossiri, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pronuncia sulle concessioni demaniali a scopo turistico-ricreativo. Note a prima lettura, in Dir. pubbl. eur. rassegna online, n. 2, 2021, 234 ss.; P.G. Novaro, Spiagge: casus belli per una riflessione sulla concessione di bene pubblico, in Ist. Fed., 2022, 231 ss.; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S., in questa Rivista, 27 gennaio 2022; M.C. Girardi, Nel “mare magnum” delle proroghe. Riflessioni a partire dalle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Osservatorio AIC, fasc. 2/2022, 5 aprile 2022; M. Crisci, Risorse scarse e interesse transfrontaliero nelle concessioni demaniali marittime. Il giudice che si sostituisce all’amministrazione?, in Dir. dell’econ., n. 3/2022. In prospettiva comparata, A. Persico, Le concessioni demaniali marittime nell’impatto con il diritto dell’Unione. Spunti comparatistici per una gestione sostenibile “a tuttotondo” del patrimonio costiero nazionale, in federalismi.it, 10 agosto 2022.
[2] Alcune considerazioni in G. Parodi, La proroga delle concessioni demaniali marittime tra disapplicazione e incidente di costituzionalità. Questioni aperte, opacità della giurisprudenza, in DPCE online, n. 2/2023, 1607 ss.; nel senso indicato nel testo, L. Pasanisi, Le concessioni balneari: una questione politica di particolare importanza, in www.giustizia-amministrativa.it, 4 luglio 2023, 7; N. Durante, Concessioni balneari: avviso ai naviganti, ivi, 30 giugno 2023, 4. Questi ultimi due contributi riproducono le relazioni svolte dai Presidenti di Sezione del TAR Campania – Salerno al Convegno ASD e Concessioni demaniali marittime – Lo scoglio della Bolkestein e le opportune correzioni di rotta, organizzato ad Ischia il 14 giugno 2023 su iniziativa dell’Associazione Circoli Nautici della Campania.
[3] Sez. VI, 1 marzo 2023, n. 2192; per qualche richiamo a questa sentenza, nella giurisprudenza di primo grado, TAR Puglia, Bari, 11 maggio 2023, n. 755; TAR Campania, Salerno, 24 aprile 2023, n. 935.
[4] D. Casanova, Una nuova promulgazione dissenziente: la lettera del Presidente della Repubblica in relazione alla legge di conversione del c.d. decreto milleproroghe (l. n. 14/2023), in Osservatorio AIC, fasc. 3/2023, 6 giugno 2023; S. Curreri, Sull’auto-attribuzione da parte del Presidente della Repubblica del potere di promulgazione parziale dei testi legislativi, in laCostituzione.info, 8 marzo 2023.
[5] D.P.R. 21 luglio 2022, n. 96, in GU Serie Generale n. 169 del 21 luglio 2022.
[6] R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in questa Rivista, 14 ottobre 2022; E. Chiti, False piste: Il Tar Lecce e le concessioni demaniali marittime, in Giorn. dir. amm., 2021, 801.
[7] R. Tumbiolo, Il Demanio Costiero come risorsa naturale e ambientale, in RGA online, 2 giugno 2023;
[8] C. Curti Gialdino, Il Governo Meloni e l’Unione europea: gli esordi del nuovo Esecutivo, in federalismi.it., 7 dicembre 2022, 18.
[9] F. Francario, Se questa è nomofilachia, cit.
[10] Come sembra ritenere, sia pure con riferimento alla pendenza del termine per l’emanazione dei decreti legislativi prevista dalla legge n. 118/2022, TAR Puglia, Lecce, 21 aprile 2023, n. 523.
[11] G. Tropea, Concessioni balneari: stessa spiaggia stesso mare?, in laCostituzione.info, 15 aprile 2023.
[12] F. Francario, Se questa è nomofilachia, cit.
[13] Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2022 n. 1811.
[14] TAR Sicilia, Catania, 21 aprile 2023 n. 1142.
[15] TAR Puglia Lecce 4.1.2023 n. 25.
[16] TAR Sicilia, Catania, n. 1142/2022, cit.; Cons. Stato, sez. V, 14 marzo 2019, n. 1684.
[17] M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit.
[18] CGUE, Prima Sezione, 11 settembre 2019, C-383/18.
[19] M.A. Sandulli, op. cit.; R. Mastroianni, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e le concessioni balneari: due passi avanti e uno indietro?, in Eurojus, n. 1/2022, pp. 105 ss., spec. 115 ss.
La sabbia che Pape - un venditore ambulante senegalese in Italia per pagare gli studi alla facoltà di medicina alla sorella Binette - fa scivolare con abilità dalla ciabatta. La sabbia che lo trattiene e lo sorregge a ogni passo. La sabbia sulla quale si stende Binette con il suo segreto, nella solitudine del suo tradimento.
La sabbia che si scrolla di dosso Lu, Enrica Lucia - studentessa italiana di origine Vietnamita - consumata tra il disperato desiderio di conoscere la sue origini e il disperato desiderio di non conoscerle.
La sabbia umida sulla quale si siede la coppia vietnamita dopo l’abbandono della bambina neonata, che non può permettersi di veder crescere. La sabbia dove la mamma adottiva di Lu si siede a riflettere nella percezione del bilico della figlia tra la realtà e la finzione.
La sabbia è la simbolica scenografia nella quale Giovanni Caria inserisce sapientemente i protagonisti del suo terzo romanzo, ciascuno confinato nel proprio mondo esclusivo, come il “dente di una ruota in moto perpetuo”, ciascuno unico ma, al tempo stesso, simile a tanti altri incastonati nella ruota della vita.
Giovanni Caria descrive con abilità i protagonisti, i comprimari e le comparse del suo romanzo che inizia in una giornata assolata davanti alla Torre spagnola di Punta Erice.
Con il sorgere del sole ha inizio la giornata di Pape, e con essa un intreccio incessante di pensieri e ricordi che riesce a portare il lettore in Senegal, al primo ricordo di Pape: Pape bambino stretto al seno della madre. Ma la felicità è effimera e il senso di protezione e appartenenza lascerà presto il posto all’individualità solipsitica.
Dalla spiaggia affollata di Erice Gianni Caria porta il lettore in Vietnam, dove il danno di una guerra insensata, il non senso comune a ogni guerra è entrato nel dna della popolazione per tramandare il suo segno, la mutazione genetica causata dall’agente arancio e dal napaln.
Veleni che penetrati nei terreni agricoli continuano a produrre frutti tossici. Da qui il dramma degli abbandoni e la ricerca delle origini di chi, strappato dal seno materno, è incapace di riconoscere come propria la nuova famiglia, come se l’originario strappo si perpetuasse nel racconto delle origini o meglio nell’intempestività o inesattezza del racconto.
Pape e Lu, i protagonisti del romanzo, due dei tanti denti della ruota, entrambi stranieri, soli e traditi sono destinati a incrociarsi senza incontrarsi, nell’affollata spiaggia sarda.
“Il tradimento è tante cose, che si verificano ogni volta che la moneta tirata in aria cade dalla parte sbagliata, coprendo la faccia buona e illuminata della fiducia. E’ violare le aspettative; sostituirsi all’altro nel prendere una decisione: pretendere di fare il bene dell’altro, pretendere di essere il bene dell’altro: far credere all’altro di essere un obiettivo o un desiderio; confondere i lineamenti del desiderio con quelli dell’interesse; affermare che esistono intenzioni buone a prescindere da ciò che lastricano”. E’ qui il senso del danno.
Pape è stato tradito dalla sorella, Lu è stata tradita dai genitori adottivi.
Giovanni Caria senza tanti preamboli riesce a far immedesimare il lettore nei personaggi del suo romanzo, a inserirlo nelle sue scelte, nelle sue recriminazioni, nella sua rassegnazione, nel suo autoassolversi e infine nel suo isolarsi pacato dal resto del mondo.
Con la nascita si entra nel meccanismo in moto perpetuo che procede inesorabile verso la fine, pur passando per tappe rituali. Bene lo percepisce Pape, tanto che, quando vede per la prima volta la piccola Binette, desidera per lei una vita diversa da quella delle due madri. Vuole cambiare i rituali e per questo sacrifica la sua vita. O forse segue solo il suo destino, come Binette seguirà il suo.
Aspettative, obiettivi, pretese. Ogni essere umano ha i suoi, più o meno “essenziali”, più o meno “vitali”.
Il vero male è l’incapacità di comunicare, l’assenza di empatia e questo Gianni Caria ben lo rappresenta nella scena finale quando tre mondi, con aspettative e pretese completamente diverse, si incrociano nell’ultima immagine.
In quest’ultima immagine la sabbia è il chiaro simbolo dello scorrere della clessidra, il segno della caducità.
E’ così, esattamente come nella poesia di Salvatore Quasimodo “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”.
Sommario: 1. L’inquadramento della vicenda. – 2. L’ambito applicativo della direttiva 2006/123/CE. – 3. I criteri di accertamento della scarsità delle risorse naturali. – 4. La validità della direttiva 2006/123/CE. – 5. Gli effetti diretti dell’articolo 12. – 6. Il problema dell’indennizzo per i concessionari uscenti. – 7. Considerazioni conclusive.
1. L’inquadramento della vicenda.
La sentenza della Corte di giustizia, pubblicata in data 20 aprile 2023, scaturisce dal rinvio pregiudiziale effettuato dal TAR Lecce con ordinanza 11 maggio 2022, n. 743[1], nell’ambito di un procedimento incardinato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per l’annullamento di alcuni atti comunali adottati in ossequio alla normativa nazionale[2] che aveva disposto la proroga automatica, fino al 31 dicembre 2033, delle concessioni demaniali marittime in essere (ma anche di quelle lacuali e fluviali[3]) a finalità turistico-ricreative (le “concessioni balneari”).
Per un miglior inquadramento della vicenda, è opportuno tener presente quanto segue.
Com’è noto, la reiterata previsione ex lege di proroghe automatiche e generalizzate a vantaggio degli attuali concessionari[4] ha posto seri dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione[5], sotto il profilo della garanzia del diritto di stabilimento nel mercato interno e della libertà di prestazione dei servizi[6].
A fronte del sospetto carattere anticomunitario di simili proroghe, già adombrato dalla Commissione con lettera di messa in mora complementare datata 5 maggio 2010 nell’ambito della procedura d’infrazione n. 2008/4908[7], le amministrazioni delegate al rilascio delle concessioni in esame hanno agito in maniera difforme. Alcune di esse, tra le quali il Comune resistente nel giudizio da cui è scaturita la sentenza in commento, hanno applicato la normativa interna, adottando conformi atti di proroga, mentre altre, in senso opposto, hanno disapplicato tale normativa, adoperandosi per la messa a gara delle concessioni. Ulteriori amministrazioni sono rimaste inerti, nell’attesa di sviluppi idonei a chiarire quale fosse il modus agendi corretto, né sono mancate amministrazioni che, in un secondo momento, abbiano annullato in autotutela le proroghe già assentite. Ne è derivata una condizione di generale incertezza circa la perdurante validità dei rapporti concessori, icasticamente descritta dall’ordinanza di rinvio. Tale incertezza si è inevitabilmente riversata sulle sedi giudiziarie.
La giurisprudenza amministrativa, in particolare a seguito della sentenza Promoimpresa[8], si è espressa per lo più nel senso della doverosa disapplicazione, da parte delle amministrazioni competenti, della normativa interna di proroga, in quanto contrastante con gli art. 12 della direttiva 2006/123/CE (nota anche come direttiva Bolkestein o direttiva Servizi), in tesi foriera di effetti diretti e, in quanto applicabile, con l’art. 49 TFUE[9]. Nondimeno, il TAR Lecce, giudice del rinvio nella causa che ci occupa, ha portato avanti un indirizzo minoritario, in base al quale, da un lato, l’art. 12 dir. servizi non avrebbe carattere self-executing, e dall’altro, le amministrazioni locali non sarebbero comunque legittimate a disapplicare la normativa nazionale asseritamente contrastante con le norme di direttive europee auto-esecutive[10], concludendo quindi per la necessità di dar seguito sul versante amministrativo alle proroghe.
Merita peraltro ricordare che, con lettera di messa in mora datata 3 dicembre 2020[11], la Commissione ha aperto nei confronti dell’Italia una nuova procedura di infrazione. La lettera evidenzia l’illegalità del quadro giuridico nazionale, e, interpretando la ridetta sentenza Promoimpresa, ne ricava la regola per cui, nelle more dei necessari interventi normativi, le autorità locali e i giudici nazionali non debbano dare applicazione alla normativa interna di proroga, stante il suo contrasto con l’art. 12 dir. servizi (norma cui, evidentemente, la Commissione riconosce carattere self-executing), ovvero, in quanto applicabile, con l’art. 49 TFUE[12].
In questo scenario, nel dichiarato intento di assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali[13] - e verosimilmente anche per sopperire all’inerzia di Parlamento e Governo nel far cessare la violazione alla base della procedura di infrazione n. 2020/4118 - è intervenuta l’Adunanza Plenaria con le note sentenze gemelle nn. 17 e 18/2021, sulle quali si è diffusamente appuntata l’attenzione della dottrina[14]. Per quanto più interessa in questa sede, in estrema sintesi, occorre ricordare che il Supremo Consesso della giustizia amministrativa ha ritenuto di poter: 1) accertare, una volta per tutte, la sussistenza di un interesse transfrontaliero certo inerente alla gestione delle spiagge italiane (nonché delle aree lacuali e fluviali), per quindi rilevare il contrasto della normativa interna di proroga con gli artt. 49 e 56 TFUE (punti 15 - 16); 2) confermare la validità della direttiva servizi, in quanto direttiva di liberalizzazione e non di armonizzazione, correttamente adottata a maggioranza qualificata dal Consiglio sulla base degli articoli del TCE relativi al diritto di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi piuttosto che sull’art. 94 del TCE (ora art. 115 TFUE), il quale prevede invece il ricorso all’unanimità in seno al Consiglio per l’adozione di atti normativi aventi come obiettivo l’armonizzazione delle legislazioni nazionali (punto 21); 3) predicare, indistintamente, la scarsità delle risorse naturali in questione in riferimento all’intero territorio nazionale (punto 25); 4) ravvisare il carattere self-executing dell’art. 12 dir. sevizi, con il conseguente obbligo delle amministrazioni locali di non applicare la normativa nazionale di proroga contrastante con suddetta disposizione (punti 26 - 38).
In generale, la giurisprudenza successiva si è largamente conformata ai dicta della Plenaria[15].
Fa eccezione appunto il TAR Lecce, il quale, senza sconfessare il proprio precedente orientamento, ha sostanzialmente interrogato, come meglio si vedrà infra, la Corte di giustizia circa la correttezza degli approdi della Plenaria in ordine alla validità, all’interpretazione e alla conseguente applicazione del diritto dell’Unione in materia.
2. L’ambito applicativo della direttiva 2006/123/CE.
Il primo punto affrontato dalla Corte di giustizia concerne il rapporto intercorrente tra l’art. 49 TFUE e l’art. 12 dir. servizi. Un chiarimento al riguardo era reso necessario innanzitutto dal sesto quesito dell’ordinanza di rinvio, il quale richiedeva, in sintesi, se la presenza di un interesse transfrontaliero certo, ai sensi dell’art. 49 TFUE, fosse presupposto applicativo dell’art. 12, paragrafi 1 e 2, dir. servizi. Inoltre, i quesiti settimo e ottavo rendevano opportuna la precisazione, in quanto relativi alla coerenza, tanto rispetto all’art. 49 TFUE, quanto rispetto all’art. 12 dir. servizi, delle statuizioni con cui la Plenaria ha affermato, in via generale e astratta e con riferimento all’intero territorio nazionale, la sussistenza sia dell’interesse transfrontaliero certo, sia del carattere scarso delle risorse naturali in questione.
In breve, dall’ordinanza del TAR Lecce emergeva il dubbio circa la differenza degli ambiti applicativi delle due norme cennate, in rapporto ad ambo le quali si riteneva di dover parametrare la normativa nazionale di proroga.
Verosimilmente, una simile perplessità, se non ingenerata, è stata quantomeno alimentata dalla lettura delle sentenze gemelle della Plenaria, le quali si soffermano diffusamente a confutare le obiezioni dottrinali tese a mettere in discussione la sussistenza dell’interesse transfrontaliero certo (punti 15 e 16). Pertanto, sebbene le questioni relative all’interesse transfrontaliero certo in sé possano apparire di interesse secondario, stante «la preminenza dell’art. 12 della direttiva Bolkestein sull’art. 49 TFUE»[16], è pur vero che il Supremo Consesso della giustizia amministrativa non è stato chiaro sul punto, lasciando intendere la simultanea applicabilità dei due articoli.
Orbene, la Corte di giustizia ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, le normative nazionali adottate in un settore oggetto di completa armonizzazione a livello dell’Unione vanno valutate in rapporto non alle disposizioni del diritto primario, bensì a quelle di diritto derivato che hanno realizzato tale armonizzazione. Viene citata in proposito, tra le altre, proprio la sentenza Promoimpresa, la quale evidenzia che gli articoli da 9 a 13 dir. servizi provvedono a un’armonizzazione esaustiva concernente i servizi rientranti nel loro campo di applicazione, con la conseguenza che la normativa interna di proroga deve essere parametrata unicamente all’art. 12 di tale direttiva, laddove siano integrati tutti gli elementi della relativa fattispecie.
D’altronde, occorre ricordare che proprio secondo la ricostruzione effettuata dalla sentenza Promoimpresa, e fatta propria dalla Commissione nella lettera di messa in mora del dicembre 2020[17], l’art. 49 TFUE viene in rilievo solo laddove l’art.12 dir. servizi non sia applicabile in ragione dell’accertamento negativo in ordine alla scarsità delle risorse naturali (cfr. punto 62 della sentenza). In quest’ottica, la valutazione dell’interesse transfrontaliero certo è meramente eventuale e secondaria, in quanto s’imporrebbe solo una volta escluso il carattere scarso delle risorse naturali in questione. Ne consegue logicamente che l’art. 12 dir. servizi, non si applica solo alle concessioni di occupazione del demanio marittimo che presentino un interesse transfrontaliero certo.
A ulteriore supporto di tale conclusione, la Corte ha ricordato di aver già in passato chiarito come gli articoli contenuti nel capo III della dir. servizi siano applicabili anche a situazioni puramente interne, ovvero prive di elementi transfrontalieri.La pronuncia in commento menziona, a tal proposito, la nota sentenza sul caso X e Visser[18], la quale mette in rilievo come dal tenore delle disposizioni di cui al capo III cit. non emerga alcuna condizione relativa alla sussistenza di un elemento di carattere estero (cfr. punti 99 -110).
In definitiva, la Corte ha concluso per l’irrilevanza dell’art. 49 TFUE nella controversia di cui al procedimento principale, e ha coerentemente omesso di rispondere al settimo quesito, inerente alla correttezza della soluzione fornita dalla Plenaria circa la sussistenza dell’interesse transfrontaliero certo; ha invece circoscritto l’esame dell’ottavo quesito – sulla ritenuta scarsità delle risorse naturali – alla sola coerenza con l’art. 12 dir. servizi.
3. I criteri di accertamento della scarsità delle risorse naturali.
Come anticipato, l’ottavo quesito pregiudiziale concerneva la possibilità di accertare in via generale e astratta la condizione di scarsità delle risorse naturali. L’Adunanza Plenaria, infatti, nel valorizzare la capacità attrattiva del patrimonio costiero nazionale nel suo complesso, nonché i dati forniti dal Sistema informativo del demanio marittimo (SID) sull’occupazione delle coste sabbiose in Italia, per quindi affermare, in via onnicomprensiva, la scarsità di tutte le spiagge italiane, ha suscitato delle perplessità a fronte della sentenza Promoimpresa (punto 43), che sembra invece rimettere la valutazione della condizione di scarsità, di volta in volta, al giudice del caso concreto[19].
La Corte di giustizia ha contestualmente validato l’approdo ermeneutico della Plenaria e posto le basi per il suo superamento.
Sul primo versante, la sentenza in commento ha riconosciuto alla precisazione di cui al punto 43 della sentenza Promoimpresa una valenza meramente limitata al caso di specie, escludendo quindi che l’art. 12 dir. servizi imponga indefettibilmente una valutazione su base comunale. Più in generale, la Corte di Lussemburgo ha statuito che gli Stati membri possono preferire, ai fini dell’accertamento della condizione di scarsità, una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale.
Sul secondo versante, si può rilevare che questa non è, agli occhi della Corte, né l’unica soluzione possibile, né la più auspicabile. Invero, la pronuncia chiarisce che l’art. 12, par. 1, dir. servizi conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali. A condizione che tali criteri siano obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati, gli Stati membri (e dunque, in primis, i legislatori nazionali) possono, quindi, decidere di privilegiare un approccio “caso per caso”, che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell’autorità amministrativa competente. In tal modo, viene legittimato un intervento normativo atto a superare la statuizione della Plenaria, che evidentemente non rappresenta la necessitata conclusione derivante dall’interpretazione dell’art. 12 dir. servizi.
La Corte ha poi prefigurato una soluzione di terzo genere, non prospettata invero dall’ordinanza di rinvio, la quale concepiva i due metodi di accertamento (in via generale e astratta/caso per caso) come alternativi e vicendevolmente escludenti. Si tratta di una soluzione mista, derivante dalla combinazione dei due menzionati approcci, e che la Corte sembra in qualche modo caldeggiare. Al riguardo, si legge nella pronuncia che «la combinazione di un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e di un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione, risulta equilibrata e, pertanto, idonea a garantire il rispetto di obiettivi di sfruttamento economico delle coste che possono essere definiti a livello nazionale, assicurando al contempo l’appropriatezza dell’attuazione concreta di tali obiettivi nel territorio costiero di un comune».
Le affermazioni della Corte lasciano trapelare una sorta di favor nei confronti della combinazione degli approcci, in quanto funzionale al conseguimento degli obiettivi dell’Unione nel rispetto del principio di proporzionalità.
Nello stesso senso, appare significativo che la risposta finale della Corte all’ottavo quesito sia parametrata proprio sulla soluzione di terzo genere[20].
Alla luce di simili valutazioni, può essere interessante osservare che una soluzione mista è stata recentemente percorsa dal legislatore nazionale, il quale ha previsto, all’art. 10-quater del d.l. n. 198/2022, convertito con legge n. 14/2023, l’istituzione di un tavolo tecnico, cui spetta il compito di definire i criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto sia del dato complessivo nazionale che di quello aggregato a livello regionale.
4. La validità della direttiva 2006/123/CE.
A questo punto, fugati i dubbi circa l’applicabilità della sola dir. servizi alla fattispecie di cui al procedimento principale, la Corte è passata ad analizzare la prima questione pregiudiziale, inerente alla validità della cennata direttiva. Questione che, nell’ottica del TAR Lecce, precedeva logicamente le altre, in quanto la sua risoluzione in senso negativo avrebbe reso inutile la risposta agli ulteriori quesiti.
Al riguardo, il Tribunale pugliese assumeva una posizione molto netta. In linea con l’Adunanza Plenaria solo per quanto attiene alla ritenuta estraneità della dir. servizi alla materia del turismo, l’ordinanza di rinvio esprimeva per il resto un totale disaccordo con le argomentazioni delle sentenze gemelle in favore della validità della direttiva. Tale atto, invero, sarebbe qualificabile come direttiva di armonizzazione, e non già di liberalizzazione, in quanto il legislatore dell’Unione avrebbe inteso pervenire alla piena integrazione delle normative degli Stati membri in materia di prestazione di servizi solo in via mediata. In particolare, il TAR Lecce citava il passaggio della sentenza Promoimpresa che afferma che «si deve ritenere che gli articoli da 9 a 13 della direttiva provvedano ad una armonizzazione esaustiva concernente i servizi che rientrano nel loro campo di applicazione», onde trarre, a fronte dell’equiparazione delle parole della Corte a una forma di “interpretazione autentica”, un elemento dirimente a favore della propria ricostruzione. A comprova ulteriore, la stessa ordinanza di rinvio valorizzava il considerando 7 della dir. servizi, come interpretato dalla sentenza X e Visser cit., stando alla quale l’approccio scelto dal legislatore dell’Unione nella direttiva 2006/123 si basa, come enunciato al suo considerando n. 7, su un quadro giuridico generale, formato da una combinazione di misure diverse destinate a garantire un grado elevato di integrazione giuridica nell’Unione per mezzo, in particolare, di una armonizzazione vertente su precisi aspetti della regolamentazione delle attività di servizio».
Sull’assunto quindi di trovarsi di fronte a una direttiva di armonizzazione, il Tribunale pugliese individuava quale corretta base giuridica per l’adozione della dir. servizi l’odierno art. 115 TFUE (già art. 94 TCE), il quale impone(va) il voto all’unanimità del Consiglio per l’adozione di «direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato interno». Di contro, essendo stata la dir. servizi adottata previo voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio, essa risulterebbe affetta da un vizio formale e dunque invalida.
La Corte, richiamando la propria consolidata giurisprudenza in materia di individuazione della procedura applicabile per l’adozione degli atti giuridici dell’Unione (in passato, della Comunità), ha respinto tali censure.
Per cominciare, la pronuncia in commento ha ricordato che, nell’ipotesi in cui un atto presenti una duplice finalità o una doppia componente e una di queste sia identificabile come principale o preponderante, mentre l’altra risulti solo accessoria, l’atto deve fondarsi su una sola base giuridica, ossia quella richiesta dalla finalità o componente principale o preponderante, mentre, in via eccezionale, ove sia provato che l’atto persegue contemporaneamente più obiettivi tra loro inscindibili, senza che uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro, tale atto dovrà fondarsi sulle diverse basi giuridiche corrispondenti. La Corte ha quindi rilevato l’impossibilità di cumulare le diverse basi giuridiche, stante l’incompatibilità di una procedura basata sul voto del Consiglio a maggioranza qualificata (ex artt. 47 e 55 TCE) con altra procedura che impone una deliberazione dello stesso organo all’unanimità (ex art. 94 TCE), senza però chiarire quid iuris laddove non sia ravvisabile la prevalenza di una componente o di un obiettivo di un atto riconducibile a più basi giuridiche, e segnatamente se si imponga in questi casi l’adozione di due atti separati[21].
A ogni modo, dal prosieguo del ragionamento sembra che la Corte non abbia concretamente ravvisato uno di questi casi eccezionali, riconducendo la direttiva servizi interamente alla finalità liberalizzatrice di cui agli artt. 47 e 55 TFUE.
In via assorbente, infatti, la pronuncia in commento evidenzia che, dal tenore letterale della direttiva (in particolare, art. 1, par. 1) e dal suo preambolo (in particolare, considerando 1, 5, 12, 64, 116), emerge l’obiettivo di assicurare la realizzazione effettiva delle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. È questo, dunque, lo scopo della direttiva, elemento oggettivo, suscettibile di sindacato giurisdizionale, sulla base del quale valutare quale sia la base giuridica da porre a fondamento dell’atto. Tanto premesso circa la finalità della direttiva di migliorare il funzionamento del mercato interno, la sentenza conferma che la corretta individuazione dalla base giuridica dell’atto risiedesse negli artt. 47, par. 2 e 55 TCE, che consentivano l’adozione con voto del Consiglio a maggioranza qualificata di direttive volte al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative all’accesso alle attività non salariate e all’esercizio di queste, nonché alla libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità. Risulta in questa prospettiva inconferente il riferimento all’art. 94 TCE, oggi 115 TFUE, in quanto norma generale inapplicabile a fronte delle più specifiche norme appena richiamate.
Preso atto di ciò, e a prescindere dall’esattezza della conclusione raggiunta dalla Corte, è appena il caso di rilevare che la sentenza in commento valorizzi unicamente lo scopo dichiarato della direttiva, sebbene l’ordinanza di rinvio insistesse anche sul contenuto delle disposizioni del relativo capo III. Peraltro, proprio la pronuncia esordisce ricordando come, per giurisprudenza costante, la scelta del fondamento giuridico di un atto debba basarsi su elementi oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale, quali non solo lo scopo, ma anche il contenuto dell’atto.
5. Gli effetti diretti dell’articolo 12.
Si giunge quindi alla tematica più controversa: gli effetti diretti dell’art. 12 dir. servizi.
Come ricordato, era su questo tema che si era formato il contrasto giurisprudenziale che contrapponeva il TAR Lecce all’Adunanza Plenaria e alla giurisprudenza amministrativa maggioritaria.
La posizione del Tribunale pugliese, infatti, era nel senso di negare carattere auto-esecutivo all’art.12 cit., in quanto tale norma non era ritenuta sufficientemente precisa e incondizionata da poter produrre, scaduto il termine per il suo recepimento ovvero in caso di non corretto recepimento, effetti diretti. In tal senso, risultava ostativo il rilievo che il suddetto articolo rendesse necessaria l’adozione di una legge attuativa recante le regole uniformi per l’effettuazione delle gare, relative anche ai requisiti di partecipazione e di aggiudicazione, e del pari la regolamentazione dei profili legati alla determinazione dell’eventuale indennizzo spettante ai concessionari uscenti. Inoltre, questo orientamento valorizzava i principi di certezza del diritto e di completezza dell’ordinamento giuridico onde negare un potere di disapplicazione – con effetto “di mera esclusione” – della normativa interna da parte dei singoli funzionari amministrativi, a fronte di una direttiva dall’incerta (e invero ritenuta insussistente) natura auto-esecutiva.
Di contro, l’indirizzo maggioritario, avvalorato anche dalla Commissione, predicava e continua a predicare la doverosa disapplicazione della normativa interna di proroga, anche e soprattutto da parte delle amministrazioni preposte in primis alla sua applicazione, in ragione naturalmente della riscontrata natura self-executing dell’articolo 12. Tale indirizzo si richiama alla sentenza Promoimpresa, la quale per la verità non era stata esplicita sul punto: in quell’occasione, infatti, la Corte non fece espressamente riferimento agli effetti diretti e alla necessità di disapplicare la normativa interna.
Con la seconda e con la quarta questione pregiudiziale il TAR pugliese mirava quindi a ottenere una risposta esplicita della Corte sull’idoneità dell’art. 12 a produrre effetti diretti, nella misura in cui da un lato l’obbligo di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente tra i candidati potenziali, e dall’altro lato il divieto di rinnovare automaticamente i titoli in essere risultino enunciati in modo incondizionato e sufficientemente preciso.
Orbene, la risposta della Corte non lascia adito a dubbi (pur destando qualche perplessità) e anche in questo caso conferma la posizione sostenuta dall’Adunanza Plenaria.
L’obbligo e il divieto, per la Corte, sono sanciti in maniera inequivocabile. Agevole il discorso sul divieto di procedure di rinnovo automatico ex par. 2: la Corte si è limitata a osservare che gli Stati membri non dispongono di alcun margine di discrezionalità sul punto, né possono subordinare l’operatività di tale divieto a ulteriori condizioni.
Diversamente, l’obbligo concorrenziale di cui al par. 1 tollera un certo margine di discrezionalità in capo agli Stati membri in ordine alle modalità atte a garantire l’imparzialità e la trasparenza delle procedure di selezione. Nondimeno, la Corte ha affermato in proposito che la disposizione presenta un contenuto minimo di tutela a favore dei candidati potenziali, che non può essere vulnerato, conseguendone che la discrezionalità rimessa agli Stati membri non può incidere sul carattere preciso e incondizionato dell’obbligo di svolgere una procedura di selezione imparziale e trasparente.
Vero è poi, come riconosciuto anche dalla Corte nel rispondere all’ottavo quesito (v. supra, par. 3), che l’applicazione dell’art.12 è subordinata all’accertamento del carattere scarso delle risorse naturali, e che tale articolo lascia agli Stati membri un certo margine di discrezionalità circa le modalità di accertamento. Una simile circostanza potrebbe in astratto far venir meno il carattere “incondizionato” dalla norma in questione, epperò la Corte è stata laconica nell’affermare che tale “condizione” non può rimettere in discussione l’effetto diretto connesso ai paragrafi 1 e 2 di detto articolo.
Acclarato l’effetto diretto dell’art. 12, e divenuto pertanto superfluo rispondere al terzo quesito, subordinato all’accertamento della natura non self-executing della normativa de qua, la Corte risponde anche alla quinta questione (e seconda parte dell’ottava), in merito al dovere delle amministrazioni, e in particolare dei funzionari comunali, di disapplicare la normativa interna di proroga. Com’era prevedibile, la Corte non ha ravvisato elementi per discostarsi dalla propria giurisprudenza, che ravvisa tanto in capo al giudice quanto all’amministrazione (ivi incluse quelle comunali per il tramite dei propri funzionari o dirigenti) l’obbligo di non applicare la normativa interna contrastante con gli effetti diretti di una direttiva.
Nell’insieme, si può rilevare come l’attenzione della Corte si sia concentrata esclusivamente sulla posizione dei candidati potenziali, predicando la generalizzata necessità per l’amministrazione di disapplicare la normativa interna di proroga, senza distinguere i casi – come, tra l’altro, quello oggetto di causa –in cui una simile richiesta non provenga da tali soggetti privati (ma dall’AGCM) e sia, anzi, in danno di questi ultimi (i concessionari uscenti). Sul punto, per vero non sollevato dall’ordinanza leccese, ma pur sempre rilevabile d’ufficio, la pronuncia in questione suscita le stesse perplessità già evidenziate dalla dottrina in sede di commento alle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria in ordine all’ammissibilità degli effetti cd. “verticali inversi” ovvero in malam partem[22]. Non è peraltro escluso che in futuro la Corte, specificamente interrogata sul punto e re melius perpensa, circoscriva le proprie affermazioni.
6. Il problema dell’indennizzo per i concessionari uscenti.
Con il nono quesito pregiudiziale, il TAR Lecce intendeva ottenere una rimeditazione della posizione della Corte, nel caso quest’ultima fosse giunta a ritenere la natura self-executing della direttiva servizi e il conseguente obbligo di disapplicare la normativa interna contrastante con i suoi effetti diretti. Sul punto, il giudice remittente evidenziava come, in un contesto normativo quale quello vigente in Italia, la diretta applicazione dell’art. 12 dir. servizi porterebbe in molti casi a esiti inconciliabili con l’esigenza di tutelare il diritto di proprietà e il legittimo affidamento dei concessionari uscenti, in spregio, tra l’altro, all’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In tal senso, è appena il caso di ricordare che l’art. 49 cod. nav. afferma la regola della devoluzione in favore del concedente, al termine del rapporto concessorio, di tutte le opere non amovibili[23] realizzate dal concessionario sulla zona demaniale, senza alcun compenso o rimborso.
Peraltro, è stata la stessa Adunanza Plenaria a riconoscere, nelle sentenze gemelle, la necessità che le procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni siano, ove ne ricorrano i presupposti, supportate dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi (punto 49). La dottrina, a sua volta, nel ribadire la necessità dell’indennizzo in questione, ha evidenziato che esso debba essere comprensivo anche del valore dell’avviamento[24] e ha più in generale individuato, de iure condendo, le soluzioni normative percorribili nell’ambito di un’auspicata riforma del regime delle opere inamovibili realizzate dal concessionario[25].
Nessun ripensamento v’è stato nella pronuncia in commento. Infatti, il nono quesito è stato ritenuto irricevibile, in quanto dall’ordinanza di rinvio non sono emersi gli elementi di fatto e di diritto tali da rendere rilevante una risposta della Corte nel procedimento principale, nel quale, invero, non era stato dedotto e fatto valere il diritto del concessionario uscente di ottenere, alla scadenza della concessione, un qualsivoglia compenso per le opere inamovibili che esso abbia costruito sul terreno affidatogli in concessione.
Occorrerà perciò attendere che la Corte, ritualmente interrogata, fornisca gli opportuni chiarimenti circa la compatibilità euro-unitaria dell’art. 49 cod. nav., nell’ambito di un giudizio in cui venga in rilievo il carattere lesivo della regola dell’accessione gratuita ivi affermata. In proposito, si segnala che il Consiglio di Stato ha sollevato[26] una questione pregiudiziale relativa alla coerenza dell’art. 49 cod. nav. con gli artt. 49 e 56 TFUE e con i principi desumibili dalla sentenza Laezza[27], in relazione alle ipotesi in cui la concessione venga rinnovata senza soluzione di continuità, nelle quali la devoluzione non onerosa e senza indennizzo delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa è apparsa al Collegio come una restrizione sproporzionata rispetto allo scopo perseguito dal legislatore.
7. Considerazioni conclusive.
In definitiva, la sentenza della Corte conferma la coerenza degli approdi ermeneutici dell’Adunanza Plenaria con il diritto dell’Unione, e pertanto non altera lo “stato dell’arte” in materia, quantomeno in Italia.
Ciò non deve tuttavia indurre a disconoscere l’importanza di questa pronuncia e la rilevanza delle sue implicazioni, anche al di fuori dell’ordinamento italiano. La Corte ha invero affermato espressamente, così superando le incertezze legate all’interpretazione della sentenza Promoimpresa, la natura self-executing dell’art. 12 dir. servizi e la conseguente necessità per le amministrazioni competenti di darvi immediata e diretta applicazione, disapplicando quindi le norme interne con esso confliggenti.
Ora, tale statuizione dovrebbe indurre le amministrazioni di quegli Stati membri aventi normative anticomunitarie in materia, a trarne le dovute conseguenze per garantire l’effetto utile del diritto dell’Unione. È il caso, ad esempio, di Spagna e Portogallo, nei cui confronti la Commissione ha di recente aperto due procedure d’infrazione, censurando, nel primo caso, l’eccessiva durata delle concessioni demaniali marittime prevista dalla legge nonché l’assenza di procedure selettive trasparenti e imparziali per il rilascio dei titoli, e, nel secondo caso, la previsione di un diritto di preferenza in capo al concessionario uscente.
Va poi ricordato che nelle more della pronuncia della Corte di giustizia, è finalmente intervenuto il Parlamento italiano, con legge 5 agosto 2022, n. 118 (in particolare, artt. 2-4), abrogando le norme recanti le proroghe illegittime[28] e tendenzialmente confermando il 31 dicembre 2023 quale data ultima di efficacia delle concessioni prorogate o rinnovate. Senonché, tale termine è stato nuovamente posticipato dal d.l. n. 198/2022, convertito dalla l. n. 14/2023, al 31 dicembre 2024 (cfr. art. 12, co. 6-sexies). Lo stesso decreto-legge ha previsto, all’art. 10-quater, co. 3, che le concessioni in essere continuino in ogni caso ad avere efficacia sino alla data di rilascio dei nuovi titoli concessori, suscitando tuttavia la pronta reazione del Consiglio di Stato[29].
Tali recentissimi sviluppi contribuiscono evidentemente a produrre nuova incertezza giuridica nel settore.
Quale termine ultimo di efficacia delle concessioni in essere prenderanno a riferimento le amministrazioni competenti? Quello indicato dalla Plenaria (31 dicembre 2023) oppure il nuovo termine previsto dalla legge? Le decisioni sul punto non potranno che essere prese alla luce della pronuncia della Corte, che, lo si ricorda ancora una volta, ha esplicitato gli effetti diretti dell’art. 12 dir. servizi e l’obbligo di disapplicazione delle normative interne con esso contrastanti.
[1] Per un commento all’ordinanza di rinvio si veda M. TIMO, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso (nota a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743), in Giustiziainsieme.it, 2022.
[2] Il riferimento è all’art. 1, commi 682 e 683, l. n.145/2018, nonché all’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, il quale ha confermato la proroga al 31 dicembre 2033, disponendo inoltre la sospensione dei procedimenti diretti alla riacquisizione delle aree demaniali e delle relative pertinenze e di quelli tesi alla nuova assegnazione delle concessioni.
[3] Cfr. art. 100 d.l. n. 104/2020, che ha esteso la proroga anche alle concessioni lacuali e fluviali.
[4] Cfr. l’art. 1, co. 18, d.l. n. 194/2009 – come modificato in sede di conversione dalla l. n. 25/2010 –, l’art. 34-duodecies del d.l. n. 179/2012 – introdotto in sede di conversione dalla l. n. 221/2012 – , l’art. 24, co. 3-septies, d.l. n. 113/2016 – introdotto in sede di conversione dalla l. n. 160/2016 -, nonché le norme citate nelle due note precedenti. Per una sintesi dell’evoluzione normativa in materia si veda M.A. SANDULLI, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn.17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Diritto e Società, n. 3/2021.
[5] Sul tema, in dottrina, senza pretesa di esaustività, si vedano i seguenti contributi: F. CAPELLI, Evoluzioni, splendori e decadenza delle direttive comunitarie. Impatto della direttiva CE n. 2006/123 in materia di servizi: il caso delle concessioni balneari, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021; B. CARAVITA DI TORITTO, G. CARLOMAGNO, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma, in Federalismi.it, n. 20/2021; A. LUCARELLI, B. DE MARIA, M.C. GIRARDI (a cura di), Governo e gestione delle concessioni demaniali marittime, in Quaderni della Rassegna di diritto pubblico europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, n. 7/2021; A. GIANNACCARI, Stessa spiaggia, stesso mare. Di concessioni demaniali marittime e (assenza di) concorrenza, in Mercato Concorrenza Regole, n. 2/2021; M. MANFREDI, L’efficacia diretta della “direttiva servizi” e la sua attuazione da parte della pubblica amministrazione italiana: il caso delle concessioni balneari, in JUS, n. 1/2021; G. CARULLO, A. MONICA, Le concessioni demaniali marittime nel mercato europeo dei servizi: la rilevanza del contesto locale e le procedure di aggiudicazione, in Federalismi.it, n. 26/2020; M. TIMO, Le concessioni balneari alla ricerca di una disciplina fra normativa e giurisprudenza, Giappichelli, Torino, 2020; A. GIANNELLI, Concessioni di beni e concorrenza: contributo in tema di compatibilità tra logica pro-concorrenziale e principi di diritto interno in tema di gestione dei beni pubblici, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017; F. SANCHINI, Le concessioni demaniali marittime a scopo turistico-ricreativo tra meccanismi normativi di proroga e tutela dei principi europei di libera competizione economica: profili evolutivi alla luce della pronuncia della Corte di giustizia resa sul caso Promoimpresa-Melis, in Rivista della regolazione dei mercati, n. 2/2016; C. BENETAZZO, Il regime giuridico delle concessioni demaniali marittime tra vincoli U.E. ed esigenze di tutela dell’affidamento, in Federalismi.it, n. 25/2016.
[6] In particolare, vengono in rilievo l’articolo 12 della direttiva 2006/123/CE (dir. servizi) e l’articolo 49 TFUE: il primo impone, nell’ipotesi in cui sia limitato il numero delle “autorizzazioni” disponibili per una determinata attività a causa della scarsità delle risorse naturali, l’assegnazione dei titoli sulla base di una procedura con garanzie di imparzialità, pubblicità e trasparenza, vietandone il rinnovo automatico; l’art. 4, punto 6, della direttiva chiarisce a sua volta che per regime di autorizzazione deve intendersi «qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un’autorità competente allo scopo di ottenere una decisione formale o una decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio a al suo esercizio». Il secondo articolo invece afferma il divieto di restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro, nel quale va comunque assicurato l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini.
[7] La procedura, avviata su segnalazione dell’AGCM, verteva sulla incompatibilità con il diritto dell’Unione della previsione di cui all’art. 37, co. 2, secondo periodo, del codice della navigazione, la quale riconosceva in capo al concessionario uscente il cd. diritto di insistenza.
[8] Corte di Giustizia, Sez. Quinta, 14 luglio 2016 in cause riunite C-458/14 e C-67/15. La Corte di giustizia, in questa sentenza, ha riscontrato il contrasto della normativa italiana di proroga con l’art. 12 dir. servizi e, in subordine, laddove tale articolo non sia applicabile, con l’art. 49 TFUE. In sintesi, il contrasto è stato ravvisato nel fatto che la proroga automatica ex lege si riferisce indiscriminatamente a tutte le concessioni in essere, ivi incluse quelle relative a risorse naturali scarse e quelle che, seppur non relative a risorse scarse, presentino un interesse transfrontaliero certo.
[9] Cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874 e 12 febbraio 2018, n. 873.
[10] Cfr. ad es. TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 15 gennaio 2021, nn. 71, 72, 73, 74, 75.
[11] Lettera C(2020) 7826 final, con cui è stata avviata la procedura di infrazione n. 2020/4118.
[12] La Commissione precisa che viene in rilievo l’applicabilità dell’art. 49 TFUE «nei limitati casi ipotetici» in cui non sia ravvisabile il carattere scarso della risorsa e nella misura in cui è probabile che venga pregiudicato un interesse transfrontaliero certo.
[13] Si veda il decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 160/2020 di deferimento all’Adunanza Plenaria, per un commento al quale si veda R. DIPACE, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative, in Giustiziainsieme.it, 2021.
[14] Si vedano, ancora, l’Introduzione di M.A. SANDULLI e i contributi degli autorevoli studiosi raccolti nel fascicolo monotematico su “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”, in Diritto e società, n. 3/2021, con recensione di F. FRANCARIO, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in Giustiziainsieme.it, 2021; nonché, ex multis, gli scritti di F.P. BELLO, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Giustiziainsieme.it, 2021; E. CANNIZZARO, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, in Giustiziainsieme.it, 2021; R. ROLLI, D. GRANATA, Concessioni demaniali marittime: la tutela della concorrenza quale Nemesi del legittimo affidamento, in Rivista giuridica dell’edilizia, n. 5/2021.
[15] Cfr., ex multis, T.A.R. Campania, Salerno, Sez. III, 20 aprile 2023, nn. 887, 888, 889, 890, 891; Cons. Stato, sez. VII, 23 maggio 2022, n. 4072; C.G.A.R.S., 24 gennaio 2022, n. 116.
[16] M.TIMO, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso, cit.
[17] Al cui par. 3.3. si legge: «Come chiarito dalla sentenza Promoimpresa della CGUE, gli articoli da 9 a 13 della direttiva sui servizi comportano un'armonizzazione esaustiva per quanto riguarda i servizi che rientrano nel suo campo di applicazione; pertanto, nei casi – la maggioranza delle concessioni in questione – in cui tutti i presupposti dell’articolo 12 DS siano soddisfatti, non vi è luogo di applicare direttamente le regole del trattato sulla libertà di stabilimento26 . Tuttavia, per i limitati casi ipotetici in cui si possa ritenere che l'articolo 12 della DS non sia applicabile in quanto viene meno il requisito della scarsità delle risorse, è necessario prendere in considerazione l’articolo 49 TFUE».
[18] Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, in cause riunite C-360/15 e C-31/16.
[19] Sul punto si veda M.A. SANDULLI, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn.17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit.
[20] «L’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che: esso non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione».
[21] Come prospettato da R. ADAM, A. TIZZANO, Manuale di diritto dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 2014.
[22] F. FERRARO, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?, in La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit.; E. CANNIZZARO, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee?, cit., nonché M.A. SANDULLI, Introduzione, cit.
[23] Sul cui regime si v. M. CALABRÒ, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria, in La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit.
[24] G. MORBIDELLI, Stesse spiagge, stessi concessionari?, in La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit.
[25] M. CALABRÒ, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria, cit.
[26] Cons. Stato, Sez. VII, ordinanza 15 settembre 2022, n. 8010.
[27] Corte di giustizia, Terza Sezione, 28 gennaio 2016, in causa C-375/14.
[28] Cennate in nota 2 e 3.
[29] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 1 marzo 2023, n. 2192, che ha rilevato l’illegittimità di tale proroga e il conseguente obbligo di disapplicarla.
Sommario: 1. Prologo. – 2. Il quadro normativo precedente sino agli anni Sessanta. – 3. Il dibattito politico, sindacale e parlamentare degli anni Sessanta e le prime, timide, proposte di riforma. – 4. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. La felice stagione del riformismo coraggioso e dello «Statuto dei Lavoratori». – 5.Le dispute dottrinali che hanno preceduto la riforma processuale del 1973. – 6. La grande illusione dell’«uso alternativo del diritto» e della «giustizia di classe» – 7 .La Sesta Legislatura alla Camera dei Deputati. – 7.1. Le Sedute delle Commissioni permanenti riunite(Giustizia e Lavoro),in sede legislativa:18 ottobre 1972. – 7.2. Continua:19 ottobre 1972. – 7.3. Continua:25 ottobre 1972. – 7.4. Continua:26 ottobre 1972.– 8. La Sesta Legislatura al Senato della Repubblica. Le Sedute delle Commissioni permanenti riunite ( Giustizia e Lavoro),in sede redigente, del giorno 20 dicembre 1972 e dei giorni 24 gennaio, 15,28 e 29 marzo, 4,11 e 12 aprile 1973. – 8.1. La Seduta dell’Assemblea del 15 maggio 1973. – 9. La Sesta Legislatura. Dal Senato della Repubblica alla Camera dei Deputati: la Seduta dell’Assemblea del 28 luglio 1973. – 9.1. Continua: la Seduta dell’Assemblea del 30 luglio 1973. – 9.2. Continua: la Seduta dell’Assemblea del 1° agosto 1973. – 10. Epilogo. – 11. Qualche provvisoria, solo accennata conclusione.
1.Prologo.
«Non è allarmistico affermare che siamo al limite di rottura della credibilità della tutela giurisdizionale statuale, e come di contro si allarghi la fascia della «fuga dalla giustizia» della Repubblica fondata sul lavoro. Mentre interessanti esperienze processuali discendenti dall’applicazione dello «Statuto dei diritti dei lavoratori» indicano una diversa e positiva linea di tendenza a cui si ispirava e si ispira la nostra proposta. La denuncia e l’invito a intervenire rivolto al Parlamento dal mondo del lavoro non può più oltre rimanere inascoltato. Per queste considerazioni ci rivolgiamo a tutte le forze parlamentari democratiche, perché accolgano concordemente, come nella passata legislatura, la nostra proposta e diano ai lavoratori ed al paese questa nuova disciplina come una delle prime leggi della sesta legislatura».
È, questo, uno dei passi più significativi della Relazione che introduce la Proposta di Legge (d’ora innanzi PdL) d’iniziativa dell’On. Raffaello Lospinoso Severini (DC) ed altri, presentata alla Camera dei Deputati il 5 luglio 1972, con il n. 379, recante: «Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria», che, dopo le modifiche apportate dal Senato della Repubblica, e la definitiva approvazione da parte della Camera nell’Assemblea del 1° agosto 1973, diventerà quella che conosciamo come la legge 11 agosto 1973, n. 533( pubblicata nella G.U. 13 settembre 1973,n.237 ed entrata in vigore il 12 dicembre 1973).
Siamo alla VI Legislatura, ma il cammino di questa riforma inizia molto prima e si intreccia con iniziative parlamentari e governative, anche settoriali, ma soprattutto con alcune proposte di riforma organica del processo civile nel suo insieme. E con un (a dir poco) vivace dibattito tra gli studiosi della materia.
2. Il quadro normativo precedente sino agli anni Sessanta.
Prima di esaminare i fatti e gli antefatti della riforma del 1973,che interviene dopo circa trent’anni di applicazione del codice di procedura civile approvato con r.d. 28 ottobre 1940,n.1443( in vigore dal 21 aprile 1942),è necessario fotografare(è, questo, uno dei limiti di questa rassegna) il quadro normativo degli anni precedenti, anche perché molti sono gli aspetti di specialità della materia che ci occupa, acquisiti, nello scorrere del tempo, dalla disciplina normativa del passato.
La l. 15 giugno 1893, n. 295, che istituisce i Collegi dei probiviri per la conciliazione delle controversie di lavoro è da tutti riconosciuta come la prima, organica disciplina della Magistratura industriale speciale, che negli anni a venire è stata oggetto di altre riforme, sempre parziali e mai organiche (prima di questa legge, le controversie individuali di lavoro non formavano oggetto di regole speciali di competenza e nemmeno di rito). Ai Collegi, presieduti da un funzionario di nomina reale e composti da un numero variabile di membri, rappresentativi delle opposte Organizzazioni Sindacali (d’ora innanzi, OO.SS.) dei lavoratori e dei datori di lavoro, era attribuito il compito di promuovere il tentativo obbligatorio di conciliazione senza limiti di valore, di conoscere delle controversie sino al valore di duecento lire e di decidere – in via equitativa e su concorde richiesta delle parti – ogni controversia senza limiti di valore. Sono simili ai Collegi dei probiviri, per composizione e funzioni, le Commissioni arbitrali per l’impiego privato, istituite dal d.lgs. 1° gennaio 1916,n. 490. Sarà poi l’avvento del fascismo a segnare l’epilogo della magistratura probivirale, già con la l. 3 aprile 1926,n. 563( sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro), e poi, formalmente, con il r.d. 26 febbraio 1928, n. 471(sulla decisione delle controversie individuali di lavoro) – che soppresse sia i Collegi che le Commissioni di cui abbiamo detto – anche se veniva mantenuta, ma solo formalmente, una minima compatibilità tra l’istituzione probivirale e il regime fascista, nella misura in cui la collaborazione tra le parti in conflitto era assicurata proprio dai Collegi probivirali[1].
Troviamo, già in questo periodo, alcune criticità che saranno riscontrate dopo, in più occasioni. Le classi lavoratrici e operaie manifestavano apertamente la loro sfiducia nella giustizia borghese, che con le sue formalità non garantiva la giustizia sostanziale; e a questo si aggiungeva l’inadeguatezza del processo civile ordinario disciplinato dal Codice del 1865 rispetto alle esigenze, sempre più pregnanti, di tutela del lavoro svolto nelle fabbriche. Era, questa, una opinione diffusa anche tra i processualisti più autorevoli dell’epoca, come Enrico Redenti e Giuseppe Chiovenda: cominciava ad affacciarsi la proposta di un giudice specializzato nella materia del lavoro, che con le sue competenze tecniche potesse colmare le carenze riscontrate nei giudici ordinari; ed entrava in gioco anche la possibilità per l’organo giudicante di utilizzare nel processo i poteri istruttori d’ufficio e le massime di comune esperienza, senza osservare il vincolo del rigido meccanismo dell’onere della prova.
Tornando alla l. n. 563/1926, cit., attuata dal r.d. 1° luglio 1926, n. 1130, è questa che istituisce la Magistratura del Lavoro, alla quale viene affidato il compito di conoscere, in un unico giudizio di merito, le controversie collettive di lavoro, giuridiche ed economiche; le associazioni sindacali, id est quelle fasciste, acquistano personalità giuridica, così essendo attuato il “Patto di Palazzo Vidoni” del 2 ottobre 1925, in base al quale la Confederazione Generale dell’Industria e la Confederazione Generale delle Corporazioni Fasciste si riconoscono, reciprocamente, la rappresentanza delle maestranze e degli industriali, e tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le organizzazioni dipendenti dalle due Confederazioni.
La Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 21 aprile 1927 chiude il cerchio perché, con la Dichiarazione X, la competenza per le controversie individuali concernenti l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro viene devoluta alla Magistratura ordinaria, anche se con l’aggiunta di «assessori» designati dalle associazioni professionali interessate.
A seguire, con il r.d. n. 471/1928, cit., come sopra anticipato, vengono soppressi i Collegi dei probiviri e le Commissioni per l’impego privato, e la giurisdizione sulle relative controversie passa ai Pretori e ai Tribunali, in base alle comuni regole sulla competenza per valore che li distinguono, ma con un procedimento che prevede, su volontà espressa delle parti, l’assistenza di due cittadini esperti in materia di lavoro, uno appartenente alla categoria dei datori di lavoro, l’altro a quella dei lavoratori, con designazione obbligatoria. Le controversie di lavoro attribuite alla competenza dei magistrati ordinari, oltre a quelle oggetto di decisione degli organi soppressi, erano anche quelle derivanti da rapporti soggetti ai contratti collettivi di lavoro o ad altre norme, aventi valore od effetti di contratto collettivo ai sensi della l. n. 563/1926,cit., e del r.d. n. 1130/1926, cit. In sostituzione del r.d. del 1928 fu poi approvato il r.d. 21 maggio 1934, n. 1073, che, seppure con alcune divergenze, confermava l’impianto originario del sistema introdotto per la «giustizia del lavoro»[2].
Sono, questi, due provvedimenti normativi che anticipano il Codice del 1942. Non mancano le criticità, una fra tutte: la rottura del rapporto tra il giudice e la realtà della fabbrica, che comincerà ad essere ricomposta, molti anni dopo, con la previsione, ad opera dell’art. 28, l. 20 maggio 1970, n. 300 (d’ora in poi, «Statuto dei Lavoratori» o st. lav.) dello speciale procedimento per la repressione della condotta antisindacale.
Ai due provvedimenti normativi del 1928 e 1934, soprattutto a quest’ultimo, alcuni fanno risalire la nascita del processo del lavoro: un processo comunque «nuovo» rispetto a quello delineato dal Codice del 1865.
Ma è il modello processuale elaborato, tra la fine del 1918 e il 1919, da Giuseppe Chiovenda, incentrato sui principi di oralità, concentrazione e immediatezza (evocati continuamente nel corso del dibattito parlamentare e dottrinale che ha accompagnato, negli anni, l’approvazione della legge del 1973) che rappresenta la novità che fa la differenza rispetto al passato: in questo modello processuale ma anche nell’esperienza probivirale si rinvengono i primi rudimenti della riforma repubblicana, senza nulla togliere al r.d. del 1934, per quanto anch’esso mutuato, in parte, dal progetto chiovendiano [3].
Istituita la Commissione per il dopo guerra, sullo scorcio del 1918, fu affidata a Giuseppe Chiovenda la responsabilità, come presidente del gruppo per gli studi processuali, di tradurre le proposte di riforma, che negli anni precedenti aveva sostenuto, in formule legislative contenenti i principi generali e le regole tecniche indispensabili per l’applicazione concreta degli stessi.
Basta leggere il testo dei primi tre articoli del progetto (Titolo I. Disposizioni Generali), per rendersi conto della sua dirompente novità: «Oralità e concentrazione processuale. Art. 1. - Le cause si trattano oralmente all’udienza , salvo nei casi in cui la legge dispone che si provveda senza dibattimento.- Le prove e gli altri atti processuali si eseguiscono nel dibattimento orale, tranne che per loro natura o per disposizione data dall’autorità giudiziaria nei casi consentiti dalla presente legge debbano compiersi fuori d’udienza».– «Immediatezza. Art. 2.- Non possono concorrere alla pronunziazione della sentenza se non quegli stessi giudici che hanno assistito al dibattimento. – Gli atti e le prove di cui sia disposta l’esecuzione fuori d’udienza si compiono dagli stessi giudici che debbono pronunciare la sentenza o da uno di essi all’uopo delegato, a meno che sia necessario richiedere l’autorità giudiziaria d’altra giurisdizione».–«Scritture preparatorie.Art.3.-Il dibattimento orale è preparato mediante un atto scritto contenente la domanda giudiziale ed eventualmente con altre scritture di risposta e di replica».
Il Codice del 1942 contiene, nell’ultimo Titolo, il IV, del Libro Secondo(«Norme per le controversie in materia corporativa»),la disciplina delle controversie collettive(Capo I),delle controversie individuali (Capo II), di quelle di previdenza e di assistenza obbligatorie(Capo III)e delle controversie individuali nelle materie regolate da norme corporative o accordi economici. Il processo del lavoro, di fatto, è assorbito in quello civile ordinario, così venendo meno ogni residua previsione del giudice specializzato in materia di lavoro, o speciale che dir si voglia, derivante dai provvedimenti del 1928 e del 1934; e tuttavia il rito applicabile, assai diverso rispetto a quello ordinario, ha questi elementi qualificanti: tentativo obbligatorio di conciliazione; poteri istruttori d’ufficio; intervento di un rappresentante processuale speciale delle associazioni sindacali legalmente riconosciute per la tutela degli interessi di categoria; competenza in secondo grado attribuita alla Sezione della Corte di Appello, come Magistrato del Lavoro; intervento obbligatorio del pubblico ministero[4].
Merita anche segnalare che negli anni successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile acquista importanza l’attrazione nella competenza del Pretore delle controversie relative ai salariati fissi dell’agricoltura, del lavoro domestico e delle sezioni specializzate agrarie.
Intanto, con l’eccezione dell’appello, in primo grado si assisteva alla sistematica disapplicazione, da parte dei magistrati e degli avvocati, delle norme che maggiormente caratterizzavano quello che in nuce era il «rito del lavoro», con una ingiustificata diluizione della udienza di comparizione delle parti in una pluralità di udienze, l’eliminazione della forma orale del dibattimento e la prevalenza degli atti scritti; senza dire della possibilità di modificare la domanda, proporre nuove eccezioni e nuove prove, addirittura all’udienza di precisazione delle conclusioni(nella ricorrenza di «fini di giustizia» o «gravi motivi») e della possibilità per il giudice di concedere la provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado, se del caso con cauzione, solo in caso di domanda fondata su prova scritta o sussistenza di pericolo nel ritardo.
Emergeva, pertanto, l’esigenza di assicurare rapidità alle decisioni, diretto risultato anche di un procedimento snello e veloce, complicato, però, dalla collegialità del Tribunale.
3. Il dibattito politico, sindacale e parlamentare degli anni Sessanta e le prime, timide, proposte di riforma.
Negli anni ’60 era evidente, nella consapevolezza di tutti, la grave situazione di crisi in cui versava la giustizia, quella civile, in particolare, che si risolveva in denegata giustizia sociale.
Dopo l’approvazione della Costituzione, la discussione politica e parlamentare è incentrata, essenzialmente, su due elementi che la condizionano in misura considerevole: il divieto di istituzione di giudici speciali( giusto il precetto costituzionale dell’art. 102) e la, persistente, diffidenza delle classi lavoratrici e del movimento sindacale nei confronti della giustizia amministrata dallo Stato.
Nel corso della III Legislatura[5], il 4 febbraio 1960 l’On. Guido Gonella(DC), Ministro della Giustizia( d’ora in poi MdG), presenta alla Camera il Disegno di Legge (breviter, DdL) n. 1993, recante «Modificazioni del Codice di procedura civile e delle disposizioni di attuazione dello stesso codice», che, dopo l’annunzio dato in Aula l’8 febbraio, viene assegnato, in sede referente, alla Commissione IV(Giustizia) il successivo 16 febbraio.
Si tratta della prima proposta di riforma organica del codice di procedura civile, nella quale acquista particolare rilievo anche la revisione delle norme sulle controversie individuali di lavoro(con gli artt. 27-29) e di quelle in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie(con l’art. 30) ,al quale il Ministro dedica l’intero par. 24 della sua Relazione illustrativa, indicando due esigenze fondamentali: la prima, relativa alla necessità di un aggiornamento normativo conseguente alla cessata organizzazione sindacale e corporativa, senza, comunque, interferire su quello che sarà il nuovo assetto sindacale con la piena attuazione dei precetti costituzionali degli artt. 36 e 39; la seconda, relativa all’opportunità di un ritorno alle origini, al r.d. n. 1073/1934,cit., che aveva avuto effetti positivi nella sua applicazione pratica, mantenendo il contesto unitario del processo civile, nel quale si innestano le nuove norme, senza creare un vero e proprio procedimento speciale.
In questa prospettiva sono adottati «alcuni accorgimenti tendenti ad accelerare la definizione delle controversie, con una migliore tutela degli interessi del lavoratore, il quale, ovviamente, è la parte che in maggior misura è oggi pregiudicata dall’eccessiva lentezza del procedimento». E prendono forma molte di quelle che poi saranno le disposizioni della riforma del 1973, talvolta con diversa prospettazione: l’ambito di applicazione esteso ai dipendenti di datori di lavoro non imprenditori e di enti pubblici economici; il preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione, come condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria; resta la competenza per valore del Giudice Conciliatore (che si porta dietro il rito ordinario),sconfessando la necessità, prima prefigurata, di una adeguata preparazione tecnico-professionale del magistrato per tutte le controversie; il giudice, al quale è attribuito il potere di esperire, ma in maniera facoltativa, il tentativo di conciliazione, conserva i suoi poteri istruttori d’ufficio; è una novità la pronuncia, in corso di causa di primo e secondo grado, di ordinanze di pagamento delle somme non contestate; le norme sul passaggio di rito, da ordinario a speciale e viceversa, vengono modificate e integrate, ma il meccanismo originario resta; l’introduzione di una norma che consente la valutazione presuntiva delle prestazioni, in mancanza di esaurienti elementi di prova, viene giustificata dal fatto che «specialmente nell’ambito di imprese di limitata entità, le prestazioni vengono adempiute correntemente, senza che ne sia curata la precisa registrazione o certificazione da parte dell’imprenditore», così prendendo a prestito quanto previsto dall’art. 265, comma 2, del c.p.c. all’epoca vigente, per le partite di rendiconto non sorrette da ricevuta, ma «verosimili e ragionevoli»; in sede di impugnazione è il Tribunale, e non la Corte di Appello, il giudice competente con riferimento alle sentenze del Giudice Conciliatore; con deroga espressa al divieto di cui all’art. 806 viene attribuita alle parti la facoltà di compromettere in arbitri le controversie di lavoro; per le controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria la competenza viene distribuita tra Pretura e Tribunale in base al valore.
Questo DdL sarà oggetto di discussione (anche fuori dal Parlamento) ma mai approvato per la fine della legislatura.
In stretta connessione con questa iniziativa governativa deve essere considerato anche il DdL n. 557 presentato il 10 ottobre 1963, alla Camera, nel corso della IV Legislatura[6], dal MdG del I Governo presieduto dall’On. Giovanni Leone(DC), Sen. Giacinto Bosco(DC), recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma dei codici»: dopo il deferimento in data 12 dicembre 1963 alla IV Commissione(Giustizia) fu ritirato il 6 aprile 1965 dall’On. Oronzo Reale(PRI), a quel tempo MdG del II Governo presieduto dall’On. Aldo Moro(DC).
Merita segnalare, a questo punto, il “Questionario” inviato il 15 maggio 1965 dal MdG dell’epoca, On. Reale, alle OO.SS. invitandole ad esprimere, entro un mese, il loro parere sui temi più importanti della riforma del codice di procedura civile in tema di controversie di lavoro; si tratta di uno stralcio ( dalla n. 32 alla n. 39) delle molte domande rivolte anche alle Facoltà universitarie e alla Magistratura [7]. Un procedimento di consultazione delle parti sociali non del tutto insolito in quel periodo; un anno prima, infatti sempre nel corso del II Governo Moro, il Ministro del Lavoro (d’ora innanzi, breviter, MdL), On. Umberto Delle Fave(DC), aveva avviato l’ascolto delle OO.SS., convocandole per il 13 novembre 1964 e somministrando anch’egli un “Questionario” su tre temi cruciali: licenziamenti individuali, Commissioni interne, diritti sindacali in azienda[8].Si trattava dell’istruttoria su quello che già veniva presentato come «Statuto dei Lavoratori».
Questi i singoli punti oggetto del “Questionario” del 1965 sulla riforma processuale: «32[1]) Se sia possibile procedere alla revisione delle disposizioni che disciplinano le controversie individuali di lavoro, ancora improntate al sistema della cessata organizzazione sindacale e corporativa, senza interferire su quello che sarà il nuovo assetto sindacale, allorché avranno trovato piena applicazione le norme costituzionali.-33[2]) Se sia opportuno creare un vero e proprio procedimento speciale oppure se sia preferibile inquadrare il processo del lavoro nell’alveo del procedimento ordinario.-34[3]) Se sia opportuna una precisazione dell’ambito di applicazione delle norme del processo del lavoro, soprattutto in riferimento ai rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica in regime di concorrenza. -35[4])Quali accorgimenti tecnici siano utilizzabili per favorire una più sollecita definizione delle controversie e cosi garantire una migliore tutela degli interessi del lavoratore.-36[5])Se sia opportuno prevedere il tentativo obbligatorio di conciliazione come condizione necessaria per l’introduzione del giudizio.-37[6])Se sia opportuno attribuire al giudice il potere di disporre, anche in sede istruttoria, il pagamento delle somme non contestate, indicando altre eventuali soluzioni che consentano un più sollecito conseguimento di acconti sulle somme dovute al prestatore d’opera e di valutare, in via presuntiva, la prestazione, quando non sia possibile raggiungere altrimenti la prova del suo ammontare.-38[7])Se sia opportuno conferire alle parti il potere di compromettere in arbitri le controversie di lavoro.-39[8])Se sia, allo stato, possibile una revisione delle norme che disciplinano le controversie collettive di lavoro al fine di adeguarle ai nuovi principi in tema di ordinamento sindacale».
Il nodo fondamentale era rappresentato dal fatto che, per la tesi dominante, anche negli ambienti governativi e parlamentari, fortemente avversata a sinistra, si riteneva che la risoluzione delle controversie di lavoro dovesse essere affidata al giudice ordinario, nelle forme, di norma, del processo ordinario, anche per evitare le preclusioni e le decadenze imposte da un rito speciale e, per questo, accelerato, per consentire la piena esplicazione del contraddittorio tra le parti.
Non c’era unità di vedute nemmeno nelle organizzazioni sindacali: in estrema sintesi la CGIL era favorevole alle sezioni specializzate in materia di lavoro, osteggiate dalla CISL, contraria anche al rito speciale, mentre la UIL era favorevole ma solo per le controversie di natura eminentemente tecnica.
Non solo la CGIL si espresse a favore di «una legge speciale ad hoc, indipendentemente dalla riforma generale del codice di rito, nella speranza di sottrarre almeno le liti del lavoro al comune destino», ma anche la CISNAL e la Corte dei Conti. Negativa fu la posizione espressa dalla maggioranza degli organismi interpellati: innanzitutto CISL e UIL, e poi CSM, Corte di Cassazione, Avvocatura dello Stato, la maggior parte degli organismi rappresentativi del libero Foro[9].
Particolarmente significativa è la posizione espressa dalla CGIL (che porta la firma di Vittorio Foa, prestigioso dirigente sindacale ed anche Deputato del PSI) che tiene a precisare, in via preliminare, che «l’amministrazione della giustizia in Italia, tuttora regolata da norme per nulla adeguate allo spirito e alla lettera della Costituzione democratica, richiede profonde riforme e radicali innovazioni, che adeguino le strutture giudiziarie alle attuali condizioni politico-economico-sociali del nostro paese, riforme di cui alcuni lineamenti sono anche stati recentemente prospettati al governo da una commissione di tecnici». Comunque sia, è, quella della CGIL, una risposta, per così dire, interlocutoria, perché essa tiene subito a precisare che restano, comunque, da affrontare in maniera più approfondita le cause della crisi della giustizia e da esaminare le soluzioni più adeguate, come ad esempio: l’elettività dei giudici; l’eventuale istituzione di una giurisdizione probivirale; la partecipazione ampia di consulenti tecnici ed esperti; l’ istituzione di sezioni specializzate.
In estrema sintesi, queste sono le risposte della CGIL(che abbiamo potuto esaminare direttamente attingendo anche all’Archivio Storico della CGIL e alla Biblioteca Luciano Lama, su supporto digitale).
Con riferimento alle controversie di lavoro: l’attuazione dell’art. 39,Cost., è auspicabile, per attribuire efficacia generale obbligatoria ai contratti collettivi ( così da non dover ricorrere alla determinazione giudiziale della retribuzione sufficiente), ma la legge processuale può anche prescindere da ciò, per consentire la partecipazione sindacale al processo; viene espresso parere favorevole all’attuazione, in via transitoria, della specializzazione del giudice e di regole che consentano ampi poteri al giudice per una sollecita definizione del giudizio e rapidità e semplicità del procedimento (giudice monocratico anche in Tribunale e aumento della competenza per valore del Giudice Conciliatore; abolizione dell’intervento del pubblico ministero; estensione del rito del lavoro anche ai rapporti di lavoro domestico, autonomo, di agenti, di compartecipanti in agricoltura ecc., per uniformare la competenza per materia); competenza del giudice del lavoro per tutti i dipendenti pubblici, a prescindere dall’ente datore di lavoro, svolgenti attività economica o prevalentemente economica, in assenza di formale rapporto di pubblico impiego; procedimento orale ( tranne gli atti introduttivi del giudizio, con indicazione a pena di decadenza dei mezzi istruttori); unica udienza pubblica dopo l’istruttoria, con lettura del dispositivo; termini brevi; interrogatorio libero delle parti; efficacia probante della mancata presentazione da parte del datore di lavoro di libri paga e registrazioni obbligatorie per legge, che siano oggetto di ordine di esibizione; eliminazione di ogni condizione di proponibilità; potere del giudice di sanare qualsiasi nullità; modifica dell’art. 2113, cod. civ., conferendo efficacia alla messa in mora nei confronti del datore di lavoro da parte del sindacato e del lavoratore; appello al Tribunale contro le sentenze del Pretore; redistribuzione dei giudici in relazione all’effettivo numero dei procedimenti.
In particolare, sul tentativo di conciliazione la posizione è favorevole alla sua previsione ma con esperimento facoltativo, ben potendo il giudice disporlo in ogni grado e stato del procedimento, anche demandandolo alle associazioni sindacali; ferma restando la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione, comunque, e sempre in via facoltativa, in sede sindacale, con redazione di verbale esecutivo, impugnabile solo avanti la Corte di Cassazione.
Viene espressa una posizione favorevole con riferimento alle ordinanze, non impugnabili, di pagamento in corso di causa, per le somme accertate come dovute o nei limiti di quanto provato, con efficacia di titolo esecutivo; ed anche con riferimento alla valutazione equitativa del giudice, in caso di impossibilità della prova della prestazione dovuta.
Viene confermato il divieto di compromettere le liti di lavoro in arbitrato, tranne che per quanto previsto, in alcune specifiche materie, come arbitrato irrituale, dai contratti collettivi.
Sono da lasciare riservate alla sede sindacale le controversie collettive di lavoro.
Con riferimento alle controversie previdenziali: rinnovo non obbligatorio in appello dell’ accertamento tecnico; esclusione del previo esperimento del procedimento amministrativo come condizione di proponibilità della domanda; abrogazione di ogni decadenza per decorrenza dei termini per il procedimento amministrativo; anticipazione delle spese della consulenza tecnica a carico degli enti previdenziali; compensazione delle spese legali in caso di soccombenza – fatta eccezione per la lite temeraria - del lavoratore; esclusione dell’arbitrato.
La CISL parte dal presupposto che ogni riforma processuale debba tenere in debito conto l’ordinamento sindacale per come si è sviluppato ( rispetto a quanto ipotizzato negli artt. 39 e 40, Cost.), ispirato ai principi di libertà e autonomia e fondato sulle libere associazioni di lavoratori e imprenditori e sul libero esercizio dell’attività contrattuale. È contraria ad un procedimento speciale ( anche solo per il rito), per giunta con collegi giudicanti integrati da consulenti tecnici nominati dalle associazioni di categoria; e tuttavia auspica adeguamenti per snellire e rendere meno oneroso il processo civile ordinario. Nello specifico, richiama il precedente parere espresso dal CNEL nel 1960 ( anche con riferimento all’estensione della competenza ai rapporti di lavoro dei dipendenti da enti pubblici economici e per i collaboratori coordinati e continuativi), ma è contraria all’intervento in causa delle associazioni sindacali, come pure è contraria alla obbligatorietà del preventivo tentativo di conciliazione davanti agli Uffici del Lavoro e in sede sindacale, quale presupposto necessario per l’introduzione della causa, ferma restando la facoltà per il giudice di esperirlo in ogni fase e grado del processo. La CISL punta allo sviluppo di autonome procedure in sede contrattuale, di conciliazione e arbitrato, con l’eliminazione di tutti gli ostacoli e i divieti posti, soprattutto in materia di arbitrato, essendo necessaria anche una riscrittura dell’art. 2113 cod.civ. che disciplina in termini rigidi l’indisponibilità dei diritti dei lavoratori. Nella competenza delle libere associazioni sindacali deve rimanere la composizione delle controversie collettive, anche di quelle relative alla interpretazione e all’applicazione delle norme collettive. La tesi sostenuta dalla CISL è fin troppo chiara: la riforma del processo del lavoro deve essere limitata solo ai problemi tecnici, organizzativi e funzionali, che riguardano strettamente il funzionamento del processo come strumento di composizione delle liti e di accertamento del diritto a disposizione dei cittadini.
Anche la UIL, che avverte l’esigenza di rendere l’iter delle controversie di lavoro semplice, spedito, economico ed orale, anche attraverso l’intervento delle associazioni sindacali per agevolare la composizione preventiva delle liti, è contraria all’attuazione di un procedimento speciale, ma apre all’affiancamento di giudici onorari, esperti della materia, soprattutto per gli organi giudicanti di composizione collegiale; in ogni caso ripristinando la ordinaria competenza per valore in primo grado divisa tra Giudice Conciliatore, Pretore e Tribunale. Riprendendo il parere del CNEL del 1960, la UIL è favorevole alla ricomprensione nella competenza per materia di tutti quei rapporti che, pur non essendo in senso stretto di lavoro subordinato, si concretino in una prestazione d’opera coordinata e continuativa, e ai dipendenti da enti pubblici economici. La UIL auspica una riforma organica del processo civile e la previsione, anche nello svolgersi delle udienze e degli adempimenti istruttori, di termini perentori, tali da responsabilizzare anche i magistrati. Viene espresso favore con riferimento al tentativo obbligatorio di conciliazione, garantendo un intervento fattivo alle associazioni sindacali; alle ordinanze di pagamento delle somme non contestate(con una formula similare in sede di conciliazione davanti agli Uffici del Lavoro, che apra al decreto ingiuntivo) e alla determinazione in via equitativa delle somme dovute. Per l’arbitrato, solo quello irrituale, il parere espresso è favorevole, ma a condizione che detta procedura sia prevista dai contratti collettivi. Per la disciplina delle controversie collettive di lavoro la UIL si esprime per l’attuazione dell’art. 39,Cost.
Più complesso è il parere espresso, nella seduta del 24 giugno 1965, dalla Commissione per il lavoro, la previdenza sociale e la cooperazione del CNEL, che richiama, in molti punti, il precedente parere espresso il 25 novembre 1960.
La riforma della parte del codice di procedura civile( artt. 409-473) è ritenuta urgente e indifferibile, e si può realizzare anche con l’innesto di norme nuove nel corpo del Codice, per accelerare il processo, da anticipare anche con una legge speciale, tenuto conto che riguarderebbe solo le controversie individuali di lavoro. La scelta cade sull’adozione di un rito speciale, che lasci quello del lavoro nell’alveo del processo civile ordinario; non c’è contrarietà all’attribuzione della competenza anche al Giudice Conciliatore(con limiti di valore maggiorati), ma tra i consiglieri è emersa una contrapposizione tra chi ritiene possibile, per i Collegi giudicanti, solo l’apporto di consulenti oppure l’affiancamento, in pianta stabile, di esperti con funzione giudicante; c’è apertura per le informative sindacali; viene esclusa la competenza funzionale della Corte di Appello. In Cassazione il sindacato sui contratti collettivi viene ammesso solo per quelli corporativi o postcorporativi recepiti da leggi delegate; viene, comunque, riconosciuto il valore della uniformità interpretativa dei giudici di legittimità. Con riferimento alle controversie previdenziali, tralasciando le questioni relative alla distribuzione della competenza funzionale tra primo e secondo grado, i punti rilevanti sono essenzialmente due: superamento dell’improponibilità della domanda collegata all’esaurimento dei procedimenti amministrativi; affermazione della competenza territoriale legata alla residenza dell’assistito o al luogo in cui è avvenuto l’infortunio o si è verificata la malattia professionale. Per il CNEL l’identificazione delle controversie individuali di lavoro deve essere oggettiva; viene ribadito quanto già specificato nel precedente parere e viene meglio specificato il riferimento ai dipendenti degli enti pubblici economici(eliminando ogni riferimento all’inquadramento nelle associazioni sindacali, fonte di innumerevoli discussioni e di acuti dissensi giurisprudenziali, e la salvezza della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, pur riconoscendo l’esistenza di una residuale area di interessi legittimi giustiziabili).
Per quanto riguarda il procedimento questi sono i punti rilevanti(rispetto al precedente parere che proponeva alcuni punti fermi: aumento dell’organico dei magistrati; preclusioni e decadenze per le attività difensive delle parti; riduzione dei termini processuali e degli intervalli tra una udienza e l’altra; sentenza pronunciata dopo la decisione della causa e succintamente motivata, da depositare in tempi brevi): accentuazione del principio inquisitorio rispetto a quello dispositivo nell’assunzione delle prove; obbligatorietà dell’interrogatorio libero; intervento nel processo dei rappresentati delle associazioni sindacali, non solo per le informative su interpello del giudice, ma addirittura con la rappresentanza processuale conferita ai dirigenti sindacali o loro delegati. Il parere sul preventivo tentativo di conciliazione è favorevole, davanti agli Uffici del Lavoro e in sede sindacale, ma è emersa una diversità di vedute sulla sua obbligatorietà, ritenendosi, peraltro, da alcuni consiglieri la necessaria previsione nei contratti collettivi per quello in sede sindacale; in ogni caso deve essere assicurato il valore esecutivo al verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale; emerge anche la proposta di costituire, presso gli Uffici del Lavoro, uno speciale Collegio di conciliazione delle controversie di lavoro affiancando al funzionario degli stessi, con il ruolo di presidente, due rappresentanti delle associazioni di categoria contrapposte attinti da appositi albi. Resta ferma, ovviamente, l’ampia facoltà di esperire il tentativo di conciliazione, sin dalla prima udienza, da parte del giudice, in ogni stato e grado del processo. Il fatto che il tentativo di conciliazione in generale non sia tecnicamente connesso alla transazione giustifica la sottrazione della conciliazione al meccanismo dell’art. 2113, cod. civ. Per quanto riguarda i tempi del pagamento delle somme dovute al lavoratore: il parere è favorevole per le ordinanze interinali; è invece contrario per la provvisoria esecutività ex lege(la cui concessione deve rimanere legata ai casi previsti dalla legge e alla discrezionalità del giudice), potendosi ovviare con la richiesta di una provvisionale. Perplessità e diversi punti di vista sono riscontrati sulla valutazione equitativa delle prestazioni, per la violazione del principio di certezza del diritto e delle regole sulle prove che caratterizzano il giudizio civile. Rimane la contrarietà all’abolizione del divieto di arbitrato, anche nel caso di clausola compromissoria contenuta nel contratto collettivo, perché ,per una ragione d’ordine generale, non è opportuno sottrarre le controversie di lavoro al giudice ordinario, posto che anche per l’arbitrato sono invocabili tutte le ragioni che si oppongono all’ammissibilità della transazione(mentre c’è apertura per la conservazione e il miglioramento dell’arbitrato dei consulenti tecnici, espressione di una giurisdizione di equità).
Con riferimento alle controversie collettive, è interessante la distinzione che il CNEL pone tra quelle giuridiche ( sull’interpretazione del contratto collettivo stipulato) che legittimerebbero l’associazione sindacale a proporle davanti il giudice ordinario contro quella contrapposta, e quelle economiche, il cui componimento è rimesso esclusivamente all’autonomia delle parti interessate.
Nel corso della IV Legislatura[6] alla Camera furono presentate ben sei proposte di legge di iniziativa dei Deputati Antonio Zoboli (PCI) ed altri (n. 847 del 18 dicembre 1963), Alfredo Amatucci(DC) ed altri (n.1057 del 3 marzo 1964),Alessandro Butté (DC) ed altri (n.1208 del 9 aprile 1964), Simone De Florio(PCI) ed altri (n. 1377 del 14 maggio 1964 ),Bruno Storti (DC) ed altri (n.1432 del 3 giugno 1964 ),Uberto Breganze e Erminio Pennacchini - entrambi della DC-( n. 2620 del 30 settembre 1965), che furono raggruppate e, dopo approfondita discussione(che si è svolta, però, a partire dal 1967).
Due di queste, la n. 847/1963 e la n. 1057/1964,erano di ampio contenuto, avendo ad oggetto la riforma delle norme del codice di procedura civile concernenti le controversie di lavoro. Le altre avevano oggetti specifici:la n.1208/1964, la modifica dell’art. 282, cod. proc. civ., per rendere provvisoriamente esecutive le sentenze appellabili; la n. 1377/1964, la trattazione extra giudiziale; la n. 1432/1964,la conciliazione e l’arbitrato; la n. 2620/1965, l’attribuzione della competenza di appello al Tribunale.
Il 1° marzo 1968 in Aula venne dato l’annunzio dell’avvenuta approvazione, in sede legislativa( dopo lunghe discussioni) da parte delle due Commissioni permanenti riunite, IV (Giustizia) e XIII (Lavoro), di un testo unificato recante: «Modificazioni delle norme concernenti le controversie di lavoro»(847-1057-1208-1377-1432-2620).
Il Governo, pur ritenendo opportuno affrontare la riforma dei codici in generale, e di quelli di procedura in particolare, in maniera organica e completa, aderì ad uno stralcio della materia, non solo per addivenire ad una rapida soluzione del problema delle controversie di lavoro, ma anche per la consapevolezza che queste rappresentavano, comunque, un corpo unico e completo, tale da essere oggetto di una riforma settoriale nell’ambito del codice di procedura civile.
Il DdL n. 2848, trasmesso al Senato il 5 marzo 1968, fu assegnato, in sede deliberante, il giorno successivo alla II Commissione (Giustizia) e il giorno dopo fu rimesso all’Assemblea(nel tentativo di farlo approvare in tempi rapidissimi), ma non completò il suo iter per la fine della Legislatura( 4 giugno 1968)[10].
Ci fu un altro tentativo dello stesso Ministro, On. Gonella, abortito anche questo, di portare a regime la riforma, proprio con riferimento alle controversie di lavoro: il 14 ottobre 1968, nella V Legislatura[11], egli presentò, sempre alla Camera, il DdL n. 524 recante «Modificazioni alle norme del codice di procedura civile concernenti le controversie di lavoro».
L’iniziativa governativa del 14 ottobre 1968 si collega direttamente alla riforma organica del processo civile, secondo un cliché noto-ripresentazione al Parlamento del testo, rielaborato, della precedente proposta,«[m]a la risoluzione del problema delle controversie di lavoro è di tale urgenza ed esigenza da consigliare un provvedimento immediato; uno stralcio della riforma organica era pronto al solo fine di agevolare una più rapida approvazione delle norme dedicate alle controversie di lavoro». Questo si legge nella Relazione illustrativa al DdL, che non nasconde, però, «i possibili inconvenienti di innovazioni parziali e settoriali che spesso turbano l’armonicità del sistema processuale e si risolvono in un ulteriore pregiudizio per la sua funzionalità e per la sua pratica efficienza».
Nella stessa legislatura furono presentate alla Camera le proposte di legge, alcune su specifici profili, di iniziativa dei Deputati Francesco Cacciatore(PSIUP) ed altri(n. 903 del 24 gennaio 1969), Franco Coccia(PCI) ed altri ( n. 966 del 31 gennaio 1969), Raffaele Allocca e Giulio Bernardi - entrambi della DC - (n.1423 del 9 maggio 1969), Luigi Girardin(DC) ed altri(n. 1729 del 22 luglio 1969), ed ancora Cacciatore ed altri( n. 3010 del 26 gennaio 1971).
Le PdL n. 903/1969 e n. 966/1969 avevano ad oggetto le modificazioni delle norme del codice di procedura civile in materia di controversie individuali di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria; la PdL n. 1423/1969 riguardava la modifica del terzo comma dell’art. 75, O.G., nella parte in cui prevedeva l’intervento obbligatorio del P.M. nelle cause collettive ed individuali di lavoro(ferma restando la sua partecipazione «negli altri casi stabiliti dalla legge»); la Pdl n. 1729/1969 interveniva per la modifica della l. 2 aprile 1958,n.319, per riconoscere l’esonero da ogni spesa e tassa nei giudizi di lavoro, anche quelli di valore superiore ad un milione di lire; allo stesso scopo era diretta la PdL n. 3010/1971, con riferimento a tutte le controversie, non solo giudiziali, anche in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, con un articolato autonomo e l’abrogazione di tutte le norme vigenti incompatibili.
Nella seduta del 23 luglio 1971,in riunione comune e in sede legislativa, delle Commissioni permanenti IV(Giustizia) e XIII(Lavoro), unitamente al DdL n. 524/1968, tutte le sopra menzionate PdL furono approvate in un testo unificato recante «Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie»(524-903-966-1423-1729-3010), come DdL n. 1885.
Leggendo la scheda dei lavori preparatori si contano due sedute di discussione in Commissione IV (Giustizia) e ben 14 sedute di discussione nelle Commissioni riunite IV (Giustizia) e XIII (Lavoro).
Tra i tanti interventi della discussione parlamentare, merita dare conto di quello dell’On. Lospinoso Severini che ammoniva sulla necessità di realizzare «la più schietta e leale collaborazione delle parti, dei loro patroni e dei giudici, i quali tutti debbono comprendere i motivi animatori della riforma e gli scopi che con la stessa s’intendono perseguire»; per questi motivi invitando, da un lato, le parti e i loro avvocati a non indulgere in tentazioni curialesche, ormai superate dai tempi; dall’altro, i giudici a vigilare per fare rispettare le nuove norme(facendo uso anche dei nuovi poteri loro assegnati):essi, «attraverso un’approfondita conoscenza dei termini della lite, devono sapere diventare i veri protagonisti del processo, orientando le parti nella discussione dei punti essenziali della causa, e contemperando ,con saggezza, ma anche con decisione, le reciproche esigenze». E, sul piano organizzativo, aggiungeva: «Le caratteristiche del nuovo rito impongono alcuni provvedimenti indispensabili, quali la predisposizione di mezzi e di personale sufficiente per espletare, in tempi brevi, tutti gli adempimenti di cancelleria, la continua presenza del cancelliere in udienza, essendo il procedimento caratterizzato dalla oralità e dalla concentrazione dei mezzi istruttori, per cui è necessaria una fedele verbalizzazione , la disponibilità di aule di udienza, in modo che il giudice, con tranquillità, possa instaurare un vero contatto con le parti ed esercitare effettivamente i suoi poteri di direzione e di controllo dell’istruttoria, il reperimento di un numero di giudici sufficiente, che costituisce la condizione prima per l’attuazione della riforma».
Va detto, anche, che le Commissioni parlamentari hanno preso in seria considerazione anche le varie istanze proposte dalle associazioni di categoria interessate, che hanno pure svolto una istruttoria interna, prima di esprimere il loro parere in previsione della definitiva approvazione del DdL, come testo unificato.
A questo proposito deve essere segnalata la lettera Circolare n. 2849 in data 15 gennaio 1971 che la CGIL aveva indirizzato alle Segreterie di tutte le istanze territoriali, per acquisire il loro parere, previa illustrazione del provvedimento, richiamando l’attenzione sulla necessità di una riforma urgente per dare ai lavoratori garanzie di giustizia rapida e sostanziale.
In particolare, merita evidenziare (senza, però, che esistesse una linea concordata tra le OO. SS.) da una parte, il suggerimento dato, a livello centrale, per mantenere, con il ricorso alle procedure arbitrali, la soluzione delle vertenze nell’ambito contrattuale, conseguendone la necessità di abrogare il divieto previsto dagli artt. 806-808, cod. proc. civ.; dall’altra, la proposta di privilegiare, comunque, la giustizia statale, pur favorendo le soluzioni transattive di natura contrattuale, nell’ambito dell’art. 2113, cod. civ.; con la soluzione intermedia della giurisdizione probivirale.
La CGIL, sempre a livello centrale, espresse il suo parere favorevole alla proposta legislativa, indubbiamente migliorativa rispetto ad altri provvedimenti, anche se non tutte le richieste sindacali erano state accolte, ed invitava le istanze territoriali a comunicare le loro osservazioni sugli specifici punti.
Venne, però, prospettato un parere negativo sulla affermata competenza del Pretore, anche per le cause in materia di prestazioni previdenziali, infortuni e malattia, così recependo la posizione espressa dagli Istituti di Patronato, non solo della CGIL ma anche di CISL, UIL e ACLI, per la riscontrata diminuita garanzia a favore dei lavoratori per la tutela processuale dei loro diritti, anche per l’applicazione di una procedura con obiettive difficoltà che rendevano più difficile e onerosa la difesa in giudizio, con decadenze e preclusioni in materia di prove, più rigorose di quelle ordinarie; per giunta con la fissazione della competenza territoriale in capo al Pretore delle grandi città, dove si trovava la sede degli Enti Previdenziali; fermo restando che, essendo indisponibili, i diritti previdenziali dovevano rimanere, comunque, sottratti a decisioni arbitrali stragiudiziali o a procedure vincolanti.
Fatta questa premessa, la richiesta formulata alle istanze territoriali della CGIL era limitata, in particolare, a questi punti, strategici, della riforma proposta: competenza del giudice ordinario per i rapporti di lavoro dei dipendenti da enti pubblici; competenza del Pretore, anche per le controversie previdenziali; opportunità e limiti della partecipazione delle associazioni sindacali al processo; procedure di conciliazione e arbitrato.
E tuttavia restavano affermati questi punti, imprescindibili(e, pertanto, indiscutibili), che riassumiamo: accettazione di quella proposta, come prima tappa di una riforma più ampia, che conferisse alle rappresentanze dei lavoratori maggiori poteri nell’amministrazione della giustizia; facoltatività di tutte le procedure conciliative ed arbitrali, sia in sede sindacale che amministrativa; salvaguardia dei diritti indisponibili ed inderogabili dei lavoratori; garanzia dei crediti di lavoro da decadenze, prescrizioni, svalutazione monetaria, ordine dei privilegi nel fallimento; garanzia dei diritti dei lavoratori da rigorose decadenze in materia di prova nel processo; piena impugnabilità in sede giudiziaria dei lodi arbitrali per violazione di diritti indisponibili ed inderogabili dei lavoratori; esclusione di qualsiasi obbligo per le OO.SS. di partecipare al processo; impegno ad assumere i provvedimenti necessari per consentire agli uffici giudiziari di svolgere effettivamente i compiti che ad essi assegnava la riforma processuale.
Il DdL n. 1885, approvato dalla Camera, fu trasmesso il 22 settembre 1971 al Senato, come annunziato in aula il successivo 23 settembre e fu assegnato alla II Commissione (Giustizia), in sede redigente, senza poter ottenere l’approvazione definitiva per lo scioglimento anticipato delle due Camere.
Per il contesto generale, va dato conto anche delle Relazioni annuali sullo stato della giustizia del 1970 e 1971 nelle quali il CSM aveva denunciato la crisi della giustizia civile collegandone la risoluzione proprio alla riforma del processo del lavoro e rilevando (in particolare in quella del 15 aprile 1970) che il lavoratore è spesso costretto ad attendere tempi lunghi per ottenere quello che gli spetta, con l’aggravante che si tratta di mezzi necessari per la soddisfazione delle più elementari ed indifferibili esigenze di vita, proprie e della sua famiglia[12].
Nella Relazione del 1971 si analizzava il cambiamento della domanda di giustizia da parte del lavoratore che «si pone sempre più non solo come espressione di interessi individuali ma come perseguimento di un’ampia solidarietà collettiva: in altri termini si tende a ricorrere al giudice, con l’appoggio delle organizzazioni sindacali, per ottenere sentenze paradigmatiche su fatti esemplari e strategici, che diventano perciò ampio patrimonio collettivo, utilizzabile anche in altre situazioni similari».
4. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. La felice stagione del riformismo coraggioso e dello «Statuto dei Lavoratori».
Dobbiamo, a questo punto, dare conto, seppur brevemente, del contesto storico, socio-economico e politico della stagione delle riforme degli anni ’70, un “secolo breve” e tuttavia intenso, «una specie di età dell’oro», che ha avuto inizio con le lotte del 1968-1969, di grandi conquiste per i lavoratori, che «divennero consapevoli del potere dell’azione collettiva e acquistarono una nuova autocoscienza»[13].
Lo “Statuto dei Lavoratori” è la punta di diamante di questo periodo[14].
Gino Giugni, figura carismatica, un intellettuale di grande preparazione giuridica, che conosce bene le cose dell’economia e padroneggia, come pochi, le dinamiche contrattuali e sindacali, è l’elemento di sintesi di questa stagione [15].
Nel 1968, Giugni, diventato, nel I Governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor, Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro rappresentato dal Senatore socialista Giacomo Brodolini, completa il percorso che, partendo dalla l. 15 luglio 1966,n. 604, porterà il Parlamento all’approvazione della l. n. 300/1970, cit.
Quello di Giugni non è solo un progetto giuridico ma è anche, e soprattutto, un “progetto politico”[16]. Sono gli anni ruggenti del diritto del lavoro, come ha riconosciuto lo stesso Giugni, dove «un’innovazione chiamava l’altra»[17].
E non è un caso che, anche dietro le proposte di riforma del processo del lavoro ci sia sempre Giugni che, terminato il suo compito di Capo dell’Ufficio Legislativo del MdL, resta, quale suo civil servant, come consulente giuridico, che, in questa nuova veste, si avvale della proficua collaborazione di un processualcivilista comparatista, Mauro Cappelletti, allievo di Piero Calamandrei, per completare, insieme al MdG, la riforma che porterà all’approvazione della legge n. 533/1973. È, questo, un Giugni inedito, poco conosciuto, che merita ricordare, anche con un episodio autobiografico, molto significativo, raccontato nella sua Intervista rilasciata a Pietro Ichino nel 1992:«per questa legge ho un feeling tutto particolare: perché mio padre passò gli ultimi anni della sua vita a rodersi la bile, selvaggiamente sfruttato dagli avvocati, in una interminabile causa contro il suo datore di lavoro. La riforma della giustizia del lavoro fu per me un omaggio alla sua memoria. Se oggi le cose vanno un po' (ma solo un po’) meglio, lo vedo anche come un riscatto delle angosce di tanti pensionati che non riuscirono mai a vedere la luce di una sentenza, nel tentativo di avere giustizia dei torti subiti (o pensati come tali: sul piano psicologico è lo stesso) durante la vita di lavoro»[18].
Come è noto, la riforma processuale del lavoro del 1973 è la terza gamba delle riforme avviate dalla metà degli anni ’60, dopo la legge sui licenziamenti individuali del 1966 e lo “Statuto dei Lavoratori” del 1970(merita anche ricordare altri tre importanti provvedimenti della prima metà dello stesso decennio: la l. 23 ottobre 1960, n.1369, sul divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e sulla nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e servizi; la l. 18 aprile 1962, n.230, sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato; e la l. 9 gennaio 1963,n.7, sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e la tutela delle lavoratrici madri).
Del resto, che questo fosse il progetto del Governo di centro-sinistra di quegli anni lo si capisce perfettamente da un inciso, fondamentale, del discorso che il MdL, Sen. Brodolini, pronunciò il 4 gennaio 1969, nella Sala Consiliare del Municipio di Avola, a meno di un mese dall’eccidio dei due braccianti del 2 dicembre 1968, ribadendo, in maniera solenne, l’impegno a portare ad approvazione lo “Statuto dei Lavoratori”, all’interno di una più ampia «politica legislativa per i lavoratori».
Nel frattempo, alla estesa applicazione giurisprudenziale della tutela cautelare d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ. per le situazioni soggettive dei lavoratori (non condivisa da una parte della dottrina) si aggiungono alcune previsioni della l. n. 604/1966,cit., relativa ai licenziamenti individuali: innanzitutto, l’art. 6, comma 3, che attribuisce al Pretore la competenza per tutte le controversie derivanti dall’applicazione di detta legge; ma anche l’art. 7, che disciplina, con una articolata procedura, l’esperimento del tentativo facoltativo di conciliazione avanti gli Uffici del Lavoro; e l’art. 13 che prevede, in via generale, l’esenzione da bollo, imposta di registro e da ogni altra tassa o spesa, per tutti gli atti e i documenti relativi ai giudizi o alle procedure di conciliazione previsti dalla suddetta legge.
Non meno incisive sono alcune disposizioni introdotte dalla l. n. 300/1970, cit.: l’art. 16, comma 2, attribuisce al Pretore la competenza in materia di trattamenti economici collettivi discriminatori; in materia di licenziamenti, l’art. 18, comma 3, prevede la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado e, nei commi successivi(4-7), con riferimento ai dirigenti sindacali di cui all’art.22, viene disciplinato un procedimento speciale(con la pronuncia di ordinanza reclamabile immediatamente avanti lo stesso giudice e revocabile solo con la sentenza che decide la causa)che sarà ripreso, poi, dalla legge del 1973; e, soprattutto, il procedimento speciale ex art. 28, in materia di repressione della condotta antisindacale, con il quale viene utilizzata, per la prima volta, la tutela sommaria a tutela di un diritto di libertà: un procedimento definito, per la fase sommaria, davanti al Pretore che pronuncia un decreto motivato ed immediatamente esecutivo(revocabile solo con la successiva sentenza),che può essere opposto avanti il Tribunale, che decide con sentenza immediatamente esecutiva, oggetto di possibile impugnazione avanti la Corte di Appello(così, secondo le regole ordinarie, prima delle modifiche introdotte dalla l. 8 novembre 1977,n.847, artt. 2, comma 1, e 3, comma 2).
5. Le dispute dottrinali che hanno preceduto la riforma processuale del 1973.
Pur con i limiti di questa “rassegna” basata essenzialmente sui lavori parlamentari, dobbiamo dare atto del dibattito che ha coinvolto, oltre agli studiosi della materia, anche magistrati e avvocati, che si è svolto agli inizi degli anni ’70 intorno al progetto di riforma elaborato nei primi mesi del 1971 dal “Comitato ristretto” costituito, nell’ambito delle Commissioni permanenti della Camera, IV(Giustizia) e XIII(Lavoro), integrato da esperti, andato in discussione alla fine del mese di marzo[19],poi approvato dalle due Commissioni, in sede deliberante, con alcune, modifiche, anche con riferimento alle norme di attuazione, il 23 luglio 1971(come già detto più sopra, il DdL n.1885, trasmesso al Senato il 22 settembre 1971, non fu approvato per la fine anticipata della V Legislatura). Si è trattato, indubbiamente, di uno dei dibattiti più divisivi della storia della dottrina processuale civile [20].
Fa da apripista l’incontro di studio organizzato dall’Associazione fra gli studiosi del processo civile(breviter, AISPC), che si tenne a Bologna nei giorni 12 e 13 giugno 1971[21]. «Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale del lavoro» è il titolo dell’unica, densa, relazione affidata a Giovanni Fabbrini.
Nella Presentazione del “Quaderno”(pp. III e IV) si evidenzia l’interesse dell’AISPC alla pubblicazione della relazione e degli interventi «sia per testimoniare la vigile attenzione dell’Associazione per una riforma che incide in maniera profonda sul codice di procedura civile vigente, in un settore particolarmente importante e delicato; sia per fornire un complesso di osservazioni e di rilievi che confidiamo sia di una qualche utilità per chi si occupa di questi problemi, specie ora che il disegno di legge sarà sottoposto al vaglio del Senato della Repubblica».
Deve essere precisato che il testo del progetto di riforma oggetto dell’incontro di studio bolognese è un “semilavorato”, rispetto al testo poi approvato alla fine del mese di luglio, come evidenziato nella citata Presentazione del Quaderno: l’impianto della riforma, per i suoi punti essenziali, era rimasto immutato ma erano state eliminate alcune vistose rigidità ed incongruenze che più confliggevano con le regole generali del processo civile(il principio del contraddittorio, il principio dispositivo della prova, l’impossibilità di valutare la contumacia del convenuto in termini di non contestazione della domanda).
La posizione di Fabbrini sulla riforma nel suo complesso è fortemente critica, ma di taglio prettamente tecnico, non ideologico. Lo studioso esprime non poche preoccupazioni sul profondissimo mutamento del diritto all’epoca vigente, con un ritorno, peraltro, alla stagione della «effimera consolidazione del corporativismo fascista, a far data dal r.d. 26 febbraio 1928,n.471».
Dopo una analisi descrittiva del progetto e una chiara individuazione dei suoi elementi caratterizzanti(pp.2 e ss.),Fabbrini, dopo aver tracciato le fasi in cui si è sviluppata la «storia legislativa italiana a proposito del rito da seguire nelle controversie individuali di lavoro»( pp. 6 e ss.) individua in queste le norme totalmente innovative rispetto ai precedenti specifici prima indicati: la competenza del Pretore in primo grado(sulla scia, comunque, di quanto disposto dall’art. 7, l. n. 604/1966, sui licenziamenti individuali, e degli artt. 16,18 e 28,st.lav.); l’obbligo di comparizione delle parti alla prima udienza, definita di discussione, con qualificazione della mancata comparizione quale comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione; la possibilità di pronunciare ordinanze anticipatorie del merito in favore dell’attore, con la rilevanza della non contestazione da parte del convenuto di una parte della domanda(sulla scia, comunque, dell’art. 18, comma 4, st. lav.); l’esecutività ex lege della sentenza di primo grado( anche qui, però, sulla scia dell’art. 18, comma 3, st.lav); la dettagliata esposizione dei motivi anche da parte dell’appellato, a prescindere dalla proposizione dell’appello incidentale. Altre norme( il cui esame, in questa sede, tralasciamo) avevano precedenti, in tutto o in parte, nei rr.dd. del 1928 e del 1934 e nel Codice del 1942.
L’attacco critico di Fabbrini parte dalla verifica di compatibilità delle nuove norme rispetto ai principi della Carta Costituzionale.
Solo qualche esempio. Con riferimento al principio di eguaglianza di cui all’art. 3, comma 1, la norma che porta al 10% il tasso legale dell’interesse in favore del lavoratore e la norma che per il lavoratore, in caso di spese anticipate dallo Stato, ne consente la ripetibilità solo in caso di azione manifestamente infondata e temeraria; con riferimento all’art. 24, comma 2, la pratica impossibilità, soprattutto in grado di appello, della nomina dei consulenti tecnici di parte( ma tutto è conseguente, in realtà, ai tempi contingentati delle udienze, che rendono difficile, se non impossibile, la difesa tecnica delle parti). C’è poi la critica al sistema delle preclusioni, che vale per le parti ma non per il giudice che può esercitare i suoi poteri officiosi, in violazione del rigido meccanismo dell’onere della prova fissato dall’art. 2697, cod. civ.( a maggior ragione se si considera che, nell’impossibilità di una utile difesa delle parti, il giudice può rilevare d’ufficio un fatto modificativo, impeditivo o estintivo).
Le critiche sugli aspetti tecnici sono svolte su due piani distinti: da una parte, in rapporto alla logica interna della riforma; dall’altra, in rapporto ai principi generali del processo civile di cognizione.
Sotto il primo profilo, la critica riguarda la pronuncia di incompetenza per materia con ordinanza, come tale non ricorribile per cassazione( problema che si ripropone anche in appello, sempre per l’adozione dell’ordinanza); il limite della “rilevanza” per il divieto di nuovi mezzi istruttori in appello; la violazione o la falsa applicazione dei contratti collettivi e delle norme ad essi equiparate che consente il ricorso per cassazione contrasta con il vigente regime che li considera normali contratti, nella mancata attuazione dell’art. 39,Cost.; alcune discrasie sono rilevate con riferimento all’arbitrato, rituale ed irrituale, e alla validità della clausola compromissoria prevista dai contratti collettivi; la previsione dell’intervento coatto ad istanza di parte o per ordine del giudice contrasta con la mancata previsione di un meccanismo processuale che consenta l’intervento volontario in causa; manca la disciplina delle conseguenze dell’inattività di una o di entrambe le parti( in primo e in secondo grado); viene rilevata la mancata disciplina dell’opposizione di terzo e della revocazione nei procedimenti di lavoro.
Ci sono poi alcune critiche che si appuntano su particolari istituti, difficilmente giustificabili, a dire dello studioso: ad es. la concessione al consulente tecnico di termini non prorogabili o la possibilità solo di una unica udienza istruttoria in grado di appello.
Per quanto riguarda gli aspetti di sistema, la critica più severe riguarda la posizione di sostanziale soccombenza riservata al convenuto contumace o che non contesta le somme richieste: risulterebbe così acclarata una regola di giudizio assolutamente contrastante con quella , di civiltà, posta dall’art. 2697, cod. civ. E la critica riguarda anche la mancata comparizione della parte come comportamento valutabile dal giudice ai fini del decidere.
L’intervento in causa delle associazioni sindacali, con le informazioni e i chiarimenti richiesti, viene contestato non solo in ragione del pesante condizionamento del processo autonomo di formazione del convincimento del giudice, ma anche in ragione dell’incompatibilità di questo strumento con il sistema costituzionale delineato dall’art. 39( secondo Fabbrini nella logica del sistema corporativo fascista la previsione pressocché omologa era sufficiente, sebbene inaccettabile; è invece inammissibile nel sistema costituzionale).
Alcune critiche riguardano il Pretore. Innanzitutto, sotto il profilo della affermata validità della collegialità, sfatando, sulla base dei dati di esperienza acquisiti anche in base ad indagini statistiche, la lunghezza del procedimento in ragione della collegialità del giudice e la scarsa incidenza della collegialità sul contenuto delle sentenze emesse dal Tribunale.
L’officiosità delle notifiche, pur essendo guardata con favore, si scontra con il carico di lavoro dei cancellieri chiamati a provvedere in tempi assai ristretti, in considerazione dei termini brevi e perentori fissati dalle nuove norme.
La critica finale è riservata alla previsione dell’obbligo di pronunciare il dispositivo della sentenza( con la stesura della motivazione da depositare in un secondo momento) in udienza: «in un procedimento dal ritmo tanto incalzante, dove l’aspirazione massima è che la pronuncia definitiva venga addirittura emessa nella prima udienza, chiedere al giudice di pronunciare in udienza il dispositivo, come immediata risposta alla discussione orale svolta dalle parti, significa pretendere che il cervello del giudice sia al tempo stesso una raccolta permanentemente aggiornata di legislazione, una biblioteca di dottrina, un repertorio completo di giurisprudenza, un acutissimo strumento critico per il vaglio del materiale probatorio raccolto e una macchina calcolatrice per i conteggi matematici tanto spesso necessari in materia di lavoro»(p.24).
Al di là degli inevitabili errori tecnici e imperfezioni del progetto di riforma, anche Fabbrini riconosce che è necessario rimediare alle inaccettabili lungaggini del processo civile, per come lo stesso è congegnato, e che il compito del giurista è anche quello di contribuire ai miglioramenti possibili della preannunciata riforma. Fabbrini, pur restando fermamente convinto che «la funzione istituzionale del processo civile di cognizione, quali che siano i soggetti che di volta in volta lo utilizzano, deve essere quella di un obiettivo, «neutrale» strumento di accertamento dei fatti controversi e di imparziale momento di attuazione autoritativa delle norme sostanziali vigenti», auspica il mutamento del progetto in almeno quattro punti essenziali:«1) modificazione di numerose regole che attengono alla formazione del convincimento in fatto del giudice; 2) più scrupoloso rispetto del diritto di difesa delle parti, nello spirito dell’art. 24, comma 2°,cost.; 3) eliminazione degli spunti «corporativi» che nel progetto sono presenti; 4) realizzazione di una certa maggiore elasticità del procedimento per renderlo più capace di adeguarsi, di volta in volta, alle caratteristiche non sempre identiche dei vari casi concreti»(pp. 26 e 27).
E in conclusione afferma che la sua ideologia, altro non è che la necessaria neutralità del processo.
Nelle critiche espresse al progetto di riforma del 1971 Fabbrini non è solo.
Elio Fazzalari, ad esempio, pur condividendo l’intento di accelerazione del processo del lavoro impresso dalle nuove norme, ferma a questa considerazione il suo consenso. Sul resto è tutto un continuo dissentire. Rivendica il compito tecnico del giurista, scevro da scelte politiche, di destra o di sinistra. E critica anche l’impostazione di chi, come Virgilio Andrioli, vede in Chiovenda, e nel suo progetto riformatore, la base di partenza della riforma processuale del lavoro proposta. In realtà la posizione espressa da Fazzalari è molto politica, osservando che, in un contesto storico e politico, di crisi del legislativo e di esautoramento dell’esecutivo, assumono un ruolo determinate i sindacati, che restano, comunque, espressione di un settore di parte del paese, mentre ai giudici non può essere assegnato il compito di colmare il vuoto di potere. Accetta la competenza del giudice monocratico, ma non accetta l’idea che sia preferibile il Pretore, per di più giovane, in quanto depositario di una «nuova e particolare sensibilità politica e sociale». Critica, poi, l’idea che si possa anche solo accennare a una «giustizia di classe» (p.134)[22].
Tito Carnacini, dopo aver criticato il livello politico del dibattito, porta gli studiosi a considerare la legge processuale in maniera diversa da quella sostanziale; solo quest’ultima, infatti, mira a garantire la eguaglianza tra i cittadini; essendo, invece, la prima, essenzialmente tecnica, «dove di fronte alle parti e alle rispettive posizioni null’altro spetta alla legge che di garantire la parità e il loro equilibrio, di cui una delle più salienti espressioni, ma non la sola, è il principio del contraddittorio sancito dall’art. 101 c.p.c.»(p.137). E critica i termini ristretti e le preclusioni.
La relazione di Fabbrini è condivisa, in gran parte, da Giuseppe Pera (forse è lui l’amico laburista che gli aveva reso disponibile il testo del progetto di riforma, del quale l’accademia era all’oscuro, così da spingerlo a promuovere l’incontro di studio).Pera ritiene che il processo semplicistico al quale pensano i riformatori sia un modello ormai superato, risultando le cause di lavoro tecnicamente assai complesse. Dopo la legge del 1966 sui licenziamenti individuali, la scelta di affidare al Pretore la competenza di tutte le cause in primo grado è comprensibile, e per certi versi obbligata, perché il lavoratore è portato a iniziare il contenzioso, su tutto, solo dopo il suo licenziamento. Molte delle osservazioni di Pera, talvolta critiche sul progetto, riguardano l’arbitrato e l’ambito di applicazione della clausola compromissoria.
Carlo Fornario, che è un avvocato, condivide la relazione di Fabbrini e, pur riconoscendo la necessità di una nuova regolamentazione delle controversie di lavoro, anche in applicazione dei principi chiovendiani, critica, soprattutto, le preclusioni (non tanto i termini brevi), perché la giustizia deve essere rapida ma anche giusta ed esatta. Non accetta, ovviamente, l’idea di una giustizia di classe. Molte sono le osservazioni critiche sulla disciplina del procedimento, e ritiene un errore la competenza pretorile. La sua, però, non è una posizione di critica preconcetta: ad esempio considera positiva, a differenza di Fabbrini e di altri, l’estensione delle ipotesi di ricorso per cassazione.
Anche chi, come Giulio Gionfrida, non è contrario alla competenza pretorile, critica, però, la pronuncia di ordinanze per somme non contestate e i termini ristretti anche per gli adempimenti di notifica; rileva le incongruenze delle disposizioni sulla preclusione delle richieste di prove e in materia di arbitrato; pone l’accento, in senso negativo, sulla previsione di carattere generale sulla valutazione equitativa delle prestazioni; condivide, come il Relatore, i dubbi di costituzionalità sulla misura del tasso legale degli interessi elevato al 10%.
A contrastare, con maggiore efficacia, le opinioni espresse da Fabbrini è Virgilio Andrioli (che in più occasioni aveva interrotto la sua relazione).
L’illustre studioso coglie, innanzitutto, la necessità di un cambiamento radicale di mentalità degli avvocati ( su questo punto trovandosi d’accordo con gli interventi dei giudici Angelo Converso e Antonio Martone): «Piaccia o dispiaccia, dunque: la più parte dei difensori scambia l’inviolabilità dei diritti di difesa per la intangibile sedentarietà dei loro compiti»(p.117).
Denuncia, con i dati alla mano e la citazione di concreti casi giudiziari, la gravissima lentezza dei procedimenti civili, tanto da fargli dire, a dispetto dei discorsi inaugurali dei Procuratori Generali, che «la giustizia civile [non] cammina o incede con l’andatura arrembata e ciabattona degli asini delle solfare»; senza dire della penuria dei mezzi materiali e del disinteresse dei patrocinatori alla trattazione delle cause in udienza pubblica o, ancor peggio, istruttoria(p.118)[23].
Riconduce, poi, a Chiovenda i principi informatori della riforma, qui contestando la ricostruzione fatta da Fabbrini, invitato a leggere l’articolato predisposto dal Maestro sul dovere di verità e di contestazione, e sul dovere della parte di interrogare il suo avversario sull’oggetto della controversia, sull’esistenza di documenti e su tutte le circostanze per lui utili e rilevanti(con le necessarie conseguenze della non comparizione o del rifiuto di rispondere) . Il punto, secondo Andrioli, non è quello di evidenziare nell’incontro di studio, sin nei minimi particolari, i difetti tecnici delle norme che dovranno essere comunque rifinite, ma se i principi di oralità, concentrazione e immediatezza siano utili per la risoluzione delle controversie di lavoro e previdenziali, «perché le prove costituende prevalgono sui documenti, le questioni di fatto sulle questioni di diritto»; e porta l’esempio del processo penale dove il principio inquisitorio nella acquisizione dei fatti alla convinzione del giudice affievolisce l’onere della prova, ma non offende né l’autonomia privata né l’inviolabilità del diritto di difesa(pp123-124).
A differenza di Fabbrini, Andrioli ritiene costituzionali le norme da lui criticate e anzi si meraviglia che, con riferimento alla trattazione delle controversie di lavoro e previdenziali, il Relatore non abbia rilevato la violazione dei precetti costituzionali degli artt. 36 e 38. Però l’idea di giudice che ha in mente Andrioli è completamente diversa da quella affermata da Fabbrini: «Il giudice non può essere riguardato come un arbitro imparziale, che si limita a fischiare falli e a segnare sul taccuino ammonizioni, ma deve sentirsi l’allenatore dell’una e dell’altra squadra, che ammonisce il giocatore, il quale non azzecca il passaggio e, soprattutto, indulge nei personalismi»(p.128).
Difende il Pretore, anche dalle critiche della sua inesperienza( che taccia di ingenerosa banalità), portando ad esempio il fatto che questo magistrato può privare della libertà personale sino a tre anni. E difende l’applicazione da parte dei Pretori dell’art. 700, cod. proc. civ., e le prime applicazioni giurisprudenziali in materia di “Statuto dei Lavoratori”.
Anche Andrioli non è solo nella difesa del progetto di riforma e trova soprattutto in Mauro Cappelletti uno strenuo difensore del progetto, che ricollega non certo alle leggi fasciste( peraltro approvate da Piero Calamandrei), ma al progetto chiovendiano elaborato negli anni 1918-1919.Tutti gli elementi caratterizzanti della riforma sono difesi da questo studioso, dalla competenza pretorile a tutte le principali disposizioni procedimentali. Con riferimento alle critiche sulla misura del tasso legale portato al 10%, invita a considerare anche il comma 2 dell’art. 3, Cost., qui richiamando le acute osservazioni di Piero Calamandrei( pp. 60 e 61); ma tutte le critiche di costituzionalità formulate da Fabbrini sono abilmente smontate(pp. 61 e 62).
Vittorio Denti non ritiene che la soluzione della crisi della giustizia del lavoro possa essere la creazione di una corsia preferenziale o l’uso di mezzi speciali, come accade per decongestionare il traffico stradale. Evoca la possibilità di ritornare alla giustizia probivirale(di fatto soppressa dall’ordinamento corporativo fascista), seppure con alcuni accorgimenti, non fosse altro per l’avvento della Costituzione. Il punto centrale della riforma, sul quale gli studiosi sono chiamati a pronunciarsi, è secondo Denti, «la istituzione di un giudice dotato dei poteri necessari per intervenire nei conflitti di lavoro ad imporre quella soluzione conforme a giustizia sociale che il legislatore persegue astrattamente ponendo le norme a tutela del lavoro»(p.77). E si chiede come sia possibile che uno studioso giovane, come Fabbrini, utilizzando «gli strumenti concettuali della tradizione» e senza «aprire gli occhi di fronte alle realtà economiche, politiche e sociali che si agitano sotto gli istituti processuali» abbia così tanto enfatizzato la «neutralità» del giudice in una materia, come quella del lavoro, in continua evoluzione e trasformazione, arata dai colleghi laburisti, «distruggendo e ricreando i modelli proposti per la sua interpretazione» (p.77).Rileva, inoltre, l’opportunità di rivalutare il procedimento di primo grado, come centrale, considerando l’impugnazione come un rimedio eccezionale, di tipo essenzialmente cassatorio, tenuto conto, peraltro, che per i dipendenti pubblici, all’epoca, era prevista la tutela in unico grado, con la possibilità di ricorrere in Cassazione per motivi di giurisdizione (p.78).
Antonio Martone considera positiva la specialità e l’autonomia della disciplina processuale ed anche la tutela preferenziale accordata al lavoratore, che nel processo è parte debole, ponendo attenzione, a differenza di altri studiosi, allo stretto rapporto che intercorre tra diritto sostanziale e diritto processuale. E distingue tra neutralità del giudice e neutralità delle norme processuali. Esprime perplessità sull’intervento delle associazioni sindacali, alle quali non si può certo chiedere un parere tecnico; e sull’arbitrato, ritenendo ammissibile quello rituale, impugnabile per violazione o falsa applicazione della legge ma anche del contratto collettivo. Non è contrario, in linea di massima, alle previsioni in materia di preclusioni e termini.
Positiva è la valutazione del progetto di riforma parlamentare da parte di Guglielmo Simoneschi, anche nella prospettiva di una riforma organica del processo civile. Condivide (superando una sua precedente opinione) l’impugnabilità della conciliazione sindacale. Condivide, anche, l’attribuzione della competenza al giudice ordinario delle controversie di lavoro con gli enti pubblici, dovendosi in esse ricomprendere la cognizione non solo dei diritti soggettivi ma anche degli interessi legittimi. La preferenza accordata al Pretore in primo grado(con esclusione di quella, per valore, del Giudice Conciliatore) è fuori di dubbio; e la scelta per il Tribunale, quale giudice monocratico in appello, viene valutata positivamente, ma solo se non esclusiva delle cause di lavoro. Accoglie in pieno il principio di oralità, tanto da ipotizzare che si possa evitare lo scambio delle note autorizzate in sede di discussione, magari anticipandolo alla fase introduttiva, nella fase precedente alla prima udienza. E con riferimento all’ordine di esibizione di libri o scritture contabili obbligatorie, propone che il giudice, in caso di mancata esecuzione, consideri ammessi i fatti posti a loro fondamento.
Federico Governatori, in sintonia con Cappelletti e Denti, apprezza la scelta degli organizzatori dell’incontro di studio di discutere di politica del diritto o, in senso più ristretto, di politica giudiziaria; scelta, peraltro, obbligata essendo in analisi solo un progetto di riforma. Positiva è la valutazione sulla competenza dei Pretori, «la parte più giovane della bassa magistratura, come benevolmente una rivista giuridica confindustriale li ha voluti definire con un giudizio di susseguioso disprezzo, proprio in quanto applicatori dello statuto dei lavoratori», perché, a differenza di alti e vecchi magistrati, applicano le leggi in base ai valori costituzionali, e in particolare quello stabilito dall’art. 3, comma 2 (pp.97-98). Positiva è la valutazione di una procedura rapida e concentrata in poche udienze, con rapporti diretti tra le parti e il giudice. Richiama il principio del processo «moralizzato» come efficacemente riferito da Cappelletti, che significa responsabilizzazione delle parti, del giudice e degli stessi avvocati. E riporta il discorso (fatto da Cappelletti e Denti, ma anche dal suo collega Martone) sulla neutralità della legge e dello strumento processuale, che non esiste, come non esiste una indifferenza del giudice nei confronti della legge o addirittura una imparzialità della legge; altra cosa è l’imparzialità del giudice rispetto alle parti del processo(pp. 100-101).
Giovanni Verde(richiamando le posizioni di Cappelletti e Denti) afferma che la vocazione del giurista deve essere quella di collocare la legge e le disposizioni di cui si discute nel contesto storico-sociale nel quale ci si ritrova. Approva la scelta di portare in Commissione parlamentare la presentazione e la discussione del progetto di riforma, felice occasione dell’incontro di studio, e saluta positivamente i principi informatori dello stesso diretti a realizzare la celerità del processo, perché «il tempo, una dimensione per così dire neutra, non può non assumere nel nostro campo rilevanza sostanziale e non può non implicare un giudizio di valore, al quale non possiamo e non dobbiamo sottrarci»(p.108).Accettata l’impostazione della legge e le scelte dei riformatori, il compito del giurista resta solo quello di migliorarla sul piano tecnico. Difende la proposta del giudice unico di primo grado, peraltro nell’ambito di una ritenuta possibile ristrutturazione degli Uffici Giudiziari. È ,questa, una scelta politica, come lo è quella della provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado.
L’impostazione di Verde è condivisa da Nicola Florio, che si dice favorevole alla competenza del Pretore( pur con i necessari aggiustamenti ordinamentali), anche per le controversie dei dipendenti degli enti pubblici non economici. E, con una valutazione che davvero precorre i tempi, afferma: «Sembra ormai giunto e maturato il tempo di sottrarre la disponibilità dei diritti soggettivi del pubblico dipendente all’atteggiamento paternalistico della pubblica amministrazione e stabilire una uguaglianza di effetti delle decisioni che lo riguardano»(p.113). Queste sono alcune sue proposte: utilizzazione di mezzi meccanici per l’assunzione delle prove; abolizione del divieto di testimoniare; riconoscimento della funzione di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio del compilatore di libri e scritture relativi allo stato giuridico e al trattamento economico dei dipendenti; termini minimi e massimi, per non ingessare il processo.
Alcune posizioni sono più sfumate e non etichettabili, pro o contro il progetto di riforma.
Pacata è la posizione espressa da Luigi Montesano, che non condivide le critiche di natura politica; condivide, invece, l’impostazione e la derivazione chiovendiana dello stesso; e confida, finalmente, nell’ attuazione dei principi di oralità, concentrazione e immediatezza, esprimendo, però, l’auspicio che le critiche costruttive portino ad evitare l’affermazione di una «inquisitorietà» di tipo autoritario e a realizzare una leale collaborazione tra le parti nel processo.
Forte della sua esperienza di Pretore a Torino, Angelo Converso manifesta forti perplessità sulle qualità taumaturgiche della riforma, tutto essendo condizionato, in negativo, dai problemi che affliggono l’organizzazione degli studi forensi, atomizzati e strutturati in funzione del dominus, e l’organizzazione degli uffici giudiziari, con la disfunzione delle cancellerie e degli ufficiali giudiziari. Pone, però, particolare attenzione sul ruolo del magistrato del lavoro, non più semplice spettatore, ma parte attiva e incisiva del processo. Da par suo non accetta il ruolo neutrale del giudice, come detto da Fabbrini, perché le controversie di lavoro sono controversie di classe; e qui entra in gioco il principio costituzionale dell’eguaglianza sostanziale ( sul punto in accordo con la posizione espressa da Andrioli). È, invece, contrario al principio della celerità, quella puramente formale: «una celerità fatta di termini , di preclusioni, di decadenze, in una parola di lacci assolutamente estrinseci alla conduzione del processo»(p.45).Accetta la specialità del rito, ma si pone, in termini problematici, il problema dell’attrazione per le domande riconvenzionali, con la deviazione rispetto al rito ordinario; e della mancata disciplina delle prove, in senso specialistico, adeguato al rito. La lentezza dei procedimenti esecutivi può annullare gli effetti positivi dell’innalzamento del tasso legale degli interessi. E sul piano ordinamentale ritiene auspicabile la creazione di sezioni promiscue, in materia civile e penale, perché, proprio nella materia del lavoro, il Pretore deve essere in grado di intervenire su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, anche quello penale.
Gian Antonio Micheli non è tenero con Fabbrini, ma nemmeno con Converso che aveva attaccato il progetto di riforma, non perché fascista o corporativo, bensì illusorio: «la giustizia promessa ai lavoratori sarebbe una nuova mistificazione»(p.63), e lo invita, a proposito delle critiche formulate alla misura del tasso legale degli interessi aumentato al 10%, come fumo negli occhi dei lavoratori, a proporre le misure alternative, con spirito costruttivo, senza andare a braccetto con la conservazione(p.64). Questo studioso porta l’attenzione sul fatto che proprio i precedenti storici citati da Fabbrini e l’impianto del Codice del 1942 confermano che le controversie di lavoro hanno sempre avuto accenti particolari, di rito e di organi giudicanti, sottolineati dalla realtà sociale, politica ed economica degli anni ‘70. E difende la competenza attribuita al Pretore, «un giudice strutturalmente agile e distribuito più capillarmente in tutto il territorio nazionale»(p.52), senza però enfatizzare il trinomio chiovendiano e senza trascurare i diversi problemi applicativi della riforma, con riferimento allo svolgersi del procedimento( qui richiamando le perplessità e le preoccupazioni del giudice Converso).
Le perplessità manifestate da Micheli riguardano: i poteri del giudice in ambito istruttorio; la richiesta di parere delle associazioni sindacali su richiesta di parte; la pronuncia della sentenza in udienza o entro termini ristretti; l’estensione delle ipotesi di ricorso per cassazione.
Modestino Acone pone attenzione ad alcuni temi particolari: la notificazione di ricorso e decreto d’ufficio è una palese deviazione rispetto al processo notificatorio civile a favore di quello penale( ed elenca, anche, diversi problemi conseguenziali); le ordinanze anticipatorie non sono in palese contraddizione con la celerità del processo, ma quelle aventi ad oggetto le somme non contestate devono rimanere revocabili; ritiene condivisibile la scelta della provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado. Acone fa proprie le perplessità formulate da Fabbrini sul mutamento del rito, in ragione della diversa competenza di Pretore e Tribunale; e sulla necessità della pronuncia della sentenza dopo lo scambio di note, ma solo su richiesta delle parti, rileva che in tal modo il Pretore è legato ad essa, mentre dovrebbe essere libero di farlo o non farlo, per arrivare ad una meditata decisione. Difende le critiche alla neutralità del processo (quasi che quello del lavoro prefigurato dal progetto di riforma debba essere considerato «partigiano»), perché «il processo in questi casi riflette la peculiarità del rapporto sostanziale dedotto in lite».E qui ritorna il discorso sul precetto costituzionale dell’art. 3, comma 2(pp.106-107).
Nella sua replica Fabbrini, entrando nel merito delle critiche più rilevanti, spiega meglio il suo concetto di neutralità del processo(che non è certo neutralità della legge), ribadendo che il problema[…], estremamente delicato, è se il momento delle scelte a favore di una determinata categoria sociale possa e debba essere il momento della tecnica processuale»(p.140).Critica, poi, l’opinione secondo la quale, per valutare positivamente una legge processuale sia sufficiente tenere conto solo dei suoi principi informatori, e non delle singole disposizioni. E ribadisce tutte le altre censure e perplessità manifestate, anche quelle sulla costituzionalità di alcune disposizioni (soprattutto per la violazione delle regole dell’onere della prova e del contraddittorio).
Questo è il resoconto, sommario, dell’Incontro di studio che si svolse a Bologna in un clima eccessivamente acceso e di forti contrasti (superato, lentamente, solo negli anni a venire), rappresentativo, comunque, delle diverse anime della dottrina processuale civile.
Quale che fosse la genesi del progetto di riforma oggetto di discussione, sicuramente derivava dall’impulso sindacale e dalla pressione dei gruppi politici della sinistra, anche non governativa; e decisivo fu l’apporto degli avvocati e dei magistrati degli uffici legislativi ministeriali( abbiamo già ricordato il contributo fattivo di Giugni, che si era avvalso anche della collaborazione di Cappelletti).
Deve essere riconosciuto anche l’importante ruolo di Andrioli, che, percorrendo la strada tracciata da Chiovenda, rappresentava la voce riformatrice più coerente nel senso di quella che diventerà, poi, la legge n. 533 del 1973, anche se non vi sono riscontri certi sul diretto coinvolgimento suo e della dottrina “progressista” nella elaborazione del progetto di riforma parlamentare del 1971( e degli sviluppi legislativi successivi).È un fatto, comunque, e di una certa importanza, che nelle discussioni parlamentari emergano, come vedremo, i nomi di Chiovenda, Andrioli, Cappelletti, Simoneschi, talvolta anche di Andrea Proto Pisani. E che il progetto di riforma del 1971 rappresentasse un “modello” che si innestava, in maniera consapevolmente innovativa, nel sistema processuale italiano, lo dimostra l’attenzione che gli ha dedicato la dottrina processuale civile del tempo (e di quella a venire) e le innovazioni legislative che lo hanno preso a prestito quale rito speciale applicabile ad alcuni settori del processo civile ordinario.
Quali che fossero i precedenti presi in considerazione dai riformatori – il r. d. del 1928 e soprattutto quello del 1934, con gli innesti nel Codice del 1942, come riteneva Fabbrini (p.13) o il progetto elaborato da Chiovenda, come riteneva Andrioli (p.122) - è circostanza, tutto sommato, poco rilevante perché non è da escludere che anche il legislatore fascista, sebbene in parte, avesse recepito il trinomio chiovendiano [24]
I punti di fondamentale di contrasto erano rappresentati dalla ammissibilità stessa di un rito, di un processo speciale e ad hoc per le controversie di lavoro e dalla attribuzione della competenza in primo grado al Pretore, come abbiamo evidenziato sopra; ma riguardavano, anche, il rigido sistema delle preclusioni. Le riforme del 1950 ( l. 14 luglio 1950,n. 581 e d.P.R. 17 ottobre 1950,n. 857) consentivano ogni facoltà di prova e di difesa sino alla fase della rimessione della causa per la decisione. Invece la legge del 1973 imporrà di vuotare il sacco, di “scoprire le batterie”, come diceva Andrioli, o di “calare le carte”, come si esprimeva Proto Pisani. Questa, indubbiamente, rappresentava una novità di eccezionale rilievo(va detto, però, che il progetto del 1971, sul punto aspramente criticato, non prevedeva la possibilità di modificare domande, eccezioni e conclusioni previa autorizzazione e per gravi motivi e di formulare nuove prove). Il cambio di passo che si rendeva necessario, non solo per gli avvocati ma anche per i magistrati, era notevole e si trattava, come qualcuno aveva detto, di «moralizzare il processo» (questa espressione è di Cappelletti - p. 64 - ma è stata ripresa anche da altri, come Martone - pp.82-83 - forte della sua esperienza di magistrato).
Denti, in occasione del seminario bolognese(p.75) aveva lamentato l’assenza dei laburisti, con i quali sarebbe stato utile aprire un dibattito (in effetti era presente solo Pera, un laburista particolare che, anche per la sua formazione universitaria pisana derivata da Andrioli, aveva sempre coltivato uno spiccato interesse per la materia processuale ed era stato anche magistrato, per diversi anni, prima di intraprendere la carriera universitaria).
A dire il vero, in quegli anni intrisi anche di molta ideologia, le polemiche tra i giuslavoristi non sono affatto mancate. La polemica del seminario bolognese riecheggia quella registrata, un anno prima, quando lo “Statuto dei Lavoratori” era stato appena approvato [25].
La legge n. 300 porta la data del 20 maggio 1970 e poco dopo, il 22 e 23 maggio, si svolgono a Perugia le tradizionali “Giornate di studio” dell’Associazione italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale (breviter, AIDLaSS)[26],aperte dalla Relazione sull’art. 19,st.lav. (ma in buona sostanza sull’intero Titolo III della legge) svolta da Giuseppe Federico Mancini, che rende un resoconto oggettivo delle polemiche insorte (la relazione fu contestata da molti, con diverse motivazioni e su più fronti) nella sua Intervista rilasciata, venti anni dopo, a Pietro Ichino[27].
Il punto di maggiore frizione tra gli studiosi riguardava il metodo, non strettamente tecnico-giuridico, utilizzato da Mancini, che aveva preferito un approccio alle ragioni e ai dati della realtà socio-economica che stanno e si muovono alle radici degli istituti e delle regole di diritto. Una apertura, quindi, verso l’esperienza reale, che pone problemi alla meditazione del giurista, congeniale, comunque, alla materia del diritto sindacale; una materia che riguarda, anche, il ruolo del giurista, quale scienziato sociale, al quale sono attribuiti tre compiti fondamentali, che si possono così riassumere: indicare le soluzioni possibili dei casi prevedibili, commentare le soluzioni adottate e fin qui c’è accordo) e poi «valutare il contenuto delle sentenze , delle leggi, degli atti amministrativi mettendo in luce le ideologie dei loro autori, le ideologie sia nel senso «debole» in cui la parola viene continuamente adoperata, sia nel senso «forte» in cui fu usata dai classici». In questi termini, nella sua replica, Mancini obietta ai suoi critici di essere ancora appresi dalla illusione positivistica del giurista imparziale, tecnico, asettico «al di qua e al di sopra dell’ideologia e della politica»(pp. 192 e 193).
Quella che a noi interessa, in questa sede, è la critica di Pera (pp.70 e ss.),che rimproverava all’illustre studioso della Scuola Bolognese[28] buon amico di Giugni, di aver confuso la “politica del diritto” con la “politica dei fatti” (che non hanno né ordine né regole); una affermazione, questa, che, pronunciata dal giuslavorista lucchese, sempre attento alle cose concrete e ai fatti della storia e della società, provoca quanto meno stupore, se non anche irritazione. Ma Pera, in questa battaglia ideologica, da “trentanovista” convinto e coerente, gioca la carta della Costituzione: per lui esiste solo una politica del diritto, quella diretta al perseguimento dei valori costituzionalmente riconosciuti e per questo non può tollerare i «condizionamenti delle contingenze politico-sindacali» e i «contorcimenti degli apparati», che, come giustamente è stato osservato, altro non sono che gli apparati sindacali[29].
È una polemica, questa, fatta da chi (dalla parte della “destra”, se vogliamo utilizzare una semplificazione) non accetta la contaminazione del metodo giuridico con quello sociologico, che ha accompagnato, nelle discussioni accademiche e parlamentari, l’approvazione della legge del 1973.
Ma ancor più pertinente al nostro discorso è la polemica, sempre sullo “Statuto dei Lavoratori”, di due attori di primo ordine, Pera e Giugni, incentrata sulle gravi carenze tecniche della legge del 1970, denunciate da Pera, che Giugni respinge al mittente ritenendo che quella tecnica, in realtà, sia una critica politica surrettizia, perché il dichiarato dissenso politico viene mascherato come “modesto” e “pedestre” contributo esegetico, forzando la mano alla tecnica dell’interpretazione con argomenti retorici e polemici[30].
La polemica tra i due giuslavoristi(amici, peraltro, che hanno condiviso tante vicende di vita vissuta, con qualche piccola frizione, anche negli anni successivi, poi superata) è molto più importante di quello che sembra e trascende la materia, occasionale, dello “Statuto dei Lavoratori”. Per Giugni l’opzione è tra “tecnica giuridica” e “politica del diritto”. Pera, invece, distingue la politica dal diritto e ritiene legittima solo la politica del diritto che si svolge in coerenza con quanto è già positivamente stabilito, altrimenti si tratta semplicemente di politica che, nell’interesse di una parte, prende, dal diritto posto, solo ciò che fa comodo. È facile, e mi sia consentito farlo anche in questa sede, obiettare al Maestro che la politica del diritto guarda avanti, non al diritto positivo, quello posto, proprio perché è diretta al suo cambiamento.
La preoccupazione di Pera (e di quelli che all’epoca la pensavano come lui) è nota: vuole una legge, possibilmente perfetta, per evitare che su un «semilavorato» si esercitino le scelte politiche di «giudici estratti per concorso burocratico» (e polemicamente richiama anche gli esiti della «terna dei concorsi universitari»), di quei giudici che già cominciano ad essere definiti “pretori d’assalto” (una critica severa, sol che si pensi che lui stesso è stato giudice per quasi nove anni).Del resto, e non a caso, le prime applicazioni processuali, prima e dopo la riforma del 1973, sono state proprio quelle che si sono sviluppate sui diritti, individuali e sindacali, garantiti dallo “Statuto dei Lavoratori”.
Torniamo al processo.
Non meno importante fu il IX Convegno nazionale organizzato, ancora una volta, dall’AISPC a Sorrento nei giorni 30 ottobre e 1° novembre 1971, su due temi: «Il processo di cognizione a trent’anni dal codice» e «Le norme processuali dello statuto dei lavoratori», che sono anche il titolo del Convegno e degli Atti pubblicati[31], con la partecipazione di molti studiosi che avevano avuto parte attiva anche nella discussione del precedente incontro di studio bolognese[32].
Per quel che a noi interessa in questa sede, è soprattutto la prima parte del Convegno che è da prendere in considerazione, proprio per le implicazioni che la discussione sul tema di carattere generale del processo civile e della sua possibile riforma avrebbe avuto sulla riforma prossima del processo del lavoro.
La rappresentazione della crisi della giustizia civile, che versava in uno stato comatoso, era pressocché unanime nelle opinioni espresse dagli studiosi, tenuto conto, peraltro, che dopo le novelle del 1950,il processo civile mostrava tutta la sua inadeguatezza alle sfide che, dopo la fase della ricostruzione post-bellica, avrebbero portato prima al boom economico e poi alla prima crisi economica del dopoguerra.
Si riproponevano, in quelle discussioni, le divergenze e le polemiche mai sopite tra chi riteneva corretto mantenere, più o meno, intatto l’impianto originario del Codice del 1942 e chi, invece, affermava la sua necessaria sostituzione[33].
La denuncia più grave riguardava la eccessiva lunghezza dei procedimenti e a questo proposito si richiamavano le relazioni sullo stato della giustizia presentate dal Csm al Parlamento nel 1970 e nel 1971, alle quali abbiamo fatto riferimento più sopra [34].
Secondo Proto Pisani (che relazionava sul primo tema, con riferimento alla dottrina), la crisi della giustizia civile, con perdita di efficienza e funzionalità, aveva diverse cause. Innanzitutto, l’antinomia creata dalla novella del 1950, che se da una parte aveva introdotto alcune modifiche incompatibili con i principi chiovendiani, dall’altra, contraddittoriamente, aveva mantenuto alcuni elementi improntati agli stessi princìpi e ad un modello di processo, pubblicistico e solidaristico, improntato alla collaborazione tra il giudice e le parti. In secondo luogo, però, c’era una precisa scelta - tutta politica - della dottrina di non praticare una interpretazione corretta, improntata al modello processuale chiovendiano e ai princìpi della Costituzione, così lasciando ampio spazio di manovra alla prassi giudiziaria di abolire, di fatto, alcuni istituti del Codice, stravolgendone l’impianto originario(alcuni esempi, per tutti, più pertinenti alla nostra analisi: prima udienza di trattazione; interrogatorio libero delle parti; tentativo di conciliazione).
Il testo del Codice del 1942 è frutto di una intensa attività di studio che, sia pure con notevoli compromessi, si ispira ai valori politici basilari-animatori dell’ordinamento, individuati da Chiovenda e dalla sua scuola, così riassunti da Proto Pisani: «pubblicizzazione del processo, prevalenza dell’elemento volitivo su quello logico, collaborazione del giudice con le parti nella determinazione dei punti controversi e cioè bisognosi di prova, concentrazione-oralità-immediatezza, libero apprezzamento da parte del giudice delle prove proposte dalle parti, attenzione prevalente attribuita all’accertamento del fatto rispetto al diritto, ecc.» (p. 17).
In buona sostanza il giovane studioso rimproverava alla dottrina di avere creato una cesura con l’insegnamento di Chiovenda, ripiegando sul formalismo e sull’applicazione scolastica del codice di rito.
Fare un bilancio di trent’anni di applicazione del processo civile significa, per questo studioso, fare anche un discorso sulla riforma «intendendo per riforma la modificazione non solo della legislazione attualmente vigente ma anche della interpretazione che giurisprudenza e/o dottrina hanno offerto dei dati legislativi. Inteso in questo senso di discorso sulla riforma è il discorso perenne- stavo per dire l’unico discorso-degli studiosi di diritto, in quanto altro non è che il discorso sull’interpretazione»(p.16).
Molti, però, attribuivano la crisi anche ad altri fattori, che avevano, anch’essi un certo peso: la carenza delle risorse materiali, finanziarie e di organico; le prassi interpretative non corrette e lassiste; la scarsa produttività dei magistrati; le motivazioni esuberanti e superflue dei provvedimenti giudiziari; vari comportamenti del ceto forense che, di fatto, intralciavano il cammino regolare della giustizia [35].
Non è un caso che molte di queste critiche le ritroviamo anche nelle discussioni parlamentari che hanno preceduto l’approvazione della legge del 1973.
Per Luigi Bianchi d’Espinosa (Relatore sempre sul primo tema, ma con riferimento alla giurisprudenza), il bilancio è di tutta evidenza fallimentare; mentre per Enrico Allorio può andare anche bene il carattere perenne della riforma, purché non sia «sussultorio», come invece si registra da tempo: «Qualsiasi riforma postula una adeguata preparazione, che non è concepibile se non dopo una lunga sedimentazione dell’esegesi della norma»(p.69).
Sulle lungaggini dei processi il giudizio di Andrioli è categorico (e di cruda attualità):«La casa brucia, e non si tratta di espressione retorica: la giustizia civile minaccia di estraniarsi dalla vita degli uomini, che vestono panni ed infilano scarpe, e di degradare e degradarsi in un hortus conclusus, il cui pratico scopo si esaurisce nel consentire ai magistrati di conseguire stipendi e agli avvocati di lucrare onorari»(p.104).E porta il discorso, e l’attenzione degli studiosi, sulla riforma del procedimento di lavoro secondo il progetto «pilota» del 1971.
Fabbrini ribadisce che questo progetto è in contrasto con i principi base del vigente processo civile, peraltro non messi in discussione dalle relazioni principali. E cita gli elementi di devianza con riferimento al principio di disposività, alla regola dell’onere della prova, alla concreta attuazione del principio del contradditorio; aggiungendo che alcuni sostenitori del progetto di riforma del 1971 vorrebbero anche l’abolizione del doppio grado di giudizio (pp. 122-123).
Il progetto di riforma del 1971 viene difeso, nella sua replica, da Proto Pisani, che chiama i processualisti a concentrare tutti i loro sforzi di politica legislativa, prima, e intrepretativi, dopo la sua approvazione (pp.159-160).
Pera fa riferimento alla giurisprudenza d’assalto sul procedimento ex art.28,st.lav., e cita Ubaldo Prosperetti che in convegno di giugno 1971 aveva definito i Pretori come «ufficiali di prima linea»[36]. Pera si pone, anche, il problema delle possibili incidenze della legge sul processo del lavoro in odore di approvazione in rapporto alla legge generale, nella prospettiva di una possibile prevalenza sulla legge speciale(p.211): un problema, che, comunque, è rimasto solo a livello teorico, anche dopo l’approvazione della legge del 1973.
Dalla lettura degli atti di questo convegno si percepisce la sensazione della mancanza di una chiara proposta di una riforma organica del processo civile, che dovrà attendere ancora molto tempo; probabilmente perché, venendosi a trovare in una situazione di transizione, si temeva un fallimento, senza dire che la dottrina processuale civilistica, ancora intrisa di formalismo e astrattismo, appariva molto slegata dalla realtà e dalle dinamiche sociali.
Letta anche alla luce di queste osservazioni, la riforma del processo del lavoro 1973 si manifestava in tutta la sua dirompente innovazione; ma si può convenire con chi, anche di recente, ha rilevato che mancava, all’epoca, una seria riflessione su una riforma organica del processo del lavoro, tanto meno l’idea di rendere tendenzialmente generale quello che sarebbe sato il modello processuale adottato dal legislatore del 1973[37].
Due profili problematici che vengono affrontati, sebbene riguardanti il processo civile in generale, sui quali gli studiosi esprimono posizioni contrastanti, caratterizzeranno il nuovo processo del lavoro: le preclusioni e l’esecutorietà ex lege delle sentenze di primo grado. Si discute anche di fare del Tribunale un organo monocratico( anche qui anticipando la scelta del legislatore del 1973 per il giudice del lavoro monocratico di primo grado). Resta intangibile, però, la scelta per la giurisdizione statale, che dà garanzia di imparzialità e uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e, come è stato giustamente osservato da chi, meglio di chi scrive, ha analizzato i materiali di quel Convegno, il “non detto” era rappresentato da tutto ciò che molti anni dopo ritroveremo disciplinato con riferimento alla risoluzione delle controversie civili con strumenti alternativi.
Per completezza, merita, anche, segnalare il Convegno organizzato dall’ I.S.L.E. - Istituto per la documentazione e per gli studi legislativi organizzato, che si è svolto nei giorni 16 dicembre 1971 e 19 gennaio 1972, sempre con riferimento al progetto di riforma del 1971, il cui testo, rispetto a quello oggetto del seminario bolognese di giugno 1971, era stato nel frattempo modificato dal Senato [38].
L’esame di Prosperetti (uno dei due Relatori) è in chiave propositiva, per perfezionare il progetto di riforma in discussione(e ricorda le critiche che si ebbero nel momento in cui fu approvato nel 1940 il nuovo Codice). Pone, però, tre problemi che sono a monte della riforma processuale: il riordino della legislazione sostanziale, soprattutto quella previdenziale, e il suo coordinamento con quella lavoristica; la contrattazione collettiva di diritto comune (che crea problemi anche nell’acquisizione dei testi, specialmente dei contratti collettivi minori, anche ai fini della certezza del diritto e delle conseguenze processuali, tenuto conto, peraltro, dell’estensione ad essi del ricorso per cassazione ed auspica, su questo punto, un sistema di pubblicità ufficiale);la deficienza dell’organizzazione giudiziaria.
Per decongestionare le cause di lavoro propone l’uso massiccio del preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione, senza che ciò costituisca una condizione di procedibilità dell’azione, e dell’arbitrato, la cui disciplina nel progetto di riforma non appare esaustiva, potendo essere consentito l’acceso al giudice da entrambe le parti. Le proposte di Prosperetti vanno nel senso di realizzare, in materia di lavoro, una piena «giurisdizione sindacale»; e, facendo leva sulla relativa indisponibilità dei diritti del lavoratore, arriva a costruire la piena ammissibilità del compromesso in arbitri. Propone termini più ampi e congrui, anche per lo scambio di memorie in previsione della discussione della causa. Critica, poi, il meccanismo previsto dal nuovo testo dell’art. 2113, cod. civ.: va bene il termine più lungo(anche più di quello previsto) per l’impugnazione stragiudiziale, che però, equiparata alla libertà di forma, come per il licenziamento, crea una grave incertezza nel processo, potendo essere l’azione giudiziaria promossa nel temine di prescrizione di cinque anni. Non mancano pure le critiche alla forma del ricorso come atto introduttivo, anche per la difficoltà dei giudici e dei cancellieri disponibili nelle piccole Preture, al fine di provvedere agli adempimenti necessari.
Allorio (secondo relatore),ponendo l’accento sull’interesse, davvero particolare, suscitato nella comunità scientifica dal progetto di riforma oggetto d’esame, non nasconde che lo stesso sia stato sottoposto non solo a censure meramente tecniche, ma anche di natura politica. L’atteggiamento dello studioso è di grande attenzione rispetto alla riforma, e più che le ragioni della critica, cerca di fare una autocritica, perché se il legislatore ha ritenuto di proporre una riforma così radicale, con il contributo di giuristi di notevole spessore in veste di consulenti dell’autorità governativa, una ragione ci deve essere stata, anche se riconosce l’spirazione sindacale dello stesso. E tuttavia, pur riconoscendo fondata l’esigenza di realizzare con maggiore tempestività le istanze dei lavoratori(in assenza di statistiche verificate non è possibile dire quanto siano lunghi davvero i tempi della giustizia e quante siano davvero le situazioni in cui il lavoratore è costretto ad affrontare il giudizio per ottenere la soddisfazione dei suoi diritti), lo studioso si chiede se per superare la litigiosità affiancata da una lungaggine processuale quale quella segnalata «occorra trasformare il processo vigente per adottare un rito sommario, o addirittura sommarissimo»(p.19); e se le soluzioni proposte dai riformatori riescano davvero ad abbreviare i tempi del processo.
Passa, poi, ad esaminare alcune innovazioni, e tra queste le notificazioni effettuate d’ufficio e il divieto di udienze di mero rinvio, per trarne la conclusione che si tratta di norme illusorie, comunque di difficile applicazione, anche perché non tengono conto delle carenze di organico e delle situazioni eccezionali.
L’attribuzione di tutte le cause di lavoro alla competenza del Pretore viene criticata soprattutto in ragione di come la figura di questo giudice si presenta nella realtà dei diversi territori; ed è una critica di qualità, perché lo studioso non esclude la possibilità di far decidere le controversie di lavoro al Tribunale, in questo caso come giudice monocratico( se questo serve davvero ad accelerare i tempi del processo). Poi critica la norma che prevede la riduzione degli organici, già insufficienti, di Tribunali e Corti di Appello, per incrementare quello dei Pretori( senza contare i tempi comunque lunghi per una riforma a regime su questo punto).
Una critica riguarda anche i termini, in alcuni casi assai brevi, che non tengono conto dei pur legittimi impedimenti, che in alcuni casi si possono verificare, e comunque privi di sanzione(che, se prevista, violerebbe l’art. 24, Cost.); mentre, proprio per rispetto del «rito oralistico » prescelto non si dovrebbe negare la possibilità della costituzione, tardiva, con la comparizione del convenuto all’udienza di discussione. E inevitabilmente le critiche riguardano, anche, tutta la fase istruttoria, con la limitata possibilità (secondo una fattispecie assai generica, peraltro) di proporre mezzi di prova, in alcuni casi rilevanti ma anche decisivi, che le parti non abbiano potuto proporre prima. Quanto allo svolgimento dell’istruttoria è davvero irrealistico pensare che le prove ammesse, se non all’unica udienza fissata per la loro assunzione, possano essere esperite in continuazione nei giorni feriali successivi( senza tenere conto del calendario dei processi presenti sul ruolo, anche se il Pretore si occupa solo di cause di lavoro).
Questo studioso è profondamente avverso al sistema delle preclusioni, soprattutto se riguardano la sostanza del decidere: e qui il discorso ritorna sulla ammissibilità della prova tardiva.
Sulle ordinanze pronunciate in corso di causa, le perplessità riguardano l’oggetto e il significato della non contestazione e l’esclusione della sentenza parziale al posto dell’ordinanza di pagamento nei limiti del diritto accertato o nella misura della prova raggiunta (che si traduce, di fatto, in una provvisionale);viene pure criticato il meccanismo della decisione presa all’esito dell’udienza di discussione, salvo il rinvio con scambio di note, che tradisce il fatto che anche il Pretore, per ragioni contingenti, può avere necessità di un rinvio. Per quanto riguarda il giudizio di appello, la critica riguarda il concetto di prove indispensabili per essere ammesse, anche oltre il divieto: ed è facile la considerazione dello studioso di ritenere che tutte le prove possano essere indispensabili in quanto rilevanti, così che «il manipolo ferrato delle nuove prove di appello entrerebbe trionfante nella cittadella che esso deve espugnare» (p.35).Da ultimo, senza svalutare il giudizio di primo grado(nel convegno bolognese difeso soprattutto da Cappelletti e Denti, a scapito di quello di appello), Allorio difende, invece, il giudizio di secondo grado, che ha pari dignità del primo, senza che «debba essere carente di una piena libertà e di una piena ricchezza probatoria solo perché si vuole, in questa maniera, fare che il giudizio di primo grado sia un giudizio più valutato o più valutabile, o più degno»(p.35).
Da ultimo difende Fabbrini, a proposito della affermata neutralità del giudice - che deve essere imparziale, non certo indifferente- e della legge processuale - che deve essere obbiettiva, proprio per non costringere il giudice ad essere parziale. E in questa chiave interpretativa, richiamando l’intervento di Fazzalari, distingue la legge sostanziale, che consente al giudice un certo margine di intervento in senso completivo, dalla legge processuale che non può attribuire al giudice il potere di dettare il modo di risolvere i conflitti e, in luogo del legislatore, disporre di mezzi con i quali stabilire la soluzione che dei conflitti di lavoro deve essere effettuata(così da attuare la giustizia sociale).
Tra gli interventi possiamo qui segnalarne solo alcuni.
Giuseppe Tamburrino ritorna sul tema della sperequazione tra lavoratore e datore di lavoro da risolvere sul piano sostanziale e non certo processuale, senza violare il principio costituzionale della parità delle posizioni delle parti nel processo; pone il problema del necessario coordinamento tra le norme processuali dello statuto dei lavoratori ( artt. 16,18 e 28) e il nuovo processo del lavoro; critica le riforme settoriali ed evoca le proposte di chi, a livello generale, intende introdurre il giudice monocratico, ma di Tribunale(riforma che, se attuata, comporterebbe la soppressione del Pretore); si dice, però, contrario al giudice unico proprio nel momento di crescente, se pur deprecabile, politicizzazione del giudice; è favorevole alle norme relative al procedimento di cassazione, ma critica la riduzione a cinque dei membri della istituenda Sezione Lavoro a differenza delle altre, risultando, sul punto, ingiustificata una riforma solo settoriale.
Renato Scognamiglio riconosce, innanzitutto, che il diritto del lavoro costituisce un ramo speciale dell’ordinamento giuridico, che sintetizza, efficacemente con queste parole: «a differenza del diritto civile comune ed in particolare del diritto dei contratti e delle obbligazioni, in cui si celebra l’eguaglianza e libertà formale dei soggetti implicati nei relativi rapporti, il diritto del lavoro offre gli elementi ed i criteri di un trattamento unilaterale, o se si vuole privilegiato, in favore del lavoratore; in quanto si propone, con i suoi strumenti di intervento, di sollevare dalla situazione di soggezione, e sostanziale inferiorità, coloro che si trovano alle dipendenze di altri nell'esplicazione di una attività, come 1a prestazione lavorativa, che costituisce tanta parte della loro personalità, o addirittura della loro stessa vita » (p. 66).
È questo il presupposto della specialità del rito del lavoro, senza, però, che possa riconoscersi un privilegio nel processo a favore della classe dei lavoratori. Secondo Scognamiglio il progetto di riforma va senz’altro approvato per quanto riguarda l’adozione di strumenti e modalità atti a garantire una sollecita e giusta pronunzia in tema di controversia del lavoro; mentre vanno decisamente contestate, e debbono essere eliminate, tutte quelle statuizioni e regole che, per favorire il lavoratore, arrivano a comprimere la difesa del datore di lavoro (limiti e decadenza a carico del convenuto; provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado; esecuzione sulla base del solo dispositivo). Tra le norme più tecniche, sono oggetto di critica: l’estensione dell’ambito di applicazione alle collaborazioni coordinate e continuative e agli altri rapporti non devoluti dalla legge ad altro giudice, tutti, peraltro, di difficile individuazione; la competenza attribuita al Pretore, se non nella prospettiva di una generalizzata riforma in tal senso dell’intero processo civile(privilegiando, magari l’ufficio giudiziario del capoluogo); la scelta del ricorso, potendosi utilizzare il sistema della citazione a udienza fissa; i tempi estremamente contingentati dell’istruttoria; la pronunzia della sentenza nella stessa udienza istruttoria.
Domenico Napoletano condivide l’impianto del progetto di riforma che guarda alla tutela privilegiata del lavoratore anche in sede processuale(e cita, in proposito, la sentenza della Corte Costituzionale in materia di prescrizione dei crediti di lavoro), senza con ciò voler affermare favoritismi processuali per il lavoratore. Sulla necessità di un coordinamento con le disposizioni della l. n. 300/1970, condivide le perplessità manifestate da Tamburrino, ma solo con riferimento al procedimento ex art. 28(per l’opposizione da proporre al Tribunale); mentre la scelta del Pretore, come giudice di primo grado, deve ritenersi ormai consolidata dopo la legge sui licenziamenti individuali, con il favore della sua specializzazione(ormai necessaria).
Bruno Mazzarelli riconosce che il sistema attuale porta il giudice a conoscere la causa solo al momento della decisione, ma la scelta del ricorso, come da progetto di riforma, non risolve il problema se non adottando il meccanismo del ricorso e del controricorso per cassazione, così decongestionando le cancellerie. Propone, anche, dopo il deposito degli atti introduttivi, la pronuncia di una ordinanza di fissazione della discussione della causa ritenuta matura per la decisione ( con lo scambio di memorie) o istruttoria( per quanto richiesto dalle parti o d’ufficio), fissando la relativa udienza(così eliminando la possibilità della immediata assunzione delle prove).Va da sé che, se l’oggetto della domanda o delle eccezioni non sia stato sufficientemente determinato e specificato, il giudice deve ordinare alle parti di provvedervi in un termine perentorio.
Valente Simi riconosce l’esigenza di approntare una tutela privilegiata, anche sul piano processuale, per le controversie di lavoro, che hanno natura quasi di tipo alimentare, senza stravolgere, però, l’art. 24,Cost. Solo in questo caso sarebbe giustificato l’intervento inquisitorio del giudice, l’urgenza di una soluzione immediata della controversia, tale da giustificare varie forme di provvisionale e di esecuzione provvisoria della sentenza. Ciò non può valere per controversie di altro tipo nelle quali il datore di lavoro non dovrebbe essere pregiudicato. È con questa considerazione che ritiene da confermare la tradizionale competenza per valore, riconoscendo al giudice monocratico l’attribuzione solo delle controversie di modesto valore.
Critica, poi, l’accelerazione del processo con gli adempimenti notificatori affidati ai cancellieri ( secondo un meccanismo che contrasta con il sistema del processo civile in generale) che è solo un modo per creare l’immagine di una amministrazione della giustizia da parte dello Stato funzionale agli interessi dei lavoratori, senza valutare cosa accade nel concreto; e critica, soprattutto, la lettura del dispositivo in udienza e la dissociazione tra dispositivo e sentenza(su quest’ultimo punto, tra le modifiche apportate in Senato, è previso anche l’appello avverso il dispositivo, che diventa, comunque, difficile, se non impossibile, proporre in assenza della motivazione).
In conclusione, su queste discussioni che hanno preceduto l’approvazione della legge del 1973, si può convenire con chi ha osservato che è stata «un’epoca di grandi entusiasmi e passioni che coinvolsero pure il mondo del diritto processuale civile, fino ad allora tendenzialmente impermeabile ai fermenti che attraversavano la società» e fu proprio «l’introduzione del “nuovo ”rito del lavoro- la cui elaborazione, conviene ribadirlo, non coinvolse direttamente la “scienza”, ma fu opera delle forze sociali - [che] determinò il definitivo radicarsi di quella “tensione” riformatrice che da allora caratterizzerà per decenni la nostra migliore dottrina, sempre più impegnata non soltanto sul piano dell’elaborazione dei concetti, ma pure(e in certi periodi, forse, soprattutto) su quello della formulazione di proposte concrete per restituire efficienza e credibilità a una giustizia civile da decenni in stato di avvilente dissesto»[39].
6. La grande illusione dell’«uso alternativo del diritto» e della «giustizia di classe».
Erano, questi, anche gli anni in cui si erano affermate le posizioni collettivistiche, anche nel processo civile, e venivano elaborate teorie sull’«uso alternativo del diritto» e sull’applicazione, in concreto, di modelli rispondenti alla «giustizia di classe».
Dal 15 al 17 maggio 1972, promosso da Pietro Barcellona e da altri studiosi, si svolse a Catania un Convegno dal titolo «L’uso alternativo del diritto»[40], più volte rievocato nel corso degli anni, da ultimo in una serie di incontri organizzati, tra la fine del 2022 e i primi mesi del 2023, dalla Sapienza Università di Roma, che hanno visto anche la presenza di alcuni testimoni dell’epoca.
Il Convegno di Catania, che affronta temi trasversali a quelli oggetto della nostra analisi, prende le mosse dalla presa di coscienza della funzione politica del diritto e delle strette interdipendenze esistenti fra rapporti giuridici e rapporti politici, economici e sociali; mentre il discorso sulla interpretazione, con i contrasti tra i diversi orientamenti, assume sempre più la necessità di una verifica delle «politiche del diritto». E tra gli obiettivi politici « si avverte in modo più pressante l’esigenza di controllare l’idoneità degli strumenti giuridici per il perseguimento […] dell’emancipazione economica e sociale delle classi lavoratrici». L’interesse al confronto su queste tematiche nasce proprio dalla consapevolezza che nella prassi giudiziaria si è affermata l’utilizzazione alternativa del diritto borghese per apprestare strumenti di difesa della libertà delle classi lavoratrici.
Sono, questi, alcuni dei punti riassunti nel documento elaborato dagli organizzatori del Convegno, proposto ai relatori e agli studiosi invitati a partecipare alla discussione(v., l’Introduzione di Barcellona al primo volume, pp. V e ss., qui a p. VI, nt.1).
Posto il problema nei corretti termini della possibilità di un uso alternativo del diritto di derivazione borghese, più nella fase di formazione dello stesso, nell’esercizio delle funzioni di governo e legislativa, ma anche nella fase esecutiva, amministrativa e giudiziaria(Enrico Spagna Musso, p.57), tocca a Giovanni Tarello, dopo una completa ricostruzione storico-evolutiva della cultura giuridica italiana e del modello di giurista-interprete e del magistrato, portare l’attenzione sulla situazione che si è sviluppata a partire dal 1968, con la contestazione non tanto di una prassi giurisprudenziale o di un istituto in particolare, «quanto invece [del]l’organizzazione giuridica nel suo complesso e nei suoi basilari presupposti e condizioni di funzionamento»(p.90), portando il suo discorso, in particolare, sulla critica agli orientamenti espressi da Magistratura Democratica ( d’ora innanzi, M.D.), attraverso l’analisi di alcuni documenti, anche congressuali, che, partendo dalla «contestazione diffusa» della giustizia borghese, pongono le premesse della sua strategia politica, con le linee programmatiche(elaborate da un gruppo di magistrati, Vincenzo Accattatis, Luigi Ferrajoli e Salvatore Senese, nel Congresso di Roma del 3-5 dicembre 1971), sulla giurisprudenza alternativa(con il ricorso alle contraddizioni interne dell’ordinamento, portando sino alle estreme conseguenze i principi eversivi dell’apparato normativo borghese, tra i quali, soprattutto, l’art. 3, comma 2, Cost.) e l’identificazione di questa associazione come componente del movimento di classe(pp.98-100).
Spetta a Ferrajoli, all’epoca magistrato e storico esponente di M.D., dopo una serrata critica alla ideologia dell’apoliticità della funzione giudiziaria(che rappresenta il bagaglio del giudice medio), così che «[d]i fronte all’intensificarsi delle tensioni sociali , alla loro incomponibilità politica, alla crescente instabilità dell’ordine costituito, le forze conservatrici si appellano oggi sempre più scopertamente alla magistratura come al più solido baluardo dell’ordine e della legalità incoraggiandone le vocazioni pangiudiziarie e repressive»(p.109), teorizzare(e difendere), da una parte, la scelta di classe di questa corrente della magistratura per contrastare «la giustizia borghese [che] al di là della formale parità di trattamento che essa è idonea ad assicurare, di classe per la sostanziale disuguaglianza dell’assetto sociale in cui essa opera e che essa consente»(p.113); e dall’altra, la giurisprudenza alternativa, che si fonda, essenzialmente, su un capovolgimento del rapporto tra norma e fatto istituito per via di sussunzione(pp. 115-118) e sulla emancipazione politica del giudice e il suo collegamento con la realtà esterna( pp. 118-122): «Il giudice isolato nella torre d’avorio della sua coscienza, al di sopra delle parti e al difuori del mondo, non esiste oggi e non è mai esistito in passato: è solo un’invenzione di comodo dell’ideologia borghese»(p.121)[41].
Tra gli interventi, tutti pubblicati nel vol. II[42],merita, qui, segnalare quello di Eduardo Grasso(pp. 131 e ss.), che è interessante perché intende superare la consapevole astensione dal dibattito dei processualisti, che invece possono trovare una ribalta nel rinnovato contesto normativo che consente al giudice l’uso di poteri, soprattutto in fase istruttoria, che lo portano, inevitabilmente, a tutelare la parte più debole. Nelle parole di questo studioso si legge il superamento dell’idea di neutralità del processo: «l’uso alternativo del processo si pone in chiara evidenza[…]nella possibilità di un intervento dell’ufficio a favore della parte socialmente ed economicamente più debole, e quindi nella possibile riduzione del vantaggio iniziale di colui che solo è in grado di procurarsi mezzi di prova necessari per superare la lite e ha promosso il processo nel momento e nelle condizioni a lui più favorevoli»(p.133). Secondo questo studioso la giovane giurisprudenza ha fatto, talvolta, un uso consapevole dell’uso alternativo del diritto sostanziale, senza rendersi conto della possibilità di un uso adeguato, e alternativo, dell’ordinamento processuale, per superare l’ideologia del sistema. E fa riferimento alle possibili applicazioni, nei termini processuali alternativi indicati, della legge fallimentare, di quella sul divorzio e dello statuto dei lavoratori(pp.133-134).
Il filo rosso conduttore delle discussioni di Catania è l’interpretazione di classe del diritto borghese ( non a caso era questo il titolo iniziale del documento programmatico di invito al convegno) e la contrapposizione tra le divere posizioni riassunte nella Relazione di Ferrajoli e nell’intervento di Nicolò Lipari(che esprime la posizione più coerente dal punto di vista giuridico) danno conto delle diverse sensibilità dei giuristi di fronte al tema dell’interpretazione, cioè sui criteri giuridici delle scelte politiche, dei giuristi e dei giudici in particolare. E non a caso, almeno sul piano delle applicazioni giurisprudenziali, molti interventi riguardavano il ruolo del giudice, anche nella pratica giudiziaria degli appartenenti a M.D. ( che trovava soprattutto nella loro rivista, Quale Giustizia, un costante riferimento di documentazione e informazione), molto criticata soprattutto da Tarello (con appellativi che non lasciano adito a dubbi: «gruppuscolo», «avventurismo», «soggettivismo», «nasserismo da giovani magistrati»)[43].
I temi sollevati dal Convegno di Catania trovavano un terreno fertile in diversi studi dei processualisti che negli anni precedenti avevano affrontato il tema del processo civile in rapporto alle istanze di giustizia sociale e al portato delle diverse ideologie, iniziando una battaglia contro il formalismo e l’astrattismo[44], senza il livore ideologico di alcuni interventi del Convegno di Catania, ma nella consapevolezza che non poteva essere certamente la neutralità del processo, ancora di recente riaffermata, una soluzione da condividere[45].
Qualche anno dopo irrompe nel dibattito l’«Introduzione allo studio del diritto processuale civile» di Sergio Chiarloni[46], un elegante “libretto giallo” (così conosciuto e pubblicizzato per il colore, insolito, della copertina) indicato agli studenti del suo Corso torinese, nel quale lo studioso mette in evidenza le relazioni che intercorrono tra gli istituti del processo civile e gli interessi economico-sociali che essi hanno l’obiettivo di salvaguardare, tenuto conto che le scelte di politica legislativa in materia processuale non sono neutre ma tese a salvaguardare gli interessi delle classi dominanti(pp. 12 e ss.).E non a caso la parte dedicata alla riforma del processo del lavoro è quella più corposa di questo volumetto( pp. 77 e ss.).
Possiamo convenire con chi ha scritto che «Sergio Chiarloni faceva […] parte di quella nascente generazione di studiosi – attiva a partire dalla fine degli anni Sessanta – che aveva ripudiato il “formalismo concettualista” astratto e che si era rivolta a uno studio autenticamente politico (nel senso etimologico del termine, cioè relativo alle forme dello stare insieme) del diritto processuale civile, visto nel suo significato sociale e valutato in termini di effettività, soprattutto al servizio delle fasce più deboli (ricordiamo, tra gli altri e nella diversità di accenti, Mauro Cappelletti, Vittorio Denti, Nicolò Trocker, Luigi Paolo Comoglio, Andrea Proto Pisani, Michele Taruffo)»[47].
Sono riferimenti, questi, che non a caso hanno trovato un significativo richiamo nelle rievocazioni dei cinquant’anni della riforma processuale del 1973[48].
7. La Sesta Legislatura alla Camera dei Deputati.
Torniamo ai lavori parlamentari, alla VI Legislatura[49]. Il 5 luglio 1972, con la Presidenza del Deputato socialista Sandro Pertini, l’Assemblea della Camera viene aperta con l’annunzio di varie PdL, tra le quali la n.379 presentata da Deputati di diversa appartenenza politica, dalla DC al PRI, dal PSI al PCI, a dimostrazione della natura trasversale di questa iniziativa parlamentare[50].
Tra i cofirmatari i comunisti rappresentano il gruppo più nutrito. Non è, questa, una novità, perché per il PCI, sebbene fuori dalla maggioranza di governo, la legge di prossima emanazione è soprattutto una battaglia politica, non solo di civiltà giuridica.
Questa PdL, intervenendo sul Codice del 1942, prevedeva l’abrogazione delle disposizioni di cui ai Capi II e III del Titolo IV del Libro II, con un nuovo articolato, dal 429 al 465.
Alle «Controversie individuali di lavoro» erano dedicati gli artt. 429-436 della «Sezione I – Disposizioni generali » – con la previsione delle controversie soggette al nuovo rito, della competenza del Pretore in funzione di giudice del lavoro, della conciliazione delle liti, anche in sede stragiudiziale.
La «Sezione II » era dedicata al procedimento di primo grado (artt. 437-448-quater) e alle impugnazioni ( artt. 450-453: appello; art. 454: cassazione), con alcune disposizioni che ritroveremo, poi, nel testo definitivamente approvato. Il Capo III è dedicato alle controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria (artt.459-465).
Questo è quanto disponeva l’art. 1 della PdL.
Tra le «Norme generali, di attuazione e transitorie» ( artt. 2-30), oltre all’abolizione dell’intervento in causa del pubblico ministero ( ex art. 70, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.), prevista dall’art. 2, hanno particolare rilievo: la disciplina dell’arbitrato rituale ( art. 3) e irrituale ( art. 4); la modifica, con la completa sostituzione, dell’art. 2113, cod. civ., sulle rinunzie e transazioni ( art. 5); la nuova regolamentazione del procedimento amministrativo in materia previdenziale ed assistenziale ( artt. 6-8), anche per le procedure di conciliazione (art. 9), con abrogazione delle disposizioni di leggi speciali sulla proponibilità delle domande in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria ( art. 10); la disciplina delle controversie sull’invalidità pensionabile ( art. 11).
L’art. 13 privilegiava la riunione dei procedimenti connessi, sempre in materia previdenziale e di assistenza obbligatoria, anche solo per “identità delle questioni dalla cui soluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione”; mente l’art. 14 prevede il favor per le spese legali del lavoratore soccombente per le controversie aventi ad oggetto le prestazioni previdenziali.
La gratuità del giudizio era assicurata dall’art. 15 con la completa sostituzione dell’articolo unico della l. 2 aprile 1958, n. 319, mentre gli artt. 16-21 disciplinavano il “patrocinio statale” per le controversie di lavoro e previdenziali.
Anche in questo caso, molte di queste disposizioni, seppure con un testo modificato, diventeranno definitive.
Sul piano ordinamentale spicca la modifica di due norme dell’Ordinamento Giudiziario (breviter, O.G.): l’art. 35( ad. opera dell’art. 22),con la strutturazione delle Preture in Sezioni(separate per gli affari di lavoro) e l’art. 46( ad opera dell’art. 23), con la riorganizzazione dei Tribunali in Sezioni(anche qui separate per gli affari di lavoro). La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con un numero di cinque consiglieri votanti, è istituita dall’art. 24. L’art. 26 si perita di modificare gli organici dei magistrati, mentre l’art. 27 destina, provvisoriamente, alle questioni di lavoro un terzo dei magistrati addetti al settore civile.
E il diritto del lavoro e la legislazione sociale entrano a far parte delle materie d’esame per il concorso per la nomina a uditore giudiziario(art.28), previsto dall’art. 123 dell’O.G.
L’art. 25 disciplinava la fase transitoria per i giudizi pendenti.
Nulla di nuovo, in realtà, proponevano i Deputati, che si erano limitati a ripresentare lo stesso testo di legge approvato nella precedente V Legislatura solo dall’Assemblea dei Deputati, per lo scioglimento anticipato delle Camere.
Come tengono ad evidenziare i presentatori, il testo elaborato nella V Legislatura aveva rappresentato «un processo positivo di formazione unitaria in cui tutte le fondamentali rappresentanze di parlamentari si sono cimentate e confrontate, utilizzando tutto l’ampio materiale elaborato, pervenendo così ad un voto di larghissima maggioranza dei gruppi parlamentari della DC, del PRI, del PSI, del PCI, del PSDI e del PSIUP». Non senza precisare che i lavori preparatori erano stati approfonditi con indagine conoscitiva esauriente alla quale parteciparono tutte le associazioni sindacali e i patronati e che le Commissioni parlamentari si erano avvalse di molti giuristi e operatori del diritto, tenuto conto degli studi fatti e delle proposte emerse in tanti convegni.
Il penoso quadro in cui versava la giustizia del lavoro negli anni ’60 e primi anni ‘70, la giustizia della «Repubblica fondata sul lavoro», riecheggia quello che abbiamo letto e potuto osservare anche negli anni successivi: «dalle lungaggini temporali crescenti, all’aumento dei costi, all’inadeguatezza dei giudici e dei mezzi processuali». Da qui il monito a tutti i parlamentari perché «pur nell’utile e necessario dibattito critico che susciterà» sia avvertito, anche nella VI Legislatura, il valore sociale e rinnovatore della legge proposta così da portare a compimento il lavoro già svolto nella precedente legislatura.
Nella seduta del 3 ottobre 1972 la PdL n. 379 venne assegnata, in sede legislativa, alle Commissioni permanenti riunite IV(Giustizia) e XIII(Lavoro).
7.1. Le Sedute delle Commissioni permanenti riunite (Giustizia e Lavoro) in sede legislativa: 18 ottobre 1972.
L’ordine del giorno recava la discussione abbinata con la PdL dell’On. Paolo Bonomi(DC) ed altri, n. 268«Esonero dei lavoratori dal pagamento delle spese di soccombenza nei giudizi proposti dai lavoratori nei confronti degli istituti assicuratori», presentata il 14 giugno 1972.
La terza, del MdG, On. Gonella, fu la volta buona: il 16 ottobre 1972 egli presentò alla Camera il DdL n. 951(«Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria»). L’annunzio in Aula venne dato il 17 ottobre 1972 e il 26 ottobre 1972 il DdL fu assegnato, in sede deliberante, alle Commissioni permanenti IV(Giustizia) e XIII(Lavoro).Questa volta, però, è il sostegno all’iniziativa parlamentare che aveva portato alla PdL n. 379 presentata dall’On. Lospinoso Severini ed altri(della quale ripete il contenuto),che fa la differenza.
Il Governo, in questa occasione, manifestò la convinzione che, imposta da esigenze di natura sociale, fosse ormai indifferibile la riforma delle controversie di lavoro e previdenziali, finalizzata «ad instaurare un procedimento agile, moderno, essenzialmente improntato ai principi dell’oralità e dell’immediatezza, nel quale possa venire a trovare adeguato soddisfacimento quella esigenza di una pronta ed efficace giustizia in particolar modo sentita dal mondo del lavoro».
Fu anche un omaggio al lavoro svolto dalla Camera, usufruendo dei risultati particolarmente qualificanti raggiunti e della possibilità, offerta dall’art. 107 del Regolamento della Camera, di ripresentare, con corsia preferenziale, un DdL dello stesso identico testo approvato dalla Camera nella precedente legislatura(come già detto sopra, trasmesso il 22 settembre 1971 al Senato come atto S.1885). Il Governo espresse, comunque, la riserva per la presentazione di emendamenti, che, però, non fu esercitata, proprio per agevolare l’approvazione del testo concordato.
In realtà l’annunzio di questo DdL del Governo era stato dato il 4 luglio 1972, molto prima della sua effettiva, formale presentazione, avvenuta, come abbiamo detto, soltanto il 16 ottobre 1972, al limite dell’approvazione del testo da parte della Camera.
E questo rappresentò il primo, significativo, elemento di attrito tra i Deputati della maggioranza parlamentare(allargata ai comunisti) e quelli dell’opposizione di destra, perché l’On. Mirko Tremaglia(MSI-DN) al tempo aveva chiesto, giustamente, un rinvio della discussione della PdL, in attesa della assegnazione alle Commissioni riunite, in sede legislativa, anche del DdL governativo, per procedere ad un esame congiunto di entrambi i testi.
Con il beneplacito del Governo (presente con il Sottosegretario di Stato alla Giustizia, On. Alberto Ferioli(PLI), che ribadisce l’identità dei due testi e la posizione del Governo favorevole ad una sollecita approvazione), anche per rispetto dell’autonomia della Camera inizia la discussione, una volta respinta, ai voti, la richiesta missina.
Il problema - tutto politico - resta e non è di poco conto perché la compagine del Governo della VI Legislatura non è esattamente corrispondente al profilo dei Deputati che hanno presentato la PdL.
Nella sua Relazione(pp. 2-6), l’On. Lospinoso Severini richiama l’impegno profuso da tutti i Gruppi Parlamentari nella precedente legislatura (nella quale era stato pure Relatore), e il lavoro egregiamente svolto, riaffermando quanto la riforma fosse urgente e improcrastinabile per non vanificare le aspettative dei lavoratori tese a superare le lungaggini dei processi. È avvertita la sensazione che le norme procedurali debbono costituire il presidio più saldo per la salvaguardia dei diritti sostanziali.
I principi informatori sono quelli della oralità, della concentrazione e della immediatezza ma anche della gratuità, così da accelerare al massimo l’iter processuale, assicurare una diretta ed immediata conoscenza da parte del giudice della materia del contendere e rendere più accessibile la giustizia ai lavoratori.
Gli elementi essenziali della riforma sono tracciati, specificamente( si tratta di quindici, densi, punti), con riferimento ai diversi gruppi di norme.
Innanzitutto, quelle riguardanti le controversie individuali di lavoro: dalle materie oggetto del nuovo rito alla competenza in primo grado del Pretore; dal ricorso come atto introduttivo alle decadenze e preclusioni; dalla centralità dell’udienza di discussione, con il tentativo di conciliazione e l’interrogatorio libero delle parti, all’istruttoria che consente anche l’espletamento di poteri officiosi del giudice e l’intervento in causa della associazioni sindacali, con informazioni e pareri, anche su richiesta delle parti; dalla pronuncia di ordinanze di pagamento in corso di giudizio alla decisione della lite, in tempi brevi, con la lettura del dispositivo all’esito della discussione orale, con la riduzione al massimo delle memorie scritte che le parti si devono scambiare; dalla provvisoria esecutività della sentenza di primo grado alla possibilità per il datore di lavoro di chiedere, a condizioni limitate e con alcune garanzie per il lavoratore, la sospensione della stessa in appello; dalla competenza del Tribunale per il grado di appello, secondo gli stessi criteri del procedimento di primo grado, alla limitazione a casi indispensabili dei nuovi mezzi istruttori, fermo restando il divieto di nuove domande ed eccezioni; e, da ultimo, per il giudizio di cassazione, la possibilità di presentare ricorso anche per la violazione o la falsa applicazione dei contratti collettivi e delle norme ad essi equiparate).
In secondo luogo, le controversie previdenziali, assoggettate allo stesso rito del lavoro, ma con alcuni punti di novità: il principio del silenzio-rifiuto nel procedimento amministrativo e la limitata rilevanza dello stesso come condizione di procedibilità dell’azione giudiziari; la competenza esclusiva, in primo grado, del Pretore che risiede nel capoluogo del circondario); l’arbitrato ( escluso per le controversie previdenziali); la gratuità del giudizio.
Ci sono, poi, le norme di attuazione, transitorie ed ordinamentali.
E viene, soprattutto, rimarcata la necessità di acquisire risorse adeguate , personali e materiali( e qui sono richiamati gli interventi dallo stesso svolti nella precedente legislatura).
Sulla stessa lunghezza d’onda è la Relazione dell’On. Antonio Del Pennino(PRI), per la XIII Commissione(Lavoro), che però è più tecnica, riguardando le singole disposizioni normative(pag. 6 e ss.).
7.2. Continua: 19 ottobre 1972.
Prosegue la discussione e c’è chi, come l’On. Gilberto Bonalumi(DC),pone il problema dell’inadeguatezza delle norme processuali all’epoca vigenti in conseguenza dell’industrializzazione e delle grandi trasformazioni del lavoro e della società. E nota che proprio nell’ambito delle cause civili, non cresciute nel loro complesso(anzi diminuite), almeno un terzo delle pendenze sono di lavoro; mentre un numero sempre maggiore di casi verte sulla violazione di un diritto derivante dal rapporto di lavoro, «il rapporto più importante della società industriale».Poche risorse e troppo tempo, anche cinque anni tra Tribunale e Corte di Appello, con la conseguenza che il lavoratore spesso «accetta transazioni svantaggiose e si accontenta di quello che il datore di lavoro gli dà, senza arrivare alla fine del procedimento», tanto da pregiudicare la parità formale tra le parti. «Ad un settore che riflette direttamente il travaglio, le tensioni, la carica di rinnovamento della nostra società, vengono applicate procedure formalistiche e superate che accentuano la posizione di debolezza in cui viene a trovarsi il lavoratore». In conclusione, la riforma del processo del lavoro deve essere il naturale corollario dello “Statuto”, visto che non ha potuto precederlo.
L’On. Ferdinando Di Nardo(MSI-DN) formula censure attinenti soprattutto alla tecnica legislativa ma pone anche il problema della celerità del processo, nel suo insieme, e delle decisioni e della uniformità delle sentenze, in senso nomofilattico; tuttavia, non è contrario alla riforma, a prescindere.
L’On. Coccia considera politicamente importante il DdL di iniziativa governativa che ha lo stesso contenuto della PdL; e valorizza le due indagini conoscitive che hanno accompagnato i lavori parlamentari. La novità viene anche individuata nello sforzo del legislatore di legare il processo del lavoro alla vita del lavoratore ed ai livelli del processo produttivo. Richiama, anche, la battaglia condotta dai comunisti nella precedente legislatura per ricondurre la cognizione delle controversie di lavoro dei dipendenti pubblici ai giudici ordinari, a ciò non ostando il precetto costituzionale dell’art. 103. Per arrivare alla pronta approvazione della legge, il PCI non insiste su questa questione, che comunque merita di essere affrontata, anche con riferimento alle controversie del settore agricolo.
L’On. Raimondo Milia (MSI-DN) apprezza moderatamente il testo della PdL e pone il problema delle lungaggini processuali e delle carenze di organico, da risolvere anche con l’integrazione di avvocati qualificati.
L’On. Francesco Mazzola(DC) considera la PdL in esame una conseguenza doverosa della legge sullo “Statuto”, ma richiama l’attenzione sulla necessità di una riforma organica del processo civile «senza la quale non sarà possibile dare credibilità sostanziale ai giudizi sulle controversie di lavoro», nella consapevolezza che le nuove norme affermano la dignità della persona e collegano la società allo Stato. I punti fondamentali sono individuati nell’oralità e nell’immediatezza e nel divieto delle udienze di mero rinvio. La gratuità del patrocinio viene invocata anche per il settore penale: “La legge è uguale per tutti” significa non solo che il giudice deve giudicare tutti secondo criteri di uguaglianza ma anche nel senso che tutti devono avere le stesse possibilità di difendersi, anche tecnicamente. Speditezza sì, ma non a scapito della tecnica legislativa: è questo un punto di forza dell’opposizione di destra, che trova riscontro anche nelle critiche espresse da alcuni importanti settori della dottrina processuale civile. Resta, però, il nodo problematico della competenza del giudice e delle sezioni specializzate, anche con riferimento al mantenimento di quelle agrarie. Valuta positivamente l’attrazione delle controversie dei dipendenti di enti pubblici economici nella competenza lavoristica, non senza rilevare una possibile disparità di trattamento rispetto ai dipendenti dello Stato e degli enti locali, che ne restano esclusi. E guarda con una certa diffidenza al lavoro dei giudici monocratici sul quale viene chiesto il monitoraggio del MdG.
L’On. Pietro Riccio (DC) concorda sull’ampio consenso, espresso da molti colleghi, sul testo della PdL, che rappresenta un atto politico fondamentale. Considera positiva l’applicazione dei tre principi chiovendiani, ma osserva che: tutte le controversie, di lavoro e previdenziali, devono essere concentrate nella Pretura del capoluogo del mandamento; la competenza del Pretore deve ricomprendere anche le controversie agrarie; devono essere abolite le ipotesi di difesa personale, anche per non portare il giudice a stare dalla parte di chi non è assistito da un difensore tecnico, al fine di colmare la disparità di trattamento con la difesa della parte datoriale, così mettendo in discussione la sua imparzialità.
7.3. Continua: 25 ottobre 1972.
L’On. Giovanni Musotto(PSI) esprime la valutazione positiva dei socialisti per una rapida approvazione di un testo di legge per un processo del lavoro celere, snello e semplice, puntualizzando i tre temi oggetto di approfondimento, anche in base agli apporti della precedente legislatura: identificazione dell’oggetto delle controversie, scelta del giudice, organizzazione del processo; e rappresenta con parole efficace ai suoi colleghi «l’esigenza di trasferire nel campo del processo del lavoro i nuovi orientamenti che si erano affermati nel campo del diritto del lavoro», tenuto conto dell’autonomia che va realizzandosi in questa materia dove «il diritto del lavoro tende sempre più a porsi come un diritto peculiare nell’ambito del diritto privato».
Condivide questa impostazione l’On. Angelo Castelli(DC) che si esprime per una rapida approvazione della legge nel testo precedente, opportunamente ripresentato, frutto di quanto elaborato dal Comitato ristretto presieduto dall’On. Lospinoso Severini, come sintesi di un compromesso tra diverse forze politiche.
A dimostrazione che non basta la legge a risolvere ogni problema, richiama le disposizioni di attuazione del codice di procedura civile rimaste inattuate, che già avrebbero consentito una rapida trattazione delle controversie di lavoro, facendo proprie alcune precedenti affermazioni dell’On. Oronzo Reale, sulla necessità di una adeguata revisione dell’O.G. e dei servizi.
Dice Castelli:«[…] il codice di procedura civile è una legge strumentale , e nessuna legge strumentale è tanto cattiva da non poter essere applicata con risultati positivi da uomini preparati, mentre nessuna legge processuale è talmente buona da risolvere situazioni negative indipendentemente dalla disponibilità di mezzi organizzativi e di operatori che sappiano utilizzarli nel modo migliore». E così dicendo ritiene che il problema non sia tanto il numero insufficiente di magistrati quanto la cattiva distribuzione degli stessi sul territorio. Necessita, quindi, un riordino delle Preture e l’istituzione del giudice monocratico presso i Tribunali, contro la falsa collegialità: «la pseudo collegialità della firma di tre ad una sentenza elaborata da uno solo importa puramente intralcio alle procedure».
Tre sono gli aspetti positivi riscontrati: la garanzia assoluta della gratuità del giudizio, sul piano fiscale; la riaffermazione del principio della “oralità”, che semplifica tutto l’iter processuale; la possibilità di pronunciare una ordinanza di pagamento in corso di causa.
Intervenendo a chiusura del dibattito sulle linee generali della PdL, l’On. Lospinoso Severini si dichiara fiducioso sul positivo funzionamento della riforma perché è stato previsto, nella prima udienza, lo “sbarramento” per le richieste delle parti, con un rigido sistema di decadenze e preclusioni che non esistono nel codice di procedura civile vigente (o meglio esistono ma non sono applicate): così rispondendo alle perplessità sollevate dall’On. Castelli. Invoca la leale collaborazione delle parti, richiamando gli avvocati ad una puntuale applicazione della legge e il magistrato a conoscere a fondo i temi prospettati dalle parti senza rimanere “assente” durante lo svolgimento del processo. E invita i colleghi parlamentari a non presentare emendamenti ma solo osservazioni. In buona sostanza, come ribadisce, poi, l’On. Del Pennino, è auspicabile la pronta approvazione da parte delle Commissioni, lasciando poi al Senato, che nella precedente legislatura non aveva avuto la possibilità di un utile esame, di fare le meditazioni e gli approfondimenti necessari.
Sulla stessa posizione si colloca l’intervento dell’On. Danilo dè Cocci(DC), Sottosegretario per il Lavoro, che assicura la leale collaborazione del Governo, che, proprio per garantire la procedura abbreviata di approvazione, prevista dal Regolamento della Camera(come più sopra abbiamo precisato), ha presentato, il 16 ottobre 1972, il DdL n. 951, dal testo identico alla PdL, del quale abbiamo già detto sopra. Si associa l’On. Ferioli, Sottosegretario per la Giustizia.
Si passa, quindi, all’esame, nello specifico, dell’articolato della PdL.
L’On. Mazzola ribadisce la necessità di sopprimere le sezioni specializzate agrarie per evitare questioni pregiudiziali di competenza, ma l’On. Lospinoso Severini ribadisce che per ora restano e anche l’emendamento proposto per la loro soppressione presentato dall’On. Riccio viene ritirato.
Alcuni emendamenti presentati dall’On. Di Nardo e dall’On. Renzo dé Vidovich (MSI-DN) e ancora dall’On. Riccio, con il parere contrario dei Relatori e dei rappresentanti del Governo, sono tutti respinti.
La filosofia del MSI-DN è ben spiegata dall’On. Di Nardo:« il fatto «lavoro» sovrast[i]a sia chi dà sia chi esegue il lavoro». Le modifiche proposte non sono state avanzate a favore di una o dell’altra parte ma nell’interesse del lavoro, così «evitando quella confusione di interpretazione delle norme che deriva dalla poca chiarezza delle norme stesse e che porta danno al provvedere del lavoro ed ai soggetti che lo esprimono ed in esso si esprimono».
L’On. Coccia tiene a precisare che tutti gli emendamenti hanno provenienza politica missina e tendono, di fatto, ad affossare la legge.
Sull’art. 1,comunque, c’è la dichiarazione di astensione da parte del Gruppo missino e la norma viene approvata come da testo della PdL.
7.4. Continua: 26 ottobre 1972.
L’On. Di Nardo è per mantenere l’intervento del pubblico ministero proprio per garantire l’unitarietà dei giudizi giurisprudenziali e presenta anche un emendamento sostitutivo per escludere la competenza della Corte dei Conti in tema di accertamento contabile per i lavoratori: sono respinti entrambi, rilevandosi l’inutilità dell’intervento del P. M., mentre quella di discussione della PdL n. 379 non è la sede adatta per introdurre una norma sul giudizio contabile.
Irrilevanti sono gli emendamenti proposti sull’arbitrato, rituale e irrituale, comunque respinti, mentre l’art. 5 sulla nuova regolamentazione delle rinunzie e transazioni viene approvato in assenza di emendamenti. Tutti gli altri articoli vengo approvati, in qualche caso anche in assenza di emendamenti.
Con riferimento all’art. 12 sul meccanismo di calcolo della svalutazione monetaria, l’On. Di Nardo è contrario, manifestando la sua preferenza per l’applicazione di un criterio discrezionale rispetto a un criterio automatico di determinazione.
Sulle norme relative a gratuito patrocinio e spese c’è la votazione favorevole in assenza di emendamenti, ma l’On. Reale esprime forti perplessità, lasciandone comunque l’esame al Senato.
L’On. Di Nardo, pur criticando il metodo di lavoro seguito, annuncia l’astensione del MSI-DN, ma richiama l’attenzione dei suoi colleghi parlamentari sull’aumento del contenzioso, anche per le norme poco chiare, e della conflittualità tra le parti.
L’On. Coccia, che per il PCI esprime incondizionato parere favorevole, ricorda la posizione espressa da Andrioli in un convegno svoltosi nella Protomoteca del Campidoglio, nei termini così riassunti: la PdL n. 379 presentata alla Camera costituisce un elemento di propulsione di un nuovo processo, la realizzazione di un nuovo modello già prefigurato da Chiovenda nel 1918. Secondo Andrioli il testo di legge proposto ha il fine di costruire una felice collaborazione tra le parti e con il giudice, creando i presupposti per superare la sistematica attuale e scoprire tutte le “batterie” all’inizio del processo. E in questa direzione andava anche Calamandrei nel 1934, che avvertiva una esigenza di moralizzazione del processo, che è lo strumento per rendere sollecitamente ragione a chi l’ha.
Anche l’On. Coccia, però, non manca di porre alcuni problemi: il ruolo del giudice del lavoro, che deve trovare una chiara definizione nel futuro O.G., e di una sua diversa collocazione rispetto alle liti di lavoro; l’attrazione delle controversie dei dipendenti pubblici nella competenza del giudice ordinario(sul punto richiamando la posizione intermedia prospettata dal Comitato ristretto nella precedente legislatura, accolta positivamente dai comunisti). Parziale è anche la soluzione prospettata in relazione detassazione reale e alla gratuità del processo. Richiama, anche, il controllo democratico sull’operato del giudice del lavoro, ricorrendo al Consiglio Superiore della Magistratura: proposta, questa, lasciata cadere per evitare contrasti politici; senza dimenticare l’importanza della auspicata riforma dell’O.G. e della acquisizione delle risorse necessarie per attuare concretamente la riforma.
Scontato è anche il voto favorevole dei socialisti, dichiarato dall’On. Musotto, dei democristiani, dichiarato dall’On. Lospinoso Severini, e dei repubblicani, dichiarato dall’On. Del Pennino.
Gli Ordini del giorno formulati, da una parte, dall’On. Castelli, e dall’altra, dall’ On. Coccia e dall’On. Giuseppe Gramegna(PCI)(quest’ultimo, più analitico sul punto della riforma dell’O.G. e delle misure organizzative ),sono unificati nel testo poi approvato, dove l’elemento di sintesi viene trovato su un adeguato impegno di spesa del Governo:« Le Commissioni IV e XIII riaffermano che la concreta attuazione della legge per l'assoluto rispetto del rito previsto ed in particolare per l'osservanza delle modalità e dei termini perentori atti a garantire l'oralità e la speditezza del processo è indissolubilmente connessa all'adozione di idonee misure quali: a) la destinazione di un adeguato numero di magistrati, di cancellieri, di ausiliari di giustizia al settore delle controversie di lavoro; b) la dotazione di una moderna attrezzatura tecnica per la documentazione e la riproduzione meccanica; c) il reperimento dei locali necessari alle sezioni specializzate; d) un adeguato impegno di spesa nello stato di previsione del Ministero di grazia e giustizia. Le Commissioni sollecitano dal Governo la presentazione dell'ormai non dilazionabile disegno di legge di riforma dell'ordinamento giudiziario».
L’approvazione della PdL vede il voto favorevole di tutti i 44 Deputati presenti, nessun voto contrario e solo tre astenuti.
8. La Sesta Legislatura al Senato della Repubblica. Le Sedute delle Commissioni permanenti riunite(Giustizia e Lavoro),in sede redigente, del giorno 20 dicembre 1972 e dei giorni 24 gennaio, 15,28 e 29 marzo, 4,11 e 12 aprile 1973.
Il testo approvato alla Camera il 26 ottobre 1972 viene trasmesso al Senato il 2 novembre 1972 e l’atto prende il n. 542.
Dopo la sua assegnazione, in sede redigente, alle Commissioni permanenti riunite II(Giustizia) e XI(Lavoro), l’esame inizia il 20 dicembre 1972.
Il Sen. Carlo Torelli(DC), Relatore per la XI Commissione (Lavoro), si chiede perché non sia stata proposta anche l’abrogazione dei Capi I(«Delle controversie collettive») e IV(«Delle controversie individuali in materie regolate da norme corporative»), che fanno riferimento all’ordinamento corporativo non più in vita. A proposito delle controversie previdenziali manifesta perplessità sui tre diversi tipi di competenza territoriale ( art. 461 cod. proc. civ. del testo proposto), esprimendo parere favorevole ad una unica fattispecie. Sull’arbitrato ritiene che la facoltà di adire il giudice debba essere attribuita anche al datore di lavoro. Le riforme strutturali sono nello stato delle cose necessarie.
Il Sen. Mino Martinazzoli(DC), Relatore per la II Commissione(Giustizia) ribadisce la necessità di apportare solo miglioramenti tecnici, mantenendo, però, la fisionomia del rito speciale già delineato.
La Sottocommissione di 19 membri, proposta dai due Presidenti (da taluno ritenuta pletorica)viene ritenuta utile solo come momento di confronto tra le posizioni espresse dai diversi gruppi, fermo restando che, in caso di disaccordo, si deve ritornare alla sede naturale, quella delle due Commissioni riunite, tutti i Senatori evidenziando di procedere ad un sollecito esame, ma non tutti condividendo la necessità di apportare modifiche. La Sottocommissione sarà approvata, ma nella composizione ridotta di 11 membri; e nella seduta del 24 gennaio 1973 le due Commissioni iniziano l’esame con la discussione generale.
Il Sen. Michele Cifarelli (PRI) esprime motivate perplessità su alcune norme e avverte che non si dia seguito a puri intenti demagogici, che potrebbero portare a squilibri più gravi di quelli riscontrati e denunciati. Sulla stessa posizione si collocano il Sen. Cristoforo Filetti(MSI-DN) e il Sen. Emanuele Lisi(DC). Alcune osservazioni riguardano la competenza per materia con riferimento alla corretta individuazione degli enti pubblici economici, e all’agenzia e ai rapporti associativi(assimilati al lavoro subordinato); la svalutazione monetaria; la competenza territoriale, che meglio potrebbe essere radicata nel luogo di residenza dell’attore.
Per la sollecita approvazione del DdL si esprimono il Sen. Cleto Boldrini(PCI) e il Sen. Agostino Viviani(PSI); a ciò è favorevole anche il Sen. Mattia Coppola (DC),senza rinunciare, però, alle modifiche necessarie. Il Sen. Mario Follieri(DC) richiama la necessità di affermare la parità processuale delle parti; mentre il Sen. Franco Mariani(MSI-DN) richiama l’attenzione sui termini difficili da rispettare, con inevitabili problemi interpretativi ed anche costituzionali.
Fallito, per vari motivi(non ultimo l’adeguata distribuzione dei membri in misura proporzionale ai diversi gruppi politici)il tentativo di costituire una Sottocommissione, il 15 marzo 1973 l’esame ritorna alle due Commissioni riunite.
Innanzitutto, viene abrogato l’intero Titolo IV del Libro II, ciò comportando la rettifica della numerazione delle disposizioni normative del DdL, come da art. 409 e ss., cod. proc. civ., che conosciamo a seguito dell’approvazione definitiva della legge. Il lavoro delle due Commissioni riunite prosegue con l’accoglimento di non pochi emendamenti che delineano il nuovo processo del lavoro, non senza rilevare( se il nostro esame è corretto), che la presentazione degli emendamenti è trasversale a tutti i gruppi politici, fatta eccezione per quello dei comunisti.
L’esame prosegue nelle sedute del 28 e 29 marzo 1973.In quest’ultima emerge una grossa disputa sull’introduzione, in un ordinamento processuale, di un principio di diritto sostanziale, quello sulla rivalutazione dei crediti di lavoro, del tutto ingiustificata, anche per la situazione economica generale del paese (così il Sen. Follieri, che esprime parere recisamente contrario).
Dopo la seduta del 4 aprile 1973, in quella successiva dell’11 aprile si svolge un ampio dibattito sulla norma relativa all’ammissione del patrocinio statale, rilevandosi, da parte di alcuni Senatori, la necessità di un migliore raccordo con le disposizioni contenute del DdL generale, in corso di esame, sulla stessa materia; mentre per altri è del tutto inopportuno l’inserimento di questa specifica regolamentazione nel testo di legge riguardante il processo del lavoro. Alla fine, però, l’art. 16 viene approvato nel testo non emendato (tranne una modesta modifica formale apportata al comma 5). Con riferimento alle disposizioni transitorie viene approvato l’emendamento sostitutivo dell’art. 25.
Nella seduta del 12 aprile 1973, dopo l’approvazione delle norme ordinamentali e di quelle relative alle riforme strutturali e alle risorse in genere, e di alcune modifiche formali, l’intero DdL viene definitivamente approvato dalle due Commissioni riunite, con il plauso dei due Presidenti, che esprimono l’auspicio di una rapida approvazione anche in Aula, dato conto dell’impegno fattivo di tutti i Gruppi parlamentari facenti parte del c.d. “arco costituzionale” e che i principi fondamentali consacrati nel testo della Camera non sono stati per nulla scalfiti, anzi sono stati migliorati nella loro specifica regolamentazione, dalle modifiche apportate in Senato. Il Presidente della XI Commissione (Lavoro), Sen. Vittorio Pozzar(DC), tiene a precisare: «Non si tratta […] di una semplice legge di razionalizzazione, ma di una vera e propria riforma, che opererà positivamente nella sfera delle libertà civili e che garantirà in modo più adeguato la difesa dei diritti dei lavoratori e della loro dignità».
Va dato atto del Parere espresso il 15 febbraio 1973 dalla I Commissione permanente ( Affari Costituzionali), che, pur essendo favorevole, «ritiene opportuno l’adeguamento, ad opera della Commissioni di merito, della proposta normativa ai precetti degli articoli 3 e 24 della Carta fondamentale, sui quali si è ripetutamente ed autorevolmente pronunciata la Corte costituzionale: e tanto, sia per la doverosa valorizzazione dei principi di concentrazione, oralità ed immediatezza propri della migliore dottrina processualistica; sia per evitare probabili eccezioni di illegittimità costituzionale che si risolverebbero unicamente in danno del lavoratore e costituirebbero sostanziale capovolgimento dei principi informatori del disegno di legge n. 542».
Le osservazioni della I Commissione riguardano due punti: 1) la revisione di alcune norme generali( artt. 430,comma 5, 439-bis, 441 e 450-quinques, commi 3 e 4), «al fine di garantire la eguaglianza delle parti sia in direzione degli incombenti istruttori, sia per le consulenze tecniche, che per ogni altro istituto, onde non vanificare il diritto di difesa, per tutti ed a tutti costituzionalmente garantito»: 2) la modificazione dell’art. 448, comma 3, nel senso che, il giudice, applicando il tasso legale degli interessi, debba comunque considerare, ex art. 1224, cod. civ., i danni subiti dal lavoratore in conseguenza del ritardato pagamento.
Non sono, queste, osservazioni di poco conto.
La Relazione illustrativa (e il testo degli articoli approvati dalle Commissioni riunite) dei due Relatori, Sen. Martinazzoli e Sen. Torelli, trasmessa alla Presidenza del Senato l’11 maggio 1973, riguarda, in particolare, gli emendamenti al testo già approvato dalla Camera, dando così conto dell’articolato definitivo.
Irrompe nella discussione parlamentare, ancora una volta, l’opinione espressa da Andrioli in occasione dell’Incontro di studio bolognese del 12 e 13 giugno 1971(del quale abbiamo ampiamente detto più sopra) sulle lungaggini dei processi di lavoro e sulla conseguente necessità di una seria riforma.
Il riformatore era chiamato a scegliere tra alcune «limitate e marginali» modifiche al sistema attuale e una «riforma radicalmente innovatrice, capace di recepire nel nuovo rito le peculiarità degli interessi e delle posizioni proprie delle parti del rapporto sostanziale»[51].
Anche in questa prospettazione, il punto di partenza sono le Relazioni annuali del CSM sullo stato della giustizia(la sua crisi e i rimedi possibili), del 1970 e 1971 delle quali abbiamo dato conto nei paragrafi precedenti.
Il cambio di passo viene individuato con riferimento al fatto che sul piano delle controversie individuali di lavoro sono mutate le posizioni giuridiche soggettive da tutelare ( anche se le prestazioni di carattere economico mantengono la loro importanza), mentre nel campo della tutela antinfortunistica assume particolare importanza l’indennizzabilità dei singoli casi rispetto al quantum.
Viene registrato un livello qualitativo migliorato nel tempo, ma in misura non ancora sufficiente.
I Relatori non mancano di evidenziare che la riforma del processo del lavoro è la premessa, concreta, della riforma dell’intero processo civile, in una prospettiva di integrale rinnovamento.
Dato atto della compatta maggioranza che alla Camera (ad esclusione del MSI-DN) aveva approvato la PdL(con riferimento alla quale anche il Governo aveva presentato, in completa adesione, un DdL, che la ripeteva nel suo contenuto), i due Relatori riconoscono la responsabilità affidata al Senato di apportare le modifiche necessarie, dal punto di vista tecnico, senza, però, stravolgere le linee essenziali della riforma già approvata dalla Camera.
In questa ottica, l’intento degli emendamenti è quello di migliorare il provvedimento sotto un duplice profilo: «anzitutto rendere tecnicamente più funzionale il nuovo rito, e poi garantire al nuovo processo una effettiva e concreta applicabilità, attraverso idonee norme di attuazione e indispensabili norme di ristrutturazione degli uffici, senza le quali tutto rimarrebbe allo stato di un mero atto di buona volontà, tanto vacuo quanto deludente». E gli OdG presentati cercano di sensibilizzare il Governo su alcuni aspetti tecnici e sull’incremento dell’organico dei giudici del lavoro.
Vengono poi esposti, partitamente, i singoli punti della riforma, che ripercorrono il nuovo articolato nel testo approvato dalle due Commissioni.
La stampa accompagna le fasi salienti delle discussioni parlamentari. Due testate, per tutte.
Su Il Giorno del 9 gennaio 1973, in un articolo dal titolo: «Al Senato un progetto innovatore. Sveltire il processo per le cause di lavoro», Gino Giugni, dopo aver, ancora una volta, denunciato la intollerabile situazione in cui versano i processi del lavoro e le lungaggini che li affliggono, si pone il problema della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato, che può contare sull’applicazione dell’art. 18, st. lav., ma non in termini ragionevoli, e valorizza, sul piano sindacale, l’art. 28, st. lav., come modello nuovo di processo. Non nega alcuni difetti tecnici, ma meglio una legge imperfetta ed efficiente rispetto alle regole vigenti. Scrive Giugni: «L’esigenza di una giustizia «perfetta» viene un tantino sacrificata a quella di una giustizia «efficiente». Pertanto, ecco che l’appello non sospende l’esecuzione della sentenza. D’altra parte, quando sono in gioco interessi vitali come quelli inerenti al posto di lavoro o alla giusta retribuzione, è logico che sia così».
Giugni, però, non coltiva soverchie illusioni sul tormentato cammino parlamentare, perché la riforma tocca nel vivo molti interessi costituiti. Innanzitutto, degli industriali, soprattutto minori, che preferiscono temporeggiare sui pagamenti dovuti o indurre i lavoratori, in condizioni bisognose, ad accettare transazioni svantaggiose, ma temono anche l’accentramento della competenza in mano ai pretori, più inclini a innovare gli indirizzi interpretativi del diritto del lavoro. Ma anche della classe forense, costretta, da un processo rapido e improntato alla oralità, a modificare notevolmente il suo stile professionale. E conclude: «Si tratta, come si vede, di resistenze in parte dettate da interessi di classe, ma forse in misura ancor maggiore da interessi di ruolo o corporativi cui non sono del tutto indifferenti perfino alcuni avvocati che operano nella sfera dei sindacati. Può pertanto affermarsi che la discussione parlamentare sarà un buon banco di prova della capacità della classe politica di trascendere visioni settoriali o interessi di ruolo».
Sul Corriere della Sera del 2 febbraio 1973 un articolo dal titolo: «Una legge che attende l’esame del Senato. La riforma del processo del lavoro» dà conto di alcune iniziative di ACLI e CGIL, CISL e UIL che sollecitano una rapida e definitiva approvazione della legge di riforma, già votata due volte dalla Camera, con il consenso quasi unanime dei partiti. Le tre OO.SS, in particolare, preso atto delle assicurazioni rese dai due Presidenti delle Commissioni permanenti, Giustizia e Lavoro, fanno presente che il movimento sindacale «si adopererà a tutti i livelli per impedire che la legge tanto attesa sia snaturata come accaduto per altre indilazionabili riforme». Mentre avvertono il pericolo di un profondo emendamento della PdL con lo stravolgimento del suo significato politico le ACLI, che preannunciano lo svolgimento, a Roma, il 21 febbraio 1973, di una tavola rotonda dal titolo significativo: «Il nuovo processo del lavoro: una conquista da difendere».
8.1. La Seduta dell’Assemblea del 15 maggio 1973.
È quella decisiva perché l’Assemblea procede alla votazione e all’approvazione in via definitiva del DdL n. 542, già esaminato ed approvato articolo per articolo, come abbiamo visto sopra, dalle Commissioni permanenti riunite II(Giustizia) e XI(Lavoro),in sede redigente. Di seguito i punti salienti delle dichiarazioni d’Aula.
Mentre il Senatore Torelli si riporta a quanto scritto nella sua Relazione agli atti, il MdG, On. Gonella, dopo aver richiamato le sue precedenti iniziative governative svolte negli ultimi 12 anni alle quali abbiamo fatto cenno(4 febbraio 1960, 14 ottobre 1968 e 16 ottobre 1972) e le altre proposte di iniziativa parlamentare, senza nascondere il ristagno largamente lamentato e deplorato, illustra le novità più importati del DdL(per il quale augura, finalmente, la definitiva approvazione),«che tende ad instaurare un procedimento agile, moderno, essenzialmente improntato ai principi dell’oralità e dell’immediatezza, nel quale possa trovare adeguato soddisfacimento quella esigenza di una pronta ed efficace giustizia in particolar modo auspicata dal mondo del lavoro)».
Tra i punti più qualificanti della riforma viene indicata «l’attribuzione della competenza di primo grado , senza limiti di valore, ad un giudice monocratico, al pretore, che è apparso il giudice più idoneo, per essere il giudice più vicino al luogo di lavoro, ed alle concrete situazioni locali» ( e correlativamente la competenza del tribunale per l’appello) ». A questo si aggiunge: la previsione di termini, decadenze e preclusioni tali da costringere le parti a chiarire fin dall’inizio le rispettive posizioni processuali; l’ampliamento dei poteri istruttori del giudice per impedire che la rigidità del sistema possa risolversi in danno dell’accertamento della verità; la pronuncia in corso di causa di ordinanze di pagamento di somme non contestate o nei limiti di quanto risulti accertato; le informazioni e osservazioni delle associazioni sindacali; tempi brevi per lo svolgimento del processo; lettura del dispositivo in udienza e sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva; condanna al pagamento della rivalutazione monetaria; divieto di domande ed eccezioni nuove e nuovi mezzi di prova in appello; ambito di applicazione esteso alle controversie previdenziali; preventivo ricorso amministrativo ridotto a semplice condizione di procedibilità; abolizione dell’intervento in causa del pubblico ministero; ammissibilità della clausola compromissoria nei contratti collettivi; disciplina dell’arbitrato irrituale; disciplina di rinunce e transazioni.
Particolare attenzione viene riservata alla gratuità del patrocinio, in tutte le sue declinazioni, tale da consentire a tutti i cittadini l’accesso effettivo alla tutela giudiziaria dei propri diritti in condizioni di uguaglianza, indipendentemente dalla loro condizione economica.
Un altro aspetto, di non minore importanza, è l’efficienza del processo perseguita con un concreto e serio adeguamento delle strutture giudiziarie, anche con la possibilità della registrazione su nastro delle deposizioni dei testi e delle audizioni delle parti e dei consulenti.
Nelle dichiarazioni di voto i rappresentanti politici evidenziavano i pregi della nuova normativa, richiamando l’apporto dato dai rispettivi Gruppi di appartenenza.
Il Sen. Viviani, per il PSI, dopo aver espresso il favorevole apprezzamento per il DdL in discussione, «che costituisce anche un’applicazione della Costituzione che dà al lavoro una posizione di logica preminenza, quale si conviene ad una democrazia a tinte sociali forti e di tipo interventista; di tipo, cioè, tendente a porre come compito della Repubblica quello di intervenire per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono alla personalità umana di esprimersi nella sua pienezza e a tutti i cittadini di partecipare alla vita politica sociale ed economica del paese», individua, come caratteristica fondamentale ed essenziale della riforma, il nuovo ruolo assegnato al giudice, parte attiva del processo, interventista, al quale sono attributi poteri concreti al fine di svolgere il suo compito, che passa in breve rassegna, insieme ai tratti salienti del procedimento e alle posizioni processuali delle parti, non senza dimenticare i caratteri di celerità, oralità, gratuità, concentrazione. Altri punti essenziali della riforma di notevole impatto per il parlamentare socialista(fatti oggetto di ingiuste critiche) sono: l’indicazione, anche della prima udienza, come quella di discussione; la lettura del dispositivo della sentenza alla fine dell’udienza( in parallelo con quanto accade nel processo penale);l’esecutività della sentenza di primo grado; il risarcimento del danno da svalutazione monetaria; la gratuità del giudizio(nei termini già prima precisati).Ma tutta l’organizzazione del processo è destinata a mutare: «Gli operatori del diritto-questo è importante dire- dovranno mutare metodo: gli avvocati dovranno andare in udienza e discutere la causa; la figura del dominus(come con una certa punta di boria si chiama l’avvocato che sta dietro le quinte)sparisce; il procuratore giovane e magari sprovveduto non ha più ragion d’essere. L’avvocato deve stare in prima linea a discutere la sua causa. Anche il giudice deve cambiare sistema: non è più concepibile il giudice che va in udienza preoccupato solo della data di rinvio; ci deve essere un giudice informato, che sente la causa, che accetta le critiche, che non sia cassa di risonanza della cassazione ma che piuttosto sappia dare un contributo , sappia essere portatore, nell’interpretazione della norma, di quei valori della società in cui egli vive ed opera».
Il Sen. Filetti, per il gruppo del MSI-DN, stigmatizza, ancora una volta, le due deprecabili prassi alle quali non si è sottratta la riforma del processo del lavoro in discussione: fare le leggi celermente, anche se male, auspicandone la successiva revisione o modifica; la speranza o la certezza manifestate da un ramo del Parlamento che il provvedimento adottato o adottando sia emendato oppure disatteso dalla Camera chiamata a pronunciarsi per seconda; e richiama le perplessità sull’impianto tecnico della nuova normativa espresse dalla dottrina in diverse occasioni. Critica, anche, la privazione del diritto dei parlamentari dell’esame e della discussione in Aula. Il Senatore missino, poi, rimprovera all’On. Gonella di non aver difeso abbastanza l’originario testo di iniziativa governativa, tanto che, nell’attuale VI legislatura, il DdL n.951 del 1972, di iniziativa governativa, riproduce pedissequamente il testo di iniziativa parlamentare; ma tiene anche a criticare l’operato degli altri gruppi politici che, con il riferimento al c.d. «arco costituzionale», hanno isolato la destra disconoscendo l’apporto costruttivo dalla stessa dato in sede parlamentare. Ripete, abilmente, le parole di Andrioli secondo il quale «la garanzia giurisdizionale non può continuare ad essere propinata al ritmo di una diligenza postale perché, in tale ipotesi, la giustizia italiana diventerebbe un vero e proprio oggetto da museo, vecchio e polveroso, privo di qualsiasi utilità pratica»(cito, testualmente dal resoconto stenografico della seduta); e non manca di affermare la netta condivisione dei principi di oralità, concentrazione, immediatezza e gratuità a base del DdL, peraltro recepiti dalla disciplina corporativa prevista dal r.d.. n. 1073/1934, più volte citato, che si ispirò al progetto di Chiovenda del 1919 e al progetto di Carnelutti del 1926.
Restano tutte le critiche di merito. Innanzitutto, quelle relative alla competenza per materia attribuita al Pretore, in sostituzione di quella per valore, con il contraddittorio mantenimento delle sezioni specializzate agrarie. L’avversione per la figura del Pretore è radicale, trattandosi di «un giudice cioè che spesso difetta di congrua esperienza, non è idoneamente organizzato, può avvalersi di notevoli ed eccezionali poteri di discrezionalità e può soggiacere ad influenze e pressioni di carattere ambientale o locale con il fondato pericolo e timore che la sentenza pronunciata dopo un esame assai sommario e con efficacia immediatamente esecutiva possa essere gravemente erronea e produttiva di effetti assai pregiudizievoli».
Le nuove norme sul procedimento non assicurano il rispetto del contraddittorio e la certezza del diritto, con la previsione di termini perentori, decadenze e preclusioni, risultando evidente il favor actoris(che potrebbe portare lo stesso datore di lavoro ad assumere per primo la lite con una azione di accertamento). Alcune critiche severe riguardano: le ordinanze di pagamento; la condanna per svalutazione monetaria; l’intervento in giudizio di libere associazioni sindacali, nonostante la mancata attuazione dell’art. 39, Cost.; l’automatica provvisorietà delle sentenze di primo grado, potendosi, peraltro, portare ad esecuzione con la sola copia del dispositivo; l’inappellabilità per le sentenze di minimo valore; la stranissima disposizione dell’art. 5,comma 3, DdL, che consente la modifica dell’art. 2113 cod. civ., introducendo l’impugnativa stragiudiziale da parte del lavoratore, che potrà, in tal modo, azionare la sua pretesa nel termine di prescrizione di cinque anni.
Non manca la denuncia dell’attuale carenza delle strutture dell’amministrazione della giustizia, sotto il duplice profilo della mancata revisione dell’O.G. e del difetto di risorse, personali e materiali, adeguate, risultando del tutto insufficienti le modifiche e le nuove norme introdotte dal Senato: «Il disegno di legge, a nostro avviso, permane a rivelarsi velleitario ed è da temere che istituzionalizzi un nuovo processo all’italiana».
Tuttavia, nonostante le critiche, severe, formulate, il Gruppo del MSI-DN non esprime parere contrario, ma annuncia l’astensione dal voto.
Il Sen. Cifarelli, per il PRI, dopo aver criticato l’assenza di discussione in Aula, nonostante il pregevole lavoro svolto dalle due Commissioni permanenti, preannuncia il voto favorevole del suo gruppo politico, come già fatto in precedenza alla Camera, ma rileva la necessità che la riforma del processo del lavoro sia una anticipazione della riforma, organica, del processo civile, non essendo solo i lavoratori parti deboli nel processo(e cita la vedova e l’orfano in relazione alla vita e ai beni di famiglia, il danneggiato dall’illecito altrui o dallo spoglio violento del possesso); evidenzia la novità, positiva, dell’attribuzione della competenza al Pretore quale giudice di prima istanza(criticando il modello processuale del giudizio di appello); enfatizza l’applicazione dei noti principi chiovendiani, essendo, però, necessario, «che le parti assolvano al diritto - dovere della lealtà e della partecipazione onde il processo non sia una contrapposta dialettica di astuzie, di manovre, di mezzi, dilatori, di parole, che sono cautelative in apparenza ed insidiose nella realtà»; sotto questo aspetto è essenziale la corretta applicazione del nuovo procedimento da parte di tutti gli operatori del diritto interessati; ma non manca di esprimere, pur nello scetticismo, un cauto ottimismo.
Per il Gruppo del PLI il voto favorevole è dichiarato dal Sen. Francesco Arena che riconduce la legge di nuova approvazione alla necessità di reagire, nel processo, ad una «intollerabile lentezza, intinta fors’anco d’una tal quale non completa fiducia nell’operar pratico di magistrati ed avvocati», non senza nascondere le perplessità suscitate da talune disposizioni e il rilevo di qualche manchevolezza, solo in parte superati dai rimarchevoli emendamenti( ad esempio sul tasso di interesse rimasto nella misura legale del 5%, pur con la previsione del danno conseguente alla svalutazione monetaria): si tratta, in particolare, delle norme relative a: facoltatività del tentativo di conciliazione; competenza esclusiva, ratione materiae, del Pretore; pronuncia immediata della sentenza in udienza; valutazione equitativa del giudice.
Resta, ovviamente, l’auspicio di una rapida soluzione della più generale crisi della giustizia, per non creare un inammissibile privilegio a favore solo di alcuni(senza con ciò nascondere l’essenziale tutela riservata alla gran parte dei cittadini che svolgono la loro attività di lavoro subordinato).
Il Sen. Carlo Galante Garrone, per il Gruppo della Sinistra Indipendente, non senza ragione collega il positivo risultato raggiunto con l’approvazione del DdL sul processo del lavoro a quello, di prossima approvazione, relativo alla difesa in giudizio dei non abbienti, richiamando, in proposito, il principio costituzionale dell’art. 3(e ripete, in proposito, le parole di Calamandrei sulla “legge uguale per tutti” che per chi è povero diventa una beffa alla sua miseria).
Gli aspetti positivi della riforma vanno dalla competenza esclusiva del Pretore in primo grado (per ragioni di ordine tecnico ma soprattutto per il significato politico che essa riveste, «considerata la maggiore sensibilità dei giudici giovani ai fermenti ed ai fenomeni nuovi della vita del lavoro») alla necessità di semplificare e accelerare al massimo la procedura, senza pregiudicare il diritto di difesa, garantita da diverse norme.
E conclude(con riferimento al cambio di passo nel modo di intendere ed esercitare la difesa in giudizio e l’esercizio della giurisdizione) con le parole, significative, di Andrioli, annunciando la sua dichiarazione di voto favorevole: «La trattazione dei giudizi si dovrà svolgere precipuamente in udienza: il che imporrà, da un lato, l’abbandono da parte degli avvocati di poltrone e poltroncine e, dall’altro, il ripudio da parte dei giudici della funzione di udienza come attività vicaria di cancelliere. Se tanto non si ha volontà di fare, il progetto si affiancherà, nel museo delle leggi fulminate da costante disapplicazione, alla legge sul procedimento sommario e al codice del 1942».
Il Gruppo dei comunisti, per bocca del Sen. Carlo Fermariello, dichiara, ovviamente, il voto favorevole.
Da cosa nasce l’esigenza della riforma delle norme processuali in materia di lavoro? «L’esperienza ha difatti largamente dimostrato che nelle controversie tra padroni e lavoratori la legge non è uguale per tutti perché non può esservi uguaglianza tra disuguali, tra soggetti più forti e soggetti più deboli»: si realizza finalmente una giustizia sostanziale, non una giustizia «ingiusta», come si è detto.
Il lavoratore spesso è costretto a rivendicare i suoi diritti solo dopo il licenziamento o pensionamento; e la lunghezza spropositata dei tempi del processo vanifica ogni aspettativa di tutela: da qui la necessità di un procedimento speciale, per recepire , con un nuovo rito, le peculiarità degli interessi e delle posizioni proprie delle parti del rapporto sostanziale.
La difesa del DdL è tutta politica contro «l’accanimento con il quale cospicue forze della destra economica e politica, interne ed esterne al Senato, hanno operato e premuto, prima per insabbiare il provvedimento, poi per farlo sospettare di incostituzionalità e infine per stravolgerlo profondamente rispetto ai contenuti innovatori decisi dalla Camera». E dà atto della costante e costruttiva iniziativa del suo Gruppo e delle altre organizzazioni di sinistra e democratiche, ivi compreso un largo settore della DC.
Il parere è favorevole per tutti gli istituti fondamentali del nuovo processo del lavoro, non senza criticare il mancato riconoscimento del saggio di interesse annuo sui crediti di lavoro pari al 10% e la mancata previsione della decorrenza della prescrizione per tutti i crediti di lavoro a far data dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Il voto favorevole del Gruppo della DC è dichiarato dal Sen. Pozzar, che rivendica, pure lui, il lavoro svolto dai suoi colleghi parlamentari nelle precedenti legislature e riconosce il positivo apporto del Senato con l’approvazione di emendamenti migliorativi del testo approvato dalla Camera, senza,comunque, intaccare i principi fondamentali della riforma.
Contestando la qualificazione come eversiva e classista, la nuova legge risulta scritta, invece, a tutela della parte più debole e attuando i precetti dinamici della nostra Costituzione in tema di rimozione degli ostacoli di carattere economico e sociale che di fatto impediscono l’uguaglianza dei cittadini; e richiama l’impianto originario del codice di procedura civile prima della novella del 1950 (citando, a questo proposito, l’opinione di Verde).Non viene dimenticato l’obiettivo, fondamentale, di una riforma organica del processo civile, che spesso si presenta come uno «strumento che le parti possono maneggiare a loro piacimento e nel quale il giudice, nella migliore delle ipotesi, può intervenire soltanto perché vengano rispettate le regole del gioco».
Per il PSDI interviene il Sen. Aniello Giuliano, che afferma una verità, riconoscendo il positivo lavoro fatto con l’esame di 150 emendamenti e l’approvazione di molti di essi, essenzialmente di natura tecnico-procedurale: «la vera battaglia che si è combattuta è stata più politica che giuridica […], molti di noi questo disegno di legge lo hanno avvertito soprattutto sotto il profilo politico, sociale, economico ed anche umano ,guidati nelle loro considerazioni, in particolar modo, dal ricordo lontano e recente delle amarezze e delle delusioni delle quali erano stati spesso impotenti spettatori, per interminabili processi, nei molti anni di vita vissuta nel mondo del lavoro».
Nel rinnovare la fiducia nel Pretore, quale giudice di prima istanza visto con favore (perché più vicino al domicilio, alla residenza del lavoratore, ma anche, essendo magistrato monocratico, più rapido e spedito, e comunque sempre soggetto al giudizio di appello), ribadisce l’esigenza di attuare un programma di ristrutturazione e potenziamento degli organici, soprattutto delle Preture; e considera positivamente la sostituzione dell’art. 25 che, nel testo proposto, applica le nuove disposizioni processuali anche ai giudizi in corso all’entrata in vigore della nuova disciplina.
9. La Sesta Legislatura. Dal Senato della Repubblica alla Camera dei Deputati: la Seduta dell’Assemblea del 28 luglio 1973.
Il DdL approvato dal Senato, atto S.542, viene trasmesso alla Camera il 18 maggio 1973, dove la PdL prende la denominazione C.379-B, e il successivo 22 maggio ne viene data comunicazione all’Aula, mentre nella successiva Seduta del 12 giugno viene data comunicazione della sua assegnazione, in sede referente, alle Commissioni permanenti riunite IV(Giustizia) e XIII(Lavoro), che la esaminano il 24 luglio 1973.La discussione in Aula inizia il 28 luglio 1973, data del tutto insolita, essendo prossima (il 2 agosto) la chiusura estiva del Parlamento, proprio dopo l’approvazione di questa legge.
L’On. Lospinoso Severini ribadisce l’importanza della riforma e richiama, anche, le voci autorevoli dei Presidenti della Repubblica Giuseppe Saragat e Giovanni Leone, senza dimenticare le opinioni espresse da Andrioli e Simoneschi, delle quali abbiamo dato conto più sopra e in nota, e il contributo offerto da Cappelletti: il tutto racchiuso nei tre principi chiovendiani.
Nel descrivere i criteri fondamentali della riforma, sono indicati: la specificazione della materia oggetto del rito speciale nei due tronconi delle controversie, di lavoro e previdenziali; la facoltà di esperire il tentativo di conciliazione extragiudiziale, con conseguente processo verbale da rendere esecutivo; la figura del Pretore, che assomma in sé, sia il ruolo più snello del giudice monocratico, che del giudice specializzato; l’introduzione del giudizio con il ricorso, con determinati requisiti a pena di nullità; i termini perentori di fissazione dell’udienza e della notifica; la costituzione in giudizio, e la difesa, con la previsione di preclusioni e decadenze. «È facile rilevare che con tali norme si sono voluti evitare le furbizie curialesche, le tattiche dilatorie, i trabocchetti e i cavilli, per mettere in condizioni il giudice di avere immediatamente davanti a sé il quadro preciso e concreto dei termini del dibattito processuale. Un procedimento semplice, snello e celere, durante il quale domina la trattazione orale della causa, con la responsabilizzazione processuale delle parti che non pregiudica affatto il contraddittorio, e con l’attribuzione al giudice dell’effettiva direzione del dibattimento, concedendogli ampi poteri di impulso e dispositivi, per fare in modo che si superi la concezione invalsa nella pratica giudiziaria per effetto della quale il processo viene considerato res privatorum».
Certamente, «la nuova disciplina, anche se efficiente in relazione ai fini che essa si prefigge, non può avere e non ha efficacia taumaturgica, [e] le sue fortune sono affidate, in buona parte, al senso di responsabilità ed alla volontà dei magistrati ed avvocati, i quali debbono saper intendere, come sicuramente sapranno intendere, lo spirito informatore ed innovatore della stessa e debbono di conseguenza applicare le norme con mentalità nuova, abbandonando gli schemi del passato».
La parola passa all’On. Del Pennino, che entra più nello specifico, iniziando a dire che il cambio di passo si è avuto con l’abrogazione e la sostituzione dell’intero Titolo Quarto del Libro Secondo del Codice.
Il Relatore di minoranza, On. Di Nardo, rivendica la richiesta di esame della legge in Aula, perché non si possono modificare i codici con una procedura legislativa decentrata (motivo di principio), sottraendone l’esame ad ogni singolo parlamentare (motivo di sostanza). Richiama il dibattito che si è svolto nelle Commissioni, nelle precedenti letture, facendo presente che molti degli emendamenti approvati dal Senato riprendono le proposte sue e della sua parte politica. Richiama, anche, le critiche espresse, in più occasioni, da diversi esponenti della dottrina processuale civile. In particolar modo critica i termini troppo ristretti e la preferenza accordata alla parte lavoratrice, in violazione dell’art. 3, Cost.
L’On. Musotto ribadisce gli aspetti positivi dell’adeguamento del processo al nuovo mondo del lavoro e precisa ancor meglio: «Con il nuovo rito viene in sostanza tradotto sul piano processuale il nuovo orientamento del diritto sostanziale. Mentre prima il diritto del lavoro costituiva una parte del diritto privato, esso si è a mano a mano liberato dai vincoli privatistici, ha acquisito una propria autonomia, si è posto come autonomo strumento diretto ad affrontare uno dei problemi essenziali della società moderna, che è in sostanza una civiltà del lavoro[…] Il punto di partenza che tutti abbiamo in comune è la nuova collocazione del lavoro nella società moderna».
Con la riforma acquista una diversa rilevanza, tutta particolare, la posizione dell’attore la cui tutela viene attratta dalla pubblicizzazione, che si potrebbe definire anche socializzazione del processo, dove il giudice cessa di essere mero spettatore per rivestire un ruolo centrale, facendo uso di poteri diversi da quelli solitamente attribuiti al giudice delle controversie civili, proprio in considerazione della specificità di questo processo e della necessità di approntare una maggiore tutela per il lavoratore, soggetto debole. E non manca di salutare con favore la scelta fatta a favore del Pretore, non solo in termini di superamento della collegialità.
L’On. Coccia, dopo aver stigmatizzato l’assenza del rappresentante del Governo, ricostruisce l’iter convulso della legge, a partire dall’iniziativa legislativa comunista del 18 dicembre 1963 e ricorda l’impegno profuso, da ultimo, dal Sen. Brodolini, quale MdL, e dal suo successore, On. Carlo Donat-Cattin(DC), riconoscendo nella pressione dei lavoratori e delle associazioni sindacali la spinta propulsiva della nuova legge.
Nel ricordare l’apporto costruttivo di Andrioli e della migliore dottrina processuale civile, da Chiovenda a Calamandrei, l’On. Coccia sferra un attacco frontale «alle cariatidi dell’attuale formalismo giuridico, a quei ritardatari della cattedra e del foro che si attestano a difesa del sistema processuale del nostro paese; a quanti ancora difendono strenuamente il processo attuale , inteso come fatto agonistico; a quanti sono ancora difensori della concezione ottocentesca della falsa neutralità del processo civile, inteso come semplice affare privato delle parti»; e critica le posizioni retrive della Confindustria e di Salvatore Satta, tra i più strenui oppositori della nuova legge.
Non manca di criticare la riduzione del tasso legale dal 10 al 5 per cento, difendendo, ovviamente, la regola della svalutazione monetaria; critica l’esclusione dei dipendenti pubblici dal campo di applicazione della legge; rivendica la bontà dell’emendamento, bocciato, teso ad affermare la decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro dalla cessazione del rapporto, in ossequio alla decisone della Corte Costituzionale. E richiama, ancora una volta, il cambio di ruolo dell’avvocatura, nella difesa, e della magistratura, nella gestione delle udienze, più volte auspicato da Andrioli.
L’On. Alessandro Reggiani(PSDI) guarda alla riforma con disincanto: la nuova legge non inventa niente ma riscrive regole già scritte; e richiama alle loro responsabilità, in punto di attuazione, il Governo e il MdG, dovendosi provvedere, necessariamente, alla ristrutturazione dell’organico e al riordino delle sedi, facendo fronte anche alla soppressione dei posti; mentre viene esaltato il ruolo del Pretore, quale giudice giovane e specializzato.
L’intervento dell’On. Riccio è tutto finalizzato ad illustrare gli emendamenti, alcuni dei quali: sulla competenza, per materia e territoriale, che deve essere necessariamente razionalizzata, superando alcune previsioni contraddittorie; sulla inadeguatezza dell’introduzione del giudizio a mezzo di ricorso; sulla difesa della parte convenuta e le relative preclusioni e decadenze; sulla difesa personale della parte in alcuni limitati casi; sulle ordinanze di pagamento pronunciate in corso di causa; sulla svalutazione monetaria.
9.1. Continua: la Seduta dell’Assemblea del 30 luglio 1973.
L’intervento dell’On. Giovanni Andrea Borromeo D’Adda(MSI-DN) è tutto teso a screditare quella che lui definisce una miniriforma e di carattere demagogico, criticando la volontà socialcomunista che la caratterizza. Procedure speciali, sì; procedure eccezionali o sbrigative, come quelle che si vogliono introdurre, no. Le critiche spaziano dall’inadeguatezza dell’organico all’inesperienza del Pretore; dalla provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado, che snatura il doppio grado di giudizio, alla esclusione dei dipendenti pubblici e all’inclusione dei rapporti di agenzia, per quanto riguarda il campo di applicazione.
L’On. dè Vidovich, dopo aver stigmatizzato alcune recenti applicazioni giurisprudenziali, ritenute semplicemente scandalose, che fanno riflettere sulle possibili distorsioni derivanti dall’applicazione della riforma, appunta la sua critica con riferimento, in particolare, a questi punti: esclusione dei pubblici dipendenti; mancata estensione del meccanismo della svalutazione monetari anche agli altri settori; intervento delle associazioni sindacali e dei patronati(non senza esprimere un giudizio negativo sulla disciplina settoriale delle risorse solo del Ministero della Giustizia).
Dopo aver severamente criticato l’assenza del rappresentante del MdG, l’On. Clemente Manco(MSI-DN) difende l’impianto del Codice del 1942 e, criticando la rappresentazione attuale della tutela del lavoro e dei lavoratori, tesse un elogio del soppresso ordinamento corporativo.
L’abolizione dell’intervento del P.M. viene criticata perché la sua presenza nel processo avrebbe garantito l’aspetto pubblicistico di interesse statale, di carattere sociale, ad effettiva tutela del lavoro( va detto, però, che il Senato non aveva modificato nulla a questo proposito). Le critiche riguardano, anche: le «informazioni» sindacali; la provvisoria esecutività ex lege delle sentenze di primo grado, anche su dispositivo, a favore del lavoratore; la specializzazione e la formazione con specifico tirocinio, riservate solo al giudice del lavoro.
Sempre per il MSI-DN, l’On. Alfredo Pazzaglia conferma le critiche già espresse in altre sedi, ritenendo propagandistiche, o comunque frutto di un esame superficiale della normativa, la certezza che l’accelerazione del processo deriverebbe da questi elementi, a torto enfatizzati: udienza fissata a seguito di ricorso, competenza pretorile, attività del giudice diretta ad evitare ritardi. Tiene a precisare, il Senatore missino, che l’esigenza della celerità e della tutela della parte debole non sono solo del processo del lavoro ma di tutto il processo civile; la crisi della giustizia del lavoro, infatti, nasce, essenzialmente dalla mancata adeguatezza delle strutture e degli uffici giudiziari e dal fatto che soprattutto le novelle introdotte nel 1950 hanno affossato l’oralità del processo e hanno compromesso la continuità dell’istruttoria( con la possibilità di ricorrere al Collegio per ogni questione pregiudiziale) e l’integrità dei poteri decisori del Collegio, con l’influenza preponderante del giudice istruttore e relatore.
Con riferimento agli aspetti ordinamentali, la critica riguarda le norme che non consentono organici adeguati ad attuare la riforma(entro 15 giorni dalla pubblicazione della legge in G.U., che però entra in vigore decorso il termine lungo di 90 giorni dalla pubblicazione medesima); ma si estende anche alla lentezza dei concorsi per l’accesso alla magistratura, mentre una legge consente l’esodo di alcune categorie di magistrati in servizio. Per la Corte di Cassazione giudica sufficiente il numero di cinque consiglieri per la Sezione lavoro, ma eccessivo il numero di sette che resta per le altre Sezioni.
L’art. 21 viene criticato nella parte in cui dispone che il magistrato sia assegnato solo al disbrigo di affari della Sezione Lavoro e che non possa essere trasferito prima del termine di cinque anni dalla presa di possesso. Secondo il Senatore missino alla inamovibilità di carattere generale «si aggiunge una inamovibilità speciale che aggrava la situazione giudiziaria – su questo non v’è dubbio – ma soprattutto amplia la sfera di potere del magistrato e favorisce il formarsi di vere e proprie remore al corso regolare della giustizia. Tale inamovibilità speciale, inoltre, rende ancor più rigido il meccanismo di movimento dei magistrati».
Sul processo legislativo la critica si appunta sul fatto che le Commissioni di merito abbiano esaminato il testo della legge prima del parere espresso dalla Commissione Affari Costituzionali.
Le altre censure riguardano singole disposizioni normative: il ricorso come atto introduttivo del giudizio; i termini solo ordinatori; l’assimilazione ai rapporti di lavoro di altri rapporti che nulla hanno a che fare con il lavoro dipendente( a tal proposito si ritiene non concepibile che il magistrato del lavoro possa giudicare sull’adempimento dello «star del credere»); la prima comparizione fissata con un termine, di 30 giorni, eccessivamente lungo, considerati i mezzi della moderna comunicazione degli atti (e propone, in alternativa, quello di 20 giorni); la possibilità per il giudice di concedere il termine di 5 giorni per la trattazione scritta della causa, così rinviando la discussione orale andando ad una udienza successiva(si tratterebbe di un nuovo tipo di udienza per la spedizione a sentenza).Sono tutte norme che soltanto in teoria dovrebbero accelerare il procedimento ma che presto si scontreranno con la realtà e la prassi giudiziaria. E tuttavia l’ On. Pazzaglia considera positiva la previsione della presenza obbligatoria delle parti alla prima udienza, proprio per favorire l’esperimento del tentativo di conciliazione da parte del magistrato.
Assai più penetrante è la critica della norma che prevede la partecipazione delle associazioni sindacali al processo ( critica che si estende anche alla mancata attuazione dell’art. 39,Cost.), evidenziando, comunque, il modesto ruolo attribuito al sindacato per le informazioni ed osservazioni che può rendere, come accade per la pubblica amministrazione; mentre i contratti collettivi e gli accordi locali sono spesso disponibili presso gli uffici provinciali del lavoro.
Temi sempre critici, ricorrenti anche negli interventi degli altri rappresentanti politici dell’opposizione, sono poi quelli relativi all’introduzione di norme settoriali nella riforma, a scapito di una dimensione organica e compiuta della stessa, riguardante tutto il processo civile(e a questo proposito la critica investe anche l’innesto di norme di diritto sostanziale - che avrebbero meritato una riforma a se stante - nell’ordinamento processuale); alle norme transitorie(che trasformano, provvisoriamente, il giudice istruttore del Tribunale in un magistrato monocratico, nella prospettiva della riforma che affida il primo grado al Pretore); alla figura del Pretore come giudice del lavoro di primo grado(anche se si riconosce come un dato positivo la vicinanza della giustizia al cittadino) e alla sua inesperienza( nonostante l’entusiasmo e la maggiore attività di chi è più giovane).
Nel criticare la previsione del patrocinio a spese dello Stato(qui denunciando anche l’accaparramento e il monopolio degli avvocati degli Istituti di Patronato nella gestione soprattutto delle controversie previdenziali), chiede all’On. Del Pennino cosa ne pensa il capo del suo partito, il PRI, On. Ugo La Malfa, strenuo difensore dei conti dello Stato e sostenitore della necessaria riduzione delle spese. Conclude pronunciando queste parole: «Questa riforma costituisce il frutto tipico di una stagione, come l’attuale, nella quale non si è compiuta una evoluzione storica, non essendo stata attuata alcuna radicale riforma del sistema dei rapporti di lavoro, e non essendo stata soddisfatta, pur se viene mantenuta ferma, la richiesta di disciplinare i rapporti sindacali». E poi l’affondo: «Se è giusto che, anche nel processo di formazione delle leggi, si evitino inutili ritardi come nei processi giudiziari, è altrettanto inaccettabile che, per la fretta, si approvino leggi incomplete, confuse e destinate a rivelarsi, a breve scadenza, bisognose d profonde modifiche atte a colmare lacune e portare la chiarezza ove manca».
Nella sua replica come Relatore di minoranza, l’On. Di Nardo: ribadisce la critica alla legge di prossima approvazione, per essere una riforma settoriale, in assenza di una necessaria riforma dei Codici civili, sostanziale e processuale; pone il problema dello squilibrio delle parti e del fatto che il cittadino lavoratore può trovarsi sfavorito anche in altri procedimenti giudiziari che lo riguardano; si dice contrario alla magistratura specializzata del lavoro, con la quale, di fatto, si crea «una magistratura speciale, mai prima d’ora esistita[…]che è contro la logica, contro il diritto dei cittadini, contro la libertà»; ritorna sulla negativa esclusione dei dipendenti dello Stato dal campo di applicazione del nuovo processo( rilevando, ancora una volta, la disparità di trattamento con quelli privati); critica l’appello affidato al Tribunale, essendo più garantista la Corte di Appello, anche per il maggiore numero dei consiglieri che la compongono.
E critica, ancora una volta, l’abolizione della partecipazione del P.M. al giudizio di lavoro, giustificato, invece, proprio per affermare l’interesse superiore della socialità, qui ricordando le teorie di Carnelutti relative al quasi contratto, al contratto-normativo[52].
La replica spetta, poi, all’On. Del Pennino, Relatore di maggioranza, che conferma l’impostazione del nuovo processo del lavoro, basato sui tre principi chiovendiani, fatta propria da tutto il Parlamento, che si riconosce nell’arco costituzionale, ad esclusione del Gruppo missino, che, peraltro, ha espresso anche posizioni contraddittorie a questo proposito(da una parte questi principi ispiratori della riforma sono criticati ma da altra parte sono ritenuti non tutelati e realizzati a sufficienza dalla riforma).
Nel suo intervento finale, che chiude la Seduta del 30 luglio 1973, il MdL, On. Luigi Bertoldi(PSI), ribadisce, innanzitutto, che non c’è alcuna improvvisazione e faciloneria, trattandosi di una legge che ha svolto il suo percorso di formazione in ben tre legislature, essendo, ora, arrivato il momento della sua approvazione in via definitiva. Parte dalla denuncia delle lungaggini del processo, per come si è svolto sino ad ora, ed esalta l’applicazione dei principi di oralità, immediatezza e concentrazione, patrimonio della migliore processualistica civile italiana, come soluzione al grave problema riscontrato.
Con queste parole riassume il nocciolo della riforma, prendendo in sintetico esame le norme destinate ad essere approvate: «Tali disposizioni rappresentano inoltre l’espressione tipica della tutela rafforzata, di cui sono circondati i diritti dei lavoratori, e contengono la normativa riguardante l’esecutorietà provvisoria ex lege della sentenza di primo grado (e questo principio mi sembra molto importante), la rivalutazione monetaria dei crediti dei lavoratori( questo secondo principio mi sembra ancora più importante, data l’inflazione in corso; anche se essa verrà frenata, non siamo tanto ottimisti da pensare ad una stabilizzazione in assoluto della lira) e, in materia previdenziale, la soppressione del principio che determinava la decadenza dell’azione giudiziaria del lavoratore che non avesse tempestivamente presentato ricorso agli istituti di previdenza e di assistenza».
Sul patrocinio a spese dello Stato fuga le perplessità espresse dalla destra, trattandosi, comunque, di norme provvisorie, positive per la situazione contingente ma da monitorare, e comunque destinate ad essere assorbite e superate dalla disciplina organica in corso di approvazione. E sul fatto che la legge non sia uguale per tutti richiama anche l’opinione dell’On. Manco che non è stato affatto tenero nel giudizio complessivo sulla riforma. È certamente una legge che richiede l’impegno del Governo per una rigorosa applicazione, colmando la riscontrata discrasia fra la normativa sostanziale e gli strumenti processuali destinati a tutelare la generalità delle nuove situazioni giuridiche soggettive riconosciute ai lavoratori. E conclude il suo intervento (con commenti di disapprovazione a destra) con queste parole, che esprimono, anche, la filosofia della nuova legge:« […] l’obiettivo fondamentale della legge, che coincide con l’obiettivo di questo Governo, aperto alle forze dei lavoratori, al dialogo costante con i sindacati, con il mondo del lavoro in generale: l’obiettivo cioè di porre il lavoratore in posizione di effettiva parità di diritti, affrancandolo nella sostanza dalla sua posizione subalterna al mondo imprenditoriale, qualunque sia il datore di lavoro, anche se esso è rappresentato dallo Stato, da enti parastatali o da enti pubblici», così riconoscendo il profondo significato politico [della nuova legge], oltre che sociale, di giustizia sociale, di difesa concreta della classe lavoratrice nel sistema, nelle strutture attuali, strutture che devono essere adeguate allo spirito della Costituzione repubblicana, la quale ovviamente tende a considerare[…] la classe lavoratrice come il baluardo più sicuro per il progresso sociale e civile del paese […]. Per questo noi riteniamo che il significato di questa legge trascenda la stessa sua articolazione, per investire i problemi più generali dei diritti civili e di quella che io definirei in una parola la civiltà costituzionale della Repubblica democratica che abbiamo conquistato in lunghi anni di lotta e di battaglia dei lavoratori e dell’opinione pubblica democratica».
9.2. Continua: la Seduta dell’Assemblea del 1° agosto 1973.
È quella decisiva perché, dopo il completamento della discussione, la PdL dell’On. Lospinoso Severini ed altri, come modificata dal Senato(379-B)verrà approvata in via definitiva.
Gli emendamenti sull’art. 1( che introduce la nuova disciplina dell’art. 409 e ss. c.p.c.) presentati dai Deputati dell’opposizione facenti parte del Gruppo del MSI-DN (Di Nardo, Manco, Borromeo d’Adda, Carlo Tassi, che li svolge) fanno riferimento a tre punti fondamentali ricordati più volte nelle discussioni parlamentari: la competenza del Giudice del Lavoro collocata nella Pretura del capoluogo (nella prospettiva di unificare tutte le Preture nel capoluogo), anche per le controversie di lavoro, e non solo per quelle previdenziali; previsione di termini non eccessivamente restrittivi, per garantire un tempo sufficiente per la difesa(almeno nella prima fase di attuazione del processo); la disparità di trattamento tra dipendenti privati e pubblici, per essere questi ultimi sottratti alla competenza del Pretore del Lavoro. Quest’ultimo punto, riassunto nell’emendamento 1.42 relativo alla soppressione dell’ultima parte del n. 5, dell’art. 409 c.p.c.( presentato anche dai Deputati Pazzaglia, Pino Rauti, dè Vidovich, Giulio Caradonna, Michele Cassano, Tremaglia, Antonio Messeni Nemagna, Franco Franchi) è fonte di acceso dibattito, tanto che l’On. Giovanni Roberti, richiamata la battaglia comune svolta da tutte le associazioni sindacali nella precedente legislatura, non si esime dallo stigmatizzare il cambio di prospettiva, per evidenti ragioni di opportunità politica, contrarie, però, agli interessi dei lavoratori.
Per agevolare una rapida approvazione della legge, gli emendamenti presentati dai Deputati Riccio e Reggiani vengono ritirati.
Nell’illustrare il parere contrario, espresso a maggioranza, del «Comitato dei nove», l’On. Lospinoso Severini, rappresenta, tra l’altro, la necessità di mantenere: la competenza del Pretore in primo grado del capoluogo solo per le controversie previdenziali, essendo, questa scelta, giustificata solo per questa materia; la previsione dei termini perentori e della decisione della causa con la lettura del dispositivo dell’udienza di discussione, ove non rinviata su richiesta delle parti; la disposizione sulla svalutazione monetaria; mentre, sull’esclusione dei dipendenti dello Stato, la posizione espressa, sempre contraria agli emendamenti proposti, considera positiva la precisazione introdotta dal Senato che fa salva la devoluzione per legge ad altri giudici dei rapporti di lavoro pubblici. Contrario è pure il parere espresso dal Governo.
È, ovviamente, favorevole agli emendamenti l’On. Di Nardo, Relatore di minoranza.
Tutti gli emendamenti proposti con riferimento all’art.1 della PdL sono respinti, con la definitiva approvazione di detta norma e di tutte le altre norme modificate dal Senato (in assenza, comunque, di emendamenti).
Altrettanto dicasi per l’art. 9, con riferimento, anche, all’art. 150, disp. att. cod.proc.civ., sulla svalutazione monetaria (oggetto dell’emendamento 9.1), e per gli articoli successivi, sino al 19.
Tutte le altre norme, anche quelle sulle disposizioni transitorie (solo su alcune di queste sono stati presentati emendamenti, poco significativi, comunque respinti), sono approvate.
Merita segnalare, sull’art. 21, l’emendamento 21.1, sulla soppressione del termine di inamovibilità del giudice del lavoro per il periodo di cinque anni, e sull’art. 30, l’emendamento 30.1, presentato per aumentare da 90 a 180 giorni il termine di entrata in vigore della legge(in apparente coerenza con le perplessità manifestate dalla destra in ordine alla fase transitoria dell’applicazione delle nuove norme, ma di evidente intento dilatorio).
Nella sua dichiarazione di voto per il PLI, l’On. Ferioli - che ricorda il suo impegno per l’approvazione della legge nel precedente Governo Andreotti, come Sottosegretario alla Giustizia(tacitando la polemica, di parte comunista, sull’assenza in Aula del rappresentate del dicastero)- esprime il voto favorevole del suo Gruppo, ripercorrendo tutti i dati salienti della nuova normativa, giudicando positivamente l’iter che ha portato al risultato definitivo di un lungo ed approfondito dibattito, quale punto di incontro tra le varie iniziative governative e parlamentari succedutesi sin dalla III Legislatura.
Sulla stessa lunghezza d’onda è l’intervento dell’On. Luigi Dino Felisetti(PSI) che rivendica, nel lusinghiero risultato raggiunto, il fondamentale apporto della componente socialista al Governo, per togliere il velo di ipocrisia di affermare una giustizia uguale per tutti, garantendo la parità delle armi in giudizio, senza considerare la frustrazione dei diritti della parte più debole del processo, il lavoratore; non senza, tuttavia, sottovalutare la sfida della concreta applicazione della legge, citando il Sommo Poeta: «le leggi son, ma chi pon mano ad elle?»;concludendo, con parole dense di significato politico: «anche quello relativo alla riforma del processo [è] un fatto di massa, un fatto popolare, un fatto sociale».
Scontato è il voto favorevole del PCI, dichiarato per bocca dell’On. Gramegna, che enfatizza il valore eminentemente politico della riforma, per la rilevanza che potrà esercitare nei rapporti di lavoro del paese, considerando la prospettiva di una più organica riforma di tutto il processo civile. Viene, così, superata la diffidenza quasi istintiva delle classi lavoratrici e dei cittadini verso la giustizia e verso quanti ne sono gli operatori; senza, tuttavia, mancare di sottolineare alcune lacune della legge: l’esclusione dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici non economici; il mancato controllo democratico della vita giudiziaria; la mancata previsione delle responsabilità del giudice; l’incompleta partecipazione dei sindacati al processo.
L’On. Castelli, per la DC, pur senza esprimere l’illuministica fiducia nella legge, ne esalta i lati fortemente positivi, riconoscendo, tuttavia, anche i pregi del codice di procedura civile(non a caso definito il meno fascista dei quattro codici), che, se correttamente attuato, avrebbe consentito di realizzare alcune finalità della nuova legge(soprattutto con riferimento ai tempi dell’assunzione delle prove, il divieto di rinvio dell’udienza per più di una volta, l’obbligo di depositare le sentenze entro quindici giorni). Il «vecchio tipo di lite, interpretato in termini carneluttiani, in cui le parti lottavano e il giudice si assideva in mezzo quale arbitro, senza alcun potere effettivo sulla condotta del processo», completamente affidato alla disponibilità delle parti, dove la pubblicizzazione era rappresentata solo dalla presenza coreografica del pubblico ministero – che il deputato definisce «liturgia esteriore» – viene superata dal «nuovo processo in cui il giudice non è spettatore, perché la lite non è più un fatto privato», perché « essa investe un lavoratore in posizione economicamente debole e quindi, secondo il dettato costituzionale, meritevole di particolare tutela giuridica». Con una stoccata finale a chi vede nel magistrato non colui che assume la direzione effettiva del processo con poteri promozionali in sede istruttoria, come è giusto che sia, ma per travolgere le istituzioni, per realizzare attraverso le leggi la rivoluzione, evocando il «pot-pourri di un Adorno mal digerito e di un Kelsen frainteso», completamente estraneo all’ideologia del rappresentante politico della DC.
L’On. Del Pennino, per il Gruppo del PRI, affida le sue valutazioni positive sulla legge alle considerazioni di due illustri processualisti: Micheli, con riferimento alla necessità( sempre avvertita pur nel susseguirsi dei diversi regimi costituzionali), di un ordinamento speciale per la materia del lavoro, con un rito speciale e talvolta anche con organi speciali(esigenze che la nuova realtà politica, economica e sociale ha accentuato);Cappelletti, che, a proposito della regola aurea della dottrina processualistica della non esecutorietà delle sentenze di primo grado, sacrificata alla eccessiva glorificazione delle impugnazioni, a scapito del giudizio di primo grado e di una maggiore accessibilità dei poveri alla giustizia, ritiene, al contrario, necessario« glorificare, ossia strutturare meglio e rendere più giusto ed efficace il giudizio di primo grado, che è il solo che possa effettivamente mettere il giudice in contatto diretto e personale con le parti e con i fatti della causa, e assicurare così alle parti una più pronta e più umana giustizia».
L’On. dè Vidovich, per il Gruppo del MSI-DN, esprime l’astensione ( ricordando, però, il suo voto favorevole nella precedente tornata, proprio per agevolare la nuova normativa, il cui iter è stato notevolmente lungo a scapito degli interessi dei lavoratori) lamentando il mancato recepimento di ogni emendamento proposto a miglioramento della legge, per molti aspetti migliorabile e, sotto alcuni profili, criticata anche dalla maggioranza. E con questa dichiarazione di voto, responsabile, la destra dice di rivolgersi all’opinione pubblica «con la chiarezza che ad altri fa difetto».
Per il PSDI esprime il voto favorevole l’On. Reggiani che rappresenta la «motivazione morale prima ancora che giuridica e politica» dell’approvazione di una legge destinata a superare lo sato di evidente e grave inferiorità dei lavoratori nel processo; ma non nasconde la necessità di superare le gravi carenze strutturali di uomini e di mezzi che affliggono l’amministrazione della giustizia.
10. Epilogo.
All’esito della votazione segreta la Camera, nella seduta del 1° agosto 1973, approva la proposta di legge Lospinoso Severini ed altri n. 379-B con 418 voti favorevoli, 17 contrari ( 435 votanti su 477 presenti) e 42 astenuti.
La nuova legge viene salutata con soddisfazione subito dopo la sua approvazione, dalla stampa del 2 agosto 1973. Il Giorno pubblica un articolo di Giugni con questo titolo: «Giusta» e «civile» la nuova riforma»; e in esso vengono richiamati tutti i punti essenziali della legge. «Una legge nuova per la disciplina del processo del lavoro» è il titolo dell’ Avanti!, con un trafiletto del MdL On. Bertoldi: «Una tappa nel rinnovamento delle strutture del paese». E questo è il titolo de Il Messaggero: «Cause di lavoro: profonda innovazione». Saluta «un’importante conquista sociale»; Il Popolo, con un articolo dal titolo :«Snellite le procedure nei processi del lavoro». La Stampa, dopo aver dato conto dell’approvazione parlamentare («Più rapidi i “processi del lavoro”. La legge votata dai 4 e da pci e pli»), affida alla penna di Giovanni Conso un articolo riepilogativo dal titolo: «Riforma-pilota». L’Unità titola: «Processi del lavoro. Radicalmente modificate le norme della procedura».
Positivi sono i primi giudizi espressi, anche da parte di chi aveva sollevato, da più parti, qualche perplessità[53].
Gli studiosi, intanto, cominciano ad interrogarsi sul significato della riforma, entrando nel merito dei singoli istituti[54], talvolta anche con rinnovato spirito critico ma con un approccio costruttivo[55].
Non tutte le polemiche sono sopite. Ad esempio quella innescata, un anno prima, da uno scritto, breve ma intenso, di Arturo Carlo Jemolo[56] trova le risposte, pacate e convincenti, di Proto Pisani, che rende evidente il significato del concetto della «tutela giurisdizionale differenziata» nel processo del lavoro, argomentando le ragioni sottese alla previsione di un rito speciale per le controversie di lavoro, collegando la tutela ex art. 24, comma 1, Cost., all’art. 3, comma 2, Cost., e prendendo posizione contro l’opinione espressa da alcuni studiosi sulla c.d. neutralità del processo. Secondo Proto Pisani «la tutela giurisdizionale non è una forma astratta, indifferente alle caratteristiche della situazione sostanziale bisognosa di tutela, ma all’opposto è un quid di estremamente concreto che si modella - spesso in modo estremamente articolato – sulle particolarità e sulle esigenze di tutela della situazione sostanziale dedotta in giudizio»[57].
Questa formula rispondeva non solo all’esigenza di tutelare in maniera specifica, nel processo, la parte debole del rapporto di lavoro, ma anche alla necessità di affermare(rifiutando la neutralità formale caratteristica del modello del rito ordinario di cognizione)la prevalenza dei riti speciali applicati ai diversi settori del contenzioso in ragione delle specifiche esigenze di protezione delle parti. Il diritto “eguale” per definizione lasciava il campo al diritto “diseguale”, proprio in base ad una corretta lettura dell’art. 3, comma 2, Cost.
Le preoccupazioni di alcuni studiosi sull’abuso del processo del lavoro risulteranno in gran parte infondate. Anche Pera avrà modo di ricredersi e riconoscerà, tralasciando qualche decisione aberrante, come moderatamente positiva la valutazione sulla giurisprudenza pretorile che si è affermata nei primi anni della riforma.
Il «compagno pretore» evocato da qualcuno, e a ragion veduta, nello svolgersi delle lotte operaie[58] era comunque un terreno fertile per rinnovate polemiche dopo le prime applicazioni giurisprudenziali nelle materie disciplinate dallo “Statuto dei Lavoratori”[59], che riportavano l’attenzione a quelli che erano stati definiti “pretori d’assalto”. Il motto militaresco, che derivava dalle esperienze del paracadutismo, recitava «noi che prendiam d’assalto come trincea la vita»[60].
Fu, comunque, una espressione che, condivisibile o no, rappresentava bene non solo l’ “impegno politico” dei Pretori ma anche l’applicazione della giurisdizione, in prima istanza, ai campi di maggiore sensibilità e rilevanza sociale, tanto che è stata utilizzata, nel tempo, anche per indicare i giudici che si occupavano di diritto ambientale e urbanistico, poi anche penale[61].
Le applicazioni giurisprudenziali che più preoccupavano, in materia di lavoro, ed erano destinate ad attirare critiche, erano quelle relative al procedimento per la repressione della condotta antisindacale, occasione non rara che aveva consentito il paventato incontro tra estremismo e spontaneismo di alcuni gruppi politici e sindacali di sinistra e i Giudici del Lavoro c.d. impegnati.
E sarà un giovane Pietro Ichino(nella sua veste, all’epoca, di Responsabile del Coordinamento Servizi Legali della Camera del Lavoro di Milano) a difendere i Giudici della Pretura del Lavoro di Milano, in un articolo apparso il 24 marzo 1976 sul Corriere della Sera, dal titolo: «I pretori che fanno sentenze “scandalose”»: le critiche alle loro sentenze definite da alcuni “scandalose” non riguardavano il loro contenuto, ma il metodo nuovo di fare il processo del lavoro, che impegnava i Pretori a «cercare subito il nocciolo centrale della questione dedotta in giudizio, per indicare direttamente alle parti la via di una giusta soluzione consensuale, o per risolvere senza indugio la controversia con la sentenza». Gli avvocati non si fidano e pensano che il giudice abbandoni le regole giuridiche; in realtà «abbandona il formalismo giuridico tradizionale, e cerca di avvicinarsi alla realtà dei fatti, delle persone, delle forze sociali in conflitto». È certamente “politico” l’impegno personale dei giudici che intendono dare attuazione alla riforma processuale e ad abbandonare i vecchi metodi: «Ma qui “politica” non significa arbitrio né faziosità: significa affrontare le controversie del lavoro in concreto, cercando di capire dal di dentro, invece che affrontarle in astratto, tenendosene il più possibile lontani».
Così, con queste parole viene sintetizzato, efficacemente, il pensiero dei fautori della riforma processuale del 1973 ( politici, sindacalisti, parlamentari, studiosi del processo civile).
L’entusiasmo per le prime applicazioni della legge non manca, ma di lì a poco viene espresso anche un velato disincanto: «Cause di lavoro più celeri. C’è la legge manca il personale», titola il Corriere della Sera del 14 agosto 1973. E, sempre sul Corriere del 30 novembre 1973, alla vigilia dell’entrata in vigore della legge, Adolfo Beria D’Argentine, scrive: «La crisi della giustizia al vaglio dei sindacati».
11. Qualche provvisoria, solo accennata conclusione.
Il dibattito sul processo del lavoro, del quale abbiamo dato sommariamente conto nei paragrafi precedenti, non si è mai sopito. Qui possiamo segnalare solo poche cose( scusandoci per le inevitabili omissioni e approssimazioni, anche nelle citazioni).
M.D., che con la rivista Quale Giustizia ( diretta da Federico Governatori, Pretore del Lavoro a Bologna) aveva partecipato attivamente alle discussioni che hanno accompagnato l’approvazione della legge) organizza un Convegno a Roma nei giorni 10 e 11 novembre 1973 sull’attuazione della riforma del processo del lavoro, con le relazioni tematiche affidate soprattutto ai Pretori, ma anche ai giudici di Tribunale più impegnati, anche a livello associativo[62].
Il 2 febbraio 1974 viene organizzata dall’AIDLaSS, a Firenze, una «Tavola Rotonda» su Il nuovo processo del lavoro, con Relazioni tematiche affidate a più Relatori [63].Un incontro che vide un’ampia discussione, con interventi anche di molti studiosi, di diritto sostanziale e processuale, che avevano partecipato ai precedenti incontri e convegni[64].
Possiamo dare conto, in questa sede, solo di qualche passaggio di carattere generale, anche perché gli studiosi, ad appena due mesi dall’entrata in vigore della riforma sono, ora, impegnati ad esaminare i profili tecnici delle singole norme, in assenza di applicazioni giurisprudenziali di rilievo(non dimentichiamo che la riforma è entrata in vigore il 12 dicembre 1973).
Giuseppe Franchi(p. 9), si augura il successo della giustizia del lavoro, toppo importante per la comunità, «in tempi così incerti e con un disagio così diffuso per una democrazia incompiuta e tradita» e «una efficiente collaborazione […] tra legislatore giudici e avvocati», così da realizzare a breve termine un nuovo stile di vita collettiva, con l’auspicio: «Che il ricordo dei pluriennali processi di lavoro diventi presto insopportabile!». E nelle «Osservazioni finali»(p.35), pur affermando la necessità di apportare i dovuti miglioramenti, difende la riforma nel suo complesso, criticando chi la considera una «brevis insania del legislatore» e ammonisce i magistrati perché «sentano l’imperativo della giustizia celere( che non vuol dire frettolosa)», evocando un penetrante controllo disciplinare sulla loro attività.
Giorgio Ghezzi e Franco Ledda guardano con favore alle ipotesi di confine che allargano il campo di applicazione del nuovo rito del lavoro; mentre Giuseppe Tarzia analizza, da par suo, l’art. 431 cod. proc. civ., anche nel raffronto con le norme di carattere generale del codice di rito, riconoscendo il valore simbolico di questa disposizione normativa proprio per realizzare una tutela rafforzata dei diritti dei lavoratori, in linea con la previsione dell’art. 18, comma 3, st.lav., allora vigente).
Mario Grandi riconosce l’importanza dell’intervento delle associazioni sindacali nel processo del lavoro, ma non lo enfatizza, nemmeno nel contesto delle procedure di composizione stragiudiziale delle controversie; e fa proprie le critiche espresse, anche da altri studiosi, nei confronti delle virtù taumaturgiche del precetto legislativo, evocando il vizio, tutto illuministico, di quanti sopravvalutano l’efficacia della legge rispetto alle condizioni ambientali in cui essa si deve applicare(pp. 124-125 e nt. 50). Questo studioso trova le OO.SS. impreparate a gestire, efficacemente, gli strumenti processuali che la riforma ha attribuito ad esse e in questa chiave critica la mancata valorizzazione delle procedure stragiudiziali , con particolare riguardo alle procedure arbitrali, non solo per ragioni di funzionalità(risoluzione celere e con reciproca soddisfazione delle parti di gran parte delle controversie), ma soprattutto, in linea di principio, «per affermare il valore primario ed insostituibile dell’autonomia sindacale e della funzione propria della tutela collettiva, apprestata dai sindacati, nel campo delle controversie individuali di lavoro, le quali, pur radicandosi in situazioni giuridiche sostanziali, la cui titolarità non può che spettare ai singoli lavoratori, si collegano alla disciplina negoziale collettiva e, pertanto, coinvolgono l’interesse delle organizzazioni sindacali» (p. 126).
Nello svolgimento del tema assegnatogli, Umberto Romagnoli rileva l’assenza di una consapevole politica sindacale dell’ uso giudiziario della normazione in materia di rapporti di lavoro, che nasce dalla «sistematica sottovalutazione del «momento» giurisprudenziale nella formazione del diritto del lavoro che impedisce al sindacato di gestire i conflitti devoluti dai singoli alla cognizione del giudice in una prospettiva strategica di utilizzo della tutela giudiziaria diverso da quello ottenibile mediante la mediazione dell’avvocato al quale «indirizza» i propri aderenti», così criticando la dissociazione tra aspetto tecnico-giuridico e aspetto politico-sindacale(p. 129).
Tutta la trama dell’esperienza giuridica è attraversata dall’equità che rappresenta uno strumento operativo del giudice e/o del legislatore: è questo l’incipit della relazione di Nicola Picardi, che passa poi a «puntualizzare il dosaggio tra giudizio di diritto e giudizio di equità nel nuovo schema processuale per stabilire se i poteri equitativi del giudice siano ancora considerati un importante fattore per l’evoluzione in senso sociale del diritto o se la legge n. 533 del 1973 finisca ormai per privilegiare l’equità legislativa »(p.150).
Nella discussione Fazzalari riconosce nel diritto del lavoro il perno dell’ordinamento del ‘900, come il diritto di proprietà lo era di quello dell’800; guarda ai processualisti come ai garzoni dei laburisti, che sono chiamati, anche dal legislatore, all’occorrenza; e, consapevole che la legge deve essere, ora, «apparata» (così utilizzando una efficace espressione di lingua napoletana), cioè interpretata in maniera ragionevolmente uniforme, ammonisce sul rischio di avere molteplici interpretazioni, «altrettanti riti del lavoro quanti sono i giudici, o le correnti dei giudici, o le sedi che lo amministrano», per il «cattivo germe della dissidenza interpretativa» ( p. 184). In buona sostanza questo studioso si fa portatore del principio dell’interpretazione lato sensu sistematica, tenendo in debita considerazione il codice di rito nel quale la nuova legge si inserisce. E il discorso cade sulla funzione nomofilattica della Cassazione(oberata di processi su fattispecie regolate da leggi precedenti, mentre sarebbe necessario conoscere la sua regola con riferimento al nuovo rito); e sul modo di fare le sentenze, motivandole succintamente: sentenze non belle, ma giuste, cioè aderenti ai fatti e alle leggi. C’è poi una netta affermazione del processo civile che resta pur sempre un processo tra parti private(così essendo criticata la partecipazione del sindacato nel processo), fortemente avversata da Cappelletti che considera questa visione ottocentesca del tutto superata, guardando, il nuovo processo civile, al «campo della rappresentanza[…] di interessi non più soltanto individuali ma di gruppo, collettivi, ed anche pubblici»( p.193).
Tutto tecnico(secondo il suo costume) è l’intervento di Fabbrini, del quale merita evidenziare la necessità che rappresenta di interpretare in maniera rigorosa per tutte le parti le norme che consentono al giudice di primo grado di ammettere prove nuove e nuove eccezioni o modifiche della domanda alle condizioni date, per evitare il superamento del rigido sistema delle preclusioni in base alle simpatie o antipatie del giudice nei confronti della parte interessata. E assai rigorosa è la posizione assunta sull’intervento del sindacato nel processo: dice Fabbrini che al sindacato non può essere attribuito un ruolo che il processo non gli assegna, se non con riferimento ai limitati fini delle informazioni ed osservazioni richieste ex art. 425, cod. proc. civ., perché il legislatore, quando ha voluto, come nel caso dell’art. 28, st.lav., ha previsto espressamente la legittimazione ad agire del sindacato(pp.197-198).
È, quest’ultimo, un tema sul quale si misura anche Pera, che critica l’impostazione di chi ritiene essere diventato, il sindacato, un ausiliario del giudice, riconoscendo ad esso la nuova legge un ruolo di primo piano ai fini del suo intervento nel processo: e si dilunga sulle possibili forme di intervento in causa, consentito e no ( pp. 200-201).
Federico Carpi si sofferma sul tema della collaborazione delle parti nello svolgimento del processo civile e dell’avvicinamento del giudice alle parti: due principi, questi, che trovano concreta applicazione nella riforma ( pp. 204-206).
Sull’interesse collettivo del sindacato è incentrata la prima parte dell’intervento orale di Montesano, che ritorna, nel contributo scritto, sulle polemiche ideologiche che hanno accompagnato la formazione della legge, ma anche la legge stessa, una volta approvata, de iure condito. La critica di questo studioso si incentra soprattutto sulla posizione di chi ritiene che il principio costituzionale che dà tutela ai diritti del lavoratore, più forte di quella riconosciuta ad altri diritti, vale solo sul piano sostanziale, e non anche sul terreno processuale. E ne spiega le ragioni, proprio richiamando la Costituzione che tutela il lavoro incondizionatamente in tutte le sue forme ed applicazioni, imponendo al legislatore di creare gli strumenti normativi adeguati per assicurare questa tutela, non prevista per i diritti collegati alla tradizionale proprietà privata ed all’impresa; mentre sul piano procedurale (gli esempi riguardano le decadenze e le preclusioni previste solo per la memoria di costituzione e i poteri istruttori officiosi) deve essere garantita ampiamente l’uguaglianza delle parti e la dialettica processuale ( pp. 216-218). Questi temi sono stati poi ripresi anche nel suo contributo scritto.
Negli atti di questo incontro ci sono tutte le problematiche rilevanti sulla interpretazione e l’applicazione della nuova legge, con l’analisi di tanti profili e temi che troveremo anche nelle discussioni degli anni a venire.
Dalla stagione delle grandi discussioni accademiche e della riforma nascerà una importante pubblicistica di manuali e commentari, per molti aspetti ancora importanti e attuali, non solo dal punto di vista storico[65].
Possiamo segnalarne solo alcuni, per averli, seppure velocemente, consultati.
Innanzitutto, l’opera collettanea, di carattere sistematico, a commento delle singole norme, di Andrea Proto Pisani, Giancarlo Pezzano, Carlo Maria Barone, Virgilio Andrioli, anche per la completezza dei riferimenti ai lavori preparatori[66].
Il «manuale» di Giovanni Fabbrini, da molti riconosciuto come il migliore «manuale» in materia, che, per diversi aspetti, resta ancora attuale[67]. Fabbrini si lascia alle spalle la polemica dottrinale del Convegno bolognese del 1971,senza,però, nascondere, nell’Avvertenza (p. 12), con riferimento alla legge appena approvata, la sua «critica aspra dei luoghi comuni che l’hanno accompagnata e l’accompagnano; a monito contro interpretazioni che, coinvolgendo il necessario rispetto della forma in una generica quanto ignorante accusa di formalismo, potrebbero farne, coscientemente ma anche incoscientemente, strumento di compressione delle libertà esistenti: che non sarà mai accettabile, per chi si identifichi col sistema costituzionale, l’idea che alla eguaglianza effettiva si giunga per la via della soppressione delle garanzie formali». È, questo, un punto di vista del quale non si può non tenere conto.
Il commentario, sistematico, a più voci di Angelo Converso, Paolo Pini, Nino Raffone, Giuseppe Scalvini introdotto una breve ma significativa presentazione dei Deputati Lospinoso Severini, Musotto e Coccia [68]. È, questo, un volume nato dalla collaborazione del Pretore torinese Converso con tre avvocati giuslavoristi di area CGIL, tra i migliori e più attivi dell’epoca; scaturiva, anche, da alcune riunioni serali, periodiche, una alla settimana, mirate alla discussione delle problematiche più importanti che il nuovo diritto processuale del lavoro poneva. Le discussioni si tenevano in un piano ammezzato di Palazzo Carignano, a Torino, ed erano aperte a tutti coloro che, avvocati e magistrati, intendevano partecipare e confrontarsi pubblicamente(gli incontri sono seguiti anche per qualche anno a venire).
Puntuali sono arrivate le analisi e i bilanci sul primo decennio di applicazione giurisprudenziale del processo del lavoro, soprattutto di merito (considerati i tempi lunghi della Cassazione, chiamata, all’inizio, a giudicare con riferimento alla normativa precedente)[69].
Merita segnalare anche l’intervista di Giuseppe Pera ad alcuni giudici del lavoro di merito, di primo e secondo grado, di varia formazione, fatta a Lucca nel mese di luglio 1983: Edoardo Denaro(Torino),Antonio Giannone(Lucca), Giorgio Mannacio (Milano),Giovacchino Massetani (Firenze), Sergio Mattone (Napoli-Barra),Giuseppe Soresina(Firenze)[70].
Qui ci fermiamo, condividendo, in conclusione, quanto scritto recentemente da Francesco Paolo Luiso:«Al netto, dunque, delle vicende contingenti che ne videro la nascita e le prime applicazioni, [quello del lavoro]resta un rito che ha superato la prova del tempo, con pochissimi, secondari ritocchi: anche in occasione della recente riforma Cartabia, ci si è resi conto che il processo del lavoro non ha necessità, almeno per ora, di restauri. Ché, anzi, sono state ricondotte al rito ordinario del lavoro talune controversie, precedentemente disciplinate da riti speciali, come il c.d. rito Fornero. L’auspicio è che si mantenga ancora per lunghi anni idoneo a gestire la nostra giustizia del lavoro»[71].
[1] V., tra i tanti contributi, Claudio Cecchella, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Franco Angeli Editore, Milano, 1990, pp. 17-104( per il periodo dal 1861 al 1926); pp. 105-180(per il periodo dal 1926 al 1944);pp. 181-255(sugli arbitrati irrituali della contrattazione collettiva post-corporativa); pp. 256-280( sull’arbitrato del lavoro nell’esperienza storica); Laura Castelvetri, Il diritto del lavoro delle origini, Giuffrè, Milano, 1994, pp.173-215;Giulio Monteleone, Una magistratura del lavoro: i collegi dei probiviri nell’industria.1883-1911, in Sudi Storici,1977,pp.88-123. V. anche gli Atti della Giornata Lincea in ricordo di Enrico Redenti. Il diritto del lavoro ai suoi primordi, Roma 22 gennaio 1994, pubblicati dall’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1995.
[2] È d’obbligo la citazione di Nicola Jaeger, Le controversie individuali di lavoro, Cedam, Padova,1929 (con le edizioni successive dal 1932); Id, Il nuovo regolamento processuale del lavoro, Cedam, Padova,1935. V. anche Luigi De Litala, Diritto processuale del lavoro, Utet, Torino, 1936( con le edizioni successive dal 1938).
[3] Il progetto della Commissione per la riforma del codice di procedura civile redatto da Giuseppe Chiovenda e la sua Relazione illustrativa ( pubblicati inizialmente da Jovene , Napoli, 1920) si possono leggere in Giuseppe Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile, II, Roma, Società editrice del Foro Italiano, 1931, pp. 1 ss.), meritevolmente ripubblicati, nel 1993, per i tipi di Giuffrè, Milano (pp. 1 e ss.).
[4] V., per tutti, Domenico Napoletano, Diritto processuale del lavoro, Jandi Sapi Edizioni, Roma, 1960 ( al quale si rinvia anche per un efficace quadro storico di sintesi, pp. 3 e ss.).
[5] La III Legislatura (dal 12 giugno 1958 al 15 maggio 1963), esordisce con il II Governo presieduto dall’On. Amintore Fanfani(DC),con l’On. Antonio Segni(DC), Vicepresidente; MdG è l’On. Guido Gonella(DC), mentre il MdL è l’On. Ezio Vigorelli(PSDI). È una coalizione DC-PSDI. Il Governo resta in carica dal 2 luglio 1958 al 16 febbraio 1959.
A seguire il II Governo Segni (coalizione DC con appoggio esterno di PLI,PNM,PMP), che resta in carica dal 16 febbraio 1959 al 26 marzo 1960. MdG è sempre l’On. Gonella, mentre esordisce come MdL l’On. Benigno Zaccagnini(DC).
Dal 26 marzo 1960 al 27 luglio 1960 è in carica il (primo e ultimo) governo, “breve”, dell’On. Fernando Tambroni(DC), un monocolore DC, con l’appoggio esterno del MSI. I Ministri della Giustizia e del Lavoro sono gli stessi del Governo precedente.
È poi la volta del III Governo Fanfani(dal 27 luglio 1960 al 22 febbraio 1962), con Vicepresidente il Sen. Attilio Piccioni(DC). È un monocolore DC, con l’appoggio esterno di PSDI, PRI e PLI. L’On. Gonella è ancora MdG, mentre il MdL è l’On. Fiorentino Sullo(DC).
Chiude la III Legislatura il IV Governo Fanfani, con Vicepresidente il Sen. Piccioni. È una colazione DC,PSDI PRI, che vede, per la prima volta, l’appoggio esterno del PSI. Anche questo è un governo “breve”, resta in carica dal 22 febbraio 1963 al 22 giugno 1963. MdG è il Sen. Giacinto Bosco(DC), mentre l’On. Virginio Bertinelli(PSDI) è MdL.
Alla Camera, Presidente della IV Commissione(Giustizia) è l’On. Gennaro Cassiani(DC), mentre a presiedere la XIII Commissione(Lavoro) è l’On. Pietro Bucalossi(PSDI). Al Senato i Presidenti delle due Commissioni permanenti sono: alla II(Giustizia),il Sen. Giuseppe Magliano(DC), mentre alla X(Lavoro), si susseguono, tutti DC, i Senatori Cristoforo Pezzini, Cesare Angelini e Carlo Grava.
[6] La IV Legislatura, a partire dal 16 maggio 1963, dura sino al 4 giugno 1968.
Dopo il I Governo dell’On. Giovanni Leone(DC), un monocolore DC che resta in carica dal 22 giugno al 5 dicembre 1963,con Vicepresidente il Sen. Piccioni, MdG il Sen. Bosco e MdL l’On. Umberto Delle Fave(DC), si susseguono tre Governi presieduti dall’On. Aldo Moro(DC), tutti di centro-sinistra, coalizione DC,PSI,PSDI,PRI.
Il I Governo Moro( in carica dal 5 dicembre 1963 al 23 luglio 1964), ha come Vicepresidente l’On. Pietro Nenni(PSI), MdG è l’On. Oronzo Reale(PRI), mentre il Sen. Bosco è il nuovo MdL.
Dal 23 luglio 1964 al 24 febbraio 1966 opera il II Governo Moro, con Vicepresidente sempre l’On. Nenni; MdG è confermato l’On. Reale, mentre ritorna ad essere MdL l’On. Delle Fave.
Chiude la IV Legislatura il III Governo dell’On. Moro, che resta in carica dal 23 febbraio 1966 al 24 giugno 1968. L’On. Nenni è sempre Vicepresidente; ancora una volta viene confermato MdG l’On. Reale, mentre è il Sen. Bosco il nuovo MdL.
Alla Camera, il Presidente della IV Commissione(Giustizia) è l’On. Franco Zappa(PSI-PSDI unificati); mentre a presiedere la XIII Commissione(Lavoro) è l’On. Amos Zanibelli(DC). Al Senato, alla Presidenza della II Commissione Giustizia si susseguono i Senatori Edgardo Lami Starnuti(PSDI, poi PSI-PSDI, unificati), Dante Schietroma(PSDI), e Giorgio Fenoaltea(PSI-PSDI, unificati); mentre i Presidenti della X Commissione (Lavoro) sono: prima, l’On. Domenico Macaggi(PSI), poi, l’On. Simone Gatto (PSI, prima di passare al Gruppo Misto).
[7] Il “Questionario” sui temi di diritto processuale si può leggere in Riv.Dir.Lav.,1965,III, pp. 401 e ss. , con il parere del CNEL(pp. 403 e ss.) e le risposte di CGIL(pp. 414 e ss.), CISL(pp. 418 e ss.) e UIL(pp. 422 e ss.). Anche la Rivista Giuridica del Lavoro ha dedicato ampio spazio all’inchiesta sul processo(le domande sono pubblicate, con una breve premessa, nell’anno 1965,I, pp. 185 e ss., e a seguire si può leggere la posizione espressa da questa stessa rivista, pp. 188 e ss.).Il “Questionario” si può leggere sempre in Riv. Giur.Lav.,1965,I, pp. 297 e ss., dove, a seguire, sono pubblicate anche le risposte di CGIL(pp. 298 e ss.), UIL(pp. 301 e ss.), CIDA( pp. 304 e ss.),CNA( pp. 307 e ss.), Confederazione Generale Italiana del Commercio e del Turismo(pp. 416 e ss.),CISL(pp. 419 e ss.). Merita segnalare anche il parere del CNEL del 25 novembre 1960, riferito al progetto di riforma organica del processo civile, più volte richiamato nelle risposte, anche dei sindacati, al questionario del 1965(che si può leggere in Riv. Dir. Lav.,1961,III, pp. 48 e ss.) e ancor prima quello del 24 giugno 1960(ivi,1960,III, pp. 225 e ss.).
[8] Il “Questionario” sui temi di diritto sostanziale si può leggere sempre in Riv.Dir.Lav.,1964,III, pp. 237 e ss., con in calce le risposte. Sulla proposta di uno “Statuto dei Lavoratori” e la posizione delle OO. SS. v., ibidem, III, pp. 124 e ss. Il questionario e le risposte si possono leggere anche in Riv. Giur. Lav., 1965,I, pp. 39 e ss. e pp. 44 e ss.
[9] Lo stato dell’arte è ben rappresentato dallo studio di Giuseppe Pera, Sulla risoluzione delle controversie individuali di lavoro, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1967,pp. 190 e ss.),che è il testo, integrato, della Prolusione tenuta il 1° dicembre 1966 all’inizio del suo primo Corso di diritto del lavoro, dopo la chiamata all’Università degli Studi di Pisa. Per un dibattito a più voci v. AA.VV., Per una riforma della giustizia del lavoro in Italia, Edizioni Scienze Sociali di Genova, Genova, 1965, con le relazioni, su diversi temi, di Virgilio Andrioli(pp. 11 e ss.), Andrea Torrente(pp. 25 e ss.), Domenico Napoletano(pp. 31 e ss.), Giuseppe Pera (pp. 42 e ss.), Valente Simi(pp. 53 e ss.), Luisa Riva Sanseverino(pp. 69 e ss.), Carlo Fornario (pp. 81 e ss.).
Merita segnalare, anche, l’ampio studio di Luciano Ventura, Giudice del lavoro, processo del lavoro e crisi della giustizia, pubblicato in quattro parti, in Riv. Giur. Lav., 1964,I, pp. 135 e ss., pp. 223 e ss., pp. 285 e ss. e ivi, 1965,I, pp. 21 e ss., che ben rappresenta anche la posizione della Rivista Giuridica del Lavoro e della CGIL.
[10] Sui precedenti della riforma v. Giuseppe Pera, La riforma del processo del lavoro nello scorcio della quarta legislatura, in Foro It., 1968,V, cc.81 e ss.).
Sotto la direzione di Tito Carnacini e Giuseppe Pera, su impulso del Ministero di Giustizia fu svolta una ricerca del C.N.R., Comitato per le scienze giuridiche e politiche, Università di Bologna e di Pisa, i cui Atti, con il titolo “Controversie del lavoro e previdenziali”, furono pubblicati, per i tipi della Giuffrè, a Milano, nel 1971.La ricerca, ricca anche di tabelle statistiche relative all’applicazione del processo del lavoro nei diversi gradi di giudizio (i cui risultati sono stati presi in considerazione in molte delle discussioni che si sono svolte negli anni ’70 sulle proposte di riforma), che si fermava ai dati acquisiti qualche anno prima, 1966-1967, registrava che il processo allora vigente era lento e costoso, rilevandosi la necessità di mettere mano ad una riforma organica dell’amministrazione della giustizia, in senso lato, predisponendo adeguate strutture, strumenti anche materiali, con un cambiamento concreto del costume di magistrati e avvocati.
Sulla crisi della giustizia del lavoro e previdenziale merita segnalare anche il Convegno Nazionale dei Comitati di Azione per la Giustizia, tenutosi a Bologna nei giorni 28-30 aprile e 1° maggio 1967 ( AA.VV., Crisi della giustizia in materia di controversie del lavoro e della previdenza sociale nel quadro della crisi generale della giustizia, Editrice La Riforma Giuridica, Roma, 1968. Le Relazioni furono affidate a Luciano Ventura(pp. 31 e ss., e replica pp. 463 e ss.), Domenico Napoletano(pp. 48 e ss., e replica pp. 469 e ss.), Alfredo Chiuccariello(pp. 67 e s., e replica pp. 482 e ss.), Giuseppe Pera (pp. 131 e ss., e replica pp. 466 e ss.), Franco Agostini (pp. 156 e ss., e replica pp. 492 e ss.), Gino Giugni ( pp. 181 e ss., e replica pp. 473 e ss.). Tra gli interventi meritano di essere segnalati quelli di Aurelio Becca (pp. 286 e ss.), Carlo Smuraglia ( pp. 324 e ss.), Vincenzo Panuccio ( pp. 334 e ss.), Aldo Cessari ( pp. 338 e ss.), Ubaldo Prosperetti( pp. 344 e ss.), Ugo Natoli ( pp. 354 e ss.), Valente Simi( pp. 397 e ss.), Giuliano Cazzola( pp. 444 e ss.).
[11] La V Legislatura, dal 5 giugno 1968 al 24 maggio 1972, conta ben sei Governi.
Il II Governo Leone( dal 25 giugno 1968 al 13 dicembre 1968), è un monocolore DC con l’On. Gonella MdG e il Sen. Bosco MdL.
A seguire tre Governi presieduti dell’On. Mariano Rumor (DC).
Il I, dal 13 dicembre 1968 al 6 agosto 1969, è una coalizione di centro-sinistra composta da DC,PSU e PRI, che vede alcuni parlamentari ai primi incarichi: l’On. Francesco De Martino(PSU) Vicepresidente, il Sen. Silvio Gava(DC) MdG e il Sen. Giacomo Brodolini(PSU) MdL. Il II, dal 6 agosto 1969 al 28 marzo 1970, è un monocolore DC con l’On. Paolo Emilio Taviani(DC) Vicepresidente, sempre il Sen. Gava MdG, mentre l’On. Carlo Donat-Cattin(DC) è il nuovo MdL. Il III, dal 28 marzo 1970 al 6 agosto 1970, è una coalizione di centro-sinistra(DC,PSI,PSDI e PRI), con l’On. De Martino Vicepresidente, il ritorno dell’On. Reale, sempre come MdG, e la conferma dell’On.Donat-Cattin come MdL.
Dal 6 agosto 1970 al 18 febbraio 1972 è in carica il I Governo presieduto dall’On. Emilio Colombo(DC),una coalizione di centro-sinistra con la compagine politica della precedente legislatura, con Vicepresidente l’On. De Martino, MdG l’On. Reale - sino al 5 marzo 1971(e ad interim, per il periodo successivo, il Presidente del Consiglio), MdL sempre l’On. Donat-Cattin.
Esordisce, poi, dal 18 febbraio 1972 al 26 giugno 1972,il I Governo presieduto dall’On. Giulio Andreotti(DC), con l’On. Gonella MdG e l’On. Donat-Cattin MdL. Ma è un esordio sfortunato perché, il 26 febbraio 1972, con un totale di 152 voti a favore (DC, PLI, SVP e i Senatori a vita Cesare Merzagora e Giovanni Gronchi) e 158 contro non ottenne la fiducia, essendo così costretto a dimettersi dopo solo otto giorni(è stato il Governo più breve nella pienezza dei poteri, le cui dimissioni portarono, per la prima volta, alle elezioni anticipate).
Alla Camera, l’On. Bucalossi è Presidente della IV Commissione (Giustizia),mentre il Presidente della XIII Commissione(Lavoro) è l’On. Nullo Biaggi(DC). Al Senato, a presiedere la II Commissione(Giustizia) sono i Senatori Fenoaltea, Cassiani e Giuseppe Solari(DC),mentre alla X Commissione( Lavoro), a ricoprire l’incarico di Presidente c’è prima il Sen. Franco Tedeschi(PSI-PSDI, unificati, poi PSI), dopo, il Sen. Gaetano Mancini(PSI).
[12] Il CSM, nella sua relazione del 15 aprile 1970, memore «di quanto mortificanti e spesso drammatiche attese debba caricarsi il lavoratore subordinato – cioè colui che per definizione non può attendere – quando intenda ottenere(e spesso si tratta di mezzi necessari alla soddisfazione delle più elementari, indifferibili esigenze proprie e della sua famiglia) quanto gli compete», rilevato che lo stato di cose denunciato è dovuto al fatto che trovano applicazione, anche per le controversie di lavoro, le ordinarie regole processuali civilistiche, concludeva con questa specifica proposta: «Il Consiglio, secondo l’opinione della maggioranza dei suoi componenti, ritiene di dovere formulare un suggerimento ardito e profondamente innovatore, diretto all’introduzione dell’istituto del giudice unico in primo grado, all’effetto di fondere in un solo ufficio di carattere monocratico quelli attualmente distinti di pretura e di tribunale».
[13] Così Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1986, p. 434. Su questi temi v. Paolo Passaniti, Il sindacalismo alla prova degli anni Settanta . Alle origini della crisi del diritto del lavoro, in Lorenzo Gaeta, Paolo Passaniti(a cura di), Il sistema sindacale italiano. Un omaggio senese a Bruno Fiorai, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021, pp. 33 e ss., anche per i riferimenti ulteriori.
[14] Tra i tanti contributi, v. Mario Rusciano, Lorenzo Gaeta, Lorenzo Zoppoli, Mezzo secolo dallo Statuto dei lavoratori: Politiche del diritto e cultura giuridica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020. Sia consentito richiamare anche Vincenzo Antonio Poso, Era di maggio. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, in Giustizia Insieme, www.giustiziainsieme.it, 20 maggio 2020.
[15] Gino Giugni, Idee per il lavoro, Roma-Bari, Laterza 2020; Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Silvana Sciarra. Il dialogo mai interrotto con Gino Giugni, in Giustizia Insieme, www.giustiziainsieme.it, 2 settembre 2020.
[16] Roberto Voza, Il diritto come progetto politico: Gino Giugni e lo Statuto, in Mario Rusciano, Lorenzo Gaeta, Lorenzo Zoppoli, Mezzo secolo dallo Statuto dei lavoratori, op. cit., pp. 125 e ss. V. anche Andrea Ricciardi( a cura di), La memoria di un riformista, Il Mulino, Bologna, 2007.
[17] Gino Giugni, La lunga marcia della concertazione, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 27.
[18] L’intervista di Pietro Ichino a Gino Giugni è pubblicata in Riv. It. Dir. Lav.,1992,I, pp. 411 e ss., qui p. 441.
[19] Il progetto di riforma del 1971 si può leggere in Foro It., 1971, V, cc. 75 e ss., con un commento a prima lettura di Virgilio Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del processo del lavoro. Sul ruolo che Virgilio Andrioli ha avuto nelle riforme processuali in materia di lavoro, v. Andrea Proto Pisani, Virgilio Andrioli e le riforme processuali degli anni ’70:quasi un racconto, in Riv. Dir. Proc., 2020, pp. 656 e ss. Merita segnalare, anche, l’analisi positiva sulla proposta di riforma di Gino Giugni nell’articolo Il progetto di legge sulla giustizia del lavoro, apparso su Il Giorno,11 aprile 1971.
[20] Queste vicende sono raccontate da Mauro Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, in Riv. Giur. Lav., 1971, I, pp.283 e ss.; Virgilio Andrioli, Intorno al progetto di procedimento del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 1971, I, pp. 305 e ss.; Vittorio Colesanti, Un convegno sulla riforma del processo del lavoro, in Riv. Dir. Proc., 1971, pp. 435 e ss.; Pietro Federico, Federico Foglia, La disciplina del nuovo processo del lavoro, Milano, 1973, pp. 31 e ss. Più di recente v. Luigi de Angelis, Giustizia del lavoro, Cedam, Padova, 1992, pp.14-15 ( al quale si rinvia anche per una efficace ricostruzione del contesto generale e del dibattito che si è sviluppato sin dagli anni ’60, con le prime applicazioni giurisprudenziali: pp. 1-35).V., da ultimo, Enzo Vullo, La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema, in Judicium,2021, pp. 293 e ss.; e, tra i testimoni che a quell’incontro hanno partecipato, Maria Vittoria Ballestrero, Come eravamo. Statuto dei lavoratori e riforma del processo del lavoro nei primi anni di applicazione, intervento al Convegno dal titolo “ Il processo del lavoro compie 50 anni” (che si è svolto a Bari nei giorni 19 e 20 maggio 2023, organizzato dalla Rivista Giuridica del lavoro e della Previdenza Sociale e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari), di prossima pubblicazione, nella versione estesa e con svariate modifiche e note, in Lav. Dir., fasc. n. 3 del 2023( al quale si rinvia per ulteriori riferimenti), pp. 7 e ss. del dattiloscritto letto per cortesia dell’A.
[21]Gli atti furono pubblicati a Milano nel 1971, per i tipi di Giuffrè, AA.VV. Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro. La relazione di Giovanni Fabbrini si può leggere alle pp. 1 e ss. e la sua replica alle pp. 139 e ss. (pubblicata anche in Riv. Dir. Proc., 1971, pp. 370 e ss.). Numerosa, e di alto livello, la platea degli studiosi intervenuti nella discussione (tra questi anche avvocati e magistrati): Giulio Gionfrida (pp. 29 e ss.), Giuseppe Pera ( pp. 37 e ss.), Angelo Converso ( pp. 43 e ss.), Gian Antonio Micheli( pp. 49 e ss.), Mauro Cappelletti ( pp. 55 e ss.), Carlo Fornario ( pp. 64 e ss.), Vittorio Denti ( pp. 73 e ss.), Antonio Martone (pp. 79 e ss.), Guglielmo Simoneschi(pp. 84 e ss.), Federico Governatori(pp. 95), Modestino Acone(pp. 102 e ss.), Giovanni Verde (pp. 107 e ss.), Nicola Florio( pp. 112 e ss.), Virgilio Andrioli(pp. 116 e ss.), Elio Fazzalari(pp. 131 e ss.), Luigi Montesano( pp. 135 e ss.), Tito Carnacini( pp. 136 e ss.). Gli interventi di Andrioli e Cappelletti si possono leggere anche in Quale Giustizia, 1971, rispettivamente pp. 447 e ss. e pp. 454 e ss.
[22] In occasione dell’Incontro di studio bolognese del 12 e 13 giugno 1971 già si avvertono i pericoli di una rivoluzione per mano dei giudici(il riferimento, esplicito, è alla giustizia del lavoro affidata ai Pretori). Ammoniva Fazzalari: «stiamo attenti ad armare una generazione di magistrati di poteri che non sono i loro, più gravi di quelli che ciascuno di essi-come singolo-può sopportare, e che possono capitare in mano di taluno che non abbia alcuna voglia di fare il giudice, ma solo quella di comandare»(p.135); evocando la libertà come l’unica scelta di civiltà.
[23] Così, efficacemente, Virgilio Andrioli: «Nessuno ignora che una causa richiede un periodo di tempo non inferiore al triennio, per esaurire il primo grado, un periodo di tempo non inferiore al biennio per attingere la sentenza di secondo grado, e che in un processo come quello di Cassazione , in cui le prestazioni dei giudici si esauriscono nella deliberazione della sentenza e nella estensione della sua motivazione, il cittadino deve attendere non meno di tre anni. Se di vicende del genere è protagonista un lavoratore che ha bisogno della somma di denaro, che forma oggetto della sua domanda, per vivere e far vivere i suoi congiunti( e la situazione diviene più drammatica quando si tratta di pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti), […] la illazione che è dato cavarne è assai semplice: il processo, anche se si conclude con una sentenza conforme a diritto e a giustizia, non attinge risultati utili e non ha possibilità di serio inserimento nella vita, che fluisce intorno ai palazzi di giustizia. Non basta: la eccessiva durata del processo infligge lesione anche alla collettività perché, da un lato, ostacola il reinserimento del lavoratore licenziato in altra impresa, e quindi attarda la fluida circolazione delle forze di lavoro, e, dall’altro lato, perpetua la conflittualità tra lavoratori e datori di lavoro»( pp. 118-119).
[24] È, questa, l’opinione di Francesco Paolo Luiso, espressa, di recente, in un breve saggio, La nascita del Processo del Lavoro, destinato all’opera collettanea (promossa dal Centro Nazionale Studi Diritto del Lavoro ”Domenico Napoletano”-Sezione di Roma-) a cura di Iolanda Piccinini, Antonio Pileggi, Bruno Sassani, Paolo Sordi, dal titolo: Il Processo del Lavoro, cinquant’anni dopo, di prossima pubblicazione a Torino, per i tipi di Giappichelli, pp. 4-5 del dattiloscritto letto per cortesia dell’A.
[25] Questa vicenda è raccontata molto bene da Maria Vittoria Ballestrero, Il contributo di Giuseppe Pera nella stagione dei grandi Commentari dello Statuto dei lavoratori(pubblicato insieme ai contributi di Gian Guido Balandi e Oronzo Mazzotta), in Lav. Dir., 2017, pp. 643 e ss., qui pp. 646 e ss.
[26] AA.VV., La rappresentanza professionale e lo Statuto dei lavoratori. Atti delle Giornate di studio AIDLaSS di Perugia, 22-23 maggio 1970, Giuffrè, Milano,1971. La relazione di Giuseppe Federico Mancini si può leggere alle pp. 13 e ss.(e la sua replica alle pp. 191 e ss.). Questi gli studiosi intervenuti: Giuliano Mazzoni(pp. 51 e ss.), Ubaldo Prosperetti(pp. 54 e ss.), Renato Scognamiglio(pp. 59 e ss.), Giuseppe Pera (pp. 70 e ss.), Marco Vais( pp. 78 e ss.), Valente Simi(pp. 94 e ss.), Mario Grandi( pp.99 e ss.), Gino Giugni(pp. 102 e ss.), Luciano Ventura(pp. 115 e ss.), Umberto Romagnoli(pp. 125 e ss.), Luigi Montuschi( pp. 128 e ss.), Franco Carinci(pp. 132 e ss.), Carlo Smuraglia( pp. 144 e ss.), Ignazio Scotto ( pp. 147 e ss.), Tiziano Treu( pp. 156 e ss.), Edoardo Ghera( pp. 163 e ss.), Giorgio Branca( pp. 166 e ss.), Luisa Riva Sanseverino(intervento scritto, pp. 185 e ss.).
[27] L’intervista di Pietro Ichino a Giuseppe Federico Mancini si può leggere in Riv. It. Dir. Lav., 1993, I, pp. 143 e ss., qui pp.166 e ss.
[28] La Scuola bolognese, come è noto, comprendeva anche Giorgio Ghezzi, Luigi Montuschi e Umberto Romagnoli, autori, con Mancini, dello storico “Statuto dei diritti dei Lavoratori”, edito la prima volta nel 1972, a Bologna-Roma, con i tipi di Zanichelli e Società Editrice de Il Foro Italiano, facente parte del Commentario del Codice Civile a cura di Antonio Scialoja e Giuseppe Branca.
[29] L’ottimo resoconto è fatto da Maria Vittoria Ballestrero, Il contributo di Giuseppe Pera nella stagione dei grandi Commentari dello Statuto dei lavoratori, op. cit., pp. 646 e ss., dalla quale cito senza virgolettato.
[30] Gli scritti polemici di cui si parla sono, essenzialmente, questi: Giuseppe Pera, Interrogativi sullo statuto dei lavoratori, in Dir. Lav., 1970, pp. 188 e ss.; Gino Giugni, I tecnici del diritto e la legge “malfatta”, in Pol. Dir., 1970, pp. 479 e ss.; Giuseppe Pera, Risposta al prof. Gino Giugni, in Boll. Ist. Dir. Lav. Univ. Trieste, n. 49, 1971, pp. 15 e ss.
[31] AA.VV., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. Le norme processuali dello statuto dei lavoratori, Giuffrè, Milano, 1974.
Le due relazioni sul primo tema furono svolte da Andrea Proto Pisani, con riferimento alla dottrina (pp. 15 e ss., con la replica alle pp. 153 e ss.), e da Luigi Bianchi d’Espinosa, con riferimento alla giurisprudenza(pp. 41 e ss., con la replica alle pp. 166 e ss.).Folta la platea degli studiosi intervenuti: Enrico Allorio ( pp. 63 e ss.), Luigi Montesano(pp. 81 e ss.),Vittorio Denti(pp. 83 e ss.), Enzo Capaccioli( pp. 89 e ss.), Mauro Cappelletti (pp. 90 e ss.), Giuseppe Pera ( pp. 97 e ss.), Gian Antonio Micheli (pp. 100 e ss.), Virgilio Andrioli ( pp.104 e ss.), Giovanni Fabbrini ( pp. 121 e ss.), Giovanni Verde ( pp. 123 e ss.), Mario Berri( pp. 130 e ss.), Segio La China( pp. 133 e ss. ). Wolfgang Grunsky (pp. 138 e ss.), Vincenzo Vigoriti ( pp. 141 e ss.),Corrado Vocino(pp. 143 e ss.),Tito Carnacini (pp. 150 e ss.).
Sul secondo tema le relazioni furono svolte da Umberto Romagnoli, Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori(pp. 175 e ss., con la replica alle pp. 288 e ss.), e da Giuseppe Pera, Le controversie in tema di sanzioni disciplinari e di licenziamento secondo lo statuto dei lavoratori( pp. 207 e ss., con la replica a pp. 291 e ss.).Meno numerosa la platea degli studiosi che parteciparono alla discussione, anche per la specificità del tema affrontato: Carmine Punzi( pp. 254 e ss.), Giuseppe Tarzia ( pp. 261 e ss.), Sergio La China ( pp. 263 e ss.), Federico Carpi ( pp. 271 e ss.), Lucio Lanfranchi(pp.277 e ss.), Virgilio Andrioli (pp. 284 e ss.).
Merita segnalare, anche, per la parte propositiva, Andrea Proto Pisani, Il processo civile di cognizione a trent’anni dal codice(Un bilancio e una proposta), in Riv. Dir. Proc., 1972, pp. 35 e ss.
[32] Sul Convegno di Sorrento del 30 ottobre e 1° novembre 1971 v. Enzo Vullo, Il convegno di Sorrento del 1971: alle origini delle riforme del processo civile, in Giusto Proc. Civ., 2021, pp. 285 e ss.
[33]Su queste problematiche v. Enzo Vullo, La rivista di diritto processuale dal 1946 al 1975:polemiche, orizzonti, persone, in Riv. Dir. Proc., 2020, pp. 147 e ss.
[34] V., in proposito, Giuseppe Franchi, La giustizia italiana secondo il Consiglio Superiore della Magistratura, in Riv. Dir. Proc., 1971, pp. 53 e ss.
[35] V., in proposito, Enzo Vullo, Il convegno di Sorrento del 1971:alle origini delle riforme del processo civile, qui, pp. 291 e ss. e, sui possibili rimedi, pp. 297 e ss.
[36] Si tratta del IX Congresso Nazionale di Diritto del Lavoro organizzato dall’AIDLaSS a Saint Vincent nei giorni 3-6 giugno 1971, su I poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo Statuto dei Lavoratori, i cui Atti sono stati pubblicati a Milano, per i tipi di Giuffrè, nel 1972. Il giudizio sulla giurisprudenza dei c.d. “Pretori d’assalto”, però, non è negativo. Nel suo intervento(pp. 162 e ss.),Ubaldo Prosperetti critica l’infatuazione determinata da certe pronunce giurisprudenziali, e tuttavia avverte: « A questo punto sarebbe molto facile dire male dei Pretori, ma sarebbe ingiusto generalizzare. I Pretori sono come gli ufficiali in prima linea, sono quelli che devono prendere le decisioni immediate specialmente in base all’art.28 dello Statuto». E li giustifica dicendo che spesso hanno fatto bene ma in senso atecnico,«hanno cioè manifestato l’insofferenza di cui tutti siamo testimoni, magistrati ed avvocati, per il nostro processo del lavoro, per il nostro processo civile in generale; quella insofferenza che ci fa arrossire come avvocati quando dobbiamo, per l’interesse del cliente, proporre certe eccezioni o chiedere certi rinvii»(p. 164).Così arrivando a giustificare anche l’uso distorto del procedimento di repressione della condotta sindacale, per evitare che un processo di cognizione sulla liceità e validità del licenziamento duri troppo, nell’interesse dei lavoratori e degli imprenditori, che non hanno interesse che il processo duri anni, «determinando uno stato di tensione nelle aziende e che si svolga nel modo in cui si svolge in questi tempi»( p. 165).
[37] V., su questo punto, Enzo Vullo, La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema, op. cit., pp. 293-294 e note 3-7.
[38] Per gli atti v. AA.VV., La riforma del processo in materia di lavoro e previdenza, Giuffrè, Milano, 1973. Le relazioni sono affidate a Ubaldo Prosperetti (pp.7 e ss., con la replica alle pp. 92 e ss.) e a Enrico Allorio (pp. 92 e ss.). Anche in questo seminario la platea degli studiosi è di varia formazione e provenienza: Gian Antonio Micheli (pp. 45 e ss.), Antonio Martone (pp.52 e ss.), Giuseppe Tamburrino (pp. 57 e ss.), Ignazio Scotto (pp. 63 e ss.), Domenico Napoletano (pp. 71 e ss.), Bruno Mazzarelli (pp. 75 e ss.), Valente Simi (pp.77 e ss.), Carlo Fornario (pp. 81 e ss.), Guido Zangari (pp. 86 e ss.).
[39] Così, Enzo Vullo, La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema, op. cit., pp. 309-310.
[40] V. gli Atti (pubblicati in due volumi) in Pietro Barcellona( a cura di), L’uso alternativo del diritto. I. Scienza giuridica e analisi marxista. II. Ortodossia giuridica e pratica politica, Laterza, Roma-Bari,1973.
[41] Tra le relazioni del Convegno di Catania ( tutte pubblicate nel vol. I), merita segnalare, per i temi di carattere generale: Umberto Cerroni, Il problema della teorizzazione dell’interpretazione di classe del diritto borghese ( pp. 3 e ss.); Enrico Spagna Musso, Note per una discussione organica sulla utilizzazione politica del diritto (pp. 49 e ss.); Giovanni Tarello, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista- interprete (pp.61 e ss.); Luigi Ferrajoli, Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria ( pp. 105 e ss.); Biagio De Giovanni, Significato e limiti del «riformismo giuridico»(pp. 253 e ss.). Per il diritto del lavoro, alla relazione di Thomas Blanke, Interpretazioni alternative del diritto del lavoro( pp. 171 e ss.), si aggiunge quella di Fabio Mazziotti, Uso alternativo del diritto del lavoro ( pp. 195 e ss.), che completano le problematiche del diritto privato e del diritto dell’economia analizzate da: Francesco Galgano, Uso alternativo del diritto privato(pp. 137 e ss.); Adolfo Di Majo, Proposte per un avvio di discorso teorico sull’«uso alternativo» del diritto privato( pp. 151 e ss.); Rudolf Wietholter, Diritto dell’economia: analisi di una «formula magica»( pp. 209 e ss.); Stefano Rodotà, Funzione politica del diritto dell’economia e valutazione degli interessi realizzati dall’intervento pubblico ( pp. 253 e ss.).
[42] Tra gli interventi del Convegno di Catania (tutti pubblicati nel vol. II), alcuni riguardano i fondamenti teorici dell’«uso alternativo del diritto», con riferimento, anche all’analisi marxista: Riccardo Guastini(pp. 3 e ss.); Nicola Salanitro( pp. 45 e ss.).Franco Leonardi(pp. 69 e ss.);Giuseppe Cotturri (pp. 95 e ss.); altri riguardano i temi dell’interpretazione, non solo le tecniche ma anche il ruolo del giudice-interprete, i compiti del giurista alternativo e la «funzione supplente» della magistratura: Nicolò Lipari(pp. 37 e ss.); Federico Governatori(pp. 51 e ss.);Domenico Pulitanò(pp. 61 e ss.); Antonio Pavone La Rosa( pp. 65 e ss.);Pietro Barcellona(pp. 125 e ss.);Michele Costantino(pp. 253 e ss.); Carlo Amirante( pp. 261 e ss.).Non meno importanti sono i contributi dedicati al diritto privato, sotto diversi profili, e al diritto dell’economia. Tra i tanti: Lucio Ricca, pp. 149 e ss.; Ugo Ruffolo, pp. 169 e ss.; Claudio Varrone, pp. 185 e ss.); ma in questa sede merita segnalare, in particolare, alcuni interventi specifici sui temi squisitamente lavoristici: Antonino Cautadella, L’uso alternativo del diritto privato e del diritto del lavoro e i pericoli di interpretazioni «involutive»( pp. 135 e ss.); Giorgio Ghezzi, Gli obiettivi alternativi del diritto del lavoro nell’attuale fase di ristrutturazione economica( pp. 195 e ss.); Salvatore Andò, Uso alternativo del diritto del lavoro(pp. 229 e ss.) e l’intervento dell’unico processualista intervenuto nel dibattito, Eduardo Grasso, Uso alternativo e processo civile: considerazioni preliminari( pp. 131 e ss.).
[43] Alcune di quelle discussioni sono state riprese, di recente, con parziale autocritica, da Nello Rossi, Dalla “giurisprudenza alternativa” alle problematiche dell’oggi, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it,11 aprile 2023, che riproduce la relazione presentata alla Sapienza Università di Roma durante la IV Sessione degli incontri di studio su L’uso alternativo del diritto. Il convegno catanese cinquant’anni dopo, intitolata La magistratura e il ruolo del giurista oggi (Roma, 24 marzo 2023).
[44] V., in tal senso, Mauro Cappelletti, Processo e ideologie, Il Mulino, Bologna,1969; Id., Giustizia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1972; Vittorio Denti, Processo civile e giustizia sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1971. In termini generali v. anche Stefano Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. Dir. Comm., 1967, pp. 83 e ss.; Luigi Paolo Comoglio, La garanzia costituzionale dell’azione e il processo civile, Cedam, Padova, 1970; Nicolò Trocker, Processo civile e Costituzione. Problemi di diritto tedesco e italiano, Giuffrè, Milano, 1974.
[45] V., per tutti, Elio Fazzalari, L’imparzialità del giudice, in Riv. Dir. Proc., 1972, pp. 193 e ss.
[46] Il volume di Sergio Chiarloni, pubblicato nel 1975 a Torino, per i tipi di Giappichelli, è stato poi pubblicato in ristampa, su meritoria iniziativa dell’Università degli Studi di Roma Tre-Dipartimento di Giurisprudenza, da Roma Tre-Press, nel 2023, nella Collana open access “ La memoria del Diritto”, vol. XIII, con una Introduzione di Andrea Proto Pisani. Detto volume è lo svolgimento, in forma più estesa, di un lungo saggio che l’A. aveva pubblicato, con il titolo Processo civile e società di classi, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1975, pp.733 e ss.
[47] Così Carlo Vittorio Giabardo, Omaggio a Sergio Chiarloni(in memoria),in Giustizia Insieme, www.giustiziainsieme.it, 16 aprile 2022, che precisa, anche, che il “libretto giallo”, rappresentativo del clima degli anni della contestazione, «era frutto anche dell’esperienza, portata avanti insieme (tra altri giovani professori) a Norberto Bobbio e Gastone Cottino, del “Seminario interdisciplinare per lo studio critico del diritto”, tenuto alle Facoltà di Scienze Politiche e di Giurisprudenza di Torino all’inizio degli anni Settanta, in piena epoca di contestazioni e lotte studentesche. Scopo di quelle riflessioni e di quel libretto era svelare, mediante strumenti teorici e un linguaggio in gran parte tratto dal marxismo, le sottaciute connessioni tra sovrastrutture ideologiche, strutture economiche e meccanismi processuali, tra la divisione della società in classi, le differenze di ceto e sistemi di dominio sociale e i concreti modelli di tutela dei diritti e amministrazione della giustizia esistenti in un dato periodo storico».
[48] È Francesco Paolo Luiso che fa riferimento sia al “libretto giallo” di Sergio Chiarloni, sia al Convegno di Catania del 15-17 maggio 1972 (in La nascita del Processo del Lavoro, op. cit., p. 5 del dattiloscritto); mentre a quest’ultimo fa riferimento anche Maria Vittoria Ballestrero (in Come eravamo. Statuto dei lavoratori e riforma del processo del lavoro nei primi anni di applicazione, op. cit., pp. 2 e ss. del dattiloscritto, cui si rinvia anche per i riferimenti ulteriori e l’analisi di alcuni temi dibattuti in quel Convegno, soprattutto con riferimento alle posizioni espresse da M.D.). Merita segnalare, anche, il saggio di Luca Nivarra, La grande illusione. Come nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia, Giappichelli, Torino,2015, in particolare il Cap. III, Gli usi alternativi del diritto o le disavventure del riformismo, pp. 57 e ss. V. anche Andrea Giussani, La tutela dei diritti, in Luca Nivarra ( a cura di), Gli anni Settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 303 e ss.; Enrico Scoditti, La magistratura, ivi, pp. 455 e ss.
[49] La VI Legislatura inizia il 25 maggio 1972 e termina il 4 luglio 1976.
Dopo le dimissioni del suo I Governo, è sempre l’On. Andreotti a presiedere il suo II Governo, dal 26 giugno 1972 all’8 luglio 1973, con una coalizione composta da DC,PSDI e PLI. Vicepresidente è l’On. Mario Tanassi(PSDI), MdG è nuovamente l’On. Gonella e MdL è il Sen. Dionigi Coppo(DC).
Dal 7 luglio 1973 al 14 marzo 1974 è in carica il IV Governo Rumor, nel quale esordiscono come MdG l’On. Mario Zagari(PSI) e come MdL l’On. Luigi Bertoldi(PSI).
Questa legislatura proseguirà con il IV Governo Rumor(DC,PSI,PSDI,PRI),il IV Governo Moro( DC,PRI) e il V Governo Moro(DC).
Al tempo del procedimento legislativo che ci occupa, che si concluderà con l’approvazione di quella che sarà la l. n. 533/1973, alla Camera, il Presidente della IV Commissione (Giustizia) è l’On. Reale, mentre il Presidente della XIII Commissione(Lavoro) è l’On. Zanibelli; al Senato, Presidente della II Commissione (Giustizia) è sino al suo decesso, avvenuto il 13 giugno 1973, il Sen. Virginio Bertinelli (PSDI) – solo dal 25 settembre 1973 prenderà il suo posto il Sen. Agostino Viviani(PSI); mentre il Presidente della XI Commissione( Lavoro) è il Sen. Vittorio Pozzar(DC).
[50] Ricordiamoli: Raffaello Lospinoso Severini, primo firmatario, appartenente al Gruppo della DC, insieme a Angelo Castelli, Natale Pisicchio, Renato Dell’Andro, Maria Eletta Martini; Franco Coccia, appartenente al Gruppo del PCI, insieme a Ugo Spagnoli, Fernando Di Giulio, Giuseppe Gramegna, Mario Pochetti, Gianfilippo Benedetti, Filippo Traina, Livio Stefanelli, Tommaso Perantuono, Carla Capponi Bentivegna e Nicola Cataldo; Giovanni Musotto ,Vito Vittorio Lenoci e Renzo Zaffarella del PSI; Aristide Gunnella del PRI.
[51] Quest’ultima strada è stata percorsa dalle due Commissioni permanenti riunite, condividendosi l’opinione espressa in un convegno di quegli anni da un altro studioso e magistrato, Guglielmo Simoneschi, a proposito del processo del lavoro, che « deve adeguarsi alle finalità della legislazione sociale già attuata nel nostro ordinamento. La tutela predisposta dall’ordinamento per riequilibrare la diversa posizione di fatto delle parti del rapporto di lavoro, da quella costituzionale a quella speciale, rischia di essere svuotata di contenuto se non trova la possibilità e la garanzia di una concreta attuazione in un sistema processuale ad essa finalizzato. Ecco allora chiarirsi le ragioni della specialità del nuovo processo del lavoro, che si esprima non solo nella semplicità delle forme del procedimento e nella adozione di strumenti idonei ad assicurare al lavoratore il pronto conseguimento dei diritti accertati dal giudice; ma anche nella adozione di istituti che rendano il nuovo rito permeabile alla potenziale carica collettiva più volte insita negli interessi dedotti in giudizio dalle parti. È su questa strada che il nuovo processo del lavoro potrà rendersi specchio fedele delle scelte di politica sociale operate dal legislatore nella passata e nella più recente disciplina dei rapporti di lavoro».
[52] L’On. Di Nardo specifica meglio il pensiero di Francesco Carnelutti con queste parole: «Il lavoratore in quel caso aveva raggiunto il proprio contratto quasi pubblico-proprio per la differenza che esiste fra norma di mero diritto civile ma di pubblico interesse - ed era riuscito a raggiungere una determinata valutazione del suo rapporto, della sua attività. Questo portava al fatto che anche lo Stato divenisse il sostenitore dell’interesse generale; interesse generale che si colloca al di sopra dell’interesse particolare, cioè al di sopra del fatto che il povero lavoratore fosse difeso dal più bravo o dal più imbecille dei patrocinanti; c’era dunque l’intervento dello Stato. La modifica di oggi equivale a tornare indietro, non ad andare avanti».
[53]Romano Canosa, Il nuovo processo del lavoro, in Quale Giustizia, 1973, fasc. nn. 21/22, pp. 367 e ss.; Carlo Smuraglia, Il processo del lavoro promosso a pieni voti, in Corriere della Sera, 17 giugno 1974.
[54] Andrea Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro It., 1973,V, cc. 205 e ss., qui cc. 227 e ss.; Vittorio Denti, Il nuovo processo del lavoro: significato della riforma, in Riv. Dir. Proc., 1973, pp. 371 e ss.; Elio Fazzalari, Appunti sul rito del lavoro, in Giur. It., 1974, IV, pp. 11 e ss.; Lucio Lanfranchi, Nuovo processo del lavoro, Statuto, tutela dei lavoratori e del sindacato, in Riv. Giur. Lav.,1973, I, pp. 348 e ss.; Salvatore Senese, Giudice naturale e nuovo processo del lavoro, in Foro It., 1974,V, cc.113 e ss.; Guglielmo Simoneschi, La disciplina delle controversie individuali di lavoro nel testo approvato dal Senato, in Foro, It., 1973,V, cc. 129 e ss.; Tiziano Treu, Il nuovo processo del lavoro: problemi di gestione sindacale, in Prosp. Sind., 1973, n. 12, pp. 19 e ss.
[55] Tra i tanti, Carlo Cester, La riforma del processo del lavoro, in Riv. Dir. Civ., 1973, II, pp. 498 e ss.; Aldo Cessari, Forme stragiudiziali di composizione delle controversie di lavoro, in Riv. Dir. Lav., 1974, I, pp. 82 e ss.; Nicola Picardi, Riflessioni critiche in tema di oralità e scrittura, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1973, pp. 1 e ss.; Mario Vellani, Appunti sul nuovo processo del lavoro, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1973,pp. 1545 e ss.
[56] Nel suo scritto: La legge è uguale per tutti, in Riv. Dir. Civ. , 1972, II, 103 e ss., prendendo a spunto le osservazioni di Virgilio Andrioli al progetto di riforma del 1971, Arturo Carlo Jemolo ritiene non adeguate al datore di lavoro e al lavoratore le vesti del ricco e del povero, ed evoca la giustizia di classe, criticandola severamente.V., in proposito, Enzo Vullo, La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema, op. ult. cit., pp. 302 e ss. e note 45-52.
[57] Andrea Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, op. cit., cc. 205 e ss., qui c. 224., che riprende, in maniera più organica, il pensiero di Giuseppe Chiovenda: «la necessità di dettare norme particolari per giudzi che interessano persone umili e normalmente incolte(operai,contadini) in lotta contro avversari potenti ( datori di lavoro, istituti di assicurazione), per la definiziaone di questioni richiedenti una pronta liquidazione, doveva naturalmente essere sentita in un paese come il nostro, in cui il processo ordinario è così inadeguato a questo genere di conflitti. Le particolarità riguardano specialmente la conformazione del giudice, l’ordinamento della difesa e il procedimento»(Principi di diritto processuale civile(Le azioni. Il processo di cognizione), Jovene, Napoli, 1923, p. 1323). Una parte della dottrina ha fortemente criticato questa impostazione: v., per tutti, Corrado Vocino, Intorno al nuovo verbo “tutela giurisdizionale differenziata”, in AA.VV., Studi in onore di Tito Carnacini, vol. II, Giuffrè, Milano, 1984, pp. 761 e ss.
Proto Pisani, successivamente, ha precisato il suo pensiero, fugando i dubbi su una espressione probabilmente foriera di equivoci, nella relazione svolta al XIII Convegno Nazionale dell’AISPC, tenutosi a Catania il 28-30 settembre 1979, dedicato proprio a La tutela giurisdizionale differenziata, Giuffrè, Milano, 1981. Gli Atti, oltre alla relazione di Proto Pisani (Sulla tutela giurisdizionale differenziata, pp. 18 e ss. e, per la replica, pp. 142 e ss.), contengono le relazioni di Luigi Montesano (Luci e ombre su leggi e proposte di «tutele differenziate» nei processi civili, pp. 3 e ss.) e di Mario Nigro(Trasformazioni dell’amministrazione e tutela giurisdizionale differenziata, pp. 89 e ss.).
Il discorso di Proto Pisani aveva due obiettivi precisi: da una parte, verificare la praticabilità tecnica di forme di tutela giurisdizionale differenziata c.d. a cognizione piena; dall’altra, rimeditare alcuni aspetti della tutela sommaria. Sotto il primo aspetto( seppur contrario alla proliferazione dei c.d. riti speciali, ribadisce l’importanza del rito speciale del lavoro, in pieno svolgimento del precetto costituzionale dell’art. 3, comma2. E, in tutta coerenza, riafferma l’esigenza di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale con riferimento a tutte quelle situazioni di vantaggio, che avendo un contenuto e/o una funzione, esclusivamente o prevalentemente non patrimoniale, subirebbero un pregiudizio irreparabile, cioè non suscettibile di una tutela adeguata nella forma dell’equivalente monetario, nel tempo necessario per ottenere una sentenza esecutiva a definizione di un processo a cognizione piena ed esauriente; esigenza assicurata sia dalla tutela sommaria cautelare, sia dalla tutela sommaria non cautelare.
Di recente (in occasione del seminario di Brescia, 21 marzo 2023, promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia, dal titolo Significati ed equivoci della “tutela giurisdizionale differenziata”), Proto Pisani, dopo avere anche spiegato la genesi del suo articolo del 1973, è ritornato sull’argomento per dire che l’equivoco era nato dal non aver chiarito abbastanza che una cosa è la tutela dei diritti offerta dalla cognizione piena tramite un rito speciale , come quello del lavoro, altra cosa è la tutela dei diritti offerta dalla tutela sommaria che mira solo al perseguimento della probabilità o della verosimiglianza.
[58] Marcello Pedrazzoli, Il compagno pretore e le lotte operaie, in Pol. Dir.,1972,pp.375 e ss., che analizza le prime decisioni pretorili aventi ad oggetto il divieto di sostegno padronale ai sindacati di comodo, il ricorso alla cassa integrazione guadagni, l’autolimitazione dei rimi di lavoro, concentrando la sua attenzione sugli strumenti processuali utilizzati dalla giurisprudenza pretorile, primo fra tutti la tutela d’urgenza ex art. 700, cod. proc. civ., ma anche i procedimenti ex art. 28,st.lav. e le ordinanze ex art. 18, comma 4, st.lav. E delinea la figura del «giudice del lavoro [che] esprime fino in fondo, nella sua attività e nelle sue decisioni, la scelta politica al cui inverarsi contribuisce in modo militante: questo deve ammettersi senza riluttanza». Dello stesso A. merita segnalare: La tutela cautelare delle situazioni soggettive nel rapporto di lavoro, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1973, pp. 1020 e ss.
[59] Per i primi tre anni di vita dello “Statuto dei Lavoratori”, merita citare le due ricerche coordinate da Tiziano Treu, con la collaborazione di due sociologi, Alberto Melucci e Franco Rositi: Tiziano Treu (a cura di), L’uso politico dello Statuto dei lavoratori, Il Mulino, Bologna, 1975; Id., Lo Statuto dei lavoratori:prassi sindacali e motivazioni dei giudici, Il Mulino, Bologna, 1976. V. anche AA.VV., L’applicazione dello statuto dei lavoratori. Tendenze e orientamenti, Franco Angeli Editore, Milano, 1973.
[60]Gaetanino Zecca, Diario di un giudice del lavoro, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 27 ottobre 2014, che ricostruisce la storia del Pretore del lavoro sin dall’applicazione della legge sui licenziamenti individuali del 1966. Nella stessa chiave di lettura è utile leggere la testimonianza di Romano Canosa, Storia di un pretore, Einaudi, Torino, 1978. V. anche Adriano Solazzo, Critiche e consensi ai pretori d’assalto, in Corriere della Sera, 29 novembre 1975, che dà conto dell’opinione pubblica dell’epoca.
[61] Tra i tanti Pretori del Lavoro della prima ora si possono citare: Romano Canosa e Pietro Federico (Milano), Angelo Converso (Torino), Sergio Mattone (Napoli-Barra), Gaetanino Zecca (Bari) Federico Governatori (Bologna), Salvatore Senese (Pisa), Marco Ramat (Firenze), e Marco Pivetti, Raffaele Foglia, Fabrizio Miani Canevari (Roma).
[62] Per un resoconto di questo Convegno, v. Giuseppe Borrè, Paolo Martinelli, Convegno di «Magistratura democratica» sul nuovo processo del lavoro, in Foro It., 1973, V, cc. 303 e ss. Questi i nomi dei Relatori: come Pretori: Pietro Federico e Guglielmo Simoneschi (Milano),Angelo Converso(Torino), Paolo Martinelli (Asti), Marco Ramat(Firenze), Salvatore Senese(Pisa),Salvatore Mannuzzu(Sassari),Antonio Porcella(Cagliari); Gaetano Zecca(Bari), Corrado Guglielmucci(Santa Maria Capua Vetere);come giudici di Tribunale: Giuseppe Borrè e Luigi Rovelli (Genova),Giovanni Palombarini(Padova).
[63]AA.VV, Il nuovo processo del lavoro. Atti della tavola rotonda (AIDLaSS) di Firenze, 2 febbraio 1974, Giuffrè, Milano, 1977. Le Relazioni, sui vari temi di interesse, furono svolte da Giuseppe Franchi (Il giudice, il procedimento e le impugnazioni: pp. 9 e ss., con replica alle pp. 235 e ss.), Giorgio Ghezzi (I rapporti di diritto privato soggetti al nuovo rito del lavoro : pp. 37 e ss., con replica alle pp. 242 e ss.), Franco Ledda (I rapporti soggetti al nuovo rito: pp. 57 e ss.), Giuseppe Tarzia( L’esecutorietà della sentenza nel processo del lavoro: pp. 71 e ss., con replica alle pp. 238 e ss.), Mario Grandi( La conciliazione e l’arbitrato: pp. 87 e ss., con replica alle pp. 244 e ss.), Umberto Romagnoli (Il sindacato nel processo: pp. 129 e ss., con replica alle pp. 246 e ss.), Nicola Picardi (La valutazione equitativa delle prestazioni: pp. 149 e ss.).
[64] Tra questi: Giorgio Cottrau(pp.177 e ss.)Elio Fazzalari ( pp. 183 e ss.), Mauro Cappelletti( pp. 188 e ss.), Giovanni Fabbrini (pp. 194 e ss.), Giuseppe Pera( pp. 199 e ss.), Federico Carpi( pp. 202 e ss.), Luigi Montesano (pp. 214 e ss., e, per la comunicazione scritta, pp. 257 e ss.).
[65] Centro Studi Cisl, La riforma del processo del lavoro, Atti del Seminario di Studio, Firenze 16-18 aprile 1973, Roma, s.d.; Vittorio Denti, Guglielmo Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Milano 1974; Pietro Federico, Raffaele Foglia, La disciplina del nuovo processo del lavoro. Introduzione e commento alla legge 11 agosto 1973,n.533, Pirola editore, Milano, 1973; Luigi Montesano, Fabio Mazziotti, Le controversie del lavoro e della sicurezza sociale, Jovene, Napoli, 1974; Domenico Napoletano, Primi orientamenti interpretativi del nuovo processo del lavoro(L. 11 Agosto 1973,n. 533), Liguori Editore, Napoli, 1973; Domenico Napoletano ( a cura di ), Il diritto processuale del lavoro, Edizioni Pem, Roma, 1973; Giancarlo Perone, Il nuovo processo del lavoro, Padova, Cedam, 1975; Giuseppe Tarzia, Manuale del processo del lavoro , Milano, Giuffrè, 1975; Corrado Vocino, Giovanni Verde, Appunti sul processo del lavoro, Jovene, Napoli, 1975; Giovanni Tesoriere, Lineamenti di diritto processuale del lavoro, Cedam, Padova, 1975.
[66] Andrea Proto Pisani, Giancarlo Pezzano, Carlo Maria Barone, Virgilio Andrioli, Le controversie in materia di lavoro. Legge 11 Agosto 1973,n.533, Zanichelli Editore-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1974
[67] Giovanni Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Franco Angeli Editore, Milano, 1975.
[68] Angelo Converso, Paolo Pini, Nino Raffone, Giuseppe Scalvini, Il nuovo processo del lavoro, Franco Angeli Editore, Milano, 1974.
[69] AA.VV., Il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, Annuario INPDAI, Giuffrè Milano, 1985. V. anche Giuseppe Pera, Le riforme da riformare nel diritto del lavoro, in Lav. Prev. Oggi, 1983, pp. 879 e ss., che nel par. 9 si occupa del processo del lavoro esprimendo un giudizio moderatamente positivo; Id., Il decennale del processo del lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1984,II, pp. 607 e ss. V. anche Luigi de Angelis, Il processo del lavoro nella giurisprudenza e nella dottrina, Cedam, Padova, 1982 (alla quale è seguita una seconda edizione del 1987).
[70] Giuseppe Pera(a cura di), Intervista sulla giustizia del lavoro a dieci anni dalla riforma, in Giorn.Dir.Lav.Rel. Ind., 1984, pp. 115 e ss. Secondo Pera la più giovane magistratura aveva retto bene alla prova e solo in alcuni casi si erano registrate punte esagitate di sovraeccitazione ideologica, ma con un clima mutato rispetto agli anni ’70. Secondo Pera: «[Gli] intervistati sono affezionati a questo processo, proprio perché esalta al massimo grado la possibilità di fare giustizia in tempi relativamente brevi; nessuno vorrebbe tornare al disarmante tran-tran della giustizia ordinaria »; e aggiunge: «Quanto meno, l’idea del nuovo processo s’iscrive nei propositi di un’Italia che vorremmo complessivamente più civile e a misura delle necessità dell’uomo».
[71] Così, Francesco Paolo Luiso, La nascita del processo del Lavoro, op. ult. cit., p. 5 del dattiloscritto.
La nascita e l’evoluzione del processo del lavoro sono tratteggiate, con una sintesi davvero efficace, da Andrea Proto Pisani, Vita, morte (e resurrezione?) del processo del lavoro, in Foro It., 2016,V, cc. 131 e ss. Per un quadro di insieme su come il processo del lavoro si è sviluppato nel corso degli anni, v., tra i contributi più recenti: Michele Miscione, Processo del lavoro: a che punto siamo, in Var. Temi Dir. Lav., 2020, pp. 1021 e ss.; Giorgio Costantino, Introduzione, in Giovanni Amoroso, Vincenzo Di Cerbo, Arturo Maresca ( a cura di), Il processo del lavoro, Giuffrè, Milano, 2020, pp. XXXV e ss.; e, da ultimo, sempre Giorgio Costantino, Quadro storico-evolutivo del processo del lavoro dal 1973 ad oggi, intervento al Convegno dal titolo “ Il processo del lavoro compie 50 anni”( che si è svolto a Bari nei giorni 19 e 20 maggio 2023, organizzato dalla Rivista Giuridica del lavoro e della Previdenza Sociale e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari), destinato ad essere pubblicato nei relativi Atti; Luigi de Angelis, Il processo del lavoro: un tragitto di mezzo secolo tra difesa del rito differenziato e frenesia di cambiamento ( che sviluppa la relazione svolta al convegno “Diritto del lavoro e tutela giurisdizionale. Nel cinquantesimo anniversario della legge sul processo del lavoro”, organizzato da AIDLaSS Forense con e presso l’Università Roma Tre nei giorni 2-3 marzo 2023),destinato ad essere pubblicato in Arg. Dir. Lav., 2023; Michele De Luca, Processo del lavoro nei diversi gradi del giudizio: cinquant’anni dopo(che è il testo, ampiamente rielaborato, della sua relazione al Convegno, organizzato da AGI, Sezione Emilia-Romagna, dal titolo “50 anni dalla riforma del processo del lavoro: è finita la spinta propulsiva?”, che si è svolto, presso l’Università degli Studi di Parma, il 27 giugno 2023),destinato ad essere pubblicato in Var. Temi Dir. Lav., 2023.
Sommario: 1. La vicenda processuale – 2. Nozioni preliminari – 3. Sulla natura “attizia” del software – 4. La corretta qualificazione giuridica del software e le sue implicazioni – 5. Il software quale modulo operativo alla prova dell’Intelligenza Artificiale – 6. La soluzione del T.A.R. Lazio: conclusioni e prospettive.
1. La vicenda processuale
La pronuncia in commento ha riguardato la richiesta di annullamento di una serie di provvedimenti inerenti a una procedura di assegnazione delle sedi scolastiche presso cui effettuare attività di supplenza[1].
Nonostante il Collegio avesse dato avviso alle parti di un possibile profilo di inammissibilità per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, i ricorrenti «ha[nno] insistito per la giurisdizione amministrativa sui fatti di causa, atteso che l’oggetto delle contestazioni veicolate con l’atto introduttivo del giudizio riguarderebbe l’algoritmo del software utilizzato dalla p.a. per lo scorrimento delle graduatorie e l’assegnazione delle sedi di servizio».
Secondo la parte privata, infatti, «la regola veicolata dal citato algoritmo resta sempre una “regola amministrativa generale” di natura tecnica, che rappresenta l’oggetto del […] ricorso, col quale sarebbe dunque stata contestata la modalità con cui il Ministero resistente avrebbe proceduto all’assegnazione delle sedi presso cui effettuare le supplenze, utilizzando il predetto software, in spregio alle preferenze espresse dalla parte ricorrente».
Il T.A.R. Lazio ha dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, ricordando che, come chiarito da costante giurisprudenza, «in materia di graduatorie del personale scolastico la giurisdizione del giudice amministrativo de[ve] intendersi limitata alla sola conoscenza di profili di illegittimità degli atti ministeriali (decreti/ordinanze) che disciplinano la loro formazione, ove questi siano in grado di ledere in via immediata la sfera giuridica dei privati, rientrando nella giurisdizione ordinaria le rimanenti questioni relative alla costituzione e alla gestione degli anzidetti elenchi graduati, nell’ambito delle quali a venire in rilievo sono dei poteri di natura privatistica esercitati dalla p.a. con funzioni proprie del datore di lavoro».
Il collegio ha, dunque, osservato che, nel caso di specie, la parte privata aveva contestato «un segmento dell’azione della p.a. che si pone ben oltre a quello della formazione delle graduatorie di cui trattasi e con riferimento alle quali la giurisdizione amministrativa è limitata ai soli profili di illegittimità dell’ordinanza ministeriale presupposta». L’intera procedura di formazione delle GPS e delle graduatorie di istituto, nonché la successiva assegnazione delle sedi per effettuare le supplenze, rientrerebbe, infatti, a giudizio del T.A.R., nella giurisdizione ordinaria, avendo la pubblica amministrazione svolto, in quel segmento temporale, le funzioni di datore di lavoro.
La sentenza ha, quindi, dichiarato la tardività del ricorso con riferimento all’ordinanza di indizione della procedura – ritenuto l’unico atto conoscibile dal giudice amministrativo – nonché, in ogni caso, la sua inammissibilità, «in quanto non assistit[o] da specifici motivi di gravame intesi a contestarne la legittimità».
2. Nozioni preliminari
Uno dei temi che continua a destare attenzione è la corretta implementazione della tecnologia digitale nello svolgimento dell’attività dei pubblici uffici.
Scoperchiato il vaso di Pandora, la sentenza in commento torna sull’ultima delle grandi innovazioni interessanti la pubblica amministrazione: l’automazione procedimentale mediante algoritmi[2].
Lungi dal voler qui spiegare analiticamente cosa siano gli algoritmi[3] e il lungo percorso, ancora neanche concluso, ai fini del riconoscimento del loro utilizzo nei procedimenti amministrativi, ci soffermeremo sul principale spunto d’interesse fornito dalla pronuncia annotata: la natura giuridica del programma informatico.
Preme, in prima battuta, sgomberare il campo da equivoci di carattere tecnico, opportunamente distinguendo i concetti di algoritmo e di software[4]. L’algoritmo è una procedura computazionale per l’ottenimento di un valore in uscita (l’output) a partire da uno o più valori in ingresso (inputs); il programma (software) è, invece, la trascrizione dell’algoritmo in un linguaggio di programmazione[5]. La differenza non è di poco conto, atteso che, se un algoritmo appare facilmente comprensibile a un essere umano, potendo essere scritto in qualunque linguaggio, il software richiede un ben diverso livello di approfondimento, ossia un «linguaggio di programmazione sintatticamente preciso»[6].
Altra distinzione da tenere a mente è quella tra algoritmi tradizionali e algoritmi “intelligenti” o, più correttamente alla luce della precedente puntualizzazione, tra programmi tradizionali, che traducono algoritmi deterministici, e programmi “intelligenti”, che implementano algoritmi non deterministici, in particolare di apprendimento (cc.dd. machine-learnings).
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire la distinzione tra le due grandi famiglie di algoritmi: l’algoritmo deterministico è «semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato», mentre il machine-learning «crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole del software e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo tradizionale) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico»[7].
3. Sulla natura “attizia” del software
Si intende adesso brevemente ripercorrere le principali tesi sostenute in dottrina sulla natura giuridica del software/algoritmo (spesso i due concetti sono stati adoperati come sinonimi), per poi analizzare quanto affermato al riguardo nella sentenza annotata.
Seguendo le prime riflessioni sul tema, il programma sarebbe da inquadrare all’interno degli atti amministrativi, in quanto la pubblica amministrazione, già nel momento di creazione e adozione del software, prenderebbe una decisione, limitando la propria discrezionalità e assumendo delle precise posizioni, tradotte in istruzioni informatiche, per lo svolgimento di un procedimento amministrativo in un numero indefinito di casi futuri aventi certe caratteristiche[8].
Nello specifico, secondo alcuni studiosi, il software rientrerebbe nella categoria degli atti normativi, in particolare regolamentari, in quanto definirebbe in via generale e astratta le regole per lo svolgimento dell’attività successiva[9]. A questa tesi possiamo, tuttavia, opporre due obiezioni, una di carattere formale e una di carattere sostanziale. Sul piano formale, un atto normativo è un atto adottato a seguito di un ben preciso iter di formazione, che, nel caso di specie, non si ravvisa. Sul piano sostanziale, tale atto, in quanto fonte del diritto, oltre ad essere astratto e generale, dovrebbe avere una portata innovativa per l’ordinamento, requisito che, nel programma, manca totalmente.
Un altro filone di pensiero riconduce il software alla categoria degli atti amministrativi generali, in grado di produrre effetti nei confronti di una generalità di soggetti, titolari di rapporti che abbiano le medesime caratteristiche, ancorché privi di forza precettiva[10]. Secondo Fantigrossi, in particolare, per mezzo del software l’amministrazione limiterebbe la propria discrezionalità, pre-configurando l’attività da eseguire rispetto ad una serie indeterminata di azioni future[11]. L’obiezione sollevata dai detrattori di tale tesi – che, peraltro, ha riscontrato un certo favor, soprattutto in un primo tempo, all’interno della giurisprudenza amministrativa – è che l’algoritmo è spesso programmato in un linguaggio incomprensibile tanto al funzionario quanto al cittadino interessato[12].
Da ultimo, una dottrina minoritaria ha qualificato il programma come atto interno[13] o, ancora, come una sorta di atto strumentale[14].
Volgendo, invece, brevemente lo sguardo alla giurisprudenza amministrativa, in occasione della nota vicenda dell’utilizzo dell’algoritmo introdotto dalla normativa sulla c.d. “Buona scuola”, il T.A.R. Lazio definiva il software come un «insieme organizzato e strutturato di istruzioni contenute in qualsiasi forma o supporto capace direttamente o indirettamente di fare eseguire o fare ottenere una funzione, un compito o un risultato particolare per mezzo di un sistema di elaborazione elettronica dell’informazione»[15] e lo qualificava in termini di atto amministrativo informatico, in quanto con esso:
- si concretizzava la volontà finale dell’amministrazione procedente;
- l’amministrazione costituiva, modificava o estingueva le situazioni giuridiche individuali anche se lo stesso non produceva effetti in via diretta all’esterno;
- si realizzava lo stesso procedimento[16].
In un primo momento, tale qualificazione è stata ulteriormente ribadita dallo stesso Consiglio di Stato[17], ma con una pecca (sulla quale si tornerà infra): poca chiarezza nel distinguere l’atto di adozione del software in linguaggio naturale dal software stesso.
Normalmente, nella definizione di atto amministrativo informatico, vengono individuate tre figure:
a) l’atto il cui contenuto è predisposto attraverso un sistema informatico, più o meno complesso, in modo manuale, utilizzando il computer solo quale word processor, e che, per aver efficacia nel mondo giuridico, dev’essere trasposto su supporto cartaceo e, di regola, sottoscritto;
b) l’atto che, oltre ad essere predisposto mediante sistemi informatici, è anche emanato con gli stessi strumenti (definito atto amministrativo “in forma elettronica”);
c) l’atto ottenuto attraverso un procedimento di elaborazione da parte di sistemi informatizzati che porta alla creazione di un documento giuridico collegando tra loro i dati che vengono inseriti nel computer, secondo le previsioni del software adottato e senza apporto umano (che viene generalmente definito “ad elaborazione elettronica”)[18].
Il giudice amministrativo – pur non usando quella precisa denominazione - qualificava il software come atto amministrativo ad elaborazione elettronica, in quanto contenente sul piano sostanziale la futura decisione amministrativa. Si voleva in tal modo individuare un aggancio normativo idoneo a consentire l’esercizio del diritto di accesso di cui agli artt. 22 ss. della l. 7 agosto 1990, n. 241, sciogliendo così definitivamente l’intricato nodo della conoscibilità del codice sorgente.
Epperò, nonostante il meritevole fine, non si concorda con le premesse: il software non può essere inteso come atto amministrativo informatico in nessuno dei sensi sopra richiamati.
Premesso che quest’ultimo è ritenuto dalla dottrina maggioritaria un atto amministrativo in senso proprio, perché imputabile comunque alla pubblica amministrazione, occorre in questa sede precisarne la definizione.
Rispetto alla nozione di atto amministrativo, si rintracciano due principali scuole di pensiero:
- la prima, più risalente, intende quest’ultimo come «qualunque dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto della pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa»[19]. Un orientamento fondato, perciò, sui principi volontaristici, all’epoca in auge, richiamati dalla disciplina privatistica e dalla teoria generale del diritto[20];
- la seconda, ad oggi insuperata, lo qualifica come un «atto mediante il quale l’autorità amministrativa dispone in ordine all’interesse pubblico di cui è attributaria, esercitando la propria potestà e correlativamente incidendo in situazioni soggettive del privato»[21].
Entrambe le tesi colgono quelli che sono degli elementi chiave nella sua configurazione.
Sulla base della prima definizione, ricaviamo in primis il contenuto di un atto amministrativo, che potrà essere di accertamento, di valutazione, di giudizio o di decisione. In realtà, però, l’algoritmo è una mera sequenza di operazioni, sicché, come ben individuato dalla più recente dottrina, esso ha una valenza meramente descrittiva e non prescrittiva[22].
Oltretutto, l’atto amministrativo è una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione.
In questi termini, adottando la qualificazione di atto amministrativo con riferimento al software, dovremmo concludere che esso sia una sorta di grande atto-contenitore, all’interno del quale sono predeterminati tutti i singoli atti del procedimento fino all’adozione del provvedimento, che è a sua volta un atto amministrativo.
Giova, preliminarmente, ricordare che il programma informatico ha lo scopo di automatizzare un’attività o un procedimento amministrativo, ossia un insieme di atti, autonomi tra di essi, ma collegati verso un obiettivo comune[23]. Proprio la definizione di procedimento amministrativo richiama immediatamente la nozione di algoritmo: a livello strutturale, in effetti, non si rinvengono distinzioni di sorta.
Insomma, l’algoritmo di automazione procedimentale, in quanto procedura computazionale, contiene tutta la sequenza di atti idonea a pervenire a un provvedimento amministrativo.
Il software, invece, traspone siffatto algoritmo sul piano informatico, traducendo il suo codice in un linguaggio di programmazione. Esso, in sostanza, realizza una doppia operazione di formalizzazione:
1) in primis, la “formalizzazione dei dati di fatto o di diritto”, ovvero la traduzione in linguaggio elettronico del linguaggio naturale di un testo di legge (che costituisce il dato di diritto) e dell’avvenimento concreto (il dato di fatto);
2) poi, la “formalizzazione del processo di ragionamento”, ovvero la concretizzazione di quel percorso logico che, partendo dalle premesse (i dati in fatto e diritto formalizzati), addiviene a delle conclusioni[24].
Il programma non rappresenta, allora, com’è evidente, una manifestazione di volontà dell’amministrazione, ma la semplice modalità di concretizzazione dei criteri di formazione di tale volontà[25], espressi mediante un algoritmo.
Questi criteri vengono normalmente predeterminati dall’autorità all’interno (questa volta sì) di un atto amministrativo, una sorta di pre-software, affinché poi il programmatore li tramuti in istruzioni per l’operatività del software vero e proprio.
Si potrebbe dire, in definitiva, che il pre-software contenga l’algoritmo, espresso in linguaggio naturale, mentre il software lo ripropone sul piano informatico secondo il linguaggio della macchina.
Nel momento in cui decide, l’amministrazione applica i criteri stabiliti nel pre-software mediante il programma: parte dal fatto concreto, traduce i dati relativi al fatto in elementi di ragionamento giuridico attraverso un’analisi attenta alla luce delle norme giuridiche e ne trae le conseguenze.
Vi è anche un’altra via che conduce a un certo scetticismo verso la qualificazione del programma informatico come atto amministrativo. È stato, infatti, sottolineato che, considerato il contenuto minimo dell’atto amministrativo, emergente dall’analisi dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990 (soggetto, oggetto, contenuto, finalità, volontà e forma), un programma informatico non disporrebbe di tali elementi essenziali, limitandosi, piuttosto, a ricalcare una semplice formula matematica[26].
Si pensi alla forma. Pur vigendo nel nostro ordinamento un principio di libertà delle forme, certamente la principale modalità è quella scritta[27]. La scrittura è, in effetti, l’unico modo per lasciare una traccia indelebile, inequivocabile e immediatamente percepibile della fattispecie procedimentale.
La forma scritta postula, altresì, la comprensibilità di quanto esposto. Se è vero che l’atto amministrativo è una «dichiarazione» o, comunque, una manifestazione di volontà da parte di un’autorità nei confronti di uno o più destinatari, allora essa «deve essere esternata con modalità che consentano ai destinatari di comprenderne il significato»[28].
Tutto ciò è ancor più vero con riferimento a un’ipotetica tutela giurisdizionale rispetto a lesioni perpetrate da un programma informatico. Premessa la supposta natura attizia del programma, dovrebbe ammettersi, infatti, finanche una pronuncia di annullamento dell’atto-software a seguito di specifiche censure mosse dal ricorrente (art. 40 c.p.a.). Pur tuttavia, «[a]ppare arduo immaginare che un avvocato e dei giudici siano in grado di garantire l’ossequio del principio di specificità delle censure proposte avverso un programma, il cui contenuto non siano in grado di intendere»[29].
Tornando, adesso, alla nozione di atto amministrativo informatico nel senso di atto ad elaborazione elettronica, è evidente che la qualificazione operata dal T.A.R. è il frutto di un’erronea concettualizzazione delle nozioni di software e di algoritmo.
Se il software si limita a formalizzare un processo logico, espresso in codice algoritmico, evidentemente esso da sé non può costituire un atto elaborato da un sistema informatico, limitandosi semmai a rappresentare, in chiave informatica, un certo ragionamento di carattere giuridico.
Si potrebbe sostenere che, in vero, la sentenza non intendesse riferirsi al software così inteso, ma, lato sensu, allo stesso l’algoritmo. Tuttavia, nemmeno quest’ultimo può considerarsi un atto amministrativo informatico.
In primo luogo, a livello concettuale, si è detto che l’algoritmo è, semmai, una sequenza di atti, assimilabile alla “fattispecie astratta” di un procedimento, «una sorta di schema di procedimento da seguire, dettagliatamente predeterminato in tutti i suoi elementi»[30].
Inoltre, non può dirsi che l’algoritmo sia un atto elaborato da un sistema informatizzato senza intervento umano. In realtà, i criteri che compongono l’algoritmo vengono predisposti – come si è detto – all’interno del pre-software. Siccome l’algoritmo in questione, non essendo di apprendimento, non ricerca delle nuove inferenze fra i dati, il programma non fa altro che trasporre le istruzioni dell’amministrazione (nella persona di un funzionario), traducendolo in un linguaggio comprensibile alla macchina. Non è il sistema informatico, perciò, ad elaborare l’atto, ma l’amministrazione stessa: ciò che cambia è solo il livello di realizzazione dell’attività, dal mondo fisico a quello digitale.
4. La corretta qualificazione giuridica del software e le sue implicazioni
A fronte del riconoscimento dell’algoritmo (meglio, del software) come atto amministrativo informatico operato dalla sentenza annotata (purché «l’utilizzo del mezzo informatico sia strumentale all’esercizio di un potere autoritativo di stampo pubblicistico»), la soluzione da noi proposta non sembra, poi, così peregrina e trova un avallo nell’orientamento di recente seguito dal Consiglio di Stato[31], che, superando l’impostazione precedente, è nuovamente tornato sul profilo della natura del programma, individuandola in un “modulo organizzativo-operativo”, ovvero un mero strumento, a livello procedimentale e istruttorio, che l’autorità può scegliere di utilizzare nell’esercizio delle proprie funzioni. Così discorrendo, l’atto amministrativo sarebbe costituito dall’atto di programmazione, contenente i criteri per la progettazione del software (pre-software), mentre il programma sarebbe solo il mezzo tecnico in cui quei criteri determinati dall’amministrazione vengono applicati per l’elaborazione della decisione, «uno strumento dell’agire amministrativo»[32].
Il problema, a questo punto, si pone in relazione al diritto di accesso: in mancanza di un atto amministrativo informatico, come si potrebbe garantire l’accesso al codice sorgente? Nella nostra elaborazione, il linguaggio sorgente è solo una traduzione meccanica della facoltà di ragionamento espressa da qualunque essere umano in linguaggio naturale; esso costituisce, cioè, la giustificazione della decisione, i passaggi logici che hanno portato ad essa: insomma, una predeterminazione delle possibili ragioni in fatto e in diritto connotanti una potenziale decisione amministrativa. Evidenti sono le interconnessioni con la nozione di motivazione del provvedimento (art. 3 della l. n. 241/1990).
A garanzia della trasparenza, perciò, si dovrebbe battere più sul fronte dell’obbligo di motivazione del provvedimento che sul diritto di accesso. Nel caso di specie, la motivazione andrebbe a concretizzare le effettive ragioni, in fatto e in diritto, che hanno condotto a quel dato provvedimento: dunque, si realizzerebbe in un’analisi esplicativa del codice sorgente[33].
In conclusione, incrementando nella giusta proporzione l’obbligo di motivazione, il mancato accesso al codice sorgente non rappresenterebbe un ostacolo insuperabile all’inserimento dell’algoritmo nel procedimento amministrativo.
Vi è anche chi ritiene che, «ancorché non sia un provvedimento, non pare dubitabile che il programma, quando usato per la conduzione di procedimento o lo svolgimento di altre funzioni pubbliche, debba essere considerato alla stregua di un “documento amministrativo”, secondo l’ampia definizione recata dall’art. 22, comma 1, lett. d), della l, n. 241/1990, senza che la manifestazione su supporto elettronico di tale documento sia idonea a influenzarne il regime di accessibilità»[34].
In questi termini, non potrebbe negarsi l’accesso al codice, fermo restando che, di per sé, quest’ultimo non garantisce un grande beneficio in termini di trasparenza dell’azione compiuta dalla macchina, attese le difficoltà connesse alla sua leggibilità e comprensibilità[35].
Senza addentrarci nella tematica inerente al problema della trasparenza e della conoscibilità circa l’operare di tali strumenti digitali, occorre effettuare qualche precisazione sulla natura giuridica.
Per prima cosa, si condivide la tesi da ultimo esposta, secondo cui il programma (rectius, codice sorgente) costituisce un documento amministrativo.
Ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d), della l. n. 241/1990, «si intende […] d) per “documento amministrativo”, ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale». E non vi è dubbio che il software costituisca una rappresentazione digitale di un atto amministrativo, il pre-software. Più correttamente, il codice sorgente riscrittura, nel linguaggio della macchina, le istruzioni previste dall’amministrazioni, mentre il software rappresenta, come ben chiarito dalla giurisprudenza, uno strumento per l’esercizio della funzione amministrativa.
In tutto questo, che qualificazione giuridica si riconnette all’algoritmo? Se si adotta la distinzione concettuale tra algoritmo e software, come sembra giusto sul piano tecnico, si deve concludere che l’algoritmo è semplicemente una formula di ragionamento, un sequenziamento, già previsto all’interno del pre-software e sottoposto a formalizzazione dal software mediante la riscritturazione operata dal codice sorgente. L’algoritmo, a ben vedere, non è niente più che un’attività di interpretazione del testo di legge o, in generale, di una disposizione normativa atta a rinvenire una correlazione tra inputs e outputs: in sostanza, una semplice ricostruzione di passaggi logici, secondo diritto, per l’ottenimento di un risultato. Espresso in linguaggio naturale, non si rinvengono particolari discrasie tra un algoritmo e una norma, che non è altro che il risultato di un’attività interpretativa[36]. Il software formalizza, poi, l’algoritmo, traducendolo in un linguaggio comprensibile alla macchina.
5. Il software quale modulo operativo alla prova dell’Intelligenza Artificiale
Sono stati esposti molteplici dubbi sulla qualificazione dei programmi più semplici come atti amministrativi informatici.
Ancora più problematica appare essere la categorizzazione giuridica dei programmi di ultimissima generazione, ricompresi all’interno della macrocategoria dell’Intelligenza Artificiale (IA).
La sussistenza di un notevole margine di autonomia del software (rectius, dell’agente artificiale) impedisce, infatti, di sostenere che si tratti di un atto dell’amministrazione, sia pur informatico. Un sistema esperto che opera mediante apprendimento automatico (machine-learning) sembrerebbe esprimere, riprendendo gli elementi essenziali di un atto amministrativo, una “volontà” propria, che difficilmente potrebbe essere prevista in sede di programmazione; senza contare che si tratterebbe di una “volontà” sempre “in divenire”, in quanto frutto di un’esperienza che viene acquisita dalla macchina nel tempo[37].
Il riferimento a una nuova “volontà” permette di porsi una domanda titanica: al software può attribuirsi una soggettività giuridica? È questo il punto di partenza di una tesi ardita e fortemente criticata secondo la quale è, forse, possibile immaginare l’agente artificiale (e, dunque, il software) quale vero e proprio organo della pubblica amministrazione (un organo-algoritmo).
Si tratta di un tema delicato[38], che si collega a quello della responsabilità dell’agente artificiale[39].
L’organizzazione amministrativa si fonda sulla teoria organica, secondo la quale gli atti giuridici compiuti dall’organo sono imputati alla persona giuridica come se fossero posti in essere da essa stessa. Nell’impostazione tradizionale, l’organo è un “agente amministrativo”, ovvero la persona fisica o l’insieme delle persone fisiche che prestano la loro attività a favore delle amministrazioni pubbliche in quanto assegnate ai relativi uffici[40].
Siccome il programma di IA decide in autonomia (finanche contenendo pregiudizi cognitivi e discriminazioni che dipendono non solo dalla programmazione, ma anche dalla sua stessa struttura), la macchina non può costituire un mero strumento di ausilio dell’amministrazione[41]. Si dovrebbe, piuttosto, ampliare l’imputazione organica, estendendola all’agente artificiale e riconoscendogli una qualche forma di personalità, anche parziale[42].
Diverrebbero, tra l’altro, del tutto irrilevanti gli stati mentali ed intenzionali o la rappresentazione personale dei fini o gli stati di coscienza del titolare dell’organo, nel senso che l’imputazione giuridica riguarderebbe anche tali stati, «trattandosi di fatti umani che si collocano nella fase di costruzione dell’atto algoritmico, successivamente trasfuso nell’organizzazione amministrativa e nel procedimento»[43].
Questa, però, sarebbe una fictio debole e particolarmente pericolosa per almeno due ragioni:
- chi programma l’algoritmo potrebbe introdurvi un pregiudizio personale, che a quel punto si rifletterebbe sull’amministrazione incolpevole[44];
- l’IA sarebbe in grado di decidere da sola, prescindendo da qualunque intervento dell’autorità pubblica.
Sembrerebbe, perciò, che molti problemi relativi al software dipendano più dall’attività del programmatore che da quella dell’autorità pubblica.
Alla luce di questo, come si può tutelare l’amministrazione verso il progettista? Una soluzione potrebbe essere quella di rafforzare il concetto di delega algoritmica, l’atto a monte del procedimento in cui matura la decisione amministrativa di affidarsi alla macchina e al suo progettista, e individuare un criterio di imputazione dell’attività automatizzata in capo al soggetto o ai soggetti che l’hanno progettato e costruito. La dottrina ha avanzato in proposito la tesi dell’outsourcing, ovvero dell’esternalizzazione dell’attività amministrativa (che si sostanzierebbe nell’esercizio della stessa da parte di soggetti estranei all’amministrazione)[45]. Sostanzialmente, siccome il soggetto estraneo all’amministrazione realizza un compito proprio di essa, collocandosi nell’iter procedimentale come compartecipe fattivo dell’attività amministrativa, egli sarà, altresì, responsabile dei danni cagionati dall’esecuzione dell’incarico.
La teoria dell’organo-algoritmo si presta, poi, a una serie di critiche. Essa, infatti, sembra richiedere a monte una piena “personificazione” dell’agente artificiale, che rappresenta un serio problema sul versante dei diritti attribuibili alla macchina, meno su quello delle responsabilità. Si può essere, infatti, giuridicamente responsabili anche in assenza di personalità giuridica, ma l’attribuzione di diritti, ad oggi, presuppone un titolare dotato di autocoscienza, di discernimento etico[46]. Le attuali macchine non presentano questi tratti, per cui difficilmente possono essere intese come “persone”.
La domanda che, a questo punto, potrebbe porsi è se tale concezione antropomorfa dell’autocoscienza sia l’unica possibile per il riconoscimento della personalità[47]. Quest’aspetto, però, richiederebbe una ben più ampia riflessione, che non può essere svolta in questa sede.
Piuttosto, considerate le difficoltà che sorgono rispetto all’introduzione di un nuovo organo amministrativo, pare opportuno esaminare brevemente il problema della compatibilità dell’attuale teoria organica con gli algoritmi di machine-learning: l’assenza dell’intervento di una persona fisica nell’elaborazione della decisione potrebbe, infatti, riverberarsi in una riconfigurazione dell’organo amministrativo[48].
Come si è detto, con l’imputazione organica non si fa altro che riferire una o più funzioni a un certo titolare; nel caso di specie, però, la funzione viene esercitata da una macchina. È proprio questa la principale considerazione verso l’avvento di una nuova figura di macchina-organo.
Penetrando nel cuore della teoria organica, tuttavia, si può facilmente riconoscere nell’organo un artificio tecnico inteso solo a spiegare giuridicamente la traslazione degli atti (con relativi effetti) eseguiti da funzionari e impiegati dell’amministrazione direttamente all’organizzazione nel suo insieme[49]. Perciò, anche se la decisione viene adottata senza l’intervento di una persona fisica, l’attività non è imputata alla macchina. La potestà, infatti, è sempre esercitata dal titolare dell’organo mediante il programma informatico[50]; attraverso la fictio dell’imputazione, poi, la paternità dell’attività è attribuita immediatamente e direttamente alla pubblica amministrazione.
Ad essere automatizzato è, dunque, il processo decisionale, l’esercizio delle funzioni assegnate all’organo, non l’organo in sé, il che significa che sarà sempre una persona responsabile del funzionamento del sistema algoritmico a reggere le sorti del procedimento. Si può dire che «l’attività automatizzata, pur essendo autonoma, non è altro che una forma di adozione di provvedimenti amministrativi che non altera la competenza né ha conseguenze per la configurazione dell’organo, il quale continua ad essere integrato da persone fisiche aiutate da mezzi materiali e retto dal suo titolare»[51].
Come si può, allora, qualificare giuridicamente l’algoritmo di machine-learning? È evidente che ci si trova davanti a un fenomeno del tutto nuovo, che il diritto non ha mai contemplato e per il quale, forse, esso non può fornire le risposte che gli studiosi auspicano per la risoluzione degli spinosi problemi in ordine alla sua applicazione. Ciononostante, guardando indietro nel tempo, alle radici stesse del nostro diritto, la memoria potrà assistere i più nel ricordo di una categoria di soggetti-cose, la quale, con un qualche sforzo immaginifico (non più grande di quello che vede nell’algoritmo di IA una riproduzione del cervello umano), può avere una sua utilità ai nostri fini.
Stiamo parlando degli schiavi a Roma.
“Cosa” erano gli schiavi secondo il diritto romano? Sappiamo che il giureconsulto Gaio distingueva il jus a seconda che riguardasse personae, res o actiones: orbene, lo schiavo, in quanto essere umano, veniva fatto rientrare tra le personae e tuttavia era, allo stesso tempo, una res, oggetto di proprietà e altri diritti soggettivi; più nel dettaglio, era una res mancipi[52].
Ciò che, però, qui interessa notare è che il diritto romano, con riferimento ai delicta commessi dallo schiavo, imputava una responsabilità oggettiva in capo al dominus che ne avesse attuale potestas[53]. Torna, qui, il tema della responsabilità e di come essa possa tranquillamente prescindere dall’attribuzione della personalità. Sul punto, non si pongono particolari differenze tra l’agente artificiale e lo schiavo: in entrambi i casi, infatti, la tutela di coloro che abbiano ricevuto un danno dall’attività dell’uno o dell’altro sarebbe meglio assicurata «dalle forme di responsabilità lato sensuvicaria… che non attribuendo diretta personalità e patrimonio all’agente artificiale autore del danno (e limitando in capo ad esso la responsabilità)»[54]. Questo perché, secondo l’orientamento oggi preferibile, i soggetti lesi dall’attività dell’agente artificiale godono delle illimitate, finanche cumulative, responsabilità patrimoniali del fabbricante, o “addestratore”, o “custode”, o utilizzatore della res intelligente; mentre la mera responsabilità diretta di quest’ultima, collegata alla “persona”, «circoscriverebbe la responsabilità patrimoniale all’ammontare del patrimonio dell’ente robotico, così assurto a limitato capitale di rischio»[55].
Con riferimento al software “intelligente”, si potrebbe, allora, immaginare una qualificazione giuridica analoga a quello di uno schiavo romano, cioè di aver a che fare con una res, che però è più di una res, ma meno di una persona (per ora non sembra il caso di spingersi oltre)? Se si rispondesse positivamente, parlare di organo amministrativo non sarebbe più appropriato: non si avrebbe più a che fare con un algoritmo-funzionario, ma con un oggetto servente al funzionario-persona fisica, pronto a rispondere delle decisioni assunte in autonomia dalla macchina.
La principale critica a questa tesi concerne l’esistenza o meno di una coscienza artificiale: lo schiavo rimane, infatti, una persona dotata di coscienza.
Spesso e volentieri si sente dire che l’intelligenza artificiale è “senza coscienza”. Ma cos’è la coscienza? È possibile produrne una artificialmente? Si tratta di domande ancora senza risposta, anche se oggi è indubbio che l’agente artificiale non sia un essere senziente, cioè capace di sensazioni, di sentire piacere e dolore. È per questa ragione che l’IA non può neanche essere paragonata all’intelligenza di un animale[56]. Tutt’al più, potrebbe tracciarsi un parallelo con la pianta, in quanto “sensoriata”, ovvero dotata di sensori che le consentono di reagire all’ambiente esterno (proprio come la macchina), ma non cosciente[57].
In realtà, però, il fatto che l’intelligenza artificiale è “senza coscienza” non si pone in contrasto con il parallelismo tra programma informatico e schiavo romano[58], perché, nella concezione romana più antica del servus, la sua coscienza non rilevava ad alcun fine: egli era un “utensile che si muoveva e parlava”[59]. Ebbene, se, ad oggi, immaginarsi un robotche provi sentimenti appare fantascienza, robots che si muovono e parlano non lo sono di certo.
Potrebbe, invece, avere una sua utilità evidenziare come i giureconsulti romani, nell’individuazione della responsabilità ex lege Aquilia de damno in capo a chi avesse cagionato un danno non immediatamente e direttamente, bensì mediante uno strumento, anche “animato”, come un animale o un servo, dessero più importanza al grado di autonomia dello strumento rispetto all’azione od omissione originaria del proprietario dello stesso che al fatto che si trattasse di esseri senzienti[60]: una constatazione che rafforzerebbe ancor di più l’ipotesi della possibile correlazione tra gli strumenti di IA e una res animata, quale lo schiavo (in particolare, ai fini della determinazione della responsabilità in capo all’amministrazione intesa come insieme di persone fisiche per i danni cagionati dall’agente artificiale).
Si tratta di un tema estremamente complesso e che lascia aperte molte domande, alle quali, però, sarebbe opportuno rispondere in considerazione della grande rilevanza della questione sulle garanzie procedimentali annesse all’emanazione della decisione amministrativa automatizzata.
6. La soluzione del T.A.R. Lazio: conclusioni e prospettive
Ritornando alla sentenza in commento, il T.A.R. Lazio ha dichiarato il difetto di giurisdizione in ordine alle contestazioni sul non corretto funzionamento del programma informatico, in quanto orientate – come già detto – a demolire un segmento dell’azione amministrativa privo di rilievo pubblicistico; ciò sull’assunto che «l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico”».
Il T.A.R., infatti, ha chiarito che una simile affermazione risulta condivisibile allorquando «l’utilizzo del mezzo informatico sia strumentale all’esercizio di un potere autoritativo di stampo pubblicistico», precisando successivamente che «solo laddove il programma informatico sia asservito a un procedimento amministrativo in senso stretto può essere affermato che la bontà della regola informatica che lo regola debba sempre essere conosciuta dal giudice amministrativo» (corsivo aggiunto).
Certamente, l’algoritmo (non il programma) costituisce una regola, una precisa modalità di esercizio del potere attribuito dalle disposizioni normative e, pertanto, frutto di un’interpretazione delle stesse.
Con riguardo al software, invece, l’affermazione del T.A.R. offre un ulteriore punto a favore della tesi sopra esposta. Se, infatti, esso acquisisse la qualifica di atto amministrativo informatico, dovrebbe assumersi sempre e comunque la giurisdizione del giudice amministrativo, come sostenuto dai ricorrenti. Diversamente, individuando la natura del software in un modulo operativo, un mero strumento, si comprende agevolmente come la regola algoritmica, espressa in linguaggio naturale nel pre-software, rifletta i poteri datoriali dell’amministrazione, i quali vengono poi incanalati nel circuito informatico mediante l’applicazione di un software, con correlate traduzione e codificazione delle singole operazioni nel linguaggio della macchina.
La giurisdizione poggia ovviamente, come ribadito dal T.A.R. Lazio, sulla natura delle situazioni giuridiche coinvolte nel contenzioso e non sulla tipologia di strumento, analogico o digitale, adoperato dall’amministrazione, per cui correttamente lo stesso T.A.R. ha ritenuto carente la propria giurisdizione nella fattispecie in esame.
Pur tuttavia, si registra un orientamento diverso da parte del Consiglio di Stato[61], chiamato a pronunciarsi su una procedura di mobilità di docenti, fattispecie che di per sé non si distanzia dalla sentenza in esame, avendo riguardo pur sempre a un segmento dell’attività della pubblica amministrazione rientrante nella più ampia gestione del rapporto di lavoro.
La diversa soluzione di Palazzo Spada parte da una considerazione preliminare: l’algoritmo, nella sua dimensione statica, costituisce «l’oggetto della volizione amministrativa preliminare con cui si opta per l’automazione»[62]. Una volta scelto, mediante quella che supra è stata definita la “delega algoritmica”, la sequenza diviene il contenuto di un atto amministrativo, il pre-software.
Entrambi gli atti presentano una connotazione anche sul piano organizzativo. Se è vero, infatti, che l’algoritmo, in quanto sequenza di operazioni, incide sull’attività, in questo caso dell’amministrazione-datrice di lavoro, è altrettanto vero che la scelta di avvalersi di software e le istruzioni impartite dal funzionario incidono sulla stessa organizzazione amministrativa, tanto che la gran parte della dottrina riconduce questi atti al potere di autorganizzazione della pubblica amministrazione[63].
Orbene, è nota la distinzione, nel pubblico impiego, tra atti di macro-organizzazione e atti di micro-organizzazione[64]: i primi concernono, in particolare, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici[65], i secondi la gestione del rapporto di lavoro[66].
Non vi è dubbio che la determinazione delle sedi di supplenza rientri nella gestione del rapporto di lavoro, sicché, avendo il software mera natura strumentale, dovrebbe ritenersi che anche l’atto preliminare, il pre-software, costituisca, al più, un atto di micro-organizzazione, come tale soggetto alla giurisdizione del giudice ordinario.
La domanda che ci si pone è se la volizione a monte di usufruire di simili strumenti, indipendentemente dalle singole determinazioni nelle diverse e puntuali attività (la c.d. delega algoritmica), possa essere qualificata come atto di macro-organizzazione, sì da poter essere impugnata innanzi al giudice amministrativo.
La risposta è certamente affermativa, giacché, nel caso di specie, le doglianze sollevate dai ricorrenti non sono incentrate su atti di mera gestione del rapporto di lavoro, ma sulla scelta organizzativa a monte relativa allo svolgimento della procedura in forma telematica.
In linea di massima, la decisione dell’amministrazione di avvalersi di software (e di algoritmi), genericamente intesi, è precipua rispetto a qualunque volizione inerente al concreto esercizio delle proprie funzioni – dunque, anche alla gestione del rapporto di lavoro – ed è contenuta in un atto amministrativo o regolamentare[67]. È su quest’ultimo che dovrebbe incentrarsi l’impugnazione davanti al giudice amministrativo, stante il profilo macro-organizzativo dello stesso cui prima si è fatto riferimento.
Una simile soluzione si rivela finanche l’unica ammissibile «a garanzia della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, atteso che i ricorrenti rimarrebbero diversamente privati del rimedio dell’annullamento dell’atto generale o normativo che ritengono viziato e che determina l’effetto del successivo atto meramente attuativo»[68].
Si tenga presente, inoltre, che il pre-software, pur essendo nel caso di specie un atto di micro-organizzazione, difficilmente potrebbe essere comunque oggetto di impugnativa autonoma, rappresentando solo una volontà in divenire, che trova compiuta attuazione con l’effettivo e successivo atto, adottato dall’amministrazione umana, che attesta la correttezza di quanto svolto dalla controparte digitale[69].
Problemi decisamente più seri emergono probabilmente con riferimento alle forme di automazione avanzata o “intelligente”. Una possibile configurazione organica dell’agente artificiale inciderebbe in maniera veramente rivoluzionaria lungo tutto il profilo organizzativo dell’amministrazione, prospettando degli scenari inediti: l’amministrazione-datrice di lavoro sarebbe, in quel caso, totalmente rappresentato da un organo di IA, il che attiene a profili di natura eminentemente amministrativa che prescindono dalla semplice gestione del rapporto di lavoro.
Nell’attesa, sempre più breve, di una piena implementazione della tecnologia “intelligente” nell’apparato amministrativo, le questioni giuridiche sul banco continuano a rimanere molteplici e di non immediata soluzione. Presumibilmente, ancora per molto, sarà la giurisprudenza a fornire le opportune chiavi di lettura nella configurazione di un nuovo e diverso modo di amministrare. Non si dimentichi che, finora, è stata quest’ultima a elaborare i principi-chiave per l’esercizio delle funzioni pubbliche mediante algoritmi e a delineare l’ambito applicativo. Sarà, dunque, verosimilmente compito dei giudici “modernizzare” l’attuale apparato amministrativo tanto sul piano organizzativo quanto su quello dell’attività, in quanto la materia è ancora in costante evoluzione e la legislazione non riesce ancora a cristallizzare orientamenti consolidati[70].
Pur tuttavia, appare evidente che la parola ‘fine’ potrà essere messa solo allorquando si chiarirà una volta per tutte cosa sia l’IA e, più in generale, come possano operare i software di automazione nell’esercizio dell’attività amministrativa genericamente intesa; il che postula una necessaria cooperazione dei tecnici e dei giuristi per l’elaborazione di una soluzione unitaria a livello normativo[71].
[1] In particolare:
- del decreto dirigenziale recante gli esiti della procedura di assegnazione delle sedi scolastiche;
- dell’ordinanza n. 112/2022, con cui il Ministero dell’Istruzione ha indetto la procedura di assegnazione delle sedi scolastiche ai fini dell’aggiornamento delle graduatorie provinciali per le supplenze (GPS) e delle graduatorie di istituto per il biennio relativo agli anni scolastici 2022-23 e 2023-24;
- della nota ministeriale n. 28597 del 29 luglio 2022, specificamente nella parte in cui prescrive che «[l]’assegnazione di una delle sedi indicate nella domanda comporta l’accettazione della stessa. L’assegnazione dell’incarico preclude il conferimento delle supplenze di cui all’articolo 2, comma 4, lettere 3) e b) dell’Ordinanza ministeriale n. 112 del 6 maggio 2022, per qualsiasi classe di concorso o tipologia di posto»;
- del bollettino recante il “risultato nomine” pubblicato da ATP Roma Istruzione il 5 ottobre 2022;
- di ogni altro atto e/o provvedimento connesso o consequenziale che sia lesivo degli interessi della ricorrente.
[2] Ex multis, G. AVANZINI, Decisioni amministrative e algoritmi informatici, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019.
[3] M. DURANTE, Potere computazionale. L’impatto delle ICT su diritto, società, sapere, Meltemi, Milano, 2019, p. 237: gli algoritmi sono «procedure codificate per trasformare i dati di ‘input’ in un ‘output’ desiderato, in base a calcoli specifici»; in termini, T. GILLESPIE, The relevance of algorithms, in T. GILLESPIE, P.J. BOCZKOWSKI, K.A. FOOT (a cura di), Media Technologies: Essays on Communication, Materiality and Society, MIT Press, Cambridge, 2014, p. 167. Un’interessante lettura sul tema è quella di D. CARDON, Che cosa sognano gli algoritmi, trad. it. di C. De Carolis, Mondadori, Milano, 2018: «[t]ale e quale a una ricetta di cucina, un algoritmo è una serie d’istruzioni che permettono di ottenere un risultato. In modo ultrarapido, l’algoritmo opera un insieme di calcoli a partire da gigantesche masse di dati (i big data). Organizza gerarchicamente l’informazione, indovina ciò che ci interessa, seleziona i beni che preferiamo e si sforza di sostituirci in numerosi compiti. Siamo noi a fabbricare questi calcolatori, ma in cambio loro ci costruiscono» (p. 3). Cfr., altresì, P. FERRAGINA, F. LUCCIO, Il pensiero computazionale. Dagli algoritmi al coding, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 10, secondo cui «un Algoritmo soddisfa le seguenti proprietà: (1) è utilizzabile su diversi input generando i corrispondenti output; (2) ogni passo ammette un’interpretazione univoca ed è eseguibile in un tempo finito; (3) la sua esecuzione si ferma qualunque sia l’input».
[4] Vi è chi non pone tale distinzione, riscontrando semmai una nozione pre-tecnologica e una nozione tecnologica di algoritmi: così V. DARDANO, I limiti nell’utilizzo delle decisioni automatizzate e la legalità algoritmica, in www.amministrativamente.com, n. 2/2023, pp. 1214-1215, secondo cui, «[n]ella sua connotazione pre-tecnologica, [l’algoritmo] è identificato in una procedura che conduce alla soluzione di un problema attraverso un percorso formalizzato che si risolve in una sequenza di passaggi precostituiti, ordinati ed univoci, tali da poter essere eseguiti e ripetuti senza margini di scelta arbitraria», mentre, «con la nascita e lo sviluppo della computer science, la nozione… ha subito una parziale traslazione di significato, per cui oggi è divenuto sinonimo di “programma informatico” capace di svolgere solo funzioni precise, sequenziali e univoche».
[5] S. CRAFA, Dalle competenze alla consapevolezza digitale: capire la complessità e la non neutralità del software, in P. MORO (a cura di), Etica, Diritto e Tecnologia, Franco Angeli, Milano, 2021, p. 6: «[u]n algoritmo rappresenta la logica di funzionamento di un programma, mentre il software è il codice di un programma scritto in un preciso linguaggio di programmazione ed eseguibile da un computer».
[6] S. CRAFA, op. cit., p. 6, che pone l’esempio dell’algoritmo di Euclide: «[s]e ad uno studente basta leggere la descrizione di questa procedura per saper calcolare il massimo comune divisore, per un computer servono delle istruzioni più specifiche. L’algoritmo va cioè implementato, tradotto in un software scritto in un linguaggio di programmazione sintatticamente preciso: solo questa traduzione è pienamente non ambigua ed effettivamente eseguibile».
[7] Cons. St., Sez. III, 25 novembre 2021, n. 7891.
[8] In termini, U. FANTIGROSSI, Automazione e pubblica amministrazione. Profili giuridici, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 51; A. MASUCCI, L’atto amministrativo informatico. Primi lineamenti di una ricostruzione, Jovene, Napoli, 1993, p. 56; A. USAI, Le prospettive di automazione delle decisioni amministrative in un sistema di teleamministrazione, in Dir. inf., 1993, pp. 163 ss., spec. p. 174; M. MANCARELLA, Algoritmo e atto amministrativo informatico: le basi nel Cad, in Dir. internet, 2019, p. 467; I.A. NICOTRA, V. VARONE, L’algoritmo, intelligente ma non troppo, in Riv. AIC, n. 4/2019, p. 86. Secondo G. GALLONE, Riserva di umanità e funzioni amministrative, Wolters Kluwer-CEDAM, Milano, 2023, p. 91, da un punto di vista dogmatico, queste tesi muovono «da una impostazione ancora eminentemente attizia che tende a dequotare la componente materiale ed operativa dell’attività amministrativa». Un simile approccio, tra l’altro, sarebbe, secondo l’A., il frutto dell’esigenza di «risolvere il problema della compatibilità tra automazione provvedimentale e discrezionalità amministrativa»: «il riconoscimento all’algoritmo (ed al software) della natura di atto amministrativo era in tali studi, per lo più, funzionale ad affermare che con la formazione dell’algoritmo si realizza già una prima parziale spendita di potere amministrativo che determina l’insorgenza di un autovincolo, in grado di influenzare il successivo esercizio della potestà e consumando i profili originali di apprezzamento riconosciuti all’Amministrazione».
[9] Con riguardo alla natura regolamentare dell’atto-programma, v. A. BOIX PALOP, Los algoritmos son reglamentos: la necesidad de extender las garantias propias de las normas reglamentarias a los programas empleados por la administraciòn para la adopciòn de decisiones, in Revista de Derecho Pùblico: Teorìa y Metodo, n. 1/2020, p. 223; ID., Algorithms as Regulations: Considering Algorithms, when Used by the Public Administration for Decision-making, as Legal Norms in order to Guarantee the proper adoption of Administrative Decisions, in European Review of Digital Administration & Law, n. 1-2/2020, pp. 75 ss.
[10] Per tutti, G. DELLA CANANEA, Gli atti amministrativi generali, CEDAM, Padova, 2000.
[11] Automazione e pubblica amministrazione, cit., pp. 51 ss.
[12] In questi termini, A.G. OROFINO, La patologia dell’atto amministrativo elettronico. Sindacato giurisdizionale e strumenti di tutela, in Foro amm. CDS, 2002, pp. 2256 ss. La giurisprudenza, tuttavia, è chiara nel ritenere del tutto irrilevante tale profilo: cfr. T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, 22 marzo 2017, n. 3769, che confuta partitamente le tesi contrarie alla configurazione attizia del software; Cons. St., Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270, secondo cui «la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva».
[13] A. USAI, op. cit., p. 164; contra, A. MASUCCI, op. cit., p. 59, secondo cui ha «rilevanza esterna quell’atto che (anche se di per sé non produce effetti giuridici verso l’esterno) trova, pur se attraverso un altro atto, concretizzazione in un rapporto esterno».
[14] Si tratterebbe di una nuova categoria, un atto generale a contenuto non normativo «che pone delle prescrizioni generali ed astratte con le quali l’autorità amministrativa “indirizza” il proprio agire amministrativo, predeterminandone modalità e contenuti»: A. MASUCCI, op. cit., pp. 57 e 103.
[15] Sez. III-bis, n. 3769/2017, cit.
[16] G. BRUNO, E.M. FALESE, Focus sentenze G.A. su decisioni algoritmiche – Decisioni algoritmiche: il codice sorgente è un atto amministrativo informatico accessibile ai sensi della l. n. 241/1990, in www.irpa.eu, 14 giugno 2022.
[17] Sez. VI, n. 2270/2019, cit.
[18] F. SAITTA, Le patologie dell’atto amministrativo elettronico e il sindacato del giudice amministrativo, in Dir. econ., n. 4/2003, p. 615.
[19] G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, 8ª ed., Giuffrè, Milano, 1958, I, p. 245. Viene mantenuta la dizione “atto amministrativo” proprio in avvicinamento alle categorie del diritto privato. Non a caso si soleva parlare anche di “atto amministrativo negoziale”. La connotazione provvedimentale è, invece, il frutto della progressiva pubblicizzazione della categoria.
[20] Per un approfondimento, si veda F.G. SCOCA, Atto e provvedimento: elementi essenziali e situazioni giuridiche (Relazione alle Giornate Italo-Argentine di Diritto amministrativo, 8ª ed.), in www.aiapda.org, 4 maggio 2019.
[21] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 1988, II, p. 672.
[22] Così G. GALLONE, op. cit., p. 112, il quale specifica che l’algoritmo non «si propone di dichiarare o conservare ovvero innovare la realtà del diritto perché, semplicemente, non si pone un orizzonte giuridico»; in questi termini, D. SIMEOLI, L’automazione dell’azione amministrativa nel sistema delle tutele di diritto pubblico, in A. PAJNO, F. DONATI, A. PERRUCCI (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto: una rivoluzione?, Il Mulino, Bologna, 2022, II, p. 640.
[23] A.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1940; ID., Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1984, p. 622. L’A. definisce il procedimento amministrativo come «una serie di atti (istanze, accertamenti, pareri, proposte, designazioni, deliberazioni preliminari, etc.) e di operazioni (comunicazioni, notificazioni, pubblicazioni, etc.), posti in essere da un unico o da diversi agenti, solitamente culminanti in un provvedimento e strutturalmente e funzionalmente collegati dall’obiettivo avuto di mira».
[24] V.R. PERRINO, L’atto amministrativo informatico e le cause della sua invalidità, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2005.
[25] Nel senso che gli algoritmi non sono altro che la traduzione in termini informatici dei criteri di valutazione che l’amministrazione utilizza nel suo giudizio, T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, 10 luglio 2017, n. 8160.
[26] In questi termini, M. TIMO, Algoritmo e potere amministrativo, in Dir. econ., n. 1/2020, p. 775.
[27] R. VILLATA RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Giappichelli, Torino, 2006, p. 230.
[28] A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza nello svolgimento dell’amministrazione elettronica, in www.judicium.it, 2020. Per l’A., tra l’altro, «[u]n diverso convincimento non terrebbe conto anche delle difficoltà connesse al firmare i programmi informatici, visto che la sottoscrizione elettronica di un software non è sempre possibile»; così già ID., La patologia dell’atto amministrativo elettronico, cit., p. 2276. Vi sarebbero, poi, ulteriori ragioni a favore della piena comprensibilità – mediante, cioè, l’uso della lingua italiana – degli atti amministrativi: ciò risulterebbe confermato dal principio di diritto comune di cui all’art. 122, co. 1, c.p.c. (cfr. T.A.R. Lazio-Roma, Sez. II, 13 marzo 2001, n. 1853) e da tutte quelle «disposizioni che impongono il bilinguismo, ovvero da quelle che prevedono la traduzione, in lingua comprensibile al destinatario, quando i provvedimenti siano adottati nei confronti di uno straniero».
[29] Così A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit., secondo cui, tra l’altro, quanto statuito da T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, n. 3769/2017, cit., ossia che «il privato destinatario dell’atto […] può, comunque, legittimamente avvalersi dell’attività professionale di un informatico competente in materia», non è convincente «anche per gli oneri evidenti che verrebbero posti in capo alle parti processuali ed allo stesso giudice, chiamati a ricorrere ad un tecnico informatico per comprendere il senso delle istruzioni impartite all’elaboratore: si ritiene davvero eccessivamente gravoso immaginare che la possibilità di interpretare gli atti oggetto di sindacato giurisdizionale sia esercitata attraverso la mediazione di tecnici informatici». L’A. richiama, in argomento, M. MARTINI, Algorithmen als Herausforderung für die Rechtsordnung, in Juristen Zeitung, n. 21/2017, p. 1017, il quale osserva: «[e]ine intransparente und dadurch für Betroffene nicht nachvollziehbare Entscheidungsfindung birgt Gefahren für gesellschaftliche Grundwerte» (un processo decisionale non trasparente e non comprensibile per le persone interessate mette a rischio i valori sociali fondamentali: trad. pers.).
[30] Così V.R. PERRINO, op. cit., con riferimento al programma informatico, che, però, definisce come «l’insieme di istruzioni individuate in un elaboratore e che sono strumentali ad un dato risultato», dimostrando, così, di adottare una prospettiva – del tutto scorretta, a parere di chi scrive – di eguaglianza tra i termini algoritmo e programma.
[31] Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8472.
[32] Così A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit.; ID., La patologia dell’atto amministrativo elettronico, cit., pp. 2256 ss.; F. SAITTA, op. cit., pp. 615 ss.; S. PUDDU, Contributo ad uno studio sull’anormalità dell’atto amministrativo informatico, Napoli, 2006, pp. 179 ss.; I. MARTÍN DELGADO, Naturaleza, concepto y régimen jurídico de la actuación administrativa automatizada, in Revista de Administración Pública, n. 180/2009, pp. 353 ss., spec. p. 361.
[33] Per i programmi che operano mediante gli algoritmi tradizionali potrebbe bastare una motivazione numerica, mentre per i programmi che utilizzano algoritmi di apprendimento la motivazione dovrà contenere tutto l’iter logico-giuridico seguito dalla macchina: cfr. L. VIOLA, L’intelligenza artificiale nel procedimento e nel processo amministrativo: lo stato dell’arte, in Federalismi.it, n. 21/2018, p. 16; D. MARONGIU, L’attività amministrativa automatizzata. Profili giuridici, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2005, pp. 125 ss. Si vedano, anche, D.U. GALETTA, J.G. CORVALAN, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, in Federalismi.it, n. 3/2019, p. 16, i quali ribadiscono la necessità di fornire un’adeguata spiegazione delle decisioni amministrative adottate tramite algoritmi di machine-learning, per quanto riguarda non solo il contenuto dell’atto finale, ma anche il procedimento che ha condotto alla sua adozione; A. SIMONCINI, Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 4/2019, pp. 1183 ss., il quale sottolinea che, per poter ottenere la motivazione di un atto amministrativo automatizzato, è necessario che l’algoritmo che ne è alla base sia “esplicabile”, ossia descrivibile nella sua strutturazione causale, sebbene questa qualità non sia oggi comune a tutti i sistemi di decisione automatizzata.
[34] A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit., che, al riguardo, richiama, in un’ottica comparatistica, «la disciplina recata in Francia dall’art. L. 300-2 del Code des relations entre le public et l’administration che, all’esito della modifica apportata dall’art. 2 della Loi pour une République numérique del 7 ottobre 2016, espressamente annovera tra i documenti amministrativi accessibili anche i listati dei programmi usati dalle amministrazioni».
[35] Cfr. G. AVANZINI, op. cit., p. 145.
[36] Interessanti spunti di riflessione al riguardo in L. VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, a.d.r., giustizia predittiva, StreetLib, Milano, 2017, I.
[37] Cfr. A.G. OROFINO, L’attuazione del principio di trasparenza, cit., secondo cui, «[s]e si accedesse alla tesi che qualifica come atto amministrativo il programma, anche quando si faccia ricorso a macchine equipaggiate con reti neurali, dovrebbe dedursene che tale programma sia un atto “incompiuto” o “in divenire”, cioè con un contenuto non completo, ma che si arricchirà nel tempo, all’esito dei vari processi di autoapprendimento posti in essere dal software».
[38] Per approfondire il quale cfr. G. PESCE, Funzione amministrativa, intelligenza artificiale e blockchain, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, pp. 65 ss.
[39] Difficile non scorgere un punto di partenza per un ampliamento dell’imputazione organica agli agenti artificiali nella tesi funzionalistica di G. TEUBNER, Digital Personhood? The Status of Autonomous Software Agents in Private Law, in Ancilla Iuris, n. 106/2018, pp. 107 ss.: v. G. PESCE, op. cit., pp. 70 ss.
[40] G. PESCE, op. cit., p. 166; già prima G. SCIULLO, L’organizzazione amministrativa, Giappichelli, Torino, 2013, p. 78.
[41] G. PESCE, op. cit., p. 170; già prima M.S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 50.
[42] G. TEUBNER, op. cit., pp. 106-149.
[43] G. PESCE, op. cit., p. 179.
[44] Cfr. A. MASCOLO, Gli algoritmi amministrativi: la sfida della comprensibilità, in Giorn. dir. amm., n. 3/2020, p. 370.
[45] G. PESCE, op. cit., p. 180 ss.
[46] U. RUFFOLO, Artificial Intelligence e responsabilità. “Persona elettronica” e teoria dell’illecito, in A. PAJNO, F. DONATO, A. PERRUCCI (a cura di), op. cit., II, p. 266.
[47] Secondo L.B. SOLUM, Legal Personhood for artificial intelligences, in North Carolina Law Review, n. 4/1992, p. 1259, il concetto di persona è intrinsecamente legato alla nostra esperienza della vita umana.
[48] La migliore dottrina riconosce, infatti, due elementi fondamentali nella nozione di organo: quello oggettivo, determinato dall’ufficio o dalla sfera di competenza, e quello soggettivo, rappresentato dalla persona fisica titolare dell’organo: M.S. GIANNINI, Organi (teoria generale), in Enc. dir., XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 37 ss; G. MARONGIU, Organo e ufficio, in Enc. giur., XII, Roma, 1990. Si veda, tuttavia, C. ESPOSITO, Organo, ufficio, soggettività dell’ufficio, in Annali dell’Università di Camerino (sez. giur.), CEDAM, Padova, 1932, VI, p. 251, che assume una posizione parzialmente diversa e non identifica l’organo con la persona fisica.
[49] Così I.M. DELGADO, Automazione, intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: vecchie categorie concettuali per nuovi problemi?, in Ist. fed., n. 3/2019, p. 652. Sulla primaria importanza dell’elemento personalistico, nella chiave di una rivisitazione della tradizionale fictiodell’immedesimazione organica, v. I. MONTEDURO, Il funzionario persona e l’organo: nodi di un problema, in Pers. e Amm., n. 1/2021, p. 78: se è vero, infatti, che «l’agente umano incardinato nell’organizzazione amministrativa subisce […] un’eclissi che artificialmente lo transustanzia, lo trasfigura, lo assorbe, riportandolo per una via o per l’altra, attraverso una sorta di gelida ἔκστασις giuridicamente coatta, all’uno-tutto della persona giuridica», è altrettanto vero che «il funzionario amministrativo è […] persona che assume su di sé come lavoro-dovere l’esercizio di una funzione amministrativa».
[50] Sull’imprescindibilità della persona nella configurazione dell’organo amministrativo v. A. FALZEA, Responsabilità penale delle persone giuridiche, in La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario. Atti del Convegno di Messina, 30 aprile - 5 maggio 1979, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 149 ss., ora in ID., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 2010, III, pp. 67 ss., spec. pp. 88-89; S. ROMANO, Organo, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano, 1947, p. 154, secondo cui, «[s]e organo è un elemento dell’ente che ha la funzione di far volere e agire l’ente stesso, ne consegue che esso è un individuo che da solo o col concorso di altri individui ha siffatto compito, il quale non può essere assolto se non da persone fisiche».
[51] I.M. DELGADO, op. cit., p. 654.
[52] Per un approfondimento sulle res mancipi, v. A. CORBINO, Diritto privato romano. Contesti, fondamenti, discipline, CEDAM, Padova, 2014, pp. 552 ss.
[53] A. CORBINO, op. cit., pp. 729-730.
[54] U. RUFFOLO, op. cit., p. 265.
[55] U. RUFFOLO, ibidem.
[56] Art. 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE): «l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti».
[57] In questi termini, L. LOMBARDI VALLAURI, Algoretica e Informatica giuridica, in i-lex, n. 1/2022, p. 34.
[58] La pensa diversamente G. PESCE, op. cit., p. 64.
[59] GAIO, Institutionum Commentarii Quattuor, II, 17: «[v]i sono tre tipi di utensili: quelli che non si muovono e non parlano, quelli che si muovono e non parlano e quelli che si muovono e parlano». I primi, come notato da G. PESCE, op. cit., p. 64, sono le cose inanimate, i secondi gli animali e i terzi gli schiavi.
[60] Ex multis, D. 9.2.11.5 (Ulpianus 18 ad ed.): «Item cu meo, qui canem irritaverat ed effecerat, ut aliquem morderet, quamvis eum non tenuit, Proculus respondit Aquiliae actionem esse: sed Iulianus eum demum Aquilia teneri ait, qui tenuit et effecit ut aliquem morderet: ceterum si non tenuit, in factum agendum» (Ugualmente Proculo rispose esservi l’azione aquiliana nei confronti di colui che abbia aizzato un cane e fatto sì che mordesse qualcuno, anche se non tenne il cane al guinzaglio: ma Giuliano afferma che è tenuto in base alla legge Aquilia solo colui che lo teneva al guinzaglio e fatto sì che mordesse qualcuno: se invece non lo tenne al guinzaglio, si può agire con l’actio in factum: trad. pers.). Preliminarmente, si deve notare che la lesione qui viene arrecata corpore corpori. Per Proculo, però, l’animale viene considerato al pari di un qualunque strumento d’offesa inanimato, non rilevando a nulla il suo personale arbitrio: così S. LOHSSE, Canem vel servum tenuit? D. 9.2.11.5 and the applicability of the ‘actio legis Aquiliae’ in cases involving inanimate objects used for killing, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis, LXX, 2002, p. 271, secondo cui la differente posizione dei due giuristi nel caso in esame in merito alla tipologia d’azione processuale da concedere discende da una diversa interpretazione del comportamento dell’animale («Proculus regarded the dog as a kind of weapon like a sword or a beam. Julian’s opinion then is explained by reference to the own will of the dog. An animal could not be regarded as a simple tool, so that an additional corporeal act by the person to be held liable is necessary»). Giuliano, più cautamente, riconosceva, invece, l’azione aquiliana diretta solo laddove l’animale fosse tenuto al guinzaglio, e ciò perché il guinzaglio in qualche modo determina un pieno controllo del dominus sull’animale, tale da azzerare l’arbitrio di quest’ultimo. Ciò si lega perfettamente a un tema molto caro alla giurisprudenza amministrativa in tema di automazione procedimentale, ossia il rispetto del principio di non esclusività, legittimando, così, lo svolgimento di una funzione amministrativa mediante algoritmi, anche nell’alveo di strumenti intelligenti, solo laddove si consenta uno spazio d’intervento all’uomo, diretto eventualmente anche a correggere l’operato della macchina: Cons. St., Sez. VI, n. 8472/2019, cit.; nonché cfr., da ultimo, l’art. 30, co. 3, del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36).
[61] Sez. VI, 9 febbraio 2021, n. 1206, che ha riformato T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III-bis, 24 luglio 2020, n. 8732, la quale aveva dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione.
[62] G. GALLONE, op. cit., p. 93.
[63] Cfr. A. MASUCCI, op. cit., p. 54.
[64] Ex multis, Cons. St., Sez. V, 28 novembre 2013, n. 5684; 16 gennaio 2012, n. 138 e 20 dicembre 2011, n. 6705.
[65] Art. 2, co. 1, del d.lgs. 9 maggio 2001, n. 165: «[l]e amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive […]».
[66] Art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001: «[n]ell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro […]».
[67] G. GALLONE, op. cit., p. 98.
[68] Così Cons. St., Sez. VI, n. 1206/2021, cit., le cui conclusioni si pongono lungo una ben precisa traccia della giurisprudenza amministrativa: decc. 2 ottobre 2017, nn. 4560 e 4567, 21 novembre 2017, n. 5409, 5 dicembre 2017, n. 5733 e 23 gennaio 2018, nn. 447 e 454.
[69] Si tenga presente, altresì, che la volizione espressa nel pre-software è eminentemente potenziale, nel senso che soltanto a valle l’amministrazione fa proprio il prodotto dell’operazione algoritmica, sicché è quest’ultima «la prima e unica forma di manifestazione di volontà in grado di produrre effetti costitutivi all’esterno»: G. GALLONE, op. cit., pp. 98-99, il quale conclude, con riferimento all’esercizio di un procedimento amministrativo mediante algoritmo – fattispecie, dunque, diversa da quella in esame, ove non si riscontra un procedimento amministrativo, ma un segmento inerente alla gestione del rapporto di lavoro –, che l’algoritmo «esprime una “volontà potenziale” e non compiutamente manifestata dell’Amministrazione che per divenire attuale necessita, a valle dell’operazione amministrativa di elaborazione affidata al software come mezzo istruttorio, dell’intervento umano».
[70] Si consideri, però, l’art. 30, co. 3, del d.lgs. n. 36/2023, che ha consacrato una volta per tutte i tre principi di legalità algoritmica, sia pur con riferimento a un segmento preciso dell’attività amministrativa: la valutazione delle offerte all’interno della procedura di selezione del contraente nell’ambito di contratti pubblici.
[71] Ad oggi, il tentativo più concreto a riguardo è COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione, in www.eur-lex.europa.eu, 21 aprile 2021. Per un inquadramento generale, esemplificato ma esaustivo, delle varie parti in cui si scompone la Proposta, si vedano G. CONTISSA, F. GALLI, F. GODANO, F. SARTOR, Il Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale. Analisi informatico-giuridica, in i-lex, n. 2/2021, pp. 5-8; F. DONATI, Diritti fondamentali e algoritmi nella Proposta di Regolamento sull’intelligenza artificiale, in A. PAJNO, F. DONATI, A. PERRUCCI (a cura di), op. cit., I, pp. 111 ss.; A. ADINOLFI, L’Unione europea dinanzi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale: la costruzione di uno schema di regolamentazione europea tra mercato unico digitale e tutela dei diritti fondamentali, in S. DORIGO (a cura di), Il ragionamento giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale, Pacini Giuridica, Pisa, 2020, pp. 13 ss.
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