ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nelle proposte di legge in discussione non viene fatto alcun cenno alla circostanza che il risicato numero di condanne definitive per abuso di ufficio dipende in buona parte dalla brevità del termine di prescrizione di tale reato. Un termine di 7 anni e 6 mesi dalla consumazione del reato è troppo breve, considerando la complessità e quindi la durata delle indagini e del giudizio che si rendono necessari per la prova di una fattispecie così articolata come quella di abuso di ufficio. La maggior parte dei processi si prescrive quindi già in primo grado. In quei pochi casi in cui si riesce ad approdare in Cassazione, sono più le sentenze di conferma di condanna che quelle di conferma di assoluzione.
L’obbligo di iscrizione nel registro degli indagati
Va in primo luogo evidenziato che:
- le iscrizioni per abuso di ufficio da “conflitto di interessi” sono sempre state pochissime: è ben raro che un pubblico ufficiale abbia adottato un atto omettendo di astenersi a fronte di un interesse proprio o di un proprio congiunto;
- le altre iscrizioni per abuso di ufficio, tradizionalmente molto più numerose, hanno subito un drastico calo a seguito della riforma avvenuta nel 2020, che ha limitato il reato ai casi di violazione di legge; molte di queste, inoltre, si rivelano definibili con richiesta di archiviazione già nella fase delle indagini preliminari, talvolta anche senza approfondimenti investigativi, proprio in virtù del maggior grado di tassatività raggiunto con l’ultima formulazione dell’art. 323 c.p.
In definitiva, le indagini per abuso di ufficio effettivamente espletate riguardano solo quei pochi casi in cui l’abuso appaia avvenuto in una situazione di conflitto di interessi o con violazione di una specifica regola di condotta espressamente prevista dalla legge (o da atti equipollenti) e in relazione alla quale non residuino margini di discrezionalità. Il risicato numero di questi casi dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Ad ogni modo, il Pubblico Ministero è obbligato alla iscrizione nel registro degli indagati del soggetto individuato come autore della condotta abusiva, e deve farlo fin dal giorno del pervenimento della notizia di reato.
Paradossalmente, molti Pubblici Ministeri si sono trovati a loro volta indagati per abuso di ufficio o omissione di atti di ufficio per non aver proceduto a tempestiva iscrizione di fatti che non apparivano fin da subito penalmente rilevanti.
Quello di immediata iscrizione è divenuto un obbligo più stringente a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs 150/2022 (cd. riforma Cartabia), che ha addirittura previsto un controllo del giudice sulla tempestività della iscrizione dei reati da parte del PM.
Nel valutare l’operato delle Procure, pertanto, non si può non tenere conto del fatto che proprio il legislatore ha inteso disincentivare quella soluzione che veniva spesso adottata in questa materia, sino ad un recente passato, e che consisteva nell’iscrivere nel registro dei “fatti non costituenti reato” (cd. modelli 45) le notizie che si ponevano al limite tra il malaffare amministrativo ed il penalmente rilevante.
Le indagini per abuso di ufficio
Stante l’attuale e complessa formulazione dell’art. 323 c.p., allorquando la fattispecie concreta non risulti già di primo acchito fuori dall’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice, dopo l’iscrizione si rendono necessari numerosi approfondimenti investigativi, che implicano spesso l’analisi di una notevole mole di documenti, nonché l’audizione di varie persone informate sui fatti, e che spesso si protraggono dunque, inevitabilmente, per diversi mesi.
A tal proposito, però, merita evidenziare che il d.lgs 150/2022 (cd. “riforma Cartabia”) il primo termine di durata delle indagini preliminari per abuso di ufficio è passato (così come per tutti gli altri delitti) dai precedenti 6 mesi ad 1 anno. Si tratta certamente di un tempo congruo, tale da scongiurare il rischio che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sia destinatario di una richiesta di proroga delle indagini che potrebbe avere immediate ripercussioni sulla sua funzione. In altre parole, pur avendo il sopra citato decreto legislativo introdotto regole più stringenti sulla tempestività dell’iscrizione, l’allungamento del primo termine di durata delle indagini preliminari dovrebbe consentire al Pubblico Ministero di pervenire ad una valutazione completa circa la sostenibilità dell’accusa prima che la notizia dell’iscrizione giunga all’indagato o assuma, comunque, rilievo esterno. Anche questa circostanza dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Nella maggior parte dei casi, all’esito delle indagini appare dubbio che sussistano contemporaneamente tutti gli elementi della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., per cui si rende necessario archiviare il procedimento.
Al riguardo, va debitamente focalizzata l’attenzione sui dati statistici che evidenziano l’assoluta preponderanza delle definizioni dei procedimenti iscritti per l’art. 323 c.p. già in fase di indagini preliminari con l’archiviazione, all’esito quindi di un vaglio di infondatezza della notitia criminis, vieppiù corroborato oggi nei sui parametri di giudizio dalla riforma cd. Cartabia con l’introduzione all’art. 408 c.p.p. del criterio della ragionevole previsione di condanna; il che, se per un verso dimostra come la funzione di “filtro” venga efficacemente esplicata dalle Procure rispetto alla maggior parte dei fatti astrattamente ascrivibili come abuso d’ufficio ma risultanti, all’esito delle indagini, non rispondenti ai suoi stringenti presupposti tipici, per altro verso non deve far trascurare la considerazione per cui Procure e Polizia Giudiziaria finiscono per essere impegnati in defatiganti indagini che si protraggono nel tempo ma si risolvono in un nulla di fatto, sottraendo magari risorse ed energie ad indagini di maggior rilievo.
Va anche considerato che a partire dall’1 settembre 2020 è entrata in vigore la novella dell’articolo 270 c.p.p., in base alla quale se nel corso di intercettazioni per un altro reato vengono scoperte prove di un abuso di ufficio, quelle intercettazioni non possono comunque essere utilizzate quale prova di tale reato, trattandosi di delitto non autonomamente intercettabile. Questa considerazione smentisce, dunque, l’idea che l’abuso d’ufficio possa costituire per le Procure un “reato jolly” da contestare laddove vengano meno le imputazioni di corruzione o concussione. E costituisce un ulteriore elemento che dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Elementi di incertezza nella formulazione dell’art. 323 c.p.
I giudizi aventi ad oggetto il reato di abuso di ufficio hanno esiti imprevedibili perché l’attuale formulazione dell’art. 323 c.p. contiene degli elementi suscettibili di incertezze interpretative:
- il pubblico ufficiale deve aver agito in una non ben definita situazione di “conflitto di interessi” oppure in violazione di non meglio delineabili “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti avente forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”; espressione quest’ultima che già di per sé contiene un ossimoro, laddove proprio le fonti di rango primario sono per definizione a carattere generale e astratto mentre alla normazione secondaria compete la perimetrazione più puntuale delle condotte nelle quali si deve esplicare l’esercizio delle funzioni pubbliche;
- l’abuso deve essere stato commesso dal pubblico ufficiale “intenzionalmente”, quindi non per perseguire un qualche concorrente o esclusivo pubblico interesse che aveva nella sua mente;
- l’abuso deve aver provocato un “vantaggio patrimoniale” oppure un “danno”, che sono concetti giuridici suscettibili di varie interpretazioni;
- il danno o il vantaggio devono essere “ingiusti”, per cui occorre un apposito accertamento di spettanza del vantaggio e di non spettanza del danno.
Insomma, in molti casi un giudizio per abuso di ufficio comporta la risoluzione di questioni di diritto amministrativo persino più complesse di quelle che si porrebbero innanzi ad un TAR.
Sotto questo profilo, si ritiene che nessun effetto positivo potrebbero esplicare quelle ulteriori specificazioni proposte dalla Proposta di legge Pella, Pittalis, Cattaneo che intenderebbe limitare la rilevanza penale del conflitto di interessi all’omissione “consapevole” (specificazione, questa, inutile, laddove si consideri che l’omissione, in quanto elemento costitutivo della fattispecie, deve necessariamente essere coperta dal dolo del reato) e del danno ingiusto al solo caso del suo essere arrecato ad altri “direttamente” (si tratterebbe, a ben vedere, di un altro elemento dall’interpretazione incerta).
Prima soluzione: ulteriore modifica dell’art. 323 c.p.
Non si può abrogare l’abuso di ufficio in quanto esso è espressamente contemplato dall’art. 19 della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003[1]. La norma in questione contempla la figura dell’abuso di ufficio per violazione di legge, produttivo di un vantaggio ingiusto.
Nello stesso solco si colloca la recente proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione del 03.05.2023, con cui gli Stati membri vengono indirizzati nel senso di presidiare con la sanzione penale le condotte di abuso di vantaggio per il funzionario pubblico o per altri, con la necessità di estendere tale regime normativo anche ai casi di abuso commesso da parte dei privati[2].
Si può allora modificare l’art. 323 c.p. eliminando alcuni di quegli elementi di incertezza interpretativa di cui si è detto in precedenza, limitando quindi il reato al minimo essenziale richiesto dalla Convenzione ONU del 2003 e cioè che l’abuso avvenga in violazione di legge e produca un vantaggio ingiusto.
Ne deriverebbe quindi un testo minimale del genere: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione della legge procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Un abuso di ufficio così formulato sarebbe di difficile iscrizione e di agevole interpretazione per cui raramente darebbe luogo a defatiganti procedimenti penali dai risultati incerti, e non esporrebbe in definitiva i pubblici ufficiali alla “paura della firma”.
Nulla vieta che si continui a mantenere in vigore l’abuso di ufficio da “conflitto di interessi”, il quale però – se si vuole scongiurare la “paura della firma” – dovrebbe essere epurato di quel deficit di tassatività di cui soffre attualmente. Non esiste infatti una univoca definizione di cosa costituisca un “interesse proprio o di un prossimo congiunto”.
Si potrebbe colmare questo deficit inserendo nel testo normativo una casistica di obblighi di astensione mutuata dall’art. 7 d.p.r. 62/13 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici). Così potrebbe pensarsi ad una formulazione del genere: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, omettendo di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Va in ogni caso escluso che l’abuso di ufficio da “conflitto di interessi” possa riferirsi a casi di obbligo di astensione determinato da generiche ed innominate situazioni di “grave convenienza”, espressione che violerebbe il principio di tassatività penale.
Seconda soluzione: abrogazione o depenalizzazione dell’abuso di ufficio
Con riguardo alle proposte C 399 Rossello e C 645 Pittalis, l’eventuale opzione di abrogare l’art. 323 c.p. non persuade e, oltretutto, rischierebbe di esporre l’Italia a una futura procedura di infrazione promossa dall’Unione Europea ove per effetto di tale scelta si venissero a creare vuoti di tutela penale nella lotta alla corruzione, che è un obiettivo ulteriormente ribadito dalla proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023, imposto dalle Convenzioni internazionali e dai principi costituzionali del buon andamento della PA, della concorrenza, meritocrazia e trasparenza delle procedure amministrative.
Per le medesime ragioni è da accogliere con sfavore la soluzione di una depenalizzazione dell’abuso d’ufficio evocata dalla proposta di legge C 654 (Costa), che lo vorrebbe sostituire con un illecito amministrativo, dato che anche, da ultimo, le convenzioni internazionali vigenti nonché la proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione, come anticipato, richiedono che gli Stati membri dell’Unione conferiscano rilevanza penale quantomeno all’abuso di vantaggio patrimoniale per il funzionario pubblico e/o per altri.
Ove si volesse comunque insistere su questa via della abrogazione o depenalizzazione dell’abuso di ufficio, occorrerebbe potenziare le fattispecie penali già esistenti, le quali non sono mai state messe in discussione né hanno mai ingenerato la paura della firma.
Va considerato che nelle Procure la maggior parte dei fascicoli per abuso di ufficio viene iscritta in relazione alle 4 seguenti aree, le quali non possono rimanere sfornite di tutela penale:
a) appalti pubblici: in questa materia gli articoli 353 e 353-bis c.p. apprestano una tutela penale quasi completa. Rimangono fuori da essa gli appalti affidati dal pubblico ufficiale in via diretta e senza gara, nei casi in cui ciò non sia consentito dalla legge: secondo la dizione legislativa e la attuale giurisprudenza, i due articoli in questione si applicano solo alle procedure competitive e non anche agli affidamenti diretti che riceverebbero tutela penale solo grazie all’abuso di ufficio. Occorre quindi intervenire sul tenore letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p. in modo da farvi ricadere anche le turbative volte ad affidamenti diretti effettuati contra legem;
b) concorsi pubblici: vari sono i fascicoli per abuso di ufficio iscritti per episodi di favoritismi nei concorsi (universitari, presso gli enti locali etc), predeterminazioni di candidati vincitori, creazione di bandi di concorso su misura etc. Una volta abolito l’abuso di ufficio appare necessario dettare una apposita disciplina per casi del genere, magari estendendo il dato letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p.;
c) affidamenti diretti di incarichi fiduciari: una volta abolito l’abuso di ufficio, sarebbe opportuna la creazione di una norma ad hoc che scongiuri l’affidamento di incarichi fiduciari retribuiti (es. consulenziali, di sottogoverno etc.) quando esso avvenga in violazione di legge o di norme secondarie, magari estendendo il dato letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p.;
d) liquidazioni non spettanti di denaro: in caso di abrogazione del delitto di abuso di ufficio, è prevedibile che la giurisprudenza (vi è già qualche sentenza in tal senso) allarghi le maglie dell’art. 314 c.p., facendovi rientrare il cd. peculato in favore di terzo (reato più grave dell’art. 323 c.p.). In ogni caso, per episodi del genere appare un valido deterrente quello della responsabilità contabile.
Si propongono quindi le seguenti modifiche:
Art. 353 c.p. – Turbata libertà della gara o del concorso - Chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce o turba lo svolgimento di concorsi pubblici oppure la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche Amministrazioni, ovvero ne allontana i partecipanti, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni(2) e con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Art. 353-bis c.p. – Turbata libertà del procedimento di scelta - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto ad indire un bando di gara o di concorso o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del vincitore da parte della pubblica amministrazione, oppure elude l’obbligo giuridico di indizione di una gara o di un concorso, al fine di procedere con affidamento diretto ad un soggetto predeterminato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Si evidenzia infine che l’eventuale abrogazione del reato di abuso di ufficio potrà ragionevolmente comportare una espansione giurisprudenziale del più grave reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.): qualora l’abuso avvenga attraverso un provvedimento scritto redatto da pubblico ufficiale, verrebbe data rilevanza al falso consistente nella rappresentazione di inesistenti presupposti di fatto o di diritto del vantaggio attribuito a terzi con quel provvedimento.
Traffico di influenze illecite
In relazione alla proposta C 645 (Pittalis) si osserva quanto segue:
- la specificazione secondo cui l’utilità del trafficante debba essere di tipo “patrimoniale”, contrasta con l’art. 12[3] della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 - il quale discorre di “qualsiasi vantaggio indebito” e con l’art. 18[4] della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 che pure discorre di qualsiasi “indebito vantaggio” – e rischia di frustrare la funzione “ancillare” specificamente riconosciuta alla fattispecie rispetto alla repressione di condotte prodromiche a fatti più propriamente corruttivi , se si pone mente al fatto che la “patrimonializzazione” dell’utilità oggetto dell’accordo/dazione tra il trafficante e il suo cliente sarebbe in controtendenza rispetto ad altre fattispecie più gravi di delitti contro la P.A. (es: corruzione e concussione) dove non è mai stata messa in dubbio la rilevanza tanto del denaro quanto di qualsiasi altra utilità, sia pure non suscettibile di una valutazione patrimoniale, idonea ad arrecare all’agente una qualche forma di appagamento o di beneficio incidente su altre sfere soggettive, che non sia quella economica, comunque rilevanti nella prospettiva dell’agente per fare da contraltare all’esercizio distorto dei propri doveri d’ufficio. Si pone in contrasto anche con la recente proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023 in materia di lotta alla corruzione in cui all’art. 10 (Trading in influence) si evoca, nella definizione normativa europea del traffico di influenze illecite, “an undue advantage of any kind” senza, dunque, far alcun riferimento alla patrimonialità che la proposta Pittalis vorrebbe introdurre nell’art. 346 bis c.p. Non può non evidenziarsi, allora, che anche con riferimento a questa proposta di legge potrebbe prospettarsi, ove venisse varata, lo scenario di una procedura di infrazione aperta a danno dell’Italia quando anche la proposta di direttiva europea venisse approvata nel testo attualmente diramato dalla Commissione UE.
- nelle ipotesi di traffico “gratuito” (quello che ricorre quando il trafficante si fa dare utilità per consegnarle al pubblico ufficiale) la proposta di legge fornisce rilevanza penale alla sola condotta del trafficante che si faccia dare l’utilità per remunerare l’agente pubblico “in relazione all’esercizio illecito” delle sue funzioni o dei suoi poteri. In virtù di questa modifica, non costituirebbe più reato la condotta consistente nel consegnare al trafficante delle utilità da impiegare per remunerare il pubblico ufficiale per il compimento di atti di ufficio leciti.
Per cui quest’aggiunta è sostanzialmente inutile e non migliora alcunché sul versante della tipicità: infatti la finalità di “pagare” il pubblico agente rende automaticamente illecita la sua azione amministrativa.
Anzi, a ben vedere questa proposta di modifica legislativa crea un cortocircuito nel codice penale, dato che secondo l’art. 318 c.p. il pubblico ufficiale non può accettare utilità per l’esercizio di potere conforme ai propri doveri di ufficio. Non può allora essere prevista come lecita la mediazione del trafficante che si faccia consegnare delle utilità nella prospettiva di consegnarle al pubblico ufficiale per un atto conforme ai doveri di ufficio.
Sarebbe opportuna una riforma che prenda atto dei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, la quale ha dato una lettura tassativizzante dell’art. 346-bis c.p., distinguendo il traffico illecito dal lobbismo lecito (Cass., Sez. 6, Sentenza n. 1182 del 14/10/2021, Sez. 6, Sentenza n. 40518 del 08/07/2021 caso Alemanno in procedimento Mafia Capitale; Sez. VI, sent. 14 ottobre 2021 dep. 13 gennaio 2022, n. 1182, caso mascherine commissario Arcuri). In particolare, la Cassazione ha affermato che:
- il traffico “gratuito”, quello che ricorre quando il trafficante si fa dare utilità per consegnarle al pubblico ufficiale, è di per sé illecito perché non è possibile remunerare un pubblico ufficiale;
- il traffico “oneroso”, quello che ricorre quando il trafficante si fa remunerare per la sua opera di mediazione, è illecito solamente ove vi sia l’accordo di indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto illecito. Se invece il trafficante viene pagato per indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto conforme ai propri doveri, si rientra nell’ambito del “lobbismo” penalmente irrilevante.
Questa interpretazione è peraltro conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite, la quale prevede che il traffico “oneroso” rilevi penalmente solo ove miri a far sì che il pubblico ufficiale procuri un indebito vantaggio al privato.
Prendendo atto quindi della indicata evoluzione giurisprudenziale, l’unica ragionevole modifica normativa dovrebbe riguardare il traffico “oneroso” di cui all’art. 346-bis c.p., per cui occorrerebbe eliminare il comma 4 e riscrivere il comma 1 in tale modo: Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322 bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, volta a fargli compiere un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.
L’altra alternativa, pur sempre mossa dall’intento di rendere più tassativa la fattispecie attraverso una migliore delimitazione dell’insieme delle condotte in essa sussumibili, potrebbe essere quella di rendere l’art. 346 bis c.p. un reato a dolo specifico sfruttando l’attuale formulazione della clausola inziale in modo da rendere esplicita la finalità che deve animare il trafficante. In altre parole, si potrebbe inserire nella parte iniziale della disposizione – riformulando quella oggi presente – la seguente clausola: chiunque al fine di commettere i reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter, 322 bis e fuori dal concorso in questi […], elevando il “fine specifico” a elemento essenziale del tipo di reato (traffico di influenza), con l’immediato effetto di restringere l’area del penalmente rilevante lasciando al di fuori di essa, certamente, ogni forma di lobbismo lecito.
[1] Secondo tale articolo: Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità. Vanno fatte due specificazioni linguistiche a proposito di tale articolo: l’espressione “intenzionalmente” che si trova nelle traduzioni dall’inglese e dal francese, sta semplicemente a significare “volontariamente” o “dolosamente”; l’espressione “ossia” non è disgiuntiva ma esplicativa.
[2] Secondo l’articolo 13 della proposta di direttiva: Member States shall take the necessary measures to ensure that the following conduct is punishable as a criminal offence, when committed intentionally: 1. the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party; 2. the performance of or failure to perform an act, in breach of duties, by a person who in any capacity directs or works for a private-sector entity in the course of economic, financial, business or commercial activities for the purpose of obtaining an undue advantage for that person or for a third party.
[3] Art. 12 Traffico d’influenza
Ciascuna Parte adotta le necessarie misure legislative e di altra natura affinché i seguenti fatti, quando sono commessi intenzionalmente, siano definiti reati penali secondo il proprio diritto interno: il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui agli articoli 2, 4–6 e 9–11, così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato.
[4] Art. 18 Millantato credito
Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente:
a) al fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona;
b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un autorità pubblica dello Stato Parte.
Sommario: 1. L’articolato iter amministrativo-cautelare della vicenda dell’orsa JJ4 - 2. L’inefficace attività di monitoraggio e l’ennesimo ricorso alla cultura dell’emergenza. - 3. Il precedente, T.A.R. Trentino Alto-Adige, Trento, 29 ottobre 2020, n. 184. Revoca dell’ordinanza e difficile articolazione dell’interesse alla tutela del benessere animale. - 4. Amministrazione e giudice. Confini incerti e indebite supplenze. - 5. Riflessioni di sintesi.
1. L’articolato iter amministrativo-cautelare della vicenda dell’orsa JJ4
Con decreto monocratico, il T.R.G.A. del Trentino Alto-Adige[1], ha sospeso l’efficacia dell’ordinanza di abbattimento dell’orsa “JJ4”, (ordinanza 8 aprile 2023, n. 1) adottata dal presidente della Provincia autonoma di Trento, avente ad oggetto, nel dettaglio “Provvedimento contingibile ed urgente. Intervento di rimozione di un orso pericoloso per l’incolumità e la sicurezza pubblica”. Decreto sospensivo adottato all’esito di un ricorso presentato da diverse associazioni animaliste[2].
L’ordinanza del presidente della Provincia autonoma di Trento rinviene le proprie ragioni di necessità, e in parte la propria legittimazione fattuale, nel presupposto del decesso di un residente, la cui morte è riconducibile alle ferite riportate da questi, attribuibili ad un orso bruno, come emerso delle operazioni peritali. Tale circostanza ha generato la reazione dell’amministrazione, formalizzato nell’ordinanza menzionata, a tutela della sicurezza e dell’incolumità degli abitanti e dei frequentatori delle aree prossime alla zona in cui è accaduto l’incidente.
Nello specifico, il provvedimento impugnato ha disposto la prosecuzione del monitoraggio intensivo dell’area interessata, anche al fine di procedere nel più breve tempo possibile all’identificazione genetica dell’esemplare che si è reso protagonista dell’incidente in oggetto e, di conseguenza, a procedere all’abbattimento dell’esemplare identificato in base all’istruttoria svolta. Inoltre, nel provvedimento, è intimato di custodire momentaneamente gli esemplati catturati - indiziati di essere quello ricercato – in attesa della conferma genetica della relativa identità.
Si deve, a tal proposito, osservare, come emerge anche nel testo del decreto, proprio rispetto all’identificazione condotta su base genetica, la medio tempore intervenuta conclusione dell’indagine genetica diretta a stabilire l’identità nell’orsa JJ4, notizia desunta anche da note ufficiali pubblicate della stessa amministrazione provinciale.
Come emerge dalle agenzie di stampa, in data 18 aprile 2023 l’orsa è catturata in una zona prossima a quella in cui era avvenuto l’incidente.
L’aspetto che lascia maggiormente perplessi, e sul quale si tornerà nel corso dell’indagine, riguarda una paventata e quantomai irragionevole accusa di recidiva, operata dall’amministrazione in capo all’animale, come se lo stesso possa essere titolare di una vera e propria capacità di intendere e di volere, trasposta, indebitamente e senza il necessario adattamento, su un animale appunto.
Si deve, inoltre, osservare, proprio rispetto a tale circostanza che le precedenti ordinanze contingibili e urgenti di captivazione, emesse nei confronti della medesima orsa, erano state cautelativamente sospese e, in seguito, annullate per difetto di istruttoria, dal medesimo T.A.R. Trento, aspetto del quale si darà brevemente conto nel corso dell’indagine.
La vicenda processuale prosegue e il 25 maggio, in seguito ad altro ricorso presentato in seguito ad altra e ulteriore determinazione dell’amministrazione, il T.A.R. ha provveduto, con ordinanza collegiale, 25 maggio 2023, n. 35[3], ad ulteriore sospensione del provvedimento (decreto n.10 del 2023) fissando l’udienza di merito in data 14 dicembre 2023.
Le singole determinazioni delle amministrazioni e i contestuali provvedimenti sospensivi del T.A.R. richiedono riflessioni di carattere generale, che ruotano intorno al rapporto che intercorre tra causalità e tempo delle decisioni, temi da cui derivano gli ambiti analizzati nelle sintetiche riflessioni che seguono.
2. L’inefficace attività di monitoraggio e l’ennesimo ricorso alla cultura dell’emergenza
L’equivoco di fondo che ha imposto il ricorso a strumenti emergenziali da parte dell’amministrazione - appare infatti evidente una lacuna correlata alla corretta gestione ordinaria della vicenda - risiede, a monte, nella inadeguata gestione dei provvedimenti attuativi della legge che, nel 1992[4], provvedeva all’importazione di plantigradi dalla Slovenia, con il contributo dell’Unione Europea, finalizzati al ripopolamento della zona di interesse.
Si tratta di un’attività finalizzata, in termini generali, a garantire e promuovere la biodiversità[5], da intendersi quale valore che sintetizza funzionamento globale dell’ambiente e diversità biologica.
La complessità del tema era, ed è, correlato, alla circostanza che l’attività di importazione comporti l’intrecciarsi di diversi procedimenti, particolarmente articolati da un punto di vista tecnico, con il relativo coinvolgimento di diversi attori, istituzionali e non.
A tutela della biodiversità è previsto, inoltre, un correlato potere di controllo e monitoraggio, la cui elevata componente tecnica e scientifica e l’evolvere costante delle relative conoscenze impone di delegare l’esercizio di determinati compiti a soggetti specializzati.
Tale attività di controllo e monitoraggio, che coinvolge un potere latu sensu pianificatorio, nell’ambito della complessiva operazione di importazione della specie, non è stata adeguatamente condotta, rispetto al numero minimo di ispezioni da effettuare, alle forme di coordinamento tra le amministrazioni competenti e ai criteri di aggiornamento dell’attività.
Inoltre, la complessiva attività di importazione si caratterizza per la presenza di aspetti, e pertanto di atti, spiccatamente politici, con la contestuale non sindacabilità degli stessi.
La compresenza di tali circostanze, in parte strutturali e in parte patologiche, ha imposto il ricorso a quella logica rimediale della quale l’amministrazione sovente abusa, anche per far fronte a precedenti - come in questo caso - colpevoli lacune delle quali la stessa è responsabile. Si è vestita da emergenza - che ha legittimato l’adozione di ordinanza contingibili - l’urgenza procurata, la colpevole inazione del potere, connessa ai diversi fattori summenzionati.
Appare evidente, infatti, che una situazione ampiamente programmata si è trasformata in una circostanza imprevista, un ossimoro che palesa l’inadeguatezza della gestione ordinaria, soprattutto nella fase di raccordo tra pianificazione e monitoraggio, sintesi della continuità procedurale che dovrebbe intercorrere tra programmato e raggiunto in termini di risultato finale dell’attività.
Non si tratta solo della conseguenza pura e semplice di diverse devianze, di una molteplicità di infrazioni, più o meno palesi, dell’ordinamento ma si tratta di un’ormai radicata cultura istituzionale dell’emergenza[6], che tende a investire – come noto – l’intero processo decisionale, con un evidente ampliamento oggettivo del perimetro del potere di deroga, genericamente inteso.
In altri termini, un’attività appropriata ed adeguata del monitoraggio, inteso quale aspetto anche di carattere organizzativo e di coordinamento, deve essere valutata sul piano dell’efficacia ed effettività dei singoli atti nel quadro di un più ampio contesto decisionale, come quello relativo alla gestione razionale dell’importazione di una specie animale in un territorio.
Proprio in quest’ottica emerge l’importanza che deve avere l’acquisizione corretta e consapevole del dato fattuale, al fine di garantire l’utilità funzionale del processo decisionale in una prospettiva molteplice e multifattoriale, che consideri non solo l’analisi del rischio in sé, ma anche i profili attinenti alla sua valutazione e gestione, rispetto a un esame da effettuarsi con ciclicità, proprio al fine di ridurre all’essenziale il ricorso all’emergenza e, di converso, ridurre l’arbitrio nelle scelte.
L’amministrazione precauzionale - formula adottata, seppur in altro ambito, dal Consiglio di Stato[7] - è divenuta, infatti, ormai un modello di amministrazione autonomo e permanente, che si impone allorquando, e le ipotesi sono in costante incremento, o non si disponga di tutti i dati completi per valutare compiutamente e consapevolmente il rapporto tra esercizio del potere e rischio, o, come nell’ipotesi indagata, si fronteggi un evento nel suo complesso prevedibile, con provvedimenti emergenziali.
Nel modello tradizionale domina una netta distinzione tra ricerca disinteressata della verità e sua eventuale utilizzazione a fini pratici, da un lato ci sono le istituzioni scientifiche, dotate del grado massimo di autonomia, dall’altro quelle dello Stato, cui consegue una incomunicabilità che impedisce una compresenza appropriata per le singole e correlate tra loro determinazioni.
3. Il precedente T.A.R. Trentino Alto-Adige, Trento, 29 ottobre 2020, n. 184. Revoca dell’ordinanza e difficile articolazione dell’interesse alla tutela del benessere animale
Non è la prima volta che l’orsa JJ4 diviene oggetto delle attenzione del giudice amministrativo.
Nel 2020, in occasione di un analogo, seppur meno grave incidente avente come protagonista il medesimo animale, il presidente della Provincia ne ordinava e disponeva la cattura - eseguita poi dal Corpo Forestale - con ordinanza 24 giugno, n. 362277.
Si deve, preliminarmente, osservare che il Piano d’azione interregionale per la conservazione dell’Orso bruno nelle Alpi centro-orientali[8] (PACOBACE) opera una distinzione delle misure, attraverso la previsione di ipotesi nelle quali l’attacco è determinato da necessità di difesa dalle ipotesi, più gravi, e di ipotesi nelle quali l’attacco è valutato come non necessario, e opera un’ulteriore distinzione rispetto alle zone, se abitate o meno, nelle quali avviene il fatto, con relativa graduazione delle azioni da intraprendere.
Il capitolo 3 del PACOBACE ribadisce che restano in ogni caso ferme le competenze delle amministrazioni competenti a fronte di rischi immediati per la sicurezza e l’incolumità pubblica.
Dalla motivazione del provvedimento adottato nel 2020 si evince che la valutazione comportamento dell’animale compiuta dall’amministrazione, ascrivibile ai massimi livelli della scala di pericolosità, si spieghi e legittimi in base a due presupposti fattuali, nello specifico, alla circostanza che l’attacco abbia avuto luogo in orario diurno e in zona abitata e non sia dipeso da ragioni di necessità[9].
Per tale ragione, il provvedimento stabilisce che l’abbattimento dell’animale rappresenti “la misura tecnicamente più idonea a garantire le tempistiche più celeri possibili” considerato che i “dati pregressi relativi al Trentino e bibliografici evidenziano la possibilità che determinati soggetti di orso possano arrivare a reiterare attacchi all’uomo”.
In seguito, dopo la cattura dell’animale e la conferma fornita dall’analisi dei campioni di tessuto da parte della Provincia - e del Corpo forestale nello specifico - il Ministero dell’Ambiente intimava gli enti menzionati a non procedere all’abbattimento dell’animale, sulla base dell’assunto secondo il quale la fauna selvatica è da considerarsi, a tutti gli effetti, patrimonio indisponibile dello Stato[10] e di conseguenza che la Provincia fosse sprovvista di legittimazione formale ad agire.
Si deve, tuttavia, osservare che la l. della Provincia autonoma di Trento 11 luglio 2018, n. 9[11], attuativa della direttiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992 - la c.d. direttiva Habitat[12] - attribuisce al presidente della Provincia la competenza ad autorizzare il prelievo, la cattura e l’uccisione di alcuni animali, al verificarsi di specifiche condizioni, previo parere emanato dall’ Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e nel rispetto del principio di proporzionalità, e, nello specifico, qualora non sussistano soluzioni alternative, adeguate e valide, e non sia messa a rischio la conservazione della specie.
Sempre a livello provinciale l’art. 52, comma 2, dello Statuto speciale della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol attribuisce al presidente della Provincia il potere di adottare i provvedimenti contingibili e urgenti che rinvengono il presupposto in una situazione di pericolo effettivo, la cui sussistenza, come noto, deve essere suffragata da un’istruttoria adeguata e motivazione congrua.
L’ordinanza di abbattimento adottata nel 2020 è impugnata da diverse associazioni per la protezione ambientale e la difesa degli animali e dal Ministero dell’ambiente, con un ricorso che lamentava illegittimità per violazione dell’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, difetto di motivazione e eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria.
A parere delle ricorrenti il potere di ordinanza è stato quindi esercitato in assenza della sussistenza dei presupposti di pericolo per l’incolumità pubblica, da intendersi come non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, che ne legittimano per l’appunto l’adozione. Inoltre, l’omessa acquisizione del parere dell’ISPRA corrisponde ad un’autonoma violazione della normativa provinciale vigente in materia e, d’altra parte, neppure è ammissibile che la Provincia integri in via postuma la motivazione del provvedimento.
Si lamenta, inoltre, una carenza di motivazione e un connesso deficit istruttorio, poiché non è condotta la necessaria verifica sulla pericolosità dell’animale e, di conseguenza, sull’urgenza della misura, circostanza contraddetta, peraltro, dalle previste misure di monitoraggio ed identificazione prodromiche alla cattura[13].
L’amministrazione, id est la Provincia, costituitasi in giudizio, ha osservato che la decisione di intervenire mediante il potere di ordinanza è legittima perché trova fondamento nell’interesse a tutelare l’incolumità e la sicurezza pubblica in quanto l’esemplare di orso, aggredendo l’uomo, ha chiaramente manifestato la sua pericolosità. La Provincia ha, altresì, evidenziato che la misura dell’abbattimento è prevista dal PACOBACE, unitamente alla captivazione, in quanto ritenuta a quest’ultima equivalente, e che non è prescritta dal PACOBACE una gradualità di tali misure, che dal punto di vista della conservazione della specie producono i medesimi effetti.
Il tribunale ha accolto le domande cautelari proposte dalle parti ricorrenti, poiché il Piano (PACOBACE), se da un lato riconosce il potere di adottare ordinanze a fronte di situazioni che comportino rischi immediati per la sicurezza, dall’altro impone di graduare gli interventi, in base ai canoni di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza[14].
A tal proposito, le precedenti ordinanze adottate in occasione di comportamenti che comportavano rischi per l’incolumità pubblica, subordinavano l’adozione del provvedimento di abbattimento - previsto, peraltro, come misura alternativa al provvedimento di cattura per captivazione - proprio al ricorrere di situazioni che avrebbero potuto determinare ulteriori pericoli.
In seguito, la Provincia provvedeva alla revoca della precedente ordinanza e, contestualmente, ordinava di dare continuità al monitoraggio al fine di assicurare la massima prevenzione possibile e di procedere, nel più breve tempo possibile, alla cattura ai fini della captivazione permanente[15].
Le associazioni ambientaliste, ritenendo lesiva del benessere anche la misura prevista nel secondo provvedimento urgente dell’amministrazione, hanno proposto motivi aggiunti su cui si pronunciava, sempre il via cautelare il tribunale, sospendendo anche la seconda ordinanza urgente, «ritenendo sussistente il paventato danno grave e irreparabile perché la cattura con captivazione “interessa un esemplare che si occupa tuttora dei propri cuccioli, non ancora completamente in grado di sopravvivere da soli ove venissero privati della madre” che verrebbe captivato altresì “in un periodo in cui è fortemente diminuita la presenza di turisti e in cui gli orsi si avvicinano al letargo”, e perché la misura della cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radiomarcaggio “si è sin qui dimostrata sufficiente per garantire la tutela della pubblica incolumità e sicurezza non essendosi più verificati episodi di pericolo ascrivibili a tale animale” ».
Tuttavia, la revoca, da parte della Provincia autonoma di Trento dell’ordinanza che disponeva l’abbattimento dell’orsa JJ4 aveva determinato un assetto di interessi integralmente sostitutivo del precedente e dunque determinava, come conseguenza di carattere logico-processuale, anche il venir meno dell’interesse ad una decisione di merito da parte del giudice amministrativo.
Dalla complessiva vicenda processuale, brevemente riportata, emergono almeno due questioni che necessitano di apposito approfondimento, la prima relativa al principio di precauzione[16] e alla relativa applicazione dello stesso da parte dell’amministrazione nell’adozione di ordinanze contingibili ed urgenti e, il secondo - pur nella condivisione del contenuto del provvedimento cautelare - relativo alla ormai nota sovrapposizione di funzioni tra giudice e amministrazione, che riflette, in termini generali la complessità della società che ha reso indispensabile l’assunzione del momento giurisprudenziale nel processo di formazione della regola giuridica, anche da parte dell’amministrazione.
4. Amministrazione e giudice. Confini incerti e indebite supplenze
L’inadeguata gestione, attraverso gli strumenti ordinari, dell’attività di importazione e di progressivo inserimento sul territorio dei plantigradi ha imposto, come osservato, il ricorso a strumenti e a dinamiche istituzionali emergenziali, circostanza che conduce alla seconda questione che deve essere indagata, che attiene, in termini ampi, alla sovrapposizione, si potrebbe discorrere di indebita interferenza, di funzioni tra giudice amministrativo e amministrazione; nel caso di specie la stessa emerge nella valutazione di pericolo - che dovrebbe rientrare nella sfera di discrezionalità dell’amministrazione - e che invece è adottata in concreto dal potere giudiziario.
Il potere giurisdizionale tende ad assumere un ruolo particolarmente ampio nella risposta istituzionale alle domande sociali[17], dato che pone questioni che devono essere indagate con estrema attenzione.
Il riconoscimento del ruolo del giudice quale interprete deve presupporre vincoli e limiti rispetto agli esiti contenutistici dei provvedimenti adottati, per evitare di incorrere in situazioni di relativismo giuridico, pur nella consapevolezza che l’intera operazione interpretativa è influenzata, come ovvio, dalla realtà esterna[18]. Si tratta, in altri termini, di legittimare un ulteriore controllo di correttezza dell’interpretazione, una ricerca delle condizioni di validità del processo interpretativo.
Per quanto si condivida il merito della scelta, e quindi la ragione di fondo che ha indotto il T.A.R. a sospendere la discutibile scelta dell’amministrazione nel caso in esame, il tema deve essere letto nella sua potenziale veste di fattore genetico di conflitti interistituzionali, che mina i canoni di certezza del diritto e dei rapporti che allo stesso si ispirano. In altri termini, non è in discussione il contenuto del provvedimento, ma la legittimazione formale del soggetto titolare che ne ha curato l’adozione.
La questione, ormai nota[19], non può essere affrontata nella sua intera portata problematica e rispetto alle innumerevoli implicazioni che dalla stessa derivano, ma appare utile, prendendo le mosse dalla vicenda indagata, analizzare alcuni aspetti e alcune tendenze.
La sostituzione del bilanciamento tra interessi o dell’apprezzamento discrezionale di cui sarebbe titolare una pubblica amministrazione da parte del potere giurisdizionale può considerarsi come una tracimazione che infirma il principio di specializzazione per il quale l'ordinamento distingue e settorializza le funzioni e le assegna ad organi che appartengono all’amministrazione o alla magistratura.
La situazione di pericolo, anche qualora sia correlata a una circostanza persistente[20], come quella del caso in esame, è il presupposto che legittima l’esercizio del potere da parte dell’amministrazione, presidiato dall’autorità istituzionale del giudicante, il quale però dovrebbe appunto limitarsi a giudicarne la legittimità e non dovrebbe sostituirsi all’amministrazione[21], seppur limitatamente alla fase cautelare.
Si tratta di una tendenza tesa a garantire le ragioni della legalità sostanziale, prevalenti rispetto alla contrapposta esigenza di preservare l’autonomia dell’amministrazione, relegata e limitata in termini di ampiezza oggettiva delle scelte.
Appare evidente che il prisma assiologico della decisione sia spostato in favore del potere giurisdizionale che la stessa decisione non sia più la soluzione al problema amministrativo[22] ma diventi la sintesi di un problema condiviso da amministrazione e organo giurisdizionale.
Il pericolo correlato alla presenza del plantigrado in zone abitate risponde a una determinazione discrezionale che è correlata a una domanda di diritto che non appare più legata alla tradizionale delega da parte del potere normativo ma a un’ulteriore delega, poiché l’assetto di interessi è, concretamente, stabilito dal giudice.
La volontà imperativa dell’amministrazione è doppiata da un’ulteriore determinazione che non si limita a sindacare la prima, ma che diviene una sorta di supplenza tecnica, formalmente non giustificabile, ma che talvolta si impone per necessità.
Il criterio di soluzione del problema - è opportuno precisarlo, che incide su una decisione che deve porsi quale bilanciamento tra la vita dell’animale e il correlato pericolo che lo stesso animale potrebbe apportare alle zone abitate - sul piano del diritto dovrebbe assumere rilevanza tanto per le modalità del suo svolgimento, quanto per i suoi risvolti sostanziali.
5. Riflessioni di sintesi
La complessiva vicenda coinvolge problemi di ordine generale, in certa misura collegati e interdipendenti fra loro, che per essere risolti richiedono il chiaro possesso e la retta applicazione degli stessi principi informatori del sistema, posto che, come chiarito in apertura, si saluta con estremo favore la provvisoria sospensione del provvedimento di abbattimento di un’animale, circostanza che può variare in base alla sensibilità del singolo.
Il bilanciamento tra diversi interessi dovrebbe rifuggire, per quanto possibile, da contesti emergenziali e tendenzialmente derogatori per poter accedere a un grado adeguato di razionalità, da intendersi quale canone che consente all’amministrazione di valutare, tra le alternative di comportamento, in base a un sistema di valori, le possibili conseguenze che potrebbero derivare proprio dalle potenziali soluzioni.
Emergono, in una veste peculiare, due delle questioni più delicate che riguardano l’attività amministrativa contemporanea, e in fin dei conti che intercettano profili organizzativi, da cui discendono carenze e insufficienze dovute, talvolta, a fattori occasionali, ma più spesso a strutturali e decennali lacune.
Nello specifico, il benessere degli animali deve essere riconosciuto - come è ovvio che sia - come autonomo valore da tutelare in termini di interesse pubblico proprio, sulla base della premessa, altrettanto ovvia, che si tratta di esseri viventi e come tali senzienti, elemento che deve rientrare come elemento principale nella valutazione.
Da un certo punto di vista parrebbe addirittura possibile trarre ulteriori conferme al suesposto ordine di argomentazioni dal combinato disposto degli art. 13 e 36 del TFUE che impongono di tenere in considerazione il benessere degli animali quale canone autonomo che deve orientare le condotte, anche del decisore pubblico, in quanto si tratta di facoltà e attribuzioni inalienabili degli animali che devono ricevere considerazione e tutela[23].
Riservare a tale articolato assetto di interessi una gestione normalmente emergenziale appare quanto mai inopportuno, dovendo la singola valutazione porsi in un ambito esteso derivante dal più ampio contesto decisionale possibile, quale, proprio per il caso in esame, quello relativo alla gestione di un determinato territorio.
Per ciò che riguarda la questione delle continue e indebite interferenze tra amministrazione e giudice amministrativo, è evidente che si tratta di temi rilevantissimi che, come tali, riguardano la stessa tenuta dello stato di diritto, ma in questa sede ci si limita ad apprezzare la sensibilità dimostrata dall’organo giurisdizionale a surrogare una sproporzionata e irragionevole - in attesa della sentenza - decisione dell’autorità provinciale.
[1] Per un commento a prima lettura, cfr. A. Gasparre, Runner ucciso dall’orsa: interviene il TAR che sospende l’esecuzione e chiede un supplemento di documentazione, in Diritto & Giustizia, 2023, 7 ss.
[2] Sotto il profilo legato alla legittimazione ad agire e agli interessi alla stessa sottesi, osserva in maniera condivisibile M. Delsignore, La legittimazione delle associazioni ambientali nel giudizio amministrativo: spunti dalla comparazione con lo standing a tutela di environmental interests nella judicial review statunitense, in Dir. proc. amm., 2013, 735 ss., attraverso il richiamo a una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che gli interessi a tutela degli animali, non sono individuali, ma al contrario sono riferibili indistintamente alla popolazione, posto che chiunque avrebbe interesse alla preservazione delle specie animali o ad osservare animali in via di estinzione; sempre sul tema della legittimazione delle associazioni animaliste, ma in un’ottica diversa, che riguarda la tutela degli animali da sostanze tossiche, cfr. G. Ligugnana, I procedimenti giustiziali nei confronti delle decisioni dell’ECHA, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 311 ss.; alle stesse conclusioni in termini protettivi per gli animali perviene, pur partendo da una questione differente, cfr. M. Lottini, Benessere degli animali v. usi tradizionali. Ancora la Corte di giustizia a sostegno di una interpretazione delle norme in chiave ‘animalista’, in Federalismi, 2021, l’esigenza nazionale di mantenere in vita usi tradizionali a scopo ricreativo, non può giustificare di per sé, l’utilizzo di un metodo di caccia particolarmente crudele, ricordando che la tutela del benessere degli animali (oltre che naturalmente la tutela ambientale e della biodiversità) possono essere compromessi solo ove ciò strettamente necessario e nel rispetto di rigide condizioni.
[3] “Stante la peculiarità della fattispecie – caratterizzata dalla circostanza che non è ancora decorso il termine per impugnare le Linee guida del 2021 e il rapporto ISPRA-MUSE (...) nonché la possibilità che a un’eventuale reiezione della domanda cautelare in esame consegua immediatamente l’abbattimento dell’orsa, così vanificando la possibilità di un appello cautelare”.
[4] Si tratta di l. 11 febbraio 1992, n. 157, recante ‘Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio’.
[5] Ampiamente sul punto, cfr. A.M. Chiariello, La funzione amministrativa di tutela della biodiversità nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, Napoli, 2022; L. Del Corona, La tutela della biodiversità: dal diritto internazionale alla Costituzione, in Federalismi (Focus - Human Rights), 2023, 198 ss.
[6] Ne discorreva già diffusamente F. Salvia, Il diritto amministrativo e l’emergenza derivante da cause e fattori interni all’amministrazione, in Dir. amm., 2005, 763 ss. (spec. par. 7); di recente, nei medesimi termini, cfr. L. Giani, Dalla cultura dell’emergenza alla cultura del rischio: potere pubblico e gestione delle emergenze, in L. Giani, M. D’Orsogna, A. Police (a cura di), Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018, 15 ss., 19.
[7] Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045
[8] Si tratta di un documento tecnico per la gestione della specie faunistica e contiene indicazioni dettagliate circa le misure da adottare per prevenire e risarcire i danni causati dagli orsi, le più opportune misure di intervento; per una lettura sistemica, cfr. E. Frediani, Decisione condizionale e tutela integrata di interessi sensibili, in Dir. amm., 2017, 447 ss.
[9] Cfr. M. Lottini, La tutela del benessere animale come interesse da tutelare, in Foro amm., 2021, 1712 ss.
[10] Cons. St., sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3419, in Foro amm. CdS, 2011, 2023, “Ai sensi dell'art. 1, l. n. 157 del 1992, la fauna selvatica costituisce patrimonio indisponibile dello Stato da tutelare nell'interesse della comunità nazionale e sopranazionale, onde i piani di abbattimento devono essere disposti nel rigoroso rispetto delle regole procedurali e sostanziali previste”; sul tema, si v. l’argomentazione offerta da Corte Cost., 15 marzo 2022, n. 69, in Giur. cost., 2022, 827.
[11] Si osserva, rispetto ad eventuali conflitti di competenza, che Corte Cost., 27 settembre 2019, n. 215, in Foro it., 2019, I, 3806, ha dichiaratoinfondate le questioni di legittimità costituzionale degli art. 1 l. prov. Trento 11 luglio 2018 n. 9 e 1 l. prov. Bolzano 16 luglio 2018 n. 11, nella parte in cui attribuiscono ai presidenti delle province autonome di Trento e di Bolzano il potere di autorizzare la cattura e l’uccisione dell'orso e del lupo, in riferimento agli art. 117, commi 1 e 2, lett. s), e 118, commi 1 e 2 Cost. e 4, 8 e 107 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige.
[12] Sulla relazione direttiva-territorio, necessario è in rinvio a G. Greco, La direttiva habitat nel sistema delle aree protette, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 1207 ss.
[13] T.A.R. Trentino Alto-Adige, Trento, 29 ottobre 2020, n. 184, a parere delle ricorrenti, infatti, l'abbattimento dell'animale è una misura drastica e irreversibile, che avrebbe dovuto trovare adeguata motivazione anche con riferimento all’insussistenza di soluzioni alternative, espressamente previste dal PACOBACE, quali la captivazione permanente o il radiocollaraggio. La relazione tecnica redatta dal personale del Servizio foreste e fauna della Provincia e i referti sanitari richiamati nel provvedimento in quanto non allegati né disponibili non sono idonei a motivare neppure per relationem la scelta della Provincia. Quindi, nella fattispecie in esame, la misura dell’abbattimento risulta anche sproporzionata. Inoltre, la previsione, precedentemente all'abbattimento, di azioni di monitoraggio ed identificazione dell'animale, che comportano tempi non brevi, conferma la contraddittorietà del provvedimento.
[14] Cfr. M. Bevilacqua, I problemi aperti dalla stabilizzazione del paradigma commissariale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 1167, «Giova richiamare un recente caso in tema dell’emergenza da plantigradi diffusasi nella Provincia di Trento, in merito alla quale il Consiglio di Stato si è pronunciato sul contenuto di un’ordinanza contingibile e urgente tramite la quale il presidente della Provincia aveva disposto la captivazione permanente dell’orso M57. I giudici di Palazzo Spada, richiamando una pronuncia della Consulta, hanno chiarito che in ogni caso valgono i limiti propri del potere amministrativo, compreso il principio di proporzionalità affinché le misure adottate siano correttamente graduate al fine di garantire un consono contemperamento degli interessi in gioco ed evitare di violare i canoni non solo di proporzionalità ma anche di ragionevolezza e adeguatezza».
[15] Ordinanza 11 agosto 2020, n. 491102 del Presidente della Provincia autonoma di Trento, la misura della cattura per captivazione permanente sembrava essere, al momento di adozione del provvedimento, quella che, in alternativa all’abbattimento, consentiva la necessaria rimozione dell’esemplare di cui si tratta, non essendo ipotizzabile, anche in relazione all’interlocuzione aperta con il competente Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, alcuna soluzione alternativa che prevedesse la traslocazione dell’esemplare in altro territorio idoneo.
[16] Cfr. S. Foà, Il nuovo diritto della scienza incerta: dall’ignoto irriducibile come noumenoo al mutamento di paradigma, in Dir. amm., 2022, 813 ss., osserva che il principio di precauzione dovrebbe essere il crocevia dell’incontro tra scienza e tecnica, da un lato, e decisione pubblica, politica e amministrativa, dall’altro. Si riprendono due possibili rappresentazioni antitetiche della costruzione di tale rapporto: la norma precauzionale come segno della regolazione giuridica della scienza e della tecnica o, viceversa, la norma precauzionale come sintomo del dominio della scienza e della tecnica sulla normatività giuridica.
[17] V. Onida, Politica e giustizia: problemi veri e risposte sbagliate, in Il Mulino, 2010.
[18] Ampiamente, su questi temi, cfr. F. Saitta, Interprete senza spartito?. Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023, 91.
[19] Di recente, con un approccio legato ad alcune emblematiche vicende recenti, L. Saltari, Giudici amministratori, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 293 ss.
[20] Sul punto, si v. T.A.R. Veneto, Venezia, sez. II, 7 ottobre 2022, n. 1515.
[21] Sul tema, in termini difformi, ma legati a una prospettiva di partenza diversa, P. Grossi, L’invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 831, per il quale il pluralismo giuridico implica il pluralismo delle fonti e quindi ammettere letture estensive della magistratura, anche al di là del dato positivo, anche di carattere processuale.
[22] Evidente, anche dal punto di vista semantico il riferimento, genericamente inteso, agli scritti di F. Ledda, ora anche in Scritti giuridici, Padova, 2002.
[23] In questi termini già R. Ferrara, I principi comunitari della tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2005, 509 ss.
Mettere i bambini al centro delle decisioni utilizzando le norme che già prevedono la necessità di iscrivere alla nascita i due genitori che hanno messo al mondo il bambino. È questo il senso di un documento sottoscritto da 276 giuristi - docenti universitari, giudici, avvocati - mobilitati nel giro di poche ore per chiedere che il dibattito esca dalle pastoie della polemica politica e del pregiudizio e torni a basarsi su una attenta analisi dei dati giuridici.
Il monito al legislatore espresso dalla Corte Costituzionale nel 2021 perché intervenisse senza indugio a colmare il vuoto di tutela dei bambini nati da coppie omosessuali è caduto nel vuoto e, anzi, il mancato intervento della Consulta viene utilizzato oggi in modo strumentale per sottoporre questi bambini e le persone lgtbi+ ad un duro attacco, ricacciando questi bambini e una intera comunità indietro nel tempo.
Il documento sottoscritto da alcuni dei più insigni cultori della materia della famiglia e della filiazione propone un’attenta riflessione condotta sulle norme vigenti, con una stringente critica dei principali argomenti giuridici spesi, anche in alcune sentenze, al fine di negare protezione sin dalla nascita ai bambini e alle bambine nati da due mamme. L’istituto dell’adozione in casi particolari si muove in una prospettiva squisitamente adultocentrica, perché consente all’adulto di decidere se adottare o meno (peraltro con i noti problemi in termini di tempi ed effetti), ma non assicura la piena protezione del bambino alla nascita, come accade a chi viene al mondo con identica PMA eterologa da genitori eterosessuali. La circostanza che secondo la prima sezione Cedu non vi sia violazione della Convenzione non esime dalla ricerca della soluzione più giusta secondo il diritto nazionale vigente. L’analisi del quadro normativo attuale conduce dunque ad un invito all'esercizio della giurisdizione al fine di prevenire una pesante discriminazione dei bambini nati da due mamme.
Il documento vede fra i firmatari alcuni degli studiosi più noti del diritto di famiglia e della filiazione, come Vincenzo Barba, Gilda Ferrando, Leonardo Lenti, Maria Rosaria Marella, Pina Palmeri (che è anche una delle promotrici del documento), Salvatore Patti, Ugo Salanitro, Marica Venuti, Paolo Zatti, oltre che giudici di cassazione, tanti giudici di merito e notissimi giuristi di vari campi del diritto del calibro di Marzia Barbera, Thomas Casadei, Giovanni Comandè, Emilio Dolcini, Elena Malfatti, Marco Pellissero, Francesca Poggi, Paolo Ridola, Paolo Veronesi.
Pina Palmeri (ordinaria di diritto privato, Università di Palermo), Marco Gattuso (giudice Tribunale Bologna)
Il diritto stia dalla parte dei bambini e delle bambine
Le persone lgbti+ e le loro famiglie sono oggetto di un duro attacco che non può che suscitare allarme e malessere in quanti hanno a cuore i valori dell’uguaglianza e della non discriminazione. È un attacco rivolto, in nome di una presunta volontà della maggioranza, contro persone inermi, discriminate per le loro qualità e identità personali. L’offensiva in questi mesi si rovescia con particolare violenza sui soggetti più deboli fra tutti: i bambini e le bambine con genitori dello stesso sesso.
Anche in ambito giuridico visioni affette da un malcelato pregiudizio nei confronti delle persone omosessuali e delle loro famiglie conducono a letture poco condivisibili dei dati tecnico-giuridici, entro cui sarebbe invece necessario confinare il dibattito.
Quali studiosi e operatori, studiose e operatrici del diritto siamo convinti che sia compito della cultura giuridica ricomporre al più presto il quadro delle tutele alla luce di una attenta e severa ricostruzione sistematica e tecnica. Mentre la questione della protezione di chi nasce da gestazione per altre e altri (da coppie eterosessuali e, in minor misura, omosessuali) ha avuto maggiore attenzione seppure con esiti ancora incerti e insoddisfacenti, siamo convinti che sia tuttora poco approfondito il dibattito sulla protezione dei bambini e delle bambine nate da due mamme, le quali intraprendono normalmente un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) con donazione di seme maschile, in tutto identico a quello delle coppie eterosessuali.
A tale riguardo, dobbiamo evidenziare come la discussione sia minata da una lettura spesso imprecisa delle disposizioni della legge 40 che regolano la protezione alla nascita di tutti i nati e le nate con tecniche di PMA.
In particolare rileviamo che:
- Non è corretto assumere che la condizione di chi viene messo al mondo da due mamme sia regolata dalla norma della legge 40 che impedisce alle coppie di donne di accedere alla PMA, poiché la regola sullo status dei bambini e delle bambine è stabilita in una differente disposizione della medesima legge (Disposizioni concernenti la tutela del Nascituro) che prevede che i bambini nati da PMA sono figli “della coppia” che ha deciso di accedere a tale tecnica. Mentre il divieto concerne le condotte degli adulti, le norme sulla tutela del nascituro si pongono nella prospettiva della protezione del minore, non riguardando il divieto le vicende successive al compimento degli atti di PMA.
– I divieti contenuti nella legge 40, infatti, non si estendono – né potrebbero estendersi – alla fase che segue il compimento della condotta sanzionata, non potendo i figli subire conseguenze negative per gli atti posti in essere dai genitori, e ciò in base ad un principio divenuto cardine nel nostro ordinamento.
– Non è vero che la disposizione per cui i nati sono figli della “coppia” che ha voluto la loro nascita non possa applicarsi a chi ha due madri, posto che la legge parla di “coppia” senza ulteriori specificazioni e che la parola “coppia” denota comunemente, nel diritto italiano e in quello europeo, sia le coppie eterosessuali che quelle omosessuali.
– Non è vero che questa disposizione possa essere applicata solo a chi esegue la PMA secondo le regole di accesso vigenti in Italia, poiché il complesso delle norme “a tutela del nascituro” è stato previsto proprio per chi ricorreva all’estero a tecniche, come la PMA eterologa, che la stessa legge 40 vietava (e la Cassazione difatti l’ha ritenuta regola generale applicabile anche in caso di violazione dei presupposti per l’accesso alla PMA, ad es. in caso di PMA post mortem).
– Non è vero che nonostante l’univoco dato letterale della disposizione, i giudici dovrebbero darne una interpretazione restrittiva perché una interpretazione letterale sarebbe eccentrica rispetto al sistema e perché contrasterebbe con il “modello” di famiglia tradizionale, atteso che compito dei giudici non è la difesa ideologica dei “modelli”, ma l’applicazione delle disposizioni vigenti che prevedono la protezione in concreto dei bambini e delle bambine sin dalla loro nascita.
– Non è vero, in particolare, che la tutela dei bambini e delle bambine secondo le disposizioni previste dalla legge 40 introdurrebbe un diverso, incompatibile, “modello” di procreazione, atteso che la legge 40, seppure fondata in origine sul dogma del necessario rapporto genetico fra genitori e figli, sicché vietava la PMA eterologa, si preoccupava comunque di proteggere i nati anche in assenza di tale rapporto senza che ciò, nell’intenzione del legislatore, desse luogo ad un insanabile conflitto con il “modello” tradizionale.
– Non è vero che il compito di provvedere alla tutela dei nati spetta al legislatore, sicché interpretando la norma i giudici non ne rispetterebbero le prerogative, perché lo Stato di diritto impone che in ogni caso di inerzia del legislatore sia comunque affidata alla giurisdizione la salvaguardia dei diritti fondamentali dei minori, dei soggetti deboli, degli appartenenti a minoranze.
– Non è comunque vero che sia ragionevole considerare preferibile per i minori la famiglia tradizionale composta da uomo e donna, in quanto assicurerebbe al minore “migliori condizioni di partenza”, poiché tali affermazioni sono in aperto contrasto con quanto accertato da decenni dalla scienza ufficiale.
– Non è vero, in particolare, che i giudici debbano muoversi in questa materia sulla base di un principio di precauzione, posto che da diversi decenni gli statements ufficiali rilasciati dalle associazioni di psicologi, pediatri, psichiatri e psicanalisti del mondo occidentale continuano ad affermare che la crescita sana dei bambini e delle bambine non è legata all’orientamento sessuale dei genitori ma alle loro capacità di accudimento ed è provato che tali capacità si rinvengono in pari modo fra le coppie eterosessuali e omosessuali. Ne consegue che è precluso ai giudici di non dare conto nelle loro decisioni di tale quadro scientifico, poiché in caso contrario la decisione, come affermato dalla Cassazione sin dal 2013, finirebbe per essere fondata su un “pregiudizio”.
– È dunque da escludere che il benessere del minore possa essere valutato tenendo conto delle opinioni maggioritarie nel paese e non del contributo della scienza.
– Non è peraltro neppure vero, in ogni caso, che la decisione dipende da una diversa valutazione dell’interesse del minore, posto che comunque la si pensi il bambino e la bambina resteranno nella loro famiglia, sicché non è qui in gioco un giudizio sulle coppie omosessuali, ma il manifesto e indiscusso interesse del bambino ad essere pienamente protetto nell’ambito delle sue relazioni familiari, come già sottolineato dalla Corte costituzionale.
– È giuridicamente errato sostenere che la legge Cirinnà avrebbe escluso l’applicabilità della disposizione sulla protezione dei nati da PMA alle coppie dello stesso sesso, perché l’unica esclusione contenuta in tale legge riguarda le norme del codice civile e la legge sulle adozioni: fuori da tali eccezioni la legge Cirinnà, invece, impone senz’altro l’equiparazione.
– Non è giuridicamente corretto affermare che si possa negare ai bambini e alle bambine addirittura il riconoscimento alla nascita del rapporto con la loro mamma genetica, atteso che appare priva di fondamento e piuttosto sorprendente l’affermazione per cui il legame genetico non avrebbe alcuna rilevanza nel nostro ordinamento nel rapporto fra madre e figlio, sicché, in buona sostanza, il dna avrebbe rilevanza giuridica solo per gli uomini ma sarebbe del tutto irrilevante per le donne. A tale riguardo l’affermazione della totale irrilevanza del dato genetico per la genitorialità femminile (erroneamente desunta dalla rilevanza che certamente assume il legame gestazionale) è affermazione del tutto nuova e inusitata nel mondo del diritto (non si conoscono né precedenti giurisprudenziali né indirizzi dottrinari, in Italia e nel mondo in tal senso) che tradisce, ancora una volta, l’intento di rendere invisibile la specificità femminile in ambito procreativo ed insieme la volontà di continuare ad esercitare sul corpo delle donne un forte potere di “disciplinamento”.
– Non è vero che la lettura che nega l’efficacia dei certificati che riconoscono la responsabilità genitoriale alla nascita del genitore d’intenzione sia compatibile con il diritto europeo, perché i figli di due genitori dello stesso sesso una volta varcato il confine italiano rischiano d’essere privati di un genitore, in evidente violazione, tra gli altri, del loro diritto alla libertà di circolazione in ambito Ue.
– Non è vero che l’adozione in casi particolari è rimedio sufficiente, perché l’adozione è subordinata alla volontà dell’adulto, mentre la legge 40 impone la protezione dei nati anche quando non vi sia tale volontà. L’adozione, difatti, presuppone necessariamente una istanza dell’adottante, mentre il dispositivo di cui alla legge 40 è diretto a inchiodare il genitore intenzionale alla sua responsabilità genitoriale in ragione del consenso prestato alla PMA.
Siamo convinti che il continuo richiamo ai “modelli” di famiglia e al “diritto dell’adulto” di adottare (peraltro assicurato con i noti limiti rispetto ai tempi e agli effetti), tradisca una logica che permane schiettamente adultocentrica e che sostanzialmente ignora o comunque sottovaluta le esigenze e la stessa identità personale dei bambini e delle bambine.
Non assume al riguardo rilievo dirimente la recente decisione della prima sezione della Corte di Strasburgo che in composizione ristretta ha ritenuto che l’Italia non abbia superato l’ampia discrezionalità di cui disponeva rispetto all’attuazione dei mezzi per stabilire o riconoscere la filiazione. La Corte si è limitata a rilevare la mancata violazione della Convenzione in questi casi concreti (che non riguardavano ipotesi di rifiuto del genitore intenzionale di riconoscere o adottare il bambino), ma non ha affrontato la diversa questione della interpretazione del diritto interno, che non le compete. Un Paese che, come il nostro, gode di una forte e solida tradizione giuridica e costituzionale, non deve attestarsi al livello più basso di protezione dei diritti fondamentali consentito dall’ampio margine di apprezzamento riconosciuto in questa materia, dovendo l’Italia ambire ad una esegesi delle proprie norme interne che non l’allontani dal novero di quegli ordinamenti con cui condivide una affine civiltà giuridica.
Il nostro quadro legislativo consente ed anzi impone di porre il bambino al centro della decisione e di dargli piena tutela sin dalla nascita. In mancanza di una riforma, è dunque indispensabile che la giurisprudenza assicuri la corretta applicazione delle norme esistenti a tutti i bambini senza pregiudizi e condizionamenti dovuti ai modi in cui si può nascere e/o all’orientamento sessuale dei genitori.
Non è superfluo segnalare come anche nell’opinione pubblica si manifesti una sempre maggiore consapevolezza e solidarietà nei confronti delle coppie lgbti+ e dei loro bambini. In ogni caso, anche se così non fosse va sottolineato con forza che quando i dubbi espressi da una parte dell’opinione pubblica appaiono privi di razionale base giuridica e scientifica, e quando ci si inizia a mobilitare contro i diritti dei soggetti più deboli, in uno Stato di diritto è più che mai compito della giurisdizione assicurare che ogni persona, specie se è particolarmente vulnerabile e indifesa come un bambino o una bambina, non subisca alcuna discriminazione.
Sommario: 1. Premessa - 2. I lavori della prima sessione (Discrezionalità e giurisdizione) - 3. Sui lavori della seconda sessione (Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità) - 4. Sui lavori della terza sessione (Giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza) - 5. Sui lavori della sessione finale (gli interventi) - 6. Breve notazione conclusiva (con rinvio al saggio Brevi considerazioni sulla discrezionalità amministrativa, nell’ultima edizione di Principi e regole dell’azione amministrativa.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto richiamare l’attenzione sulla valorizzazione del dialogo tra accademia e giurisprudenza, che è lo spirito e la ragione di questi nostri incontri. Ricordo ancora la cena organizzata prima della ripresa delle Giornate sulla Giustizia amministrativa, nate per celebrare la memoria di Eugenio Cannada Bartoli, l’illustre studioso Maestro di Fabio Francario, di cui avevo seguito le splendide lezioni di Giustizia amministrativa alla Sapienza (quando le teneva a pochissimi studenti alle 8 del sabato mattina) e con il quale avevo avuto l’onore di lavorare a stretto contatto quando era subentrato a Mario Nigro, a sua volta succeduto a mio padre, nella Direzione della Sezione di diritto amministrativo della rivista Giurisprudenza italiana.
Lo spirito di questi incontri, dicevo, nati in un momento un po’ critico per la Giustizia amministrativa (in cui la stampa quotidiana e alcune forze politiche accusavano il giudice amministrativo di ostacolare improvvidamente il rilancio dell’economia), era anche quello di una critica costruttiva, per riflettere, in un ambito ristretto e “amico”, “insieme”, sulle questioni più complesse e “delicate” della “nostra” Giustizia, lavorando, “insieme”, per realizzare una tutela giurisdizionale nei confronti delle pp.AA. sempre migliore.
Come ha osservato poco fa Antonio Barone, queste Giornate sono una “Ineguagliabile occasione di confronto franco e serrato tra accademia e magistratura” e dobbiamo fare di tutto per tenerlo vivo.
Il nostro rispetto per l’istituzione Giustizia Amministrativa è noto, come lo è il mio autentico amore per l’istituzione Giudice amministrativo: non siamo professori e avvocati da una parte e giudici amministrativi dall’altra: siamo giuristi che “credono” in questa istituzione e vogliono, anche attraverso critiche costruttive all’interno di questo simposio, sentirla sempre più apprezzata e rispettata anche dall’esterno.
Vari giudici ci chiedono: che si dice di noi, che si dice del Consiglio di Stato e dei TAR dall’esterno? Il nostro auspicio e la nostra ambizione sono poter rispondere: “benissimo”. Da qui anche la scelta degli argomenti, sempre condivisi con i Presidenti del Consiglio di Stato, trattati in queste Giornate, tendenzialmente un po’ scomodi e apparentemente provocatori, come quello della “sentenza ingiusta”, affrontato nel 2017, e quello di questo incontro, del sindacato sulla discrezionalità.
Ma siamo “NOI”, insieme, contro la difficoltà che, come ben ricordato da Fabio nella sua Introduzione, i giudici amministrativi incontrano, oggi più che mai, a svolgere il loro ruolo: siamo solidali e dalla stessa parte, a tutela dell’effettività della giustizia nei confronti del potere amministrativo; e questo è fondamentale, perché, riprendendo il richiamo alla bella citazione tratta da Andrea Panzarola che ho apprezzato ieri, “la storia della libertà è stata anche la storia del rispetto delle garanzie procedurali”.
Ma veniamo al nostro tema: la discrezionalità e il suo sindacato.
Inizio anche io dalla citazione del saggio di Mario Nigro (di cui ho avuto l’onore di essere allieva) su Silvio Spaventa, richiamato da Beppe Morbidelli: “La discrezionalità amministrativa, sempre in crisi e sempre criticata, si ripropone d’altronde nuovamente ogni giorno come lo strumento più adatto a commisurare elasticamente l’azione statale agli scopi che essa prefigge, scopi che, nella loro molteplicità e imperiosità, sembrano essere il centro di gravità del nuovo stato”.
2. Sui lavori della prima sessione (Discrezionalità e giurisdizione).
Francesco Manganaro ha sottolineato la centralità del tema, oggetto di vari convegni, perché sempre più attuale e arricchito: lo ha affrontato da ultimo in modo assai interessante il volume di Fabio Saitta che rappresenta il giudice amministrativo come un “interprete senza spartito” di cui abbiamo discusso in uno degli incontri del lunedì di Giustizia insieme avviati quest’anno con il fondamentale apporto organizzativo di Enrico Zampetti.
Non è un caso, del resto, che negli ultimi anni ho aperto con questo tema il ciclo di lezioni sulla giustizia amministrativa della SSPPLL di Roma Tre, proprio con Fabio Francario, Marco Lipari e Paolo Carpentieri.
Oggi, per di più, si aggiungono i nuovi ambiti di discrezionalità offerti dal PNRR (di cui ci hanno parlato Antonio Barone e Paolo Gentili), dal Codice dei contratti pubblici (su cui abbiamo ascoltato Claudio Contessa, e, sotto diversi tagli, gli interventi di Francesco Cardarelli, Aristide Police, e Giuseppe Severini) e, tutt’altro che in ultimo, dalle decisioni robotiche (trattate da Anna Corrado e Vittorio Domenichelli)
L’interesse e la complessità del tema sono emersi al massimo livello nelle Relazioni introduttive di Beppe Morbidelli e di Fabio Francario.
Morbidelli ha messo l’accento sull’importanza dell’attività di indirizzo politico come “funzione di guida” degli atti amministrativi di gestione affidati alla discrezionalità (pura) delle pubbliche Amministrazioni diverse dalle Autorità indipendenti -una funzione costituzionalmente necessaria perché il Governo deve assumere la responsabilità di tale indirizzo- e ne ha poi rimarcato la differenza dalla predeterminazione e autolimitazione delle modalità di esercizio della gestione (di cui pure segnala la fondamentale importanza a garanzia dell’imparzialità amministrativa), che è anticipato esercizio della discrezionalità, ferma restando la discrezionalità dei dirigenti e dei funzionari nella gestione (discrezionalità concreta sul fatto, da determinarsi progressivamente attraverso l’istruttoria), che deve in ogni caso esplicarsi nel rispetto delle prescritte garanzie procedimentali.
Morbidelli ha parlato a questo riguardo di “diverse discrezionalità (o “discrezionalità divisa”), rilevando che l’atto di indirizzo, che quando non ha forma di legge, ha forma di direttiva (nozione molto dibattuta) è, sì, da un lato, espressione della separazione tra politica e amministrazione, ma costituisce, dall’altro, un indice rilevatore del peso politico che comunque incombe sull’amministrazione e aiuta a scrutinare con maggiore evidenza l’uso distorto (ovvero per ragioni politiche “non nobili”) di tale potere.
Sicché la presenza di un atto di indirizzo, che intermedia tra legge e provvedimento (o atto amministrativo generale), costituisce, per più ragioni, un elemento di rafforzamento e delle garanzie giurisdizionali e di ogni forma di controllo sia politico che amministrativo.
Fabio Francario ha rimarcato la difficoltà, aumentata in via esponenziale nel tempo, del lavoro dei giudici, stretti oggi tra un sistema normativo complesso e multilivello, che aumenta la confusione e l’incertezza nella individuazione della soluzione giusta (tema cui non a caso stiamo dedicando da anni costante attenzione), e l’esigenza di concludere rapidamente il giudizio. Difficoltà aggravata per il GA a causa della “dissoluzione”, ovvero della tendenziale scomparsa, della decisione amministrativa.
Sicché, come ben osservato da Fabio, la cura in concreto dell’interesse pubblico, sempre più spesso, non passa più per l’attività amministrativa. O perché l’Amministrazione non è in grado di decidere; o perché evita di decidere per evitare le responsabilità conseguenti alla decisione; o perché magari la decisione è stata già interamente consumata al livello legislativo.
In questo scenario, il nostro Relatore osserva che il GA è costretto a reinventarsi e tende a sostituirsi all’Amministrazione, con il rischio di polverizzare il confine -che è invece necessario e ben tracciato dal cpa- tra giudizio di legittimità (che è la regola generale) e giudizio di merito (che è l’eccezione e che delimita il potere di sostituzione del Giudice all’A).
Il tema è estremamente delicato, perché, a fronte di questo rischio, c’è la tendenza, non meno criticabile, a un “arretramento” del sindacato, non soltanto a fronte della discrezionalità pura (che non può comunque sfuggire al controllo di legittimità), ma anche a fronte della cd discrezionalità tecnica: la distinzione è importante, e persiste, come hanno ben rimarcato quasi tutti i relatori, e lo riconosce, in linea teorica, anche la giurisprudenza, che però, al momento di censurarne l’esercizio, richiede la stessa “evidente e macroscopica illogicità/irragionevolezza, contraddittorietà o abnormità del giudizio”, lo stesso “manifesto” errore nei presupposti, che si richiede per censurare le decisioni caratterizzate da “amplissima discrezionalità” (tanto da fare talvolta riferimento a una “amplissima discrezionalità tecnica”) e mostra una ingiusta ritrosia a disporre CTU o verificazioni nei giudizi sugli atti delle AAII. A tale ultimo proposito ho del resto più volte evidenziato e criticato l’arretramento della giurisprudenza nel negare la sindacabilità nel merito delle decisioni delle AAII sull’an delle sanzioni, quando invece l’art 134 cpa fa generico riferimento ai provvedimenti sanzionatori, senza quindi legittimare alcuna distinzione tra an e quantum.
Il tema della completezza dell’istruttoria, che il cpa ha vanamente cercato di anticipare alla fase cautelare (esigenza che abbiamo ribadito anche nel nuovissimo codice dei contratti pubblici) avrebbe bisogno di un incontro a parte, come del resto ci segnalava prima della “bolla Covid” Luigi Carbone, anche per affrontare e auspicabilmente aiutare a risolvere le numerose questioni create dall’assenza di un albo dei CTU e, soprattutto, di regole sulle verificazioni (profilo su cui credo si sarebbe concentrato l’intervento di Flavia Risso).
Anche Fabio Francario ha opportunamente sottolineato l’assoluta necessità che, nei casi -eccezionali- in cui il Giudice può sostituirsi all’Amministrazione, lo faccia attraverso una attenta istruttoria, non solo sugli atti di causa, ma anche, ovviamente, sui fatti che ne sono alla base. Non basta, invero, che il Giudice “possa” accedere al fatto, ma “deve” in concreto accedervi e svolgere, in luogo dell’Amministrazione di cui ha censurato l’operato e che sta sostituendo, quella “adeguata istruttoria” che è necessaria per una “decisione giusta”.
Un concreto accesso al fatto e una reale cognizione dello stesso sono del resto, in termini generali, condizione fondamentale per un sindacato effettivo sull’eccesso di potere. Gli esempi delle pronunce cautelari sugli atti ablatori portati da Fabio sono emblematici: al di là dei casi in cui può parlarsi di formale sostituzione dell’Amministrazione, soprattutto quando ha a che fare con decisioni discrezionali che incidono su rilevanti interessi pubblici, prima di annullarle o di sospenderle il Giudice deve fare una istruttoria particolarmente attenta sui fatti.
3. Sui lavori della seconda sessione (Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità).
Andreina Scognamiglio, nell’introdurre i relatori del pomeriggio, ha sottolineato l’importanza di capire esattamente cosa è fatto e cosa è valutazione. La questione è centrale in quanto la linea di confine è evidentemente sottilissima, dal momento che anche la qualificazione del fatto si risolve in un giudizio di diritto.
Paolo Carpentieri ci ha ancora una volta offerto una raffinata lezione storico-filosofico-giuridica sulla discrezionalità, anzi sulle discrezionalità, rimarcando la variabilità dei relativi confini, richiamando le origini della categoria e ricercandone la ratio nella scuola dei neo francofortesi e dei neo pragmatisti.
Sottolinea che la questione dell’ambito della discrezionalità sia annosa e irrisolta: la discrezionalità è l’essenza della funzione amministrativa e, di conseguenza, sconta le sue diverse epistemologie; inoltre si è forgiata nelle aule di giustizia e risente della “coperta troppo corta o troppo lunga” sul tipo di sindacato.
Osserva poi che ci sono comunque varie tipologie di discrezionalità in base ai vari tipi di funzione e che la distinzione non è solo tra discrezionalità pura, che si riscontra nel raffronto tra i diversi interessi (ravvisabile a suo avviso anche nei pareri espressi dalle Sovrintendenze in sede di conferenza di servizi) e di discrezionalità tecnica, in cui questo raffronto manca, ma anche tra i diversi tipi di discrezionalità tecnica, a seconda che investa le scienze tecniche e quelle sociali: e questo si riflette sul sindacato, inevitabilmente differenziato.
Sono considerazioni che trovano riscontro nell’indubbia incertezza giurisprudenziale sulla categoria, che porta in molti casi al già criticato arretramento e che conseguentemente non mancano di destare preoccupazione sul fronte dell’effettività della tutela.
Opportunamente Andreina Scognamiglio ha commentato la Relazione sottolineando l’importanza del controllo giurisdizionale e della partecipazione procedimentale.
Bruno Tonoletti ha sottolineato l’opportunità di un approccio descrittivo: la giurisprudenza deve essere prima conosciuta e compresa per poter effettuare considerazioni di ordine prescrittivo.
Ha peraltro preliminarmente rilevato che la problematicità risiede nella contiguità con l’applicazione delle norme che regolano queste ipotesi, ma non dettano un criterio esaustivo della valutazione dei fatti e sembrano quindi affidare la valutazione all’Amministrazione in sede di cura del pubblico interesse e questo determina la posizione del Giudice sull’insindacabilità, ma l’esigenza di conformità alla norma spinge in senso opposto verso la sindacabilità.
Per rispettare entrambe le specificità -valutazione del p.i. riservata all’Amministrazione- e controllo del rispetto della norma -riservato al Giudice- è quindi importante la considerazione dell’effettivo sindacato sul caso singolo, ponendo attenzione al rigore del controllo sulla adeguatezza o meno della motivazione del provvedimento impugnato, compiuto dal Giudice sulla base dei fatti di causa, all’esito di apposita istruttoria.
Il nostro Relatore rimarca quindi l’importanza delle cd “interpretazioni definenti”, che, specificando i concetti indeterminati utilizzati dalla legge per definire i presupposti del provvedimento, consentono al Giudice di effettuare un test di coerenza della decisione del caso concreto con la norma attributiva del potere. Per quanto riguarda l’autonomo accesso del Giudice al fatto di fronte a valutazioni amministrative opinabili, ferma poi l’accento sulla verificazione, sottolineando il ruolo fondamentale della dialettica tra le parti per fare emergere la verità processuale.
In conclusione, con riferimento al sindacato sull’attendibilità della valutazione tecnica, sottolinea che la nota sentenza 601/99 non ha affermato un sindacato forte, di carattere sostitutivo, ma solo un sindacato sulla resistenza della decisione al vaglio del criterio tecnico-scientifico pertienente, osservando come a volte, invece, il Giudice affermi che basta un “basso livello di plausibilità” della decisione (es. caso in tema di misure di emergenza ambientale), seguendo il criterio del “più probabile che non”, e libera così l’Amministrazione dall’onere probatorio, mentre altra giurisprudenza, a fronte della prova di inattendibilità data da una perizia di parte, afferma la necessità di disporre una verificazione (es. caso in materia di compatibilità paesaggistica).
Riprendendo lo spunto iniziale, chiude il ragionamento nel senso che i giudici devono conservare margini di manovra per adattare il sindacato alle particolarità dei singoli casi concreti, ma proprio per questo la dottrina deve esercitare un’attenta vigilanza sulla coerenza delle pronunce giurisdizionali su casi simili e sulla loro rispondenza ai requisiti costituzionali della tutela del cittadino nei confronti del potere amministrativo.
Antonio Barone ha inizialmente sottolineato l’importanza della pianificazione e la tradizionale posizione di self restraintdel GA sulle scelte di piano, modificata nel tempo.
Ha quindi rilevato come ormai, peraltro, ci sia un nuovo modello pianificatorio orientato al risultato (“ortodossia finanziaria”), di cui il PNRR è l’emblema, con i forti condizionamenti che ha posto, a causa del “cigno nero” costituito dalla pandemia. E la fortissima limitazione che ne è derivata: alla discrezionalità amministrativa, ma anche ai poteri del GA, fortemente erosi dal nuovo rito speciale per le controversie sugli atti attuativi del PNRR introdotto, in sede di conversione in legge, dall’art. 12-bis d.l. n. 68 del 2022.
In termini più generali, Barone ha nettamente criticato, come molti di noi, l’art 125 cpa -nato come norma eccezionale e divenuto la regola- e l’ingiusta trasformazione della tutela ripristinatoria in quella risarcitoria: e il suo contrasto con il diritto dell’Unione Europea. Suggestiva l’affermazione: “ecco il nuovo cigno nero: nel campo dei diritti presi sul serio, un ambito di ineffettività della tutela giurisdizionale”.
Tornando alla pianificazione, Barone conclude nel senso che il GA deve sindacare il rispetto del piano (anche per condotte omissive).
Sergio Perongini, nel ricordare in apertura due importanti elementi caratterizzanti della nostra tradizione accademica (la sottoposizione, attraverso i nostri lavori, al giudizio complessivo dell’Accademia, di cui siamo interpreti e il senso di umiltà nel dialogo con i ns maestri, anche scomparsi), ha affrontato, anche in forza della sua duplice esperienza di giudice e di avvocato, il delicatissimo tema delle interdittive antimafia e dei limiti del sistema di tutela, soprattutto per la mancanza di adeguate garanzie procedimentali e di adeguata istruttoria da parte del Prefetto, rimarcando che essa dovrebbe essere profonda, concreta e specifica, mentre manca un vero confronto con la realtà.
Riprendendo il tema affrontato da Tonoletti, Perongini osserva che la valutazione è una attività di sussunzione e trattandosi di attività di interpretazione delle norme, il sindacato deve essere pieno, ma rileva, con apprezzamento, che il GA ha recuperato nel corso del tempo e sta svolgendo un sindacato vero, chiede contezza all’Amministrazione della sussistenza del fatto e della sua rilevanza probatoria.
Il sindacato sulle misure amministrative di prevenzione antimafia è un tema di massima importanza, sul quale con Sergio, Marco Lipari e altri colleghi e magistrati abbiamo aperto un osservatorio di giurisprudenza sul Portale di Diritto amministrativo della Giuffrè: un sindacato che potrebbe e dovrebbe essere vieppiù incisivo in ragione dell’introduzione, con la riforma del 2021, del nuovo modello di controllo alternativo all’interdittiva, che però crea indubbi problemi di rapporto con il controllo giudiziario, di cui condivide i presupposti.
Claudio Contessa ha affrontato il tema dei rapporti tra i due principi introduttivi del nuovo codice dei contratti pubblici (i noti e discussi principi del risultato e della fiducia) e la loro applicazione concreta, con specifico riferimento all’effettivo tasso di innovatività di questi principi sul piano della discrezionalità delle Amministrazioni pubbliche.
Contessa osserva preliminarmente che i suddetti principi (strettamente legati dall’art 1, co 4, sembrano andare nettamente nel senso di una maggiore discrezionalità, allontanandosi dalla tendenza ad amministrare con legge; il che inciderà evidentemente sul sindacato.
Osserva peraltro che il ccp utilizza solo due volte il riferimento alla discrezionalità: quindi è importante il fatto che la colleghi al risultato.
Richiama in particolare la discrezionalità negli affidamenti semplificati e diretti nel sottosoglia (a tale proposito l’Allegato 1 fa per la seconda e ultima volta riferimento alla discrezionalità e non indica i criteri), e quella sui gravi illeciti professionali: nell’individuazione del grave illecito, nella valutazione della sua idoneità a compromettere definitivamente l’affidabilità e l’integrità dell’operatore, e nell’individuazione e ammissione delle prove. Mi preme sottolineare che il sindacato in questo settore è particolarmente importante, per gli effetti devastanti che a volte possono conseguire dall’esclusione, anche per gli effetti che possono derivarne sulle altre gare (soprattutto se disposta da una grande SA per operatori specializzati in determinati settori).
Contessa rimarca poi un aumento della discrezionalità sulla valutazione delle anomalie e si chiede se il principio del risultato possa valere anche come criterio per il GA nella decisione sulla sorte del contratto.
Guido Greco, nell’ultima relazione della sessione pomeridiana, ha affrontato la vexata quaestio dell’eccesso di potere giurisdizionale sindacabile dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8, Cost.
Dopo aver premesso che non bisogna essere vittima degli schieramenti tra accezione dualistica e monistica della giustizia amministrativa, dichiara di essere dualista, ma contesta il fatto che l’istituto si ritiene esistente, ma non applicabile
Ricorda, in particolare, i paletti posti dalla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, preoccupata da alcune tendenze delle SSUU ad allargare l’ambito del co 8 alle interpretazioni contra legem, che però testualmente riconosce che vi sarebbe eccesso di potere giurisdizionale “quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore”.
Ricorda poi la vicenda Randstad e la prevedibilità della sentenza resa dalla CGUE per il tipo di quesiti posti dall’ordinanza di rimessione (la specialità della violazione del diritto UE rispetto al regime della violazione delle norme nazionali: tesi che la CGUE decisamente esclude).
Si chiede, allora, quando c’ è l’invasione della sfera riservata al legislatore? La Cassazione la rinviene, in astratto, quando il Giudice “crea” una nuova norma, ma poi dice che tale situazione non ricorre quando il Giudice, nonostante il tenore letterale, l’ha desunta dalla ratio. Ma allora, quando si versa nell’ipotesi astrattamente configurata?
Sta di fatto che la Cassazione non ha mai riconosciuto un caso concreto di “creazione di una norma nuova”.
Greco si sforza allora, da par suo, di chiarire quando tale ipotesi ricorra, e osserva che il Giudice invade la sfera del legislatore nei casi in cui dà conto della norma che intende applicare (enunciandola), ma questa non è rinvenibile nel dir positivo.
Aggiunge, quindi, come -evidente- “secondo limite” dell’inquadrabilità nella fattispecie dell’art. 111, co. 8, che la costruzione giurisprudenziale non deve essere frutto dell’iter interpretativo che istituzionalmente compete al Giudice; e che, per comprendere se lo sia o meno, occorre guardare alla motivazione, che, per giustificare la portata interpretativa, deve effettivamente dimostrarla e non può essere apparente o contraddittoria, né tanto meno assente.
Passando all’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione, Greco cita la sentenza delle Sezioni Unite n. 12339/2023, che cassa la pronuncia con cui la Corte dei conti aveva rinvenuto un’ipotesi di danno erariale nei confronti di un magistrato in ritardo con i depositi.
A mio parere, il caso è però piuttosto riconducibile all’eccesso di potere nei confronti del legislatore, come lo è la sentenza 1321 del Consiglio di Stato sulla nota vicenda La Macchia di cui aveva parlato Fabio Francario in apertura: in entrambi i casi, la sentenza aveva costruito una regola giuridica non rinvenibile nell’ordinamento positivo. E, dunque, nel primo, potremmo riconoscere la prima sentenza delle SSUU che riconosce un’ipotesi di “creazione” normativa.
Tra le ipotesi di eccesso di potere nei confronti del legislatore -in termini di diniego di giustizia- possono peraltro, a mio avviso, farsi rientrare anche l’arretramento del sindacato sulla discrezionalità tecnica e il rifiuto di sindacare nel merito l’an delle sanzioni pecuniarie.
Sono seguiti gli interventi di Paola Chirulli, che, prendendo le mosse dalla posizione di Eugenio Cannada Bartoli -che negava una separazione netta tra vizi di legittimità e vizi di merito, perché chi agisce deduce la violazione dei principi di buon andamento e di imparzialità di cui all’art 97 Cost.- ha poi osservato che ci sono varie discrezionalità, perché la discrezionalità è dinamica, è “il farsi della scelta” e questo incide sul sindacato, ma questo non significa che non ci siano questioni non decidibili: in sintesi, il Giudice non deve fare una scelta tra più soluzioni attendibili; non deve scegliere l’opinabile, ma (richiamando ancora una volta il Maestro) non perché è merito, ma perché è potere amministrativo; di Paolo Gentili, che ha messo in guardia contro i rischi di un’Amministrazione co-gestita dai Giudici con riferimento agli atti di attuazione del PNRR: se si dà troppa tutela, si ricade nell’ambito del controllo dell’Unione europea, dove la Commissione europea gode di ampia discrezionalità sul rispetto del Piano ed è sufficiente che porti argomenti plausibili per dire che l’attuazione datane sia negativamente incidente sul bilancio UE, senza possibilità di sindacato da parte della Corte di Giustizia; e di Marco Lipari, che ha, dapprima, rappresentato che, con riferimento alla discrezionalità, si possono individuare due tesi estreme e una di mezzo e il magistrato si muove nell’area intermedia, rimarcando poi che nelle decisioni cautelari, il Giudice fa normalmente il bilanciamento tra i diversi interessi e usa spesso l’espressione “è opportuno”, e, poi, sollevato la questione se sia giusto che, in caso di annullamento dell’atto per difetto di motivazione, il procedimento torni al medesimo funzionario (problema che a mio avviso ricorre altresì con riferimento alle valutazioni discrezionali sul possesso dei requisiti del concorrente a seguito dell’apertura delle offerte (anche economiche) e, in termini più generali, sulla possibilità di una motivazione della sentenza più mirata sull’esito della rivalutazione.
4. Sui lavori della terza sessione (Giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza).
Pino Caia, in apertura della presidenza dell’ultima sessione, ha sottolineato che il fattore orientante del momento odierno è la coesione, anche istituzionale e che occorre guardare non solo alle norme, ma anche all’organizzazione, in funzione della società civile.
Piera Vipiana, chiamata ad affrontare il tema della portata dell’art. 34, c. 1 lett. e, cpa, ha sottolineato che la novella costituisce un’importante risorsa contro il malcostume della p.a. di disattendere le pronunce dei giudici amministrativi, rimarcando peraltro l’importanza della precisazione “nei limiti della domanda”, sicché, quando la giurisprudenza va oltre tali limiti, opera contra legem e incorre in un vizio di ultrapetizione. Ha osservato peraltro che la disposizione non ha conseguenze sulla natura giuridica del giudizio di cognizione, perché non implica una giurisdizione estesa al merito, ma aggiunge solo un potere accessivo e dipendente rispetto ai poteri cognitori del caso concreto.
Marco Magri ha chiuso il nutrito gruppo delle relazioni, occupandosi del divieto di pronunciarsi con riferimento a poteri «non ancora esercitati», quale espressione del divieto di sostituzione generalizzata del giudice all’amministrazione e del principio di separazione dei poteri.
Magri muove dal rilievo che, a differenza del giudizio su poteri mai esercitati, quello su poteri già esercitati attraverso l’atto illegittimo, ma non ancora ri-esercitati, non solo non è precluso dall’art. 34, co. 3 (né dal principio di separazione dei poteri), ma è consentito in forma sostitutiva dall’art. 34, co. 1 lett. e c.p.a.; norma che andrebbe collocata entro una più ampia tendenza giurisprudenziale a valorizzare gli effetti costitutivi “puri” della sentenza di annullamento, riconoscendone l’operatività anche sul terreno propriamente conformativo (si citano ad esempio gli orientamenti sostanzialistici in tema di individuazione della domanda in caso di ricorso con pluralità di censure; di applicazione del principio iura novit curia; di rilevanza delle sopravvenienze fattuali in corso di giudizio, di modificazione della domanda, di conversione delle azioni).
Conclude poi osservando che la Costituzione, nel demandare alla legge la disciplina dei «casi» e degli «effetti» della sentenza di annullamento (art. 113, co. 3), tollera diversi sviluppi e non sarebbe impensabile configurare la sentenza di annullamento come pronuncia costitutiva che “esaurisce” il potere, quanto meno nel senso di attribuire immediatamente al potere giudiziario, per effetto della sentenza di annullamento, la responsabilità della sua cd. riedizione, purché sia garantita la legalità, l’imparzialità e la completezza decisionale dell’organo attuatore.
La scelta, secondo Magri, non arrecherebbe alcun vulnus alla separazione dei poteri, ben potendo il canone di effettività della tutela superare le vecchie teorie formalistiche della assoluta e categorica incapacità della funzione giurisdizionale di svolgersi nelle forme del procedimento.
5. Sui lavori della sessione finale (gli interventi).
Sono seguiti gli interventi di Chiara Cacciavillani (che, con voce in controcanto, ha ampiamente apprezzato la sentenza sul caso La Macchia, osservando che giustamente il Consiglio di Stato aveva “sanzionato” l’Amministrazione (nella specie le commissioni ASN) perché, esprimendo tre giudizi illegittimi, aveva rotto il rapporto di fiducia (e meritava quindi una sanzione esemplare, ancorché non prevista dall’ordinamento), di Vincenzo Caputi Iambrenghi, che ha rimarcato che il GA deve assicurare la giustizia nell’Amministrazione (tema, come noto, a me particolarmente caro), di Francesco Cardarelli, che ha ripreso il tema dei principi introdotti nei primi due articoli del nuovo ccp, sollevando il problema dei rapporti con la legge delega (che non parla di risultato e di fiducia, ma solo dell’accesso al mercato, che è l’obiettivo per il diritto dell’Unione europea, cui gli Stati membri si devono conformare) e osservando che, quanto al riflesso sul sindacato giurisdizionale, i margini di discrezionalità sulla sorte del contratto sono già nell’art 122 cpa: è una valutazione di complessiva efficienza economica nella proposta di transazione; di Michele Comporti, che, esprimendosi in termini critici sulle tecniche di tutela come il one shot temperato o l’estensione del giudicato al dedotto e al deducibile, aporia del riconoscimento di un bene della vita di cui non sia stato accertata l’effettiva spettanza nel procedimento o nel processo, a danno dell’interesse pubblico e della collettività, ha affermato che nel giudizio amministrativo dovrebbero meglio emergere anche gli elementi di fatto, valorizzando l’azione di accertamento della spettanza, per dare direttive più nette al prosieguo dell’azione amministrativo, perché si può esercitare un sindacato forte sulla discrezionalità con maggiore contenuto conformativo senza invadere il campo dell’amministrativo effettuando un’istruttoria più completa, con difese più complete e verificazioni, ma il problema sono i tempi, che costringono a una tutela formale e non effettiva; di Anna Corrado, che ha richiamato la nostra attenzione sulla posizione del GA di fronte alle procedure automatizzate e sull’ambito della cd “riserva di umanità”, ponendoci domande come “Quanto serve davvero accedere al cd codice sorgente? Cosa deve garantire il GA quando gli viene chiesto l’accesso ai dati e alle procedure digitali? Si può fare un’istruttoria riservata?” e sottolineando che il Giudice deve essere pronto a fare un sindacato diverso, che tenga conto di questa nuova realtà (temi su cui Pino Caia ha opportunamente richiamato la Berlin Declaration sulla società digitale, ma fondata sui valori); di Paola Di Cesare, che, con riferimento al sindacato sugli atti del GSE, ha, per un verso, confermato come il GA eserciti un sindacato a diversa intensità a seconda della funzione espletata dall’Amministrazione e, per l’altro, ripreso il tema primario del vuoto legislativo, che, lasciando ampi margini di amplissima discrezionalità amministrativa, lascia interamente al Giudice la funzione di delimitarla; di Vittorio Domenichelli, che ha sottolinea l’importanza della fiducia e ha affrontato il problema della discrezionalità della macchina e, correlatamente, dell’attribuzione della responsabilità per i suoi errori; di Giancarlo Montedoro, che ha posto l’accento sull’atto politico e sul conseguente confine del sindacato giurisdizionale, perché “un buon mondo è un mondo dove non tutto è giustiziabile” e “La politica è ciò che ci fa soggetti”; di Aristide Police, che ha ripreso il tema dei principi del ccp, a difesa della legalità di risultato, sostenendo la discrezionalità del Giudice nelle modalità di tutela, che può non essere di annullamento, a vantaggio dell’Amministrazione, che potrà comunque eseguire i servizi messi a gara (si tratta di un posizione che ho già più vote criticato e che mi sembra oltremodo pericolosa, come dimostrano tragici esempi di cattiva manutenzione di opere o di inadeguato espletamento di servizi di trasporto, per non parlare dei rischi derivanti, anche in campo medico, dall’inadeguatezza delle forniture); di Giuseppe Severini, che ha invece rilevato che il principio del risultato è un principio non totalizzante e ha richiamato l’attenzione sul principio di ripristino dell’equilibrio contrattuale sancito dagli artt 9 e 120 del nuovo ccp; di Raffaele Sestini, che ha osservato che il GA può estendere il proprio giudizio al sindacato estrinseco sul rapporto tra interesse pubblico e interesse privato nel rispetto della legge (interna e UE) alla stregua dei principi costituzionali ed eurounitari e, se resta in questi parametri, non entra nella sfera della pA, dal momento che il potere del Giudice che attiva una valutazione di ragionevolezza estrinseca del provvedimento si giustifica in base agli artt 1, 2 e 3 Cost e al principio di effettività della tutela: entra nel merito della decisione, ma non la sostituisce; di Dario Simeoli, il quale, con riferimento ai diversi livelli di intensità del sindacato, ha affermato che tutte le valutazioni complesse che riguardano le sanzioni amministrative non rientrano nella discrezionalità, mentre nelle valutazioni complesse sulla regolazione si configura una situazione di immunità che il Giudice non può superare, incontrando il limite dell’attendibilità, che la parte può tuttavia contestare, offrendo così al Giudice elementi per negarla, e, con riferimento ai poteri esercitabili in forza dell’art. 34, lett. e, cpa, ha osservato che il GA può proseguire il giudizio fino al raggiungimento del risultato pratico, senza che occorra un’azione specifica (fermi comunque i limiti della domanda) e che, diversamente dal Giudice civile, può accertare anche il diritto all’ottenimento di beni strumentali, non solo finali; e, infine, di Francesco Volpe, che si è espresso in termini nettamente critici sul cpa, ritenendo che esso abbia alterato gli equilibri della giurisdizione senza averne la delega, trasformando il GA in una super amministrazione e cambiando il fondamento dello Stato di diritto.
6. Breve notazione conclusiva (con rinvio al saggio Brevi considerazioni sulla discrezionalità amministrativa, nell’ultima edizione di Principi e regole dell’azione amministrativa)
Aggiungo solo poche brevissime parole di conclusione personale, rinviando per alcune ulteriori riflessioni al capitolo Brevi considerazioni sulla discrezionalità amministrativa (che aggiorna e sviluppa il testo di una lezione distribuito ai presenti alle Giornate) aggiunto nella IV edizione del volume “Principi e regole dell’azione amministrativa”, in corso di stampa per i tipi della GiuffrèFL.
Ancora una volta, mi sembra che il confronto sia stato estremamente utile: in termini di estrema sintesi, possiamo dire che il legislatore sta forse riallargando l’ambito della discrezionalità amministrativa e che l’effettività del suo sindacato è essenziale alla tenuta dello Stato di diritto e alla tutela dei nostri diritti e interessi civili, sociali ed economici.
I problemi principali emersi dal dibattito possono così riassumersi:
-esigenza di rispettare i confini della giurisdizione, nei confronti dell’Amministrazione, ma anche -e, direi, soprattutto, nei confronti del Legislatore: il GA, pur bravissimo nel redigere norme, non è costituzionalmente e democraticamente legittimato a farlo;
-si riscontra invece un eccessivo arretramento nel sindacato sulla discrezionalità, soprattitto tecnica, per la quale la giurisprudenza utilizza sintomaticamente le stesse formule riduttive “macroscopica irragionevolezza, manifesto travisamento dei fatti, macroscopico errore nei presupposti” coiate per limitare il sindacato sulla discrezionalità pura e troppe volte nelle sentenze si rinviene l’espressione “amplissima discrezionalità tecnica”, che è chiaramente un ossimoro;
-si rileva la necessità di un’istruttoria più attenta sui fatti e fare un maggiore -e migliore- utilizzo delle verificazioni e delle CTU;
-occorre, comunque, una istruttoria particolarmente attenta e profonda sui fatti, quando il Giudice si sostituisce alla pA o, sospendendo o annullando i provvedimenti che intervengono su situazioni di pericolo, le lascia “senza rete” (come negli esempi fatti nella relazione introduttiva di Fabio Francario);
-esigenza di rispettare il principio (e i limiti) della domanda.
Chiudo, ricordando le importanti -e, mi sia consentito dire, coraggiose- considerazioni espresse dalla III Sezione del Consiglio di Stato sotto la Presidenza dell’illustre e compianto Franco Frattini -che fu poi insigne Presidente del Consiglio di Stato e alla cui memoria mi permetto di dedicare queste Conclusioni- nell’ampia e argomentata ordinanza n. 7097/20 (su cui si v. il commento di G. Strazza, in Giustiziainsieme, 13 gennaio 2021) di sospensione del provvedimento con il quale l’AIFA aveva limitato la prescrittibilità dell’idrossiclorochina.
In particolare, invocando un potere di sindacato “intrinseco” sulla discrezionalità tecnica, anche nei confronti delle Autorità indipendenti, il Collegio (pres. Frattini est Noccelli) ha espressamente osservato che “la c.d. riserva di scienza che compete ad AIFA non si sottrae al sindacato del giudice amministrativo, nemmeno in sede cautelare e meno che mai nell’attuale fase di emergenza epidemiologica, per l’indefettibile esigenza, connaturata all’esistenza stessa della giurisdizione amministrativa e consacrata dalla Costituzione, di tutelare le situazioni giuridiche soggettive, a cominciare da quelle che hanno un radicamento costituzionale come il fondamentale diritto alla salute, a fronte dell’esercizio del potere pubblico e, dunque, anche della discrezionalità c.d. tecnica da parte dell’autorità competente in materia sanitaria”. E, in termini più generali, ha sottolineato che “Il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela delle situazioni giuridiche effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di una autorità indipendente, non può essere perciò limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall’amministrazione indipendente, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, in specie rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere. 9.3. In tale contesto, per quanto attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’autorità indipendente, il giudice amministrativo non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della salute che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato. 9.4. Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a verificare se l’autorità abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito al giudice amministrativo, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali.
9.5. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione nelle sue determinazioni (cfr. ad es. Cons. St., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5559).
029.6. Per usare altri termini il giudice amministrativo deve poter verificare che l’amministrazione abbia applicato in modo corretto alla vicenda concreta, in conformità ai principî proprî del metodo scientifico prescelto (iuxta propria principia), le regole del sapere specialistico applicabili al settore dell’attività amministrativa sottoposta all’esercizio del potere regolatorio, ad evitare che la discrezionalità tecnica del decisore pubblico trasmodi in un incontrollabile, e dunque insindacabile, arbitrio (v. Cons. St., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5707 e Cons. St., sez. III, 2 aprile 2013, n. 1856)”.
Si tratta, come è agevole rilevare, di affermazioni estremamente importanti, che possono e devono costituire una guida per affrontare al meglio le questioni emerse in questo incontro.
Sommario: 1. Introduzione: la ratio della L. 533/1973. - 2. Gli attuali costi della giustizia del lavoro. - 2.1. Art. 92 c.p.c. Regolazione delle spese processuali. - 2.2.1. La sentenza della C. Cost. n. 77/2018. – 2.2.2. La questione fiscale. – 3. Il contributo unificato – 4. Costi del processo esecutivo ed effetto moltiplicatore. – 4.2. Le recenti riforme in materia di procedura esecutiva. - 5. Art. 614bis c.p.c. – Una tutela negata. - 6. Patrocinio a spese dello Stato.
1. Introduzione: la ratio della L. 533/1973.
Il tema dei costi dell’accesso alla giustizia è divenuto di preminente e crescente interesse per avvocati ed avvocate del lavoro e, in particolare, per le difese pro labour. Non possiamo nasconderci, infatti, che esso impatta in modo più significativo sul lavoratore, rispetto al datore di lavoro. E ciò per diverse ragioni su qui si cercherà di scrutinare.
Nel 50° anniversario del processo del lavoro, parlare di costi della giustizia giuslavoristica significa domandarsi cosa è rimasto dell’impianto voluto dal Legislatore del 1973.
Questa relazione ha offerto la preziosa occasione di rileggere testi e commenti di quegli anni e ricordare le istanze e i valori che avevano portato a concepire – solo per il diritto del lavoro - un processo ad hoc, speciale, caratterizzato da peculiari principi (concentrazione, oralità, identità del giudice, specializzazione del giudice, accertamento della verità fattuale, interesse pubblico all’applicazione del diritto del lavoro, gratuità) e quale era (ed è) la ratio della L. 533/1973. Richiamando questi principi, la migliore Dottrina ha parlato di “coraggiosa concezione chiovendiana del processo” (TARZIA).
Un processo, sia detto sin da subito, oggi se non radicalmente snaturato, che di certo si è “inceppato”, per usare le efficaci parole di FONTANA.
Il processo del lavoro, infatti, era stato concepito come strumento “tutelare” in un rapporto giuridico davvero peculiare, qual è quello di lavoro (subordinato e parasubordinato), e come sede di accertamento e riconoscimento di diritti che non hanno una dimensione soltanto individuale (rigorosamente legata alle singole parti in causa), ma anche sociale. Le istanze portate all’attenzione del giudice del lavoro, in altre parole, erano (e sono) istanze di gruppi sociali o che, comunque, riverberano su gruppi e rapporti sociali.
Attribuire una funzione “tutelare” al processo vuol dire, inoltre, approntare strumenti in grado di consentire alla parte debole del rapporto processuale (la parte, appunto, bisognosa di tutela) di sentirsi garantita dall’ordinamento (ancora FONTANA) e di potersi muovere nel riconoscimento di tale inferiorità e debolezza, anche contrattuale, rispetto all’altra parte.
Nell’ambito del diritto antidiscriminatorio, con una felicissima espressione, si parla di “diritto diseguale” perché, come noto, l’art. 3 della Cost. disegna l’eguaglianza non soltanto come parità di trattamento di situazioni simili, ma anche e soprattutto come dovere di non trattare in modo analogo situazioni tra loro differenti: principio di eguaglianza sostanziale.
Il processo del lavoro del 1973, in quest’ottica, è stato concepito proprio come “tutela differenziata” in attuazione del principio di effettività della stessa. Il processo, infatti, è un mezzo e non un fine e un diritto non effettivo - perché non adeguatamente tutelato - è un non diritto.
I principi fondanti la riforma del 1973 e su richiamati, tuttavia, risultano frustrati dalle più recenti riforme, che rispondono ad esigenze di deflazione, efficienza e asettica celerità del processo, più che a quelle di effettività della tutela dei diritti; esigenze che, peraltro, da un lato, mal si conciliano con la ratio della norma degli anni Settanta del secolo scorso, e, dall’altro – ad eccezione della prima - non sono stati ad oggi neppure raggiunti.
Sta di fatto che l’attenzione del Legislatore si è spostata dalla funzione tutelare (e di eguaglianza sostanziale) al formalismo e all’imperio delle norme di rito, che spesso si risolvono in meri ostacoli all’esercizio del diritto apparendo, sovente, fini a sé stessi. Il processo da sede di mediazione di conflitti sociali, si è trasformato in arena per confronti sempre più tecnici e, appunto, formali, dove la verità sostanziale e la materia del contendere non sempre giunge ad esame e, quando vi giunge, sconta ulteriori formalismi tipici del processo civile ordinario. In altre parole, il processo del lavoro è sempre più concepito, alla prova dei fatti, come un processo civile tra parti assolutamente eguali, cieco rispetto a quella strutturale e ontologica disparità sociale, economica, giuridica e anche processuale che caratterizza, viceversa, le parti del rapporto di lavoro subordinato e che si cercherà di esaminare nei suoi diversi aspetti.
In questa scia si colloca uno degli effetti più dirompenti dello snaturamento del processo del lavoro: la sua onerosità, tutta nuova, con azzeramento e tradimento del carattere cardine della gratuità, che consentiva l’accesso alla giustizia a tutti, anche alle categorie di lavoratori più soli e poveri e, dunque, rispondeva appieno all’esigenza di effettività più volte richiamata.
L’onerosità del processo è stata variamente e pervicacemente perseguita con le riforme degli ultimi 12-15 anni, in materia di: i) contributo unificato (d.l. 98/2011 art. 37 c. 6 lett. b), che modifica l’art. 9 DPR 115/2002), ii) condanna al pagamento del doppio del C.U. in caso di soccombenza (L. 228/2012), iii) svariate e successive modifiche all’art. 92 cpc, in tema di regolamento delle spese processuali (da ultimo, D.L. 132/2014), iv) riforme del processo esecutivo del 2014 e del 2021 (nuovo art. 26bis cpc e nuovo n. V dell’art. 543 cpc), v) contributo unificato anche per procedure esecutive e concorsuali (Circ. Min. 9/1/2023).
Ma non solo. Prima di esaminare distintamente i costi sopra elencati, è utile ricordare che hanno – per quanto indirettamente – reso più oneroso il processo del lavoro, sempre con particolare riferimento alla parte debole del rapporto, anche:
- l’introduzione del c.d. rito Fornero (art. 1 c. 48 e ss. L. 92/2012), che ha di fatto introdotto un grado di giudizio in più, con evidenti maggiori oneri e rischi per la parte ricorrente. Oggi, con sollievo degli operatori, abrogato;
- le riforme del giudizio in Cassazione: dal 2006 ad oggi. Da ultimo il d.lgs. 149/2022, per quanto rileva ai nostri fini, ha introdotto il nuovo art. 380bis cpc, che disciplina l’istituto della ‘proposta di definizione del giudizio’ e prevede la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 cc. 3 e 4 cpc a carico della parte che non aderisce alla proposta e (semplicemente) chiede la decisione della causa. Con evidente intento punitivo il Legislatore sembra aver voluto sanzionare il mero esercizio di un diritto. Di tale istituto si è già avuta una prima applicazione con la recentissima ordinanza Cass. n. 18351 del 27/6/2023.
2. Gli attuali costi della giustizia del lavoro.
Ma esaminiamo singolarmente le norme che hanno reso (particolarmente) oneroso il processo del lavoro e ne hanno sensibilmente compromesso l’effettività di tutela, sopra elencate.
2.1. Art. 92 c.p.c. Regolazione delle spese processuali.
Tradizionalmente la gratuità del processo del lavoro è stata intesa come applicazione ponderata del principio della soccombenza ed utilizzo dell’istituto della compensazione parziale o, più spesso, totale delle spese in favore del lavoratore-soccombente, mediante il richiamo ai “giusti motivi” di cui al comma 2 dell’art. 92 cpc.
Tale compensazione era intesa come espressione di quell’equità sostanziale e valorizzazione delle particolari condizioni personali delle parti.
Nel 2005, un primo intervento normativo ha imposto che i detti “giusti motivi” di compensazione fossero adeguatamente motivati del giudice. Mentre nel 2009 con la L. n. 69 la compensazione delle spese di lite è stata subordinata alla verifica (motivata) dell’esistenza di “gravi ed eccezionali ragioni”.
Di fatto, tuttavia, nelle prassi dei Tribunali non era cambiato molto si continuava a valorizzare la particolare condizione della parte più debole del processo e la sua posizione di inferiorità economica, sociale e processuale.
É con la riforma del 2014 (L. 162/2014) che, viceversa, si è avuto un netto cambio di passo, con l’azzeramento di ogni discrezionalità del giudice e la previsione della compensazione delle spese processuali in due soli tassativi casi: “assoluta novità della questione” e “mutamento giurisprudenziale rispetto ad una questione dirimente” (oltre all’ipotesi di soccombenza reciproca, passato indenne alle varie novelle).
La nuova disciplina è stata giustificata con la necessità di porre un freno alla sistematica compensazione delle spese di lite, diffusa nei Tribunali del lavoro. In verità, lo scopo ultimo era quello di deflazionare il contenzioso civile che aveva raggiunto, nel suo complesso, numeri francamente abnormi. Con la riforma indiscriminata e indifferenziata dell’art. 92 cpc, tuttavia, si sono equiparate le cause di lavoro a certo bagatellare contenzioso civile, ove la litigiosità non è di certo affermazione di conflitti sociali, né ha un rilievo pubblico equiparabile a quello proprio del diritto del lavoro.
L’effetto deflattivo si è senz’altro prodotto ed è stato anche importante: la Banca d’Italia stima nel 50% la riduzione del contenzioso tra il 2010 e il 2016 e il Ministero della Giustizia valuta come dimezzato anche il contenzioso del lavoro tra il 2012 e il 2021, con punte dell’80 - 90% in materie quali i contratti a termine e i licenziamenti. Nel nostro settore, però, ciò ha di fatto determinato un accesso differenziale alla giustizia: la deflazione, infatti, non ha avuto le stesse conseguenze su tutte le parti processuali, essendo - per svariate ragioni - significativamente più contenuto per la parte datoriale (che, peraltro, molto raramente avvia il giudizio e, dunque, trae ulteriore e indiretto vantaggio dall’inerzia del lavoratore).
L’intervento della C. Cost. del 2018 (con la nota sentenza n. 77/2018), oltre che tardivo, perché ormai nei Tribunali si erano instaurate prassi consolidate di automatica e, in alcuni casi, severa condanna al pagamento delle spese processuali, è stato solo parzialmente efficace, per quanto si dirà.
Ai sensi del nuovo art. 92 cpc, dunque, la regolazione delle spese, era svincolata da qualunque ponderazione discrezionale del magistrato, e legata esclusivamente al criterio fattuale della soccombenza. Mentre la compensazione era vincolata all’accertamento della sussistenza delle due tassative ipotesi sopra richiamate. Nessun rilievo veniva dato ad altre dirimenti circostanze di giustizia sostanziale quali, ad esempio:
- la diversa vicinanza alla prova e la indisponibilità della stessa in capo alla parte che spesso è gravata del maggior onere probatorio
- le diverse condizioni economiche delle parti
- il comportamento pre-processuale e processuale delle parti
- il differente regime fiscale dei contendenti.
All’indomani dell’entrata in vigore della riforma, alcuni Autori, confermando il carattere tassativo dell’elencazione di cui al comma 2 dell’art. 92, ne avevano evidenziato i profili di illegittimità costituzionale (tra i molti, SCARSELLI, SCARPELLI); per altri e per una parte della giurisprudenza, viceversa, la norma non escludeva il potere del giudice di compensare le spese in tutte le ipotesi di c.d. soccombenza “incolpevole”: mancando nella norma avverbi quali “solo”, “esclusivamente”, “soltanto” l’elencazione non poteva considerarsi tassativa ammettendo una interpretazione costituzionalmente orientata (così, Trib. Torino n. 2259 del 13/2/2017 – est. Mollo).
Altra parte della giurisprudenza, aderendo al primo indirizzo, aveva viceversa ritenuto la nuova disciplina costituzionalmente illegittima, sollevando pertanto le relative questioni anzi al giudice delle leggi: così il Tribunale di Torino, ord. 30/1/2016, est. Ciocchetti (secondo cui la norma che non lascia discrezionalità al giudice “scoraggia in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria (…) divenendo così uno strumento deflattivo incongruo”) e il Tribunale di Reggio Emilia, ord. 28/2/2017, est. Vezzosi (secondo cui la decisione sulle spese è sì la parte finale della pronuncia, “ma non di minor giustizia” e, pertanto, al giudice deve essere lasciata “la possibilità di valutare discrezionalmente le vicende oggettive e soggettive portate alla sua attenzione nel corso della causa ed a causa del processo”. Il Tribunale emiliano ha altresì lamentato la violazione dell’art. 3 c. 2 Cost. e delle norme sovranazionali in materia di parità di trattamento, sottolineando la disuguaglianza determinata dal mancato rilievo dato alle condizioni personali delle parti processuali nel processo del lavoro (e, in specie, del lavoratore).
Se, infatti, in genere il processo è strumento di esercizio e affermazione del diritto, il processo del lavoro è ‘più strumentale’ degli altri, proprio nell’ottica dell’affermazione di quella giustizia sostanziale, ampiamente sopra richiamata. Ne consegue che anche la pronuncia in materia di spese processuali risponde all’esigenza di effettività della tutela; esigenza particolarmente avvertita nel processo del lavoro, in cui l’attore è (quasi) sempre il lavoratore, cioè la parte che ha già subito gli effetti del provvedimento e/o comportamento datoriale oggetto di giudizio.
2.2.1. La sentenza della C. Cost. n. 77/2018.
La C. Cost. con la sentenza n. 77/2018 ha ribadito l’ampio potere discrezionale del Legislatore in materia di norme processuali e, dunque, anche in tema di regolazione delle spese di lite, ma ha ritenuto che la – evidente – tassatività delle ipotesi di compensazione (totale o parziale) delle stesse sia irragionevole nella misura in cui lascia fuori altre analoghe fattispecie di incertezza processuale. Fattispecie che, dunque - a parere della Corte - potranno essere valorizzate dal giudice benché soltanto con un procedimento di raffronto con quelle tipizzate dal Legislatore, che fungono da paradigma normativo.
La tassatività e il rigore della formulazione originaria dell’art. 92 cpc, viceversa, traducendosi in un indebito strumento deflattivo, per la Corte “può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti”.
Con riferimento alla specifica condizione processuale della parte debole, pur rimarcata dal Tribunale di Reggio Emilia, la Corte è stata, viceversa, tranchant nell’escludere che possa di per sé rilevare e che non tenerne conto possa considerarsi una violazione dell’art. 3 Cost.
La sentenza 77/2018, infatti, richiama più volte il principio della par condicio processuale di cui all’art. 111 Cost., e l’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente (secondo il principio del ‘chi perde paga’), seguendo una logica squisitamente formale; e nel rapporto tra l’art. 111 Cost. (eguaglianza formale) e l’art. 3 c.2 Cost. (eguaglianza sostanziale) sembra decisamente il primo a prevalere.
Tale pronuncia, dunque - che pur è stata accolta con favore per le aperture all’interpretazione analogica dei parametri di cui al comma 2 dell’art. 92 cit. - non dirime, tuttavia, la questione nevralgica della diseguaglianza sostanziale tra le parti nel processo del lavoro.
La Corte, infatti, sembra arrestarsi a valutazioni puramente astratte e del tutto disancorate dalla realtà socio-economica e giuridica in cui si muovono le parti del rapporto e del processo del lavoro e dalla disuguaglianza strutturale e normativa delle stesse.
Per convincersi di ciò, infatti, è sufficiente – ma necessario – ricordare che, nel rapporto di lavoro:
- una sola parte (il datore di lavoro) può unilateralmente modificare le condizioni esecutive del rapporto;
- i provvedimenti unilateralmente assunti dalla parte datoriale sono immediatamente efficaci ed immediatamente esecutivi ai danni dell’altra, senza necessità di ricorso al giudice, siano essi atti legittimi o illegittimi;
- le valutazioni delle esigenze aziendali, fatte - come ovvio - esclusivamente dal datore non devono essere comunicate o condivise con il lavoratore;
- la parte datoriale ha il potere di sanzionare l’altra e, financo, di soddisfare autonomamente le proprie pretese creditorie (ad esempio, trattenendo direttamente dalla retribuzione somme che assume dovutegli dal lavoratore);
- il lavoratore è costretto a munirsi di un titolo giudiziale per soddisfare qualsivoglia credito;
- il lavoratore non può sollevare l’eccezione di inadempimento, se non in casi ridottissimi (e a tutela di diritti fondamentali: v. art. 44 d.lgs. 81/2008);
- nel processo, il lavoratore è la parte onerata della prova nella maggior parte delle controversie e spesso non ha la disponibilità della stessa;
- già a monte, nell’attuale contesto economico, la sola parte datoriale ha la forza di decidere an, il quando e il quomodo nella stipula del contratto di lavoro e delle clausole più rilevanti.
Di tutto ciò la Corte non ha tenuto né dato conto, risolvendo la pur sollevata questione della debolezza economica del lavoratore con il richiamo agli strumenti di accesso alla giustizia per i non abbienti, approntati dall’ordinamento (gratuito patrocinio e – parziale - esenzione dal pagamento del contributo unificato per i percettori di redditi sotto una certa soglia).
La prova che tali strumenti non sono affatto idonei a calmierare l’effetto marcatamente deflattivo della condanna al pagamento delle spese processuali è dato dalla circostanza fattuale (dirompente) del crollo reale del contenzioso civile, e del contenzioso del lavoro in particolare, negli ultimi anni.
2.2.2. La questione fiscale.
Nella sentenza in commento, del tutto obliterata risulta, infine, la pur rilevante questione fiscale.
Il datore di lavoro–imprenditore, infatti, ha un regime fiscale significativamente diverso da quello del lavoratore-persona fisica, potendo dedurre dal reddito imponibile d’impresa il costo delle spese processuali (e addirittura detrarre per intero l’IVA così versata da quella dovuta al Fisco): si è valutato che, mentre l’importo delle spese grava sul lavoratore per il 100% (non essendo in alcuna misura deducibile dal reddito da lavoro dipendente o equiparato), per l’imprenditore la percentuale di costo effettivo si riduce sino ad arrivare anche al 50% di quanto effettivamente pagato, ed anche meno per le aziende medio-grandi, per effetto del sistema moltiplicatore del beneficio: più è alto il reddito e, quindi, l’aliquota fiscale, maggiore sarà il risparmio.
D’altra parte, anche in termini assoluti, il medesimo importo liquidato a titolo di spese processuali, incide in misura sensibilmente diversa, sulla capacità economica delle parti, essendo spesso per il lavoratore, e nella stragrande maggioranza dei casi, di molto superiore alla retribuzione mensile. L’incidenza effettiva sulla capacità economica della condanna al pagamento delle spese processuali, infatti, aumenta con il diminuire della retribuzione. Una rappresentazione grafica, può meglio chiarire il punto
REDDITO | INCIDENZA SULLA CAPACITA’ ECONOMICA |
€ 100.000,00 | 5,8% |
€ 10.000,00 | 58,36% |
€ 5.000,00 | 116,72% |
€ 1.000,00 | 583,64% |
3. Il contributo unificato
Ulteriore costo solo recentemente introdotto nel nostro ordinamento, con il D.L. 98/2011 (che ha modificato l’art. 9 del DPR 115/2002), è rappresentato dall’obbligo di pagamento del contributo unificato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa o di qualsiasi altro procedimento giudiziario. Tale contributo rappresenta un costo certo, immediato e, almeno in primo grado, quasi sempre ad esclusivo carico del lavoratore–ricorrente.
Essendo pagato con il meccanismo dell’anticipazione, esso prescinde dalla fondatezza o infondatezza della pretesa ed è l’esempio più diretto del superamento del principio di gratuità della tutela giuslavoristica. Prima ancora di ottenere il riconoscimento del proprio diritto, infatti, il ricorrente deve sostenere un costo.
É ben vero che il Legislatore del 2011 ha previsto la riduzione alla metà dei valori fissati per l’iscrizione a ruolo del processo civile ordinario, nonché un’esenzione dal relativo pagamento per i percettori di redditi non superiori al triplo dell’importo previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (attualmente € 12.838,01 x 3 = € 38.514,03). Tuttavia, occorre considerare che:
a) nel reddito complessivo di riferimento sono considerati non soltanto i redditi del ricorrente, ma anche quelli di tutti i componenti il nucleo familiare (art. 76 c. 2 D.P.R. 115/2002);
b) sino al 2019 non vi era alcuna esenzione per i giudizi innanzi alla Corte di Cassazione: solo la sentenza n. 3298 del 22.5.2019, il Cons. Stato, annullando in parte qua la Circolare Min. Giustizia n. 65934 dell’11/5/2012, ha reso applicabile l’esenzione legata al reddito anche per i giudizi di legittimità;
c) diversamente che per il primo e secondo grado, per i giudizi anzi alla Corte di Cassazione il contributo unificato è particolarmente gravoso, essendo dovuto in misura piena e non ridotta alla metà, (art. 9 c. 1bis ultima parte DPR 115/2002);
d) in caso di soccombenza, tanto in grado di appello quanto all’esito del giudizio di legittimità, è prevista la condanna accessoria fissa, al pagamento di un importo pari al doppio del contributo unificato versato.
Sempre in materia di contributo unificato occorre, poi, dare conto di una ulteriore distonia del sistema, scaturente da direttive ministeriali e relativa alle cause con pluralità di ricorrenti. Per tali ipotesi, infatti, con nota 27/3/2018, il Ministero della Giustizia ha ritenuto che “l’ammontare del contributo unificato si determina sulla base della dichiarazione di valore effettuata dalla parte (in senso processuale) in conformità alle disposizioni del codice di rito e, dunque, sommando tra di loro il valore di tutte le domande proposte, indipendentemente dall’esistenza o meno, in capo ad alcuni, di motivi di esenzione”. Ne consegue che l’unico co-ricorrente che vanti un credito (necessariamente) inferiore alla totalità della domanda, dovrà comunque versare un contributo unificato parametrato allo scaglione di riferimento dell’intero (nota Min. 27/3/2018, prot. DAG n.243209 del 29.12.2017).
3.2. Costi del processo esecutivo ed effetto moltiplicatore.
Ma non è ancora tutto.
Il sistema di anticipazione del costo qui in commento lo rende anche particolarmente iniquo, dal momento che potrebbe addirittura rimanere definitivamente a carico del lavoratore–ricorrente in tutti quei casi in cui, ottenuta una pronuncia favorevole, con condanna del datore di lavoro, egli si scontri con l’inadempimento o l’incapienza del debitore.
La tutela dei diritti, infatti, non finisce certo con la definizione del processo di cognizione, ma si estende alla fase successiva dell’esecuzione coattiva, che anzi è il momento di realizzazione concreta dell’utilità astrattamente riconosciuta dal giudice del merito.
In difetto di spontaneo adempimento alla pronuncia di condanna (o all’ingiunzione di pagamento), infatti, il lavoratore- creditore non ha altra strada che quella di avviare una procedura esecutiva, e ciò a) con lo scopo immediato di soddisfare il proprio diritto di credito, b) comunque, quale presupposto procedimentale necessario per accedere al Fondo di Garanzia presso l’INPS ed ottenere il pagamento di alcuni crediti (quali il TFR e, a determinate condizioni, i crediti c.d. diversi, cioè i riferiti alle ultime tre mensilità di retribuzione).
Ebbene, in tali casi, a quanto già anticipato a titolo di contributo unificato per il giudizio di merito (ordinario o monitorio) e magari a titolo di spese legali per la difesa tecnica, il lavoratore dovrà aggiungere ulteriori contributo unificato e spese per la procedura esecutive (IVG e ulteriori eventuali spese per custodia, se necessaria, trasporto del bene pignorato, rimozione, ecc.). Si tratta, in alcune ipotesi, di costi davvero ingenti, che – quando l’obiettivo è la procedura di accesso al Fondo di Garanzia presso l’INPS - rimarranno definitivamente a carico di chi le ha anticipate non rientrando nella garanzia, con evidente e definitiva erosione del credito azionato (credito, val la pena di ricordare, avente natura alimentare).
Mentre sino al 2022 si riteneva che con riferimento alle procedure esecutive (e concorsuali) il contributo unificato non fosse dovuto ed infatti no veniva richiesto dalle Cancellerie di tutti i Tribunali italiani, la prassi è radicalmente mutata dal gennaio 2023. Con Circolare del 9/1/2023, infatti, il Ministero della Giustizia, Direzione Generale per la Giustizia civile, ha superato il proprio precedente orientamento (espresso con la Circolare 11/5/2012), secondo il quale, i procedimenti esecutivi e concorsuali dovevano intendersi come esenti “da imposta di bollo, imposta di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura” ai sensi dell’articolo unico c. 2 della L. 319/1958. Oggi, viceversa, al dichiarato fine di “scongiurare un possibile danno erariale”, il secondo comma dell’art. unico citato, viene interpretato nel senso che - come per i procedimenti ordinari e monitori di cui al comma 1 – l’esenzione dalle spese fa salva l’applicazione dell’art. 9 c. 1bis del DPR 115/2002 che impone, appunto, il pagamento del contributo unificato.
Come per i giudizi di cognizione, dunque, anche per le procedure esecutive e concorsuali, l’esenzione dal pagamento del contributo unificato, rimane ancorata al mancato superamento della soglia di reddito del nucleo familiare del lavoratore più che al procedimento avviato.
4.2. Le recenti riforme in materia di procedure esecutive.
Nell’esame dell’onerosità delle procedure esecutive, non possono sottacersi, infine, le ricadute (non meno gravose) delle recenti riforme del 2014 e del 2021.
Con l’art. 19 della L. n. 162/2014, infatti, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’art. 26bis cpc, che individua il giudice competente per l’esecuzione in quello del foro ove ha la sede il debitore. In tal modo, pur dopo aver ottenuto il riconoscimento giudiziale del proprio credito (spesso anzi al Tribunale nella cui circoscrizione si trovava la sede lavorativa, generalmente prossima alla residenza), il lavoratore-ricorrente sarà costretto a ‘rincorrere’ il debitore inadempiente magari in una città, provincia o addirittura regione diversa.
Con una norma, della cui logicità ed equità è lecito dubitare, infatti, il Legislatore ha di fatto premiato proprio la parte debitrice e addirittura inadempiente, rendendo, viceversa, ulteriormente oneroso per il creditore l’effettivo soddisfacimento del proprio credito.
Più di recente, poi, la L. 206/2021 ha stato modificato il numero V dell’art. 543 cpc, e sono stati introdotti nelle procedure di pignoramento presso terzi due nuovi adempimenti a carico del creditore: a) la notifica al debitore e al terzo pignorato dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento e b) il successivo deposito telematico dell’avviso.
Adempimenti che si sommano alla (ovvia) precedente notifica agli stessi soggetti dell’atto di pignoramento e alla regolare iscrizione a ruolo della procedura. La ratio di tali previsioni rimane ad oggi oscura, inserendosi in un procedimento di cui il debitore ha già avuto notizia, ma la rilevanza degli incombenti non può essere sottovalutata viste le serie conseguenze del mancato adempimento, che il Legislatore ha inteso punire con la sanzione massima dell’inefficacia del pignoramento.
Una vera corsa ad ostacoli, dunque, (particolarmente dispendiosa in termini di attività, tempi e costi) per il lavoratore-creditore.
Per tutto quanto sin qui esposto, c’è davvero da domandarsi cosa sia residuato del principio dell’effettività della tutela del processo del lavoro, se proprio le volte in cui – e nell’esperienza concreta sono tutt’altro che residuali – al riconoscimento giudiziale di un credito, non segua l’effettivo e pieno soddisfacimento dello stesso, per inadempimento, incapienza o addirittura decozione del debitore e il lavoratore-creditore sia costretto a tortuose e – come visto – quanto mai costose procedure coattive.
In questa riflessione, teniamo fuori l’analisi delle procedure esecutive immobiliari, nelle quali i costi sono spesso davvero proibitivi, essendo necessari in aggiunta a tutto quanto fin qui richiamato, anche accertamenti ed iscrizioni ipo-catastali a mezzo tecnici nominati dal creditore, spese di CTU, onorari per i professionisti delegati alla vendita.
5. Art. 614bis c.p.c. – Una tutela negata.
Infine, una breve riflessione merita anche la disciplina delle Astreintes.
Sull’effettività della tutela dei diritti dei lavoratori, incide, infatti, e sempre in senso negativo, anche l’incomprensibile e irragionevole esclusione delle controversie di lavoro dall’applicazione dell’art. 614bis c.p.c.
Come noto la norma, introdotta nel nostro ordinamento nel 2009, disciplina le misure coercitive indirette per i casi di inadempimento delle obbligazioni diverse da quelle pecuniarie, prevedendo la condanna del debitore inadempiente al pagamento di ulteriori somme di denaro per ogni violazione o inosservanza della pronuncia o per ogni ritardo nell’esecuzione.
Sull’incostituzionalità di tale esclusione si sono espressi in molti, evidenziando come essa appaia davvero priva di giustificazione e introduca una chiara disparità di trattamento tra creditori, basata esclusivamente sulla natura del credito (di lavoro o di altra natura). Addirittura, si può rilevare una disparità di trattamento anche tra gli stessi lavoratori e, in particolare, tra pubblici impiegati e lavoratori del settore privato, dal momento che l’art. 112 c. 3 del cod. proc. amm., prevede il potere del giudice dell’ottemperanza di riconoscere un “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” e, dunque, in una certa misura lascia spazio per una coercizione indiretta.
Nel diritto del lavoro privato, in particolare, si è sottolineata la necessità di una misura coercitiva dell’adempimento degli obblighi di fare o subire, non solo nel caso di scuola della reintegra nel posto di lavoro in seguito a declaratoria di illegittimità/nullità del licenziamento (caso, nel quale comunque, la maturazione delle retribuzione può rappresentare un parziale ristoro per il creditore-lavoratore), ma soprattutto nelle ipotesi di demansionamento o trasferimento dichiarati illegittimi, rispetto ai quali la mancata esecuzione spontanea della condanna da parte del datore non trova ad oggi nessuna possibile misura di coercizione. In tali casi, la tutela (esecutiva) del diritto è non solo resa complicata, ma è addirittura impossibile senza la collaborazione del debitore.
In tale quadro, è molto apprezzabile il tentativo operato da una parte della giurisprudenza di recuperare uno strumento coercitivo nelle maglie dell’art. 669duodecies c.p.c. che, nei soli procedimenti cautelari, consente al giudice di adottare “provvedimenti opportuni” per determinare le modalità di attuazione degli ordini pronunciati con riferimento agli “obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare”.
6. Patrocinio a spese dello Stato.
In chiusura, è opportuno spendere qualche parola sulla disciplina del patrocinio legale a spese dello Stato, contenuta negli artt. 74 e ss. DPR 115/2002, strumento richiamato dalla C. Cost. nel 2018 per respingere l’eccezione di illegittimità costituzione dell’art. 92 c.p.c. con riferimento alla diversa condizione personale delle parti nel processo del lavoro, come sopra riportato.
Il c.d. gratuito patrocinio è, di certo, espressione di quel valore sociale dell’accesso egualitario alla giustizia, di cui si è dato conto in apertura di questa relazione e risponde agli artt. 24 e 3 c. 2 Cost., benché forse sia un rimedio solo parzialmente efficace.
Affinché l’affermazione secondo cui tutti hanno diritto all’accesso alla giustizia e ad una difesa tecnica non si riduca ad una mera petizione di principio, è infatti necessario che lo Stato elimini gli ostacoli (in questo caso, economici) alla realizzazione di pari opportunità nella tutela giudiziaria dei diritti.
Tradizionalmente i sistemi di assistenza legale per i non abbienti sono stati concepiti secondo due distinti modelli: il primo, prevede la semplice erogazione da parte dello Stato del compenso al professionista incaricato; il secondo istituisce, viceversa, veri e propri uffici pubblici di assistenza legale, spesso dislocati sul territorio, e più vicini ai soggetti fruitori (si tratta, dunque, in quest’ultima ipotesi di una misura di “prossimità”, senz’altro più efficace per le categorie economicamente più deboli spesso – ma non sempre – residenti in centri periferici, ma di certo più oneroso per lo Stato).
L’ordinamento italiano si è ispirato al primo modello, mentre il secondo si è diffuso per lo più nei Paesi anglosassoni.
Non è questa la sede per addentrarsi nell’esame delle luci e delle ombre della disciplina, basti qui ricordare che si tratta ancora una volta di istituto di altissimo valore sociale ma non sempre idoneo a garantire effettiva tutela ai non abbienti. Oggi, infatti, il patrocinio a spese dello Stato è garantito a chi ha prodotto – nell’anno in cui ne fa domanda e in quello precedente – un reddito annuo non superiore ad € 12.838,01 lordi (importo così modificato con il DM 10/5/2023).
Nei redditi presi in considerazione vengono calcolate tutte le utilità percepite (anche “in nero”), ivi compresi gli assegni di mantenimento dagli ex coniugi, il reddito di cittadinanza (oggi sostituito dall’Assegno di Inclusione e dal Supporto Formazione e lavoro), e gli assegni di invalidità; viene esclusa, invece, l’indennità di accompagnamento.
Ciò determina che restano esclusi dalla misura tutti i c.d. nuovi poveri: lavoratori dipendenti con retribuzioni significativamente basse o autonomi con forte dipendenza economica.
Va detto, poi, che il patrocinio pubblico copre i costi relativi al procedimento per il quale è stato riconosciuto (onorari e spese per il professionista nominato, per il consulente tecnico di parte e per il consulente tecnico d’ufficio), ma non quelli per le procedure stragiudiziali, pur ampiamente incentivate con le recenti riforme.
Esso, infine, non copre le spese processuali da pagarsi alla controparte in caso di soccombenza, così chiudendo il cerchio di questa riflessione. Vi è, dunque, legittimamente da chiedersi se possa definirsi effettiva una tutela giurisdizionale non solo onerosa, ma addirittura assai costosa, financo e paradossalmente per i non abbienti.
[1] Il presente contributo è tratto dalla relazione tenuta al corso “Il processo del Lavoro: un rito che funziona” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura in Milano il 3/7/2023.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.