ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
(intervento nei “Lavori preparatori Circolare sull’organizzazione degli Uffici requirenti”, Sala Conferenza del C.S.M., Roma, 14 luglio 2023)
Il mio intervento sarà doverosamente breve e volutamente provocatorio.
La doverosità della sintesi è agevolata dalla chiarezza del quadro normativo esposto nella relazione introduttiva del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e dalla saggezza di molte delle indicazioni che ne discendono Verso la modifica della circolare sull'organizzazione degli uffici requirenti: intervento introduttivo di Luigi Salvato.
La provocazione è presto detta: ho da tempo maturato la convinzione che il dibattito intorno all’organizzazione delle Procure abitualmente giri un po’ a vuoto, assumendo come cardini poli dialettici largamente incapaci di riflettere la complessità delle questioni che ruotano attorno alla costituzione materiale degli uffici requirenti.
In questa distanza dalla cruda realtà riposano forse alcune delle radici dell’evidente affanno regolatore rivelato dal susseguirsi di circolari consiliari (quella in preparazione sarebbe la terza in meno di sette anni) ruotanti attorno ad un asse, come la relazione fra potestà dirigenziali e la sfera di autonomia e indipendenza del singolo magistrato, certo fondamentale e bisognoso di assetti unitari, ma non meno bisognevole di ancoraggio a visioni e prospettive di intervento sottratte al rischio di ripiegamenti burocratici e corporativi.
Se si riconosce, come aiuta a fare la memoria della realtà degli uffici giudiziari anche solo degli ultimi dieci anni precedenti la riforma del 2006, che assetti impropriamente gerarchizzati e rilevanti opacità organizzative degli uffici requirenti diffusamente emergevano e si conservavano nonostante la pienezza delle funzioni di indirizzo organizzativo riconosciute al C.S.M. e l’assenza di aperte rivendicazioni normative della primazia delle prerogative del capo dell’ufficio riferite all’esercizio dell’azione penale, si rivela immediatamente l’intrinseca debolezza di qualsivoglia analisi dei dati normativi rilevanti per l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero guidata dalla di per sé logora e povera categoria della gerarchia.
Anziché, dunque, privilegiare una prospettiva di indagine nella quale l’analisi generale delle mutazioni normative succedutesi a far tempo dal 1988 sia ridotta ad una storia di oscillanti movimenti di allontanamento ovvero di riavvicinamento a quella categoria concettuale, sarebbe preferibile considerare la reale natura dei nodi problematici da sciogliere, nella prospettiva di più efficace tutela delle istanze di unitarietà di indirizzo ed impersonalità dell’ufficio e di uniformità dell’esercizio dell’azione penale, oltre che in quella individuata attorno all’asse di rotazione del rapporto fra dirigente e sostituto.
Si delinea così il nucleo della mia provocazione: non si tratta di chiedere al C.S.M. di arretrare sul terreno della regolamentazione delle procure della Repubblica, ma di avanzare decisamente, indirizzando quell’essenziale funzione di indirizzo e di disciplina generale verso obiettivi ancora lontani da un perimetro di osservazione che appare limitato e infecondo.
Naturalmente, il rafforzamento della trasparenza e dei doveri di motivazione, come della partecipazione attiva di tutti i magistrati alla definizione degli statuti organizzativi degli uffici del pubblico ministero e il potenziamento della capacità di controllo del rischio che le prassi si discostino dai canoni formali corrispondono a scelte essenziali, oggi rese incontrovertibili dal ripristino del potere di approvazione dei programmi organizzativi in capo all’organo di governo autonomo della magistratura. Ma occorre anche altro, necessario per definire la cifra reale della dimensione finalistica di quelle fondamentali regole, altrimenti destinate a rivelarsi vuoti involucri formali.
In particolare, nitido appare sullo sfondo il pericolo, esiziale per la credibilità della magistratura, che il dibattito pubblico sul come esplicitare “modi e termini” di esercizio della potestà dirigenziale di assicurare la correttezza e l’uniformità dell’azione penale e l’osservanza delle regole del giusto processo si svolga in una asfittica dimensione autoreferenziale, trascurando la necessità che gli assetti organizzativi del pubblico ministero siano saldamente ancorati ad una loro complessiva capacità di rafforzare i legami di responsabilità sociale, tanto più grandi ed evidenti nella dimensione dei nuovi processi di definizione delle priorità dell’azione penale.
In altri termini, io credo che il lavoro del C.S.M. sia appena iniziato, ma, purtroppo, sia ancora lontano dal riflettere compiutamente la relazione profonda che esiste fra lo statuto di indipendenza della magistratura requirente e la sua responsabilità dinanzi alle domande sociali di trasparenza ed efficienza che interrogano la funzione giurisdizionale.
Una relazione - quella fra efficacia dell’intervento giudiziario e modernità dei suoi assetti organizzativi - che mal sopporta il peso della continua moltiplicazione degli adempimenti burocratici e della conservazione di approcci corporativi e autoreferenziali ai problemi dell’organizzazione degli uffici giudiziari e che imporrebbe invece di misurarsi con l’esigenza di non abbandonare il campo del razionale e unitario orientamento delle iniziative giudiziarie.
La funzione di coordinamento investigativo che attualmente svolgo si offre come utile specula di osservazione della perdurante distanza degli statuti formali degli uffici requirenti dai nodi problematici che realmente definiscono la cifra identificativa dei problemi che abbiamo di fronte.
Si tratta di una funzione riferita ad una speciale, per quanto ampia materia, ma prettamente giurisdizionale e modernamente costruita intorno a coordinate assiologiche e metodologiche dotate di valore generale e delle quali invece c’è insufficiente traccia nel dibattito e negli assetti già dati dell’organizzazione degli uffici requirenti. Probabilmente, perché quelle coordinate e quei valori sono dati per scontati, mentre in realtà scontati non sono.
Alcuni degli indici normativi di quella pur particolare funzione requirente aiutano a definire concretamente il rilievo di quelle coordinate: ad esempio, la speditezza, economia ed efficacia delle indagini indicate dall’art. 371 c.p.p. come fini del dovere di coordinamento dei pubblici ministeri, ma anche i parametri normativi dati per le indagini di criminalità organizzata e di terrorismo, ma evidentemente espressivi di istanze generali di trasparente e razionale assetto delle funzioni del pubblico ministero (l’effettività del coordinamento, la funzionalità di impiego della polizia giudiziaria, la completezza e tempestività delle investigazioni, l’impiego efficiente delle banche dati.
Numerosi altri profili di rilevanza potrebbero naturalmente scorgersi, passando in rassegna le declinazioni del dovere del pubblico ministero di assicurare il rispetto delle norme in materia di giusto processo, a partire dall’osservanza dei criteri in materia di iscrizione delle notizie di reato, avendo chiaro che ciascuno di essi partecipa alla definizione di una dimensione collettiva dell’azione degli uffici requirenti e dell’impegno richiesto a ciascuno dei magistrati che ne fanno parte che sembra recessiva e di fatto lasciata sullo sfondo del dibattito.
Quasi che si trattasse di naturali esiti dello sforzo di individuare diversi e più avanzati equilibri delle relazioni interne all’organizzazione del pubblico ministero, anziché di ciò da cui dovrebbe invece muovere la ricerca delle direttrici di una nuova e più avanzata regolamentazione, che assuma quelle coordinate come altrettanti cardini di uno statuto unitario dell’organizzazione del pubblico ministero che preveda forme e modalità di declinazione dei ruoli del dirigente e del sostituto, in funzione dell’effettività di valori essenziali alla giustificazione razionale dell’indipendenza del pubblico ministero e della necessità di prevenire il continuo reiterarsi nella sua azione di aporie, lacune, contraddizioni, tensioni e conflitti cui certamente contribuisce l’assenza di uno statuto dei doveri del pubblico ministero programmaticamente proiettato verso principi di trasparenza e responsabilità sociale.
A me pare altresì evidente l’inadeguatezza di approcci che confinano nel campo disciplinare le patologie e restano distanti e indifferenti al bisogno di scioglimento di nodi problematici che interrogano la complessiva credibilità dell’assetto requirente e che forse in parte spiegano anche la continua drammatizzazione delle vicende relative al conferimento dei relativi incarichi direttivi, essendo diffusa la percezione che dalla personalità del dirigente, anziché dalla solidità dei modelli organizzativi, dipenda la sorte reale degli avvenimenti legati all’agire del pubblico ministero.
Vi è allora grande e urgente bisogno di avanzare il fronte degli interventi regolatori, aprendoli a visioni finalisticamente orientate oltre le palizzate del fortino costruito intorno alla stantia contrapposizione gerarchia/indipendenza, le quali crollano miseramente non appena quel gioco dialettico si rivela indifferente alla domanda sociale di correttezza e autorevolezza dell’intervento giudiziario, come si dimostra ogni volta che pratiche abdicazioni della funzione di direzione delle indagini e avventurismi congetturali nelle iniziative cautelari o nell’esercizio dell’azione penale mostrano le corde del sistema.
Del resto, quelle domande sociali sono ormai penetrate nel nostro sistema processuale e sfidano apertamente un modello che rischia di apparire condizionato da logiche micro-corporative, anziché proteso verso uno sforzo di rigenerazione delle ragioni di una tradizionale e benefica pluralità dei centri decisionali del sistema requirente e della sottesa logica di diffusività delle relative funzioni.
Mi riferisco all’entrata in scena dell’Ufficio del Procuratore Europeo, attraverso lo statuto organizzativo del quale è ormai definita l’identità di un p.m. che rischia di apparire molto più moderno ed affidabile, anche agli occhi del giudice al quale si rivolgono contemporaneamente le domande del pubblico ministero nazionale.
Un ufficio che, assai più di quanto avvenne con la nascita della DNA e delle DDA, porta con sé logiche e persino un linguaggio assolutamente nuovi, eppure coerenti con la dimensione di piena autonomia e indipendenza del pubblico ministero e di tutela dell’autonomia e della dignità professionale del singolo magistrato.
Siamo di fronte ad un’architettura statutaria che può apparire lontana e ardita, ma che è difficile considerare lontana dall’esigenza di effettiva corrispondenza ad istanze reali e comuni ad ogni ordinamento democratico: per estrema e persino brutale sintesi, EPPO agisce mediante un Collegio che assume decisione sulle “questioni strategiche” e ha poteri di “supervisione generale”, Camere permanenti che indirizzano le indagini e ne assicurano il coordinamento e “decidono” se portare a giudizio, archiviare, rinviare il caso all’autorità nazionale ovvero avviare un’indagine, Procuratori Europei che “supervisionano” indagini e azioni e formulano proposte di decisioni per le Camere permanenti sulla base di “progetti di decisione”, Procuratori delegati “responsabili delle indagini”, ma tenuti a seguire le indicazioni e le istruzioni di Camere permanenti e Procuratore Europeo.
Naturalmente, non penso minimamente ad impossibili fenomeni imitativi, né provo tentazioni di sorta verso improponibili e di sicuro maldestri innesti di schemi pensati nella dimensione sovranazionale.
Ma mi parrebbe ragionevole ed utile comprendere se le differenze riflettano soltanto gli irriducibili caratteri dell’uno e dell’altro sistema ovvero introducano nuovi elementi di riflessione intorno all’obiettiva necessità di ricercare risposte nuove e più mature a domande di trasparenza, efficienza ed omogeneità d’indirizzi che sono proprie anche del sistema nazionale.
Banalmente, alcune domande, formulando le quali concludo il mio intervento, essendo la risposta affidata a ciascuno, possono aiutarci ad avanzare le prospettive di lavoro, se non immediate, almeno prossime all’urgenza delle questioni che abbiamo dinanzi.
Ad esempio, nel quotidiano esame delle richieste del p.m. che giungono sul tavolo dei giudici, la collegialità delle deliberazioni preliminari all’esercizio dell’azione penale del procuratore europeo sarà percepita come limite all’autonomia del p.m. o come garanzia di maggiore ponderazione e responsabilità complessiva dell’ufficio requirente?
Ma, naturalmente, anche volendo liberarsi dal peso del raffronto con un modello europeo che si voglia considerare separato e lontano, apparirebbe difficile eludere altre domande, le quali pure possono provarsi a formulare partendo dall’osservazione delle prassi dei nostri uffici del pubblico ministero.
Può un singolo magistrato erigere una barriera informativa intorno alle indagini a lui assegnate nei confronti dei magistrati che fanno parte dello stesso gruppo di lavoro? Quali sono i doveri funzionali alla piena e tempestiva circolazione informativa nell’ufficio e in ciascun gruppo di lavoro e all’effettività del coordinamento investigativo? Quali, nella medesima prospettiva, i doveri del dirigente e del coordinatore dei singoli gruppi di lavoro? Quali, infine, i doveri degli uni e degli altri dinanzi ai mille problemi dell’impiego razionale ed efficace dei servizi di polizia giudiziaria, della finitezza delle risorse complessivamente disponibili, del corretto utilizzo delle banche dati, del controllo dei rischi correlati alle tecnologie digitali a fini d’indagine?
Queste domande e le tante altre possibili intorno agli assetti reali dell’organizzazione requirente sono suscettive di risposte grandemente differenziate da un ufficio ed un altro e, di fatto, da sempre ricevono attenzione e soluzioni divaricate in misura non agevolmente giustificabile.
Ancora: in quale misura l’effettiva correttezza ed uniformità dei criteri di esercizio dell’azione penale e l’impiego consapevole e controllato delle tecnologie e delle tecniche investigative più invasive possono dipendere dalla capacità di ponderazione, dall’equilibrio e dalla disponibilità al confronto dei singoli magistrati, anziché dalla definizione di argini normativi e modelli organizzativi retti dalla consapevolezza dell’urgenza di risposte adeguate ad una domanda generale di responsabilità sociale che imporrebbe a ciascun magistrato di non considerare i vincoli logici di un’organizzazione necessariamente unitaria come un limite, ma come condizione del maturo e consapevole dispiegarsi dell’autonomia del singolo componente dell’ufficio?
Ma soprattutto ed infine, davvero è dato pensare che un nuovo esercizio regolatore lontano da quei nodi problematici allontanerà nuovi e magari sbrigativi interventi legislativi, dichiaratamente votati a colmare il deficit di effettività di istanze corrispondenti ad interessi generali?
A me basta aver avuto la possibilità di porgere francamente alcuni dei dubbi e degli interrogativi che quotidianamente mi assillano e che hanno contribuito ad orientare la mia azione di dirigente di una grande procura prima ed ora della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, sempre credendo nel valore della dimensione collettiva dell’impegno a rendere gli uffici requirenti centri di giurisdizione trasparenti ed efficienti, perché nutriti innanzitutto della motivata e colta partecipazione critica dei magistrati che ne fanno parte.
Spero con ciò di aver contribuito alla riflessione collettiva su quanto resta da considerare, perché corrisponde a non poco di ciò che nella realtà contribuisce a porre il pubblico ministero su un piano inclinato all’estremità inferiore del quale si ritrovano le insegne della marginalità e della ineffettività delle sue prerogative processuali.
I dati ministeriali di attuazione del PNRR relativi alle performance nazionali e dei diversi uffici giudiziari sono un formidabile giacimento di informazioni e potrebbero rappresentare una base preziosissima per impostare una linea di azione per raggiungere con successo gli obiettivi delineati dal PNRR sulla giustizia.
I dati nazionali sono apparentemente incoraggianti
Dati che non analizzano se la riduzione di tempi e pendenze in atto in particolare nel settore civile sia frutto degli interventi messi in campo con il PNRR o semplicemente una tendenza consolidata e forte in corso da anni, agevolata da una costante riduzione delle sopravvenienze, che ha portato, ben prima del PNRR, in dieci anni, a ridurre le pendenze della metà e ad avere un trend estremamente positivo anche negli ultimi anni.
Come si vede non si avverte un salto di qualità nel settore civile, mentre una notevole differenza si riscontra nel settore penale, anche se in questo ambito sarebbe opportuno scindere il dato del dibattimento da quello del Gip, ove vi è il maggiore flusso di affari anche di semplice definizione (la grande mole di archiviazioni e decreti penali). Probabilmente comunque questo forte passo in avanti deriva anche dal fatto che il settore penale é stato per anni ai margini dei processi di innovazione, anche tecnologici, e l’introduzione dell’ufficio per il processo ha rappresentato uno stimolo del tutto nuovo. Facendo semplici calcoli matematici, come tali inevitabilmente traditori, continuando di questo passo l’obiettivo del 40 % nella riduzione dei tempi nel settore civile potrebbe essere raggiunto nel 2028, mentre per il penale la riduzione dei tempi del 25 % potrebbe essere raggiunta nel 2027. Questo ovviamente a sopravvenienze e tassi di definizione invariati.
Da un’analisi dei dati ministeriali non risulta ci sia stato quel forte aumento di produttività nel settore civile che in particolare la concretizzazione dell’ufficio per il processo auspicava, mentre occorrerà verificare se i positivi dati del settore penale continueranno o rallenteranno, a causa dell’esaurimento dei procedimenti arretrati di più semplice definizione.
Una comparazione tra il 2021, anno di ripresa dopo il COVID, precedente al PNRR e ai suoi interventi, ed il 2022, primo periodo in cui sono stati messi in atto una parte di questi interventi, é di grande interesse e fornisce elementi estremamente rivelatori.
Il tasso di aumento dei processi definiti, la riduzione dell’arretrato e la diminuzione dei tempi processuali sono i dati che possono farci capire se hanno avuto effetto e rilievo i primi interventi posti in essere, ovvero l’assunzione della prima e più ampia tranche di funzionari UPP avvenuta nel febbraio 2022, e l’inizio nel marzo 2022 del Progetto Pon Governance di collaborazione con le Università e di sostegno all’Ufficio per il processo.
Questo ci consente di verificare, sia pure con le necessarie cautele, se sia aumentata la produttività degli uffici e se questo abbia cominciato a ripercuotersi positivamente sui tempi processuali.
Necessarie cautele perché il percorso è cominciato nel febbraio 2022 e, per le Università, nel marzo, e non si possono pretendere risultati subito, scontando inevitabilmente un periodo di formazione, di preparazione e un abbrivio iniziale. Non solo, ma occorre tener conto che il raffronto viene effettuato con il 2021, anno post COVID, in cui era stato effettuato un forte recupero rispetto all’anno precedente. Pure una tendenza, anche limitata, si comincia ad avvertire.
I risultati sono chiari.
Non si è avuto un aumento delle definizioni nel settore civile, dove sono addirittura diminuite, mentre sono aumentate nel settore penale in particolare nelle Corti di appello.
Quanto all’arretrato risulta penalizzante e altera il quadro l’impatto dei procedimenti ultratriennali di protezione internazionale che, maturando nel 2022, forniscono dati di aumenti indiscriminati per i Tribunali distrettuali maggiormente impegnati nel settore e che condizionano pesantemente il dato generale (si arriva al + 155,08 %).
La riduzione dei tempi, calcolati con la formula del disposition time, è altrettanto significativa e segna un primo chiaro positivo impatto.
Questi dati fanno pensare come in molti uffici l’attività, anche dell’ufficio per il processo, sia stata concentrata sull’eliminazione dell’arretrato e di procedimenti datati piuttosto che su di un aumento quantitativo della produttività.
I dati locali sono poi di grande interesse, con alcuni picchi difficilmente comprensibili e che probabilmente scontano errori di registrazione o di rilevazione come l’aumento dei tempi del 61,51% nel settore penale di una Corte e l’aumento dell’arretrato civile del 77,17 % in un Tribunale). Si denota una realtà a macchia di leopardo, senza costanti né a livello geografico, né a livello dimensionale. Anzi è positivo che spesso gli uffici con migliori performance sono uffici del Sud che partivano da una situazione più sfavorita, mentre gli uffici più virtuosi che partivano da situazioni più favorevoli inevitabilmente registrano performance nella media.
Ma, va detto, in questa analisi mancano dati fondamentali per capire performance e difficoltà: il numero di funzionari UPP assegnati e quelli realmente arrivati e rimasti, la scopertura di organico effettiva sia a livello di personale amministrativo che di magistrati ed infine, elemento cruciale, i modelli organizzativi adottati. Solo unendo le performance realizzate con il dato relativo alle risorse umane disponibili e a come sono state organizzate si potrebbe capire la realtà dei diversi uffici, la bontà delle scelte organizzative adottate e i rimedi da mettere in campo.
Dal monitoraggio occorrerebbe quindi partire per costruire un modello di analisi che metta in relazione risultati, risorse e modello organizzativo. Focus che si potrebbe realizzare, anche con l’aiuto delle Università che sono state coinvolte in un progetto di sostegno, per capire le scelte organizzative più proficue e aiutare gli uffici che si sono scontrati con ostacoli.
Perché il quadro che emerge conferma utilità e potenzialità dell’ufficio per il processo, che sconta un difetto di origine e che dimostra enormi possibilità di crescita.
Difetto di origine in quanto realizzato in modo parziale con personale a tempo determinato a cui non sono state date chiare prospettive professionali, che in una rilevante quota se ne è già andato (ben 2286, ovvero oltre un quarto degli assunti), giustamente attratto da altri concorsi per posti a tempo indeterminato, e che in una percentuale significativa è stato utilizzato per coprire i sempre più ampi buchi degli organici del personale amministrativo.
Enormi possibilità per il futuro perché, finita la fase iniziale e di assestamento, potrà esplicare fino in fondo le sue capacità, contribuendo tra l’altro alla formazione di una nuova generazione di giuristi.
Ma l’ufficio per il processo necessita anche di essere seguito con continuità con focus sulle situazioni di difficoltà ed esportazione di modelli virtuosi, senza lasciare gli uffici a loro stessi come in sostanza è avvenuto.
C’è difatti assolutamente bisogno di una governance del complessivo progetto se vogliamo raggiungere gli obiettivi. Governance oggi del tutto insoddisfacente. Ministero, Scuola Superiore della Magistratura e Consiglio Superiore della Magistratura hanno realizzato iniziative apprezzabili, inevitabilmente estemporanee, che però non solo mancano di coordinamento, ma non hanno quella indispensabile caratteristica di costante monitoraggio, verifica, sostegno agli uffici, soluzione dei problemi. Questo perché dirigere non vuol dire in primo luogo comandare, ma aiutare e risolvere.
Il problema oggi non è polemizzare, ma operare le necessarie correzioni in corsa, dato che abbiamo ancora tre anni alla fine del PNRR e abbiamo tutti gli spazi per farlo.
Un’ultima osservazione che é comunque determinante.
Ci siamo presi con il PNRR un impegno ambiziosissimo di riduzione di tempi e pendenze da far tremare i polsi e i riscontri come vediamo richiedono ancora più impegno, oltre che un salto di qualità. É possibile raggiungere gli obiettivi, ma solo con determinazione e impegno e mantenendo per un congruo lasso di tempo una stabilità normativa e organizzativa. Pensare di lanciare continue riforme senza mai aspettare ed analizzare gli esiti e i risultati di quella appena realizzata in una continua rincorsa, spendibile forse per la propaganda, ma non per un effettivo cambiamento della giustizia, è segno di una bulimia falsamente riformatrice che è caratteristica del nostro sistema politico. Proseguire nella pretesa di rivoluzionare l’organizzazione degli uffici giudiziari, creando il nuovo Tribunale delle persone e dei minori o introducendo il Gip collegiale cautelare, vuol dire semplicemente abbandonare gli obiettivi del PNRR. Ce ne sia consapevolezza e lo si dica chiaramente.
Sommario: 1. La vicenda - 2. Il “cumulo alla rinfusa” alla luce delle modifiche legislative e degli orientamenti giurisprudenziali. - 2.1. La natura giuridica dei consorzi stabili. - 2.2 L’evoluzione della disciplina del cumulo alla rinfusa. - 3. La decisione del Consiglio di Stato. - 4. Conclusioni: uno sguardo al nuovo Codice appalti.
1. La vicenda
La sentenza del Consiglio di Stato costituisce l’occasione per affrontare una tematica molto dibattuta in giurisprudenza che attiene, in generale, ai requisiti di partecipazione alle procedure di gara dei consorzi stabili e, in particolare, alla sopravvivenza o meno del requisito del “cumulo alla rinfusa” a seguito delle molteplici novelle legislative intervenute, fino al nuovo Codice appalti, d. lgs. 36/2023.
La vicenda oggetto del contenzioso originava dall’impugnazione da parte di un consorzio stabile, risultato aggiudicatario di un appalto di servizi[1], dell’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione disposto dalla stazione appaltante sul rilievo del difetto, in capo all’impresa appartenente al consorzio designata come esecutrice, delle certificazioni[2] richieste dal bando di gara tra i requisiti di capacità tecnico – professionale per le attività oggetto dell’appalto.
In particolare, il bando di gara richiedeva il possesso dei requisiti di capacità tecnico - professionale, in capo sia al consorzio che a ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipava alla gara. Il consorzio stabile ricorrente, pur possedendo in proprio tutti i requisiti richiesti dal disciplinare (eccezion fatta per il requisito tecnico del fatturato specifico medio per il quale si avvaleva del fatturato specifico dell’impresa consorziata) indicava, in fase di presentazione della domanda, un’impresa consorziata quale esecutrice dell’appalto.
A seguito dell’aggiudicazione a favore del medesimo consorzio, la stazione appaltante, in sede di verifica dei requisiti del concorrente, rilevava l’inidoneità delle certificazioni possedute dalla consorziata esecutrice designata a coprire le attività oggetto dell’appalto; conseguentemente, disponeva l’annullamento dell’aggiudicazione, ritenendo le giustificazioni rese dalla esecutrice designata non idonee (in quanto “le certificazioni di qualità dovevano essere possedute alla data di scadenza della presentazione delle offerte, a nulla rilevando che l’iter di estensione del perimetro [delle stesse] fosse stato avviato entro il predetto termine”)[3] e sostenendo di non poter accogliere la richiesta avanzata dal consorzio stabile di sostituire l’esecutrice con altra consorziata, al fine di non eludere il principio di immodificabilità soggettiva ex art. 48 co. 19-ter in caso di mancanza di requisiti di partecipazione alla gara. La Stazione appaltante non si pronunciava, invece, sull’altra possibilità, pure prospettata, di assunzione in proprio dell’esecuzione, essendo il consorzio in possesso di tutti i requisiti di partecipazione alla gara e le certificazioni di qualità richieste.
Avverso le determinazioni della Stazione Appaltante, il consorzio proponeva ricorso dinanzi al T.A.R. del Lazio, sede di Roma, chiedendo l’annullamento del provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione e il risarcimento del danno in forma specifica mediante l’aggiudicazione del contratto o, in subordine, il risarcimento del danno per equivalente. Successivamente, il consorzio ricorrente chiedeva, con motivi aggiunti, l’annullamento dell’aggiudicazione disposta a favore del secondo classificato, per illegittimità derivata.
Il TAR Lazio, Sez. III, con sentenza n. 2751/2022, respingeva il ricorso ritenendo, in primis, che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, talune delle certificazioni oggetto dell’appalto, lungi dall’essere mere certificazioni di qualità a corredo dell’offerta tecnica, rientravano tra i livelli minimi di capacità richiesti nel Bando di gara per la partecipazione alla gara, ovverosia tra i requisiti di partecipazione; inoltre, i Giudici di prime cure statuivano che il Consorzio non potesse sostituire i propri requisiti a quelli della consorziata indicata come esecutrice, “stante l’avvenuta abolizione del cumulo alla rinfusa ad opere del Decreto Sblocca cantieri, ostando a tale argomento l’art. 47, co. 2, del D. Lgs. n. 50/2016 come modificato dal D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55 (c.d. Decreto Sblocca cantieri), il quale dispone che i consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c), e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, stabilendo altresì che “la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l’affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati (47, co. 2 –bis, D. Lgs. n. 50/2016)”.
La sentenza veniva impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, in quanto ritenuta viziata per error in iudicando ed error in procedendo.
Sotto il primo profilo (error in iudicando), il Consorzio eccepiva una errata interpretazione dei fatti, nonché della lex specialis di gara e del D. Lgs. 50/2016 da parte del giudice di prime cure. In primo luogo, la mancanza della certificazione di qualità non era prevista a pena di esclusione dalla lex specialis, né la sua carenza in capo alla impresa consorziata avrebbe potuto precludere la partecipazione alla gara al Consorzio stabile, il quale possedeva in proprio anche le certificazioni di qualità richieste. Inoltre, proprio perché direttamente in possesso anche di tutti i requisiti di capacità tecnico professionale, oltre che delle richiamate certificazioni di qualità, il consorzio rilevava che la stazione appaltante era incorsa nel vizio di eccesso di potere laddove aveva negato la possibilità di eseguire in proprio l’appalto sulla base della ritenuta abolizione del “cumulo alla rinfusa” ad opera del decreto “Sblocca cantieri”; peraltro, il consorzio sottolineava la non necessità di avvalersi del c.d. principio del “cumulo alla rinfusa” per poter eseguire in proprio i servizi oggetto dell’appalto, possedendo in proprio i requisiti per la partecipazione alla gara.
Sotto il secondo profilo (error in procedendo), il consorzio lamentava la omessa pronuncia da parte del giudice di prime cure sulla motivazione non fornita dalla Stazione appaltante circa la mancata concessione al consorzio della possibilità di sostituirsi all’impresa consorziata, laddove il giudice aveva rigettato il ricorso sulla base del semplice rilievo dell’inapplicabilità del principio del cumulo alla rinfusa.
2. Il “cumulo alla rinfusa” alla luce delle modifiche legislative e degli orientamenti giurisprudenziali.
Al fine di comprendere la vexata quaestio in relazione ai requisiti di partecipazione dei consorzi stabili alle gare di appalto, giova ripercorre l’evoluzione normativa che ha interessato l’istituto[4], principiando dalla ratio ad esso sottesa.
2.1. La natura giuridica e la ratio dei consorzi stabili
L’istituto dei consorzi stabili costituisce attuazione dei principi euro-unitari di concorrenza e favor partecipationis, in quanto espressione del più ampio fenomeno della partecipazione aggregata alle gare ad evidenza pubblica e del principio di neutralità delle forme[5].
L’art. 45, co. 2, lett. c), del d. lgs. n. 50/2016 definisce i consorzi stabili come quegli operatori economici “costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro”; inoltre, prevede che “i consorzi stabili sono formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”[6].
In linea con la ratio pro-concorrenziale dell’istituto, l’art. 83, co. 2, d. lgs. n. 50/2016, nel trattare dei requisiti speciali, esplicita l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione, anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese[7].
Secondo la dottrina, il consorzio stabile costituisce una evoluzione della figura tradizionale disciplinata dagli artt. 2602 ss. c.c. e si colloca in una posizione intermedia fra le associazioni temporanee e gli organismi societari risultanti dalla fusione di imprese, soggetti sia alla disciplina civilistica che pubblicistica[8].
Alla luce di tale connotazione, la giurisprudenza unanime ha chiarito che “Il consorzio stabile è un soggetto giuridico autonomo, costituito in forma collettiva e con causa mutualistica, che opera in base a uno stabile rapporto organico con le imprese associate, il quale si può giovare, senza necessità di ricorrere all'avvalimento, dei requisiti di idoneità tecnica e finanziaria delle consorziate stesse, secondo il criterio del cumulo alla rinfusa”. Ne consegue che il consorzio stabile “è il solo soggetto che domanda di essere ammesso alla procedura e va a stipulare il contratto con l'amministrazione in nome proprio, anche se per conto delle consorziate cui affida i lavori; è il consorzio ad essere responsabile dell'esecuzione delle prestazioni anche quando per la loro esecuzione si avvale delle imprese consorziate, le quali comunque rispondono solidalmente al consorzio per l'esecuzione ai sensi dell'art. 94, comma 1, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 e art. 48, comma 2, d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50”[9].
Pertanto, al fine di attribuire al consorzio la qualifica di “stabile” risulta essenziale la sussistenza del c.d. elemento teleologico, ossia l'astratta idoneità del consorzio, prevista nel relativo statuto, di operare con un'autonoma struttura di impresa, capace di eseguire le prestazioni previste nel contratto anche in proprio[10].
Proprio per la struttura giuridica del consorzio stabile, la Corte di Giustizia UE è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia quindi concordato la presentazione dell’offerta[11]
Ciò consente di differenziare il consorzio stabile innanzitutto dal consorzio ordinario[12], laddove “il consorzio ordinario, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l'assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un'impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, limitandosi a disciplinare e coordinare le azioni degli imprenditori riuniti”[13]. Il consorzio stabile, poi, configura una modalità organizzativa che si differenzia anche dal raggruppamento temporaneo di imprese, laddove le singole imprese componenti il raggruppamento non perdono la propria autonomia e il raggruppamento non viene a costituire un ente giuridico autonomo[14].
Nonostante la diversa struttura, il legislatore ha ritenuto di estendere anche ai consorzi stabili la disciplina dettata per i raggruppamenti in punto di modifiche soggettive ed in particolare i commi 7-bis e 19-bis dell’art. 48, del d. lgs. n. 50/2016, volti ad ammettere una modifica della compagine sociale solo per fatti o atti sopravvenuti e in riduzione per motivi organizzativi, a condizione che la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all'impresa consorziata, come recentemente ribadito dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2022[15].
2.2. L’evoluzione della disciplina del cumulo alla rinfusa
Volendo segnare le tappe evolutive che hanno interessato l’istituto del cd. “cumulo alla rinfusa”, occorre principiare dal d.lgs. n. 163/2006, il quale all’art. 35 prevedeva che: “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’articolo 34, comma 1, lettere b) e c)[16], devono essere posseduti e comprovati dagli stessi, secondo quanto previsto dal regolamento, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
Il successivo art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006 affermava che “il consorzio stabile si qualifica sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate”, e dettava criteri puntuali per l’acquisizione delle qualifiche con specifico riferimento agli appalti di lavori[17], delineando, in altri termini, il criterio del c.d. cumulo alla rinfusa, per descrivere la possibilità per il consorzio stabile di fruire, alternativamente o in aggiunta ai requisiti propri, dei requisiti delle consorziate, nell’ottica della ratio pro-concorrenziale dell’istituto.
Dal canto suo, la giurisprudenza, sotto la vigenza del d.lgs. 163/2006 ammetteva pacificamente la possibilità di applicare il cumulo alla rinfusa ai Consorzi stabili, anche per i requisiti tecnico-finanziari non posseduti in proprio dalla consorziata esecutrice individuata dal Consorzio in sede di gara, come si evince dalla sentenza della Adunanza Plenaria n. 8 del 2012, secondo la quale: “il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate, dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti”.
Le certezze cristallizzate sotto la vigenza del d. lgs. 163/2006 iniziano a venire meno con l’avvento del d. lgs. 50/2016, soprattutto in occasione delle modifiche legislative introdotte, dapprima, con il d. lgs. 56/2017 e, poi, con il d. l. n. 32/2019, cd. “Sblocca cantieri”, a seguito delle quali ci si è interrogati sulla permanenza e sui limiti di applicazione dell’istituto del “cumulo alla rinfusa”.
In particolare, ferma restando la necessità che i requisiti di ordine morale di cui all’art. 80 siano posseduti sia dal consorzio che dalle singole consorziate, per i requisiti di ordine speciale, l’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, conformemente al precedente art. 35 del d. lgs. 163/2006, prevede che “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’articolo 45, comma 2, lettere b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, salvo che per quelli relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
L’art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella sua originaria formulazione, prevedeva che “per i primi cinque anni dalla costituzione, ai fini della partecipazione dei consorzi di cui all’art. 45, comma 2, lettera c), alle gare, i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi previsti dalla normativa vigente posseduti dalle singole imprese consorziate esecutrici, vengono sommati in capo al consorzio”.
L’art. 31 del d.lgs. n. 56/2017 (correttivo del codice) ha introdotto una prima modifica al comma 2 dell’art. 47, stabilendo che “i consorzi di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c), e 46, comma 1, lettera f), al fine della qualificazione, possono utilizzare sia i requisiti di qualificazione maturati in proprio, sia quelli posseduti dalle singole imprese consorziate designate per l'esecuzione delle prestazioni, sia, mediante avvalimento, quelli delle singole imprese consorziate non designate per l'esecuzione del contratto. Con le linee guida dell'ANAC di cui all'articolo 84, comma 2, sono stabiliti, ai fini della qualificazione, i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni".
Con il primo correttivo, quindi, per poter spendere i requisiti dei consorziati indicati per l’esecuzione era sufficiente la semplice designazione in fase di gara; per poter usufruire di quelli dei consorziati non designati occorreva, invece, ricorrere all’istituto dell’avvalimento[18].
In questo quadro normativo, interviene il decreto “Sblocca cantieri” che modifica, ancora una volta, il comma 2 dell’art. 47 e introduce il comma 2-bis.
Il comma 2 dell’art. 47 modificato prevede che: “I consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2 e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, ferma la responsabilità solidale degli stessi nei confronti della stazione appaltante. Per i lavori, ai fini della qualificazione di cui all'articolo 84, con il regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, sono stabiliti i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite dal consorzio o dai singoli consorziati che eseguono le prestazioni. L'affidamento delle prestazioni da parte dei soggetti di cui all'articolo 45, comma 2, lettera b), ai propri consorziati non costituisce subappalto”.
Il successivo comma 2-bis introdotto all’art. 47 stabilisce che: “La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati. In caso di scioglimento del consorzio stabile per servizi e forniture, ai consorziati sono attribuiti pro quota i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi maturati a favore del consorzio e non assegnati in esecuzione ai consorziati. Le quote di assegnazione sono proporzionali all'apporto reso dai singoli consorziati nell'esecuzione delle prestazioni nel quinquennio antecedente”.
Pertanto, la novella, oltre a distinguere tra appalti di lavori (comma 2) e appalti di forniture e servizi (comma 2-bis), non richiama più la possibilità di sommare in capo al consorzio i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi posseduti dalle singole imprese consorziate esecutrici e tale dato ha dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale in ordine ai limiti entro i quali poter affermare ancora legittimo il cumulo alla rinfusa.
Secondo un primo restrittivo orientamento, il requisito del cumulo alla rinfusa sarebbe stato abolito con la conseguente necessaria qualificazione sia del consorzio che delle consorziate designate per l’esecuzione.
In particolare, qualora il consorzio individui una consorziata come esecutrice, quest'ultima dovrà essere autonomamente in possesso del requisito di qualificazione, così come, in caso di esecuzione in proprio ad opera del consorzio, quest'ultimo dovrà possedere autonomamente il requisito. Ciò al fine di evitare che possa essere legittimata l'esecuzione di prestazioni da parte di piccole e medie imprese del tutto prive della qualificazione[19], a nulla rilevando la elisione della finalità pro-concorrenziale dell’istituto dato che quest’ultima risiederebbe nella stessa possibilità di utilizzare la forma del consorzio stabile, a prescindere dall’operatività o meno del cumulo alla rinfusa.
Le argomentazioni che vengono richiamate a sostegno di tale tesi sono di tipo sistematico e letterale. Sotto un primo profilo, si ritiene che la soppressione della disposizione di cui all’art. 36, co. 7, del d. lgs. 136/2006, da un lato, e il tenore dell’art. 47, co. 1, d.lgs. n. 50/2016, dall’altro, consentirebbero di ritenere abrogato il cumulo alla rinfusa, ad eccezione delle ipotesi espressamente previste con riferimento a determinati requisiti, ossia attrezzature, mezzi e organico medio anno[20]. Sotto altro profilo, viene richiamato il comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2016, come riformulato dal d.l. n. 32/2019 che, non menzionando più la facoltà del consorzio di ricorrere all'avvalimento, ai fini della utilizzazione dei requisiti di qualificazione delle consorziate non designate come esecutrici si limita a prevedere l'alternativa facoltà di eseguire il contratto "con la propria struttura" ovvero "tramite i consorziati" indicati in sede di gara[21].
Secondo l’opposto orientamento, invero maggioritario, le richiamate modifiche normative avvicendatesi non hanno affatto inciso sulla ammissibilità del cumulo alla rinfusa[22].
In primo luogo, tale tesi ritiene che dall’art. 47 d.lgs. n. 50/2016 non possa desumersi che il singolo consorziato, indicato in gara come esecutore dell’appalto, debba essere a sua volta in possesso dei requisiti di partecipazione: l’art. 47, comma 2, infatti, non chiarisce espressamente le modalità di qualificazione dei consorziati designati per l’esecuzione e l’art. 47, co. 1, sul quale unicamente si fonda l’interpretazione restrittiva, “suona, nella sua formulazione letterale, identica a quella già trasfusa nel previgente art. 35 d.lgs. n. 163/2006”, all’epoca del quale del quale era pacificamente ammesso il cumulo alla rinfusa[23].
In secondo luogo, l’orientamento ampliativo evidenzia come l’intentio legis (art. 12 delle preleggi), nel corso del tempo, sia sempre stata quella di valorizzare l’istituto in questione, quale importante strumento pro-concorrenziale.Nella relazione di accompagnamento al d.l. n. 32 del 2019 (c.d. Sblocca Cantieri) si legge, infatti, che la modifica del comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2016 “è tesa a chiarire la disciplina dei consorzi stabili onde consentire l’operatività e sopravvivenza di tale strumento pro-concorrenziale, mentre l’introduzione del comma 2-bis detta disposizioni concernenti i consorzi stabili di servizi e forniture, in continuità con il passato, di fatto colmando, a regime, un vuoto normativo per tali settori”.
Pertanto, tale interpretazione ampliativa “appare conforme alla ratio pro-concorrenziale sottesa alla disciplina dei consorzi stabili, che consente la partecipazione alle gare pubbliche ad imprese singolarmente prive dei requisiti di qualificazione richiesti dal bando, le quali possono cumulare i requisiti di cui dispongono con quelli di altre imprese fino a soddisfare il livello di qualificazione richiesto”[24].
Del resto, sarebbe contrastante con la stessa esigenza sottesa alla formazione del Consorzio stabile la previsione di un obbligo di qualificazione per l'intero per ogni consorziata designata, perché in tal caso il Consorzio e le imprese avrebbero gli stessi requisiti e verrebbe meno la ragione stessa della partecipazione alla gara del Consorzio che, istituendo una comune struttura di impresa, può modulare la propria organizzazione imprenditoriale e l'offerta in modo tale da prefigurare l'apporto di ciascuna consorziata nei limiti della singola qualificazione posseduta, per categoria e classifica[25].
Inoltre, l’art. 216, comma 14, D.lgs. 50/2016, nel disciplinare il regime transitorio e comunque fino all’adozione del regolamento di cui al comma 27-octies (mai adottato), disponeva il perdurare della vigenza di una serie di norme[26], tra le quali proprio l’art. 36, comma 7, del D.lgs. 163/2006, in forza del richiamo recettizio a tale norma operato dall’art. 81 del regolamento (D.P.R. n. 207/2010).
Infine, un ulteriore elemento consente di avallare l’orientamento estensivo. La disciplina dettata dal d. lgs. n. 50/2016 in materia di appalti nel settore dei beni culturali, ed in particolare l’art. 146, esclude espressamente la possibilità di ricorrere ad una serie di istituti operanti nei settori ordinari, tra i quali l’avvalimento, e richiedendo il possesso delle specifiche qualificazioni tecniche anche in capo agli esecutori, esclude l’operabilità del cumulo alla rinfusa. Pertanto, “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, con la conseguenza che, ragionando a contrario, seguendo l’orientamento restrittivo non si apprezzerebbe alcuna differenza tra il regime dettato per i settori ordinari e quello previsto per i settori speciali, come quello dei beni culturali, e non si comprenderebbe la ragione del diverso tenore della disciplina.
3. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, ha accolto il ricorso proposto dal consorzio stabile escluso dalla gara, ritenendo la sentenza del Tar Lazio viziata per entrambe le censure avanzate dall’appellante.
Sotto un primo profilo, la sentenza è da considerarsi viziata nella parte in cui, sul presupposto dell’avvenuta abolizione del cumulo alla rinfusa, aveva impedito al consorzio di eseguire l’appalto in proprio, per avere questo indicato in sede di gara una singola impresa consorziata come esecutrice priva dei prescritti requisiti di partecipazione.
In particolare, i Giudici, superando alcune eccezioni preliminari[27] ed entrando nel merito della questione, hanno analizzato l’istituto dei consorzi stabili incentrando l’attenzione sull’elemento della “comune struttura di impresa”[28]. Tale caratteristica, infatti, è idonea a configurare il consorzio stabile come unico interlocutore dell’amministrazione appaltante, a differenza di quanto accade per i RTI e per i consorzi ordinari. “I partecipanti in questo caso danno infatti vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto”.
Né, secondo i Giudici, può addivenirsi a conclusioni diverse sulla base di quanto incidenter tantum affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 18/03/2021, n. 5, in virtù della quale “Solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante”[29], in quanto proprio il vincolo di solidarietà consentirebbe di far ricadere in toto la prestazione sul consorzio stabile, ove l’impresa esecutrice sia priva dei requisiti, senza che detta esecuzione in proprio possa considerarsi elusiva del disposto dell’art. 48 comma 19-bis del Codice. In altri termini, secondo il Consiglio di Stato, i limiti alla modifica soggettiva in corso di gara di cui al comma 19-bis dell’art. 48 (che richiama i precedenti commi 17, 18 e 19) devono intendersi riferiti all’ipotesi di sostituzione della consorziata esecutrice con altra consorziata, quand’anche già indicata come esecutrice (con modifica in riduzione), e non anche ai rapporti fra impresa consorziata indicata come esecutrice e consorzio che abbia in proprio i requisiti, poiché in quest’ultimo caso “il Consorzio è ab initio parte sostanziale del contratto con la stazione appaltante, chiamato a rispondere in solido della totalità dell’esecuzione della commessa”.
Tale approccio, per il Consiglio di Stato, risulta più rispondente alla ratio stessa dei consorzio stabili, “volta a dare maggiori possibilità di sviluppo alle imprese sprovviste di sufficienti requisiti per accedere a determinate gare (…) attraverso l’accrescimento delle facoltà operative, ottenibile non imponendo al consorzio di avere i requisiti in proprio (…) né prescrivendo quote minime in capo alle consorziate (…) anche perché, altrimenti, si riprodurrebbe inutilmente il modulo organizzativo delle a.t.i., già, peraltro, replicato con l’aggregazione cui dà luogo il consorzio ordinario”[30]; nonché conforme ai principi di massima partecipazione alle gare e di tassatività delle clausole di esclusione.
Il primo impone che venga privilegiata l’interpretazione che soddisfi l’esigenza della massima partecipazione alla procedura di gara, qualora questa sia compatibile con quella di selezionare un imprenditore qualificato[31].
Il secondo impone di non escludere il concorrente in base a una disposizione di non univoca interpretazione. Nelle gare pubbliche, a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola della lex specialis (una avente quale effetto l’esclusione dalla gara e una tale da consentire la permanenza del concorrente), non può legittimamente aderirsi all’opzione che comporti l’esclusione dalla gara in contrasto con le dinamiche competitive e pro-concorrenziali stante il disposto dell’art. 83 comma 8 d.lgs. 50/2016[32].
Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sentenza di primo grado viziata anche per l’omessa pronuncia ad opera del giudice di prime cure della doglianza del difetto di motivazione del provvedimento di “ritiro” dell’aggiudicazione; ciò in considerazione del rilievo che il Tar nulla motivava in ordine alla richiesta del consorzio di esecuzione in proprio, disattendendo espressamente solo quella di sostituzione dell’impresa indicata come esecutrice con altra impresa consorziata. Secondo i Giudici la doglianza non poteva ritenersi assorbita dalle motivazioni di rigetto del ricorso, fondate sul mero richiamo alla previsione della lex specialis di gara e “sulla impossibilità di esecuzione in proprio, stante l’abolizione del cumulo alla rinfusa”, soprattutto alla luce del fatto la stazione appaltante aveva agito in autotutela.
Sulla base di tali considerazioni, il Consiglio di Stato accede all’orientamento maggioritario ritenendo non solo ancora vigente il criterio del cd. “cumulo alla rinfusa”, ma anche legittimo il ricorso allo stesso per la partecipazione dei consorzi stabili alle commesse pubbliche.
4. Conclusioni: uno sguardo al nuovo Codice appalti.
La sentenza del Consiglio di Stato in commento è stata pubblicata pochi giorni prima dell’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, d. lgs. 36/2023, ed è interessante osservare che le conclusioni cui giungono i Giudici sono perfettamente in linea con la “nuova” disciplina.
Il d. lgs. n. 36/2023, infatti, all’art. 67, co. 4, ha il medesimo contenuto dell’art. 47 comma 2 d.lgs. n. 50/2016 e il successivo comma 8 sostanzialmente riproduce quanto già previsto dall’art. 36, co. 7 d.lgs. n. 163/2006[33], sciogliendo ogni dubbio sull’ammissibilità del cumulo alla rinfusa e mettendo in difficoltà quelle procedure di gara sorte in conformità a quello che sembrava un revirement dell’orientamento del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7360 del 22/08/2022, alla quale anche l’ANAC aveva deciso di aderire.
Il legislatore, in questo caso, ha sentito la necessità di chiarire l’interpretazione degli artt. 47, 83, 216, del D.lgs. 50/2016, applicabili in via transitoria, disponendo all’art. 225, comma 13, che: “Gli articoli 47, comma 1, 83, comma 2, e 216, comma 14, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, si interpretano nel senso che, in via transitoria, relativamente ai consorzi di cui all'articolo 45, comma 2, lettera c), del medesimo codice, ai fini della partecipazione alle gare e dell'esecuzione si applica il regime di qualificazione previsto dall'articolo 36, comma 7, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006 e dagli articoli 81 e 94 del regolamento di esecuzione ed attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. L'articolo 47, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, si interpreta nel senso che, negli appalti di servizi e forniture, la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati, anche se diversi da quelli designati in gara”.
Al fine di dirimere ogni dubbio, quindi, il nuovo codice dei contratti pubblici introduce una norma di interpretazione autentica (in quanti tale retroattiva)[34] che disciplina, in via transitoria, l’istituto del ‘cumulo alla rinfusa’ negli appalti di lavori, prevedendo che i consorzi, ai fini della qualificazione necessaria a partecipare alle procedure di gara, possono utilizzare tanto i requisiti maturati in proprio, tanto quelli delle imprese consorziate[35].
Peraltro, il Consiglio di Stato nella relazione di accompagnamento al nuovo Codice dei Contratti del 7 dicembre 2022, ha confermato che nell’attuale regime del D.lgs. 50/2016 non esiste alcuna norma che escluda il “cumulo alla rinfusa”.
In particolare, in quella sede è stato ricordato che, per quanto concerne gli appalti di servizi, “i requisiti di capacità tecnica e finanziaria sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”, mentre, per quanto concerne gli appalti di lavori, la disposizione ha dato “continuità con il sistema vigente riguardante l’attestazione SOA del consorzio, che consente la sommatoria dei requisiti posseduti dalle singole consorziate”.
Sicché è la stessa Relazione al nuovo Codice ad avere fornito l’esegesi delle disposizioni del D.lgs. n. 50/2016 in tema di qualificazione dei consorzi stabili, confermando la perdurante operatività del cumulo alla rinfusa, giusta il rinvio espresso che gli artt. 83 e 47 del D.lgs. n. 50/016 operano alla disciplina previgente di cui al d. lgs. 163/2006, in linea con la giurisprudenza maggioritaria.
[1] Appalto inerente “Servizio di supporto agli impianti industriali: attività di supporto alla produzione per l’IMC Roma Smistamento della Direzione Regionale Lazio di Trenitalia”.
[2] Certificazione del proprio Sistema Qualità alle norme UNI EN ISO 9001 e certificazione di sistemi di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro rilasciata da organismi accreditati secondo la normativa internazionale OHSAS 18001, nella versione vigente o, in alternativa, UNI EN ISO 45001:2018,
[3] Accadeva infatti che l’impresa esecutrice, in possesso della certificazione di qualità per l’attività di “erogazione servizi di pulizia”, dichiarava di aver chiesto, prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, l’estensione di copertura delle certificazioni di qualità al fine di coprire anche il perimetro delle attività oggetto di appalto, ma di non esserne riuscita ad ottenere l’aggiornamento al momento della scadenza del bando.
[4] Sul punto, cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 19 aprile 2023, n. 2390.
[5] Il principio di neutralità delle forme giuridiche di cui agli artt. 19, par. 2, della direttiva 2014/24/UE per i settori ordinari, 37, par. 2, della direttiva 2014/25/UE per i settori speciali e 26, par. 2, della direttiva 2014/23/UE per le concessioni, afferma che i raggruppamenti di operatori economici non possono essere obbligati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori ad avere una forma giuridica specifica ai fini della presentazione di un’offerta o di una domanda di partecipazione.
[6] Il Codice ricalca la formulazione dettata dalla legge 10 febbraio 1994, n. 109 (“Nuova legge quadro in materia di lavori pubblici”), che, all’art.10, comma 1, lett. c), ha introdotto tra i “soggetti ammessi alle gare”, i consorzi stabili, accanto ad altre forme di cooperazione tra imprese quali le associazioni temporanee di imprese, i consorzi di cooperative di produzione e lavoro regolati dalla l. 25 giugno 1909, n. 422, riconosciuti ad opera dell’art. 20, l. 8 agosto 1977, n. 584, e i consorzi ordinari di cui alla l. 17 febbraio1987, n. 80.
[7] In particolare, il comma 2 dell’art. 83 espressamente afferma che: “I requisiti e le capacità di cui al comma 1 sono attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto, tenendo presente l'interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione. Per i lavori, con il regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies, sono disciplinati, nel rispetto dei principi di cui al presente articolo e anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese, il sistema di qualificazione, i casi e le modalità di avvalimento, i requisiti e le capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45, lettere b) e c) e la documentazione richiesta ai fini della dimostrazione del loro possesso di cui all'allegato XVII. Fino all'adozione di detto regolamento, si applica l'articolo 216, comma 14”.
[8] F. LATTANZI, Consorzi stabili, in M.A. SANDULLI -R. DE NICTOLIS (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, II, Milano, 2019, p. 595; ABRATE, Consorzio stabile, in L’amministrativista, 2017, secondo il quale i consorzi stabili sono stati introdotti all’esito di un «percorso di tipizzazione normativa del fenomeno della cooperazione tra imprese»; F. SCALIA, Considerazioni sul criterio di qualificazione dei consorzi stabili negli appalti pubblici c.d. del 'cumulo alla rinfusa, in Federalismi, n. 5/2022.
[9] Consiglio di Stato, Sez. V, 07/11/2022, n. 9752; Consiglio di Stato, Sez. V, 14/12/2021, n. 8331, T.A.R. Lazio, Sez. II, 06/06/2022, n. 7273; cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 3/9/2021 n. 6212; T.A.R. Lazio, Sez. II, 1/7/2021 n. 7807, T.A.R. Campania, Sez. I, 7/6/2021 n. 3780; T.A.R. Emilia-Romagna, Sez. I, 21/11/2017 n. 767, secondo i quali “il consorzio stabile è un operatore economico costituente un’impresa collettiva operante mediante un patto consortile con le imprese consorziate avente finalità mutualistica, con conseguente possibilità per il Consorzio di utilizzare tanto le risorse proprie, quanto quelle delle imprese ad esso consorziate”.
[10] Consiglio di Stato, Sez. V, 18/10/2022, n. 8866.
[11] Corte Giustizia, Sez. IV, 23 dicembre 2009, Serrantoni Srl e Consorzio stabile edili Scrl c. Comune di Milano, in causa C-376/08.
[12] Definito dall’art. 45, co. 2, lett. e) come consorzio “di concorrenti di cui all'articolo 2602 del codice civile, costituiti tra i soggetti di cui alle lettere a), b) e c) del presente comma, anche in forma di società ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile”.
[13] Consiglio di Stato, Sez. V, 18/10/2022, n. 8866; Consiglio di Stato, Sez. III, 07/01/2022, n. 46, secondo il quale: “il consorzio ordinario con attività esterna è un soggetto con identità plurisoggettiva, a differenza del consorzio stabile ex art. 45, comma 2, lett c), d. lgs. n. 50 del 2016, in cui i singoli imprenditori istituiscono una comune struttura di impresa collettiva stabile, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l'ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto; da tali premesse discende che il divieto assoluto di duplicazione dei benefici in favore di uno stesso soggetto imprenditoriale è applicabile sia alle imprese che partecipano ad un raggruppamento temporaneo, quanto a quelle che fanno parte di un consorzio ordinario, stante l'impossibilità, nell'ambito di tali forme aggregative, di distinguere il modulo plurisoggettivo dai suoi componenti, con conseguente sovrapposizione dei contributi in capo a questi ultimi”.
[14] L’ Adunanza Plenaria n. 6 del 2019 ha affermato che il sistema dei requisiti di qualificazione non può che riferirsi ad ogni singola impresa, ancorché associata in un raggruppamento, altrimenti si finirebbe con il conferire una sorta di “soggettività” al raggruppamento, al di là di quella delle singole imprese partecipanti; “una sorta di interscambiabilità dei requisiti, quale quella ipotizzata, di partecipazione risulta più agevolmente ipotizzabile laddove si riconoscesse (ma così non è) una personalità giuridica propria al r.t.i.”; cfr. F. CARDARELLI, Raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici, in M.A. SANDULLI -R. DE NICTOLIS (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, op. cit., spec. pp. 630-631.
[15]Cfr. Ad. Plen. n. 2 del 2022, che si è occupata dalla modificabilità in corso di gara di un r.t.i. nel caso di perdita dei requisiti di cui all’art. 80, d. lgs. 50/2016 da parti di uno dei suoi componenti.
[16] Articolo 34, comma 1, lettere b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422 e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; c) consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all'articolo 36.
[17] L’art. 36, co. 7 prevedeva che “Per i lavori la qualificazione è acquisita con riferimento ad una determinata categoria di opere generali o specialistiche per la classifica corrispondente alla somma di quelle possedute dalle imprese consorziate. Per la qualificazione della classifica di importo illimitato, è in ogni caso necessario che almeno una tra le imprese consorziate già possieda tale qualificazione ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno una con qualificazione per la classifica VII e almeno due con classifica V o superiore, ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno tre con qualificazione per classifica VI. Per la qualificazione per prestazioni di progettazione e costruzione, nonché per la fruizione dei meccanismi premiali di cui all’articolo 40, comma 7, è in ogni caso sufficiente che i corrispondenti requisiti siano posseduti da almeno una delle imprese consorziate. Qualora la somma delle classifiche delle imprese consorziate non coincida con una delle classifiche di cui al regolamento, la qualificazione è acquisita nella classifica immediatamente inferiore o in quella immediatamente superiore alla somma delle classifiche possedute dalle imprese consorziate, a seconda che tale somma si collochi rispettivamente al di sotto, ovvero al di sopra o alla pari della metà dell’intervallo tra le due classifiche”.
[18] Cfr. P. CARBONE, La disciplina dei consorzi stabili nel codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo il primo decreto correttivo(d.lgs. n. 56 del 2017), in Rivista trimestrale degli appalti, n. 1/2018, pp. 7 ss., pp. 19-20.
[19] Tar Lazio, Sez. III, 3 marzo 2022, n. 2571; Cons. Stato, Sez. V, 22/08/2022, n. 7360, le cui argomentazioni sono state riprese dalla recente giurisprudenza, tra cui: Tar Ancona, Sez. I, 25 febbraio 2023, n. 119; Tar Lombardia, Milano, Sez. I, nn. 397, 597 e 744 del 2023; Tar Campania, Sez. III, 22 febbraio 2023, n. 1152.
[20] Cfr. Adunanza Plenaria n. 5/2021 (spesso richiamata a sostegno della tesi restrittiva), pur pronunciando su una vicenda relativa alla perdita dei requisiti di una impresa consorziata non designata ai fini della esecuzione dei lavori, ha incidentalmente affermato che “il d.l. n. 32 del 2019 ha ripristinato l’originaria e limitata perimetrazione del cumulo alla rinfusa ai soli aspetti relativi disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo”.
[21] cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 22 febbraio 2023, n. 1152 e parere precontenzioso ANAC n. 76 del 22/02/2023 che, nel richiamare Cons. Stato n. 7360/2022, fanno salva la possibilità per l’impresa consorziata non qualificata di valorizzare i requisiti posseduti, in proprio, dal consorzio stabile ovvero dalle consorziate non esecutrici ricorrendo all’ordinario strumento dell’avvalimento ex art. 89 d.lgs. n. 50/2016.
[22] Da ultimo, Tar Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 16 marzo 2023, n.140; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 2 marzo 2023, n. 657; Tar Campania, Napoli, sez. I, 25 febbraio 2022, n. 1320, Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 2021, n. 964; Cons. Stato, Sez. V., 29 marzo 2021, n. 2588.
[23] Tar Campania, Napoli, Sez. I, 19/04/2023, n. 2390, precisa che: “L’art. 47 co. 1 d.lgs. n. 50/2016 prescrive che i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei soggetti di cui all’art. 45, co. 2, lett. b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dal presente codice, sostanzialmente rinviando all’art. 83 del medesimo codice dei contratti pubblici, che per l’appunto concerne i requisiti di idoneità professionale, economica e finanziaria. L’art. 83, comma 2, a sua volta rinvia al regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies la disciplina dei requisiti e delle capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all’articolo 45, lettere b) e c). Ai sensi dell’art. 216, comma 27-octies, nelle more dell’adozione del regolamento (al momento inesistente) rimangono in vigore o restano efficaci le linee guida e i decreti adottati in attuazione della previgente disposizione di cui all’art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006. Tra l’altro, l’art. 216, comma 14, prevede che “fino all'adozione del regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III (articoli da 60 a 96: sistema di qualificazione delle imprese), nonché gli allegati e le parti di allegati ivi richiamate, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. In attuazione del citato art. 36 comma 7, l’art. 81 del d.P.R. n. 207/2010 stabilisce che i requisiti per la qualificazione dei consorzi stabili sono quelli previsti dall’articolo 36, comma 7, del codice. Ne consegue, come sostenuto dal ricorrente, una reviviscenza di quest’ultima disposizione, che non può dirsi espunta dall’ordinamento. Allo stato attuale, non essendo stato adottato il Regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies, il sistema di qualificazione e la dimostrazione dei requisiti di capacità che devono essere posseduti dai consorzi stabili per concorrere alle gare pubbliche sono regolati dall’art. 36 del d.lgs. n. 163/2006 e dagli artt. 81 e 94 del d.P.R. n. 207/2010 (cfr. Tar Palermo, sez. I., 2 marzo 2023, n. 657). L’insieme di queste disposizioni delinea il regime di qualificazione dei consorzi stabili secondo il criterio del pieno cumulo alla rinfusa, salvo eccezioni. […] In definitiva, non è condivisibile l’affermazione per cui l’art. 47, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 – la cui formulazione letterale è sostanzialmente identica a quella già trasfusa nel previgente art. 35 d.lgs. n. 163/2006 – avrebbe ridotto l’ambito di operatività del cumulo alla rinfusa, circoscrivendolo ai soli mezzi ed all’organico medio annuo”.
[24] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, 02/03/2023, n. 657.
[25] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13/07/2022, n. 4731.
[26] In particolare, “le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III, nonché gli allegati e le parti di allegati ivi richiamate, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207”.
[27] In particolare, quelle relative: 1) alla mancata proposizione in appello di domande ed eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che devono intendersi rinunciate ex art. 101, comma 2 del D.lgs. n. 104/2010 (ex multis Cons. Stato Sez. III, 23/05/2019, n. 3360; Cons. Stato Sez. IV, 02/09/2019, n. 6056, Cons. Stato Sez. VI Sent., 02/01/2020, n. 23); 2) al perimetro del divieto dei “nova” di cui all’art. 104 comma 2 c.p.a., che ammette la possibilità di produzione di nuovi documenti allorquando gli stessi siano indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, sicché ratio del divieto di cui all’art. 104 comma 2 c.p.a. è da rinvenire rinvenirsi nel divieto di documentazione probatoria già rilevante nel ricorso di primo grado e che la parte non abbia prodotto per propria negligenza (ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 30/05/2022, n. 4323; Cons. Stato Sez. VI, 26/04/2022, n. 3152); 3) ai profili di ammissibilità del ricorso di appello che non deve limitarsi alla mera riproposizione delle censure formulate in prime cure, ma deve estendersi alla puntuale impugnazione dei capi della sentenza che le avevano rigettate (Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2020, n. 5208; sez. V, 26
marzo 2020, n. 2126; sez. IV, 24 febbraio 2020, n. 1355).
[28]Sul punto, P. AVALLONE -S. TARULLO, I consorzi stabili di cui all’art. 12, l. n. 109 del 1994 come modificato dall’art. 9, comma 22, l. n. 415 del 1998 «Merloni ter», in Rivista amministrativa degli appalti, 1999, p. 146, già individuavano nell’istituzione di una comune struttura di impresa «il dato essenziale caratterizzante questo nuovo istituto».
[29] La vicenda esaminata in quella sede era del tutto differente, inerendo la perdita dei requisiti di una impresa consorziata non designata ai fini della esecuzione dei lavori.
[30] Cons. Stato, VI, n. 2563/2013; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6433/2019.
[31] Cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. V, 15/01/2018, n. 187. In generale, sul principio di massima partecipazione v. M. CALABRO’, A.G. PIETROSANTI, I principi di massima partecipazione e di tassatività delle cause di esclusione nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Ambientediritto, 2/2023, p. 1 ss.
[32] Nello specifico della vicenda, vi era stato un contrasto tra Bando di gara, che in caso di consorzio stabile, prevedeva che i requisiti di cui alle precedenti lettere di capacità tecnica e professionale avrebbero dovuto essere “posseduti dal consorzio e da ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipava alla gara”; e Disciplinare che, nel regolamentare la fase di aggiudicazione, prevedeva al contrario che le 17 certificazioni di qualità da comprovarsi erano quelle dell’aggiudicatario (ovvero il Consorzio Stabile) e non anche quelle dell’impresa consorziata esecutrice.
[33] L’art. 67, comma 8, statuisce che “ai fini del rilascio o del rinnovo dell’attestazione di qualificazione SOA, i requisiti di capacità tecnica e finanziaria sono posseduti e comprovati dai consorzi sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate. La qualificazione è acquisita con riferimento a una determinata categoria di opere generali o specialistiche per la classifica corrispondente alla somma di quelle possedute dalle imprese consorziate. Per la qualificazione alla classifica di importo illimitato è in ogni caso necessario che almeno una tra le imprese consorziate già possieda tale qualificazione ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno una con qualificazione per classifica VII e almeno due con classifica V o superiore, ovvero che tra le imprese consorziate ve ne siano almeno tre con
qualificazione per classifica VI. Per la qualificazione per prestazioni di progettazione e costruzione, nonché per la fruizione dei meccanismi premiali di cui all'articolo 106, comma 8, è in ogni caso sufficiente che i corrispondenti requisiti siano posseduti da almeno una delle imprese consorziate. Qualora la somma delle classifiche delle imprese consorziate non coincida con una delle classifiche di cui all’allegato II.12, la qualificazione è acquisita nella classifica immediatamente inferiore o in quella immediatamente superiore alla somma delle classifiche possedute dalle imprese consorziate, a seconda che tale somma si collochi rispettivamente al di sotto, ovvero al di sopra o alla pari della metà dell'intervallo tra le due classifiche. Gli atti adottati dall’ANAC restano efficaci fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 2” (cfr. art. 36, comma 7, d.lgs. n. 163/2006).
[34] Cfr. Corte Cost., nn. 3/2011, 74/2008, 162/2008, 236/2009.
[35] Ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. V, 14/04/2023 n. 1424 che ne ha chiarito l’efficacia retroattiva.
La fuorviante confezione del lavoro cinematografico – la fotografia e la grafica ostentatamente sensibili al ‘rosa’, le scelte estetiche dei diversi interpreti (tutti ‘bravi ragazzi’ e ‘adeguatamente’ belli), l’apparente leggerezza dello stile recitativo, il tono da teen-comedy di buona parte dei dialoghi, la stessa ambiguità delle ‘promesse’ allusive del titolo – ha verosimilmente dissimulato al grande pubblico lo spirito di uno dei film più lucidamente spietati degli ultimi anni.
Ne Una donna promettente (Promising Young Woman, di Emerald Fennell), la protagonista (Cassie, giovane, non giovanissima), dopo aver indirettamente vissuto, da universitaria, l’esperienza dello stupro di una compagna da parte di alcuni studenti rimasti poi impuniti (non avendo nessuno creduto alla versione della vittima, che da tale evento non riuscirà più a riemergere, suicidandosi), decide di consacrare la sua vita residua a un progetto vendicativo, presentandosi di sera, apparentemente ubriaca, nei più disparati locali notturni, adescando uomini che tenteranno di approfittare delle sue condizioni per possederla fisicamente, per poi sorprenderli e terrorizzarli.
È il racconto del gatto con il topo: la donna prima attira, poi sconcerta, ridicolizza e quindi costringe le sue vittime alla vergogna, in una sorta di seduta di edificazione morale da Alcibiade platonico.
Le vicende più crude del progetto (Cassie si ritira una mattina, con noncuranza, con le braccia che sembrano interamente sporche di sangue) non appaiono mai nel film: vi si allude, le si presuppone (in una meticolosa contabilità registrata in caratteri blu o, talora, rossi), in una cornice che, si ripete, rimane attenta a conservare una rassicurante e (apparentemente) spensierata e giocosa estetica adatta a un musical ambientato negli anni ‘50.
I passaggi più significativamente rivelativi del film emergono nelle ricorrenti scene familiari, in cui Cassie condivide, con rassegnata mestizia, i pasti quotidiani con gli anziani genitori, assorta in una perduta, inconsolabile, irredimibile sensazione di vuoto e di sconfitta, a cui presto cederà anche l’effimera speranza sentimentale in lei illusoriamente suscitata dal casuale incontro con uno dei suoi vecchi compagni.
Sono i momenti in cui lo sguardo meravigliosamente espressivo di Carey Mulligan (l’attrice protagonista) rivela, nella sua smarrita assenza, l’avvenuta (spaventosa) intuizione del fondo brutale che abita le radici dell’umano, della sua vocazione spietatamente aggressiva; la lucida e desolata percezione dell’elementarità del desiderio carnale che cela dentro di sé un’inestinguibile volontà di morte (ma con un volto da ‘bravo ragazzo’).
A questa morte la donna finirà col destinare consapevolmente la propria stessa sorte (al punto di pianificare una sorta di breve e operativa sopravvivenza ‘virtuale’), per aver in fondo compreso l’irrecuperabilità del mondo che si è così improvvisamente (e orribilmente) aperto ai suoi occhi.
La pellicola risale al 2020 e, ostacolata dal tempo della pandemia, sembra riconsegnata all’attualità dalla lettura dei resoconti della cronaca più recente.
Ma dall’intollerabile crudezza delle vicende narrate, il film sembra trarre lo spunto per una più profonda riflessione che, senza pretendere di fornire risposte, torna a interrogarsi sulle ragioni che hanno condotto la storia dell’essere umano a un drammatico crocevia, alla stazione di questa tragica contrapposizione tra un’estetica vistosamente zuccherosa e superficiale e un vertiginoso crollo della dimensione etica; a interrogarsi su ciò che può aver determinato questa desolante spoliazione della brutalità naturale da ogni costume (ethos) di riconoscibile umanità.
La prospettiva da cui muove il film è quella della relazione di genere e, più specificamente, della relazione sessuale e della sua dimensione propriamente desiderante; una dimensione mai sufficientemente esplorata o coltivata, né mai adeguatamente educata a quella cura di sé che prelude, à la Foucault, a ogni forma non rigidamente normativa (o repressiva) di etopoiesi.
È proprio in relazione al tema del desiderio non curato (nei termini dell’epimeleia, prima ancora della therapeia), del resto, che il discorso psicoanalitico prefigura l’inevitabile incontro tra godimento e morte (eros e thanatos), puntuale dietro ogni sistematica ricerca della cieca distruzione di qualsivoglia senso del limite.
E come in una cupa profezia schopenhaueriana, dietro l’insufficienza delle più fragili (o incontrollate) rappresentazioni del mondo, ecco che più chiaro s’intravede (per poi rivelarsi in tutta la sua insopportabilità) lo spettro terrificante dell’avida volontà di vita che ne corrode i contorni, e che all’uomo restituisce, non più (o non ancora) riscattata, l’eco dolente della sua antica miseria.
Sommario: 1. Il processo e la statuizione del Consiglio di Stato circa il servizio di noleggio di monopattini sul territorio comunale. – 2. Il noleggio dei monopattini in free-floating e la disciplina di riferimento sostanziale. – 3. Il servizio pubblico e quello erogato in regime di libero mercato: l’applicazione della Dir. 2006/123/CE. – 4. La procedura selettiva dell’operatore: l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici. – 5. La pubblicizzazione del servizio a seguito dell’“assunzione” da parte della p.A.: un criterio da verificare caso per caso.
1. Il processo e la statuizione del Consiglio di Stato circa il servizio di noleggio di monopattini sul territorio comunale.
Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato statuisce un principio destinato a guidare le prossime procedure selettive comunali di operatori che offrono un servizio di micromobilità – hoverboard; segway; monopattini; monowheel, etc. – nei Comuni italiani: procedure in costante crescita, stante la spinta – complici la transizione ecologica ed energetica – alla ricerca di forme di mobilità sostenibile nei centri abitati.
Invero, l’utilizzo di monopattini – o mezzi leggeri a essi assimilabili – a propulsione elettrica ha subìto nell’ultimo lustro un significativo incremento d’incidenza sugli ambienti urbani: ciò è dovuto anzitutto a un branding costante della sostenibilità[1], mirato a diminuire le emissioni di CO2 nell’aria e a raggiungere obiettivi di neutralità climatica entro il 2050[2], nonché – di poi – a una spinta verso la sostituzione dei carburanti fossili con energia proveniente da fonti rinnovabili o comunque ecosostenibili[3]. Le città, così, si stima possano essere più vivibili, meno inquinate, maggiormente orientate alla c.d. mobilità dolce: la elevata qualità della vita che sul loro territorio si radica, diventa essa stessa un bene immateriale meritevole di tutela[4]. Nondimeno, perché questo valore possa diffondersi sul territorio, e dunque permeare la cultura, esso non può esser lasciato alla singola iniziativa del privato che acquisti un monopattino elettrico: sempre più enti territoriali comunali, dunque, scelgono di farsi essi stessi vettori di questo valore, mettendo a disposizione mezzi in sharingsul loro territorio tramite operatori economici a ciò deputati.
Il vantaggio, dal punto di vista dell’utente, è indubbio: lo spostamento da un punto all’altro della città può esser effettuato agevolmente, senza restar bloccato nel traffico e con una fatica tutto sommato limitata, con pagamento digitale tramite app – pagando solo “lo sblocco” del mezzo e la corsa – e percorrendo un tragitto a sua libera scelta, fuori da una rete predeterminata di tratti, in modalità c.d. free-floating.
La diffusione del mezzo genera, altrettanto indubbiamente, qualche effetto collaterale: primo fra tutti, la compromissione della sicurezza del traffico veicolare. Come si vedrà tra poco, infatti, non esiste ancora una disciplina legislativa organica sull’utilizzo e sulla circolazione dei mezzi di micromobilità a propulsione elettrica – né, per il vero, si attestano sul punto richieste unanimi, poiché la normativizzazione del fenomeno potrebbe tradursi in un appesantimento dello strumento e potrebbe indurre a non utilizzarlo con frequenza – né spesso le sedi viarie sono dotate di adeguate piste ciclabili destinate anche a questi mezzi, i quali circolano dunque liberamente in carreggiata e sui marciapiedi.
È anche questa la ragione per la quale sempre più spesso i Comuni scelgono di regolamentare tramite il rilascio di licenze il servizio di noleggio dei monopattini elettrici sui territori di loro competenza: se per un verso essi diffondono la cultura della mobilità dolce, per altro verso proteggono la pubblica incolumità, il decoro urbano e la fluidità del traffico viario.
La tendenza, tuttavia, si presta a un equivoco di fondo, che si ritrova spesso nei contenziosi tra i Comuni e le società produttrici di monopattini elettrici[5]: e cioè che gli enti territoriali, nel momento in cui selezionano gli operatori economici atti a erogare il servizio di micromobilità, lo devono fare applicando il Codice dei contratti pubblici[6], ricadendo la selezione – e il successivo contratto – nello schema della concessione di servizio pubblico.
È quanto accaduto anche nella sentenza in commento, nella quale la società Helbiz Italia S.r.l., pretermessa nella selezione pubblica per l’offerta di monopattini, ha contestato all’Amministrazione comunale di Verona di non aver applicato le disposizioni del Codice dei contratti, così agendo in violazione di legge ed eccesso di potere.
Il Giudice di primo grado[7] e quello d’appello sono stati, però, concordi nello statuire il contrario, così rigettando le doglianze della società ricorrente (e poi appellante): «Alla procedura per l’individuazione di operatori interessati a svolgere il servizio di noleggio di monopattini elettrici con sistema di free floating sul territorio comunale si applicano le sole disposizioni del codice dei contratti pubblici, espressive di principi generali e aventi portata applicativa generalizzata. Nel caso in cui – per il contingentamento del numero di titoli disponibili – il rilascio delle autorizzazioni avvenga all’esito di una procedura comparativa tra gli interessati, non oggetto di specifica disciplina normativa, le regole proprie di un ordinario procedimento di autorizzazione devono essere declinate in rigoroso rispetto dei criteri di imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità cui ogni procedura selettiva deve conformarsi».
Ciò in quanto il servizio di noleggio dei monopattini non è riconducibile allo schema né dell’appalto né della concessione di servizio pubblico e non rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 50/2016, sicché l’Amministrazione non è tenuta all’ossequio a tutte le sue disposizioni, a meno di un suo volontario e dichiarato autovincolo. Né può ritenersi che il Codice abbia una vis expansiva in tutte le sue disposizioni: il legislatore, definendo puntualmente l’ambito di applicazione del Codice, ha inteso escludere che l’articolato complesso normativo di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 si applichi alla generalità delle procedure a evidenza pubblica.
Solo le disposizioni del Codice espressive di principi generali hanno portata applicativa generalizzata, sicché, al di fuori dell’ambito di applicazione del Codice e delle Direttive appalti trovano applicazione, non le singole disposizioni del d.lgs. n. 50 del 2016, ma solo i principi generali – nazionali e unionali – di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, mutuo riconoscimento e proporzionalità, principi tutti che richiedono la predeterminazione dei criteri e delle modalità di selezione dei candidati.
La sentenza in commento è ricca di statuizioni rilevanti anche sotto alcuni profili specifici delle procedure selettive[8]: ai nostri fini, tuttavia, richiede un esame puntuale la concezione del servizio di noleggio dei monopattini come attività economica privata e non come servizio pubblico.
2. Il noleggio dei monopattini in free-floating e la disciplina di riferimento sostanziale.
Anzitutto, il quadro normativo di riferimento. Come detto nel paragrafo precedente, non v’è ancora una disciplina organica che regoli la circolazione di questi mezzi[9], ma il legislatore ha di recente introdotto disposizioni che si riferiscono al procedimento per la loro diffusione sui territori comunali e alle loro dotazioni di sicurezza.
La disciplina primaria è contenuta in un atto ministeriale, il d.m. 4 giugno 2019 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti[10], e nell’art. 1, commi 75 ss., l. 27 dicembre 2019, n. 160 (c.d. Finanziaria per il 2020), e si sviluppa in un’articolata e complessa interrelazione di disposizioni che hanno carattere procedimentale e sostanziale, in particolare per la convivenza tra l’utilizzo dei monopattini e la circolazione stradale del traffico veicolare.
Anzitutto, il d.m., rubricato «Sperimentazione della circolazione su strada di dispositivi per la micromobilità elettrica», il quale si propone l’obiettivo di «individuare specifici criteri per l’autorizzazione della sperimentazione della circolazione su strada, di dispositivi per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica»; obiettivo che interseca anche necessità ambientali di abbassamento delle soglie d’inquinamento atmosferico[11].
Il decreto definisce «le modalità di attuazione e gli strumenti operativi della sperimentazione della circolazione su strada di dispositivi per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica»[12], prevedendo che questi dispositivi debbano avere precise caratteristiche costruttive che ne garantiscano la sicurezza – anche in termini di velocità e potenza massima – e la visibilità anche su sedi viarie buie[13]. In secondo luogo, il d.m. attribuisce ai Comuni compiti di delicata vigilanza sui dispositivi dei quali autorizzano la circolazione: anzitutto essi sono gli unici enti che – con provvedimento adottato nelle forme di cui all’art. 7, Codice della strada, ovvero con ordinanza del sindaco o con delibera della giunta comunale – possono autorizzare la circolazione dei dispositivi «esclusivamente in ambito urbano» e limitatamente alle strade che hanno determinate caratteristiche costruttive e realizzative[14]. La medesima delibera della giunta comunale determina anche le modalità di sosta dei veicoli consentite e provvede a istituire forme di informazione della cittadinanza[15]. Il d.m. introduce anche norme di comportamento per gli utenti: solo maggiorenni, o almeno titolari di patente AM, da soli e senza passeggeri, a velocità moderata e ad andatura costante[16].
Il d.m. è stato poi integrato, e in parte superato, come detto, dalla Finanziaria per il 2020, il cui art. 1, commi 75 ss. regola ulteriormente l’utilizzo e la circolazione dei monopattini – anzi, è dedicato esclusivamente ai monopattini – tramite disposizioni che, equiparando espressamente questi mezzi ai velocipedi, ne disciplinano le caratteristiche costruttive[17], dettano prescrizioni di utilizzo e circolazione per gli utenti[18], per gli operatori di noleggio[19], e obblighi di vigilanza per i Comuni, specie in merito alla sosta dei dispositivi[20]. La Finanziaria rinvia anche a un adeguato apparato sanzionatorio nel caso di violazione delle disposizioni[21].
Quanto, invece, alla disciplina del servizio, e quindi alla relazione che s’instaura tra il Comune e l’operatore economico, vale solo l’art. 1, co. 75-ter, l. Finanziaria per il 2020, in base al quale «Fermo restando quanto previsto dai commi da 75 a 75-vicies bis, i servizi di noleggio dei monopattini elettrici a propulsione prevalentemente elettrica, anche in modalità free-floating, possono essere attivati esclusivamente con apposita deliberazione della Giunta comunale, nella quale devono essere previsti, oltre al numero delle licenze attivabili e al numero massimo dei dispositivi in circolazione: a) l’obbligo di copertura assicurativa per lo svolgimento del servizio stesso; b) le modalità di sosta consentite per i dispositivi interessati; c) le eventuali limitazioni alla circolazione in determinate aree della città».
Dalla disposizione, per il Giudice amministrativo, si ricavano due elementi, sui quali ruota la decisione in commento: a)per lo svolgimento del servizio di noleggio dei monopattini elettrici è necessario il rilascio di un titolo autorizzativo (indicato dal legislatore nella “licenza”) e b) il numero degli atti che possono essere rilasciati è contingentato.
3. Il servizio pubblico e quello erogato in regime di libero mercato: l’applicazione della Dir. 2006/123/CE.
Quindi, secondo la norma, la Giunta comunale è l’organo competente ad attivare il servizio di noleggio di monopattini elettrici; la sua deliberazione prevede per legge:
- il numero delle licenze attivabili;
- il numero massimo di dispositivi da far circolare;
- l’obbligo della copertura assicurativa;
- le modalità di sosta dei dispositivi consentite;
- le eventuali aree della città a percorrenza limitata.
Il servizio di noleggio dei monopattini è, in altre parole, un servizio soggetto ad autorizzazione: in altre parole, esso è offerto dal libero mercato, per il quale valgono le regole della concorrenza, non quelle della regolazione pubblica.
Questo è uno snodo delicato del ragionamento del Giudice, sviluppato anche in decisioni su controversie analoghe, cui pure in questa sede si farà riferimento: il percorso argomentativo merita attenzione perché funge da presupposto per l’esclusione dell’applicabilità del Codice dei contratti pubblici alle procedure selettive.
Ora, qui abbiamo un ente territoriale comunale che sceglie di selezionare operatori economici privati per l’offerta di un servizio sul proprio territorio: il servizio è remunerato all’operatore da parte dell’utenza, dunque l’operatore si assume un rischio tipicamente imprenditoriale. Le modalità di erogazione sono anche regolate nei loro elementi essenziali dalla normativa – il d.m. 4 giugno 2019 e soprattutto la l. n. 160/2019 – nonché dalla delibera della Giunta comunale. Sembrerebbero dunque esservi tutti i requisiti della concessione di pubblico servizio: la regolazione, l’ente pubblico, la gestione, l’operatore economico, l’utenza pagante, il rischio imprenditoriale[22]. È questo che, d’altra parte, spinge gli operatori che rispondono alle manifestazioni d’interesse emanate dalle Amministrazioni comunali a impugnare gli esiti selettivi, quando non satisfattivi della loro pretesa, per mancata applicazione del Codice dei contratti pubblici.
In realtà, la visione è piuttosto miope, poiché quello erogato dagli operatori economici non è, in effetti, un servizio pubblico: bensì, come detto, un servizio economico in libero mercato. Il quale, per ragioni di tutela della pubblica incolumità, necessita di una previa autorizzazione pubblica allo svolgimento (appunto, la “licenza”).
A ben vedere, come sottolineato dalla giurisprudenza, manca, nelle fattispecie di noleggio dei monopattini elettrici, un requisito fondamentale del servizio pubblico: ovvero la sua «assunzione» da parte dell’ente territoriale, il quale poi lo «affida» a un soggetto esterno per la sua gestione.
L’assunzione del servizio da parte dell’ente sancisce, in altre parole, il riconoscimento politico del bisogno della collettività che non può essere soddisfatto dal mercato – non solo i residenti, ma più in generale la platea di utenti[23] – e trasforma l’attività che ne costituisce oggetto in attività di interesse pubblico[24], che la stessa A.c. deve provvedere a regolare in modo da assicurare che essa sia effettivamente funzionale allo scopo cui è destinata. Entrano, dunque, in vigore in quel momento tutti i principi, di fonte costituzionale (artt. 2 e 97 Cost.), ma anche europea, che regolano i servizi pubblici: legalità; doverosità del servizio (i pubblici poteri devono garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il principio di trasparenza; il principio di proporzionalità[25].
Quando, poi, la gestione del servizio non è assunta dalla stessa Amministrazione, ma affidata a un operatore economico – laddove la gestione sia in grado di produrre un utile e sia, dunque, d’interesse economico – la scelta della p.A. può ricadere o su uno o più affidatari definiti “concessionari”, selezionati mediante procedure di evidenza pubblica, che opereranno in regime di monopolio o di oligopolio (c.d. concorrenza per il mercato), oppure su un numero indeterminato di soggetti autorizzati a erogare il servizio in concorrenza fra loro, nel rispetto però degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato).
È così assicurata la gestione del servizio in modalità imprenditoriale, con degli aggiustamenti necessari derivanti dal fatto che il concessionario – dovendo assolvere a obblighi di servizio[26] che valgono in ogni condizione, proprio per garantirne la fruibilità all’utenza – potrebbe anche non produrre utili e dunque ricevere una compensazione economica dall’Amministrazione: è la tipica deroga al c.d. divieto di aiuti di Stato, sancito dalla giurisprudenza unionale[27].
Ma tutto questo, nella fattispecie del noleggio dei monopattini, è assente.
Manca, cioè, come detto, l’assunzione politica del bisogno della collettività, la cui soddisfazione è pienamente incontrata da un mercato florido e concorrenziale di produttori di monopattini elettrici. Si tratta, come già detto, di un’attività imprenditoriale di servizio al pubblico ma erogata da privati e regolata dal libero mercato: a essa, insomma, non si applicano le Direttive appalti né il Codice dei contratti pubblici, bensì la Direttiva 2006/123/CE, Bolkestein, sui servizi liberalizzati nel mercato europeo. Ovvero la Direttiva che sottrae le attività di servizio[28] a qualunque controllo amministrativo ex ante, dunque al potere amministrativo concessorio o autorizzatorio[29], attuando i principi unionali della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi nell’Unione.
Poiché allora il servizio è liberalizzato[30], trova applicazione l’art. 9, Dir. 2006/123/CE, in base al quale queste attività – facendo parte del libero mercato – possono essere soggette alla previa autorizzazione soltanto qualora lo richiedano ragioni imperative d’interesse generale. L’autorizzazione è, dunque, una eccezione che va intesa in senso molto restrittivo, i cui presupposti vanno applicati e rinvenuti rigidamente.
La ragione imperativa d’interesse generale è, in questa fattispecie[31], la tutela della pubblica incolumità sulle strade: la necessità di regolazione dell’attività di noleggio dei dispositivi sorge cioè in ragione del proliferare dei soggetti che ha spontaneamente iniziato a erogare il servizio in modalità free-floating (che consente la restituzione dei beni in luoghi non determinati) e per evitare che questa attività sia svolta in maniera pericolosa e disordinata, in modo da scongiurare impatti negativi sul sistema di circolazione stradale, sull’ordine e la sicurezza urbana nonché sull’uso del suolo pubblico. È escluso che la regolazione abbia la specifica finalità di garantire a tutti gli amministrati la possibilità di usufruire del servizio secondo i principi di imparzialità, universalità, continuità, trasparenza, più sopra illustrati[32].
Le restrizioni sono dunque introdotte a esclusiva tutela dell’interesse pubblico volto a scongiurare la circolazione “selvaggia” dei dispositivi, e non anche (come avviene nell’ambito del servizio pubblico) al fine di assicurare un minimo di redditività per il privato[33]: il ricorso all’evidenza pubblica deriva, infatti, dal numero limitato di monopattini introducibili nel territorio comunale e, quindi, dalla natura ristretta del mercato di riferimento ai sensi dell’art. 1, comma 75-bis e ss., l. n. 160 del 2019[34].
La limitatezza del mercato di riferimento induce, allora, a una selezione degli operatori da ammettere all’erogazione del servizio, in attuazione dell’art. 12, Dir. 2006/123/CE – recepito in Italia dall’art. 16, d.lgs. n. 59/2010[35]. Una selezione che, a ben vedere, non è regolata interamente dal Codice dei contratti pubblici – trovandosi in diverso ambito disciplinare – bensì puramente i principi di non discriminazione, trasparenza, proporzionalità[36].
4. La procedura selettiva dell’operatore: l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici.
Per il Giudice amministrativo, logica conseguenza della configurazione del servizio come liberalizzato e della mancata assunzione del medesimo da parte dell’Amministrazione comunale è che il provvedimento col quale il Comune ha avviato la procedura selettiva non poteva essere soggetto all’applicazione del Codice dei contratti pubblici, bensì solo ai suoi principi generali: quelli sì, gli unici dotati di vis expansiva e, d’altra parte, richiamati dalla stessa Direttiva 2006/123/CE.
Ciò, beninteso, non vietava all’Amministrazione di fare applicazione delle disposizioni del Codice: tanto che il Comune – nella fattispecie decisa dalla sentenza in commento – aveva richiamato l’art. 80 sui requisiti generali del prestatore. Ma, al contempo, in difetto di espressa previsione negli atti di procedura, deve escludersi che il Comune si fosse in generale autovincolato all’applicazione del Codice.
Né il Codice, di per sé, è estensibile in via analogica a tutte le procedure evidenziali: l’ambito oggettivo e soggettivo del testo normativo sui contratti pubblici è ben definito, trattandosi di norma speciale, sicché ne è esclusa l’analogia legis[37]. Solo le norme che costituiscano espressione di principi generali hanno, come detto, portata applicativa generalizzata.
5. La pubblicizzazione del servizio a seguito dell’“assunzione” da parte della p.A.: un criterio da verificare caso per caso.
Le ricostruzioni giurisprudenziali – da ultimo, quella in commento – profilano l’attività di noleggio e condivisione dei monopattini a propulsione elettrica come servizio offerto dal libero mercato: sicché il Comune, quando decide di rilasciare licenze agli operatori economici, lo fa solo per ragioni d’interesse pubblico, ovvero per disciplinare un’attività che, altrimenti, rischierebbe d’esser dannosa per l’incolumità e il decoro urbano.
Il costrutto normativo – risultante dal combinato disposto del d.m. 4 giugno 2019 e della l. n. 160/2019 – si presta a questa lettura: la quale, in effetti, dev’essere fatta con estrema attenzione. Invero, non è così facile distinguere tra la fattispecie del pubblico servizio – ricadente nella disciplina degli appalti pubblici – e quella del servizio liberalizzato su autorizzazione pubblica – ricadente nella Direttiva Bolkestein.
In entrambi i casi figura un ente territoriale che sceglie, in qualche misura, di rivolgersi a imprese – o comunque a soggetti a esso esterni – perché costoro eroghino il servizio all’utenza secondo un quadro regolamentare eterodeterminato.
Quel che fa la differenza tra l’uno e l’altro, però, è l’atto politico di “assunzione” del servizio da parte dell’ente territoriale: il riconoscimento, cioè, del rilievo pubblicistico dell’attività da prestare all’utenza, la quale – così – avrà un diritto soggettivo a usufruirne secondo i principi europei più sopra citati, l’universalità e l’accessibilità anzitutto.
Manca, invece, nel servizio privato liberalizzato, questa componente di doverosità dell’Amministrazione: sicché il rapporto tra utente e operatore economico resta sul piano della libera contrattazione, esulando dalla garanzia dell’erogazione secondo condizioni calmierate.
Nondimeno, c’è qualche nota stonata: la restrizione all’ingresso degli operatori, tramite il rilascio della licenza, è indubbiamente una limitazione della concorrenza. Concorrenza che, peraltro, in alcune città, spesso non esiste: in diversi Comuni la licenza è rilasciata a un solo operatore che offre i propri mezzi in numero bastevole per coprire il territorio in condizioni di sicurezza. Sicché, all’utente non è davvero offerta la scelta concorrenziale (gli operatori hanno anche tariffe diverse), ma semplicemente sta a lui scegliere se aderire o meno all’unica tipologia di erogazione presente sul territorio.
D’altra parte, se lo sharing non è servizio pubblico, allora l’utente non ha un diritto nei confronti dell’Amministrazione che lo regola: perché non è lei, ad esserselo “assunto” in riconoscimento di qualche interesse pubblico da tutelare.
Di fatto, il sistema oggi non è diverso da quello dei taxi, tale per cui spesso il rilascio di licenze è fortemente condizionato, con una sicura barriera all’ingresso di operatori sul mercato, non graditi a chi già vi opera: restano memorabili le sentenze della Corte di giustizia circa il servizio Uber Pop in Francia e Spagna[38].
La giurisprudenza – come anche la sentenza in commento – non pare escludere, tuttavia, che in astratto il noleggio possa qualificarsi come servizio pubblico: perché emerge dalle pronunce che v’è una verifica sulla concreta assunzione di quel servizio da parte dell’Amministrazione. Ove essa non vi sia, allora il servizio è offerto dal libero mercato e ricade nello schema della Direttiva 2006/123/CE.
Ma non pare vietato dal diritto UE che lo Stato possa riconoscere che un certo servizio sia escluso dall’applicazione di quella Direttiva: «possono essere considerati servizi d’interesse economico generale soltanto i servizi la cui fornitura costituisca adempimento di una specifica missione d’interesse pubblico affidata al prestatore dallo Stato membro interessato. Tale affidamento dovrebbe essere effettuato mediante uno o più atti, la cui forma è stabilita da ciascuno Stato membro, e precisare la natura di tale specifica missione» (considerando n. 70 della Direttiva 2006/123/CE).
Sicché, nelle città cambiano molto rapidamente, nelle quali la digitalizzazione diventa quotidianità e la cultura della mobilità sostenibile, rapida e dolce, fa parte della vita degli utenti, è probabile che sia opportuno iniziare a qualificare anche il noleggio dei monopattini come servizio pubblico: l’“assunzione” da parte dei Comuni si fa auspicabile, perché riuscirebbe a regolare meglio le condizioni di erogazione del servizio e controllerebbe meglio la circolazione dei mezzi, ma soprattutto ne garantirebbe l’omogenea e universale prestazione sul territorio.
Tornerebbe, in veste nuova, il tema dei servizi pubblici di trasporto locale, che ingloberebbe nella sua “missione” in senso unionale – oltre ai mezzi che già conosciamo ampiamente e che provengono dal secolo scorso, quali bus, tram, metropolitane, mezzi che siano su gomma o su rotaia – anche i nuovi mezzi, elettrici, sostenibili, ma garantiti dall’Amministrazione locale. Applicare lo schema della concessione di servizio pubblico potrebbe così garantire uno standard di mezzi numerico ma anche qualitativo, assicurarne l’universalità nell’accesso, consentire di sanzionare più prontamente le condotte scorrette di utenti e operatori, nonché – ovviamente – applicare procedure selettive che siano più puntualmente disciplinate.
Ma soprattutto, consentirebbe alle Amministrazioni locali di constatare che le proprie collettività di riferimento stanno cambiando: ne evolvono i valori, le esigenze, gli interessi. Ai quali bisogna far fronte. Una “buona Amministrazione” dovrebbe prenderne atto.
[1] L’operazione di branding attribuisce al valore metagiuridico della «sostenibilità» un rilievo patrimoniale sul mercato, modificando l’asset dei marchi: in altre parole, oggi, il segno celebre, il marchio, ha un valore evocativo e suggestivo, sì da orientare acquisti e comportamenti attratti maggiormente da quel determinato valore in un certo momento storico. Si assiste così al proliferare di società e imprese che si attribuiscono una produzione di beni e/o servizi “sostenibili” e al graduale mutamento del comportamento dei consumatori e utenti, i quali preferiscono acquistare un bene – o usufruire di un servizio – più in linea con quel valore. V. in proposito, sotto l’aspetto civilistico-commerciale, C. Mignone, I segni celebri. Proprietà, funzione, usi civili, Napoli, 2022, spec. p. 20 ss.
[2] Vedi il sito ufficiale del Parlamento europeo, recante la normativa finora adottata e gli obiettivi declinati della neutralità climatica: https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20190926STO62270/neutralita-carbonica-cos-e-e-come-raggiungerla?&at_campaign=20234-Green&at_medium=Google_Ads&at_platform=Search&at_creation=RSA&at_goal=TR_G&at_audience=neutralità%20climatica&at_topic=Carbon_Neutral&at_location=IT&gclid=EAIaIQobChMInePsud_t_wIVmPuyCh0QtwfzEAAYASAAEgIhpfD_BwE.
[3] La ricerca di autonomia energetica rispetto all’acquisto di carburanti fossili ha in sé ragioni ecologiche e geopolitiche. Sia consentito il rinvio a C. Napolitano, A. Gorgoni, Energy As A Common: New Paths Of Production. The Key-Role Of Energy Communities In The Italian Context, in Ius Publicum, n. 1/2023, pp. 1-38.
[4] Si v. in proposito P.L. Portaluri, Spunti su diritto di ricorso e interessi superindividuali: “quid noctis, custos”?, in Riv. giur. ed., n. 5/2019, pp. 401 ss., il quale – nell’enfatizzare la perdita del paradigma bipolare tra bene e interesse, nell’ambito del processo amministrativo, ed esaminando la proliferazione di interessi diffusi che prescindono dalla materialità dei beni a essi sottesi, i quali sfuggono alla dominicalità tradizionale – così afferma: «La considerazione del territorio quale “punto di ricaduta” degli interessi espressi da una comunità a vario titolo insediata ne individua una peculiarità di sostrato materiale: quegli interessi non sono sempre sostanziati da singoli beni, individuati e determinati, ma non di rado da un bonum (comune) materiale tale perché riferibile a un novero più o meno indistinto di soggetti, i quali possono goderne con modalità assai diverse fra loro. […] È infatti necessario vedere anzitutto quel bene (comune) materiale nella sua accezione complessiva e organica, esito e risultante di una molteplicità complessa di fattori causali fra loro interagenti verso quell’assetto finale, meritevole di tutela […]. Questo bene – ripeto: indubbiamente materiale, eppure al contempo evanescente nella sua stessa pensabilità in termini di stringente ed esclusiva fisicità – può essere sottoposto (più facilmente nel primo dei tre esempi appena fatti) a una sorta di trasmutazione: indossando occhiali distorcenti, può essere confuso con altri beni, che invece ne ricevono beneficio. Il primo può essere costituito da uno o più beni (immobili, ma anche mobili o semi-mobili, come impianti di c.d. mobilità dolce, bike sharing, aree a verde pubblico, assetti viari con abbondanza di woonerf: il catalogo è vasto ed eterogeneo) che generano nel loro complesso gli effetti positivi meritevoli di tutela. I secondi sono beni – si pensi ad abitazioni, uffici, etc. – che quella sommatoria di qualità trasferiscono ai loro fruitori. Il bene materiale protetto è quello complessivo più sopra descritto per primo, o uno di quelli – specifici e puntuali – di cui alla seconda esemplificazione? Dalla risposta dipende – ovvio – l’ampiezza dell’accesso all’azione e dunque la possibilità che il bene (comune) materiale riesca a ricevere o meno tutela».
[5] Si v. per esempio, oltre alla sentenza in commento, anche Tar Lombardia, III, 03 luglio 2020, n. 1274; Id., 10 giugno 2021, n. 1416.
[6] Ancora il riferimento è al d.lgs. n. 50/2016. Il nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 36/2023, non è ancora pienamente efficace, alcune sue disposizioni entrando in vigore il 1 luglio 2023, altre il 1 gennaio 2024. Su di esso, però, si è già espressa autorevole dottrina, per esempio circa gli aspetti della tutela giurisdizionale: cfr. M.A. Sandulli, Procedure di affidamento e tutele giurisdizionali: il contenzioso sui contratti pubblici nel nuovo Codice, in Federalismi.it, n. 8/2023. Tra le trattazioni organiche sul Codice già pubblicate, cfr. C. Contessa, P. Del Vecchio, Codice dei Contratti Pubblici. Annotato articolo per articolo. D.lgs. 31 marzo 2023 n. 36, vol. I, Napoli, 2023.
[7] Tar Veneto, I, 18 marzo 2022, n. 476.
[8] Si riportano qui di seguito gli altri principi enucleabili dalla pronuncia, pubblicati in www.giustizia-amministrativa.it:
«La valutazione delle offerte nonché l’attribuzione dei punteggi da parte della commissione rientrano nell’ampia discrezionalità di cui essa gode, con la conseguenza che, fatto salvo il limite della abnormità della scelta tecnica, sono inammissibili le censure che impingono nel merito di valutazioni per loro natura opinabili, e sollecitano il giudice amministrativo a esercitare un sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall’art. 134 c.p.a.».
«Per ciò che concerne la competenza dei commissari, il requisito dell’esperienza nello specifico settore non riguarda indistintamente tutti i componenti della commissione. Lo stesso va, infatti, interpretato non secondo un approccio formale e atomistico, che tenga conto delle sole professionalità tecnico-settoriali implicate dagli specifici criteri di valutazione la cui applicazione sia prevista dalla lex specialis, ma secondo un approccio di natura sistematica e contestualizzata, che valorizzi le professionalità occorrenti a valutare sia le esigenze della pubblica amministrazione, alle quali quei criteri siano funzionalmente ordinati, sia i concreti aspetti gestionali ed organizzativi sui quali vanno ad incidere. Non è imposta, in sostanza, una rigida corrispondenza tra competenza dei membri della commissione e ambiti materiali che concorrono all’integrazione del complessivo oggetto del contratto. La presenza, pertanto, di componenti portatori di diverse esperienze professionali, sia di natura gestionale ed amministrativa, sia di natura tecnica, risponde, in un rapporto di complementarietà, alle esigenze valutative imposte dall’espletamento della procedura evidenziale (Nella fattispecie in esame, il comune aveva correttamente individuato professionalità adeguate per l’esame delle proposte rispetto all’oggetto della procedura ovvero il noleggio di monopattini elettrici in sharing nei dirigenti degli uffici che si occupano di viabilità, sicurezza, mobilità e traffico e di attività produttive, atteso che gli aspetti di maggior rilevanza pubblica del servizio riguardano l’impatto dei dispositivi di micro-mobilità sulla circolazione stradale, sul decoro cittadino e sull’ambiente)».
«Se è vietato per il seggio di gara enucleare criteri o sub criteri non previsti e avulsi da quelli stabiliti nella lex specialis o che comportino l’alterazione del peso di quelli ivi contemplati, è invece consentito alla commissione effettuare una declinazione ed una specificazione dei criteri e dei sub criteri. Tale modus operandi è legittimo in quanto la commissione non ha in alcun modo modificato i criteri di valutazione, cui aveva autovincolato la propria discrezionalità, ma, a ulteriore garanzia della trasparenza del percorso motivazionale che presiede all’attribuzione dei punteggi per le offerte, ha solo specificato le modalità applicative di tale operazione, senza apportare una modifica sostanziale ai criteri di valutazione e ai fattori di ponderazione fissati nell’avviso nonché senza alcuna modifica postuma».
«Nelle procedure di evidenza pubblica, l’incompatibilità del presidente non è automatica, ma va valutata sempre in concreto sulla base di comprovate ragioni di interferenza e condizionamento. Il ruolo di responsabile unico del procedimento può coincidere con le funzioni di commissario di gara o di presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la concreta dimostrazione dell’incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi (Nella fattispecie in esame, la sezione concludeva che l’appellante non aveva allegato e provato alcun elemento oggettivo da cui potesse evincersi, anche solo a livello indiziario, una situazione di interferenza o condizionamento tale da alterare il confronto competitivo tra i partecipanti alla manifestazione di interesse, limitandosi invece ad insistere sull’applicazione incondizionata della causa di incompatibilità di cui all’art. 77, comma 4, del codice dei contratti pubblici)».
[9] È di questi giorni la notizia dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un disegno di legge sulla sicurezza stradale che introduce novità circa i monopattini elettrici – per esempio obbligo di indossare il casco, obbligo di targa e assicurazione (art. 7, d.d.l. del 28 giugno 2023) – e delega il Governo alla riforma del Codice della Strada, la cui prima approvazione risale al 1992.
[10] In https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2019-07-12&atto.codiceRedazionale=19A04569&elenco30giorni=false.
[11] Si legge nell’epigrafe del d.m.: «Considerato che presso diverse zone ed agglomerati del territorio nazionale si registrano superamenti dei valori limite di qualità dell’aria per il materiale particolato PM10 ed il biossido di azoto;
Ritenuto che sussista pertanto la necessità di adottare interventi addizionali rispetto a quelli fino ad oggi previsti al fine di prevenire e fronteggiare i superamenti dei valori limite di concentrazione atmosferica del materiale particolato PM10 registrati a partire dal 2005 sul territorio nazionale;
Considerato che tale necessità è stata espressa anche nel protocollo d’intesa per l’adozione coordinata e congiunta di misure per il miglioramento della qualità dell’aria del 4 giugno 2019, che individua tra le attività da porre in essere, l’adozione del presente decreto;
Ritenuto quindi che le presenti disposizioni possano ritenersi utili ai fini del contrasto all’inquinamento atmosferico, in virtù dei benefici derivanti dalla variazione della quota modale degli spostamenti per la mobilità personale con dispositivi a propulsione prevalentemente elettrica».
[12] Art. 1, d.m. 4 giugno 2019.
[13] Per esempio, art. 2, d.m. cit.: «I dispositivi non auto-bilanciati sono dotati di motore elettrico avente potenza nominale massima non superiore a 500W e di segnalatore acustico. 4. Il dispositivo auto-bilanciato del tipo segway deve essere dotato di segnalatore acustico. 5. Da mezz’ora dopo il tramonto, durante tutto il periodo dell'oscurità e di giorno, qualora le condizioni atmosferiche richiedano l’illuminazione, tutti i dispositivi di cui al comma 1 sprovvisti o mancanti di luce anteriore bianca o gialla fissa e posteriormente di catadiottri rossi e di luce rossa fissa, utili alla segnalazione visiva, non possono essere utilizzati, ma solamente condotti o trasportati a mano. 6. I dispositivi non possono essere dotati di posto a sedere per l’utilizzatore e sono destinati ad essere utilizzati da quest’ultimo con postura in piedi. 7. I dispositivi in grado di sviluppare velocità superiori a 20 km/h, al fine di poter essere utilizzati nell’ambito della sperimentazione di cui all’art. 1, devono essere dotati di regolatore di velocità, configurabile in funzione di detto limite. In ogni caso, per poter essere utilizzati su aree pedonali, tutti i dispositivi devono essere dotati di regolatore di velocità, configurabile altresì in funzione di una velocità non superiore a 6 km/h».
[14] Art. 5, d.m. cit.: «i comuni valutano che le stesse [le infrastrutture stradali e/o parti di strada, n.d.r.] abbiano caratteristiche geometriche, funzionali e di circolazione adeguate in relazione alla tipologia dei dispositivi per la micromobilità elettrica ammessi a circolare sulle stesse ed agli altri utenti della strada».
[15] Artt. 3 e 4, d.m. cit.. In particolare, art. 4, co. 3: «I comuni provvedono nella delibera della giunta comunale relativa alla sperimentazione di cui all’art. 4 comma 1 e ai successivi atti applicativi, ad esplicitare che per la sosta i conduttori dei dispositivi si attengano a quanto previsto nella regolamentazione di cui al comma 1. Nella medesima delibera i comuni, qualora istituiscano o affidino servizi di noleggio dei dispositivi in condivisione, anche in modalità free-floating, prevedano di rendere obbligatoria l’attivazione di una adeguata azione di informazione nei confronti degli utilizzatori da parte delle società responsabili del servizio circa le regole di utilizzo, fra le quali quelle relative alla sicurezza stradale, alla velocità, alle modalità consentite di sosta. I comuni prevedono, nella istituzione o nell’affidamento del servizio di noleggio, l’obbligo di coperture assicurative per l’espletamento del servizio stesso».
[16] Art. 6, d.m. cit.
[17] Art. 1, co. 75 e 75-bis, l. n. 160/2019: «I monopattini a propulsione prevalentemente elettrica possiedono i seguenti requisiti:
a) le caratteristiche costruttive di cui all’allegato 1 annesso al decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 4 giugno 2019, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 162 del 12 luglio 2019;
b) assenza di posti a sedere;
c) motore elettrico di potenza nominale continua non superiore a 0,50 kW;
d) segnalatore acustico;
e) regolatore di velocità configurabile in funzione dei limiti di cui al comma 75-quaterdecies;
f) la marcatura ‘CE’ prevista dalla direttiva 2006/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2006.
75-bis. A decorrere dal 30 settembre 2022, i monopattini a propulsione prevalentemente elettrica commercializzati in Italia devono essere dotati di indicatori luminosi di svolta e di freno su entrambe le ruote. I monopattini a propulsione prevalentemente elettrica già in circolazione prima di tale data devono essere adeguati alle prescrizioni del primo periodo entro il 1° gennaio 2024».
[18] Cfr. per esempio art. 1, co. da 75-octies a 75-quinquiesdecies.
[19] Per esempio, art. 1, co. 75-sexiesdecies: «Gli operatori di noleggio di monopattini elettrici, al fine di prevenire la pratica diffusa del parcheggio irregolare dei loro mezzi, devono altresì prevedere l’obbligo di acquisizione della fotografia, al termine di ogni noleggio, dalla quale si desuma chiaramente la posizione dello stesso nella pubblica via».
Art. 1, co. 75-septiesdecies: «Gli operatori di noleggio di monopattini elettrici sono tenuti ad organizzare, in accordo con i comuni nei quali operano, adeguate campagne informative sull’uso corretto del monopattino elettrico e ad inserire nelle applicazioni digitali per il noleggio le regole fondamentali, impiegando tutti gli strumenti tecnologici utili a favorire il rispetto delle regole».
[20] Art. 1, co. 75-quinquiesdecies: i Comuni possono individuare le aree di sosta, garantendo adeguata capillarità, privilegiando la scelta di localizzazioni alternative ai marciapiedi. Tali aree possono essere prive di segnaletica orizzontale e verticale, purché le coordinate GPS della loro localizzazione siano consultabili pubblicamente nel sito internet istituzionale del comune. Ai monopattini a propulsione prevalentemente elettrica è comunque consentita la sosta negli stalli riservati a velocipedi, ciclomotori e motoveicoli.
[21] Art. 1, co. da 75-duodevicies a 75-vicies ter.
[22] Lo spiega Tar Lombardia, n. 1274/2020, cit.: «il “servizio pubblico” presuppone la decisione della pubblica amministrazione di farsi carico del soddisfacimento di un bisogno proprio della collettività da essa amministrata che il mercato non è in grado di soddisfare adeguatamente, e consiste nell’espletamento del servizio a tal fine necessario il quale può essere svolto secondo modalità differenti che si possono però raggruppare in due grossi insiemi: a) gestione diretta da parte della stessa amministrazione; b) gestione affidata a soggetti estranei all’amministrazione».
[23] È questo che contraddistingue d’altra parte il “servizio pubblico locale”: «la dinamicità delle città moderne (quantomeno di alcune di esse) ha chiaramente posto in crisi l'equivalenza collettività locale-utenza, avendo mostrato che gli utenti dei servizi sono in significativa proporzione diversi dai residenti ed anzi sono portatori di interessi in profondo conflitto con quelli di questi ultimi. […] Della qualità dei servizi, del modello di loro gestione, del loro costo si risponde al momento del voto, così che l’ente locale virtuosamente opera per l’efficienza perché è sul piano dell’efficienza che sarà giudicato. Il dato su cui si fonda il sistema è però ormai, se non falso, assai smorzato. Vi sono realtà urbane in cui i residenti (i votanti, dunque) non rappresentano che una piccola parte degli utenti, eppure restano gli unici a poter condizionare le scelte. È così, ad esempio, per i servizi di trasporto e di gestione dei rifiuti in città come Venezia, in cui i proprietari di seconde case sono forse più numerose dei residenti, o come Bologna, in cui l’utenza è rappresentata in parte assai rilevante da studenti fuori sede e da stabili pendolari. Si tratta di utenti che, pur assumendo su di sé buona parte dei costi dei servizi e pur beneficiando per primi di buone gestioni o risentendo di inefficienze, sono tenuti in secondaria considerazione dai decisori, immuni dal loro giudizio sul piano politico. Posizione, la loro, ovviamente resa delicata anche dal sistema sostanzialmente monopolistico che l’ordinamento legittima in alcuni settori nevralgici dei servizi»; e ancora «il concetto di servizio pubblico locale è ancora centrale se non ai fini dell’analisi sistematica dei principi e delle norme, almeno nella prospettiva dello studio di una relazione complessa e trilaterale, unica nel panorama giuridico, tra l’interesse di cui l’amministrazione è portatrice, l’interesse delle collettività di riferimento (quella dei residenti e quella, ben distinta dalla prima, degli utenti) e l’interesse individuale dell’esercente il servizio» (M. Dugato, La crisi del concetto di servizio pubblico locale tra apparenza e realtà, in Dir. amm., n. 3/2020, pp. 510 ss.)
[24] Sui servizi pubblici la dottrina è sterminata. Sia qui sufficiente il rimando a R. Cavallo Perin, La struttura della concessione di servizio pubblico locale, Torino, 1998; G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001; L. De Lucia, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Padova, 2002; R. Villata, Pubblici servizi, Milano, 2003; L.R. Perfetti, Contributo ad una teoria dei servizi pubblici locali, Padova, 2005; G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano 2005; M. Cammelli, Concorrenza per il mercato e regolazione dei servizi nei sistemi locali, in E. Bruti Liberati (a cura di), La regolazione dei servizi di interesse economico generale, Torino, 2010, pp. 127 ss.; D. Sorace, I servizi «pubblici» economici nell’ordinamento nazionale ed europeo, alla fine del primo decennio del XXI secolo, in Dir. amm., n. 1/2010, pp. 1 ss.; T. Bonetti, Servizi pubblici locali di rilevanza economica: dall’“instabilità” nazionale alla deriva europea, in Munus, 2012, pp. 417 ss.; A. Romano Tassone, I servizi pubblici locali: aspetti problematici, in Dir. proc. amm., 2013, pp. 855 ss.
[25] Ex multis, Cons. Stato, I, 7 maggio 2019, n. 1389.
[26] CGCE, 20 febbraio 2001, in C-205/99, Analir, spiega che l’obbligo di pubblico servizio s’impone al gestore laddove possa essere dimostrata un’effettiva esigenza di servizio pubblico e nella misura in cui tale imposizione sia effettuata in base a criteri non discriminatori e sia giustificata rispetto all’obiettivo di interesse pubblico perseguito.
[27] Hanno fatto ormai storia i cc.dd. criteri Altmark – da CGCE, 14 luglio 2003, in C-280/00, Altmark – per i quali eventuali sovvenzioni pubbliche vòlte a consentire l’esercizio di servizi pubblici sono escluse dal divieto di aiuti di Stato laddove possano esser considerate una compensazione che rappresenta la contropartita delle prestazioni fornite dalle imprese beneficiarie per adempiere obblighi di servizio pubblico. Ciò accade al verificarsi di quattro condizioni concomitanti: «in primo luogo, l’impresa beneficiaria sia stata effettivamente incaricata dell'adempimento di obblighi di servizio pubblico e detti obblighi siano stati definiti in modo chiaro; in secondo luogo, i parametri sulla base dei quali viene calcolata la compensazione siano stati previamente definiti in modo obiettivo e trasparente; in terzo luogo, la compensazione non ecceda quanto necessario per coprire interamente o in parte i costi originati dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico, tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento; in quarto luogo, quando la scelta dell’impresa da incaricare dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico non venga effettuata nell’ambito di una procedura di appalto pubblico, il livello della necessaria compensazione sia stato determinato sulla base di un’analisi dei costi che un’impresa media, gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata di mezzi di trasporto al fine di poter soddisfare le esigenze di servizio pubblico richieste, avrebbe dovuto sopportare per adempiere tali obblighi, tenendo conto degli introiti ad essi attinenti nonché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento».
[28] La nozione di «servizio» rilevante ai fini dell’applicazione della Direttiva Bolkestein è quella per cui si intende tale qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE fornita normalmente dietro retribuzione. Cfr. CGUE, Grande Sezione, 22 settembre 2020, n. 724.
[29] La distinzione non rileva ai fini del diritto europeo, intendendosi per «autorizzazione» qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un'autorità competente allo scopo di ottenere una decisione formale o una decisione implicita relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio (art. 4, par. 6, Dir.).
[30] La liberalizzazione è cosa diversa dalla semplificazione e presuppone che non sia necessario neanche il formarsi di un titolo abilitativo (anche implicito) e che l’attività possa essere liberamente esercitata senza una previa autorizzazione o presa d’atto dell’amministrazione: R. Chieppa, Le nuove forme di esercizio del potere e l’ordinamento comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 6/2009, pp. 1319 ss.
[31] In altra fattispecie, relativa alla locazione d’immobili a uso turistico per brevi periodi, la Corte di giustizia ha rilevato che la ragione d’imporre la previa autorizzazione risiedeva nella lotta contro la scarsità di alloggi cittadini (a Parigi) destinati alla locazione (CGUE, Grande Sezione, n. 724/2020, cit.).
[32] Tar Lombardia, n. 1274/2020, cit.
[33] Tar Lombardia, n. 1416/2021, cit.
[34] Cons. Stato, n. 4368/2023 in commento.
[35] In base al quale «Nelle ipotesi in cui il numero di titoli autorizzatori disponibili per una determinata attività di servizi sia limitato per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili, le autorità competenti applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali ed assicurano la predeterminazione e la pubblicazione, nelle forme previste dai propri ordinamenti, dei criteri e delle modalità atti ad assicurarne l’imparzialità, cui le stesse devono attenersi».
[36] Art. 10, parr. 1 e 2, Dir. 2006/123/CE, Condizioni di rilascio dell’autorizzazione: «1. I regimi di autorizzazione devono basarsi su criteri che inquadrino l’esercizio del potere di valutazione da parte delle autorità competenti affinché tale potere non sia utilizzato in modo arbitrario.
2. I criteri di cui al paragrafo 1 devono essere: a) non discriminatori; b) giustificati da un motivo imperativo di interesse generale; c) commisurati all’obiettivo di interesse generale; d) chiari e inequivocabili; e) oggettivi; f) resi pubblici preventivamente; g) trasparenti e accessibili».
[37] Tar Lazio, I, 14 luglio 2020, n. 8066: «Va esclusa l’applicabilità, in via analogica, ai contratti attivi della p.A. di norme o istituti del Codice degli appalti, atteso che la disciplina contenuta nel Codice non è una disciplina generale ma speciale e ha pertanto un ambito di applicazione particolare».
[38] CGUE, Grande Sezione, 20 dicembre 2017, in causa C-434/15, Uber Spain; e CGUE, 10 aprile 2018, in causa C-320/16, Uber France SAS.
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