ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’accertamento incidentale dell’illegittimità a soli fini risarcitori. – 3. Della responsabilità della p.a. da provvedimento illegittimo e dei presupposti costitutivi. – 4. Del danno ingiusto e del danno-conseguenza. – 5. Dell’onere della prova gravante sul danneggiato. – 6. Brevi considerazioni conclusive.
1. La vicenda.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 27 marzo 2023, n. 3094 torna nuovamente a occuparsi della responsabilità civile della p.a., ribadendone la natura extracontrattuale e chiarendo presupposti e limiti dell’azione di risarcimento del danno da illegittimo esercizio della funzione pubblica, per lesione di interesse legittimo.
La questione verte su una vicenda risarcitoria intentata dai genitori esercenti la potestà sul figlio minorenne, in particolari condizioni di salute, per il mancato superamento dell’esame conclusivo del primo ciclo d’istruzione per la sessione 2019-2020.
Nel ricorso introduttivo di primo grado, i genitori avevano domandato l’annullamento del provvedimento di mancato superamento dell’esame di Stato conclusivo del primo ciclo d’istruzione da parte del figlio minore, studente privatista, lamentandone l’illegittimità per molteplici motivi, quali: la mancata predisposizione da parte dell’Istituto scolastico di un piano didattico a misura dello studente, che avrebbe al medesimo consentito di prepararsi adeguatamente all’esame, nonché le modalità di svolgimento della prova, in quanto non confacenti alle particolari e delicate condizioni di salute dell’alunno.
Il T.A.R. adito, con decreto cautelare ordinava all’Istituto scolastico resistente di organizzare una nuova prova d’esame per il minore, tenendo in debita considerazione le condizioni di salute dello studente. Quest’ultima veniva superata con esito positivo.
Pertanto, preso atto di ciò, il T.A.R. in camera di consiglio, si pronunciava con sentenza in forma semplificata ex art. 60 c.p.a. dichiarando il ricorso improcedibile in ragione dell’avvenuto superamento dell’esame di Stato da parte del minore.
I genitori presentavano appello avverso la sentenza di prime cure per omessa pronuncia su alcuni motivi d’illegittimità del provvedimento dedotti in primo grado e sulla domanda di risarcimento del danno conseguente, proposta assieme alla principale domanda di annullamento dell’impugnato provvedimento e non esaminata in primo grado.
Pertanto, in sede d’appello, si domandava l’accertamento delle dedotte illegittimità degli atti impugnati al solo fine di conseguire il richiesto risarcimento del danno, avendo, il giudice di primo grado, erroneamente definito il giudizio con pronuncia d’improcedibilità del ricorso.
2. L’accertamento incidentale dell’illegittimità a soli fini risarcitori.
La prima questione d’interesse affrontata nella pronuncia in esame è quella dell’accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento impugnato a soli fini risarcitori, ai sensi e per gli effetti dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
Il Consiglio di Stato, richiamando l’orientamento espresso in una recente sentenza emessa in Adunanza Plenaria[1], ha reputato fondati i motivi d’appello, così come dedotti, in quanto, per procedere all’accertamento dell’illegittimità di un provvedimento, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe sufficiente aver dichiarato di avervi interesse ai fini risarcitori, nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., non essendo invece necessario specificare i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria, né averla proposta nel medesimo giudizio d’impugnazione.
Pertanto, il giudice di primo grado avrebbe errato nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso permanendo l’interesse risarcitorio dei ricorrenti, avendo essi non semplicemente manifestato un interesse risarcitorio nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., bensì espressamente domandato, nel medesimo giudizio, la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni cagionati in conseguenza del suo illegittimo agire.
Deve ritenersi, infatti, che nel caso di improcedibilità della domanda di annullamento per sopravvenuto difetto di interesse perduri ciononostante l’interesse all’accertamento dell’illegittimità del provvedimento al fine della tutela risarcitoria per equivalente quando il danno sia ascrivibile al provvedimento amministrativo stesso, purché l’interesse risarcitorio sia stato debitamente manifestato, con apposita domanda, presentata nel medesimo giudizio impugnatorio, oppure anche in via autonoma.
E invero, la peculiare fattispecie di cui all’art. 34, comma 3, c.p.a. riconosce al Giudice amministrativo, la possibilità di procedere a un mero accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento impugnato, ancorché sia venuto meno l’interesse alla pronuncia di merito, ove permanga il differente e conseguente interesse alla condanna della p.a. a fini risarcitori.
L’accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento previamente impugnato è, infatti, meramente strumentale alla condanna risarcitoria della p.a., senza costituire oggetto di un autonomo giudizio.
Il che è diretta conseguenza del riconoscimento della questione di legittimità come mera pregiudiziale logica[2], o sostanziale[3], se si preferisce, ai fini della condanna risarcitoria, essendosi ormai superata, con il codice del processo amministrativo, quella concezione rigorosa della pregiudiziale amministrativa, almeno per il profilo processuale, avendo il legislatore adottato una soluzione c.d. temperata che consente, con determinati limiti, di rendere autonoma l’azione risarcitoria rispetto a quella caducatoria (artt. 30 e 34, comma 3, c.p.a.).
E invero, l’azione di condanna prevista dall’art. 30 c.p.a. pone una regola di carattere generale: l’azione di condanna è proposta contestualmente ad altra azione e, in via d’eccezione, anche in via autonoma «nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo»[4].
L’azione di condanna, dunque, pur nella sua configurazione autonoma, assume una connotazione normalmente sussidiaria rispetto a quella di annullamento[5].
Pertanto, non si può escludere che un accertamento mero dell’illegittimità del provvedimento amministrativo sia ammissibile quandanche – come accaduto nel caso di specie – il ricorrente abbia ottenuto una tutela in forma specifica in conseguenza di un nuovo esercizio della funzione amministrativa che, sebbene conseguente all’adozione della misura cautelare con cui il G.A. di prime cure abbia ordinato all’amministrazione resistente in giudizio di riesaminare la situazione sulla base di parametri e criteri dallo stesso indicati, si sia poi rivelata essere satisfattiva dell’interesse legittimo pretensivo vantato dal ricorrente medesimo.
In tali casi, infatti, non è da escludere la permanenza di un interesse a fini risarcitori, purché manifestato con apposita domanda, potendo residuare in capo al ricorrente la possibilità di vedersi risarcire il danno ingiusto, cagionato in conseguenza del ritardo con cui si è ottenuto il provvedimento favorevole[6], oppure l’eventuale perdita di chance, nella diversa ipotesi in cui non sia possibile accertare con certezza la spettanza del bene della vita in capo al ricorrente, potendo il danno patrimoniale liquidarsi previo accertamento di una probabilità seria e concreta o di una elevata probabilità di conseguire il bene anelato[7].
Presupposto per il riconoscimento della risarcibilità del danno conseguente all’illegittimo esercizio della funzione amministrativa è dato, chiaramente, dal previo accertamento della responsabilità in capo alla p.a., «non [essendo] possibile far valere in giudizio un debito o un credito senza sottoporre contestualmente a decisione l’intero rapporto»[8].
3. Della responsabilità della p.a. da provvedimento illegittimo e dei presupposti costitutivi.
Affinché il giudice amministrativo possa procedere nell’azione di risarcimento dei danni, il medesimo dovrà accertare la presenza degli elementi richiesti dalla fattispecie risarcitoria in via diretta ed autonoma, senza poter acquisire fatti rilevanti ai fini (della prova) dell’illecito, utilizzando il procedimento amministrativo[9].
Ciò sarebbe innanzitutto una diretta conseguenza della qualificazione del processo amministrativo come processo di parti, in ragione dell’ormai prevalente concezione soggettiva del processo amministrativo, che porta a ritenere inammissibile una verifica d’ufficio di qualsivoglia interesse di parte[10].
Di poi, essendo il processo amministrativo ispirato al principio dispositivo (art. 63, comma 1 c.p.a.), pur contemperato dal metodo acquisitivo (art. 64, comma 1, c.p.a.), non potrà non ritenersi, come regola generale, che ai fini dell’accertamento dei fatti incerti gravi sulle parti l’assolvimento dell’onere della prova.
Ciò vale, a maggior ragione nell’ipotesi di azione risarcitoria nei confronti della p.a. per cui è pacificamente ritenuto che incomba sulle parti un onere probatorio pieno, ai sensi dell’art. 2697 c.c., e più in particolare, che competa alla parte lesa l’onere di allegare e provare i fatti oggetto di prova, essendo essi ritenuti nella disponibilità del ricorrente, in ragione del principio della vicinanza della prova.
Pertanto, se ai fini della prosecuzione del giudizio per finalità risarcitorie, divenuta inutile la tutela demolitoria a causa di sopravvenienze di fatto o di diritto, potrà reputarsi sufficiente l’avvenuta manifestazione dell’interesse risarcitorio da parte del ricorrente, previa proposizione di specifica domanda, finanche in via autonoma e in un successivo giudizio, purché ciò avvenga nel rispetto del termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di mera improcedibilità del ricorso, non potrà certamente escludersi, ai fini del riconoscimento effettivo della tutela risarcitoria, che il giudice amministrativo accerti positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie in esame.
Di conseguenza, il Consiglio di Stato, nel caso di specie, ai fini dell’accertamento nel merito della fondatezza o dell’infondatezza della pretesa risarcitoria, ha sentito nuovamente l’esigenza di ripercorrere le tesi prospettate dalla giurisprudenza sulla natura della responsabilità della p.a.[11], per ribadirne la natura extracontrattuale e scolpirne i tratti e gli elementi costitutivi.
In particolare, il Consiglio di Stato è ritornato sulle ragioni poste a fondamento della qualificazione extracontrattuale, o da fatto illecito ex art. 2043 c.c., della responsabilità civile della pubblica amministrazione, ribadendo che sia da escludere la possibilità di configurare un rapporto obbligatorio nell’ambito di un procedimento amministrativo, per due fondamentali ragioni: la prima, che nel procedimento amministrativo, a differenza del rapporto obbligatorio, sussisterebbero due situazioni attive, il potere della P.A. e l’interesse legittimo del privato; la seconda, che il rapporto tra le parti non è paritario, ma di supremazia della P.A[12].
A tali ragioni, basterebbe certamente aggiungerne un’altra dirimente, ossia che il potere amministrativo è un potere discrezionale, e come tale, non consentirebbe di ricondurre l’attività autoritativa della p.a. a una obbligazione, perché quandanche l’esercizio del potere amministrativo possa dirsi doveroso, l’Amministrazione non potrà mai esser “obbligata”, alla stregua di un debitore, ad eseguire una determinata e specifica obbligazione. Pertanto, non sarebbe configurabile un vincolo obbligatorio a carico della p.a. che agisce nell’esercizio della propria funzione.
Portando avanti il ragionamento e considerando sempre le caratteristiche del potere amministrativo – in particolare l’unilateralità – si dovrebbe convenire che una delle principali ragioni che giustificherebbe il risarcimento del danno ingiusto al privato per esercizio illegittimo della funzione amministrativa, sarebbe quella per cui l’azione della p.a. sia per definizione predisposta ad arrecare un pregiudizio alla situazione soggettiva del privato, posto che la sua essenza è data dalla possibilità di incidere unilateralmente su di essa, senza il consenso del privato. Il perseguimento (legittimo) dell’interesse pubblico, infatti, giustifica sul piano giuridico il sacrificio della posizione del privato; cosa che non sarebbe concepibile in un rapporto paritario. In tale ottica, pertanto, solamente la presenza di un’azione legittima consentirebbe di escludere l’illiceità (ma non la dannosità, se si vuole) dell’azione amministrativa per il privato, fosse anche solo per le conseguenze patrimoniali che ne sono derivate.
La qualificazione della responsabilità della p.a. da esercizio illegittimo della funzione amministrativa in termini extracontrattuali, come noto, è risalente alla celeberrima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unte n. 500 del 22 luglio 1999, che ne ha sancito la costruzione teorica fondata sul riconoscimento del carattere primario della norma di cui al 2043 c.c., e dunque, su una nozione ampia di «danno ingiusto» che ha consentito il riconoscimento della risarcibilità anche degli interessi legittimi, alla stregua dei diritti soggettivi[13].
Questa ricostruzione, come è stato più volte ribadito dalla dottrina, anche recente[14], appare certamente preferibile rispetto alla diversa qualificazione della responsabilità della p.a. in termini di illecito contrattuale, o da contatto qualificato, non solo per l’evidente forzatura con cui il rapporto giuridico amministrativo sarebbe da ricondurre a un rapporto obbligatorio, piuttosto anche per l’inutilità di tale costruzione teorica ai fini dell’ampliamento dei margini di effettività della tutela da riconoscere al privato nei confronti dell’amministrazione.
Infatti, è stato chiaramente evidenziato[15] come lo sforzo profuso, soprattutto dalla recente giurisprudenza, nella riconduzione della responsabilità della p.a. al modello della responsabilità contrattuale, finanche nell’ambito del rapporto di diritto pubblico, non gioverebbe comunque al privato, che vedrebbe oltremodo ridotti i margini di tutela essendo, ad esempio, esclusa la risarcibilità dei danni imprevedibili, ai sensi e per l’effetto dell’applicazione dell’art. 1225 c.c., bensì anche perché tale ricostruzione teorica richiederebbe un maggior rigore nell’apprezzamento dei danni, o meglio nella quantificazione del pregiudizio risarcibile.
Infine, nel rispetto del principio della certezza del diritto, e dunque del principio di legalità, non dovrebbe trascurarsi il dato normativo che, sebbene posto nella disciplina del codice del processo amministrativo, appare abbastanza chiaro nel richiamare concetti impiegati nel codice civile in materia di responsabilità extracontrattuale, oltre che porre un formale rinvio all’art. 2058 c.c. per il risarcimento in forma specifica. Si allude, evidentemente, agli artt. 7 e 30 c.p.a.
Di conseguenza, la riconduzione della responsabilità della p.a. da esercizio illegittimo della funzione al modello della responsabilità extracontrattuale, imporrebbe l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi la fattispecie dell’illecito aquiliano, ossia: fatto causativo del danno ingiusto (consistente nel provvedimento illegittimo o nel mancato doveroso esercizio della funzione pubblica), il nesso di causalità c.d. materiale (da accertarsi ai sensi degli artt. 40 e ss. c.p.), il danno ingiusto, l’elemento soggettivo, il nesso di causalità c.d. giuridica (con applicazione degli artt. 1223 c.c. e ss.) e, infine, il danno conseguenza, sia esso patrimoniale o non patrimoniale.
È ben evidente, pertanto, che l’applicazione del 2043 c.c. all’esercizio dell’attività funzionale della p.a. non avvenga automaticamente, imponendo l’accertamento del fatto giuridicamente rilevante la conoscenza da parte dell’organo giudicante del tratto autoritativo dell’azione amministrativa.
Pertanto, come detto, il riconoscimento della responsabilità della p.a., ai sensi dell’art. 2043 c.c., passa per il sindacato, anche in via incidentale, sulla funzione amministrativa, necessario per poter ascrivere l’operato della p.a. all’attributo di «fatto causativo di un danno ingiusto».
Tutti questi elementi, compete al ricorrente danneggiato allegarli e provarli, sebbene con alcuni contemperamenti e accorgimenti che la stessa giurisprudenza ha elaborato nel corso del tempo al fine di evitare che l’onus probandi gravante sul ricorrente possa trasformarsi in una probatio diabolica[16].
L’interesse risarcitorio, dunque, sussisterebbe solo se il giudice amministrativo accerti positivamente l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito con la conseguenza che il giudice potrebbe anche non esaminare i profili di illegittimità del provvedimento in caso di accertata mancanza anche di uno solo degli elementi dell’illecito, posto che ognuno di essi assumerebbe valore assorbente[17].
4. Del danno ingiusto e del danno-conseguenza.
La ricostruzione della responsabilità civile della p.a. in termini di illecito aquiliano pone, come problema centrale, quello dell’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno sarebbe assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
E invero, seguendo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il Consiglio di Stato si è soffermato sul requisito dell’ingiustizia del danno, ribadendo che l’ingiustizia che fonda la responsabilità della p.a. da esercizio illegittimo della funzione si correli alla dimensione sostanzialistica dell’interesse legittimo, per cui ferma la qualificazione della fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. come previsione aperta alla tutela di qualsiasi interesse protetto dall’ordinamento, trattandosi di norma primaria, non sarebbe possibile una indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, dovendo piuttosto accertarsi che dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata al privato una lesione della propria sfera giuridica.
Il danno ingiusto, dunque, andrebbe inteso come danno non iure e contra ius che consentirebbe la risarcibilità di un interesse legittimo solo qualora l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, bene che quest’ultimo avrebbe dovuto mantenere o ottenere, secondo la dicotomia esistente fra interessi legittimi oppositivi e pretensivi.
Questa concezione riecheggia la costruzione del modello di responsabilità extracontrattuale operata dalla storica sentenza della Cassazione a sezioni unite n. 500/1999, in virtù della quale potrebbe pervenirsi al risarcimento del danno soltanto se l’attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, bene che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento.
Pertanto, stando a questa ricostruzione teorica, la lesione dell’interesse legittimo sarebbe condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorrerebbe altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della P.A., l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.
Di conseguenza, per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all’illegittimo esercizio del potere; per ciò che attiene agli interessi pretensivi dovrà, invece, vagliarsi la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della istanza, per stabilire se il ricorrente sia titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione meritevole di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva.
Pertanto, ancora una volta, punctum prueris della questione è la relazione intercorrente fra bene della vita perseguito dal cittadino e interesse legittimo, ai fini dell’individuazione del danno risarcibile.
Come noto, questa impostazione non mette d’accordo la dottrina amministrativistica[18], in quanto la ricostruzione della responsabilità della p.a. per attività provvedimentale illegittima dipende dalla concezione stessa di interesse legittimo[19].
Infatti, per i sostenitori della tesi sostanziale[20], l’interesse legittimo consisterebbe in quella situazione giuridica soggettiva correlata all’esercizio del potere della pubblica amministrazione e tutelata in maniera diretta dalla stessa norma attributiva del potere medesimo, che attribuirebbe al privato una serie di poteri e facoltà volti a influire, per quanto possibile, sull’esercizio del potere amministrativo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. Ragion per cui, configurando l’interesse legittimo come quella posizione di vantaggio riservata ad un determinato soggetto in relazione a un determinato bene della vita interessato dal potere pubblicistico[21], il baricentro per la ricostruzione dell’interesse legittimo si sposterebbe dal collegamento con l’interesse pubblico, a quello con l’utilità finale o “bene della vita” che il soggetto mira a conservare o a conseguire[22].
Diversamente, secondo autorevole dottrina[23], dell’interesse legittimo dovrebbe perpetrarsi una concezione strumentale, posto che lo stesso andrebbe definito come quella situazione giuridica soggettiva, manifestazione dell’interesse all’esito favorevole del esercizio del potere precettivo della p.a., tutelato mediante facoltà di collaborazione dialettica, dirette a influire sul merito della decisione amministrativa ed esperibili lungo tutto il corso dell’esercizio del potere e dello svolgimento della funzione amministrativa.
Pertanto, secondo questa diversa teorica, la ricostruzione dell’ingiustizia del danno basata sulla lesione del bene della vita, non farebbe che negare ciò che in nuce vorrebbe affermare, ossia la risarcibilità dell’interesse legittimo[24].
Stando alla ricostruzione della giurisprudenza amministrativa prevalente, tuttavia, la lesione dell’interesse legittimo non sarebbe da sola sufficiente (danno contra ius) essendo essenziale, ai fini della configurazione della responsabilità, che l’evento dannoso leda ingiustamente una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento (danno non iure datum); pertanto, occorrerebbe verificare che sia leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della p.a., il bene della vita cui il soggetto aspirava.
Di conseguenza, sarebbe la lesione del bene della vita a qualificare, in termini d’ingiustizia, il danno derivante da provvedimento illegittimo[25].
E quindi, il nodo della questione si sposta necessariamente più a valle, dovendo il giudice amministrativo, ai fini della risarcibilità del danno, compiere un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita.
Prognosi che impone di verificare la sussistenza di conseguenze dannose, da accertare secondo il distinto regime di causalità giuridica, che prefigura la risarcibilità del danno soltanto quando tali conseguenze si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, quale esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.[26].
Giudizio, dunque, di tipo ipotetico e controfattuale, possibile in caso di provvedimenti a bassa discrezionalità o a discrezionalità conformata, invece, altamente opinabile nel caso di attività amministrativa discrezionale.
Non a caso, come ricorda lo stesso Consiglio di Stato, nelle ipotesi in cui non sia possibile accertare con certezza la spettanza del bene della vita in capo al ricorrente, residuerebbe eventualmente la possibilità di risarcire il danno da perdita di chance, previo accertamento di una probabilità seria e concreta o di una elevata probabilità di conseguire il bene sperato, poiché «il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile», livello probatorio minimo, quest’ultimo, che consente di «distingue(re) la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile» (orientamento consolidato a partire da: Consiglio di Stato, sez. V, 2 febbraio 2008 n. 490).
Infine, il risarcimento del danno andrebbe comunque escluso nell’ipotesi in cui, per effetto dell’annullamento del provvedimento amministrativo, non derivi altresì l’accertamento della fondatezza della pretesa, bensì un vincolo conformativo a carico della p.a. a rideterminarsi, senza esaurimento però della discrezionalità ad essa spettante.
5. Dell’onere della prova gravante sul danneggiato.
Scolpiti gli elementi costitutivi dell’illecito, il Consiglio di Stato si sofferma sull’onere della prova gravante sul danneggiato.
In particolare, il danneggiato è chiamato a provare:
- sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità di distinguere l’evento dannoso, derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela nella vita di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone, suscettibile di riparazione in via risarcitoria;
- sul piano soggettivo, l’integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che l’accertata illegittimità del provvedimento amministrativo, l’ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integrano la colpa dell’Amministrazione.
I maggiori dubbi sorgono proprio in relazione alla ricostruzione dell’onus probandi gravante sul ricorrente circa la sussistenza dell’elemento soggettivo.
E invero, vera l’affermazione di principio per cui, la colpevolezza della p.a. non possa presumersi per la sola illegittimità del provvedimento impugnato, potendo l’illegittimità del provvedimento essere utilizzata come indice presuntivo della colpa della p.a., ai sensi e per gli effetti dell’art. 1227 c.c., il Consiglio di Stato, nel declinare il proprio ragionamento sembra spingersi oltre rispetto a quello che è il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale, ponendo, a carico del ricorrente, un criterio probatorio più rigoroso ai fini della prova dell’elemento soggettivo.
È noto, infatti, che il giudice amministrativo col tempo, si è in parte discostato dalla tesi posta dalla Cassazione nella storica pronuncia n. 500/1999[27], semplificando in parte il regime probatorio gravante sul ricorrente, relativo all’elemento soggettivo, con lo scopo di contemperare l’asimmetria fra le parti processuali che caratterizza il processo amministrativo[28].
E, infatti, le critiche mosse dalla dottrina[29] al concetto di colpa di apparato, così come configurato dalla Cassazione, percepito come grimaldello per arginare la responsabilità dell’amministrazione, ha portato la giurisprudenza a riconoscere una inversione dell’onere probatorio tale per cui, l’illegittimità dell’atto configurerebbe presunzione semplice di colpa, spettando invece alla p.a. dimostrare di esser incorsa in errore scusabile.
Errore scusabile, configurabile, ad esempio, nelle ipotesi d’incertezza normativa, di novità o di rilevante complessità della questione affrontata, oppure ancora, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma di riferimento e, infine, nel caso di illegittimità sopravvenuta, derivante da successiva dichiarazione d’incostituzionalità della disposizione normativa applicata[30].
Si deve dare atto, invece, che parte minoritaria della giurisprudenza, cui è da ricondurre la sentenza che si commenta, sembra adottare un criterio interpretativo più rigoroso ai fini della prova della colpa della p.a. a carico del danneggiato e, dunque, ai fini del suo positivo accertamento[31], che sembra di fatto riecheggiare l’orientamento espresso dalla cassazione.
E invero, stando a questo filone giurisprudenziale, per poter affermare la responsabilità extracontrattuale della P.A. derivante dall'adozione di un provvedimento illegittimo, sarebbe necessario che il danneggiato dimostri, ex art. 2969 c.c., la sussistenza di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c. Per quanto riguarda più propriamente la dimostrazione della colpa, sebbene si ammetta che il danneggiato possa avvalersi della prova presuntiva ai sensi degli artt. 2727 c.c. e 2729 c.c., si ritiene non sufficiente per quest’ultimo, al fine di considerare assolto il suo onere, l’allegazione e la dimostrazione dell’illegittimità del provvedimento causativo del danno, reputandosi invece necessaria la verifica della violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, cui l'esercizio della funzione pubblica si deve costantemente attenere.
Violazione di regole di condotta che competerebbe al ricorrente provare.
Di conseguenza, al ricorrente non basterebbe far affidamento, ai fini della prova, sull’accertata illegittimità del provvedimento, dovendo invece positivamente provare che il comportamento negligente tenuto dalla pubblica amministrazione sia in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa[32].
Un quid pluris, dunque, che aggraverebbe l’onere probatorio della parte.
Orbene, se così fosse, si compirebbe un passo indietro nel sistema di contemperamento dei contrappesi che faticosamente si è certato di raggiungere per superare le asimmetrie processuali fra le parti, perché ciò significherebbe gravare il ricorrente di una probatio diabolica o, quantomeno, cancellare la prassi consolidata dell’inversione dell’onere della prova, basata sulla dimostrazione dell’errore scusabile, o ridurla a mera fictio, non potendo il ricorrente, nel fornire la prova di tale negligenza con efficacia cogente, che ispirarsi proprio a quei criteri che la giurisprudenza ha elaborato per consentire alla p.a. di dimostrare di essere incorsa in errore scusabile. Dunque verrebbe sostanzialmente eluso il criterio della vicinitas.
6. Brevi considerazioni conclusive.
La sentenza oggetto di analisi, nel voler ribadire quell’orientamento giurisprudenziale maggiormente consolidato che qualifica la responsabilità de esercizio illegittimo della funzione come responsabilità extracontrattuale, si atteggia quasi a “sentenza-scuola”.
Si percepisce, infatti, la chiara intenzione dell’organo giudicante di voler scolpire, in maniera quasi assertiva e minuziosa, gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito aquiliano, per come applicati dalla giurisprudenza maggioritaria all’attività autoritativa illegittima della p.a.
E invero, la soluzione della controversia è vista quasi come un’occasione utile per ripercorrere nel dettaglio la struttura dell’illecito aquiliano, posto che di ciascun elemento è fornita ampia dissertazione, corroborata da una corposa ricognizione dei precedenti giurisprudenziali, anche risalenti, fondativi della tesi ivi sostenuta.
Al di là di questa impressione, si ritiene, tuttavia, al di là di alcuni punti critici nella ricostruzione e concreta applicazione della fattispecie, che si sono segnalati, che la tesi della responsabilità extracontrattuale per esercizio di attività provvedimentale illegittima sia, a sistema vigente, quella più calzante ai fini della configurazione della responsabilità della p.a., ferma, pro futuro, la possibilità, avvertita e suggerita dalla dottrina, di ripensare seriamente il regime della responsabilità della p.a. con un certo grado di autonomia rispetto alla tradizione civilistica[33].
Pertanto, a regime vigente, certamente non è da escludere la possibilità di vedere configurati differenti regimi di responsabilità a carico della p.a. amministrazione per atti (attività) e fatti (comportamenti) non riconducibili (nemmeno mediatamente) all’esercizio illegittimo della funzione pubblica, non perché si possa o si voglia configurare un regime di responsabilità a geometria variabile, piuttosto perché differenti sarebbero i presupposti che giustificherebbero l’applicazione di altre fattispecie normative di riferimento.
Infine, la sentenza è apprezzabile per lo sforzo compiuto ai fini della valorizzazione dell’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella caducatoria, pur nel rispetto del limite sostanziale della sussidiarietà dell’una rispetto all’altra.
[1] Cons. Stato, Ad. Plen., 13 luglio 2022, n. 8. In commento alla Plenaria si veda: A. Scognamiglio, Carenza sopravvenuta d’interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori”, in questa rivista.
[2] Per un’accurata ricostruzione della differenza fra fra pregiudizialità logica e pregiudizialità tecnica: R. Tiscini, Itinerari ricostruttivi intorno a pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica, in Giust. civ., 3/2016, 571 ss.
[3] Sulla pregiudizialità amministrativa, senza pretesa di esaustività: G. Falcon, Il giudice amministrativo fra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm., 2001, 287 ss.; E. Follieri, La decorrenza degli effetti nella estensione del giudicato a soggetti estranei alla lite, in Urb. e app., 2009, 347; Id., Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Dir. proc. amm., 2006, 18 – 32; R. Villata, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009, 897–932; Id., Pregiudizialità amministrativa nell’azione risarcitoria per responsabilità da provvedimento?, in Dir. proc. amm., 2007, 271 ss.; F. Cortese, La questione della pregiudizialità amministrativa. Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo tra diritto sostanziale e processuale, Padova, 2007; A. Romano tassone, Morire per la pregiudiziale amministrativa?, in Giust. amm., 2008, 273; L.V. Moscarini, Risarcibilità degli interessi legittimi e pregiudiziale amministrativa, Torino, 2008; E. Barbieri, Considerazioni sui fini della giustizia amministrativa (a difesa della c.d. pregiudiziale amministrativa), in Giust. amm., 2008, 251 – 258; A. Carbone, Pregiudiziale amministrativa e risarcimento del danno, in Giust. amm., 2009, 274 - 284.
[4] E. Follieri, Le azioni di condanna, in Giustizia amministrativa, F. Scoca (a cura di), Torino, 2020, 196 ss. Sui rapporti fra azione caducatoria e azione risarcitoria si veda altresì: M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n.3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU.23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011.
[5] Quest’aspetto è stato di recente ribadito dalla dottrina, che ha sottolineato l’importanza di evitare un “ricorso abusivo” alla tutela risarcitoria a discapito di quella caducatoria, non potendo certamente considerarsi la prima un modo alternativo ed equivalente rispetto all’altra per tutelare l’interesse legittimo, snaturandosi, altrimenti, il ruolo del giudice amministrativo e quella che è la sua missione istituzionale (e costituzionale), ossia, assicurare la giustizia nell’amministrazione. Così: F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, maggio 2021.
[6] Da ultimo, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7. In commento alla Plenaria, si veda: E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, in questa Rivista; in senso critico, invece: A. Palmieri - R. Pardolesi, La responsabilità civile della pubblica amministrazione: così è se vi pare (Nota a Cons. Stato, ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7), in Foro it., 2021, 406 ss.
[7] Da ultimo: Cons. Stato, sez. V, 15 novembre 2019, n. 7845; ma si veda anche la ben più risalente pronuncia del Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2008, n. 490, secondo cui: «il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile» e ciò al fine di poter «distingue(re) la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile».
[8] S. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 109.
[9] Così E. Follieri, Le azioni di condanna, op. cit., 200.
[10] A. Scognamiglio, Carenza sopravvenuta d’interesse e interesse alla pronuncia di illegittimità “a fini risarcitori, op.cit.
[11] Secondo il tradizionale orientamento, la responsabilità civile della p.a. dovrebbe rientrare nell’ambito di operatività della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337; T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III, sentenza n. 11808/2014; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 02/03/2018, n. 1350; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I 25 settembre 2017 n. 4483). Secondo un indirizzo minoritario, invece, dovrebbe essere concepita quale responsabilità da inadempimento da contatto sociale qualificato (Cons. Stato, VI, 4 luglio 2012, n. 3897; Consiglio di Stato, sez. VI, 30/12/2014, n. 6421, nonché più di recente: Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136). Questa tesi troverebbe sostegno anche da parte della Corte di Cassazione; in particolare, si veda da ultimo: Cass. Civ. n. 8236/2020, con nota di G. Tropea - A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in questa Rivista, 15 maggio 2020. Infine, secondo altre pronunce, si tratterebbe di una responsabilità sui generis, e, pertanto, non interamente riconducibile al paradigma della responsabilità né extracontrattuale, né contrattuale (Consiglio di Stato, sez. VI, 14/03/2005, n. 1047; Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 05/03/2018, n. 617; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III 06 aprile 2016 n. 650). Sulla questione della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione da illegittimo esercizio delle funzioni pubblicistiche si è recentemente pronunciata l’Adunanza Plenaria n. 7/2021. Sul tema: E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, op.cit., alla cui considerazioni si rinvia. Sulla natura giuridica della responsabilità civile della p.a. si veda: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), in questa Rivista, febbraio 2021.
[12] Funditus sul tema: E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, op.cit.; bensì anche: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op.cit.
[13] Si ricordano, senza pretesa di esaustività, i primi contributi offerti dalla dottrina a commento della sentenza, fra cui: F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1/2000, 13 -54; G. Abbamonte, L’affermazione legislativa e giurisprudenziale della risarcibilità del danno derivante dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa. Profili sostanziali e risvolti processuali, in Cons. St., 2000, 743 ss.; A. Luminoso, Danno ingiusto e responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi nella sentenza n. 500/1999 della Cassazione, in Dir. pubbl., 2000, 60 ss.; F.D. Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il «muro» degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, 335; A. Falazea, Gli interessi legittimi e le situazioni giuridiche soggettive, in Riv. dir. civ., 2000, 679; nonché le note a sentenza a Cass., Sez. un., 22 luglio 1999 n. 500, in Foro it., 1999, I, 2487 ss., di A. Palmieri - R. Pardolesi; R. Caranta, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità; F. Fracchia, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi; e ancora: A. G. Orofino, L’irrisarcibilità degli interessi legittimi: da giurisprudenza «pietrificata» a dogma in via d’estinzione?, in www.giustamm.it, 1999.
[14] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit.
[15] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit.
[16] Il discorso vale, in particolare, come noto, per la prova relativa alla sussistenza dell’elemento soggettivo. Sul tema si tornerà oltre.
[17] Così: Cons. stato, Ad. Plen., n. 8/2022.
[18] Sui temi, ampiamente: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit. Ivi ampi riferimenti bibliografici, in particolare si v. note da 45 a 50.
[19] Sulle “ultime frontiere” della ricostruzione del concetto d’interesse legittimo e del potere amministrativo, senza poter indugiare sul tema: E. Follieri, L’identità della struttura dell’interesse legittimo e del potere amministrativo autoritativo, in Metamorfosi del diritto amministrativo. Liber amicorum per Nino Longobardi, Napoli, 2023, 169 e ss. nonché in www.giustamm.it, n. 11/2022; A Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. I) situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento (Premesse allo studio dell’oggetto del processo amministrativo), Torino, Giappichelli, 2020; nonché la sezione monografica dedicata al dibattito sul tema nella rivista P.A. - Persona e amministrazione, n. 2/2021.
[20] Si v. M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2022, 133 ss.
[21] Cons. Stato, Ad. pl., 23 marzo 2011, n. 3.
[22] In tal senso sempre M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, op.cit. 133.
[23] Il riferimento è a F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017.
[24] Si veda M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit., che richiama e ricostruisce il pensiero di F.G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss.
[25] Cons. stato, sez. IV, 27 aprile 2021, 3398; Cons. stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1496; Cons. stato, sez. IV, 6 luglio 2020, 4338; Cons. stato, sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437.
[26] Così lo stesso Cons. Stato n. 3094/2023, nonché ex multis: Consiglio di Stato, Sez. V, 4 agosto 2015, n. 3854.
[27] Come noto, la Corte di Cassazione nel riconoscere la responsabilità della p.a. per danni da lesione di interessi legittimi ha ritenuto non più sufficiente l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo, dovendo invece positivamente accertarsi l’elemento soggettivo dell’illecito, ossia la colpa dell’apparato amministrativo – non già del singolo funzionario. Questo elemento si sostanzierebbe nella violazione di regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione che devono ispirare la condotta e l’azione della p.a. e che al ricorrente competerebbe provare.
[28] In dottrina sul tema: E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi (nota a sentenza: Consiglio di stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482), in Urb. app., 6/2012, 694 ss.; M.C. Cavallaro, La rilevanza dell’elemento soggettivo nella struttura dell’illecito della pubblica amministrazione: un ulteriore chiarimento del Consiglio di Stato, nota a Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32, in Nuove autonomie, 4-5/2005, 741 ss.; O. Ciliberti, L’elemento soggettivo nella responsabilità civile della pubblica amministrazione conseguente a provvedimenti illegittimi, in La responsabilità civile della pubblica amministrazione, E. Follieri, (a cura di), Giuffrè, Milano, 2004, 251; S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle amministrazioni pubbliche, Giappichelli, Torino, 2008; F. Fracchia, L’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione, in Atti del Convegno di Varenna 2008, Giuffrè, Milano, 2009, 211; F. Trimarchi Banfi, La responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa. Questioni attuali, Giappichelli, Torino, 2009, spec. 87 e ss.
[29] Per una ricostruzione delle problemetiche: si v. E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi, op.cit.
[30] In giurisprudenza, ex multis: Cons. Stato, sez. IV, n. 5012/2004; Cons. Stato, sez. V, n. 1307/2007; Cons. Stato, sez. VI, n. 213/08; Cons. Stato, sez. IV, n. 482/2012; Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1944; Cons. stato, sez. V, 18 gennaio 2016, n. 148.
[31] In particolare, fra le pronunce più recenti: Cons. Stato, Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217; T.A.R. Lazio, sez. I - Roma, 11 gennaio 2022, n. 226 e T.A.R. Lombardia, sez. II - Milano, 04 agosto 2016, n. 1560.
[32] Così espressamente le stesso Cons. Stato, n. 3094/2023.
[33] Così, da ultimo, espressamente: M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, op. cit. Si ricordano le tesi espresse da E. Follieri, Sul modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Dir. Proc. Amm., 2006, 18 ss.; nonché sempre E. Follieri, L’elemento soggettivo nella responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi, op. cit., che richiama altresì: A. Zito, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo, Napoli, 2003, 172 ss; L. Garofalo, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. Amm., 2005, 1 ss.; F. G. Scoca, Interesse legittimo come situazione giuridicamente protetta e tutela giurisdizionale, Catania 24-25-26 aprile 2003 in Atti del convegno Roma, 2004, 92; L. Maruotti, La struttura dell’illecito amministrativo lesivo dell’interesse legittimo: la distinzione tra l’illecito commissivo e quello omissivo, in www.griurisprudenza.it 2005.
Sommario: 1.Procedimenti di volontaria giurisdizione.- 2. Il ruolo di controllo del PM - 3. Il regime delle autorizzazioni - 4. Conclusioni
1.Procedimenti di volontaria giurisdizione.
Il d.lgs. 149/2022, attuativo della c.d. riforma Cartabia, ha, tra le altre cose, inciso in maniera significativa sulla disciplina dei procedimenti di volontaria giurisdizione.
1.1 In particolare, l’art. 21 d.lgs. 149/2022 ha interessato i provvedimenti autorizzatori di negozi stipulati da soggetti con una ridotta capacità di agire (minori, interdetti, inabilitati e beneficiari di amministrazione di sostegno) e gli atti aventi ad oggetto beni ereditari, per i quali è stata prevista una competenza alternativa del Notaio rogante rispetto a quella tradizionale del Giudice tutelare e del Tribunale, ad eccezione delle “autorizzazioni per promuovere, rinunciare, transigere o compromettere in arbitri giudizi, nonché per la continuazione dell'impresa commerciale” (art. 21 co. 7 d.lgs. 149/2022) che restano riservate in via esclusiva all’autorità giudiziaria.
1.2 Ciò è stato inteso da parte della dottrina come una sorta di liberalizzazione di detta potestà autorizzatoria. A prescindere dalla condivisibilità o meno di tale lettura, la previsione di una competenza alternativa rispetto a quella giurisdizionale – per definizione, maggiormente garantista – impone di porre l’accento sulla componente fondamentale dell’atto autorizzatorio, ossia l’attività di controllo (sia di legittimità sia di merito) sull’atto stipulando, a protezione dell’interesse del soggetto vulnerabile o di creditori e legatari nel caso di eredità beneficiata, eredità giacente o esecuzione testamentaria. Nel nuovo assetto normativo, dunque, tale funzione di controllo è demandata in via alternativa al Giudice tutelare o al Tribunale (monocratico o collegiale) a seconda della competenza ovvero al Notaio e al Pubblico Ministero.
Difatti, la figura del Notaio, per quanto pubblico ufficiale, non è stata ritenuta dal legislatore di per sé sufficiente a tutelare interessi di preminente importanza, anche in considerazione del rapporto contrattuale e fiduciario che lo lega al cliente, il che lo priva della necessaria posizione di terzietà rispetto agli interessi da tutelare. Di conseguenza, ove non si opti per il tradizionale procedimento autorizzatorio davanti al Giudice tutelare o al Tribunale, il vaglio del Pubblico Ministero assume, nella riforma, ruolo di assoluta pregnanza nell’assicurare la tutela di detti interessi, giacché è attraverso il suo intervento che l’atto è sottoposto al vaglio giurisdizionale.
2. Il ruolo di controllo del PM
Tale ruolo di controllo si estrinseca principalmente nella possibilità di proporre reclamo avverso l’autorizzazione concessa dal Notaio per la stipula dell’atto. Il relativo procedimento è regolato dagli artt. 737 ss. c.p.c. relativi ai procedimenti in camera di consiglio e in particolare dall’art. 740 c.p.c. che disciplina i reclami del Pubblico Ministero.
2.1 Vale la pena precisare che si discute principalmente di reclamo avverso l’autorizzazione e non di reclamo avverso il diniego di autorizzazione in quanto quest’ultimo, pur astrattamente possibile sebbene non espressamente previsto, avrà nella pratica un rilievo pressocché nullo, giacché, in caso di diniego del Notaio, esso sarà più plausibilmente espresso in via informale, per cui è improbabile che le parti procedano a richiesta scritta. In ogni caso, anche ove lo facessero, a fronte del diniego nulla impedirebbe loro di effettuare la medesima richiesta ad altro professionista, a meno di voler ipotizzare anche a carico del Notaio un divieto di ne bis in idem e conseguente onere di verifica, presso la cancelleria, di eventuali precedenti autorizzazioni o dinieghi rilasciati da altri Notai per il medesimo atto.
2.2 Occorre rilevare come la competenza del Tribunale o della Corte d’Appello in sede di impugnazione (e di conseguenza quella della Procura a proporre reclamo) rimanga la medesima prevista per le autorizzazioni del Giudice tutelare e del Tribunale (monocratico o collegiale) per le autorizzazioni aventi ad oggetto beni ereditari. Infatti, l’art. 21 co. 4 d.lgs. 149/2022 precisa che “L'autorizzazione è comunicata, a cura del notaio, anche ai fini dell'assolvimento delle formalità pubblicitarie, alla cancelleria del tribunale che sarebbe stato competente al rilascio della corrispondente autorizzazione giudiziale e al pubblico ministero presso il medesimo tribunale”.
Si segnala, tuttavia, che parte della dottrina (sposata altresì dal Consiglio Nazionale del Notariato) è orientata per diversa opzione ermeneutica, secondo cui il dettato normativo (“l’autorizzazione può essere impugnata innanzi all’autorità giudiziaria secondo le norme del codice di procedura civile applicabili al corrispondente provvedimento giudiziale”) dovrebbe essere letto nel senso che il legislatore abbia inteso assoggettare l’autorizzazione del Notaio al medesimo regime impugnatorio dell’autorizzazione del Giudice e dunque il Tribunale competente per il reclamo sia quello nel cui circondario ha sede il Notaio rogante.
In tal caso, oltre a una contraddittorietà rispetto al co. 4 del medesimo articolo, si ravvisa un potenziale rischio di forum shopping, giacché la facoltà di scelta per la parte del Notaio cui affidare l’incarico, che può avere sede anche al di fuori del circondario del Tribunale il cui Giudice tutelare sarebbe competente in via giudiziale, avrebbe l’effetto di consentire alle parti di modificare a piacimento il Tribunale cui eventualmente rivolgersi in sede di impugnazione.
Peraltro, ad eccezione delle istanze ex art. 320 disp. att. c.p.c., la presentazione di un’istanza in un Tribunale diverso da quello in cui è stata aperta la tutela, la curatela, l’amministrazione di sostegno o la successione impedirebbe alle cancellerie di inserirla all’interno del relativo fascicolo, con conseguente parcellizzazione dello stesso, potenzialmente a livello nazionale, e con gravi difficoltà di coordinamento. Pertanto, la prima tesi è da preferirsi.
2.3 Come appena visto, dunque, una volta stilato l’atto e la relativa autorizzazione, il Notaio li comunica alla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente. Dalla comunicazione (ossia dalla ricezione da parte della cancelleria civile), decorre il termine perentorio entro il quale il Pubblico Ministero può proporre reclamo.
In dottrina si discute, però, se esso sia di 10 giorni, come previsto dall’art. 740 c.p.c. per tutti i reclami del P.M., oppure di 20 giorni. Quest’ultima interpretazione si fonda sul fatto che l’art. 21 co. 6, primo periodo, d.lgs. 149/2022 dispone che il provvedimento notarile di autorizzazione è inefficace per 20 giorni dalle notificazioni e comunicazioni previste.
Il primo orientamento, peraltro maggiormente rispondente alla lettera della legge, appare preferibile, in quanto lo sfalsamento tra termine per proporre il reclamo e sospensione dell’efficacia dell’autorizzazione è necessaria affinché il Tribunale fissi con decreto la data dell’udienza e che questo sia notificato, unitamente al reclamo, alle parti. Dunque, anche in via precauzionale, appare opportuno individuare in 10 giorni il lasso temporale che ha a disposizione il Pubblico Ministero per svolgere la propria attività di controllo e valutare l’opportunità o meno di proporre reclamo di fronte al Tribunale.
2.4 Tale controllo si sostanzia di due componenti: legittimità e merito.
2.4.1 Per quanto attiene ai profili di legittimità, è necessario verificare, in primo luogo, il rispetto del procedimento previsto dalla legge per il rilascio dell’autorizzazione. L’impegno di verifica più significativo, tuttavia, concerne i profili sostanziali, che possono essere vari e articolati in modo diverso a seconda del tipo di atto da stipulare. Eventuali errori nell’applicazione della legge sostanziale vanno in ogni caso esaminati prendendo le mosse da un’accurata analisi degli elementi fattuali indicati negli atti (autorizzazione e atto stipulando allegato) e dell’eventuale relazione dell’esperto che sovente è posta a corredo, giacché altrimenti non è possibile apprezzare adeguatamente i profili giuridici dell’operazione.
2.4.2 Devono essere oggetto di attento vaglio anche i profili di opportunità, cioè se l’atto sia o meno nell’interesse del soggetto da tutelare – in caso di soggetti con una ridotta capacità di agire – o se leda i diritti di creditori e legatari – nei procedimenti in materia successoria. Tale analisi, estremamente delicata, implica che devono soppesarsi non soltanto gli elementi giuridici ma anche quelli economico-patrimoniali e sociali e, in caso di soggetti fragili, anche pratici.
2.5 Ciò detto sulla natura e sui contenuti del controllo, occorre interrogarsi anche su quali siano gli strumenti a disposizione del Pubblico Ministero per adempiere a tale funzione.
Infatti, l’art. 21 co. 2 d.lgs. 149/2022 prevede che “Il notaio può farsi assistere da consulenti, ed assumere informazioni, senza formalità, presso il coniuge, i parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo del minore o del soggetto sottoposto a misura di protezione, o nel caso di beni ereditari, presso gli altri chiamati e i creditori risultanti dall'inventario, se redatto. Nell'ipotesi di cui all'articolo 747, quarto comma, del codice di procedura civile deve essere sentito il legatario”, mentre nulla si dice sui poteri in tal senso del Pubblico Ministero.
Viene, dunque, da chiedersi se la Procura possa o meno svolgere una sorta di istruttoria, sebbene gli stretti tempi per proporre reclamo rendano tale eventualità di difficile attuazione pratica. È indiscusso che, per quanto riguarda i poteri da esercitare in corso di giudizio, debba trovare applicazione l’art. 72 c.p.c., che però non può certamente essere invocato per gli accertamenti da svolgersi ante causam, volti soprattutto a determinare l’opportunità e il contenuto del reclamo da proporre.
Ebbene, prima della riforma Cartabia il ruolo del Pubblico Ministero nell’ambito di tali procedimenti non era particolarmente penetrante, riducendosi nella pratica a una mera presenza di fatto (se non addirittura alla totale mancanza di partecipazione al procedimento). L’unica attività possibile, sotto il profilo istruttorio, si concretava dunque nella richiesta di approfondimenti al Giudice tutelare o al Tribunale, da svolgersi in contraddittorio nell’alveo della potestà istruttoria concessa al Giudice in questi casi.
Alla luce delle nuove norme che regolano i procedimenti in materia di persone, di minorenni e di famiglia (artt. 473 bis ss. c.p.c.), invece, emergono notevolissime modifiche al procedimento nel suo complesso. Per quanto qui di interesse, è di precipuo rilievo l’art. 473 bis.3 c.p.c., il quale statuisce che, “nell'esercizio dell'azione civile e al fine di adottare le relative determinazioni, il pubblico ministero può assumere informazioni, acquisire atti e svolgere accertamenti, anche avvalendosi della polizia giudiziaria e dei servizi sociali, sanitari e assistenziali”. Pertanto, deve ritenersi che oggi il Pubblico Ministero, oltre a sollecitare il Tribunale a svolgere gli approfondimenti istruttori del caso, potrà egli stesso introdurre, con il reclamo e nel corso del procedimento, nuovi elementi emersi dagli accertamenti svolti in prima persona.
Dubbi si presentano, però, sull’applicabilità di tale disposizione alle autorizzazioni di atti aventi ad oggetto beni ereditari, giacché il relativo procedimento, disciplinato dagli artt. 747 ss. c.p.c., non rientra nella competenza dell’istituendo Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
2.6 Come già accennato, l’art. 21 co. 6, primo periodo, d.lgs. 149/2022 dispone che “le autorizzazioni acquistano efficacia decorsi venti giorni dalle notificazioni e comunicazioni previste dai commi precedenti senza che sia stato proposto reclamo”. Poiché, prosegue la norma, “esse possono essere in ogni tempo modificate o revocate dal giudice tutelare, ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca” e, scaduti i termini per il reclamo, l’autorizzazione acquisisce automaticamente efficacia ex nunc, appare opportuno procedere alla notifica (o quantomeno alla comunicazione) del reclamo e del pedissequo decreto di fissazione di udienza anche nei confronti del Notaio rogante, in modo da renderlo edotto dell’intervenuta impugnazione dell’autorizzazione e del correlato effetto sospensivo.
3. Il regime delle autorizzazioni
Qualora non venga proposto reclamo, le autorizzazioni sono comunque insuscettibili di passare in giudicato, così come del resto i decreti del Giudice tutelare e del Tribunale (monocratico o collegiale), e possono sempre essere modificate o revocate (art. 742 c.p.c.).
Sono comunque fatti salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca (art. 21 co. 6 d.lgs. 149/2022).
3.1 È dibattuto se la modifica o la revoca possano essere disposte d’ufficio. Parte della dottrina, infatti, si orienta in senso affermativo, interpretando la mancanza nell’art. 742 c.p.c. di alcun riferimento alla legittimazione attiva, a differenza di quanto previsto dall’art. 739 c.p.c., nel senso di ritenere che il legislatore abbia voluto disciplinare detta legittimazione esclusivamente con riferimento al reclamo e non rispetto alla revoca o alla modifica del provvedimento. La tesi prevalente, tuttavia, limita tale possibilità ai pochi casi in cui il procedimento è ad iniziativa officiosa. Ciò, del resto, appare coerente anche con la ratio della riforma, introdotta con lo scopo di comportare un alleggerimento del carico del giudice tutelare: se questi fosse gravato dal compito di verificare ogni autorizzazione notarile per valutare l’opportunità di disporne la revoca o la modifica, la mole di lavoro non risulterebbe intaccata e di conseguenza l’obiettivo posto dal legislatore verrebbe apertamente tradito.
3.2 È, invece, del tutto pacifico che la revoca o la modifica possano essere richieste da tutti coloro che sono legittimati ad iniziare il procedimento, incluso il Pubblico Ministero. Pertanto, anche in caso di decorso del termine di 10 giorni sopra indicato come termine di presentazione del reclamo (ovvero del termine dei 20 giorni previsti per l’efficacia dell’autorizzazione, in caso di accoglimento della tesi opposta sopra illustrata), l’attività di controllo del Pubblico Ministero rimane doverosa e, in caso si ritenga viziata o inopportuna l’autorizzazione concessa, dovrà essere proposto un ricorso.
3.3 Occorre rilevare che, a differenza di quanto previsto per il reclamo, ove la competenza viene individuata alle norme del c.p.c. applicabili al corrispondente provvedimento giudiziale, per la modifica e la revoca l’art. 21 co. 6 d.lgs. 149/2022 statuisce che le autorizzazioni “possono essere in ogni tempo modificate o revocate dal giudice tutelare”. Un’interpretazione ancorata al dato letterale della norma (della cui ratio è però lecito dubitare) conduce, quindi, a ritenere che, anche in caso di autorizzazioni aventi ad oggetto beni ereditari, la competenza per la modifica e la revoca sia sempre del Giudice tutelare, al contrario di quanto previsto dal c.p.c.
3.4 Vale la pena di sottolineare, peraltro, come la possibilità di revoca o modifica sia prevista in capo esclusivamente all’autorità giudiziaria, con esclusione della competenza concorrente del Notaio rogante, il quale, una volta concessa l’autorizzazione, non potrà più rivederne il contenuto, a prescindere dal fatto che l’atto sia stato stipulato o meno.
Tale conclusione non è univocamente condivisa in dottrina: vi è chi ritiene che il Notaio rogante possa modificare la propria autorizzazione mediante il rilascio di una nuova che vada a sostituire la precedente. Anche ove tale opzione venisse limitata ai casi in cui l’atto non è stato stipulato, comunque ciò appare in netto contrasto con il dato normativo.
Quanto alla revoca, essa non presenta alcuna utilità per il Notaio, giacché basta che questi ometta di procedere alla stipula dell’atto autorizzato, non avendo la sua autorizzazione validità in altro contesto.
Tuttavia, nulla impedisce alle parti di rivolgersi ad altro professionista per farsi rilasciare un’autorizzazione diversa da quella precedentemente ottenuta o in sostituzione di un eventuale diniego. Pertanto, si pone in capo alle Procure un onere di verifica delle istanze pervenute svolgendo una ricerca nominativa in modo da avvedersi se, con riferimento allo stesso soggetto, siano state comunicate dai Notai più autorizzazioni analoghe o contrastanti tra loro.
4. Conclusioni
In conclusione, laddove la riforma ha inteso sgravare il Giudice tutelare, ha poi spostato parte di tale carico sugli uffici del Pubblico Ministero, imponendo loro un onere di vigilanza rispetto all’attività svolta dai Notai.
Tale scelta si scontra inevitabilmente con le gravi carenze di organico che interessano le Procure, sia nei ruoli della magistratura requirente sia nelle cancellerie. Non stupirà, dunque, se una tempistica così ristretta per la proposizione del reclamo risulterà difficile da rispettare. In tal senso, costituirà sicuramente un aiuto la costituzione di un ufficio della Procura della Repubblica presso il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, anche alla luce del fatto che ad oggi non sempre vi è una specializzazione all’interno delle Procure nell’individuazione di magistrati dedicati agli affari civili – con la conseguenza che, laddove tali oneri si sovrappongano con le attività penali, saranno certamente queste ultime a prevalere.
In ogni caso, le novità in materia di procedimenti di volontaria giurisdizione gestiti dal Notaio, inquadrate nel più ampio contesto della riforma Cartabia, dimostrano l’intento del legislatore della riforma di rendere la figura del Pubblico Ministero all’interno del processo civile, specificamente in materia di persone, minorenni e famiglia, di centrale pregnanza, in particolar modo per la tutela dei soggetti più fragili e vulnerabili.
“Perché un’idea generale dovevano pure averla, per compiere il loro lavoro intelligentemente; e tuttavia era meglio che ne avessero il meno possibile, se dovevano riuscire più tardi buoni e felici membri della società. Perché, come tutti sanno, i particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista intellettuale, dei mali inevitabili.
Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società”.
Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”
Non me ne vogliano le due categorie sociali che l’Autore della citazione, con immaginifica esemplificazione, tira in ballo come degni rappresentanti di un mondo nuovo, governato da un razionalismo produttivistico a discapito dell’emozione, del sentimento, del pensiero libero.
Eppure, confesso che – con una tendenza accentuatasi negli ultimi tempi – in questi otto anni esatti di esercizio delle funzioni requirenti minorili mi sono sentito più volte un collezionista di francobolli (la vita dei boschi non è il mio forte).
Parto dalla fine.
Nell’imminenza del mio ritorno a un ufficio requirente ordinario, che maturerà nei prossimi giorni, ho sentito un insistente prurito alle mani. No, non per levarle contro le menti perverse che hanno concepito, progettato e imposto il sistema informatico che attua il processo civile telematico per il rito minorile, con una pervasività delle sue applicazioni che costringe il magistrato a non alzare gli occhi dal monitor per ore intere: ormai, neanche più il tappo alla penna tolgo la mattina.
Era semplicemente per stilare un bilancio consuntivo di questo tempo trascorso tra i figli di un Dio minore, e ciò sia per un intento diaristico che invecchiando mi assale, sia per dare un avviso ai naviganti che verranno – penso con trepidazione al collega m.o.t. che mi succederà – ma anche a quei tanti colleghi che per tutta la carriera si tengono ben lontani da queste lande.
Ecco, vorrei quindi tracciare una riga, e fare un riassunto di quel che è stato il mio lavoro alla Procura per i minorenni di Trento prima di tornare tra i grandi. Una sorta di tema di inizio anno scolastico, dove lo studente riassuma le vacanze appena trascorse. Rimpiante o no, lo dirà il tempo.
Seppur da un osservatorio piccolo e settoriale in rapporto alla gran massa degli uffici giudiziari del paese, in questa sede ho visto e imparato molto.
La cronaca di questi tempi m’impone di iniziare da una considerazione che attiene alla mancanza di consapevolezza, da parte di ragazzi anche ampiamente al di sotto dell’età imputabile, del disvalore sociale del fatto. Inutile girarci intorno: fatti gravi come quelli accaduti di recente, prima a Palermo poi a Caivano, violenze sessuali di gruppo condite di condotte estorsive poste in essere con modi degni di una consorteria mafiosa, e che vedono coinvolti in gran parte giovanissimi tra le vittime e i carnefici, devono interrogare la magistratura minorile tutta sulla efficacia della prevenzione oggi messa in campo dalle diverse agenzie del territorio. Che siano esse i genitori, gli educatori delle comunità di accoglienza, i servizi socioassistenziali, la scuola. E la magistratura stessa, che troppo poco adopera gli strumenti del procedimento civile con la tempestività e il rigore che esso consente (e già prima della riforma del 2022, il magistrato minorile era ampiamente fornito di poteri anche piuttosto incisivi: se non li abbiamo adoperati a dovere è soltanto colpa della nostra inettitudine).
Ho imparato a conoscerli, i giovanissimi protagonisti dei nostri fascicoli. Si tratta di adolescenti che hanno la stessa mia età di quando ancora collezionavo figurine dei calciatori come fossero (ehm…) francobolli, eppure essi sono molto più spudorati di quanto non fossimo noi, di qualche generazione fa, e non è detto che questo sia un male. Anzi.
Quella che apparentemente, specie a un occhio sempre più anziano e pigro, può sembrare sfacciataggine, protervia, o semplicemente maleducazione, tante volte altro non è che una esplicita invocazione di aiuto. Aiuto a essere guidati, letteralmente “educati”, estratti fuori dalle macerie di un mondo schizofrenico, ipertecnologico eppure rarefatto nei rapporti umani. Questi ragazzi – ma prima ancora i loro genitori, quando ci sono – non hanno remore né pudore a condividere sui social network tutto delle loro vite private, eppure fanno fatica a raccontarsi, a guardare negli occhi, ad alzare uno sguardo sempre troppo calato sotto l’ombra di un cappuccio ficcato in testa. Quando poi si passa a dover condividere per davvero, a scambiarsi qualcosa, in real life, che sia un’opinione, un’emozione o semplicemente un saluto, fanno fatica a sapersi destreggiare anche con i più rudimentali convenevoli che la società c’impone da secoli.
Ho visto ragazzi, indagati e imputati anche di gravi delitti, presentarsi all’interrogatorio in ciabatte, pressoché sdraiati dinanzi al pubblico ministero o al giudice con l’aria stufa del protagonista dell’omonimo romanzo di Michele Serra: e quando, invitati ad essere più rispettosi eccetera, ho visto nei loro occhi balenare il lampo della sorpresa, a tradire una verginità dei comportamenti sociali che dovrebbe portare sul banco degli imputati prima di tutto noi stessi, noi grandi.
Non c’è traccia di soggezione e men che meno di rispetto verso l’autorità (questa sconosciuta): c’è noia, c’è indifferenza, c’è il grido arrabbiato di una massa di ragazzi con cui essi rimarcano una distanza abissale nei confronti di un mondo adulto che li ripaga con la stessa moneta. Sono figure sintomatiche di un’assenza, di un vuoto che prima o poi decidono di colmare con il facile ricorso ad altri rinforzi: vuoi le sostanze stupefacenti, vuoi un abuso di alcolici (mai quanto mamma e papà, però), vuoi una sessualità artefatta che non eccita più.
Se tutto questo è fronteggiato con strumenti anacronistici e spuntati, è chiaro che l’effetto dissuasivo – senza scantonare in facili tentazioni generalpreventive – contro certe condotte delittuose risulta insufficiente. Gli istituti del processo minorile necessitano di essere adattati a una platea di giovani più smaliziati, più precoci nell’assumere condotte anche di rilevanza penale con preoccupante disinvoltura, sovente spia di un senso di impunità che è figlia dell’aria che si respira in casa (quando c’è).
Perché, allora, dovremmo pretendere dai ragazzi di riconoscere e rispettare le regole (siano esse leggi, regolamenti, circolari del dirigente scolastico o semplicemente precetti consuetudinari tramandati da sempre) quando noi adulti per primi abbiamo rimosso ogni barriera che imponeva di rispettare ruoli e competenze, professionalità e istituzioni?
“Dove sta scritto?” replicava uno sfacciato studente a un dirigente scolastico che lo richiamava a non assumere comportamenti irrispettosi, contrari alla legge o a qualche altra regola. Ebbene, se siamo, noi adulti per primi, pronti a ricorrere al precetto formale, al divieto imposto per iscritto, notificato urbi et orbi in tutte le sue declinazioni anche più parossistiche, allora non possiamo meravigliarci se un ragazzo, con fare provocatorio, reagisce all’autorità della scuola sfidandola sul suo stesso terreno.
Se per primi i genitori sono pronti a rivendicare i propri diritti tanto che il fantomatico ricorso al T.A.R. è assurto nel tempo a invincibile arma di risoluzione dei conflitti, ecco che risulta difficile conquistarsi la fiducia degli studenti senza dovergli sbandierare sotto il naso l’ennesima circolare del dirigente.
Se il patto educativo tra scuola e famiglia, lungi dal ridursi a principio fondamentale e per questo non scritto – i Romani non le scrivevano, le loro leggi più importanti – diventa un lenzuolo di diverse pagine dove ciascuno sciorina i propri diritti come su un campo di battaglia ci si affila le armi, è chiaro che presto o tardi quel genitore agguerrito farà facile presa sul figlio. Mutatis mutandis, è un fenomeno sociale non molto diverso da quello che infesta la sanità pubblica, e in specie i reparti ospedalieri di pronto soccorso, dove a breve il personale, oltre a indossare il camice, rischia di dover calzare anche l’elmetto in testa.
“Perché scappavi sempre?”
“Perché nessuno mi ha mai fermata.”
Questo, il dialogo che ebbi anni fa con una giovane ospite di una comunità di accoglienza fuori provincia, ivi inserita dopo l’ennesimo allontanamento da diverse case famiglia del territorio.
È un tema, quello della idoneità all’accoglienza delle case famiglia, molto delicato e nel quale influiscono – più che per altri settori della giustizia minorile – la cultura, il retroterra di esperienze non solo professionali, le sensibilità del magistrato.
Nell’esercizio dei poteri che l’art. 9 della legge n. 184/83 attribuisce al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, ho raccolto innumerevoli elementi conoscitivi che, pur in un contesto contenuto nei numeri come quello trentino, è emblematico delle condizioni in cui le comunità di accoglienza versano nel nostro Paese e della vocazione che anima il personale educatore.
Ho visto:
- giovanissimi operatori sociosanitari, selezionati sulla base di un semplice colloquio conoscitivo, dover prendersi cura di ospiti minorenni con gravi disturbi comportamentali, senza averne i mezzi e le competenze;
- una platea di personale, dipendente di fatto ma assunto in forza di contratti di collaborazione (spesso dotati di partita Iva), cessare dal servizio dopo pochi mesi, con buona pace delle esigenze di continuità nella presa in carico del minore ospite;
- dipendenti di comunità di accoglienza, al momento dell’ispezione del pubblico ministero, sprovvisti delle più basilari conoscenze sul tema e affannarsi al telefono nel tentativo, spesso vano, di reperire un qualche responsabile che potesse interloquire con cognizione di causa;
- educatori dover fronteggiare, spesso anche fisicamente, gli agiti aggressivi di ospiti che palesemente necessitavano di altre e più idonee strutture: ma ho pure sentito funzionari e dirigenti sociosanitari, e perfino amministratori locali, lamentare una scarsità di risorse e di investimenti;
- operatori con profili professionali inadeguati prendere in carico minorenni con gravi situazioni di disagio personale e familiare;
- l’assenza di politiche unitarie a livello nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, a differenza di quanto accade da anni in paesi (la Spagna, su tutti) che vivono fenomeni migratori equiparabili ai nostri.
Insomma, quel che ne ho tratto è la percezione di una palese insufficienza delle risorse umane e materiali che gli enti pubblici da anni investono nelle politiche sociali, lasciando spesso allo spirito di iniziativa del cosiddetto terzo settore la responsabilità strategica e gestionale delle comunità di accoglienza: commendevole lo sforzo, ma certo non adeguato in assenza di un coordinamento e, soprattutto, di un costante controllo su tutti gli ambiti (modalità di accreditamento, selezione del personale, idoneità delle strutture, elaborazione dei progetti educativi, interlocuzione con altri enti e organi dello Stato) di un settore nevralgico della giustizia minorile: dalle cui inefficienze dipende, purtroppo, anche una retorica nel dibattito pubblico via via crescente negli anni, secondo cui le case famiglia, i servizi sociali, e la stessa magistratura minorile sortiscono effetti perniciosi e irreparabili sui minori sottratti alle loro famiglie.
La magistratura minorile, appunto. Guardandoci dentro, non posso non indugiare sui caratteri antropologici di questa schiera di giudici e pubblici ministeri sempre un po’ defilati, lontani dal clamore mediatico – salve episodiche quanto effimere ribalte – e forse anche per questo mediamente troppo timidi, adagiati comodamente sulle prassi che, seppur diverse ufficio per ufficio, si sono sedimentate via via nel tempo: complice un legislatore che soltanto occasionalmente si è destato dal torpore per concentrare l’attenzione sulla giustizia minorile, e sempre facendosi dettare l’agenda da un episodio mediaticamente allarmante.
Accusata spesso di essere incline a un approccio troppo indulgente nei confronti di fenomeni devianti anche gravi (prima del mio arrivo nell’ufficio di Trento, l’ultimo arresto risaliva a oltre un anno prima), tuttavia la magistratura minorile è stata ed è tuttora composta di colleghi di competenza professionale non inferiore a quella cosiddetta ordinaria, impreziosita però da una capacità di ascolto e di ponderazione delle umane vicende che, forse, potrebbe essere più orgogliosamente rivendicata (e penso ai corsi di formazione permanente della nostra Scuola Superiore, dove più di un mio collega potrebbe agevolmente insegnare anche su temi apparentemente lontani dalla sua scrivania). Non è un caso che nella sua grande maggioranza essa non si sia fatta trovare impreparata, nel penale, di fronte a fenomeni criminali che imponevano una ferma reazione anche repressiva ma sempre calibrata sull’interesse del minore indagato o imputato e, nel civile, quando le istanze sociali dei nostri tempi annaspavano nel deserto normativo alla ricerca di una regolamentazione giuridica (penso al c.d. gender mainstreaming, all’adottabilità da parte di coppie omosessuali, alla violenza di genere, ecc.).
Un giudice, quello minorile, attento ai fenomeni sociali del tempo come lo furono i nostri antesignani degli anni in cui la produzione giurisprudenziale favorì e tracciò la strada alla grande stagione dei diritti sociali e civili, motore primo della effettiva realizzazione dell’uguaglianza sostanziale imposta dall’art. 3 della Costituzione.
In una visione sinottica degli arnesi a disposizione dell’operatore del diritto, io credo che, così come per il diritto penale debba ricercarsi – in aperta controtendenza allo spirito dei tempi – un approccio “minimo” che ridimensioni lo spazio applicativo del precetto e della sanzione penale, altrettanto debba liberarsi il campo del contenzioso giudiziario da umane vicende che debbono trovare altrove il loro dipanarsi, sul presupposto che nel processo minorile (lì più che altrove) il solo fatto del processo sia di per sé una pena per chi lo vive: le persone minorenni in primis.
Sono ancora persuaso che una coppia di nonni non debba aspettarsi di far visita ai propri nipoti battendo a colpi di ricorso alla porta del giudice; che per accertare il possesso delle capacità genitoriali non debba necessariamente farsi luogo a c.t.u. defatiganti e offuscate da intenti moralistici, quando una lettura sinergica degli atti istruttori risulti più che sufficiente; che una buona casa-famiglia sia sempre da preferire a una sentenza di adozione che faccia credere a quell’aspirante genitore di colmare vuoti esistenziali con un figlio purchessia, salvo poi restituirlo come prodotto difettoso al primo agito oppositivo-provocatorio; che il diritto alla bigenitorialità non sia un principio assoluto, ma debba sempre cedere il passo di fronte a condotte violente di uno o di entrambi i genitori; che una certificazione sanitaria generosamente concessa rischi di alimentare perniciose aspettative – quando non pretese – nei confronti dell’autorità statuale, e costituire comodo alibi per condotte deresponsabilizzanti.
Ma per far questo, è indispensabile restituire all’intervento pubblico la dignità che nel tempo la crisi della statualità e della sovranità (quella di cui all’art. 1 comma 2 della Costituzione, non certo quella dei manifesti elettorali) ha sgretolato. E io credo che la magistratura minorile, più sensibile di altre alla funzione civilizzatrice del diritto, sia in grado di guidare quel riscatto che permetta “alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui”.
Una premessa doverosa: quello che segue è un tentativo di raccontare parte di cosa è stato ed è - per me - essere una Sostituta Procuratrice della Repubblica[1], ruolo che sembra già dal titolo - che confesso di non utilizzare mai - qualcosa di meno interessante di un Sostituto Procuratore...almeno fino a qualche riflessione fa.
Nessuna pretesa che la mia esperienza sia la stessa di altre, perché siamo diverse, a volte diversissime, come diverse sono le vicende, i caratteri, le sensibilità e, di conseguenza, il modo di essere magistrate, ma credo che almeno alcune delle situazioni che ho vissuto e vivo possano essere comuni ad altre.
Insomma, come ho letto nella bella prefazione di un fumetto illuminante (ma con meno pretese), spero che per alcune di noi vedersi in queste righe possa essere in qualche modo liberatorio e per tutti - forse - un'opportunità: "diventare più consapevoli del dislivello per poterlo affrontare per quello che è, cioè un dato sociale storicizzato e modificabile"[2].
1. La Polizia Giudiziaria
Un collega autorevole e giudice di esperienza, una volta ha scritto in una chat "quello del Pubblico Ministero non è un lavoro per stupidi", ricordo di aver replicato che è una verità che si impara subito dalla Polizia Giudiziaria. Già, la P.G. Universo ancora molto al maschile, non immediato nella sua gestione e direzione per una giovane donna.
Ricordo uno dei primi turni esterni. Tentato omicidio con arresto. Un treno preso al volo per arrivare sul posto e interrogare l'arrestato. Arrivata in caserma ho l'esatto ricordo del "dica" di un capitano ("dica" non "comandi", quello è arrivato dopo, molto dopo). Dentro quel "dica"[3] c'era il concentrato di una messa alla prova, che sarebbe durata molto, molto di più che per un collega. L'arrestato rese un lungo interrogatorio. Il giorno dopo, ricordo lo stesso capitano che mi chiese "non si è sentita osservata ieri dottoressa in mezzo a tutti uomini?". No. Lavoravo. Lavoravo con e come loro. Ma ho imparato che ero stata e sarei stata osservata. Ho dovuto tenerlo in considerazione e dimenticarmene allo stesso tempo.
Difficile e pericoloso ricorrere alla scorciatoia del cameratismo per una donna. Difficile, eppure affascinante e bellissimo, costruire un senso di squadra, oltre il genere.
Difficile far comprendere, in un continuo esercizio di misure da prendere e farsi prendere, che apertura, dialogo e capacità di messa in discussione non significano perdere il senso del ruolo che ciascuno ha, così come la responsabilità della decisione finale, che sia condivisa o meno.
C'è, in fondo, quello che ho sentito dire una volta all'on. Emma Bonino "le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà"[4].
Troppo spesso è ancora vero[5].
2. Il rischio vigilessa e un po’ di ordinario sessismo
Tempo fa ho letto in un libro questa semplificazione.
"Il genere femminile sconta da secoli una cultura aliena al principio gerarchico, secoli di pregiudizio e di strangolanti incombenti familiari, quindi si trova, del tutto incolpevolmente, talvolta a disagio nella gestione di funzioni di tal tipo. Ciò comporta qualche caso di mammina giudiziaria e alcuni di vigilessa [...] del tipo vigilessa c'è poco da dire. Ognuno di noi, credo, si è imbattuto almeno una volta in tale maschera della commedia dell'arte: la necessità di superare uno strisciante pregiudizio induce talvolta degli atteggiamenti un poco rigidi"[6].
Vero, ma anche - in buona parte - frutto di un pregiudizio.
Ancora. Una donna, un Pubblico Ministero che è (magari a ragione!) in collera, è per definizione emotiva e irrazionale, magari - nella migliore delle interpretazioni - perché è in un periodo particolare del mese. Sarà "isterica"[7], mentre per un uomo il medesimo atteggiamento verrà percepito come autorevole, quella collera un modo per "affermare il suo carisma"[8].
Fino a che non ci penserà un po' di mestiere o di sano disinteresse per i commenti, ci si sentirà facilmente incastrate tra la spinta di essere grintose e attrezzate e le accuse di eccessiva aggressività, caratteristica non considerata in termini negativi per un uomo.
Equilibrio da trovare per tentativi ed errori.
Come imparare a reagire con aplomb ai numerosi "signorina", di testimoni, indagati, imputati, non sempre frutto di ingenuità, né sempre adeguatamente stigmatizzati da chi dovrebbe farlo.
Sessismo che si impara a fronteggiare, anche quando – e si tratta di aneddoto reale – si scopre che le magistrate di una Procura che vede una netta prevalenza di giovani donne sono comunemente definite “le Procurine”, appellativo che molto ha fatto ridere…non solo coloro che si riconoscono apertamente sessisti.
Tutto sommato poca cosa, dato che leggere il tanto discusso libro di Boccassini mi ha aperto prospettive ben peggiori. Si legge, in particolare, in un passaggio de La stanza numero 30, testualmente, “non ho dubbi che l’accanimento nei miei confronti sia stato acuito dal mio essere donna. Solo così si spiegano gli attacchi alla mia femminilità, le critiche all’abbigliamento, alle collane e agli orecchini che indossavo, l’insistenza sul colore dei capelli […] le tante lettere anonime in cui venivo definita troia o zoccola, oppure l’invio di ritagli di giornale pornografici, nei quali avevano sostituito il mio volto a quello della pornostar, o di fazzoletti di carta inequivocabilmente imbrattati di sperma”[9] o, peggio, “penso che le faremo quest’anno il servizietto già riservato alla Franca Rame. PS attenzione ai Ducato”[10].
Leggere queste forme di aggressione mi ha fatto rabbrividire e realizzare che essere un funzionario pubblico, che svolge il suo lavoro con professionalità e rigore, non mette al riparo da attacchi vili, che nulla hanno a che fare con il merito.
Mi ha sorpreso ritrovare le stesse considerazioni in una sentenza della Corte di Cassazione, che in un passaggio evidenzia “qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l’uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravvalutarsi – tutte accuse nella specie più pertinenti all’oggetto della discussione – ma di essere una puttana, una zoccola – offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale. Con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità”[11].
Purtroppo, peraltro, una quota di misoginia e sessismo non è estranea alle stesse donne, che non così di rado cadono nel rischio della “pick me girl”[12].
Come si legge nella quarta di copertina di un interessante libro sul tema del linguaggio sessista, il rimedio a queste (purtroppo ordinarie) forme di aggressione - anche e oggi soprattutto “social” - non è “il galateo, ma una pratica quotidiana del dissenso e un recupero dell’uso consapevole della lingua come portatrice di significati”[13]… e così si torna alla Sostituta Procuratrice, che forse prima o poi imparerò ad utilizzare.
3. La scoperta di un pregiudizio (che siamo tutti convinti di non avere)
In una delle mailing list di magistrati, in risposta ad una bella e-mail di Paola di Nicola Travaglini, ho letto colleghi ribellarsi all'idea di una perdurante esistenza, nella magistratura, di stereotipi di genere.
Sono in molti ad essere convinti che nel 2023, in magistratura, tra persone istruite e umanisti non ci sia spazio per stereotipi.
E invece sì. Devo a una sorella autenticamente femminista, a qualche lettura e ad un bel progetto di formazione[14] la scoperta degli stereotipi di genere che mi appartenevano, la presa di consapevolezza di una discreta quota di misoginia interiorizzata[15]. Affinando lo sguardo, mi sono resa conto di quanto la visione di genere (o, sarebbe meglio dire, patriarcale) permei ancora tanto il nostro stesso ambiente.
Quella della magistratura, in breve, non è affatto una “torre d’avorio egualitaria”[16], permanendo anche nel nostro ambiente significative differenziazioni, sia orizzontali (per settori) che verticali (per ruoli).
Stranamente, appunto, il settore penale e quello della Procura in particolare, sembra subire più del civile questa distorsione[17], come se - per qualche ragione - per fare bene il Pubblico Ministero fossero necessarie doti tipicamente maschili, che solo eccezionalmente alcune donne possiedono[18].
Siamo talmente immerse in una concezione maschiocentrica, che essere definite - come di recente mi è capitato - un "Pubblico Ministero con barba e baffi" - diventa motivo di orgoglio.
Intendiamoci, va benissimo che una donna si occupi come Pubblico Ministero di reati di codice rosso, anzi il fatto che se ne occupi una donna viene - non sempre a ragione - vissuto come garanzia di maggiore attenzione, sensibilità.
Diverso è, invece, l'ambito dei reati tecnici, come il penale dell'economia dove, almeno per la percezione che ne ho dal mio piccolo osservatorio, si vive ancora una sorta di predominio maschile.
Poche, pochissime le colleghe relatrici in corsi e convegni sulla materia, tanta fatica nel porsi come interlocutrici affidabili[19]. Difficile capire se questo dipenda (solo) da preclusioni mentali femminili[20] o da una sorta di "sindrome dell'impostore", che porta molte colleghe a dubitare delle proprie competenze. Il dato, tuttavia, rimane e rischia di essere scoraggiante.
In un libro interessante, a proposito della presenza femminile nella università italiana, ho letto di un esperimento, che riporto: “a parità di curriculum vitae, sia i docenti che le docenti tendevano a considerare il percorso scolastico degli uomini migliore rispetto a quello delle donne, a proporre loro più spesso una posizione lavorativa ed uno stipendio più alti perché la preparazione degli uomini (di fatto identica, veniva solo cambiato il nome sul curriculum da John a Jennifer) veniva percepita come superiore”[21].
Il sorriso che mi è capitato di incontrare nell'uditorio maschile in occasioni nelle quali non ho potuto o saputo fare a meno di espormi, mi ha, inoltre, a volte restituito la sensazione dello stesso sguardo che si ha su un bambino che ha un'uscita sorprendentemente più intelligente (o simpatica) di quanto non ci si aspettasse[22].
In questo percorso di consapevolezza ho dovuto, però, rendermi conto di come esprimere la percezione di questi permanenti disallineamenti spesso significhi perdere la solidarietà dei colleghi, quasi come se recuperare una visione femminile significasse perdere la loro complicità o quel poco di autorevolezza conquistata con lo studio, il lavoro, il confronto; come se affinare un (recuperato) sguardo "di genere" significasse perdere quel poco di "Pubblico Ministero" che ti veniva riconosciuto di essere.
Ho probabilmente estremizzato alcune percezioni e so di espormi a critiche, più o meno aspre, ma l'ho fatto perché credo fermamente che sia il momento di parlarne, di smettere di farne un tabù.
Il dibattito e la formazione interna su questi temi sarebbe bene fossero seriamente e autenticamente percepiti come una delle priorità, per coltivare consapevolezza, soprattutto nella prospettiva della sempre maggiore femminilizzazione della magistratura. Per noi magistrate - anche e soprattutto - per uscire da una visione individualista, di un "femminismo" che troppo spesso rivendica parità di "posizioni"[23] più che di ascolto, di ammirazione, più che di rispetto[24]. Per creare, tra l’altro, vere “role model”, magistrate, magari con posizioni direttive o semi-direttive, che sappiano segnare realmente una nuova strada per tutte e tutti.
4. La maternità
Torno ad una citazione: "mammina giudiziaria"[25]. Stesso testo, espressione sfortunata, ma ben nota a molti, almeno a tutti quelli che hanno dovuto far fronte alle assenze delle colleghe, magari protrattesi più di quanto si ritenesse necessario.
Eppure, come magistrata, c'è necessariamente un prima e un dopo. Il cosiddetto “maternal wall”[26].
C'è anche il prima del senso di colpa di lasciare il ruolo, le indagini, di far pesare ai colleghi la tua assenza. La smania di definire, organizzare, sistemare. C'è una maternità ancora vista male, perché più che essere vissuta come un serio tema organizzativo, che riguarda tutti e impone un rallentamento (alla società come all'Ufficio), spesso diventa un'occasione per gravare di turni, udienze, fascicoli - ancora una volta - chi non ha esigenze familiari da anteporre (o, semplicemente, non è una mamma, anche se è un papà!).
C'è l'indagine interessante che non "incameri" perché non potrai seguirla, perché "chissà quando rientri" o perché la maternità, almeno nei primissimi anni di vita di un figlio, si porta dietro una percezione di minore affidabilità professionale[27].
C'è il dopo del timore di dover ricominciare tutto da capo. Dei turni che ti mettono la stessa ansia dei primi.
Il disagio (che ho presto scelto di lasciare andare) del classico sottofondo "mammaaaaaaa" al professionale "pronto, sì, sono la dott.ssa Posa, mi dica".
C'è la penna che spesso deve cadere molto prima di quanto non facessi, di quanto non vorresti. Le cose che restano a metà anche quando eri in piena trance agonistica (come la chiama qualcuno che mi conosce molto bene). C'è l'uscire prima, senza lavorare meno[28], anche se in fondo senti di fare mezza giornata quando chiudi la porta dell'ufficio e saluti il collega o rispondi "già" dall'auto[29] alla P.G.
C'è il "ma la mamma non può mai venirlo a prendere questo bimbo?" delle maestre o il "ma non sarebbe meglio che facessi il giudice, così lavoreresti da casa?", di parenti o conoscenti.
C'è il dover conciliare l'aspirazione a crescere professionalmente con le esigenze familiari e di crescita di un figlio - che è una responsabilità sociale[30], prima che individuale - e una sede che resta la stessa più di quanto non avresti immaginato e voluto.
C'è il senso di colpa di non esserci abbastanza, né a casa, né in ufficio. Senso di colpa in gran parte legato al “mito della maternità” che pone sulle spalle delle donne “non solo la cura, ma anche la pressione della perfezione”[31].
Anche quello da imparare a lasciare andare. Ed è un lavoro...l'ennesimo, ma da affrontare con fatica, entusiasmo e passione, come tutti gli altri. Perché, come scriveva Oriana Fallaci, essere donna "È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai"[32].
[1] Così “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987 e Accademia della Crusca, “Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari Opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione”.
[2] Dalla prefazione di Michela Murgia al libro Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Emma, Laterza, 2020.
[3] Lo dice benissimo Niccolò Fabi nella sua “dica”: “Ma dire "Dica", è un po' una cortesia detta senza umiltà Non sarà mica il solito problema della formalità; "Dica", e non si dice mai dica senza un perché; "Dica", e chi ti dice dica non si fida di te”.
[4] Citazione che, stando al web, sarebbe riferibile a Charlotte Whitton.
[5] Percezione non solo mia - ho scoperto - dato che una collega con un profilo di personalità, esperienza e competenza decisamente non comparabile al mio ha di recente scritto “Essere donna mi ha portato spesso a fare più del necessario, per reggere il confronto con colleghi uomini cui invece nessuno chiedeva di dimostrare nulla. E questo è un dato di fatto”, Ilda Bocassini, La Stanza numero 30, Feltrinelli, Milano 2021. Se si legge la bellissima descrizione che di Ilda Bocassini fornisce l’allora Capitano Ultimo nel libro di Maurizio Torrealta (“perché pur essendo una donna, per noi e come se fosse un soldato”), si fa decisamente fatica a bollare questa percezione come proveniente dalla “solita femmina lamentosa e vittimista”.
[6] A. Marcheselli, Magistrati dietro le sbarre, farsa e tragedia nella giustizia penale italiana, Melampo, Milano 2009, p. 46.
[7] Non serve ne spieghi l’etimologia.
[8] Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Emma, Laterza, 2020.
[9] La Stanza numero 30, Feltrinelli, Milano 2021 p. 194-195.
[10] Ibidem p. 231.
[11] Cass. Penale, sez. V, 5070/2013.
[12] Ovverosia colei che ricade in atteggiamenti misogini al fine di ottenere l’approvazione maschile. Con un respiro più ampio nel testo La volontà di cambiare bell hooks scrive “È necessario evidenziare il ruolo che le donne svolgono nel perpetuare la cultura patriarcale per poter riconoscere il patriarcato come un sistema che uomini e donne sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante” p. 42 e, ancora, “attribuendo la colpa della perpetuazione del sessismo esclusivamente agli uomini, quelle donne [le femministe riformiste] potevano mantenere la loro fedeltà al patriarcato, la loro stessa brama di potere. Mascheravano il loro desiderio di dominare fingendosi vittime”, p. 43.
[13] G. Priulla, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Settenove, Milano 2014.
[14] https://www.vittimizzazionesecondaria.it/
[15] Leggere esempi sul web mi ha squarciato un velo: “giudichi la vita sessuale o il modo in cui le altre si vestono; tendi ad evitare amicizie con le donne perché credi che tutte siano false e/o cattive; provi piacere nello sminuire una donna al fine di avere approvazione maschile; utilizzi slur misogini per insultare: tr*ia, putt*na ecc.… (ricordiamoci che non sono sinonimi di “stronza”; consideri superficiale ogni cosa che sia associata stereotipicamente alla femminilità (passioni, abbigliamento, colore preferito)” – profilo twitter @artemisiait.
[16] Espressione utilizzata in relazione all’ambiente accademico da A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, Bari 2022, p. 101.
[17] Non so quanto simile visione sia connaturata al punitivismo, né ho adeguati strumenti culturali per sostenerlo. Riporto a tale riguardo un passaggio del libro Femminismo giuridico. Teorie e Problemi di A. Simone, I. Boiano, A. Condello, Mondadori 2019, nel quale si legge, a proposito del diritto penale, che sarebbe “un diritto patriarcale per eccellenza, un potere pastorale che ammonisce, disciplina e limita” p. 70.
[18] Interessante come alcune forme di femminismo rischino di accrescere questa visione, proponendo una immagine di donna “di potere” in fondo non lontana dal modello patriarcale, si legge in proposito nel libro di bell hooks, La volontà di cambiare, il Saggiatore, Milano 2022, che “le femministe riformiste […] erano un gruppo di donne (per lo più bianche e privilegiate) le quali sostenevano che tutti gli uomini erano potenti. Per queste donne la liberazione femminista consisteva più nel prendersi una fetta del potere maschile” e, ancora “è stato sbagliato da parte delle femministe riformiste vedere la libertà semplicemente come il diritto delle donne di essere potenti quanto gli uomini patriarcali”.
[19] Per fortuna la PG sembra paradossalmente più egualitaria e, una volta superato lo scoglio di genere, sufficientemente libera nel valutare le competenze: nella loro prospettiva conta il risultato e un magistrato che garantisce loro il risultato è un buon interlocutore, uomo o donna che sia.
[20] Interessante l’ottica proposta da A. Minello nel libro Non è un paese per madri, Laterza, Bari 2022, ove si legge che “Le donne tendono ad essere maggiormente presenti nelle discipline umanistiche e in quelle legate alla cura, mentre gli uomini sono la maggioranza nei corsi cosiddetti Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, informatica). Gli stereotipi di genere giocano un ruolo cruciale nella scelta del percorso universitario: per gli uomini come per le donne, contano molto i pregiudizi culturali. A frenare le ragazze nella scelta delle Stem è la percezione che gli studi scientifici siano più difficili, meno adatti a loro”.
[21] A. Minello, ibidem, p. 111. Aneddoto personale anche su questo. Da giovanissimo avvocata in uno studio legale, mi fu chiesto dal socio di riferimento (uomo) di valutare alcuni curricula per nuove candidature, la frase fu testualmente questa “dacci uno sguardo, anche se sono tutte ragazze”. Confesso che all’epoca fu un enorme motivo di orgoglio – quasi come espressione di reale egalitarismo - essere considerata fuori dal genere, ragionevolmente del tutto asessuata.
[22] Lo dico con una buona quota di ironia, che sono consapevole rappresenti una enorme risorsa, anche per evitare il rischio vigilessa… sia mai!
[23] Cfr. nota 19. Interessante anche la considerazione che si trova nel testo La trama alternativa di G. Palombra, minimum fax, Roma 2023, ove l’autrice osserva che “L’ambizione di questo femminismo è l’empowerment, nella sua accezione più individualista, legata a doppio filo al successo economico: la realizzazione sta nella carriera che permette l’accesso agli spazi di privilegio che prima erano negati. Ma questo accesso non è garantito a chiunque. E’ di sicuro più facile a chi si fa portavoce di un femminismo addomesticato, per sempre giovane, sensibile alle ricompense del mercato, avvezzo a smussare gli spigoli e a non avanzare mai critiche troppo scomode” e, poco prima “non importa quali idee incarnino, quali cambiamenti metteranno in atto, non importa se saranno portatrici delle stesse dinamiche oppressive: la sola rappresentazione delle donne di potere nello spazio pubblico è considerata emancipazione”, p.99 e 100.
[24] Citazione di Thomas Bernhard in Antichi Maestri che devo alla lettura della bellissima lettera della giornalista Maria Luisa Busi, all’atto di lasciare il TG1 “scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno". Lo stesso concetto viene ripreso da bell hooks, la quale afferma “in un mondo in cui la disuguaglianza di genere è una norma accettata da tutti, gli uomini negano alle donne il loro rispetto. La radice della parola rispetto è il verbo latino respicere che significa guardare” p. 188.
[25] A. Marcheselli, in Magistrati dietro le sbarre, che si esprime testualmente così “La collega del primo tipo è quella che, comprensibilmente e legittimamente, oppone a qualsiasi tentativo di razionalizzazione del calendario giudiziario una batteria di visite pediatriche, ecografie, gravidanze a rischio, otiti, parotiti, febbri di origine non accertata, orari dell’asilo nido e festicciole di compleanno”, p. 46.
[26] Letteralmente "muro della maternità". Un concetto proposto per la prima volta da Faye J. Crosby e colleghi nel 2004 (Journal of Social Issues, 60, 2004, pp. 675-682.
[27] “Ciò avviene alla luce dello stereotipo secondo cui una madre non ha lo stesso tempo e la stessa capacità di dedicarsi al lavoro di un parigrado donna senza figli, o di un parigrado uomo con o senza figli” con messa in discussione dell’affidabilità della donna-madre. Ora se è vero che la categoria delle madri è “più soggetta ad imprevisti”, soprattutto nei primi anni di vita di un figlio, è vero perché il lavoro di cura è spesso (socialmente se anche non a livello familiare) appannaggio delle madri. Una ridefinizione dei carichi, un maggiore coinvolgimento dei padri (anche magistrati!) tramite incentivazione e sensibilizzazione in merito a tutte le forme di co-tutela e gestione dei figli, sarebbero una buona strada per una seria politica di pari opportunità (virgolettato tratto da A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, 2022).
[28] Con una progressiva rinuncia ad ogni spazio di decompressione, compresa la pausa pranzo (come evidenziato con pungente ironia nel fumetto “Bastava chiedere!” già citato).
[29] Causa pendolarismo, tanto per non rispondere al senso di colpa.
[30] Mettere al mondo un figlio non è un affare che riguarda solo i genitori, il desiderio di maternità della donna, ma è azione che riguarda il futuro stesso di una società, sia in termini demografici che di educazione, se di questo acquisissimo una consapevolezza lucida forse smetteremmo di considerare le maternità (e le paternità!) come meri ostacoli ad una buona organizzazione degli uffici, in un’ottica di corresponsabilità e leale collaborazione tra la magistrata madre, il magistrato padre e l’Ufficio.
[31] La citazione è del testo Non è un paese per madri, dove si legge anche “è quindi evidente che qualunque sia la direzione presa, che sia quella dell’abbandonare il lavoro [o ambizioni di carriera in genere n.d.r.] … o che sia invece quella di cercare di avere ne contempo maternità e carriera, in una strada affastellata i fatica e sensi di colpa, sono entrambe frutto di pressioni culturali che vanno in una direzione differente e che sarebbero scelte libere se e solo se i servizi fossero universalmente disponibili, la cura si ricadesse paritariamente sulle spalle di uomini e donne e nessuna delle due portasse con sé il peso del giudizio sociale” (p. 51). Senso di colpa legato al “mito della maternità” cui non sono estranee neppure magistrate di indiscussa professionalità e capacità di lavoro. Nel suo libro La Stanza numero 30 Ilda Bocassini scrive “Mi sono assegnata compiti difficili. E sicuramente uno dei prezzi che ho pagato è stato essere una madre imperfetta, troppo giovane per la prima maternità e con momenti di presenza troppo risicati nella vita di Antonio e di Alice. A volte mi è sembrato impossibile recuperare il tempo che avevo sottratto ai miei figli” e, ancora, “è più giusto dire che mi sono sentita un verme […] fu una delle occasioni in cui mi sembrò che la vita mi stesse sfuggendo di mano. Non sopportavo più il peso delle responsabilità, quell’eterno trovarmi a un bivio, il dover decidere quale direzione prendere: se quella del lavoro, del ruolo pubblico, o quella della sfera privata. Una scelta quotidiana, sofferta, lacerante”.
[32] Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, BUR, 2007, p. 13.
I due volumi della Nuova Guida al codice di procedura penale (Carabba editore, 2023) di Aniello Nappi ci consegnano l’intero sistema processale penale italiano in tutta la sua complessità, con gli importanti innesti operati dal d.lgs. 150 del 2022 (riforma Cartabia), che ha proceduto ad una vera e propria riscrittura di alcuni istituti processuali.
Il lavoro di Nappi non può definirsi solo un “manuale”, inteso secondo i concetti della manualistica corrente, cioè un libro che espone gli argomenti fondamentali attorno alla materia del processo, ma - appunto - una “guida”, che conduce e segnala al lettore la strada per accedere al sistema del processo. Una strada affatto semplice, rispetto alla quale Nappi non si è sottratto alla sfida di rappresentarne la “complessità”, nel senso che non ha operato scorciatoie o semplificazioni nel descrivere gli istituti, ma li ha esaminati in modo approfondito e critico, soprattutto li ha letti attraverso un continuo confronto con la giurisprudenza e con la dottrina.
Rispetto ai tradizionali “manuali” di procedura penale la Nuova Guida sembra differenziarsi proprio per il rilievo che assegna alla giurisprudenza, che non viene riportata solo in nota, ma che è descritta in tutti i suoi orientamenti, spesso divergenti, per poi essere analizzata, vagliata e discussa all’interno del testo, con l’obiettivo finale di riportare ad un ordine razionale i vari istituti esaminati.
L’impegno di dare razionalità al sistema è il filo rosso che attraversa l’intera opera di Nappi: si percepisce lo sforzo di offrire una ricostruzione logica agli snodi processuali, agli istituti e di leggere le nuove disposizioni, anche quelle introdotte dalla recente riforma del 2022, in modo tale da consentire al “sistema” di funzionare, lontano da quell’atteggiamento, proprio di alcune operazioni interpretative, volto a dimostrare solo le carenze del sistema. Non che manchino nella Nuova Guida accenti di forte critica per alcune scelte, come ad esempio quando, con riferimento alle prove, si rileva uno stato di notevole confusione sul tema della valutazione degli indizi a causa di una ricorrente incertezza della giurisprudenza tanto “da tradursi in un’imbarazzante licenza di arbitrio valutativo”. Tuttavia, prevale sempre un’esigenza di critica costruttiva, che avversa ogni approccio demolitorio, per preferire una paziente e accorta ricerca delle ragioni che hanno spinto il legislatore e la stessa giurisprudenza a fare certe scelte.
Quello della ricerca della soluzione razionale è una esigenza dell’Autore, che deriva dalla sua impostazione di studioso, attento lettore di saggi sulla logica, e anche dalla sua lunga e significativa esperienza di magistrato presso la Corte di cassazione, funzione che ha esercitato nella piena consapevolezza del ruolo della Corte di legittimità, cioè di un giudice che deve dispensare soluzioni interpretative che consentano il funzionamento del processo nel pieno rispetto delle garanzie.
Vi è da dire che l’aspirazione alla ricostruzione razionale del sistema e la continua attenzione all’opera della giurisprudenza possono apparire in qualche modo antitetiche, considerando che il diritto giurisprudenziale procede disordinatamente, per strappi, in un movimento continuo e impetuoso difficilmente governabile, tanto che per descriverlo si è fatto ricorso alla teoria del caos (M. Taruffo): ebbene il lavoro di Nappi raccoglie questa sfida impegnativa, offrendo una rilettura completa e critica del processo, anche attraverso il diritto vivente giurisprudenziale.
La Nuova Guida si compone di due volumi, divisi in tre parti, riprendendo l’impostazione contenuta nella originaria Guida: il sistema, i riti, le implicazioni.
La prima parte si apre con il capitolo (I metodi) in cui sono discussi i problemi generali della giurisdizione penale, evidenziando come il concetto di matiére pénal elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo se, da un lato, aumenta le garanzie anche per illeciti non qualificati come penali dalle leggi nazionali, dall’altro, mette obiettivamente in crisi il nostro principio di legalità.
Questa parte si conclude con un denso capitolo dedicato alla valutazione della prova. Qui Nappi affronta, tra l’altro, il controverso tema del rapporto tra verità storica e verità processuale, non senza confrontarsi con le più recenti teorie filosofiche, per sostenere che “la verità di cui si discute nel processo è la verità di un enunciato singolare posto a base del capo di imputazione, formulato dal pubblico ministero, e la realtà”, avvertendo che “oggetto del processo è pur sempre un problema di verità”, un oggetto che costituisce lo “scopo più autentico di qualsiasi processo”. E’ una affermazione in cui crede fortemente: l’obiettivo del processo è pur sempre la verità, che va intesa come “accertamento attendibile dei fatti”. D’altra parte, Nappi pur dando atto dell’importanza sempre crescente che ha nel processo la conoscenza scientifica con i suoi modelli e strumenti tecnici sofisticati, avverte come l’ingresso della scienza nel processo non può determinare “una sorta di abdicazione del giudice e delle parti”: ad essi rimane la responsabilità della decisione.
Nel mezzo vi sono i capitoli dal II al IV che descrivono le fasi processuali, mentre il V e il VI sono dedicati, rispettivamente, al giudice e al tema della competenza, e all’ufficio del pubblico ministero; il VII riguarda la forma degli atti.
Con la seconda parte si entra nel cuore del processo.
I primi due capitoli sono dedicati alle indagini e all’udienza preliminare.
Sono valutate positivamente le modifiche apportate dal d.lgs. 150 del 2002 (riforma Cartabia) su tempi e controlli dell’iscrizione della notizia di reato; riguardo alla nuova regola di giudizio contenuta nell’art. 425, comma 3, c.p.p., si ribadisce la natura processuale della sentenza di non luogo a procedere, evidenziando che la modifica ha operato una omologazione tra la regola di giudizio dell’udienza preliminare e quella del procedimento di archiviazione.
Grande attenzione è riservata alle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, comprese quelle tra presenti, eseguite per mezzo di captatori informatici. Con riguardo a questa tipologia di intercettazioni viene operata una distinzione circa le condizioni di ammissibilità, precisando che solo quando si procede per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. le intercettazioni tra presenti sono “incondizionatamente ammesse in ambito domiciliare”, anche se eseguite attraverso l’uso di captatori informatici; mentre in caso di procedimenti di criminalità organizzata per delitti diversi da quelli indicati dall’art. 51 cit. le intercettazioni sono ammesse in ambito domiciliare, ma possono essere eseguite per mezzo di captatori informatici solo se sia in corso un’attività criminosa. Sul punto, recentemente, si è aperto un delicato dibattito sulla nozione di “criminalità organizzata” funzionale all’ammissibilità di intercettazioni tra presenti con l’uso del c.d. trojan horse, questione presa in esame nella versione on line della Nuova Guida, in cui si afferma che non tutti i reati contemplati nell’art. 51, commi 1-bis e 1-quater c.p.p. rientrano nel concetto di criminalità organizzata, ma solo quelli che hanno una base associativa, precisando che il concorso nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. può riferirsi solo a reati diversi da quelli associativi, laddove la condotta finalizzata ad agevolare l’attività, se è riferita all’associazione, può implicare il concorso nel reato associativo e, quindi, è ricompresa nel concetto di delitto di criminalità organizzata. Tali problematiche, sorte soprattutto in relazione alla interpretazione non univoca dei principi desumibili dalla sentenza delle Sezioni unite Scurato, del 28 aprile 2016, sono state rapidamente e, forse, frettolosamente superate dal decreto legge n. 105 del 10 agosto 2023, che ha espressamente incluso i reati commessi ricorrendo alle modalità e condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. e quelli finalizzati ad agevolare le associazioni mafiose tra i delitti cui si applica l’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, così facendoli rientrare nel regime delle intercettazioni tra presenti relativo ai delitti di criminalità organizzata.
Seguono i capitoli (XI e XII) sugli istituti che Nappi colloca all’interno di due distinte partizioni, definite alternativa accusatoria e alternativa inquisitoria: nella prima la prova si forma nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice e gli atti di indagine non hanno, di regola, valore probatorio; nell’altra, invece, gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero senza contraddittorio, assumono valore di prova in funzione di una definizione anticipata e semplificata del giudizio.
L’alternativa accusatoria è quella principale, in cui il processo, passando attraverso l’udienza preliminare o la citazione diretta, si sviluppa e si conclude nel pubblico dibattimento ovvero nei due riti speciali del giudizio direttissimo e del giudizio immediato.
L’altra alternativa comprende il giudizio abbreviato, il c.d. patteggiamento e il procedimento per decreto, riti che consentono alle parti una definizione anticipata del processo con il più rapido metodo inquisitorio, realizzando una deviazione rispetto al modello principale. Nell’ambito di questa alternativa Nappi colloca anche l’oblazione e il nuovo istituto della sospensione del processo con messa alla prova, con proprie caratteristiche.
Il capitolo XIII è interamente dedicato al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica. Viene preso in esame il nuovo istituto dell’udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta, introdotto dalla riforma del 2022, evidenziando come in tale udienza, a differenza di quanto avveniva con l’udienza di prima comparizione, al giudice è demandato il compito di verificare l’attendibilità dell’accusa, in base al fascicolo del pubblico ministero, così delimitando anche l’oggetto del giudizio e realizzando una disciplina che riproduce quanto previsto all’art. 423 c.p.p. per l’udienza preliminare.
Il capitolo successivo tratta i procedimenti complementari: il processo penale minorile e quello davanti al giudice di pace. A quest’ultima procedura complementare Nappi dedica una particolare attenzione, evidenziando l’importanza della funzione della giurisdizione onoraria nell’ambito del sistema giudiziario, sottolineando l’originalità di alcune scelte processuali compiute, come quella della citazione a giudizio su ricorso della persona offesa, vera e propria azione penale privata, e, nello stesso tempo, rilevando alcuni limiti su come la giurisdizione di pace è stata realizzata dal legislatore.
La terza parte sulle implicazioni, si apre con il capitolo dedicato alle misure cautelari, personali e reali. Si tratta di un capitolo particolarmente denso, in cui Nappi affronta in modo approfondito tutti i numerosi problemi, interpretativi e applicativi, a cui questa materia ha dato adito, con un supporto notevole, anche per estensione, di note in cui si documenta il travaglio della giurisprudenza e della dottrina sui temi della libertà personale. Basti citare, a titolo di esempio, il paragrafo sulle contestazioni a catena, uno dei temi più complessi e difficili, alla cui confusione interpretativa ha contribuito anche la giurisprudenza, non solo quella di legittimità. Ebbene, la descrizione dinamica degli orientamenti della giurisprudenza, anche costituzionale, e della dottrina sull’art. 297, comma 3, c.p.p. oltre ad essere dettagliata e puntuale, offre una ricostruzione completa e chiara dell’istituto, pur sottolineando alcuni aspetti di non facile interpretazione, come la modifica operata dall’art. 12 legge n. 332 del 1995, che ha stabilito che la disposizione non si applica “alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione”: qui Nappi, condividendo alcune osservazioni della dottrina, sostiene che “ciò che dovrebbe rilevare ai fini della contestazione a catena è solo la situazione probatoria esistente al momento della richiesta di ciascun provvedimento, non quella esistente al momento del rinvio a giudizio per alcuno dei fatti contestati”.
Medesima accuratezza troviamo nella parte dedicata alle misure cautelari reali. Anche qui massima è l’attenzione alla giurisprudenza, tanto che, con riferimento ai presupposti del sequestro preventivo impeditivo, si dà atto di come, nella giurisprudenza più recente, si stia affermando un orientamento che non si accontenta dell’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, ma richiede un giudizio prognostico in merito alla probabile condanna dell’imputato.
Seguono i capitoli sulle impugnazioni, sull’azione civile, sull’esecuzione e sui rapporti giurisdizionali con autorità straniere
Fondamentale la trattazione sulle impugnazioni, che si apre con una nota critica, rilevando come il codice di procedura del 1988 abbia dedicato scarsa attenzione al tema, una mancanza questa che è continuata negli anni, come se i legislatori non abbiano percepito la decisività ed importanza delle impugnazioni, la cui disciplina tocca questioni cruciali, anche “dal punto di vista politico delle scelte legislative”.
Ritorna il giudizio critico sulla costruzione di un sistema in cui il primo grado si svolge attraverso un procedimento tendenzialmente accusatorio, in cui le prove si formano davanti al giudice, ad opera delle parti, mentre l’appello rimane un giudizio di regola scritto, in cui il convincimento del giudice non si forma nell’immediatezza del contraddittorio orale.
La riforma Cartabia ha lasciato pressoché immutata la struttura del giudizio di appello, intervenendo però sull’inammissibilità e, soprattutto, introducendo il nuovo istituto dell’improcedibilità che mira a garantire la ragionevole durata del processo. Istituto quest’ultimo rispetto al quale Nappi non appare critico, riconoscendo come, attraverso il sistema delle proroghe, si sia raggiunto un equilibrio che ha una sua coerenza, anche in rapporto con la prescrizione che invece governa i tempi del procedimento di primo grado.
Invero, il giudizio di appello avrebbe meritato interventi di maggior respiro, soprattutto coerenti con le caratteristiche accusatorie del processo di primo grado. In più occasioni è stata avanzata la proposta di trasformare l’appello in una impugnazione solo rescindente, attribuendo la fase rescissoria al giudice di primo grado o, secondo altri, ad un diverso collegio della stessa corte di appello (F. Cordero). Si è detto che questa soluzione presenta forti controindicazioni in ordine alla sua compatibilità con la ragionevole durata del processo, tuttavia si è osservato che le corti di appello sarebbero comunque liberate dall’impegno, gravoso, di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e, inoltre, l’appello rescindente avrebbe l’effetto di condurre ad un duplice giudizio di fatto, con un doppio accertamento di responsabilità che potrebbe avere l’effetto di “indurre i pubblici ministeri ad esercitare l’azione penale soltanto sulla base di prove consistenti (…) e tali da poter essere confermate nel vaglio dibattimentale”, conseguendo così l’effetto di una riduzione del numero dei processi instaurati (E. Lupo). Peraltro, in considerazione del controllo selettivo esercitato dal giudice di secondo grado vi sarebbero effetti deflattivi sul giudizio di cassazione, con un recupero della vocazione nomofilattica.
Le pagine sul controllo della motivazione in Cassazione ricostruiscono in maniera approfondita e critica il percorso della giurisprudenza e gli interventi del legislatore, con il consueto apparato di note che richiama, puntualmente, anche la dottrina. Le novità apportate dalla riforma c.d. Cartabia alla disciplina del procedimento davanti alla Corte di cassazione, con la valorizzazione del procedimento “cartolare” risultano positivamente valutate. Del resto, la prevalenza del modulo con contraddittorio scritto – oggi superabile dalla semplice richiesta di trattazione orale delle parti - rappresenta, da sempre, il modello “generale” di trattazione dei ricorsi in cassazione e trova una giustificazione nella necessità di avere a disposizione uno strumento processuale agile e capace di incidere efficacemente sull’enorme contenzioso da cui è assediata la Corte (in media, oltre 50.000 ricorsi ogni anno). È stato sottolineato come tale modello procedimentale realizzi una opportuna mediazione tra l’esigenza della massima semplificazione, i caratteri del controllo della Corte di cassazione e l’attuazione del contraddittorio.
E’ infatti il numero abnorme di ricorsi trattati dalla Corte di cassazione che mette a rischio la funzione nomofilattica di questo giudice, che finisce per dedicarsi in prevalenza allo ius litigatoris: di questo Nappi è perfettamente consapevole quando, riconoscendo che la Corte di cassazione assomma due modelli diversi di giudice, afferma che le diverse prospettive dello ius litigatoris e dello ius constitutionis dovrebbero giustificare non metodi diversi di interpretazione, ma semmai “assetti normativi radicalmente diversi sia per la disciplina del processo sia per l’ordinamento giudiziario”, in quanto “è la selezione dei ricorsi in ragione dell’importanza generale delle questioni, anziché degli interessi delle parti, a caratterizzare davvero i modelli a corte suprema, permettendo di limitare sia i carichi di lavoro sia gli organici delle Corti, che possono così esprimersi in un discorso giurisprudenziale unitario, coerente ed efficientemente comunicabile”, per concludere che “non vi può essere un’effettiva funzione nomofilattica senza una selezione dei ricorsi sui quali la corte intende pronunciarsi con piena cognizione”. In poche battute Nappi sintetizza la crisi della Corte di cassazione incapace davvero di avere quella che lui chiama vocazione comunicativa, funzionale cioè a svolgere la funzione di nomofilachia che le assegna l’art. 65 ord. giud.: “solo una corte suprema che riesca ad esprimersi con una giurisprudenza univoca potrà porsi come interlocutrice effettiva della dottrina piuttosto che come riserva di occasionali precedenti utilizzabili a sostegno delle diverse opinioni contrapposte”.
L’attuale crisi che attraversa la Corte di cassazione potrà essere superata quando il rapporto tra i due volti di questo giudice acquisterà un equilibrio sostenibile ed è la sfida che impegnerà la Cassazione del prossimo futuro.
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