ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il delitto di peculato e le più recenti modifiche normative - 2. Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato - 3. Il c.d. “peculato per distrazione in danno” e le condotte di “distrazione a profitto” della Pubblica Amministrazione - 4. Una declinazione speciale del peculato con riferimento alla figura del notaio: il peculato mediante ritenzione di somme depositate dal privato - 5. Conclusioni.
1. Il delitto di peculato e le più recenti modifiche normative
L’attuale formulazione dell’art. 314 c.p., frutto di recenti modifiche, sanziona rispettivamente il c.d. peculato comune ed il peculato d’uso, prevedendo limiti edittali di pena assolutamente significativi (da tre anni di reclusione nel minimo a dieci anni e sei mesi nel massimo) al primo comma, e da sei mesi a tre anni per il peculato d’uso. Altra norma, l’art. 316 c.p., specificamente sanziona il c.d. peculato mediante profitto dell’errore altrui, punito anch’esso con la pena della reclusione, da sei mesi a tre anni, aggravata ove il fatto offenda gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto siano superiori a euro 100.000.
L’ordinamento, quindi, prevede e sanziona con pene edittali diversificate, univoco segno della diversa gravità dei fatti, tre ipotesi di peculato. Sistematicamente, le fattispecie sono tutte collocate nel TITOLO II “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” e, in particolare, nel capo I “Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, tanto che soggetto attivo può indifferentemente essere, tanto per il peculato comune che per quello d’uso, che, infine, per il peculato mediante profitto dell’errore altrui, sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio.
Le modifiche che hanno interessato l’art. 314 c.p. sono state sostanzialmente tre:
In sintesi, uno “strumentario” complesso che ha rafforzato tanto gli istituti sanzionatori (limiti edittali di pena, confisca) quanto i corrispondenti strumenti di indagine e tutela preventiva (in relazione all’esperibilità di indagini tecniche ed alla adozione di sequestri ingenti). La ratio di tale crescente tutela è indubbiamente costituita dalla insidiosità delle condotte dei reati contro la pubblica amministrazione e, quanto al peculato, dal particolare sfavore con cui l’ordinamento guarda alle condotte di soggetti che rivestano una posizione di rilevo pubblicistico e della stessa profittino per commettere fatti di appropriazione di beni mobili e di denaro dei quali abbiano la disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio.
Proprio per l’estrema gravità dei fatti sussumibili nell’alveo della fattispecie, occorre attentamente valutare quale sia oggi il perimetro del peculato comune ed il suo rapporto sia con l’art. 323 c.p. che con la fattispecie di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. (delitto oggi sempre punibile solo a querela di parte), anche, e soprattutto, considerando quale sia il bene giuridico protetto dalla norma di cui all’art. 314 c.p.
2. Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato
La collocazione sistematica della fattispecie di peculato depone certamente per la individuazione del bene giuridico da essa tutelato nei superiori interessi, di rango costituzionale, al buon andamento ed alla imparzialità dell’amministrazione: anzi, pare ragionevole ritenere che per la connotazione specifica del delitto in esame, il bene tutelato sia precipuamente quello del buon andamento, cui va ricondotto l’interesse della pubblica amministrazione alla migliore destinazione delle risorse delle quali la stessa disponga ovvero, con specifico riferimento a beni di proprietà di soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, a che la disponibilità di un bene mobile venga impiegata ( e pertanto non distolta) al fine di soddisfare gli interessi di rilievo o interesse pubblicistico alla cui tutela quella disponibilità è funzionale. Si pensi ai patrimoni amministrati dai tutori, dai custodi, dai notai incaricati delle vendite.
Tuttavia, parimenti offesa da condotte di peculato è altresì l’imparzialità, che risulta pregiudicata da condotte che il pubblico ufficiale o l’esercente un pubblico servizio possono compiere solo in ragione della disponibilità materiale di una cosa che viene loro concessa in relazione alla posizione di rilievo pubblicistica rivestita. Si sanzionano, quindi, tutte le condotte attraverso le quali il soggetto attivo del reato assume una posizione per la quale “prevarica” le altrui ragioni, alla cui tutela è funzionale il potere sulla cosa.
Alla offesa di tali beni – interessi di rango costituzionale, si aggiunge la declinazione patrimoniale della fattispecie, del tutto affine a quella del delitto di cui all’art. 646 c.p..
Sicché, volendo individuare l’offensività del delitto di peculato, la giurisprudenza costante ne ritiene la natura plurima: in questa direzione, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8009 del 10/06/1993 Ud. (dep. 24/08/1993) Rv. 194920 – 01 così massimata “Il reato di peculato ha natura plurioffensiva. Esso, infatti, tutela non solo la legalità, efficienza, probità ed imparzialità dell'attività della pubblica amministrazione, ma altresì il patrimonio della stessa pubblica amministrazione o di terzi.”; eanalogamente, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 29262 del 17/05/2018 Ud. (dep. 26/06/2018) Rv. 273445 – 01, che si sofferma sulle conseguenze dell’eventuale mancanza di un danno patrimoniale e per la quale “La natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell'agente l'altro interesse protetto dalla norma, diverso da quello patrimoniale, cioè quello del buon andamento della pubblica amministrazione. (In applicazione di tale principio di diritto, la Corte ha ritenuto infondato il motivo con cui il ricorrente, condannato per il reato di cui all'art. 314 cod. pen. per essersi appropriato, quale amministratore di sostegno, del denaro destinato all'acquisto di una cappella cimiteriale per conto dell'amministrato, aveva dedotto l'assenza di qualunque danno conseguente alla propria condotta avendo lo stesso successivamente provveduto ad effettuare il pagamento dell'importo dovuto).
Premessa la natura plurioffensiva del reato, la conseguenza che se ne fa discendere è che il delitto di peculato risulta configurabile anche quando in concreto via sia stata lesione di uno solo dei ben interessi tutelati: l’affermazione, come visto, viene ribadita dalla giurisprudenza soprattutto allorquando nel fatto manchi una effettiva lesione dell’interesse patrimoniale, probabilmente in ragione della circostanza che, come si accennava sopra, proprio tale dimensione risulta essere quella che più caratterizza la fattispecie rispetto ad altre ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione (si veda, tra le molte, Cass. SS.UU., sent. n. 19054 del 20/12/2012 - dep. 2/05/2013- Rv. 255296). Nonostante questa conclusione (solo) apparentemente svilisca la prevalente dimensione patrimoniale del peculato, pare lecito osservare che se anche non sia di immediata percezione il danno patrimoniale conseguente a fatti di peculato, ovvero lo stesso venga poi eliso da condotte riparatorie, ciononostante il reato sussiste per la valenza e rilevanza anche di un danno potenziale o indiretto per l’amministrazione (anche legato alla circostanza che il bene venga distolto dalla destinazione prevista per esso), sicché deve comunque ribadirsi la connotazione patrimoniale del reato, intrinsecamente legata alla costruzione della fattispecie.
Proprio la valorizzazione della dimensione prevalentemente patrimoniale del peculato, quale emerge dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, impone all’interprete una seria verifica della attuale punibilità delle condotte di peculato c.d. “per distrazione”.
3. Il c.d. “peculato per distrazione in danno” e le condotte di “distrazione a profitto” della Pubblica Amministrazione
Come detto, la legge n. 86 del 1990 ha eccettuato dalla descrizione delle condotte di peculato la distrazione “a profitto proprio o di altri”. Espungendo la relativa previsione dal corpo dell’art. 314 c.p., il legislatore avrebbe quindi espunto dall’ambito applicativo della fattispecie di peculato quelle ipotesi di appropriazione per distrazione già incluse nella originaria formulazione, senza peraltro necessariamente prevederne una conseguente irrilevanza penale. Può trarsi una conferma di tale assunto nella pronuncia della Corte Costituzionale in tema di peculato militare (sentenza C. Cost. 4-13/12/1991 n. 448), che già all’epoca aveva tratteggiato i percorsi interpretativi che debbono anche oggi guidare l’operatore nell’applicazione delle fattispecie penali di peculato con particolare riferimento ai fatti di peculato per distrazione.
In quella pronuncia, la Corte precisava che “…l'abolizione della figura del peculato per distrazione non ha affatto significato decriminalizzazione di tutte le condotte che nella stessa venivano ricomprese, dato che molte di esse - come emerge dai lavori preparatori della legge n. 86 del 1990 ed è stato rilevato dalla dottrina - rientrano oggi nella nuova e più ampia figura del delitto di abuso d'ufficio introdotta con l'art. 13 di detta legge, che ha sostituito l'art. 323 del codice penale. È noto, infatti, - a prescindere da più sottili precisazioni, che non interessano in questa sede - che sull'individuazione della "distrazione" penalmente rilevante coesistevano due opzioni interpretative: ritenendosi, talora, che vi rientrasse anche la illegittima destinazione della cosa per finalità bensì proprie della pubblica amministrazione ma non corrispondenti a quelle imposte dalla disciplina amministrativa; talaltra, che vi fossero ricompresi solo i casi di destinazione indebita di risorse pubbliche al di fuori dei fini istituzionali dell'ente. In questa seconda ipotesi la "distrazione", in quanto comporta un'illecita utilizzazione dei poteri di ufficio (e quindi un "abuso") e mira a procurare all'agente o a terzi un vantaggio (o un danno) qualificabile come "ingiusto", integra - secondo la più accreditata dottrina - il delitto configurato nel nuovo testo dell'art. 323 cod. pen.: sicché è solo con riguardo alla prima ipotesi, di destinazione interna alle finalità istituzionali dell'ente, che l'abolitio criminis può dirsi verificata. Sotto altro profilo, poi, i fatti di uso momentaneo della cosa appartenente alla pubblica amministrazione, seguìto dalla sua immediata restituzione, che talora venivano qualificati come "distrazione" pur se implicanti una temporanea appropriazione, non hanno perduto rilevanza penale, dato che rientrano nell'ipotesi attenuata di peculato prevista nel secondo comma del novellato art. 314 cod. pen.”
Ne deriva che il peculato per distrazione resterebbe fuori, senza limiti secondo un primo approccio, dall’ambito dell’art. 314 c.p., ma conserverebbe rilievo penale, ove ne ricorrano gli attuali stringenti presupposti previsti dalla legge, quale fatto di abuso di ufficio, sempreché, quindi, la norma violata abbia rango primario e l’atto compiuto non costituisca espressione di discrezionalità. Quanto al peculato d’uso, dice la Corte, lo stesso ammetterebbe anche la condotta distrattiva.
Tuttavia, due osservazioni sembrano ragionevolmente fondate. La prima è che la condotta del peculato d’uso non può che essere mutuata dalle condotte del peculato comune, attesa la reciprocità della definizione concettuale dei fatti di cui al comma secondo dell’art. 314 c.p. rispetto a quelli del comma primo, laddove il peculato d’uso in effetti integra sempre una momentanea distrazione della cosa dall’uso cui è destinata.
La seconda osservazione è che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha valutato come fatti di peculato anche le condotte di “distrazione” (intesa come “deviazione”) del bene mobile dalla finalità pubblicistica o di rilievo pubblicistico se connotate da particolare gravità, in ragione della destinazione di quei beni ad interessi del tutto privati dell’agente qualificato, ovvero - e qui il tema offre spunti di interesse interpretativo - allorquando la destinazione impressa al bene sia diversa da quella stabilita ex ante e trovi fondamento in una causa illecita o illegittima, o, infine, nelle ipotesi in cui si assegni al bene una destinazione non consentita da norme di legge e/o di statuto e connotata da alea (cfr. quanto all’ipotesi di investimento in fondi Cass. Sez. 6 4-13 giugno 2014, sent. n. 25258 Rv. 260070-01 la cui motivazione espressamente recita : “Va, dunque, riaffermato il principio secondo il quale nel delitto di peculato il concetto di "appropriazione" comprende anche la condotta di "distrazione", in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene: principio già enunciato con riferimento ad una fattispecie in cui questa Corte ha riqualificato come peculato la condotta di pubblici amministratori che, invece di investire le risorse di cui avevano la disponibilità per le finalità pubbliche istituzionalmente previste, le avevano impiegate per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi (così Sez. 6, n. 1247/14 del 17/07/2013, P.G., P.C., Boi e altri, Rv. 258411).”.
Nella sua composizione a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione con la sentenza Vattani (sentenza n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, Rv. 255296) ha chiaramente affermato che l'eliminazione della parola "distrazione" dal testo dell'art. 314 cod. pen., operata dalla legge n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall'agente pubblico nell'area di rilevanza penale dell'abuso d'ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato.
La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d'ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell'agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a.: in particolare, la Corte chiarisce che il discrimine tra peculato per distrazione e abuso di ufficio risiede nella circostanza che si riscontri o meno, nel fatto concreto, una totale cesura del legame funzionale tra il bene e la pubblica amministrazione conseguente alla distrazione del bene dalla sua originaria destinazione.
Sempre la citata sentenza Vattani ha, altresì, chiarito che l’eliminazione della condotta di distrazione ad opera della novella del 1990 dalla norma penale incriminatrice non solo non ha prodotto un effetto generalmente abrogativo del disvalore penale di tali condotte, ma neppure ha espunto dall’alveo del peculato tutte le condotte di distrazione, deponendo a favore di tale conclusione anche un argomento testuale: basi pensare che benché la corrispondente fattispecie comune (ovvero quella di appropriazione indebita), non abbia mai incluso nominativamente le condotte di distrazione, le stesse sono pacificamente ricondotte all’alveo della norma penale incriminatrice ex art. 646 c.p. In particolare, la costante giurisprudenza in tema di appropriazione indebita descrive tale species della condotta di appropriazione quale deviazione della cosa dalla sua destinazione o nel divergere dall’uso legittimo (cfr. sul punto, a partire dalla sentenza Cass, SS.UU n. 9863 del 1989, plurime pronunce a sezioni semplici, fra le quali, tutte della Seconda Sezione della Corte, la Sentenza n. 50672 del 24/10/2017 Rv. 271385, la Sentenza n. 56935 del 31/10/2018 Ud. Rv. 274257 e la Sentenza n. 43634 del 23/09/2021 Rv. 282351).
Tanto premesso, al fine di consentire una adeguata valutazione del fatto ed una efficiente riconduzione dello stesso alla fattispecie incriminatrice astratta, l’interprete può avvalersi della distinzione elaborata dalla Corte di legittimità tra due momenti o passaggi successivi propri del peculato: il primo, negativo (c.d. "espropriazione"), di indebita alterazione dell'originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. "impropriazione"), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.
Ed allora, le condotte di “distrazione” (generalmente significative solo della “diversa direzione” o “destinazione” impressa alla res) potrebbero non limitarsi ad integrare il momento di “espropriazione” se riguardate con riferimento all’originaria destinazione del bene, ma, a determinate condizioni, realizzare in concreto una disposizione della cosa uti dominus per interessi del tutto riconducibili ad una sfera meramente privata dell’agente (o di terzi a lui assimilabili o particolarmente vicini), o addirittura illeciti o aleatori, così verificandosi quella distrazione-impropriazione certamente riconducibile all’ambito sanzionatorio della fattispecie di cui all’art. 314 c.p. In sostanza, integra peculato la condotta appropriativa non solo se rivolta ad esclusivo vantaggio dell’agente ma anche se per la natura e per la causa (eventualmente illecita) della stessa, la distanza tra la destinazione consentita e quella realmente perseguita sia percepibile come estrinsecazione di un potere assoluto sulla cosa che l’agente, che ne dispone per ragioni dell’ufficio e del servizio, mai può avere e che darebbe luogo a quella impropriazione tipica del peculato.
L’esempio concreto potrebbe essere quello dell’utilizzo, da parte del funzionario preposto, di fondi pubblici destinati ad una determinata opera per opera diversa: si pensi al caso in cui la deviazione avvenga per scopi e fini del tutto privati (bonifica di un’area pubblica attigua ad altra di proprietà del funzionario) o addirittura illeciti (quale, ad esempio, quello di favorire un’impresa compiacente). In tali casi la distrazione dei relativi fondi, secondo l’orientamento inaugurato dalla sentenza Vattani, resterebbe quindi riconducibile alla fattispecie di peculato.
A ben riflettere, peraltro, in queste ipotesi, la dimensione patrimoniale tipica del peculato è apprezzabile in due direzioni: la direzione pubblica (in ipotesi non accrescitiva), e quella privata (generalmente accrescitiva, sempre estrinsecazione di un potere sulla cosa non compatibile con la sua destinazione), posto che l’impropriazione produce un effetto patrimoniale (o suscettibile di valutazione economica) anche per il soggetto attivo del reato.
Si comprende, poi, correttamente valutando la dimensione patrimoniale del peculato, come sia astrattamente possibile formulare un addebito di responsabilità nei confronti del pubblico ufficiale o dell’esercente un pubblico servizio che, ad esempio, investa in fondi speculativi provviste economiche dell’ente pubblico (posto l’elevato rischio correlato all’alea tipica di tali forme di investimento) anche nel caso in cui questi prevedesse, ad esempio, di riversare eventuali guadagni all’ente medesimo (laddove il potenziale danno patrimoniale è legato al rischio di perdite ingenti), come anche del pubblico ufficiale che dichiari un prezzo di acquisto di un immobile inferiore al reale al solo fine di diminuire il carico delle conseguenti imposte (dichiarazione intrinsecamente contraria ad una norma imperativa che impone di dichiarare l’effettivo costo sostenuto ed espone l’ente alle conseguenti sanzioni).
In altra e più recente pronuncia (Cass., Sez. 6, sentenza n. 43133 del 13/07/2017, Rv. 271379) si afferma testualmente che “…, è vero che è ravvisabile un limite alla configurabilità del delitto di peculato nelle ipotesi di distrazione, con conseguente possibile applicazione della disposizione incriminatrice dell'abuso di ufficio, quando il pubblico agente destini il denaro o la cosa mobile nella sua disponibilità a finalità diverse da quelle istituzionali, ma senza che l'uno o l’altra abbandonino radicalmente il loro rapporto con gli interessi della Pubblica Amministrazione”. Ed allora, dobbiamo concludere che il danno patrimoniale che il peculato intende sanzionare è quello legato alla circostanza che il bene venga radicalmente distolto dalla originaria destinazione al perseguimento della finalità pubblicistica predeterminata o ad essa equivalente, laddove in ipotesi di causa illecita la radicalità sarebbe apprezzabile in re ipsa, posto che il soggetto attivo del delitto (pubblico ufficiale o esercente pubblico servizio), mai potrebbe invocare, per evitare di incorrere in responsabilità penale, un interesse equivalente che avesse un fondamento illecito o comunque antigiuridico.
Viceversa, la scelta di una finalità diversa da quella predeterminata ma pur sempre di interesse pubblico che sia al contempo una scelta disinteressata (rectius non privatistica o comunque conforme o non del tutto eccentrica rispetto all’interesse dell’ente) e non connotata da profili di illiceità o di alea resterebbe o riconducibile all’ipotesi di abuso di ufficio (nei soli casi di “distrazione” a favore della Pubblica Amministrazione commesse dal soggetto attivo qualificato in violazione di norme primarie e nell’esercizio di poteri non discrezionali), oppure, in via di ulteriore approssimazione, a quella di appropriazione indebita e, infine, in altri casi, penalmente irrilevante (residuando solo profili di responsabilità contabile o disciplinare).
Riepilogando i risultati di questa riflessione, si osserva che residuerebbe quindi come ambito estraneo a quello del peculato non l’intera casistica delle ipotesi di peculato per distrazione bensì solo la categoria di appropriazione del bene per “distrazione mera” (una sorta di “sviamento mero”), ipotesi nelle quali la destinazione impressa al bene sia diversa da quella imposta ex ante dall’amministrazione attraverso atti legislativi e/o amministrativi, ma risulti comunque in concreto perseguita una finalità pubblicistica d’interesse (equivalente) per l’ente medesimo (cfr. in questo senso Cass. Sez. 6, 13.04.2023 dep. 9 giugno 2023 n. 25173 Rv. 284790 – 01 così massimata “Non integra il delitto di peculato l'utilizzo di fondi di una società "in house", interamente partecipata da un comune, che provveda al perseguimento di finalità intrinsecamente pubbliche e di competenza dell'ente medesimo, in quanto difetta in tal caso alcuna forma di appropriazione, ovvero di distrazione del denaro pubblico per fini privatistici, ancorché possano ipotizzarsi irregolarità rilevanti sotto il profilo della responsabilità contabile. (Fattispecie in cui la società si faceva carico dell'indennizzo dovuto dal comune per la revoca di una concessione, al fine di recuperare un'area da destinare a riqualificazione urbana).
Ancora più esplicita la motivazione della citata sentenza: “…La tesi non è condivisibile in punto di diritto. Invero, la giurisprudenza più recente ha avuto modo di precisare che il peculato per "distrazione" presuppone in ogni caso che il denaro sia destinato a scopi incompatibili con il perseguimento di finalità di interesse pubblico. Si è affermato, infatti, che solo l'utilizzo per finalità esclusivamente personali ed estranee a quelle istituzionali di denaro pubblico determina la "distrazione" dello stesso, mentre il peculato non è ravvisabile nei casi in cui l'interesse privato dell'agente e quello istituzionale dell'ente siano sincroni e sovrapponibili, non risultando in alcun modo contrastanti (Sez.6, n. 36496 del 30/9/2020, Vasta, Rv. 280295).”.
Conclusivamente, si osserva che il dato giurisprudenziale sopra riportato e l’interpretazione prevalente offrono spunti di certa conferma quanto alla natura plurioffensiva del delitto di peculato: indubbiamente la fattispecie incriminatrice presidia l’interesse al buon andamento ed alla imparzialità della PA, risultando comunque prevalente la dimensione patrimoniale dell’offesa. Proprio con riferimento alle condotte distrattive, si ritiene che solo la distrazione in danno della pubblica amministrazione integri un fatto di peculato, confermando che la lesione del patrimonio (dell’ente pubblico o del privato secondo la attuale previsione testuale) sia in realtà un presupposto indefettibile del rilievo delle condotte di peculato per distrazione non mera e che tale danno sia inevitabile in tutti i casi in cui la causa della distrazione fondi su ragioni illecite.
4. Una declinazione speciale del peculato con riferimento alla figura del notaio: il peculato mediante ritenzione di somme depositate dal privato
La circostanza che, in uno alla riformulazione della fattispecie di peculato come fattispecie configurabile anche nel caso in cui l’oggetto della condotta appropriativa sia di appartenenza di privati, sia stata abrogata la fattispecie di malversazione in danno di privato (art. 315 c.p.), non osta alla configurabilità del peculato per tutti i casi in cui il notaio, prescelto quale depositario fiduciario di somme di proprietà di privati ma vincolate al pagamento di imposte, se ne appropri con ciò distraendole dallo scopo per le quali sono state presso di lui depositate.
Come sopra evidenziato, la nuova formulazione della norma di cui all’art. 314 c.p. compie ampio riferimento all’altruità della cosa, senza specificare se la stessa debba essere pubblica o privata, sicché pacificamente si ritiene che l’attuale formulazione del peculato includa le condotte precedentemente sussumibili nella malversazione a danno di privati[1].
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, risulta configurabile il peculato mediante ritenzione allorché il notaio, delegato dal giudice a curare le operazioni di vendita nell'ambito di procedure di esecuzione immobiliare, non adempia alle prescrizioni di cui all'art. 591 bis, 7° co., c.p.c. e si appropri delle somme corrisposte dagli aggiudicatari delle vendite, versando i relativi importi su conti correnti personali ed investendoli in operazioni speculative di borsa (Cass., Sez. VI, 10.7-30.7.2007, sent. n. 30976, Rv. 237419-01). Parimenti è stato affermato che incorre in responsabilità per violazione dell’art. 314 c.p. il notaio che ometta il versamento di somme, affidategli da clienti, destinate al pagamento dell'imposta di registro in relazione ad atti rogati (Cass. Sez. VI, 11.3-14.5.2015, sent. n. 20132 Rv. 263547; Cass. Sez. V, 16.10-11.12.2009, sent. n. 47178, Rv. 245383).
Così descritto, il peculato per ritenzione costituisce, senza dubbio, una forma di peculato per distrazione non mera secondo l’indirizzo interpretativo sopra richiamato.
A fronte di tale orientamento consolidato in tema di deposito finalizzato al soddisfacimento di pretese erariali (ovvero in tema di deposito disposto dal giudice), ci si interroga se sia lecito imputare di peculato il notaio che si appropri di somme depositate presso di lui ma non destinate al pagamento di tributi o altri crediti dello Stato, piuttosto a lui “affidate” affinché garantisca che non vengano destinati a scopi diversi da quelli concordati tra parti contrattuali, e delle quali invece, contrariamente al dovuto, disponga anche in proprio favore o in favore di terzi, in ipotesi anche per causa illecita. Si pensi al caso del deposito presso il notaio, con le forme contrattuali più opportune, di somme vincolate al compimento di determinati affari, o di complesse transazioni commerciali, seguite poi da atti dispositivi del notaio completamente eccentrici rispetto alla volontà del depositante, ovvero avvenuti in frode al medesimo.
Vero è che ogni fatto di peculato deve comunque trovare fondamento nella rilevanza pubblicistica della destinazione della cosa, anche quando essa non sia pubblica quanto alla spettanza del diritto di proprietà (come ad esempio nel caso del tutore che si appropri di beni dell’amministrato dei quali ha la disponibilità in ragione dell’incarico svolto a tutela dell’interesse pubblico alla corretta gestione del patrimonio di persona incapace o non del tutto capace di determinarsi nella propria sfera privata).
Pertanto, non ogni deposito notarile potrebbe generare responsabilità per peculato del notaio: piuttosto tale più grave reato, procedibile ex officio a differenza della diversa ipotesi di reato comune comunque astrattamente configurabile (ovvero quello della appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 c.p.), potrebbe avere una propria area di applicazione ove il trasferimento della disponibilità della somma in capo al notaio non risulti meramente accidentale, bensì trovi la propria prevalente causa nell’affidamento da parte del privato proprio nella qualifica notarile.
Spunto in tale senso può trarsi dalla giurisprudenza della corte di legittimità in materia di malversazione in danno di privati e, in particolare, dalla sentenza Sez. 6, Sentenza n. 6087 del 06/12/1994 Ud. (dep. 25/05/1994) Rv. 199183 così massimata: “non può essere sufficiente a configurare il reato di malversazione (o di peculato) l'appropriazione di denaro privato detenuto da notaio, per mera occasionalità, ma occorre ricercare un collegamento fra funzione pubblica e possesso del denaro o della cosa, talché possa dirsi non solo che l'esercizio della funzione ha rappresentato la contingenza che favorisce l'insorgere del possesso, ma che il possesso stesso non sarebbe mai stato trasferito al notaio senza il contemporaneo affidamento fiduciario riposto dal privato nella qualifica notarile, cui contestualmente andava ad affidare la cura dei suoi interessi. (La S.C. ha rigettato il ricorso di un notaio, condannato per malversazione per essersi appropriato di parte di somma richiesta per il pagamento di imposte dovute in relazione ad atti di donazione, il quale aveva dedotto che l'appropriazione qualificata del pubblico ufficiale doveva essere punita solo ed esclusivamente negli atti tipici della sua funzione).”
Seguendo il percorso indicato dalla Corte, pare possa quindi ragionevolmente affermarsi che ove il notaio che abbia disponibilità di somme presso di lui depositate dal privato in ragione di un rapporto fiduciario fondato proprio sulla funzione pubblicistica che il medesimo riveste, le distragga dallo scopo impresso dal privato medesimo nell’esercizio della propria libertà negoziale, utilizzandole a fini eventualmente illeciti e di profitto assolutamente personale (movimentazione per favorire illegittimamente una controparte contrattuale, utilizzo della provvista per investimenti azionari o in fondi per ottenere rendimenti) possa incorrere nella sanzione prevista dalla legge penale in tema di peculato per distrazione non mera, applicandosi nel caso di specie tutti i canoni ermeneutici sopra richiamati.
5. Conclusioni
Il delitto di peculato costituisce, oggi, con l’innalzamento dei limiti edittali di pena previsti da quattro anni di reclusione, nel minimo, fino a dieci anni e sei mesi nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., un reato decisamente grave, procedibile ex officio, che ammette il sequestro e la confisca per equivalente e consente, in fase di indagini, l’utilizzo di ogni più ampio strumento di ricerca della prova.
La ratio del particolare disvalore della condotta di peculato risiede nella necessità di tutelare imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione soprattutto nella loro dimensione prettamente patrimoniale: lesive della imparzialità e del buon andamento sono, infatti, tutte quelle condotte che privano la pubblica amministrazione di una risorsa, sia essa di appartenenza pubblica o, se anche privata, comunque gestita da soggetto qualificato per consentire la tutela di interessi pubblicistici (amministrazione di patrimoni per altri). Espungere dall’ambito operativo dell’art. 314 c.p. le condotte di distrazione, attraverso le quali tipicamente la destinazione del bene sia mutata a piacimento dell’agente con danno anche solo potenziale per la Pubblica Amministrazione, significherebbe privare di effettiva tutela penale un ampio numero di comportamenti certamente meritevoli di sanzione in quella sede, anche se realizzati con condotte apparentemente meno plateali rispetto alle condotte appropriative in senso stretto, senz’altro più “subdole”, la cui tutela non può essere rimessa all’applicazione di una fattispecie certamente meno “significativa” quale quella dell’abuso di ufficio.
Confinare, poi, la responsabilità per fatti di distrazione commessi da soggetti preposti, ex lege o sulla base di una relazione negoziale correlata ad un affidamento fiduciario (riconosciuto dai privati in virtù di obblighi imposti a determinati soggetti dalla legge, come nel caso del notaio), all’ambito della residuale fattispecie di appropriazione indebita, creerebbe una disparità di trattamento non ragionevole sia rispetto alla posizione di altri soggetti qualificati (curatore fallimentare, amministratore di sostegno) sia rispetto alle condotte tenute dai notai in ipotesi di trattenimento di somme destinate al pagamento delle imposte e pacificamente ritenute come rilevanti in termini di peculato.
[1] In linea generale, circa l'assorbimento sotto l'art. 314 delle condotte fino al 1990 integranti il delitto punito dall'art. 315 c.p. cfr. C., Sez. VI, 7.3-5.10.2012, n. 39359 Rv. 254337, la cui motivazione espressamente afferma “… con la riforma del 1990, il delitto di malversazione a danno di privati è stato assorbito nel delitto di peculato. Secondo il nuovo testo di quest'ultima fattispecie, infatti, il requisito dell'altruità del denaro o della cosa mobile, oggetto di appropriazione, rende irrilevante la distinzione dell'appartenenza pubblica o privata del bene.”
Gli incerti confini della discrezionalità del legislatore nazionale in materia di incentivi alle rinnovabili: dubbio di compatibilità tra il meccanismo “a due vie” e il diritto europeo (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, ordinanza 30 gennaio 2024, n. 926).
di Maria Francesca Tropea
Sommario: 1. Il caso di specie – 2. Le modalità di accesso agli incentivi nel settore dell’energia rinnovabile ai sensi del D.M. 4 luglio 2019. – 3. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. – 4. Le motivazioni del dubbio di compatibilità tra diritto interno ed europeo – 5. Osservazioni conclusive anche alla luce del principio di neutralità tecnologica e della giurisprudenza della CGUE (sentenza n. 306/2022).
1. Il caso di specie.
L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 30 gennaio 2024, n. 926[1] risulta di particolare interesse in quanto ha determinato il rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, alla Corte di Giustizia dell’Unione europea per un dubbio di compatibilità tra la normativa interna in materia di incentivi delle rinnovabili[2] e la normativa eurounitaria di promozione dello sviluppo delle medesime fonti energetiche.
La pronuncia in commento trae origine dall’impugnazione – ad opera di una società titolare di un impianto fotovoltaico – del provvedimento amministrativo di ammissione alle tariffe incentivanti di cui al decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 4 luglio 2019[3] e del contratto stipulato con il Gestore dei Servizi Energetici (G.S.E.)[4] per il riconoscimento degli incentivi nella parte in cui si prevede che «nel caso in cui il valore dell’incentivo, ottenuto come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario, risulti negativo, il G. provvederà a chiedere al soggetto responsabile la restituzione di tale differenza»[5].
La società appellante sostiene che tale meccanismo non garantisca l’equa remunerazione dei costi; violi i principi europei di concorrenza sostanziandosi nell’imposizione di un ricavo; contrasti con l’obiettivo di garantire condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti per le imprese che investono in energia rinnovabile; leda il diritto di proprietà e il legittimo affidamento essendo la corresponsione dell’incentivo per la durata di 20 anni un credito idoneo ad essere considerato un “bene” tutelabile ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU[6].
Il T.A.R. del Lazio, con sentenza n. 3010/2023[7], ha respinto il ricorso in primo grado, ritenendo la previsione de qua non irragionevole, poiché metterebbe comunque al riparo dall’aleatorietà del prezzo di mercato l’imprenditore garantendogli un importo fisso tramite cui recuperare quanto investito nell’impianto e riconoscendogli, a fronte di tale vantaggio, un “ristorno” al Gestore dei Servizi Energetici quando il prezzo dell’energia aumenta.
La società ha appellato la pronuncia di primo grado sostenendo che il T.A.R. non avesse considerato che, in ipotesi di aumento del prezzo dell’energia, il meccanismo comporta invero l’azzeramento dell’incentivo, precludendo così la remunerazione dei costi di investimento e di esercizio e contrastando così con la ratio sottesa ai regimi di sostegno nazionali e con gli obiettivi europei in tema di energia rinnovabile, volti a garantire condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti per gli investitori, che non vadano a minare la sostenibilità economica dell’investimento, nel rispetto dei principi di legittimo affidamento e di certezza del diritto.
Il Consiglio di Stato, dubitando dell’esistenza di un conflitto tra la normativa interna e quella eurounitaria, ha effettuato un rinvio pregiudiziale di interpretazione ai sensi dell’art. 267 TFUE.
In particolare, la disposizione del diritto nazionale rilevante nel caso di specie, della cui contrarietà al diritto dell’Unione si dubita, è l’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 4 luglio 2019, il quale stabilisce che per gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW «il G.S.E. calcola la componente incentivo come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario di mercato dell’energia elettrica e, ove tale differenza sia positiva, eroga gli importi dovuti in riferimento alla produzione netta immessa in rete, secondo le modalità individuate all’art. 25 del decreto ministeriale del 23 giugno 2016[8]. Nel caso in cui la predetta differenza risulti negativa, il G.S.E. conguaglia o provvede a richiedere al soggetto responsabile la restituzione o corresponsione dei relativi importi. In tutti i casi, l’energia prodotta da questi impianti resta nella disponibilità del produttore»[9].
È su tale disposizione che si fonda il provvedimento di ammissione impugnato e l’art. 4 del contratto stipulato dall’appellante con il Gestore dei Servizi Energetici, il quale prevede che «la tariffa incentivante, costante in moneta corrente, da utilizzare ai fini dell’incentivazione dell’impianto», è pari a 0,090000 Euro/kWh e che il Gestore, da un lato, «riconosce la differenza, qualora positiva, tra la suddetta tariffa incentivante e il prezzo zonale orario», dall’altro «conguaglia o provvede a richiedere all’Operatore la differenza, qualora negativa, tra la suddetta tariffa incentivante e il prezzo zonale orario».
2. Le modalità di accesso agli incentivi nel settore dell’energia rinnovabile ai sensi del D.M. 4 luglio 2019.
Per meglio comprendere il contesto entro il quale si inserisce la disposizione oggetto del rinvio pregiudiziale che ci occupa, occorre ricordare le modalità di accesso agli incentivi[10], di cui al citato Decreto ministeriale del 2019.
Il Decreto ministeriale del 4 luglio 2019 prevede due differenti meccanismi incentivanti, in funzione della potenza dell’impianto.
Nella specie, il primo meccanismo è rappresentato dal ritiro dell’energia elettrica prodotta da parte del Gestore, il quale eroga all’operatore la tariffa a questi spettante.
Il secondo meccanismo è invece costituito dall’attribuzione all’impresa di un incentivo, calcolato come differenza tra la tariffa spettante e il prezzo zonale orario che, se positiva, integra il ricavo connesso alla vendita sul mercato dell’energia prodotta, mentre, quando è negativa, ossia quando la tariffa è inferiore al prezzo di mercato, comporta che l’impresa non solo non percepisca alcuna sovvenzione, ma debba versare la differenza al Gestore dei Servizi Energetici.
Tale secondo meccanismo, di cui all’art. 7, comma 7 del decreto ministeriale in questione, è definito come sistema “a due vie”.
Orbene, se da un lato, gli impianti di potenza non superiore a 250 kW possono optare indifferentemente tra uno dei due meccanismi, dall’altro lato, quelli di potenza pari o superiore, come quello dell’appellante, possono accedere al solo incentivo.
Vista la potenza dell’impianto oggetto di causa, il meccanismo incentivante applicato nel caso di specie non poteva che essere quello “a due vie”.
L’impresa appellante lamenta dunque non solo di non aver ottenuto alcun incentivo, ma anzi, di aver ricevuto richieste di pagamento della differenza da parte del Gestore dei Servizi Energetici, avendo stipulato il contratto durante la crisi energetica del 2022, quando il prezzo orario dell’energia era superiore alla tariffa spettante.
3. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
Il Collegio ha così effettuato un rinvio pregiudiziale d’interpretazione ai sensi dell’art. 267 TFUE[11] alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, dubitando della compatibilità tra il meccanismo incentivante c.d. “a due vie”, come delineato dall’art. 7, comma 7, del D.M. 4 luglio 2019, da un lato, e l’art. 3 della Direttiva n. 2009/28/CE[12] e l’art. 4 della Direttiva n. 2018/2001/UE[13], dall’altro.
In particolare, l’art. 3 della direttiva n. 2009/28/CE, abrogata a partire dal 1° luglio 2021, ma in vigore all’epoca di adozione del D.M. del 4 luglio 2019, prevedeva che ogni Stato membro «promuove e incoraggia l’efficienza ed il risparmio energetico» e adotta «misure efficacemente predisposte» in modo da raggiungere entro il 2020 la quota di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale fissata quale obiettivo nazionale, e che, a tal fine, può adottare «regimi di sostegno» (definiti dall’art. 2, co. 2, lett. k) dalla medesima direttiva come «ogni strumento, regime o meccanismo […] inteso a promuovere l’uso delle energie da fonti rinnovabili riducendone i costi, aumentando i prezzi a cui possono essere vendute o aumentando, per mezzo di obblighi in materia di energie rinnovabili o altri mezzi, il volume acquistato di dette energie», quali per esempio «le sovvenzioni agli investimenti, le esenzioni o gli sgravi fiscali, le restituzioni d’imposta, i regimi di sostegno all’obbligo in materia di energie rinnovabili, compresi quelli che usano certificati verdi e i regimi di sostegno diretto dei prezzi ivi comprese le tariffe di riacquisto e le sovvenzioni».
Come già anticipato, l’art. 4 della direttiva n. 2018/2001/UE prevede quale termine per il recepimento la data del 30 giugno 2021, dunque un momento successivo rispetto a quello di emanazione del D.M. del 4 luglio 2019.
Tuttavia, da tale direttiva è comunque derivato l’obbligo per gli Stati membri di astenersi dall’adottare disposizioni che potessero compromettere gravemente l’obiettivo posto da questa (c.d. obbligo di “standstill”).
Ebbene, tale termine era già spirato al momento dell’adozione del provvedimento di ammissione agli incentivi impugnato con il ricorso di primo grado e la direttiva era già stata recepita dal Legislatore italiano con il D.lgs. 8 novembre 2021, n. 199.
La Direttiva conferma la possibilità per gli Stati membri di istituire dei regimi di sostegno che prevedano l’erogazione di incentivi, precisando che questi meccanismi debbano basarsi su criteri di mercato, rispondere ai segnali di mercato (evitando inutili distorsioni dei mercati dell’energia elettrica, tenendo conto degli eventuali costi di integrazione del sistema e della stabilità dell’energia elettrica) e garantire che i produttori di energia rinnovabile reagiscano ai segnali di prezzi del mercato e massimizzino i loro ricavi sul mercato.
Inoltre, la Direttiva prevede che gli incentivi vengano concessi con modalità aperte, trasparenti, competitive, non discriminatorie[14] ed efficaci sotto il profilo dei costi.
4. Le motivazioni del dubbio di compatibilità tra diritto interno ed europeo.
Definito il quadro normativo esistente a livello eurounitario, occorre a questo punto ripercorrere le ragioni che hanno portato il Collegio giudicante ad effettuare il rinvio pregiudiziale de quo.
Nella specie, il dubbio sulla compatibilità tra il diritto nazionale e le direttive, secondo il Consiglio di Stato, discende da tre considerazioni.
In primo luogo, alla luce del diritto dell’Unione, il meccanismo incentivante in quanto tale, dovrebbe agevolare la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili, favorendo l’investimento nella realizzazione di nuovi impianti o nel potenziamento di quelli esistenti, mediante un contributo pubblico a sostegno dei relativi costi.
I costi, grazie a tali meccanismi incentivanti verrebbero così posti parzialmente a carico della collettività in ragione delle esternalità positive che si ricollegano al perseguimento di obiettivi di transizione ecologica.
Tale prima considerazione stride necessariamente con l’incentivo negativo configurato dall’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 4 luglio 2019.
Tale previsione, infatti, comporta che, nel caso in cui il prezzo zonale orario dell’energia aumenti, le imprese, pur avendo effettuato degli investimenti, non ottengono alcuna sovvenzione che ne riduca il costo.
Anzi, nella predetta ipotesi, l’impresa deve riversare al gestore del Servizio Energetico parte degli introiti derivati dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta con la conseguenza che queste potrebbero essere indotte ad abbandonare l’incentivo, così compromettendo il raggiungimento dei risultati perseguiti dalle direttive.
La seconda considerazione che lascia dubitare della compatibilità tra l’art. 7 e le direttive è che l’incentivo negativo non può considerarsi una contropartita della garanzia di una tariffa costante, considerato che l’impresa vende l’energia sul mercato, soggiace alle sue dinamiche ed è esposta ai relativi rischi, dunque l’obbligo di versare la differenza tra il prezzo zonale orario e la tariffa spettante al singolo operatore potrebbe pregiudicarne la capacità di reazione alle dinamiche del mercato.
In altri termini, vi sarebbe in tal senso un contrasto tra il meccanismo di incentivi “a due vie” e i regimi di sostegno contemplati dal legislatore sovranazionale che devono essere configurati in modo tale da rispondere ai segnali di mercato, evitando inutili distorsioni.
In terzo luogo, la tariffa “a due vie”, che può tradursi nell’applicazione dell’incentivo negativo, è imposta quale unico meccanismo incentivante per tutti gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW, mentre i titolari di impianti di potenza inferiore, possono optare per il diverso regime che prevede il ritiro dell’energia da parte del gestore del Servizio energetico con corresponsione della tariffa spettante a loro favore.
In questo senso, si delinea il dubbio di compatibilità tra l’art. 7 del decreto ministeriale citato e le direttive eurounitarie, che, invero, richiedono la definizione di regimi di sostegno non discriminatori.
In sostanza, ciò che si domanda il Consiglio di Stato nell’effettuare il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE è se, in effetti, l’art. 7, comma 7 del Decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 4 luglio 2019 sia conforme con le prescrizioni del Legislatore eurounitario in forza delle quali i regimi di sostegno devono essere in grado di promuovere la produzione di energia da fonti rinnovabili, devono essere definiti in modo tale da rispondere ai segnali di mercato e devono in ultimo essere definiti in modo tale da non creare discriminazioni.
Il Collegio ha così posto il seguente quesito alla Corte di Giustizia dell’Unione europea: «se i principi recati dall’art. 3 della direttiva 2009/28/CE e dall’art. 4 della direttiva 2018/2001/UE ostano o non ostano a una normativa interna, quale l’art. 7, comma 7, del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 4 luglio 2019, che, nell’ambito di un regime nazionale di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili, preveda, con riferimento a fattispecie in cui i produttori vendono l’energia sul libero mercato, un meccanismo incentivante (c.d. “a due vie”) in forza del quale, rispetto ai soli impianti di nuova costruzione di potenza pari o superiore a 250 kW, l’incentivo è calcolato come differenza tra la tariffa spettante all’impresa (determinata tenendo conto, da un lato, delle tariffe di riferimento previste per ciascuna tipologia di impianto e d’intervento, dalla normativa applicabile e, dall’altro, delle riduzioni offerte al ribasso dall’operatore nell’ambito delle procedure di asta o registro, nonché delle ulteriori decurtazioni previste in via generale dalla normativa interna) e il prezzo zonale orario, con conseguente obbligo di riversare le somme eccedenti il valore della tariffa spettante quanto il prezzo zonale orario sia a essa superiore (c.d. “incentivo negativo”)»[15].
5. Osservazioni conclusive anche alla luce del principio di neutralità tecnologica e della giurisprudenza della CGUE (sentenza n. 306/2022).
Ricostruito il fatto da cui è occasionata la pronuncia di rinvio pregiudiziale e richiamate le considerazioni per cui il Collegio ha ritenuto sussistere un dubbio di compatibilità tra la normativa interna e il diritto europeo, possono a questo punto svolgersi alcune osservazioni conclusive.
Ad avviso di chi scrive, dal confronto tra la normativa interna e il diritto europeo in materia di fonti energetiche rinnovabili, emerge un evidente contrasto tra i risultati dell’applicazione del c.d. incentivo negativo e gli obiettivi di promozione delle rinnovabili proclamati dalle Direttive richiamate e, da ultimo riconfermati con la Direttiva 2023/2413/UE[16].
Il meccanismo di incentivazione contemplato dall’art. 7, comma 7, del Decreto ministeriale del 4 luglio 2019, infatti, nel contemplare non solo la possibilità di un non incentivo – pur a fronte di investimenti effettuati – ma anche la possibilità di una richiesta di riversare al Gestore del Servizio Energetico parte degli introiti derivanti dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta, condivisibilmente rispetto a quanto prospettato dal Consiglio di Stato, parrebbe porsi in contrasto con il diritto europeo.
In particolare, si condividono le tre considerazioni effettuate dal Collegio giudicante in ordine alla natura del meccanismo incentivante contemplato dal decreto ministeriale più volte richiamato che non è idoneo ad agevolare la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili se, a fronte di investimenti effettuati, non contempla alcune sovvenzioni che ne riducano i costi e, addirittura, prevede che le imprese riversino al Gestore parte degli introiti derivati dalla vendita sul mercato dell’energia prodotta.
Ancora, è condivisibile la seconda considerazione in ordine alla incapacità del regime di sostegno contemplato dal Legislatore italiano di rispondere ai segnali di mercato, soprattutto nell’odierno contesto di crisi energetica.
Parimenti condivisibile è il dubbio in ordine alla discriminatorietà del regime di sostegno contemplato dal Legislatore nazionale, nella misura in cui la tariffa a due vie, che talvolta può tradursi nell’applicazione dell’incentivo negativo è imposta quale unico meccanismo incentivante per tutti gli impianti di potenza pari o superiore a 250 kW, mentre i titolari di impianti di potenza inferiore possono optare per il diverso regime (più favorevole) del ritiro dell’energia da parte del Gestore con corresponsione della tariffa spettante.
Il trattamento che ne deriva, infatti, è evidentemente discriminatorio, contemplando, peraltro, un regime ben più favorevole per impianti che sono per loro stessa natura destinati a produrre minor quantità di energia da fonti rinnovabili, poiché di minor potenza, sfavorendo invece gli impianti di maggiore potenza.
In relazione a tale ultimo aspetto, si rende necessario un seppur rapido richiamo al principio di neutralità tecnologica[17], che, dall’applicazione di un simile meccanismo incentivante, ne risulterebbe evidentemente pregiudicato.
Tale principio, infatti, predica la libertà di scegliere la tecnologia più appropriata e adeguata alle esigenze e ai requisiti per lo sviluppo, l’acquisizione, l’uso o la commercializzazione, senza dipendenze di conoscenza implicate come informazioni o dati.
Il principio di neutralità tecnologica, applicato alla materia della transizione energetica[18], è realizzabile attraverso un approccio flessibile alle tecnologie disponibili, vale a dire attraverso un mix di tecnologie di cui disporre di volta in volta in base alla loro maturità ed efficacia nel ridurre le emissioni.
La decarbonizzazione, infatti, può realizzarsi solo attraverso una pluralità di tecnologie da applicare a seconda del contesto di riferimento.
L’approccio flessibile secondo il principio di neutralità tecnologica favorisce l’utilizzo di tutte le opzioni in maniera complementare.
Secondo tale strategia, le energie rinnovabili svolgono al meglio il loro ruolo nella transizione energetica quando abbinate ad altre misure di mitigazione, quali possono essere appunto, oltre all’efficienza energetica, le misure di sostegno e i meccanismi incentivanti delle rinnovabili.
Ebbene, sostenere un meccanismo incentivante che si applichi solo per determinate tipologie di impianti equivarrebbe in ultimo anche a ledere il suddetto principio di neutralità tecnologica.
A sostegno della tesi secondo la quale parrebbe sussistere un contrasto tra la normativa interna e il diritto dell’Unione nei predetti termini, peraltro, può pervenirsi anche tenendo a mente quanto statuito dalla medesima Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza n. 306/2022[19], resa nelle cause riunite C-306/19, C-512/19, C-595/19 e da C-608/20 a C-611/20.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, in tale occasione, ha avuto modo di pronunciarsi in materia di incentivi alle rinnovabili e, nella specie, in tema di riduzione degli incentivi al fotovoltaico, a conferma dell’incertezza dei confini della discrezionalità del legislatore in materia di meccanismi incentivanti[20].
In particolare, in tal caso, la Corte ha ritenuto la conformità al diritto UE della normativa interna che contemplava la rimodulazione degli incentivi del G.S.E. sull’energia da fonti rinnovabili considerato che un operatore economico prudente, sulla base del quadro normativo vigente, avrebbe dovuto essere in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi.
Nei casi decisi con tale pronuncia, gli imprenditori interessati dalla riduzione degli incentivi lamentavano la lesione del legittimo affidamento e la violazione del principio di certezza del diritto, nonché della Direttiva 2009/28/UE, nella misura in cui l’articolo 26 del Decreto-Legge n. 91/2014[21] ha introdotto retroattivamente misure incentivanti meno favorevoli, tali da sovvertire le condizioni iniziali di investimenti già realizzati.
In questo caso, ciò che maggiormente ha rilevato ai fini della decisione è stato il richiamo alla formulazione dell’art. 3 paragrafo 3, lettera a), della Direttiva 2009/28/UE e, in particolare, all’utilizzo del termine «possono».
Gli Stati membri, sulla scorta di tale disposizione, infatti, non sono affatto obbligati, al fine di promuovere l’uso dell’energia da fonti rinnovabili, ad adottare regimi di sostegno per le rinnovabili.
Essi godono di un potere discrezionale quanto alle misure ritenute appropriate per raggiungere gli obiettivi nazionali generali obbligatori fissati all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, di detta Direttiva, in combinato disposto con l’Allegato I della medesima.
Un siffatto potere discrezionale implica che gli Stati membri siano liberi di adottare, modificare o sopprimere regimi di sostegno purché tali obiettivi siano stati raggiunti[22].
In tal caso, la stessa formulazione dell’articolo 7, comma 2, del D.lgs. n. 387/2003 indicava all’operatore economico prudente e accorto, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE[23], che gli incentivi in questione non erano garantiti a tutti gli operatori interessati per un periodo determinato, tenuto conto, in particolare, del riferimento a un importo decrescente delle tariffe incentivanti nonché alla durata limitata dell’incentivo e della fissazione di un limite massimo di potenza elettrica cumulata ammissibile all’incentivo medesimo.
Parimenti, anche il D.lgs. n. 28/2011, che ha abrogato il D.lgs. n. 387/2003, dispone, all’art. 25, che l’incentivo alla produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici è disciplinato da un decreto ministeriale che fissa un limite annuale della potenza elettrica cumulata di simili impianti ammissibili a beneficiare delle tariffe incentivanti e che prevede tali tariffe tenendo conto della riduzione del costo delle tecnologie e degli impianti nonché delle misure incentivanti applicate negli altri Stati membri e della natura del sito degli impianti.
La pronuncia ha inoltre chiarito la natura delle convenzioni sottoscritte con il G.S.E. che si limitavano a definire le modalità di erogazione degli incentivi, senza tuttavia attribuirli.
Pertanto, in tal caso, secondo la Corte di giustizia non v’è stata lesione del legittimo affidamento, trattandosi di posizione giuridica non acquisita, che non rientra nella tutela prevista all’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[24].
Sotto un secondo profilo, si è esclusa altresì la violazione dell’art. 16 della Carta in materia di libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, in quanto le convenzioni concluse con i proprietari di impianti fotovoltaici prevedevano unicamente le condizioni pratiche per l’erogazione degli incentivi, assegnati invero con decisioni amministrative precedenti.
Pertanto, gli imprenditori non disponevano di alcun potere negoziale in ordine al contenuto delle convenzioni stipulate con il G.S.E., trattandosi di un contratto-tipo redatto da una parte contrattuale, ove la libertà contrattuale della controparte consiste, in sostanza, solo nel decidere se accettare o meno le condizioni del contratto stesso.
Alla luce di tutti i rilievi richiamati, la Corte di Giustizia UE, in tale occasione, ha stabilito che l’art- 3, paragrafo 3, lettera a) della Direttiva 2009/28/UE e gli artt. 16 e 17 della Carta, letti alla luce dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, dovessero essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede la riduzione o il rinvio del pagamento degli incentivi per l’energia prodotta da impianti solari fotovoltaici.
Tale conclusione, come sottolineato in dottrina, evidenzia l’esistenza di un attuale sistema normativo che non costituisce uno stimolo adeguato e sufficiente per la realizzazione di investimenti nel campo dell’energia sostenibile, potendo anzi determinarne la disincentivazione[25].
Ad ogni modo, con il rinvio pregiudiziale effettuato dalla pronuncia in commento, si è chiesto alla Corte di Giustizia UE di stabilire non tanto se il legislatore nazionale, nell’esercizio della facoltà di prevedere (o meno) un meccanismo incentivante nel settore del fotovoltaico, a seguito della conclusione di convenzioni con il G.S.E., possa prevedere che gli incentivi ivi previsti siano ridotti, ma, diversamente, se il meccanismo incentivante possa determinare effetti contrari e, nella specie, discriminatori, non rispondenti ai segnali di mercato, e, per l’effetto, disincentivanti.
In entrambi i casi rimessi alla Corte, può dirsi che i dubbi di compatibilità tra il diritto nazionale e il diritto europeo siano fondati sull’esistenza di un quadro normativo interno che pare mal conciliarsi con le esigenze sottese alla transizione ecologica[26], in un contesto di crisi ambientale e, soprattutto, energetica, segnato dalla consapevolezza di essere ormai prossimi a un collasso ecologico dovuto al superamento dei cc.dd. “Planeraty Boundaries”, al cui interno sono stati individuati alcuni spazi per poter prosperare in modo sicuro sia da un punto di vista ambientale che sociale (cc.dd. Safe Operating Spaces – SOS)[27], ove ben si inseriscono, appunto, gli impianti alimentati da fonti rinnovabili.
Concepire modelli di incentivazione come quelli di cui al D.M. del 4 luglio 2019, a sommesso avviso di chi scrive, oltre a contrastare con il diritto europeo, equivale a legittimare una contraddizione interna al sistema, nel quale è la stessa Carta costituzionale a rendere finalmente “giustizia” al bene “ambiente” con la sua introduzione negli artt. 9 e 41 Cost.[28].
Ne deriva che il compito di cui è investito il Giudice europeo a fronte del rinvio pregiudiziale in commento è se non altro strategico, poiché idoneo ad individuare, da ultimo, gli strumenti giuridici più idonei alla realizzazione a alla mobilizzazione della transizione ecologica.
Ad ogni modo, anche laddove il Giudice europeo ritenesse che il meccanismo incentivante “a due vie” costituisca espressione del legittimo esercizio dell’(ampia) discrezionalità attribuita agli Stati membri, è auspicabile che i futuri interventi normativi in materia, in linea con il P.N.R.R. nazionale[29], contemplino nuovi ed ulteriori incentivi, nonché nuovi meccanismi di accesso caratterizzati da una disciplina chiara, certa, semplificata e non discriminatoria, in modo tale da garantire sempre maggiori investimenti nel settore e, con essi, la massima diffusione delle fonti energetiche rinnovabili nel perseguimento degli obiettivi sottesi alla transizione ecologica e in conformità con il chiaro favor espresso dal legislatore eurounitario nei confronti delle fonti energetiche rinnovabili[30].
[1] Cons. Stato, Sez. II, 30 gennaio 2024 n. 926, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In giurisprudenza, sullo specifico tema dei meccanismi incentivanti delle rinnovabili, cfr. Cons. St., Sez. II, 19 aprile 2023 n. 3992, in Riv. giur. ed., 2023, 4, I, 911, in materia di applicabilità della tariffa incentivante alla serra fotovoltaica; Cons. St., Sez. II, 28 novembre 2022 n. 10409, in Red. Giuffrè amm., 2022, sulla disciplina degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili contenuta nel d.m. 6 luglio 2012, ove, già in tale occasione la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare che la disciplina degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili ha la finalità di sostenere la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili attraverso la definizione di incentivi e modalità di accesso semplici e stabili, che promuovano l’efficacia, l’efficienza e la sostenibilità degli oneri di incentivazione in misura adeguata al perseguimento dei relativi obiettivi, stabiliti nei Piani di azione per le energie rinnovabili. Per una ricostruzione dell’ampia casistica di giurisprudenza delle giurisdizioni superiori esistente in materia di incentivi energetici e relative controversie, si rinvia alla rassegna monotematica dell’Ufficio massimario della Giustizia amministrativa a cura di D. Caminiti, Le controversie in materia di incentivi energetici. Il G.s.e., in www.giustizia-amministrativa.it, 15 novembre 2023.
In dottrina, in materia di incentivi alle rinnovabili, A. Castelli, M. Loche, Produzione di energia da fonti rinnovabili e incentivi pubblici: il punto sul fotovoltaico dopo il d.l. “Rilancio”, in Ambiente e sviluppo, 7, 2020, 589, i quali affermano, appunto, che: «Lo sfruttamento dell’energia da fonti rinnovabili rappresenta, da tempo, una delle finalità centrali della politica di crescita dell’Unione Europea, indirizzata verso la promozione di un utilizzo ed uno sviluppo sempre maggiori di tale metodologia di produzione energetica, coerentemente con le politiche ambientali degli Stati membri, sempre più orientate verso la sostenibilità e la mitigazione degli impatti sull’ambiente delle attività umane»; M. De Focatiis, Il sistema italiano tra incentivi, obblighi e contraddizioni, in P. Biandrino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell’energia: un nuovo modello?, Milano, 2017, 97-103; C. Vivani, I procedimenti di autorizzazione alla realizzazione e alla gestione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in Urb. & app., 2011, 7, 775, ove si legge che: «L’incremento del ricorso all’energia da fonti rinnovabili costituisce indubbiamente uno dei capisaldi dell’attuale politica energetica dell’Unione Europea, permettendo di coniugare alcuni obiettivi prioritari: non solo la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, ma anche la riduzione della dipendenza dell’Europa dalle importazioni di combustibili fossili tradizionali e l’incremento della crescita economica europea tramite lo sviluppo di tecnologie innovative e competitive a livello globale»; B. Pozzo, a cura di, Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, Milano, 2009, 14 ss.. Occorre sottolineare che, rispetto al panorama internazionale, l’Unione europea, nel mondo, è sempre stata considerata all’avanguardia nella ricerca e nell’impiego delle fonti rinnovabili di energia. Esiste, infatti, già da tempo, una Direttiva Quadro, appunto la 2001/77/CE, con la quale è stato dato avvio ad una politica energetica, fondata sull’incentivazione del ricorso alle fonti rinnovabili di energia, cui è stato accompagnato un apparato amministrativo semplificato che non ostacolasse l’iter burocratico connesso con l’installazione degli impianti energetici, ma che anzi lo favorisse. Così si è espresso, ormai molti anni orsono, A. Cutera, Introduzione, in Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, a cura di, B. Pozzo, cit., XIII. Si segnala tuttavia, nella giurispridenza amministrativa nazionale, l’esistenza di un orientamento consolidato in forza del quale, sebbene si riconosca che la ratiodell’attribuzione degli incentivi alla produzione di energia da fonti rinnovabili sia certamente costituita dall’incremento della produzione di detta energia, si afferma che la stessa non può comunque giustificare violazioni delle procedure finalizzate alla corretta attribuzione degli stessi che, diversamente, si tradurrebbero in un aiuto di Stato illegittimamente erogato. In questo senso, si veda, da ultimo, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 3 febbraio 2022 n. 1281, in Red. Giuffrè amministrativo, 2022.
[3] Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, 4 luglio 2019, recante «Incentivazione dell’energia elettrica prodotta dagli impianti eolici on shore, solari fotovoltaici, idroelettrici e a gas residuati dei processi di depurazione», in G.U. Serie Generale n. 186, del 9 agosto 2019.
[4] Sulla natura del Gestore del Servizio energetico, quale soggetto privato svolgente pubbliche funzioni, posto che, pur rivestendo formalmente la veste di società di capitali di diritto privato, è soggetto munito dalla legge di funzioni pubbliche correlate alla diffusione delle energie da fonte rinnovabile, al controllo ed alla gestione dei flussi energetici di tale provenienza e all’assolvimento degli obblighi imposti dalla legge agli operatori del settore energetico, cfr. Cons. St., Ad. plen., 3 settembre 2019 n. 9, con nota di A. Colavecchio, Provvedimento amministrativo e atti di accertamento tecnico, in Giorn. Dir. Amm., 2020, 1, 90).
[5] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 3.
[6] «La nozione di “beni” contenuta nella prima parte dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è autonoma, e comprende sia i “beni esistenti” che i diritti patrimoniali, compresi i crediti, in relazione ai quali il ricorrente può sostenere di avere almeno una “aspettativa legittima”. Il termine “beni” comprende i diritti “in rem” e “in personam”. Il termine comprende beni immobili, beni mobili nonché altri diritti patrimoniali». Tale nozione si rinviene nella Guida all’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in www.echr.coe.int, p. 7
[7] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 22 febbraio 2023 n. 3010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 23 giugno 2016, recante «Incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico», in G.U. Serie Generale n.1 50 del 29 giugno 2016.
[9] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 9.
[10] In materia di incentivi, in dottrina, si rinvia, da ultimo ai saggi di L. Anibali, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e gli interventi rimodulatori, in Giorn. dir. amm., 2022, 481, che in particolare approfondisce il rapporto tra regimi incentivanti e il legittimo affidamento; E. Traina, Incentivi alla produzione di energie rinnovabili, poteri amministrativi e legittimo affidamento nella giurisprudenza, in Federalismi.it, 5 giugno 2023.
[11] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 8, ove il Collegio giudicante spiega le ragioni della necessità del rinvio pregiudiziale d’interpretazione «anche considerato che avverso le decisioni del Consiglio di Stato non può proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno e che, nella specie, la corretta interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione rilevanti ai fini del giudizio non s’impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi, né queste sono già state oggetto d’interpretazione da parte [della] Corte di giustizia, dunque non ricorrono le condizioni in cui il giudice di ultima istanza può ritenersi esonerato dall’obbligo di rimessione (sulle quali si v., tra le tante, Corte giust., Grande Sez., sent. 6 ottobre 2021, C-561/19 [ECLI:EU:C:2021:799], Consorzio I.M., ot. 27 e ss., e, più di recente, Corte giust., sent. 22 dicembre 2022, C-83/21 [ECLI:EU:C:2022:1018], A.I., pt. 79 e ss. e ord. 27 aprile 2023, C-482/22 [ECLI:EU:C:2023:404], Associazione R.V., pt. 28 e ss.)».
[12] Direttiva 2009/28/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 «sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE», in G.U.U.E. L 140/16 del 5 giugno 2009. L’Italia ha recepito la Direttiva con il D.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, recante «Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili», con il quale, ai sensi dell’art. 1, «Finalità», sono stati definiti «gli strumenti, i meccanismi, gli incentivi e il quadro istituzionale, finanziario e giuridico, necessari per il raggiungimento degli obiettivi fino al 2020 in materia di quota complessiva di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia e di quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti» nonché le «norme relative ai trasferimenti statistici tra gli Stati membri, ai progetti comuni tra gli Stati membri e con i paesi terzi, alle garanzie di origine, alle procedure amministrative, all’informazione e alla formazione nonché all’accesso alla rete elettrica per l’energia da fonti rinnovabili e fissa criteri di sostenibilità per i biocarburanti e i bioliquidi». Con specifico riferimento ai regimi di sostegno, l’art. 23, comma 1, del D.lgs. n. 28/2011 ha previsto il riordino e il potenziamento degli allora vigenti sistemi di incentivazione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili tramite l’introduzione di «un quadro generale volto alla promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica (...), attraverso la predisposizione di criteri e strumenti che promuovano l’efficacia, l’efficienza, la semplificazione e la stabilità nel tempo dei sistemi di incentivazione, perseguendo nel contempo l’armonizzazione con altri strumenti di analoga finalità e la riduzione degli oneri di sostegno specifici in capo ai consumatori». Il D.lgs. n. 28/2011, nella specie, sulle energie rinnovabili riforma i meccanismi incentivanti la produzione di elettricità da fonti rinnovabili per gli impianti entrati in esercizio dal 1° gennaio 2013, abrogando il vecchio sistema incentrato sui certificati verdi. I nuovi meccanismi di incentivazione consistono in tariffe fisse per i piccoli impianti (fino a 5 MW) e in aste al ribasso per gli impianti di taglia maggiore. Anche per gli impianti entrati in esercizio entro il 2012, a partire dal 2016, i certificati verdi saranno sostituiti - per il residuo periodo di spettanza - da una tariffa fissa tale da garantire la redditività degli investimenti realizzati. Il GSE ritira annualmente i certificati verdi rilasciati per gli anni dal 2011 al 2015, in eccesso di offerta, ad un prezzo di ritiro pari al 78% del prezzo definito secondo i criteri vigenti.
[13] Direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, in G.U.U.E. L 328/82 del 1° dicembre 2018. In attuazione della Direttiva 2018/2001/UE, è stato adottato il D.L. 8 novembre 2021, n. 199, recante “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”. Nella specie, il Titolo II del D.L. n. 199/2021 disciplina i regimi di sostegno e sugli strumenti di incentivazione al fine di promuovere l’efficacia, l’efficienza e la semplificazione, al fine di raggiungere gli obiettivi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tale nuovo sistema di incentivi prevede per i grandi impianti, con potenza superiore a una soglia almeno pari a 1 MW, l’attribuzione dell’incentivo attraverso procedure competitive di aste al ribasso effettuate in riferimento a contingenti di potenza, mentre per impianti di piccola taglia (<1 MW), è previsto l’accesso diretto alle tariffe.
[14] Sul principio di non discriminazione dei produttori di energia da fonti rinnovabili, alla Direttiva 2009/28/CE cfr. i Consideranda n. 40, sulle procedure di autorizzazione all’installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili e n. 62, sui costi della connessione alla rete elettrica; cfr. altresì l’art. 15, sulle «Garanzie di origine dell’elettricità, del calore e del freddo prodotti da fonti energetiche rinnovabili», ove si stabilisce che « […] l’origine dell’elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili sia garantita come tale ai sensi della presente direttiva, in base a criteri obiettivi, trasparenti e non discriminatori» e l’art. 16, in materia di «Accesso e funzionamento delle reti», ove si precisa che il mantenimento dell’affidabilità e della sicurezza della rete è basato su criteri trasparenti e non discriminatori definiti dalle autorità nazionali competenti. Successivamente, il principio di non discriminazione ha trovato disciplina nella Direttiva 2018/2001/UE, ai consideranda n. 19, ove si stabilisce che per accrescere l’efficacia delle procedure di gara e ridurre al minimo i costi generali di sostegno, le procedure di gara dovrebbero essere, in linea di principio, aperte a tutti i produttori di energia elettrica da fonti rinnovabili su base non discriminatoria; n. 43, in materia di procedure di autorizzazione; n. 65; n. 68 e n. 69; n. 71; n. 92 e n. 112; nonché all’art. 4, paragrafo 4, ove si stabilisce che gli Stati membri assicurano che il sostegno per l’energia elettrica da fonti rinnovabili sia concesso con modalità aperte, trasparenti, competitive, non discriminatorie ed efficaci sotto il profilo dei costi.
[15] Cons. Stato, Sez. II, n. 926/2024, cit., punto 19.
[16] Direttiva 2023/2413/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 ottobre 2023, che modifica la direttiva (UE) 2018/2001, il regolamento (UE) 2018/1999 e la direttiva n. 98/70/CE per quanto riguarda la promozione dell’energia da fonti rinnovabili e che abroga la direttiva (UE) 2015/652 del Consiglio, su G.U.U.E., Serie L, del 31 ottobre 2023.
In dottrina, sul punto, si rinvia a A. Muratori, Più spazio alle fonti rinnovabili con la nuova direttiva 2023/2413/UE, in Ambiente e diritto, 2023, 725.
[17] A livello europeo, il principio di neutralità tecnologica è sorto già nel 1999, anno in cui la Commissione Europea ha declinato tale principio come principio normativo in un documento ufficiale sulla revisione del quadro normativo per le comunicazioni elettroniche. Il riferimento è alla comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni, del 10 novembre 1999, dal titolo «Verso un nuovo quadro per l’infrastruttura delle comunicazioni elettroniche e i servizi correlati. Esame del 1999 del quadro normativo delle comunicazioni» [COM(1999) 539 def., 10.11.1999 - Non pubblicata nella Gazzetta ufficiale]. Il consolidamento del principio della neutralità tecnologica è avvenuto con la Direttiva 2009/140/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 recante modifica delle direttive 2002/21/CE che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, 2002/19/CE relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime e 2002/20/CE relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica, in G.U.U.E. del 18.12.2009, n. L 337/37.
[18] Sulla transizione energetica, cfr. l’opera monografica di L. Ammanati, a cura di, La transizione energetica, Torino, 2018, passim.
[19] Il riferimento è alla sentenza Corte Giustizia UE, cause riunite C-306/19, C-512/19, C-595/19 e da C-608/20 a C-611/20, Sez. X, 1° marzo 2022 n. 306, in Foro Amm. (Il), 2022, 3, II, 355. La pronuncia è di particolare rilievo anche in considerazione della ricostruzione del quadro ordinamentale interno in materia di incentivi, cui si rinvia, per quanto qui di interesse.
[20] Ad ulteriore conferma dell’incertezza dei confini della discrezionalità del legislatore in materia di meccanismi incentivanti, va segnalato che v’è un ulteriore interrogativo posto dal Giudice amministrativo italiano (con l’ordinanza Con. St., Sez. II, 8 agosto 2023 n. 7673, in www.giustizia-amministrativa.it) ove la questione posta alla Corte di Giustizia dell’Unione europea è analoga anche se riferita ad una fattispecie per certi aspetti differente (in primo luogo, è diversa la normativa nazionale della cui compatibilità si dubita – D.M. del 23 giugno 2016, in un caso, D.M. del 4 luglio 2019 nel caso in commento; in secondo luogo, nel caso in commento, quando è stato adottato il D.M. del 2019 era già stata adottata la Direttiva 2018/2001/UE; in terzo luogo, nel regime di cui al decreto del 2016 l’applicazione della tariffa “a due vie” era correlata alla modalità di accesso all’incentivo – mediante iscrizione al registro o mediante asta – mentre in quello configurato dal decreto del 2019 essa discende dalla sola potenza dell’impianto, quindi cambia l’elemento su cui si fonda la diversità di trattamento tra imprese; da ultimo, le parti sono diverse e solo con un nuovo e autonomo rinvio si garantisce il diritto di difesa del ricorrente). In particolare, il quesito posto con tale pronuncia di rinvio è il seguente: «Dica la Corte di giustizia se i principi recati dagli articoli 3 della direttiva 2001/28/CE e 4 della direttiva 2018/2001/UE ostano o non ostano a una normativa interna che nell’ambito di un regime nazionale di incentivi prevede, con riferimento a fattispecie in cui i produttori vendono l’energia sul libero mercato, una tariffa incentivante che garantisce un prezzo minimo, che è al contempo anche un prezzo massimo, in virtù di un meccanismo di conguaglio-restituzione delle somme eccedenti il valore dell’incentivo qualora il prezzo di mercato sia superiore a quest’ultimo (cosiddetto incentivo negativo), applicandosi inoltre il meccanismo di conguaglio soltanto laddove il produttore che vende l’energia sul libero mercato acceda all’incentivo mediante iscrizione al pertinente registro e non anche laddove vi acceda mediante partecipazione a una procedura di asta». Si segnala che il Giudice del rinvio ha sollecitato alla Corte di Giustizia una valutazione circa l’opportunità di una trattazione congiunta delle due cause.
[21] Sulla legittimità costituzionale della norma si è pronunciata la Corte cost., 24 gennaio 2017 n. 16, in Giur. Cost., 2017, 1, 85, ove si è affermato che «detta disposizione costituisce un intervento rispondente a un interesse pubblico, in termini di equo bilanciamento degli opposti interessi in gioco, volto a coniugare la politica di supporto alla produzione di energia da fonte rinnovabile con la maggiore sostenibilità dei costi correlativi a carico degli utenti finali dell'energia elettrica. Essa ha inoltre dichiarato che la modifica del regime di incentivi di cui ai procedimenti principali non è stata imprevedibile né improvvisa, per cui un operatore economico prudente e accorto avrebbe potuto tener conto della possibile evoluzione legislativa, considerate le caratteristiche di temporaneità e mutevolezza dei regimi di sostegno».
[22] Corte Giustizia UE, Sez. V, 15 aprile 2021, n. 798, C-798/18 e C-799/18, in Foro Amm. (Il), 2021, 4, 581, punto 28.
[23] Cfr. punto 44 della sentenza Corte Giustizia UE, Sez. V, 15 aprile 2021, n. 798, C-798/18 e C-799/18, cit., ove si precisa che: «Secondo giurisprudenza parimenti costante della Corte, la possibilità di avvalersi del principio della tutela del legittimo affidamento è prevista per ogni operatore economico nei cui confronti un’autorità nazionale abbia fatto sorgere fondate aspettative. Tuttavia, qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, esso non può invocare detto principio nel caso in cui il provvedimento venga adottato. Inoltre, gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sul mantenimento di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali [sentenza del 15 aprile 2021, Federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche (Anie) e a., C-798/18 e C-799/18, EU:C:2021:280, punto 42 nonché giurisprudenza ivi citata]».
[24] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000/c 364/01), su G.U.C.E. C 364/1 del 18 dicembre 2000.
[25] In questo senso, si rinvia al saggio di E. Traina, Incentivi alla produzione di energie rinnovabili, poteri amministrativi e legittimo affidamento nella giurisprudenza, cit., 204.
[26] Sul concetto di transizione ecologica, in dottrina, si rinvia a F. de Leonardis, La transizione ecologica come modello di sviluppo di sistema: spunti sul ruolo delle amministrazioni, in Dir. amm., 2021, 4, 779 ss.; A, Moliterni, Il Ministero della Transizione Ecologica: una proiezione organizzativa del principio di integrazione, in Giorn. dir. amm., 2021, 4, 439 ss..
[27] La teoria dei Planetary Boundaries (P.B.) e del Safe Operating Space (SOS) è il frutto di uno studio di un gruppo di 29 eminenti scienziati guidati da Johan Rockström (Aa. VV., J. Rockström, guidati da, A Safe Operating Space for Humanity, in Nature, 461, 2009, 472 ss.; Id., Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, in Ecology and Society, 14, 2, 2009, 32 ss.). In dottrina, si rinvia al saggio di M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente (in senso lato e in senso stretto), in Riv. quad. dir. amb., 2022, 1, 423 ss.; F. Albione, I nuovi equilibri giuridici tra ambiente e paesaggio sullo sfondo della transizione ecologica, in Riv. giur. ed., 4, 2023, 235.
[28] Il riferimento è alla riforma costituzionale di cui alla Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, «Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente», su G.U. n. 44 del 22 febbraio 2022. Approvata in prima lettura dall’Assemblea del Senato della Repubblica, il 9 giugno 2021, con 224 voti favorevoli, 23 astensioni e nessun voto contrario. aggiunge all’art. 9 della Costituzione un nuovo terzo comma che attribuisce alla Repubblica italiana il dovere di tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni e introduce, altresì, una riserva di legge statale in materia di tutela degli animali. In origine, l’art. 9 della Costituzione prevedeva la sola promozione della cultura e della ricerca scientifica e tecnica e la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. La riforma ha avuto ad oggetto anche l’art. 41 della Costituzione e, nella specie, il secondo e il terzo comma. Al secondo comma, è stato aggiunto il riferimento al «danno alla salute» e al «danno all’ambiente», a integrazione dei limiti che si impongono all’esercizio della libertà di iniziativa economica privata, nel senso che quest’ultima «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana». Al terzo comma, si registra poi l’aggiunta dei fini ambientali nel novero delle finalità cui può essere espressamente «indirizzata e coordinata» l’attività economica, sia essa pubblica o privata, mediante i programmi e i controlli opportuni che la legge è chiamata a determinare. Il nuovo terzo comma, nello specifico, all’esito della modifica, così recita: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». Sulla riforma che ha portato all’introduzione dell’ambiente in Costituzione, la dottrina è ampissima, tra i tanti, si segnalano F. Fracchia, L’ambiente nell’art. 9 della Costituzione: un approccio in “negativo”, in Dir. econ. (Il), 2022, 15 ss.; F. de Leonardis, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost. e la riforma “programma” dell’art. 41 Cost. nella legge costituzionale n. 1/2022: suggestioni a prima lettura, inApertaContrada, 2022; M. Cecchetti, La revisione degli artt. 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Forum quad. cost., 2021, 285 e ss.
[29] In dottrina, sugli obiettivi perseguiti dal P.N.R.R. in materia di massima diffusione delle fonti energetiche rinnovabili, cfr. S. Spuntarelli, Le rinnovabili per la transizione energetica: discrezionalità e gerarchia degli interessi a fronte della semplificazione dei procedimenti autorizzatori nel PNRR, in Dir. amm., 2023, 1, 59 ss.
Nella specie, il P.N.R.R. prevede numerose misure riguardanti la materia dell’energia, allocate principalmente nella Missione n. 2, in materia di «Rivoluzione verde e transizione ecologica», che prevede ingenti investimenti in materia di «economia circolare e agricoltura sostenibile», «tutela del territorio e delle risorse idriche», «efficientamento energetico», «energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile». Si tratta di interventi (per 15,9 miliardi di euro) che mirano tutti a realizzare un sistema di energia sostenibile che assicuri risorse energetiche sufficienti capaci di determinare positivi impatti sull’ambiente.
[30] Con specifico riferimento al tema degli incentivi, la giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che il sistema degli incentivi deve essere tale da garantire il perseguimento degli obiettivi di promozione delle fonti energetiche rinnovabili. In questo senso, ex multis, cfr. Cons. St., Sez. II, 28 novembre 2022 n. 10409, cit.; più in generale, in tema di favor verso le energie rinnovabili, cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, 4 novembre 2022, n. 1750, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si è detto che, nel bilanciamento tra i diversi interessi confliggenti, quello all’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili, è da considerarsi “strategico” e che “la strada tracciata dalla governance nazionale e sovranazionale è tutta nel senso dell’assoluto favor verso le energie rinnovabili in generale” (T.A.R. Puglia, Lecce, 9 febbraio 2023, n. 251, inwww.giustizia-amministrativa.it). Esiste poi una vastissima giurisprudenza, nel panorama nazionale, a conferma del chiaro favor manifestato dalla Comunità internazionale (e, soprattutto, europea) per le fonti energetiche sulla base degli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto. A tal proposito, ex multis, si vedano: T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 3 luglio 2013, n. 1082, in Foro amm.-T.A.R., 2013, 2508 ss.; Corte cost., 11 ottobre 2012, n. 224, in Giur. cost., 2012, 3363 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 10 settembre 2012, n. 4768, in Vita notarile, 2012, 1347 ss.;Corte cost., 12 aprile 2012, n. 85, in Giur. cost., 2012, 1180 ss., «la normativa internazionale (Protocollo di Kyoto addizionale alla Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, adottato l’11 dicembre 1997, ratificato e reso esecutivo con l. 1 giugno 2002 n. 120) e quella comunitaria (direttiva 27 settembre 2001 n. 2001/77/Ce e direttiva 23 aprile 2009 n. 2009/28/Ce) manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili»; nello stesso senso, T.A.R., Sardegna, Cagliari, Sez. I, 8 aprile 2011, n. 327, in Foro amm.-T.A.R., 2011, 1431 ss.. Più di recente, Corte Cost., 23 marzo 2021 n. 46, in Foro Amm. (Il), 2021, 10, 1405 ss., ove si legge il seguente principio di diritto: «Le fonti energetiche rinnovabili (FER), definite talvolta alternative, sono quelle forme di energia che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili nella scala dei tempi “umani” e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future, e verso le quali sia la normativa internazionale (Protocollo di Kyoto e Statuto dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili IRENA) che quella comunitaria manifestano un deciso favor, al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili, con conseguente esigenza di semplificazione dei relativi procedimenti autorizzatori. (Precedenti, sentenze n. 237 del 2020, n. 148 del 2019, n. 177 del 2018, n. 275 del 2012 e n. 85 del 2012)»; Id., 13 novembre 2020, n. 237, in Giur. Cost., 2020, 6, 2803 ss.; Id., 18 aprile 2019, n. 98, ivi, 2019, 2, 1072 ss..
La dottrina che sostiene la tesi del favor espresso nei confronti delle fonti energetiche rinnovabili è ampissima. Nella specie, tra i richiami più recenti, si rinvia a D. Bevilacqua, La dialettica tra la promozione delle fonti energetiche rinnovabili e la tutela di altri beni ambientali, in Giorn. dir. amm., 2024, 1, 125 ss..
La dimensione di un lavoro dignitoso
di Tiziana Orrù
Relazione di Tiziana Orrù alla Tavola Rotonda organizzata da Area D.G. a Firenze il 23.02.2024 sul tema: "Alla ricerca di una retribuzione adeguata: la contrattazione collettiva alla prova dell’art. 36 della Costituzione".
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dignità del lavoro: valore e sviluppo nell’attuale scenario economico-sociale - 2.1. Il Salario minimo: la direttiva europea del 19 ottobre 2022 - 2.2. La proposta di legge del 4 luglio 2023 sul salario minimo e la successiva legge delega - 2.3. La relazione del CNEL - 2.4. Il lavoro povero - 3. Alla ricerca di una retribuzione adeguata - 3.1 L’individuazione dei parametri di commisurazione del giusto salario minimo costituzionale: Il quadro giurisprudenziale antecedente - 3.2. Il giudizio di congruità della retribuzione - 3.3. Gli specifici parametri di raffronto - 3.3.1. I parametri collettivi - 3.3.2. I parametri economici e statistici - 3.4. L’adeguamento della retribuzione al salario minimo costituzionale.
1. Introduzione
Il lavoro dignitoso è un concetto universale che si applica a qualsiasi categoria di lavoratori e pone in luce il ruolo chiave dell’occupazione, con la sua dimensione quantitativa (posti di lavoro creati) e qualitativa (condizioni di lavoro), nella determinazione delle condizioni di esistenza degli individui e nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza.
La tutela di un lavoro dignitoso, caratterizzato da un’equa retribuzione, dalla sicurezza nei luoghi di lavoro e dalla protezione sociale, è di fondamentale importanza non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche per le economie industrializzate.
Il lavoro non è una merce e non può essere considerato semplicemente un costo di produzione. Il lavoro è una fonte di dignità e di benessere personale e familiare, è sorgente di autostima e di soddisfazione.
Ma non sempre i nostri lavori sono pieni di significato e di opportunità di crescita. Ci sono lavori indegni che rubano senso e dignità alle persone.
Troppo spesso il lavoro viene inteso unicamente come una necessità economica, come uno strumento per ottenere un reddito, ma il lavoro è molto di più.
Il lavoro è soprattutto l’ambito in cui la persona esprime la propria personalità, sperimenta la propria creatività, sviluppa i legami sociali.
La persona che non ha un “lavoro dignitoso” ha un lavoro “povero”, che è concetto più ampio rispetto allo stato di bisogno e/o di deprivazione materiale.
Un lavoro può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza del lavoratore e della sua famiglia oppure perché soffre di deprivazione non economica. Esiste, infatti, la povertà non di tipo economico: la solitudine, la mancanza di relazioni interpersonali, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc.
La povertà è un problema democratico che non si risolve senza cultura dei diritti, quegli stessi diritti garantiti dall’art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 2 della Costituzione – per i quali la dignità del lavoro e del lavoratore è un diritto fondamentale- dall’art. 36, comma 1 Cost. – che individua in una esistenza libera e dignitosa il contenuto minimo essenziale dei diritti del lavoratore e della sua famiglia – dall’art. 41, comma 2 Cost. che pone la dignità umana come limite alla libertà di iniziativa economica privata.
È lecito quindi affermare che lavoro e dignità costituiscono il binomio sul quale si basa il nostro assetto costituzionale.
Nelle considerazioni che seguono cercherò di sviluppare alcune riflessioni circa il significato e i risvolti pratici della dignità del lavoro nell’attuale scenario economico-sociale a cominciare dall’accordo sul salario minimo appena raggiunto a livello europeo e dal significato di “lavoro povero”, per concludere con l’analisi dei recenti approdi giurisprudenziali in tema di retribuzione “adeguata” e dei rapporti con la contrattazione collettiva.
2. Dignità del lavoro: valore e sviluppo nell’attuale scenario economico-sociale
2.1. Il Salario minimo: la direttiva europea del 19 ottobre 2022
La tematica del salario minimo riveste importanza centrale, soprattutto a seguito dell’approvazione della Direttiva 2022/2041 UE del 19 ottobre del 2022, con cui sono stati delineati principi, quali la necessità di garantire al lavoratore un trattamento retributivo adeguato, che devono orientare l’interprete.
In Europa il salario minimo legale è stabilito nella maggioranza dei Paesi tranne che in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria e Italia; l’ultimo Paese che ha introdotto il salario minimo legale è stata la Germania nel 2015 che ha previsto nell’ottobre del 2022 la retribuzione oraria minima in 12 euro l’ora.
La Direttiva prevede che gli Stati membri dovranno recepirne i principi ed il contenuto entro il 15 novembre 2024, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’Unione, in particolare l’adeguatezza dei salari minimi per i lavoratori al fine di contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle diseguaglianze retributive.
Nella Direttiva viene ricordato tra l’altro, che “Il capo II del pilastro europeo dei diritti sociali («pilastro»), proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017, stabilisce una serie di principi che fungono da guida per garantire condizioni di lavoro eque. Il principio 6 del pilastro ribadisce il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. Secondo tale principio devono inoltre essere garantiti salari minimi adeguati che soddisfino i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro. Il principio ricorda infine che la povertà lavorativa deve essere prevenuta e che tutti i salari devono essere fissati in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali”.
Con l’adozione della Direttiva, le istituzioni dell’UE hanno inoltre ricordato che non tutti i lavoratori dell’Unione ricevono una tutela efficace quanto al salario minimo, e le conseguenze di questa lacuna ricadono soprattutto sulle donne, sui lavoratori giovani, sui lavoratori scarsamente qualificati, sui lavoratori migranti, sui genitori soli o sui lavoratori part time o a tempo.
Nel capo II, all’art. 5, viene così disposto: “Gli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali istituiscono le necessarie procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali. Tale determinazione e aggiornamento sono basati su criteri stabiliti per contribuire alla loro adeguatezza, al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso, ridurre la povertà lavorativa, promuovere la coesione sociale e una convergenza sociale verso l’alto e ridurre il divario retributivo di genere”.
La Direttiva ribadisce, infine, il ruolo dell’autonomia collettiva in tema di salario minimo: gli Stati che presentano una copertura della contrattazione collettiva pari all’80% non hanno l’obbligo di introdurre il salario minimo mediante una legge.
Nella Direttiva, dunque, non è contenuto l’obbligo per gli Stati membri di prevedere un salario minimo legale, ma l’invito ad attuare misure che contribuiscano a rendere effettiva la riduzione del divario sociale.
In Italia ad esempio l’attribuzione di efficacia erga omnes ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative costituirebbe certamente un punto di partenza efficace per orientare la discussione sul salario minimo.
La maggioranza parlamentare attuale, al contrario ha affrontato le questioni del lavoro in tutt’altra prospettiva.
2.2. La proposta di legge del 4 luglio 2023 sul salario minimo e la successiva legge delega
Il 4 luglio 2023 è stata presentata alla Camera la proposta di legge n° 1275 per l’istituzione anche in Italia del salario minimo firmata da PD e M5S.
Dalla relazione che accompagna la proposta si evince che la quota di lavoratori poveri definiti con riferimento al reddito di lavoro annuo netto risulta, nel 2017, pari al 16,5 per cento tra gli uomini e al 27,8 per cento tra le donne, collocandosi in totale al 22,2 per cento, in forte crescita dal 17,7 per cento del 2006. Si evidenzia inoltre che il rischio di bassa retribuzione risulta elevatissimo, pari al 53,5 per cento, tra chi nel corso di un anno lavora prevalentemente a tempo parziale.
Viene inoltre sottolineato che “Per quanto attiene ai lavoratori subordinati, ciò è quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) che, ipotizzando la regolazione per legge di diversi importi di salario minimo, individua: 2.596.201 lavoratori «sotto soglia», se si considera un salario minimo tabellare con importo minimo pari a 8 euro all’ora, e 2.840.893 lavoratori «sotto soglia», se si includono nella nozione di salario minimo anche le mensilità aggiuntive e il salario minimo viene fissato a 9 euro”.
Dalla lettura della proposta emerge inoltre chiaramente come l’introduzione del salario minimo non è certo volta a depotenziare la contrattazione collettiva, in quanto “l’attuale assetto della contrattazione collettiva necessita di essere sostenuto e promosso dall’ordinamento statuale al fine di garantire a tutti i lavoratori in Italia l’applicazione di trattamenti retributivi dignitosi”.
All’art. 2 della proposta viene dunque stabilito che il trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL non può essere comunque inferiore a 9 euro lordi. La soglia si applicherebbe soltanto alle clausole relative ai cosiddetti “minimi”, lasciando al contratto collettivo la regolazione delle altre voci retributive.
Conformemente a quanto previsto anche nella Direttiva (UE) 2022/2041 è prevista inoltre la garanzia dell’ultrattività dei contratti scaduti o disdettati.
Sul tema il dibattito è stato molto ampio con posizioni favorevoli e contrarie abbastanza trasversali tra maggioranza, opposizioni e parti sociali.
All’esito dell’esame delle Commissioni, il 6 dicembre 2023 l'aula di Montecitorio ha votato a maggioranza la delega al Governo in materia di protezione dei lavoratori che sostituisce l'art. 1 della proposta di legge n. 1275 del 4 luglio 2023.
Si tratta di un testo radicalmente modificato che di fatto svuota la proposta iniziale con la finalità di: a) assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi; b) contrastare il lavoro sottopagato; c) stimolare il rinnovo dei contratti collettivi; d) contrastare i fenomeni di concorrenza sleale attuati mediante la proliferazione di sistemi contrattuali finalizzati alla riduzione del costo del lavoro e delle tutele dei lavoratori (cosiddetto “dumping contrattuale”).
Come si evince dal testo, nell’esercizio della delega, il Governo è tenuto ad attenersi ad una serie di principi e criteri direttivi, primo fra tutti “definire, per ciascuna categoria, i contratti collettivi più applicati, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo del contratto maggiormente applicato costituisca la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria”;
In sostanza la previsione di un salario minimo legale è sostituita dalle condizioni economiche dei contratti collettivi “maggiormente applicati” per una data categoria che in ipotesi potrebbero anche prevedere condizioni economiche che non garantiscono una retribuzione dignitosa.
Analoga previsione è indicata nella materia degli appalti ove deve essere posto un obbligo in capo alle società appaltatrici e subappaltatrici di prevedere trattamenti economici minimi per i lavoratori non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali.
Per i lavoratori non contrattualizzati a livello collettivo la previsione è di “estendere i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi, applicando il contratto della categoria più affine”.
2.3. La relazione del CNEL
Al dibattito parlamentare approdato nella delega al Governo del 6 dicembre 2023 hanno senz’altro contribuito in maniera preminente le osservazioni conclusive in materia di salario minimo elaborate dal CNEL nella relazione del 7 Ottobre 2023.
Le osservazioni conclusive hanno, tra l’altro, posto in rilievo che le rilevazioni sui principali contratti collettivi dimostrano che la tariffa legale di 9 euro lordi prevista dalla proposta di legge è addirittura inferiore alle tariffe orarie minime di tutti i contratti collettivi, sottoscritti dalle confederazioni presenti al CNEL, se letti non fermandosi alla paga base, e questo anche senza tenere conto del trattamento economico complessivo grazie alle prestazioni di welfare aziendale.
Il focus del documento è dato dal punto 2, dedicato alle proposte al Governo in relazione alla prossima legge di Bilancio e al provvedimento denominato "collegato lavoro" e consistono:
2.4. Il lavoro povero
Come ben si evince dai rilievi del CNEL, la povertà del lavoro in Italia non sarebbe legata ai salari bassi e per tale motivo l’introduzione del salario minimo non avrebbe un forte impatto sociale.
La questa considerazione è stata contraddetta, nei fatti, da alcuni casi giurisprudenziali di recente sottoposti all’esame della Corte di Cassazione, giunta a conclusioni diametralmente opposte.
Tuttavia, la relazione del CNEL ha il pregio di avere messo in rilievo il fenomeno del lavoro povero legato alla precarietà dell’impiego.
L’ XXII Rapporto annuale INPS ha sottolineato che i lavoratori poveri in Italia sono tali soprattutto perché precari. Il disagio economico non dipende perciò solo dallo stipendio basso ma soprattutto dalle condizioni di lavoro.
L’Istituto ha focalizzato l’attenzione sui “working poors”, cioè i lavoratori con retribuzione inferiore al 60% del valore mediano degli stipendi nazionali.
I lavoratori dunque, sono detti “poveri” se hanno una retribuzione giornaliera lorda di:
• 24,9 euro per i part time, pari a 588 euro al mese;
• 48,3 euro per i full time, pari a 1.116 euro netti mensili.
I lavoratori poveri in Italia sono pari al 6,3%, ovvero a 871.800 unità.
Secondo i dati INPS, che tiene fuori dal calcolo il lavoro agricolo e quello domestico, di tali lavoratori poveri –– 355.000 sono a tempo pieno e 517.000 a part-time.
Secondo le rilevazioni ISTAT, i lavoratori precari sono risultati circa 3 milioni (2.919.000) a luglio 2023.
Per valutare quante persone guadagnano troppo poco per vivere si dovrebbe quindi tener conto del reddito annuo e non prendere come riferimento il salario orario in quanto in Italia ci sono interi settori produttivi interamente basati sul part time e sul precariato come ad esempio il turismo, l’edilizia, i servizi.
Se quindi è vero che il lavoro povero dipende sia dai bassi salari sia dalle poche ore di lavoro (effetto del frequentissimo part time involontario) guardare solo ai salari orari è miope ed impedisce di mettere a fuoco la vera dimensione del fenomeno.
Da quanto detto emerge senza dubbio che il tema del un salario adeguato è complesso ed articolato e non può in alcun modo prescindere da uno sguardo d’insieme sul mercato del lavoro concentrando l’attenzione sui mezzi per contrastare la precarietà e l’utilizzo sempre maggiore di contratti non standard, e sul tema relativo al potere d’acquisto dei salari, inadeguato a contrastare i fenomeni inflattivi.
Tuttavia, in questi ultimi anni i provvedimenti del governo Meloni in tema di lavoro vanno in tutt’altra direzione: il DL n. 43 del 4 maggio 2023 (noto come decreto lavoro) non porta con sé alcuna forma di contrasto al lavoro precario, anzi: si estende l’uso dei voucher ad alcuni settori e si introduce per i contratti a termine l’ipotesi di una causale individuale.
3. Alla ricerca di una retribuzione adeguata
In dottrina è stato acutamente evidenziato che l’art. 36 Cost. disvela il superamento dell’usuale principio di corrispettività tra le prestazioni tipiche del contratto di lavoro (sulla base del quale vi sarebbe, altrimenti, semplicemente la stretta corrispondenza tra lavoro e retribuzione). In virtù dell’art. 36 Cost. tra le ragioni di scambio è, quindi, ricompresa anche la tutela della personalità del lavoratore.
È stato anche puntualizzato che l’art. 36 Cost., nell’integrare in senso sociale la proporzionalità tramite la sufficienza, evidenzia la sua connessione funzionale con l’art. 3, comma 2, Cost. tendendo a rimuovere uno di quegli ostacoli di ordine economico che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Le ultime sentenze della Corte di Cassazione (cfr. per tutte Cass. 02.10.2023 n° 27722) hanno messo in discussione il ruolo di “autorità salariale” del contratto collettivo stipulato dalle OO.SS. maggiormente rappresentative che da sempre era riconosciuto come fonte privilegiata per la definizione della retribuzione minima.
In sintesi, il livello retributivo minimo fissato dalle parti sociali può essere disatteso in sede giudiziaria, qualora, in concreto, non risulti conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza indicati dall’art. 36 della Costituzione.
La Corte di Cassazione, in sostanza, legittima il potere giudiziario a sindacare nel merito la retribuzione fissata dalle parti collettive e contestualmente lancia un monito al legislatore stabilendo che anche ove fosse approvata una legge sul salario minimo, questo non potrebbe comunque sottrarsi alla verifica giudiziaria circa la conformità ai parametri costituzionali.
L’orientamento della sezione Lavoro della Corte di Cassazione è condiviso anche dalla sezione Penale chiamata a pronunciarsi sulla fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p. in tema di sfruttamento del lavoro.
In proposto la recentissima sentenza n° 2573/2024 del 22.01.2024 (relatore Giordano) ove è affermato che: la proporzione tra l'obbligazione retributiva e la qualità e quantità del lavoro prestato, quale limite costituzionale volto a garantire equità e dignità, deve essere mantenuta anche quale metro della difformità e deve prevalere "comunque" anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l'abbia rispettata. L'autonomia delle parti sociali non può infatti derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale, personale e familiare, espressione degli artt. 2,3,4,36 e 41 Cost.
In breve, non v'è proporzione tra retribuzione e lavoro prestato quando, tenendo conto delle variabili mansionali, dell'effettiva prestazione patrimoniale, comprensiva della paga base e delle eventuali indennità, sviluppato un calcolo per un arco di tempo quotidiano, settimanale o mensile, considerato dalla contrattazione o dagli usi, l'importo del corrispettivo non assicurerebbe al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera dal bisogno che lo ha costretto ad accettare quelle date condizioni di lavoro. Tale deve considerarsi una retribuzione al di sotto della soglia di povertà assoluta pur sempre in presenza dell'approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. Tale sproporzione nel caso concreto non va colta, come invece prospetta la difesa dei ricorrenti, con un semplice raffronto tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e quindi tenendo conto dell'attività, delle complessive condizioni di lavoro, e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. Il riferimento per gli operai agricoli non solo al CCNL ma anche a quello provinciale, nella fattispecie di Trapani.
Al riguardo basti osservare che nel caso concreto il confronto non può risolversi tra la somma dei 45 euro netti effettivamente riconosciuti ai quattro lavoratori e la somma di 51 euro netti astrattamente previsti perché si tratta di due somme risultanti da una quantificazione oraria notevolmente diversa: nel caso concreto si riferisce alla somma prodotta da una attività lavorativa di almeno 9 ore al giorno, in condizioni indegne e particolarmente faticose, a fronte invece di una somma contrattualmente riconosciuta per poco più di sei ore al giorno, per cinque giorni a settimana, con tutele, pause, riposo, ferie etc, del tutto sconosciute nel rapporto di lavoro irregolare. La condizione di lavoro emergente dagli atti e ben più gravosa e non riducibile alla mera quantificazione oraria dell'attività lavorativa.
La contrattazione collettiva e le aziende sono perciò chiamate a confrontarsi, nella determinazione dei livelli retributivi minimi, con i parametri utili a verificare la coerenza con il minimo costituzionale costituente la soglia inderogabile sotto la quale una retribuzione diventa illegittima.
3.1. L’individuazione dei parametri di commisurazione del giusto salario minimo costituzionale: Il quadro giurisprudenziale antecedente
La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il giudice ben può utilizzare, quali parametri di riferimento, non solo i contratti collettivi nazionali ma anche i contratti collettivi locali o aziendali e che legittimamente esercita la propria discrezionalità sia nell’esame del rispetto dei canoni di cui all’art. 36 Cost. sia nella stessa scelta dei parametri di commisurazione (in tal senso per tutte Cass. Civ. n. 19467/2007 e Cass. Civ. n. 944/2021).
Analogamente può discostarsi, in relazione al settore del lavoro nelle cooperative, dalla retribuzione determinata per legge poiché deve pur sempre prestarsi ossequio ai principi di cui all’art. 36 Cost. In ogni caso, la retribuzione corrisposta può essere reputata costituzionalmente inadeguata.
In tali casi il giudice può, quindi, far ricorso, sempre a fini parametrici, alla retribuzione stabilita da altri contratti collettivi o anche a risultanze non di natura collettiva quali la natura e le caratteristiche della concreta attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi (per tutte Cass. Civ. n. 1415/2012 e Cass. Civ. n. 23925/2014).
La giurisprudenza costante ha inoltre sottolineato che la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza (per tutte Cass. Civ. n. 12356/2020).
Una conseguenza del riconoscimento della suddetta presunzione semplice è l’onere del dipendente, oltre che di dimostrare le prestazioni lavorative rese e la paga ricevuta, di specificare le motivazioni che inducono a ritenere inadeguato il trattamento stabilito dalla fonte collettiva e praticato nei suoi confronti e cioè di prospettare i parametri di raffronto che, a suo dire, dimostrerebbero l’incongruità della retribuzione spettando poi al giudice l’effettivo riscontro del rispetto dell’art. 36 Cost.
In caso di mancata prospettazione, da parte del lavoratore, di tali differenti parametri di riferimento il trattamento collettivo deve quindi ritenersi adeguato.
In ultimo, nella giurisprudenza è acclarato che nel caso in cui la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore alla soglia minima stabilita dall’art. 36 Cost., la relativa clausola contrattuale debba essere reputata nulla e, in applicazione del principio di conservazione espresso nell’art. 1419, comma 2, c.c., il giudice debba adeguare la stessa retribuzione secondo i criteri di sufficienza e proporzione e con valutazione discrezionale. (per tutte Cass. Civ. n. 944/2021).
3.2. Il giudizio di congruità della retribuzione
Il giudizio di congruità della retribuzione prevede due fasi logiche: la prima è quella della verifica dell’effettiva rispondenza all’art. 36 Cost. del salario corrisposto, la seconda è quella dell’adeguamento ai precetti dell’art. 36 Cost. della retribuzione che sia stata riscontrata come effettivamente ingiusta.
Con riferimento alla prima fase la giurisprudenza di legittimità non è stata finora prodiga di indicazioni sul come utilizzare i parametri di riferimento e, comunque, sul quando un trattamento retributivo (anche conforme ad un contratto collettivo) possa essere ritenuto concretamente violativo dell’art. 36 Cost.
La novità delle sentenze in commento consiste appunto nell’aver fornito all’interprete alcuni utili riferimenti.
Innanzitutto, si sottolinea il richiamo al contenuto della Dir. UE 2022/2041 per evidenziare che il concetto di “sufficienza” significa che deve essere garantito il diritto del lavoratore ad una vita non solo non povera (cioè orientata solo al soddisfacimento di bisogni essenziali) ma, più propriamente, dignitosa. Perciò una retribuzione che si collochi al di sotto o anche sullo stesso piano dell’indice Istat di povertà assoluta non può mai essere reputata congrua.
Il raffronto tra retribuzione effettivamente corrisposta (con esclusione delle maggiorazioni per il lavoro straordinario svolto), da un lato, e l’indice di povertà, dall’altro lato, deve vertere su poste omogenee sicché in concreto deve valutarsi se l’importo netto della retribuzione corrisposta sia o no al di sopra dell’indice di povertà (che, appunto, rispecchia la capacità di acquisto di determinati beni).
Un ragionamento analogo a quello operato in relazione alla soglia di povertà potrebbe essere svolto anche laddove ci si trovi al cospetto di una retribuzione inferiore o pari all’importo della Naspi o della CIG, o del reddito di cittadinanza o inferiore o pari alla soglia di reddito personale per l’accesso alla pensione di inabilità civile.
La Corte ha, difatti, riscontrato l’inutilizzabilità di tali ultimi indicatori come parametri di riferimento sulla base di ragioni assimilabili a quelle appena illustrate circa la soglia di povertà (ha specificato, cioè, che tali indici denotano solo la disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza).
3.3. Gli specifici parametri di raffronto
Il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini per mansioni analoghe o anche di indicatori economici e statistici.
3.3.1. I parametri collettivi
C. App. Milano n. 579/2022: “Il paragone con gli altri CCNL serve, pertanto, a valutare l’adeguatezza della retribuzione perché il fatto che i rappresentanti delle medesime organizzazioni sindacali, nell’ambito di vari altri contratti collettivi, abbiano stimato proporzionata alla stessa quantità e qualità della prestazione una retribuzione nettamente superiore, grava la retribuzione in questione della presunzione contraria (ovvero di non essere conforme all’art. 36 Cost)”
Dall’esame delle decisioni di merito sembra potersi ritenere che il giudice del merito possa utilizzare, quale parametro di commisurazione, il trattamento retributivo stabilito da contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe allorquando, confrontando questi contratti con il contratto collettivo di settore applicato, emerga che i primi stimino come proporzionata e sufficiente una retribuzione nettamente superiore a quella posta dal contratto collettivo di settore. (App. Milano n. 755/2023; App. Torino n. 640/2023; Trib. Bari n. 2720/2023; Trib. Parma n. 18/2023; Trib. Venezia n. 188/2021; Trib. Milano n. 225/2020; Trib. Torino n. 1128/2019).
In tutti questi casi il giudizio di non conformità ai parametri costituzionali del trattamento economico praticato (che sia stato conforme al contratto collettivo di settore) è reso in caso di significativa/non trascurabile divergenza tra quest’ultimo e gli altri addotti come parametri di riferimento.
3.3.2. I parametri economici e statistici
Le sentenze della Corte di Cassazione in commento hanno il merito di suggerire ulteriori strumenti per il giudizio di congruità richiamando nozioni di comune esperienza, valutazioni equitative e quindi indicatori economici e statistici come quelli menzionati dalla Dir. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 (tra i quali il 60% del salario lordo mediano ed il 50% del salario lordo medio, anche ricavabili dai dati Uniemens gestiti dall’I.N.P.S.).
3.4. L’adeguamento della retribuzione al salario minimo costituzionale
Una volta verificata la insufficienza della retribuzione concretamente corrisposta, si deve procedere alla determinazione del quantum del salario costituzionale.
In questa seconda operazione la giurisprudenza di merito utilizza, al fine dell’adeguamento, il contratto collettivo-parametro statuente il trattamento retributivo più basso (limitando il riconoscimento alle sole componenti retributive integranti il c.d. “minimo costituzionale”) o statuente il trattamento retributivo mediano.
Se è, quindi, frequente e legittimo il ricorso a parametri anche di natura non contrattuale nella verifica della effettiva rispondenza della retribuzione corrisposta all’art. 36 Cost., una volta che si sia riscontrato il mancato rispetto di tale precetto, l’adeguamento è pur sempre svolto facendo esclusiva applicazione della contrattazione collettiva (seppure, ovviamente, diversa).
L’allontanamento dalla contrattazione collettiva nella valutazione ai sensi dell’art. 36 Cost. è, quindi, solo parziale in quanto il giudice farà pur sempre applicazione della regolamentazione economica collettiva (diversa rispetto a quella eventualmente applicata) nel momento in cui procederà all’adeguamento.
(Immagine: Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864, olio su tela, cm 54 x 173, Collezione privata)
Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della quarta di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno e costituisce una rielaborazione dell'intervento conclusivo della prima sessione dei lavori del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti, Diritti d'amore e rapporti familiari di Mirzia Bianca.
Il diritto d’amore in una prospettiva multidisciplinare
di Gabriella Luccioli
1. Nell’accingermi a tracciare le conclusioni di questa prima sessione, presieduta dal professor Carratta, desidero innanzitutto compiacermi con l’organizzazione del congresso per aver scelto un bellissimo tema: un tema certamente non comune nelle sedi convegnistiche, che soltanto la sensibilità delle donne di Cammino poteva concepire.
La parola amore è una parola importante, che evoca il calore umano, il rapporto con gli altri, la solidarietà, l’altruismo, l’empatia; è un termine che dà pienezza alla relazione tra le persone ed esprime la libertà del vivere.
Usare la parola amore vuol dire riferirsi ad una relazione non soltanto paritaria, ma fondata sulla solidarietà e sul rispetto reciproco, vuol dire contrastare in modo diretto la forza oppositiva di parole come diseguaglianza, discriminazione, sopraffazione, subordinazione, pretesa, indifferenza.
Stefano Rodotà e Massimo Bianca, al cui insegnamento il tema del dibattito chiaramente e dichiaratamente si ispira, esaminarono il diritto d’amore secondo prospettive diverse, ma significativamente convergenti: per Rodotà si trattava di riflettere sul diritto di amare, per Bianca sul diritto di essere amati.
Nelle prime pagine del suo libro Diritto d’amore, che ha lo stesso titolo di questo incontro, Stefano Rodotà si domanda se i due termini diritto e amore siano compatibili o appartengano a logiche conflittuali destinate alla reciproca sopraffazione, essendo il primo connotato da rigidità e autorità, il secondo da flessibilità e libertà. La risposta che l’Autore si dà sta nella ricerca dei modi in cui il diritto moderno, a partire dalla riforma del 1975 del diritto di famiglia, ha rifiutato ogni pretesa di impadronirsi della vita sentimentale della persona ingabbiandola in regole rigorose e in categorie giuridiche tassative – come quelle di possesso, di proprietà, di credito, di adempimento, di responsabilità – per aprirsi alla valorizzazione dei diritti della persona e per tale via attrarre l’amore nella categoria dei diritti fondamentali.
In effetti negli ultimi anni il tema dei sentimenti è divenuto oggetto di un rinnovato interesse da parte della dottrina, anche sulla spinta di una chiara propensione ad estendere lo studio del diritto a profili extragiuridici. Per tale via si è cessato di chiedere se il sentimento sia configurabile come oggetto in sé di tutela, esaminando piuttosto l’incidenza della componente affettiva nella sfera dei diritti della persona.
Questo percorso di apertura dell’ordinamento ai sentimenti umani comporta la saldatura tra diritto e vita, tra diritto e amore, consentendo infine di configurare il secondo come oggetto del primo e così rintracciando nel diritto non solo la regola, ma anche la proiezione dei sentimenti.
Come sottolineano Angelo Falzea e Paolo Spaziani, in tutti i casi in cui il sentimento non esprime soltanto un atteggiamento individuale dell’anima, un’aspirazione o un desiderio personale, ma riflette un valore sociale, perché conforme al sentire dell’intera collettività nel momento dato, quel sentimento supera i confini del giuridicamente irrilevante per inserirsi nel quadro di valori recepiti dall’ordinamento giuridico e diventa un interesse meritevole di tutela.
Ciò vale a dire che in ogni caso in cui la valutazione positiva della coscienza individuale viene replicata e amplificata da una coincidente valutazione della coscienza sociale l’amore cessa di essere irrilevante per il diritto e si oggettivizza nella realtà, assumendo una dimensione collettiva che lo rende giuridicamente tutelabile, mentre nell’ipotesi opposta in cui alla valutazione individuale faccia riscontro una riprovazione sociale deve trovare tutela giuridica l’interesse contrario, volto alla repressione del sentimento disapprovato. In entrambi i casi, l’approvazione del sentimento o la sua disapprovazione sociale si traducono in norme giuridiche.
Il sentire della società si pone così a fondamento del diritto oggettivo, nella sua dimensione di diritto effettivo, intesa l’effettività come connotato essenziale della giuridicità, e il diritto d’amore si salda con il rispetto della persona umana, e specificamente della sua dignità,inserendosi tra i diritti fondamentali.
Come ci ricorda ancora Stefano Rodotà, l’amore nel farsi diritto non muta natura, ma si avvale di uno strumento che gli permette di esprimersi con pienezza nell’ambito delle relazioni giuridiche. E se il diritto rinuncia alla sua forza costrittiva, riconoscendo l’esistenza di uno spazio in cui non può entrare, esso recupera per sé una nuova fonte di legittimazione che ha radice nel rispetto delle persone, dei loro sentimenti e dunque anche del rapporto amoroso.
Nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 è scritto che tutti gli uomini sono titolari di alcuni diritti inalienabili, e tra questi la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Anche nella Costituzione francese del 1793 si richiama il valore della felicità come scopo della società. La nostra Costituzione non menziona la felicità, e anche nella giurisprudenza costituzionale e ordinaria non si trovano riferimenti alla felicità o al diritto ad essere felici, e tanto meno al diritto d’amore; e se pure è vero, come ci ricorda Massimo Recalcati, che la felicità come vita armoniosa, come stato dell’anima che esclude la sofferenza e la pena, si riduce nella realtà a mera illusione, perché la vita umana è sempre vita infranta, tuttavia la gioia e l’amore non ci sono preclusi e possono essere declinati in termini di diritti.
E invero dalla trama delle disposizioni contenute nella prima parte della Carta costituzionale, che riconosce i diritti fondamentali della persona, è agevole cogliere come il diritto alla felicità e il diritto d’amore siano trasversali a molti di tali diritti. Per questa via il diritto ad essere felici, declinato in termini di diritto d’amore, trova un riconoscimento che si proietta in ogni ambito della vita di relazione, come i vari interventi di questa sessione hanno messo in luce.
E tuttavia dobbiamo prendere atto che tale processo di espansione del diritto d’amore trova continui ostacoli nel nostro Paese in quei tanti pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni che allignano nel comune sentire e che si manifestano nel rifiuto del diverso, nel disconoscimento dei diritti fondamentali delle persone, nella negazione della libertà delle donne.
2. Gli interventi che abbiamo ascoltato nel corso della sessione offrono un affresco completo e armonico della capacità di penetrazione del sentimento amoroso in ogni settore del diritto.
La professoressa Lamarque ha sottolineato l’ineludibilità della prospettiva costituzionalistica, nonostante, come già rilevato, la nostra Carta fondamentale non parli di diritto d’amore e nonostante da qualche momento dei lavori dell’Assemblea Costituente si colgano alcune vischiosità, come nel dibattito sulla definizione dell’istituto del matrimonio, che hanno infine portato alla contestata formulazione dell’art. 29, definito da Calamandrei come un articolo che nasconde un nocciolo di ipocrisia.
L’ispirazione personalista della Costituzione trova diretta espressione nel riconoscimento dei diritti inviolabili dell’individuo, con particolare riguardo ai profili dell’eguaglianza sostanziale e al dovere di solidarietà politica, economica e sociale: il riferimento è in particolare agli artt. 2, 3, 4, 13, 27, 32, 36, 41 della Carta.
È peraltro noto che le esigenze solidaristiche sottese all’ordito costituzionale hanno ispirato infinite pronunce della Corte delle leggi, che hanno aperto la lettura della Carta fondamentale al mondo dei sentimenti, della continuità affettiva, del rispetto delle persone, offrendo soluzioni innovative e non esitando anche a modificare consolidati orientamenti alla luce dell’evoluzione della sensibilità sociale e anche della mutata funzione di taluni istituti giuridici.
Per questa via la Costituzione, vivificata dalla voce dell’Istituzione che ne è garante, con i suoi forti riferimenti alla dignità, al dovere di solidarietà, alla crescita sul piano economico e culturale di ogni persona, si offre a tutti i cittadini non solo come un manuale di convivenza, secondo la definizione di Giovanni Flick, ma come un libro aperto, come la fonte inesauribile di tutela di antichi e nuovi diritti.
E forse mai come in questo periodo è necessario evocare con forza i principi costituzionali di dignità, di eguaglianza e di solidarietà, a fronte delle ripetute offese che detti principi subiscono e dei tanti episodi che sembrano legittimare la definizione della nostra comunità come società del rancore.
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Nessun settore del diritto come il diritto di famiglia apre spazi significativi alla tutela giuridica degli affetti nella dinamica dei rapporti interpersonali.
Come ha ricordato la professoressa Bianca, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rivoluzione copernicana nella configurazione del rapporto tra amore e diritto nell’ambito familiare. Se in una non lontana stagione i fatti di sentimento che caratterizzano le relazioni familiari avevano fortemente influenzato la percezione del diritto di famiglia come un diritto alieno all’invasione del diritto, quasi al confine tra sociologia e psicologia, come un’isola che il mare del diritto poteva soltanto lambire, nei tempi attuali la dimensione affettiva ha assunto un valore centrale nella configurazione giuridica dei rapporti familiari, sino a dare legittimità a nuovi modelli di genitorialità, diversi da quelli tradizionali basati sul rapporto biologico.
Viene in primo luogo in esame il diritto del bambino ad essere amato. Se già la riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva fortemente ridotto le discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali, così che la filiazione non era più legittimata dalla sussistenza di certi requisiti formali, ma dal rapporto tra due persone generatore di una nuova vita, il legislatore del 2012 ha sancito il diritto del minore a ricevere amore dai suoi genitori, secondo la formulazione del primo comma dell’art. 315 bis c.c. (Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori). E se pure la norma non menziona esplicitamente il diritto del minore ad essere amato, non è dubbio che assistere moralmente voglia dire avere cura amorevole, assicurare vicinanza, comprensione, aiuto, conforto, ossia riversare sul minore quella carica affettiva di cui ha bisogno, soprattutto nel periodo della sua prima formazione. Il diritto all’assistenza morale si sostanzia quindi nel diritto all’amore, assunto come diritto fondamentale del fanciullo.
Lo stesso art. 315 bis c.c. nel suo secondo comma estende la tutela dell’affettività all’intera cerchia parentale, così come l’art. 337 ter c.c. riconosce al figlio il diritto di mantenere rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti di entrambi i rami nel caso di crisi dei genitori. Particolare rilevanza assume in questo contesto la figura dei nonni, prima della riforma privi di specifici strumenti di tutela in relazione al cd. diritto di visita e ora titolari, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., non solo del diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, ma anche del potere di chiedere al giudice, in caso di impedimento all’esercizio di tale diritto, i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse dei minori: ciò rende evidente l’acquisita consapevolezza del legislatore dell’importanza di tali figure nella crescita dei bambini, della ricchezza del rapporto affettivo tra nonni e nipoti e della ontologica diversità di esso rispetto a quello con i genitori, nonché della necessità di rendere effettiva la tutela di tale rapporto.
Da segnalare al riguardo la sentenza della Corte EDU 20 gennaio 2015 (Manuello e Nevi/ Italia, ric. n. 107) che ha condannato l’Italia per non essersi le autorità nazionali impegnate in maniera adeguata e sufficiente per mantenere il legame familiare del minore con i nonni e aver quindi violato il diritto di questi al rispetto della loro vita familiare, così comprendendo nella sfera dell’art. 8 della Convenzione anche la garanzia di una relazione stabile tra nonni e nipoti.
E anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea nel 2018 (sentenza 31 maggio 2018 n. C- 335/17) ha affermato che nella nozione di diritto di visita contenuta nell’art. 2 del Regolamento CE n. 2201/ 2003 va ricompreso il diritto dei nonni ad avere una regolare frequentazione con i nipoti.
La legge sull’adozione n. 184 del 1983 contiene numerosi richiami all’affettività, e quindi al diritto all’amore. L’art. 6, comma 2, dispone che gli aspiranti adottanti devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare, per tale via identificando l’idoneità ad adottare con l’idoneità affettiva, ossia con la capacità di trasmettere ai minori calore e affetto, così come l’art. 2, comma 1, postula ai fini dell’affidamento temporaneo la capacità della famiglia affidataria o della persona singola di assicurare al minore le relazioni affettive di cui ha bisogno. E ancora l’art. 8, nel far riferimento, in relazione allo stato di abbandono, alla privazione di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, individua nella carenza di affettività del nucleo di origine il presupposto dello stato di adottabilità. Infine, i nuovi commi 5 bis, 5 ter e 5 quinquies dell’art. 4 contengono disposizioni dirette a garantire la continuità delle positive relazioni affettive consolidatesi nel tempo.
È altresì da segnalare la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 2023 di inammissibilità/ rigetto delle eccezioni di incostituzionalità dell’art. 27, comma 3, della legge n. 184 nella parte in cui esclude la possibilità di valutazione in concreto dell’interesse del minore a mantenere i rapporti con la famiglia di origine: la Corte delle leggi ha ritenuto che detta recisione riguardi solo i rapporti giuridici formali, e non anche quelli socio-affettivi in fatto, così che l’interesse dei minori adottandi a continuare dette relazioni affettive con componenti del nucleo originario, degradato dal piano del diritto a quello del fatto, ma non per questo meno rilevante, non si pone in contrasto con il contestuale loro interesse ad essere conosciuti come figli di una nuova famiglia. È evidente in tale decisione il riconoscimento della fondamentale rilevanza del mondo degli affetti per la serena crescita dei minori, nel solco di una crescente attenzione alla loro identità personale, secondo una prospettiva che guarda alla continuità delle relazioni affettive.
Sempre in materia di adozione è importante richiamare la recentissima sentenza della Corte delle leggi n. 5 del 2024 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 291, primo comma, c.c. nella parte in cui non consente al giudice, nell’adozione di maggiorenni, di ridurre l’intervallo minimo di età di 18 anni tra adottante e adottato nei casi di esiguo scostamento e sempre che sussistano motivi meritevoli. In tale decisione la Corte, nel fare propria una lettura fortemente evolutiva dell’istituto, ha posto in rilievo che l’adozione di soggetti maggiorenni, divenuta strumento duttile e sensibile alle sollecitazioni della società, in cui assumono crescente rilevanza i profili personalistici accanto a quelli patrimoniali, è ora volta a suggellare legami affettivo-solidaristici che, consolidatisi nel tempo e preesistenti al riconoscimento giuridico, sono rappresentativi dell’identità dell’individuo.
E ancora, come non ricordare la sentenza n. 79 del 2022, che ha riconosciuto l’incidenza dei rapporti affettivi sull’identità personale, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 55 della legge n. 184 nella parte in cui prevede che l’adozione particolare non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante?
Infine, la possibilità dell’adozione particolare del figlio del convivente, pacificamente riconosciuta nella elaborazione giurisprudenziale, si fonda sulla esigenza di continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante e adottato.
Ed è lo stesso principio del best interest of the child, che costituisce la stella polare che illumina l’intero diritto di famiglia, a richiamare un’idea di benessere del minore strettamente legato all’accoglienza, alla cura amorevole, all’ascolto.
Per quanto concerne il rapporto tra adulti, se pure è vero che non può ravvisarsi in via generale un diritto soggettivo all’amore, va per contro considerato che nella relazione tra i coniugi il dovere sancito dall’art. 143 c.c. di assistenza morale e materiale coinvolge chiaramente la dinamica degli affetti. Il dovere previsto dalla norma richiamata è ispirato ad una reciprocità che ha il suo fondamento nel principio di eguaglianza, secondo la logica paritaria ispiratrice della riforma del 1975, finalmente preminente rispetto ai cascami proprietari e gerarchici del passato e affrancato da obblighi che sancivano diseguaglianza e discriminazione.
Coerentemente, l’attuale configurazione della separazione personale tra i coniugi quale rimedio ad una prosecuzione della convivenza divenuta intollerabile esprime a termini invertiti la visione di una convivenza matrimoniale fondata su un rapporto di cura, di assistenza e di reciproco scambio: ove tale tensione affettiva venga meno può soccorrere la separazione.
Allo stesso tempo si delinea il riconoscimento del dato di realtà che il matrimonio non è l’unico luogo in cui riconoscere spazio all’amore, perché il mondo degli affetti può svilupparsi anche fuori da quel recinto. Se in passato il diritto aveva ingabbiato l’amore nell’unico perimetro del matrimonio, rigidamente regolamentato nelle sue componenti, nelle sue finalità e nella configurazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, ora l’amore riceve legittimazione e tutela anche in altri spazi. Soccorrono al riguardo l’istituto dell’unione civile, che consente alle coppie omosessuali di liberare l’amore all’interno di una nuova categoria giuridica, superando stigmatizzazioni e discriminazioni fortemente avvertite in passato, ma ancora esistenti nel comune sentire, e quello della convivenza di fatto, che il comma 36 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016 identifica con la convivenza tra due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale: una convivenza che non può più essere intesa come uno stato transitorio, ma integra un diverso modello di famiglia in cui si dispiega la dinamica degli affetti e che nella sua stessa denominazione si contrappone a quella di diritto fondata su un riconoscimento formale.
Mettere al centro dell’ordinamento non già il vincolo matrimoniale, ma la qualità della relazione di coppia vuol dire riconoscere cittadinanza al diritto d’amore; disciplinare con la legge Cirinnà le unioni civili vuol dire affrancare in via definitiva quell’amore che non osa dire il suo nome amaramente evocato da Oscar Wilde.
È stato in questa sede ricordato che la Corte EDU fin dalla sentenza del 2010 Oliari e altri c. Italia ha operato un significativo avvicinamento tra diritti delle coppie coniugate e diritti delle coppie omosessuali, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla vita familiaredall’art. 8 della Convenzione.
L’art. 12 della CEDU e l’art. 9 della Carta di Nizza riconoscono ad ogni persona il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia, tenendo ben distinti i due diritti e al tempo stesso parificando le diverse forme di costituzione del nucleo familiare.
Non può al riguardo non farsi riferimento alla recente sentenza delle Sezioni Unite n. 35969 del 2023, che ha ritenuto la rilevanza, ai fini della determinazione della durata del rapporto in tema di assegno ai sensi dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, della convivenza di fatto precedente la formalizzazione dell’unione, in quanto espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole da equiparare al rapporto formale, quale sua coerente anticipazione.
E ancora va ricordato che con la recentissima ordinanza n. 1900 del 2024 le Sezioni Unite hanno sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis c.c. lì dove non include il convivente more uxorio tra i soggetti titolari dei diritti di mantenimento e partecipazione agli utili dell’impresa familiare.
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Per quanto attiene al rapporto tra diritto penale e diritto d’amore, sul quale si è soffermato Antonio Balsamo, è agevole constatare che nel linguaggio del legislatore penale è frequente il riferimento al mondo dei sentimenti, così da far emergere una stretta connessione tra la normativa penalistica e la dimensione affettiva. Già nel 1972 Angelo Falzea poneva l’accento sulla rilevanza della sfera delle emozioni e dei sentimenti nel sistema penale.
È immediata l’evocazione di concetti come il sentimento religioso, la pietà dei defunti, l’onore, il pudore, l’amore per gli animali, la nuova fattispecie di reato degli atti persecutori (art. 612 bis c.p.), o anche l’indicazione degli stati emotivi e passionali come non escludenti né diminuenti l’imputabilità (art. 90 c.p.), o ancora la previsione della reazione in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui come circostanza attenuante comune (art. 62 n.2 c.p.). È altrettanto immediata la riflessione che alcune di tali previsioni hanno a che fare con l’amore malato, quello che concepisce la persona amata come oggetto di possesso esclusivo, che ne comprime ogni spazio di libertà e che si esprime anche con condotte violente, fino al femminicidio.
Poi c’è il mondo della pena e dei diritti dei detenuti. Scrive in un bell’articolo di stampa Natalino Irti che la dignitas poenae è una forma di dignitas curae: vedere il reo dietro il reato vuol dire passare dall’oggettività tecnico strumentale della privazione della libertà alla soggettività del dolore.
È stata pubblicata oggi la sentenza n. 10 del 2024 della Corte Costituzionale che, in accoglimento dell’eccezione proposta nella bella ordinanza del magistrato di sorveglianza di Spoleto, ha riconosciuto il diritto all’affettività delle persone detenute, rilevando che l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive delle persone in tutte le formazioni sociali in cui esse si esprimono e che lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima, ma non può annullarla in radice. Il superamento del limite concreto entro il quale lo stato detentivo può giustificare la compressione di tale libertà è costituzionalmente ingiustificabile, in quanto si risolve in un sacrificio irragionevole della dignità della persona.
Si è inoltre fatto riferimento alla giustizia riparativa, nella sua nobile funzione di ricostruzione o costruzione di un rapporto fecondo tra autore del reato e vittima fondato sul rispetto reciproco e sull’ascolto.
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Il tema del rapporto tra amore e biodiritto, affidato a Roberto Conti, apre spazi sconfinati alla riflessione su amore e nuove forme di genitorialità, su amore e diritto a non soffrire, su amore e fine della vita. Attraverso il richiamo al concetto di mobilità la prospettiva si allarga alla disciplina vigente in altri ordinamenti e alle problematiche che dalle differenti normative possono scaturire, nonché alle giurisprudenze straniere al riguardo, che hanno progressivamente assunto un’importanza decisiva sul piano interno nella configurazione di diritti e di strumenti di tutela.
E invero il metodo comparatistico costituisce da tempo un fondamentale criterio ermeneutico per interpretare, adattare e completare il diritto interno, specie quando questo appaia poco chiaro o lacunoso. L’apertura al diritto internazionale e sovranazionale consente infatti di utilizzare la comparazione come strumento di ridefinizione di istituti di diritto nazionale, tanto più ove siano in discussione diritti fondamentali e valori di dimensione universale.
Per questa via la giurisdizione si apre a fenomeni regolati in altri ordinamenti e non disciplinati dal nostro: si tratta allora di verificare se la normativa straniera o ultranazionale possa trovare applicazione o debba essere impedita nell’ordinamento interno, se i provvedimenti adottati fuori del sistema nazionale possano essere riconosciuti o debbano essere respinti nel nostro Paese. Si tratta al tempo stesso di verificare se la disciplina interna sia conforme al complesso di valori che attingono dalla Costituzione e dalle Carte dei diritti fondamentali.
Il pensiero va alle pratiche di fecondazione assistita e al fenomeno della gestazione per altri, alla possibilità di configurare nel nostro ordinamento il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Il relatore ha ancora ricordato quanto ha a che fare con l’amore il ruolo dei familiari nella scelta o nel rifiuto delle cure mediche e il diritto del malato a non soffrire, inteso il dolore come malattia in sé e come attentato alla sua dignità.
E ancora vi è la delicatissima materia del suicidio assistito, che chiama in causa i sentimenti del soggetto infermo e di chi lo assiste, in nome di una solidarietà che esige comprensione, vicinanza, condivisione, empatia.
È notizia dell’altro ieri che il gip del Tribunale di Firenze, nella persistente latitanza del legislatore, pur sollecitato più volte dalla Corte costituzionale, ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui prevede, a seguito della sentenza della stessa Corte n. 242 del 2019, che la non punibilità di chi agevola il suicidio sia subordinata, tra l’altro, alla condizione dell’essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale. La Corte delle leggi sarà quindi chiamata a tornare su se stessa, valutando la legittimità costituzionale di una norma modificata dalla stessa Corte in una precedente sentenza, appunto per supplire all’assenza del Parlamento.
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Il tema del rapporto tra diritto d’amore, convivenza e amicizia ha riguardato le convivenze caratterizzate da legami diversi da quelli tradizionali, fondate sull’amicizia e sulla solidarietà. Il professor Morozzo della Rocca ha illustrato il fenomeno delle convivenze solidali, previste dalla legge catalana, e ne ha evidenziato le forti potenzialità, con particolare riguardo alle esigenze delle persone anziane, in quanto praticate con maggiore frequenza da tale fascia di popolazione. Si tratta di forme di convivenza stabile caratterizzate da spontaneità, e quindi non fondate su rapporti di servizio o di lavoro, che non realizzano una famiglia né una parafamiglia, ma si risolvono in mere formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità degli individui.
I gravi problemi connessi all’invecchiamento della società italiana e le criticità del nostro sistema di welfare hanno indotto anche nel nostro Paese varie organizzazioni a promuovere e sperimentare tale modello di convivenza, allo scopo non solo di alleviare difficoltà economiche, ma anche di superare problemi di solitudine e trovare nuovi spazi di convivialità.
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Quanto infine al rapporto tra diritto d’amore e diritto processuale civile, il professor Danovi ha posto in evidenza l’apparente dicotomia e inconciliabilità tra le due tematiche, stante la rigidità delle forme che regolano il processo, ma ha osservato che tale dicotomia è solo apparente, atteso che anche nel processo si aprono spazi alla sfera dei sentimenti e dell’emotività, occupandosi pure il processo dell’amore e delle sue patologie sia nel suo svolgimento sia nella decisione finale.
Il richiamo è ai poteri anche officiosi del giudice in materia di scelte di fine vita, di tutela dei minori e degli incapaci, di affidamento dei figli nei casi di separazione e divorzio, o ancora di scelta dell’amministratore di sostegno e di definizione dei suoi poteri. Appare più in generale legittimo il riferimento alla materia della volontaria giurisdizione, nella sua funzione non già di risoluzione di conflitti, ma di composizione di interessi: e invero l’intervento di un giudice, soggetto terzo e imparziale, che collabora con le parti per la costituzione di un rapporto giuridico, specie ove si tratti di decisioni incidenti sullo stato delle persone, deve rivolgersi a soluzioni attente anche alla tutela dei sentimenti.
E ancora viene in gioco il ruolo del pubblico ministero nel processo civile, portatore di interessi diversi da quelli in conflitto delle parti.
Il relatore ha inoltre evocato la disciplina dell’ascolto del minore, che deve in ogni caso essere condotto nel segno del rispetto e in modo da evitare una sovraesposizione emotiva del fanciullo, nonché il ruolo del curatore (speciale e non) del minore nella recente riforma Cartabia.
È importante anche il richiamo alla nuova negoziazione assistita in materia familiare, che ha aperto spazi in passato inimmaginabili all’autonomia delle parti, promuovendo una cultura e una gestione della crisi familiare fondata non più sul conflitto, ma sulla composizione degli interessi e sul contemperamento delle diverse esigenze affettive.
In questa chiave di lettura della dinamica processuale il relatore ha conclusivamente e forse provocatoriamente stimolato ad intendere finanche il contraddittorio come atto d’amore, in quanto proposizione di tesi contrapposte nel segno del rispetto e dell’ascolto.
3. Dunque tanti spunti di riflessione, che muovendo da punti di partenza diversi ed evidenziando i molteplici momenti di emersione dell’amore rispetto al diritto, hanno posto il diritto d’amore come elemento unificante del sistema, restituendo alla sfera dei sentimenti, attraverso la forza di un pensiero che mai si accontenta (Paul Hazard), spazi sterminati di rilevanza.
(Immagine: Agostino Carracci, Omnia Vincit Amor, incisione, 1599, Metropolitan Museum of Art)
Qualche annotazione comparata sulla pronuncia di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione nel primo caso di Climate Change Litigation in Italia
(in nota a Trib. Roma 6 marzo 2024)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. Introduzione. – 2. Due osservazioni su contenzioso climatico e i suoi effetti. – 3. Il precedente “Urgenda” e la responsabilità civile dello Stato per fatto illecito. 3.1. Fatto illecito e violazione dei diritti umani. – 4. “Urgenda”, “Juliana”, e la soluzione alla “questione politica”. – 4.1. – Un breve appunto critico. - 5. La vicenda italiana. Le argomentazioni degli attori. – 5.1. (Segue). Responsabilità del custode e “Public Trust Doctrine”. – 6. Insindacabilità della questione e difetto assoluto (e relativo) di giurisdizione.
1. Introduzione
Con sentenza pubblicata il 6 marzo 2024, il Tribunale di Roma, seconda sez. civ., ha dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il cd. “Giudizio Universale”, il primo - ma non l’unico - caso di contenzioso climatico (Climate Change Litigation) in Italia[1].
Il 5 giugno 2021, gli attori – tra i molti, l’associazione “A Sud Ecologia e Cooperazione OdV” – hanno citato in giudizio lo Stato italiano – per esso, la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio – mediante un’azione, in via principale, di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. (e in via subordinata ad altri titoli), per l’inerzia di questo nell’affrontare adeguatamente a livello politico-normativo generale il problema del cambiamento climatico. In particolare, le associazioni lamentavano, tra le altre cose, l’insufficienza, alla luce di tutto un vasto contesto giuridico sovranazionale e scientifico, del “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030” (cd. P.N.I.E.C., atto ministeriale e quindi di livello infra-legislativo). Secondo gli attori, questa programmazione comporterebbe una riduzione del 36 per cento delle emissioni generali di gas ad effetto serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, una percentuale considerata inadeguata per far fronte dell’emergenza. Veniva quindi chiesto al Tribunale (a) di dichiarare lo Stato responsabile civilmente a causa dall’inerzia nell’adottare obiettivi climatici più ambiziosi e «per l’effetto» (b) condannarlo a titolo di risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 c.c.) a adottare ogni misura necessaria per la riduzione del 92 per cento delle emissioni annuali entro il 2030.
L’Avvocatura Generale dello Stato ha eccepito per prima cosa il difetto assoluto di giurisdizione per essere la questione, così come formulata, riservata all’esclusiva gestione del potere politico. Il Tribunale, esaminata subito (in quanto logicamente pregiudiziale) questa eccezione di rito, la accoglie e, senza entrare nel merito delle pretese, pronuncia ex art. 37 c.p.c. il difetto assoluto di giurisdizione in relazione alla domanda risarcitoria, per non essere questa conoscibile da alcun giudice (pronuncia alla quale si accompagna quella del difetto relativo di giurisdizione, in ordine al solo ed eventuale sindacato di legittimità del P.N.I.E.C., per essere questa valutazione, nei termini indicati dal Tribunale, devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo).
2. Due osservazioni su contenzioso climatico e i suoi effetti
L’iniziativa processuale si inserisce nella già consolidata corrente globale della Climate Change Litigation, fenomeno di sempre maggior centralità nell’attuale governance internazionale ed europea di contrasto al cambiamento climatico[2]. In particolare, il caso italiano si innesta in quel numeroso insieme di processi civili intentati contro gli Stati – distinti da quelli intentati contro le imprese, soprattutto contro le cd. Carbon Majors, i grandi inquinatori del pianeta, ma anche, secondo sviluppi emergenti, contro istituti di credito[3] - con il fine di far dichiarare la loro responsabilità nella contribuzione al cambiamento climatico e ottenere una condanna specifica a un taglio delle emissioni (o a uno stop degli investimenti in imprese fortemente inquinanti, nel caso del contenzioso contro banche).
Questa tendenza nasce dalla sconsolata presa d’atto della incapacità, mancanza di volontà, o impotenza del potere politico nel prendere, e soprattutto tradurre in pratica, drastiche e immediate misure per mitigare l’aumento globale delle temperature. Ricorrere al potere giudiziario è quindi una strategia, che unisce scopi giuridici diretti e fini politici (nel senso di policy) indiretti, per vincere l’inazione dei soggetti – Stati o imprese - che più sono responsabili dell’immissione di gas climalteranti nell’atmosfera terrestre.
A questo proposito, mia siano consentite due riflessioni dal carattere generale:
(1) Da un punto di vista giuridico, il fenomeno induce a riflettere in maniera critica sulla misura e i limiti in cui il potere giurisdizionale può prendere decisioni che incidono su questioni che sono, a causa della rosa di interessi coinvolti e conseguenze a cascata, naturaliter politiche (o economico-imprenditoriali, nel caso del contenzioso contro imprese), i cui effetti possono non tener adeguatamente conto delle ricadute di sistema, e che pur ritengo siano importanti da calcolare. L’attività di risoluzione di un conflitto mediante l’applicazione del diritto a determinati fatti – ossia, ciò che una corte fa – ha per definizione un raggio di azione più circoscritto rispetto alla decisione politica. I confini del giudice sono quelli del caso ed egli non può (nel senso che non è attrezzato istituzionalmente) né comporre politicamente gli interessi in gioco né porsi il problema delle ripercussioni della propria decisione su altre sfere sociali.
Questa osservazione critica è acuita dalla vicenda in commento, data l’altissima percentuale di riduzione delle immissioni richiesta dagli attori e la brevità del periodo di azione (un taglio del 92 per cento annuale rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030), anche se la concreta percentuale in sé non è comunque il punto centrale. A prescindere dal tema – che pure considero d’importanza capitale - della legittimazione democratica delle decisioni concernenti le policies ambientali, l’ipotetico accoglimento da parte del potere giudiziario della domanda avrebbe posto con tutta l’evidenza possibile le questioni (a) della fattibilità pratica, dalla prospettiva tecnico-politica, del rispetto degli ordini giudiziali di riduzione secondo determinate percentuali delle emissioni (fattibilità della quale, nel caso italiano, è lecito dubitare), e quindi (b) della concreta coercibilità di tali obblighi, soprattutto quando il destinatario è lo Stato e questo si dimostri inadempiente (coercibilità della quale mi sembra parimenti lecito dubitare[4]), e (c) della valutazione, da parte delle corti stesse, della bontà, effettività ed efficacia delle misure messe in campo ai fini dell’adempimento. Tutti questi aspetti a me paiono assolutamente cruciali se vogliamo collocare la discussione su un piano giuridico e mi suggeriscono l’adozione di un mix di cautela e realismo nelle valutazioni.
(2) Quanto appena detto prescinde del tutto dagli effetti extragiuridici del contenzioso climatico cd. “strategico” (strategic litigation). Questi effetti di sensibilizzazione e mobilitazione dell’opinione pubblica, che si ottengono anche in caso di sconfitta, sono anzi spesso ricercati dai ricorrenti in via prioritaria[5]. Ci troviamo quindi di fronte a una funzione – che anch’essa può e deve essere pensata criticamente sine ira et studio - dello strumento processuale civile come pungolo e segnalazione, essenzialmente nei confronti del potere politico, di una sofferenza nel corpo sociale che deve essere affrontata con tutta la serietà possibile[6].
3. Il precedente “Urgenda” e la responsabilità civile dello Stato per fatto illecito
Nonostante siano presenti alcune differenze, il precedente immediato e naturale per il caso che qui si commenta è la celeberrima vicenda “Urgenda vs. Paesi Bassi”, ricordata, seppur velocemente, anche nella motivazione della sentenza italiana (il che indica, tra parentesi, un “dialogo transnazionale tra corti”, la presenza di una community of courts – quanto meno European - su molti temi comuni, tra questi sicuramente quello del cambiamento climatico). Il “Santo Graal” - come è stato definito - di tutte le iniziative processual-climatiche successive[7].
Non è possibile qui esaminare a fondo il caso “Urgenda” nelle sue innumerevoli implicazioni teorico-giuridiche, politiche, economiche. Vorrei limitarmi qui a metterne in luce un punto cruciale, che è in comune con la controversia italiana, e cioè che gli attori olandesi che hanno adito il giudice ordinario lo hanno fatto con il proposito di ottenere in primo luogo una condanna civile dello Stato olandese a fare di più, ad essere più ambizioso a livello normativo, secondo le regole generali che disciplinano la responsabilità civile extracontrattuale. Salvo quanto dirò più avanti sul ruolo giocato dai diritti umani (v. in questo Par., in fine), gli attori olandesi non hanno tanto inteso asserire l’illegittimità della normativa interna per contrarietà alla Costituzione o per contrarietà a impegni cogenti assunti dallo Stato sul piano internazionale, ma in primis l’antigiuridicità dell’ “inerzia normativa” dal punto di vista del diritto privato. Questo è un elemento importante da sottolineare: nella climate change litigation, sia contro Stati sia contro imprese, spesso il diritto privato è utilizzato strumentalmente come “meccanismo regolatorio” per provocare un cambiamento nelle politiche pubbliche o aziendali, valevoli a larga scala[8].
Nel dettaglio, Urgenda et al. hanno citato in giudizio lo Stato sul presupposto che omettere di fortificare, intensificare gli obiettivi della legislazione vigente contro il cambiamento climatico fosse un comportamento contrario all’art. 162 del Libro 6° del Codice civile olandese – il corrispettivo del nostro art. 2043 c.c. – il quale stabilisce, in via generalissima e valevole per tutti i soggetti dell’ordinamento (Stato compreso) che colui che causa con colpa ad altri un danno ingiusto deve ripararlo (e quindi, ovviamente e in prima battuta, deve smettere di causarlo; cd. inibitoria)[9]. La sentenza di primo grado del Tribunale de L’Aja, che ha dato ragione agli attori, per esprimere quest’obbligazione civile dello Stato di non (continuare a) causare danni ingiusti attraverso una legislazione considerata troppo morbida, fa riferimento più volte al “duty of care”, un concetto che in origine appartiene alle categorie tradizionali della responsabilità civile per colpa (tort of negligence) dei Paesi di common law, ma che ha assunto, nel linguaggio giuridico globale, una valenza più generica e universale. Semplificando: con duty of care non s’intende null’altro che quel “dovere di cura” – “dovere di attenzione”, potremmo anche dire - che tutti i soggetti dell’ordinamento, incluso lo Stato, si devono gli uni agli altri reciprocamente (cd. principio del neminem o alterum non laedere)[10]. Tale dovere richiede che in tutte le attività intraprese ci si conformi a certi standard di condotta ragionevoli, anche al di là degli stretti obblighi di legge, e il cui mancato rispetto può dar luogo a responsabilità nel caso in cui si provochi un danno ingiusto. Nelle categorie di civil law e nel linguaggio del giurista italiano tutto questo ragionamento entra a comporre la nozione di colpa, per cui affermiamo che è colpevole (nel senso di non diligente, negligente) l’azione di quel soggetto che, pur sapendo (o dovendo sapere) che il proprio agire non rispetta certi standard di condotta comunemente accettati dalla propria comunità di appartenenza (pratiche consolidate, buone norme, direttive, regole soft, le migliori indicazioni tecnico-scientifiche, indirizzi condivisi, e via discorrendo), ebbene, nonostante ciò continui a porre in essere il comportamento. La citata disposizione del Codice civile olandese esprime tutto ciò richiamandosi al rispetto delle “rules of unwritten law” («ongeschreven recht», art. 6:162, comma 2), quelle regole non scritte alle quali ognuno deve adeguarsi, se vuole esser esente da colpa[11].
La sentenza di primo grado (24 giugno 2015) accettò questa lettura[12]. I Paesi Bassi, continuando ad avere una legislazione poco ambiziosa, non in linea con gli obiettivi di contenimento delle temperature ricercati negli accordi internazionali e in disarmonia con le indicazioni scientifiche (atti che – si noti - sono in gran parte, o nella loro totalità, di soft law), stanno causando – o causeranno irreversibilmente – con colpa un danno ingiusto, quantomeno ai propri residenti. Danno ingiusto perché va a vulnerare quel diritto fondamentale a vivere in un “clima stabile” o in un clima “compatibile con una buona vita umana”[13]. Lo Stato sarebbe venuto meno al suo duty of care. È negligente perché non ha conformato la propria azione legislativa a quello “standard non scritto” di diligenza normativa, quando invece avrebbe dovuto farlo. La sua è una “colpa omissiva”. Ma come si è dato contenuto a questo “standard non scritto”? Attraverso la Costituzione olandese, gli artt. 2 e 8 della C.E.D.U. (v. anche infra), la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e i principi che ne formano parte, gli Accordi di Parigi, e soprattutto attraverso i reports scientifici dell’IPCC. Tutta questa mole di atti e documenti, dalla natura tra loro diversissima, hanno avuto un ruolo per così dire “determinativo”, nel senso che riempiono e danno contenuto effettivo e tangibile all’altrimenti indefinibile requisito del “dovere di cura”. Il loro effetto - nel ragionamento del Tribunale di primo grado de L’Aja - è quindi indiretto, mediato, giacché definiscono la doverosità dell’azione entrando attraverso la porta lasciata aperta dalla disposizione general-generica del principio del neminem laedere (si potrebbe anche dire che ciò che è soft è divenuto hard attraverso la clausola generale della responsabilità civile).
Alla luce di tutto ciò, il Tribunale di primo grado ha condannato con sentenza immediatamente esecutiva lo Stato a diminuire (un facere infungibile) le emissioni annuali di gas climalteranti all’interno dei propri confini di una percentuale fissata dai giudici del 25 per centro entro il 2020 e del 40 per cento entro il 2030 (considerati un “fair share”), valori maggiori di quelli che la legislazione del Paese aveva sovranamente fissato.
3.1. (Segue). Fatto illecito e violazione dei diritti umani
È noto che la sentenza è stata poi confermata sia in secondo grado (9 ottobre 2018) sia dal Tribunale Supremo (20 dicembre 2019), ma con una piega argomentativa differente, che merita essere ben enfatizzata[14]. Pur riconoscendo in via del tutto generale l’esistenza di un “dovere di cura”, fondato sulle categorie civilistiche, dello Stato verso i propri cittadini, le Corti di secondo e ultimo grado hanno giustificato la condanna sulla base prioritaria della violazione diretta da parte dei Paesi Bassi dei diritti umani riconosciuti dalla C.E.D.U. (ragionamento che invece il giudice di prime cure aveva escluso), e concretamente l’art. 2 (“diritto alla vita”) e l’art. 8 (“diritto alla vita privata e famigliare”), senza dilungarsi sulla configurabilità o meno di un tort da parte dello Stato. Vi è stato pertanto un passaggio dal tort ai human rights[15]. È quest’ultima base – ritengo – quella destinata ad aver maggior peso e successo nelle iniziative future di climate litigation, soprattutto contro gli Stati. Su questo preciso punto di diritto, infatti, si è recentissimamente espressa a favore la Corte E.D.U. (Grand Chamber) nel caso KlimaSeniorinnen vs. Switzerland, riconoscendo la violazione diretta dell’art. 8 della Convenzione (“diritto alla vita privata e famigliare”) nel comportamento dello Stato svizzero irrispettoso degli obblighi climatici di mitigazione[16]. La vicenda merita un approfondimento a parte, ma è indubbio fin da ora che l’argomentazione basata sulla violazione diretta di un diritto umano (human-right based) avrà una preminenza speciale.
4. “Urgenda”, “Juliana” e la soluzione alla “questione politica”
Si intuisce come questi processi pongano tutta una serie di difficoltà di “traducibilità” del fenomeno del cambiamento climatico nelle categorie tipiche del diritto privato (diritto soggettivo, ingiustizia del danno, colpa, nesso causale) e, di riflesso, del diritto processuale civile (legittimazione attiva e passiva, prova, mezzi di coazione del comportamento), con le quali i giuristi di molte giurisdizioni e latitudini sono soliti lavorare. Difficoltà che certo non sono insuperabili e anzi devono esserlo (sono dell’opinione che è il diritto che deve adattarsi ai bisogni che di volta in volta sorgono nel corpo sociale, e non viceversa; è il diritto al servizio della vita, non la vita a servizio del primo), ma che non possono nemmeno essere liquidati come cavillosi nonsense[17].
A monte, però, l’elemento giuridico-politico di maggior peso nel caso “Urgenda” è un altro, e che è risultato dirimente anche nella decisione italiana, almeno per ora. È legittimamente pronunciabile da parte di una corte (ordinaria) una condanna dello Stato a fare di più, ad avere una legislazione più ambiziosa, con l’indicazione di precise percentuali di raggiungimento, oppure un tale ordine sconfina nell’attività politica in senso stretto? E come si può tentare di tracciare (con quali criteri) il discrimine, che è certo mobile, non nitido, tra ambito della decisione politica (creazione di diritto) e ambito della decisione giurisdizionale (applicazione di diritto), tra legittimo dominio della legislation e legittimo dominio dell’adjudication?
A questo proposito, sempre nell’ottica di un contributo comparato, davvero interessante sarebbe anche la lettura dell’altro leading case, ancora pendente negli Stati Uniti, che ha posto con forza questo tema dei limiti del controllo giurisdizionale sulle politiche energetiche di uno Stato (in quel caso, dell’amministrazione federale) alla luce dell’emergenza climatica. Mi riferisco alla saga Juliana vs. United States[18]. Non è questa la sede per addentrarci negli infiniti rivoli di una battaglia processuale complessissima e dal percorso tutt’altro che lineare. Mi basta qui solo rilevare come il problema del se questa questione sia riservata al potere politico o no - cd. “political question doctrine” – è ancora in questo momento il principale terreno di scontro. In un primo tempo, la corte federale di primo grado (Stato dell’Oregon) aveva deciso per il no (cioè: la questione non è inerentemente ed esclusivamente politica e quindi può essere decisa da un giudice); in seguito la corte d’appello federale (Ninth Circuit) ha ribaltato la decisione e propeso, con una maggioranza di due a uno, per il sì (ossia: il processo deve fermarsi per “difetto assoluto di giurisdizione”); infine di nuovo la corte di primo grado ha ribadito il proprio no, quando gli attori, nel frattempo, si sono limitati a chiedere un provvedimento meramente dichiarativo (declaratory judgment) dell’illiceità delle politiche, e non anche una vera e reale condanna dello Stato alla revisione dei piani energetici, come invece era stato chiesto all’inizio (una differenza non da poco).
Torniamo al più vicino caso Urgenda. Il governo olandese ha reiterato l’eccezione di “politicità” della questione in tutti e tre i gradi di giudizio. Secondo questo, un’eventuale decisione condannatoria nei confronti dello Stato, da parte di un giudice, al raggiungimento di certi obiettivi climatici precisi, anche senza l’indicazione dei mezzi per conquistarli, si porrebbe in contrasto con il principio della separazione dei poteri (o principio dei “trias politica”, come dice la Corte), pilastro dei moderni regimi democratici.
Vale la pena leggere le argomentazioni con le quali i giudici olandesi si sono liberati di questa eccezione[19]. Nella sentenza del Tribunale di primo grado (Sez. E, punto 4.95) si legge testualmente che nei Paesi Bassi non vi è una “totale separazione” (“full separation”; “volledige scheiding”) tra i poteri dello Stato, in questo caso esecutivo e giudiziario. La distribuzione delle funzioni tra questi è piuttosto orientata a ottenere un “bilanciamento” (“balance”; “evenwicht”), di modo che nessuno dei tre assuma una primazia sopra gli altri. Ciascuno quindi ha una propria area di doveri e responsabilità. Rientra tra le funzioni del potere giudiziario, talvolta sotto forma potere, talaltra di dovere, valutare le azioni della politica, sotto il profilo della loro “legalità” (“lawfulness”; “rechtmatigheidsoordeel”). Questo controllo – prosegue il Tribunale – non è un controllo politico, ma deve limitarsi all’“applicazione del diritto” (“application of law”; “de toepassing van het recht”). Ciò comporta che le corti devono esercitare “grande cautela”, “grande moderazione” (“great caution”; “grote terughoudendheid”) quando si tratta di decisioni che implicano anche considerazioni d’ordine politico (“policy-related questions”; “beleidsmatige afwegingen”), che si riflettono, cioè, su una molteplicità d’interessi e sulla “struttura e organizzazione della società”. Detto ciò (punto 4.98), la Corte conclude che la controversia presentata all’attenzione è decidibile.
Qui vediamo che il Tribunale introduce una distinzione sfuggentissima – che è poi anche centrale nel caso “Juliana” – tra questioni che probabilmente, o anzi di sicuro, avranno una ricaduta politica (il che non impedisce a una corte di deciderle) e questioni che sono soltanto, o inerentemente, politiche (espressione d’indirizzo politico; in “Juliana” si fa l’esempio della scelta di uno Stato di entrare in guerra). Secondo il Tribunale dell’Aja rientrerebbero tra queste (punto 4.101) solo le concrete determinazioni di comeraggiungere il risultato finale giudizialmente obbligato, ma non l’obiettivo finale di riduzione. Lo Stato – precisa il provvedimento, prima di pronunciare la condanna definitiva – avrà quindi assoluta libertà (“full freedom”; “de volle… vrijheid”) di portare aventi le misure legislative che meglio crede. Soltanto in questo spazio può muoversi la libertà del potere politico e solo in questa auto-limitazione dei giudici si manifesta quella “moderazione” (“terughoudendheid”) della Corte nell’esercizio dei poteri affidati dalla legge.
4.1. (Segue). Un breve appunto critico
Questa parte della motivazione è senza dubbio molto ben argomentata, ma lungi dall’essere esente da problemi nella sostanza.
Innanzitutto, è del tutto evidente la porosità della demarcazione tra temi che hanno anche ricadute politiche e temi che sono soltanto politici. Credo che pochi negherebbero la presenza di una componente fortemente discrezionale nel delineare questa linea di confine. Di certo ciò non scandalizza coloro che adottano un approccio realista. Ciò però comporta – e dirlo con chiarezza non mi sembra affatto banale - che esista una zona grigia di potere che gli organi giurisdizionali possono occupare, oppure no, la quale non è determinabile con criteri oggettivi (i.e., puramente giuridici). Non si nega che esista una differenza tra ambito legittimo della decisione giudiziale e un (ristretto) ambito politico insindacabile; anzi, nella maggior parte dei casi questo dilemma non si pone nemmeno, perché risulta chiaro dove una certa questione si posiziona. Qui invece si afferma, realisticamente, che vi sono alcuni casi difficili, hard cases – come quello in esame - dove la distinzione in parola è il prodotto di argomentazioni, più o meno buone, di circostanze storiche, di fattori contingenti e sociali o, nel peggiore dei casi, di un braccio di ferro tra poteri (debolezza dell’uno, forza dell’altro). In ogni caso, la linea è mutevole.
Di conseguenza, va problematizzata anche la distinzione, fatta propria dalla decisione Urgenda, tra pronuncia di un ordine finale relativo all’ottenimento di certe percentuali molto precise di riduzione delle emissioni (“ambito legittimo del potere giudiziario”) e le concrete modalità politico-legislative di raggiungimento delle stesse (“ambito legittimo del potere politico”). Tant’è che sia la Corte d’appello federale statunitense (Ninth Circuit) nel caso “Juliana”[20] sia anche, in Europa, il Tribunale di primo grado di Bruxelles nella vicenda analoga a Urgenda, ossia “Klimatzaak vs. Regno del Belgio” (17 giugno 2021)[21] hanno considerato non pronunciabili vere e proprie condanne in forma specifica nei confronti dello Stato, per sconfinamento in attività legislativa (anche se, in quest’ultimo caso, la Corte d’Appello di Bruxelles ha di recente ribaltato la decisione e emesso un provvedimento condannatorio[22]). Ha scritto la Corte d’Appello Federale nel caso Juliana che «it is beyond the power of a […] court to order, design, supervise, or implement the plaintiffs’ requested remedial plan», dato che «any effective plan would necessarily require a host of complex policy decisions entrusted, for better or worse, to the wisdom and discretion of the executive and legislative branches». Anche soltanto la fissazione di un obiettivo finale di riduzione «plainly require consideration of “competing social, political, and economic forces,” which must be made by the People’s elected representatives, rather than by federal judges interpreting the basic charter of Government for the entire country» (p. 25)[23]. Chi ha ragione? Da parte mia, arduo mi pare non vedere la componente valutativa, di scelta, di compromesso (e quindi politica) nella difficile determinazione delle percentuali, ma soltanto quella tecnico-scientifica, come se quest’ultima si presentasse come del tutto oggettivizzata nei dati.
5. La vicenda italiana. Le argomentazioni degli attori
Guardiamo ora il caso italiano. Lo Stato, esattamente come nel caso “Urgenda”, viene chiamato in giudizio sulla base principale dell’art. 2043 c.c., norma di diritto privato (cfr. Par. VI, att. cit.[24]). L’inerzia (normativa, legislativa, esecutiva) dell’Italia sarebbe foriera di un danno ingiusto, in quanto idonea di per sé a ledere, già da ora o comunque in un futuro ravvicinatissimo, un diritto fondamentale e personale tutelato quantomeno implicitamente a livello costituzionale e sovranazionale (il “diritto a vivere in un clima stabile e compatibile con la vita umana”); cosicché il potere pubblico sarebbe tenuto fin da subito a impedirne l’imminente e potenzialmente irreversibile accadimento. Dall’atto di citazione emerge che l’omissione dello Stato è considerata colposa nel senso in cui ci siamo già dilungati precedentemente: nonostante vi sia, da parte della autorità pubbliche, «piena conoscenza e assoluta consapevolezza» (VI.11, att. cit.) della gravità del fenomeno e di quello che sarebbe richiesto per evitare il danno, le misure necessarie non verrebbero ancora messe a regime. Queste sono ricavate da tutta la serie materiali internazionali ed europei enumerati nella prima parte della domanda (ancora una volta: la UNFCCC, gli Accordi di Parigi, i Reports dell’IPCC; v. IV.2), oltre, più in generale, alle acquisizioni scientifiche della comunità. A parere degli attori è soprattutto il non essersi conformato a queste ultime che va inteso come sintomo e manifestazione della negligenza dello Stato, idonea a fondare la sua responsabilità civile. Sarebbe un’applicazione della cd. “riserva di scienza” (VI.11), quale limite alla discrezionalità per il potere pubblico[25]. Come in “Urgenda”, tutto questo corpus politico-tecnico-scientifico entra a individualizzare la colpa, ex art. 2043 c.c., nell’omissione dello Stato.
Capiamo che gli attori hanno quindi inteso contestare l’intera politica energetica e ambientale italiana, vista nella sua generalità. Questa poi essenzialmente si esprime nei documenti programmatici del potere esecutivo, soprattutto il “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima” (P.N.I.E.C., v. infra), atto congiunto ministeriale di programmazione, peraltro in questo momento in fase di aggiornamento. Secondo le valutazioni tecnico-scientifiche di Climate Analytics (una istituzione no-profit tedesca) allegate dagli attori (ma contestate dallo Stato convenuto), le misure contenute nel Piano porterebbero a una diminuzione solo del 36 per cento delle immissioni annuali, rispetto ai valori del 1990[26]. Gli attori, invece, richiedevano una diminuzione in una percentuale del 92 per cento «ovvero in quell’altra, maggiore o minore, in corso di causa accertanda». Evidenziamo che, invece, nessuna percentuale specifica era stata richiesta dai ricorrenti olandesi.
5.1. (Segue). Responsabilità del custode e “Public Trust Doctrine”
Una menzione merita il fatto che gli attori, in subordine, hanno argomentato la responsabilità dello Stato anche a un diverso titolo, ossia quello della responsabilità del custode per le «cose» che ha in custodia, exart. 2051 c.c. (tipico esempio, nel nostro ordinamento, di responsabilità oggettiva), cfr. VI.13, att. cit. Se ben colgo, il ragionamento è questo: la cosa custodita (in questa particolare accezione, l’atmosfera, il clima terrestre) è sul punto di causare un danno agli esseri umani (una violazione al diritto a vivere in un clima stabile); pertanto, se ne ricava che è responsabilità del custode (qui, lo Stato, colui che ha in custodia il clima, che ha ed esercita una disponibilità materiale su di esso) fare tutto ciò che è scientificamente possibile per impedire la materializzazione – imminente e certa, ancorché futura – del danno (salvo la prova del caso fortuito). Dall’art. 2051 c.c. viene desunto quindi un obbligo di prendersi cura della cosa, a beneficio di coloro che potrebbero venirne danneggiati. In questa custodia della “cosa-clima” sarebbe poi implicito anche un successivo “dovere di consegna” di questa alle generazioni future (VI.17, att. cit.).
Questo argomento non occupa la stessa centralità di quello dell’art. 2043 c.c. nel contesto della lite. Penso però sia importante citarlo perché, pur “creativo”, non è peregrino, giacché richiama alla mente – per accostamento – una dottrina spesso impiegata nelle iniziative di Climate Change Litigation negli Stati Uniti, e cioè quella della “public trust”. Questa dottrina è stata centrale, tra gli altri, nel caso statunitense “Juliana” a cui ho fatto riferimento poco fa ed è servita come colonna argomentativa nel provvedimento in cui la giudice federale di primo grado, Ann Aiken, nel 2016, ha ricavato un diritto al clima a partire dalla Costituzione americana[27]. In base a questa ricostruzione del common law, lo Stato sarebbe l’af-fidatario(il paradigma è quello fiducia, della consegna fiduciaria) e il gestore di certe risorse naturali essenziali, per conto non solo delle generazioni presenti, ma anche di quelle future. Il modello è quello del trust: lo Stato (l’amministrazione pubblica) deve agire come un trustee, che amministra i beni in suo possesso a beneficio della popolazione presente e di quella a venire (i settlors e i beneficiaries del trust, nella metafora), con lealtà, prudenza e saggezza, a maggior ragione in riferimento a quei “beni pubblici globali” (global commons, quali l’atmosfera) che non possono essere affidati alla governance privata[28].
La dottrina è elegante ed affascinante. Ma a patto di prestare attenzione ai rischi di semplificazioni eccessive, sempre insiti nelle metafore accattivanti, che possono far perdere di vista tutti gli scogli (d’ordine pratico, politico, tecnico, amministrativo), i vincoli (di tempo, di denaro) e le molteplici stratificazioni di competenze nella difficilissima arte dell’amministrazione della cosa pubblica.
6. Insindacabilità della questione e difetto assoluto (e relativo) di giurisdizione
Il Tribunale di Roma ha ravvisato il difetto assoluto di giurisdizione in relazione alla pretesa risarcitoria generale, accogliendo l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la richiesta così come costruita (cioè: illiceità della “scarsa ambizione normativa” perché lesiva di un diritto soggettivo a un clima stabile) implica per forza una valutazione d’ordine politico-legislativo, in quanto tale riservata, appunto, ai poteri esecutivo o legislativo. L’effetto empirico di questo giudizio – desume il Tribunale di Roma - si tradurrebbe in pratica in un ordine di legiferare in una determinata maniera, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. In effetti questa deduzione non si può negare. Né, nella sostanza, lo avevano negato le corti olandesi: solo che quelle, come abbiamo visto, avevano fatto rientrare la fissazione delle percentuali di riduzione quali limiti alla discrezionalità politica nell’alveo dei legittimi compiti del potere giurisdizionale, lasciando però intoccata, a mio avviso, tutta la portata problematica di una tale affermazione (v. supra).
Il Tribunale di Roma propende invece per la politicità della questione e pertanto per la sua insindacabilità da parte di qualsiasi giudice, anche amministrativo (difetto assoluto di giurisdizione). Nel far ciò, la motivazione cita le massime della Corte di cassazione – riportate nella loro astrattezza - che ravvisano il difetto assoluto quando manca «nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio» e la domanda non è conoscibile «né in astratto, né in concreto, da alcun giudice». Vengono richiamati due precedenti: Cass. Sez. Un., Ord. n. 15601/2023 e Cass. Sez. U. Ord. n. 15058/2023. La prima, se andiamo a vedere bene, si riferisce al caso della contestazione portata da un gruppo di cittadini mediante azione popolare all’attenzione del giudice amministrativo relativa alla scelta di un Comune veneto di concedere la cittadinanza onoraria all’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro; contestazione quindi di un atto amministrativo, giudicata non giustiziabile per assenza di un “parametro giuridico” di valutazione[29]. La seconda si riferisce alla richiesta di risarcimento dei danni, avanzata davanti al giudice ordinario, derivanti dalla mera assenza di norme a tutela di specifici interessi di specifiche categorie di persone (nella fattispecie, la maternità delle donne avvocato): cd. danno da “inattività legislativa”, non configurabile. In entrambi questi casi la Suprema Corte ha ravvisato il difetto assoluto di giurisdizione.
Per avvallare poi la non esistenza (nel merito) di un diritto soggettivo azionabile “a una buona legislazione” o - nelle parole del Tribunale - di un «diritto soggettivo dei cittadini a un corretto esercizio del potere legislativo»[30] (fuori naturalmente delle diversissime doglianze di tipo costituzionale), la motivazione porta gli esempi del rigetto (nel merito) della richiesta di risarcimento dei danni a una Regione per aver promulgato una norma poi dichiarata incostituzionale (Cass. n. 23730/2016, cd. danno da “attività legislativa”) o della stessa richiesta, rivolta allo Stato, per mancata o tardiva trasposizione di una Direttiva (all’epoca) CEE (Cass. S.U. n.9147/2009: ma con l’importante specificazione in nota[31]).
Resta aperta, invece, come correttamente afferma il Tribunale, la possibilità di avanzare la puntuale doglianza del P.N.I.E.C., in quanto atto della pubblica amministrazione (ministeriale), davanti al giudice amministrativo, ma solo «sotto il profilo della adeguatezza, coerenza e ragionevolezza» rispetto agli obiettivi di riduzione già individuati a livello europeo. Ricordiamo che il P.N.I.E.C. è atto di pianificazione generale, disciplinato dal Reg. UE 2018/1999 (che prevede l’obiettivo finale della riduzione del 55 per cento delle immissioni entro il 2030), e la cui redazione e attuazione sono poste sotto la vigilanza della Commissione europea. Ora, la possibilità di ricorrere alla giustizia amministrativa per la contestazione dell’adeguatezza di atti dell’amministrazione in relazione al cambiamento climatico è già stata esplorata con successo nell’ordinamento francese più d’una volta. In particolare, nel 2022 il Conseil d'État parigino, su ricorso della piccola città costale di Grande-Synthe, ha condannato l’amministrazione centrale a intraprendere tutte le misure necessarie per assicurare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle immissioni già fissati dalla legge interna (e quindi auto-assunti dallo Stato stesso) e dal diritto europeo[32]. Strada, questa, meno ambiziosa, se così si può dire, di quella qui tentata nel caso in commento - e cioè della contestazione globale e generale delle aspirazioni climatiche statali - in quanto l’ipotetico processo davanti al T.A.R. sarebbe necessariamente vincolato, per la natura stessa del giudizio di legittimità amministrativa, ai target già fissati dalle leggi interne e soprattutto dalla governance europea esistente: obiettivi che, invece, i ricorrenti, da quanto si ricava, intendevano proprio impugnare.
[1] La sentenza è reperibile online, tra gli altri in https://www.ambientediritto.it/wp-content/uploads/2024/03/Sentenza-causa-climatica-giudizio-universale-Tribunale-Ordinario-di-Roma-Seconda-sezione-civile-Causa-n.39415-2021.pdf. Dico che questo non è l’unico caso perché risulta al momento pendente la causa intentata il 9 maggio 2023, sempre presso Il Tribunale di Roma, da Greenpeace Onlus e ReCommon APS (e altri attori) contro ENI S.p.A. e i suoi due maggiori azionisti, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.
[2] Per una visione d’insieme che dà conto della complessità del fenomeno, cfr., recentissimamente, E. D’Alessandro, D. Castagno (a cura di), Reports & Essays on Climate Change Litigation (Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino), Torino, 2024, interamente disponibile al link https://iris.unito.it/handle/2318/1956352. Con aderenza alla vicenda italiana, v. ancora le considerazioni di D. Castagno, Le procès pour l’environnement et le climat en droit italien: potentialités, limites et alternatives dans un cadre de contentieux «stratégiques», in Rev. Int. Droit Comp., 2023, 583 e seg. Per un’analisi che affronta le principali difficoltà dal punto di vista del diritto sostanziale e processuale, S. Vincre, A. Henke, Il contenzioso “climatico”: problemi e prospettive, in BioLaw Journal. Rivista di Biodiritto, 2023, 137 e seg. (disponibile all’indirizzo https://teseo.unitn.it/biolaw/article/view/2704). Dell’importanza della governance di tipo giudiziale nelle iniziative di contrasto al cambiamento climatico avevo parlato in Giabardo, Climate Change Litigation, State Responsibility and the Role of Courts in the Global Regime: Towards a “Judicial Governance” of Climate Change?, in B. Pozzo, V. Jacometti (a cura di), Environmental Loss and Damage in a Comparative Law Perspective, Intersentia, 2021, 393 e seg.
[3] Il caso più emblematico di contenzioso climatico contro imprese è Milieudefensie vs. Shell, deciso in Olanda in primo grado nel 2021 con la vittoria dell’associazione ambientalista (ora in grado d’appello). Altri casi al momento pendenti sono quelli contro ENI (in Italia), contro Total (in Francia), contro Holcim, uno dei maggiori produttori di cemento al mondo (in Svizzera), contro RWE, colosso dell’energia elettrica (in Germania). Per quanto riguarda il contenzioso climatico “bancario” – che ha caratteristiche sue proprie, seppur accostabili – si segnalano, in Europa, la controversia contro la Banca Nazionale del Belgio (dichiarata inammissibile) e quella contro BNP Paribas (pendente a Parigi), ed è già stata comunicata l’intenzione di agire contro ING (in Olanda).
[4] Problematicissimo, a mio avviso, l’uso di misure coercitive, in questa e in altre ipotesi simili.
[5] Pertanto, almeno in alcuni casi, forse non parlerei nemmeno di effetti “indiretti”. Sul fenomeno, G. Ganguly, J. Setzer, V. Heyvaert, If At First You Don’t Succeed: Suing Corporations for Climate Change, in Oxford Journal of Legal Studies, 2018, 841 e seg.
[6] Contro quest’uso strumentale del processo nel contenzioso climatico cfr. la dura presa di posizione della High Court of Justice londinese (Business and Property Courts) nel caso ClientEarth v Shell’s Board of Directors [2023] EWHC 1137 (Ch): «However, it seems to me that where the primary purpose of bringing the claim is an ulterior motive in the form of advancing ClientEarth’s own policy agenda with the consequence that, but for that purpose, the claim would not have been brought at all, it will not have been brought in good faith» (Justice W. Trower). V. anche la decisione seguente, in senso confermativo, ClientEarth v Shell Plc [2023] EWHC 1897 (Ch).
[7] L’espressione “casi Santo-Graal”, usata criticamente, è di K. Bower, Lessons From a Distorted Metaphor: The Holy Grail of Climate Litigation, in Transnational Environmental Law, 2020, 347 ss.
[8] L’uso in chiave “regolatoria” del diritto privato non è certo fenomeno nuovo, specialmente nelle giurisdizioni di common law, ma richiederebbe un approfondimento a parte. V. comunque D. Kysar, The Public Life of Private Law: Tort Law as a Risk Regulation Mechanism, in European Journal of Risk Regulation, 2018, 48 e seg.
[9] Si può leggere Il testo dell’art. in questione, tradotto in inglese, in https://wilmap.stanford.edu/country/netherlands.
[10] Salvo poi vedere l’esatta estensione e le limitazioni d’ordine soggettivo e oggettivo di tale dovere. La questione eccede lo scopo di questa analisi. Comunque, per uno studio del problema applicato all’ambito della Climate Change Litigation, v. già D. Hunter, J. Salzman, Negligence in the Air: The Duty of Care in Climate Change Litigation, in University of Pennsylvania Law Rev., 2007, 1741 e seg.
[11] Cfr., nell’ordinamento italiano, la definizione di colpa data dall’art. 43, comma 3, c.p. (nella parte in cui fa riferimento all’ «inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»).
[12] Il testo ufficiale in olandese della sentenza di primo grado è reperibile in https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7145&showbutton=true&keyword=urgenda&idx=6. Quello in lingua inglese, a cura della stessa corte, in https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7196
[13] La tendenza sembra quindi essere quella a elaborare di un diritto autonomo e separato “a un clima stabile” (cd. “right to a stable climate” o “right to climate stability”), anche se tale diritto, a dire il vero, potrebbe già essere incluso e implicito in quello all’ambiente, evitando il moltiplicarsi delle categorie (v., a proposito, la nuova e ampia formulazione dell’art. 9 Cost. italiana, ove il riferimento all’ “ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi”). V. anche infra, nota 16.
[14] V. le sentenze in https://climatecasechart.com/non-us-case/urgenda-foundation-v-kingdom-of-the-netherlands/
[15] Enfatizzano l’importanza di entrambi i fondamenti di “Urgenda”, anche con riferimenti alla vicenda italiana prima che fosse decisa, M. Fermeglia, R. Luporini, ‘Urgenda-Style’ Strategic Climate Change Litigation in Italy: A Tale of Human Rights and Torts?, in Chinese Journal of Environmental Law, 2023, 345 e seg.
[16] https://www.echr.coe.int/w/grand-chamber-hearing-concerning-switzerland#
[17] Chi si è occupato del tema ha messo in luce da un lato queste difficoltà, ma dall’altro anche le possibilità di adattamento del diritto privato all’esigenza di far fronte alla sfida climatica; v., a proposito, D. Kysar, Professore alla Stanford Law School, che in un celebre articolo si chiedeva non cosa il diritto privato potesse fare per il cambiamento climatico, ma, al contrario, cosa quest’ultimo potesse fare per il diritto privato; v. What Climate Change Can Do About Tort Law, in Environmental Law, 2011, 1 e seg. Più di recente, soprattutto per quanto riguarda le dottrine di common law, J. Rossi, J. B. Ruhl, Adapting Private Law for Climate Change Adaptation, in Vanderbilt Law Review, 2023, 827 e seg. Mi permetto di rinviare anche a Giabardo, Climate Change Litigation and Tort Law. Regulation Through Litigation?, in Diritto e Processo, Annuario Giuridico dell’Università degli Studi di Perugia, 2020, 361 e seg., disponibile in https://www.rivistadirittoeprocesso.it/upload/Riviste/Rivista_2019.pdf
[18] Il caso risulta pendente dal 2015. Ha quindi attraversato tre amministrazioni USA (quella di Obama, di Trump e di Biden) ed è probabilissimo che entri nella quarta. La vicenda è stata caratterizzata da un’aggressiva strategia processuale da parte dell’amministrazione federale, orientata in tutti i modi a far dichiarare il processo inammissibile e a impedirne la prosecuzione (ad es., attraverso l’uso di molteplici motions to dismiss o di w). Per un assaggio della complessità della sua traiettoria, e per chi volesse approfondire, https://climatecasechart.com/case/juliana-v-united-states/
[19] V. supra, nt. 12.
[20] https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2020/20200117_docket-18-36082_opinion.pdf
[21] V. la decisione, in francese, in https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2021/20210617_2660_judgment.pdf
[22] Sempre in francese, v. https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2023/20231130_2660_judgment-1.pdf
[23] Ancora https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2020/20200117_docket-18-36082_opinion.pdf
[24] L’atto di citazione è consultabile sul sito web della campagna, https://giudiziouniversale.eu/wp-content/uploads/2023/07/Atto-di-citazione-A-Sud-VS-Stato-Italiano-2021.pdf
[25] Con chiarezza, su questo preciso fattore, M. Carducci, voce Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Dig. disc. pubb., (agg.), 2021, 51 ss., spec. 69 ss., a cui rimando anche per ulteriori riferimenti.
[26] Si contestano, inoltre, la “Strategia italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra” (https://www.mase.gov.it/sites/default/files/lts_gennaio_2021.pdf), il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR, nelle parti rilevanti), nonché i “Contributi Determinati Nazionali” (Nationally Determined Contributions, cd. NDC) della UE, comprensivi di quelli italiani.
[27] https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2016/20161110_docket-615-cv-1517_opinion-and-order-2.pdf, soprattutto la Part IV (pag. 36 e seg.).
[28] Sul punto, v. l’analisi di Fanetti, La Public Trust Doctrine: dalle origini alla Climate Change Litigation, in The Cardozo Electronic Law Bulletin, 2022, 1 seg. (online). Ma vedi anche i numerosi spunti per il comparatista in B. Pozzo, Climate Change Litigation in a Comparative Law Perspective, in F. Sindico, M. Mbengue (a cura di), Comparative Climate Change Litigation: Beyond the Usual Suspects, 2021, 593 e seg.
[29] V. il cenno alla vicenda in R. Conti, Atto politico vs giustizia “politica”. Quale bilanciamento con i diritti fondamentali?, in Giustizia Insieme, 2 novembre 2023, in https://www.giustiziainsieme.it/en/costituzione-e-carta-dei-diritti-fondamentali/2941-atto-politico-vs-giustizia-politica-quale-bilanciamento-con-i-diritti-fondamentali
[30] Pag. 13 della sentenza.
[31] Ovviamente in quest’ultimo caso s’intende che la responsabilità dello Stato non è di tipo aquiliano (ex art. 2043 c.c.) e quindi non ne soggiace ai limiti, ma è autonoma (la responsabilità patrimoniale dello Stato, in queste ipotesi, è riconosciuta fin dalla sentenza della Corte di Giustizia Francovich del 1991). Sul tema, più in generale, molto interessante quanto detto da A. Pizzorusso, La responsabilità dello Stato per atti legislativi in Italia, in Foro it., 2003, V, p. 175 ss
[32] Conseil d'État, Commune de Grande-Synthe, 31 marzo 2022, n. 427301. V. anche, l’anno scorso, CE, Commune de Grande-Synthe, 10 maggio 2023, n. 467982, dove, in sede esecutiva, l’ordine all’amministrazione statale è stato ribadito, ma senza che a questo venisse aggiunta una astreinte (cioè, una misura coercitiva).
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