ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Giustizia insieme intende aprire una discussione sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato.
Si pubblica qui una prima nota informativa, cui poi seguiranno contributi di analisi e commenti.
Tale riforma si propone di modificare quattro articoli della Carta costituzionale, ed esattamente gli artt. 59, 88, 92, 94.
2. Le modifiche degli artt. 59 e 88 possono essere considerate minori.
La prima riguarda la soppressione dell’istituto del Senatore a vita diverso dagli ex Presidenti della Repubblica, e la proposta in nient’altro consiste se non nell’abolire l’art. 59, 2° comma Cost., che attualmente recita che: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”.
Resta in vita, al contrario, il 1° comma dell’art. 59 della Costituzione, e in futuro, così, solo gli ex Presidenti della Repubblica saranno senatori a vita, mentre nessuno potrà più esserlo per altissimi meriti.
L’altra riforma minore è quella della soppressione, nell’art. 88, 1° comma Cost., delle parole “o anche una sola di esse”.
Con questa riforma si ottiene il risultato di impedire al Presidente della Repubblica di sciogliere una sola Camera, anziché l’intero Parlamento.
Si tratta, tuttavia, di una regola che possiamo considerare già in atto, in quanto v’è desuetudine all’esercizio di un tale potere, mai esercitato da alcun Presidente della Repubblica.
3. Ovviamente le riforme principali sono quelle che riguardano gli artt. 92 e 94, e sono esse che danno a questa riforma l’etichetta di premierato.
Il nuovo art. 92 prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri sia eletto direttamente dal popolo ed abbia un premio di maggioranza che gli garantisca il 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere; e il nuovo art. 94 dispone che se le Camere non danno (per due volte consecutive) la fiducia al Governo queste vengono sciolte dal Presidente della Repubblica.
Per l’esattezza, il 2° comma dell’art. 92 reciterà, se la riforma verrà approvata, che: “Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni…..La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri….Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo, e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i ministri”.
Parimenti viene riformato l’art. 94, ed il nuovo terzo comma così reciterà: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia. Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
Si aggiunge poi un ultimo comma all’art. 94 Cost. del seguente tenore: “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente de consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
4. Sostanzialmente:
a) il popolo eleggerà direttamente il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale si presenterà alle elezioni con una propria lista di candidati;
b) le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio dei ministri dovranno avvenire contestualmente;
c) le votazioni saranno disciplinate da una nuova legge elettorale, che dovrà consentire alla lista più votata, seppur nel rispetto dei principi di rappresentatività e governabilità, un premio di maggioranza che garantisca ai vittoriosi il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere;
d) in tale logica di premierato passeranno così in secondo piano sia il momento della nomina del primo ministro da parte del Presidente della Repubblica, sia il momento nel quale il Parlamento dà la fiducia al Governo, ed infatti:
e) Il Presidente della Repubblica conferirà necessariamente al Presidente del Consiglio dei ministri eletto dal popolo l’incarico di formare il Governo;
f) il Parlamento darà necessariamente la fiducia al Governo e, ove non dovesse succedere, il Presidente della Repubblica rinnoverà l’incarico sempre al primo ministro eletto dal popolo, il quale si ripresenterà, così, per la seconda volta, dinanzi alle Camere, e se queste nemmeno per la seconda volta dovessero dare la fiducia al Governo, ebbene, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.
5. La relazione tecnico/esplicativa avverte che lo scopo della riforma è quello di risolvere “problematiche ormai risalenti. cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il transfughismo parlamentare”.
Da segnalare, tuttavia, che resta immodificato l’art. 68 Cost. secondo la quale “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
La relazione tecnico/esplicativa precisa altresì che “la proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione”, e che: “attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri” si ottiene “la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”.
Ed inoltre la relazione afferma che questa stabilità è altresì necessaria per “concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione”.
6. Il progetto si compone, infine, di una Analisi tecnico normativa (ATN):
In essa si legge in particolare che: “Il modello di forma di Governo previsto nel disegno di legge è in armonia con i principi costituzionali di democrazia, rappresentatività, separazione dei poteri e con il rispetto delle prerogative degli organi costituzionali. Non si ravvisano contrasti con i limiti espliciti ed impliciti alla revisione costituzionale.”.
E poi ancora: “Non vi sono incompatibilità con le competenze e le funzioni delle regioni ordinarie e a statuto speciale nonché degli enti locali”.
Soprattutto: “Il testo normativo proposto non presenta profili d’incompatibilità con l’ordinamento europeo. Non risultano in corso procedure di infrazione nei confronti dell’Italia nella materia trattata dal provvedimento in esame”.
E al riguardo si precisa altresì che: “La disciplina della forma di Governo è materia radicata nelle tradizioni costituzionali di ciascun Stato membro, ferma restando la condivisione dei principi dello stato di diritto che sono pienamente rispettati nel modello qui prefigurato”.
Note minime in tema di soggetti legittimati a richiedere l’autorizzazione paesaggistica (nota a T.A.R. Basilicata, sez. I, 01 febbraio 2024, n. 56)
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. Breve inquadramento del tema. – 2. Individuazione dei soggetti “legittimati” alla richiesta dei titoli: il caso del permesso di costruire. – 2.1. (segue) casi specifici di legittimazione. – 2.2. (segue) le verifiche della P.A. – 3. La legittimazione nella richiesta di autorizzazione paesaggistica: simmetrie normative con il Testo Unico Edilizia. – 4. Riflessioni conclusive.
1. Breve inquadramento del tema.
La pronuncia del T.A.R. Basilicata in commento[1] offre interessanti spunti di riflessione giuridica, inter alia, sulla corretta individuazione dei soggetti legittimati a richiedere l’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (per brevità “Codice del paesaggio”)[2].
Più nel dettaglio, anticipando quanto meglio si dirà nel seguito, i giudici amministrativi hanno ritenuto legittimo un provvedimento con il quale la Regione ha opposto un diniego in ordine ad una istanza avanzata dalla società locataria (nella specie, si trattava di affitto di azienda) di una struttura alberghiera, tendente ad ottenere il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di una struttura temporanea a servizio dell’albergo, che sia motivato con riferimento al fatto che la società proprietaria dell’immobile si è formalmente opposta al suddetto rilascio[3].
In particolare, muovendo dal caso specifico - e prendendo le mosse dal tenore letterale dell’art. 146, comma 1, cit., che, quanto ai soggetti legittimati alla richiesta dell’autorizzazione[4] in esame, espressamente si riferisce ai “proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico”[5] -, il TAR ha avuto modo di rilevare, per quanto qui di precipuo interesse, che: (i) l’affitto di azienda è un contratto in forza del quale il proprietario concede un diritto personale di godimento a un terzo dietro pagamento di un canone, integrando una “species” del “genus” della locazione; (ii) non è revocato in dubbio che anche il detentore qualificato possa istare per l’autorizzazione paesaggistica de qua; (iii) tuttavia, in tale ultimo caso, è necessario e quindi indefettibile il consenso da parte del proprietario del bene, con la conseguenza che (iv) sussiste l’obbligo in capo all’Amministrazione di accertare, in un contratto di locazione, la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del titolo edificatorio così come di quello paesaggistico.
2. Individuazione dei soggetti “legittimati” alla richiesta dei titoli: il caso del permesso di costruire.
Nell’analisi del tema supra, giova prendere le mosse, anzitutto, dall’approfondimento di una questione similare (se non sovrapponibile entro gli ovvi limiti delle discipline applicabili), ossia quella dei soggetti che possono richiedere il permesso di costruire. Sul punto specifico, l’art. 11, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (“Testo Unico Edilizia”) è molto ampio[6]: si prevede infatti che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a “chi abbia titolo per richiederlo”. In particolare, come più volte evidenziato in via pretoria, tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario[7].
Da tale angolo visuale, adunque, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l’onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell’immobile oggetto dell’intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l’attività edificatoria
Quanto ora esposto, unitamente a detto concetto di “sufficienza” riferito al titolo (elaborato pure in via giurisprudenziale[8]), comporta quindi, in generale, che: (a) per un verso, chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio debba comprovare la propria legittimazione all’istanza; (b) per altro verso, è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio.
Ora, tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza ma non comporta anche che l’Amministrazione debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo[9]. Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione all’Amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto” non ad essa attribuito dall’ordinamento. In tal senso, adunque, laddove ricorrano limitazioni negoziali al diritto di costruire, l’Amministrazione, quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, «deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico, appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario»[10].
Tuttavia, assume rilievo differente l’ipotesi in cui la legittimazione a richiedere l’autorizzazione edilizia si fondi sulla titolarità di un diritto reale, da quella in cui essa attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. Ed infatti, in tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire[11].
2.1. (segue) casi specifici di legittimazione.
Orbene, sulla base delle coordinate ermeneutiche sopra brevemente tratteggiate, la giurisprudenza ha di volta in volta individuato i soggetti che possono o meno richiedere il titolo edilizio oltre ad aver meglio chiarito il perimetro di azione della P.A. nell’accertamento di detta legittimazione.
Può presentare istanza di permesso di costruire, anzitutto, quel soggetto che, come detto, è titolare di un diritto reale su bene oggetto dell’intervento edilizio se ed in quanto quel diritto comprenda anche lo jus aedificandi, essendo il diritto a costruire una proiezione del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento sul bene che ne autorizzi la modifica costruttiva[12]. In particolare, sono stati riconosciuti legittimati a chiedere il permesso di costruire: (i) il titolare del diritto reale di usufrutto[13]; (ii) il titolare del diritto reale di superficie[14]; (iii) il titolare del diritto reale di enfiteusi; (iv) i soggetti beneficiari della procedura espropriativa[15]. Si è ritenuto legittimato, peraltro, a proporre domanda di permesso di costruire pure il titolare di diritto di opzione all’acquisto dell'immobile interessato dall’intervento[16] e il promissario acquirente[17] laddove il proprietario abbia assentito alla presentazione della domanda di rilascio del permesso oppure l’obbligo di acquisto dell’immobile sia subordinato all’ottenimento del permesso di costruire. In questi casi, pare doveroso evidenziare, la legittimazione a chiedere il permesso trova fondamento non tanto nella posizione giuridica soggettiva di promissario acquirente in sé, quanto nell’autorizzazione o delega del promittente venditore, effettivo proprietario dell’immobile fino alla sua definitiva vendita, non essendo infatti sufficiente, in ogni caso, il solo rapporto obbligatorio tra richiedente e area o immobile interessati all’intervento edilizio.
Con riferimento, invece, ai titolari di diritti obbligatori, si è pure affermato che essi possano richiedere il titolo edificatorio quando, per effetto di esso, «questi abbia obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui è chiesto il permesso»; in altri termini quando il richiedente sia autorizzato in base al contratto o abbia ricevuto espresso consenso da parte del proprietario[18]. In particolare, si è rilevato, pure in via pretoria, come, al fine della legittimazione, non è sufficiente una mera relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al mero possesso, ma è necessario che venga trasferita, oltre che la disponibilità del bene, anche la potestà edificatoria.
Alla luce di quanto sopra, adunque, sono stati ritenuti legittimati a chiedere il permesso di costruire: (i) l’amministratore di condominio, se e in quanto munito di specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini[19]; (ii) l’affittuario di un terreno agricolo ove il contratto preveda la facoltà in capo allo stesso di eseguire ad esempio opere infrastrutturali volte al potenziamento tecnico produttivo; (iii) il comodatario, con riferimento a titoli edilizi compatibili con l’effettiva disponibilità del bene e con l’entità della trasformazione oggetto dell’istanza[20]; (iv) il conduttore/locatario dell’immobile, qualora abbia ricevuto dal locatore (proprietario dell’immobile) l’inequivocabile autorizzazione all’esecuzione degli interventi di trasformazione edilizia in funzione dell’uso per il quale lo stesso è stato concesso[21]oppure richieda di eseguire opere di carattere non irreversibile[22]; (v) l’appaltatore, purché nel contatto di appalto o negli atti ad esso collegati emergano il consenso del proprietario (o del diverso titolare di diritto reale) e la costituzione in favore dell’appaltatore stesso della predetta posizione di soggetto che ha “legittima disponibilità dell’area” o dell’immobile oggetto dell’intervento (posizione non implicita nel ruolo di mero appaltatore)[23].
Si è poi osservato in giurisprudenza che, in caso di richiesta di permesso di costruire in sanatoria, vi sarebbe una legittimazione addirittura più ampia rispetto a quella della richiesta di titolo edilizio, ammettendo l’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 la proposizione dell’istanza di sanatoria da parte non solo del proprietario, ma anche del responsabile dell’abuso, tale dovendo intendersi lo stesso esecutore materiale ossia chi abbia la disponibilità del bene al momento dell'emissione della misura repressiva; si badi però che detta “ampia” legittimazione trova, tuttavia, anche qui un limite invalicabile nella volontà (positiva/negativa) dell’eventuale proprietario o comproprietario[24].
2.2. (segue) le verifiche della P.A.
Orbene, a fronte di un intervento edilizio soggetto al preventivo rilascio di un permesso di costruire (art. 20, d.P.R. 380/2001) o SCIA (artt. 22 e 23, d.P.R. cit.), la P.A. è sempre tenuta ad accertare che il soggetto interessato abbia titolo per attuare detto intervento[25]; nel dettaglio, l’Amministrazione deve accertare che l’istante sia proprietario dell’immobile oggetto dell’attività edilizia proposta o che, comunque, abbia un titolo di disponibilità tale da giustificarne la realizzazione[26]. In punto di corretto inquadramento del raggio d’azione di tale verifica, si segnala che la P.A. non è tenuta a spingersi fino a ricostruire tutte le vicende relative al regime di proprietà dell’immobile in relazione al quale viene richiesto il rilascio del titolo abilitante[27], non avendo l’Amministrazione il compito di effettuare complessi accertamenti a tal fine, ed anzi, in ossequio al principio generale del divieto di aggravamento del procedimento amministrativo, la stessa P.A. può semplificare e accelerare tutte le attività di verifica sul titolo prodotto, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata. In altri termini, non è onere dell’Amministrazione effettuare accertamenti complessi volti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità del bene o di verificare l’inesistenza di servitù o altri vincoli reali, in quanto il titolo edilizio è un atto amministrativo che legittima l'opera da realizzare e regola un rapporto intercorrente tra la stessa P.A. e il soggetto che richiede il titolo[28].
La P.A., quindi, non deve spingersi a ricercare d’ufficio eventuali elementi preclusivi, limitativi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, ma deve valutarli qualora emergano nel corso del procedimento. Non a caso si è evidenziato in via pretoria che in sede di rilascio del titolo abilitativo, il Comune non può esimersi dal verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici sull’intervento. Ciò però a condizione che questi ultimi siano effettivamente conosciuti, o immediatamente conoscibili e/o non contestati, senza necessità di procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti tra privati[29]. In buona sostanza, il Comune ha il dovere di accertare, inter alia, il presupposto circa il soggetto legittimato e che esso sia sufficiente per eseguire l’attività edificatoria. Il potere di controllo in sede di rilascio dei titoli edilizi (al pari di quello esercitato in sede inibitoria), quindi, deve sempre collegarsi al riscontro di profili d’illegittimità dell’attività per contrasto con leggi, regolamenti, piani, programmi e regolamenti edilizi, mentre non può essere esercitato a tutela di diritti di terzi non riconducibili a quelli connessi con interessi di natura pubblicistica, quali ad esempio il rispetto delle distanze dai confini di proprietà o del distacco dagli edifici; fatto salvo il caso in cui de planorisulti l’inesistenza di un titolo giuridico che fondi la legittimazione attiva del richiedente il titolo edilizio[30].
Va da sé, quindi, che l’onere di verifica della P.A. assume connotati differenti a seconda che la detta legittimazione si fondi sulla titolarità di un diritto reale ovvero attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso[31]. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire.
3. La legittimazione nella richiesta di autorizzazione paesaggistica: simmetrie normative con il Testo Unico Edilizia.
Con la pronuncia in commento - ove si muove, in punto di fatto, da un detentore qualificato del bene (non titolare di un diritto reale, ma di un diritto personale di godimento) richiedente l’autorizzazione paesaggistica ma in difetto del consenso del proprietario[32] -, si compie “un passo in più” con riferimento all’argomento in trattazione, sottolineando, in sostanza, come i rilievi ampiamente evidenziati sub §2 e §2.1. del presente scritto si “attaglino” anche nel caso in cui sia domandato il rilascio di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146, comma 2, d.lgs. n. 42/2004.
Sul versante normativo, infatti, l’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 dispone che la domanda per il rilascio del permesso di costruire vada sottoscritta da “uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 11” e vada presentata allo sportello unico corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione. L’art. 11 del decreto, a sua volta, limita lo spettro di coloro che possano istare per tale titolo, come detto, al proprietario dell’immobile o a “chi abbia titolo per richiederlo” ossia ai soggetti titolari di tutte quelle posizioni civilisticamente utili per esercitare un’attività costruttiva (disponibilità giuridica ad aedificandum), che, come detto, è possibile individuare anche in soggetti che vantano altra qualificata relazione legittimante il titolo edilizio, diversa dalla proprietà esclusiva.
Muovendo, ora, al Codice del Paesaggio, l’art. 146, comma 1, dispone che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree di interesse paesaggistico” non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. Il comma 2 dell’art. 146 cit. prevede poi che “i soggetti di cui al comma 1” hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione[33]. La disposizione di cui all’art. 146 cit., dunque, individua i soggetti legittimati a richiedere l’autorizzazione paesaggistica indicandoli nei “proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili di aree di interesse paesaggistico”[34], ossia, in senso letterale, in tutti coloro che hanno con la res, oggetto di protezione vincolistica, una relazione dominicale e/o materiale, cioè, secondo un’interpretazione estensiva conforme al dettato costituzionale, a coloro che del bene debbono avere la disponibilità materiale[35]. Detto in altri termini, la norma in parola, proprio perché dettata in relazione ad una (futura) attività manipolativa del bene protetto, circoscrive il numero di quanti possono richiedere l’assenso al compimento del “facere” - altrimenti illegittimo - a coloro che del bene, come detto, hanno la disponibilità materiale. L’ampiezza della previsione normativa non esclude, però, la necessità che l’autorità chiamata a curare la tutela del vincolo, sia pure mediante un controllo di legittimità dell’autorizzazione rilasciata da altra amministrazione, acquisisca dal richiedente il titolo relativo alla situazione di proprietà, di possesso o di detenzione di volta in volta dedotte[36], essendo chiaro, dal tenore della disposizione esaminata supra, che l’autorizzazione non può essere richiesta da un quisque de populo.
Orbene, a ben vedere, quindi, entrambe le disposizioni sopra esaminate (art. 11 del Testo Unico Edilizia e art. 146 del Codice del Paesaggio) non limitano la legittimazione alla domanda di rilascio del titolo al solo proprietario, ma la riferiscono anche a coloro che abbiano “un altro titolo”. Sebbene la formulazione normativa sia differente (il ché dipende anche dall’aver il codice dei beni culturali mutuato la corrispondente previsione della legge n. 1497 del 1939) lo spettro dei destinatari risulta sostanzialmente coincidente. Invero, come evidenziato dai giudici amministrativi, con riguardo al permesso di costruire si è avuto modo di chiarire come l’espressione “a chiunque abbia titolo per richiederlo” vada intesa «nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base aduna relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria»[37]. Da tale prospettiva, anche il comma 1 dell’art. 146 valorizza, di fatto, letteralmente la previa esistenza di un titolo, escludendo la legittimazione a istare per il rilascio dell’autorizzazione in capo a coloro che ne siano sprovvisti. In entrambi i casi, quindi, sembrerebbe necessaria la relazione qualificata col bene, così come in entrambi i casi il dato testuale non contempla alcun riferimento alla relazione tra soggetto istante e titolare del corrispondente diritto dominicale. Al cennato parallelismo tra le due disposizioni, quindi, conseguirebbe, per simmetria giuridica, l’estensione degli approdi raggiunti con riguardo alla legittimazione a chiedere il permesso di costruire alle domande di rilascio di autorizzazione paesaggistica. In particolare, secondo il TAR, all’obbligo in capo all’Amministrazione di accertare, in un contratto di locazione, la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, «non potrà procedere al rilascio del titolo, così come di quello paesaggistico».
Così perimetrato il “gemellaggio” tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire (nell’area di quanto oggetto di esame specifico qui), non può non evidenziarsi che apparirebbe comunque arduo comprendere, in una prospettiva differente da quella evidenziata dai giudici amministrativi, quale sarebbe l’interesse a conseguire (con oltretutto inutile dispiego di risorse umane, di mezzi e di tempo da parte dell’amministrazione) un’autorizzazione soltanto ancillare e con valenza endoprocedimentale[38] rispetto alla realizzazione dell’intervento edilizio programmato, quest’ultimo restando comunque concretamente precluso dall’impossibilità di rilascio del permesso di costruire costituita dal mancato consenso del proprietario; ciò a maggior ragione laddove i rapporti tra proprietà e affittuario siano controversi anche giudizialmente in sede ordinaria, non potendosi esigere dalla P.A. l’effettuazione di valutazioni di tipo civilistico, appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario[39].
In sintesi, quindi, per un verso, risulterebbe compromesso il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica laddove la società richiedente non sia titolare di alcun diritto reale, ma semplice affittuaria dell’immobile (il che già renderebbe comunque necessario un consenso espresso, inequivoco del proprietario). Per altro verso, non può tacersi del fatto che, laddove anche fosse possibile superare il dissenso espresso del proprietario, l’eventuale sussistenza di una “discordanza interpretativa” in ordine a quanto disposto dal contratto di affitto, renderebbe evidente come la legittimazione della locataria a presentare l’istanza non fondi su basi chiare e certe ictu oculi, essendo invece necessarie interpretazioni del contenuto del contratto estranee alla competenza della pubblica amministrazione in sede di rilascio dell’autorizzazione de qua.
4. Riflessioni conclusive.
Come ampiamente rilevato supra, l’art. 146 del Codice del Paesaggio (in specie commi da 1 a 3) individua nei “proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico” i soggetti legittimati alla richiesta di autorizzazione paesaggistica[40]. Emerge, adunque, dal dettato normativo, come la relazione tra il soggetto richiedente e la res (es. l’immobile in relazione al quale deve declinarsi la valutazione di compatibilità paesaggistica) risulta in qualche modo “neutra” rispetto alla presentazione della richiesta di che trattasi, essendo sufficiente che l’istante provi la “mera” detenzione del bene[41]. Del resto, così fa propendere la lettura non solo dell’art. 146 cit. - laddove si individua, in modo ovviamente estensivo, tutte le categorie civilistiche di relazione con un determinato bene immobile - ma anche dell’art. 167, commi 1 e 5, del Codice del Paesaggio, laddove, in materia sanzionatoria e di compatibilità paesaggistica[42], la legislazione dispone nel senso di richiamare le figure, a vario titolo coinvolte nel procedimento de quo, del “trasgressore” in generale, del proprietario dell’area sulla quale si è consumato l’illecito paesaggistico e comunque del “possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi” (soggetti che possono essere tenuti alla rimessione in pristino delle opere abusivamente realizzate). Si opera così una scelta la cui ratio, a ben vedere, consiste nell’addossare il costo per la reintegrazione del complesso dei valori paesaggistici, indebitamente distrutti o dei quali si è indebitamente appropriato mediante la realizzazione dell’opera abusiva, a colui che dell’opera abusiva trae effettivo ed attuale godimento, quale che sia il titolo che sostiene siffatta situazione soggettiva.
In sostanza, quindi, la previsione di cui al comma 1, art. 146 cit., in un’interpretazione sistematica e teleologicamente orientata, risulta giustificata sulla base del fatto che ad essere “indagato” da parte dell’autorità competente non è tanto il titolo sulla base del quale viene prodotta la richiesta de qua, bensì la compatibilità strutturale e funzionale dell’immobile con i valori tutelati, al netto, ovviamente, della prova di relazione qualificata con l’immobile per il quale si richiede l’emissione del titolo paesaggistico specifico.
Ora, oltre il dato pretorio e volendo proseguire nel parallelismo tra legittimazione alla richiesta dell’autorizzazione paesaggistica e del permesso di costruire, si potrebbe certamente confermare pure il fatto che talune categorie di soggetti - pacificamente riconosciute, anche in via pretoria, come titolate alla richiesta del titolo edilizio (cfr. amplius il paragrafo §2.1. del presente scritto) - siano anche legittimate in punto di richiesta del titolo paesaggistico in esame. È il caso, ad esempio e a parere di chi scrive, degli appaltatori. Ed infatti il contratto di appalto è un contratto ad effetti obbligatori che conferisce, normalmente, anche l’espressa detenzione qualificata dell’area su cui deve essere realizzata l’opera[43], con la conseguenza che l’appaltatore può essere autore sia di interventi abbisognosi di tutela paesaggistica sia di azioni che ledono il paesaggio (e, in quanto tale, può essere destinatario delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 42/2006).
Ciò che rileva, quindi, in punto di legittimazione alla richiesta dell’autorizzazione paesaggistica, è certamente un titolo fondato su un diritto reale o almeno su di un diritto obbligatorio, che riconosca all’istante la disponibilità giuridica e materiale del bene; sotto diverso profilo, invece, la semplice relazione di fatto, come il possesso del bene, benché tutelata dall’ordinamento, non sembrerebbe tale da conferire il diritto ad ottenere dalla P.A. l’atto paesaggistico se non, quantomeno, in presenza di un consenso espresso da parte del soggetto proprietario dell’immobile o dell’area specifica. Consenso, si badi, scevro da potenziali “discordanze interpretative” che possano, in qualche modo, compromettere ictu oculi la bontà dei presupposti dell’istanza paesaggistica (come detto, le specifiche interpretazioni contrattuali restano e sono estranee alla competenza della P.A. sia in sede di rilascio del titolo edilizio, sia in quella relativa all’autorizzazione ex art. 146 cit.).
Pertanto, in linea con la pronuncia in commento, si ritiene che la P.A., nell’esaminare ed istruire la richiesta di autorizzazione paesaggistica, dovrà certamente verificare, quale presupposto necessario, la sussistenza dei requisiti soggettivi in capo al richiedente il titolo paesaggistico, e che - al pari del caso edilizio - il diritto dell’istante si fondi su di un legittimo atto (contratto) che accordi al soggetto, altrettanto legittimamente, la disponibilità giuridica e materiale del bene immobile, dimostrando, ove necessario, anche il consenso della parte proprietaria[44]. Potrebbe, adunque, essere utile valutare da parte dell’Amministrazione, entro gli espressi limiti più volte evidenziati nel presente scritto, anche il requisito essenziale della “causa” del contratto (art. 1325 c.c.), intesa come la funzione economico/sociale che, da un lato, il negozio oggettivamente persegue, e, dall’altro, il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela da apprestare[45].
[1] Si tratta di T.A.R. Basilicata, sez. I, 01 febbraio 2024, n. 56, in giustizia-amministrativa.it.
[2] In dottrina, ex plurimis e senza pretese di esaustività, si veda M.A. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, Atti del Convegno di studi giuridici sulla tutela del paesaggio, Milano, 1963, 87 ss.; F. Fracchia, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996; G. Altavilla, Il codice dei beni culturali e del paesaggio. I beni paesaggistici. Note brevi e spunti critici, in Prime note zoom, 2004, 62, 173 ss.; A. Angiuli, Commento all’art. 146, in A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005, 396 ss.; D. Antonucci, Commento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Napoli, 2005; P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, Studi e contributi, in giustizia-amministrativa.it, 2005; R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo. Le pubbliche amministrazioni nell’era della globalizzazione, Roma-Bari, 2005; F. Gualandi, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria tra “condono ambientale” (legge n. 308/2004) e la disciplina del nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 146, comma 10, lettera c) del d.lgs. n. 42/2004), in LexItalia, 2005; D. Sandroni, Commento all’art. 146, in R. Tamiozzo (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2005, 695 ss.; C. Videtta, Le valutazioni tecniche ambientali tra riserva procedimentale e selfrestraint del giudice amministrativo, in FA, 2005, 1359 ss.; V. Mazzarelli, La disciplina del paesaggio dopo il d.lgs. n. 157/2006, in Gior. dir. amm., 2006, 1080 ss.; M. Renna, Vincoli alla proprietà e diritto dell’ambiente, Diritto pubblico dell’economia, in Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, 389 ss.; M.R. Spasiano, I soggetti della politica ambientale in Italia, in Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, 159 ss.; P. Carpentieri, Il secondo “correttivo” del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. e app., 2008, 692 ss.; F. Cangelli, La disciplina procedimentale dell’autorizzazione paesaggistica: l’impatto delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 26, marzo 2008, n. 63, in Riv. giur. urb., 2009, 175 ss.; S. Casu, L’autorizzazione paesaggistica tra disciplina a regime e disciplina transitoria (verso un equilibrio nel riparto di competenze), in Giustamm.it, 2009, 164 ss.; F. Marzari, Autorizzazioni paesaggistiche: sta per tramontare il veto della sovrintendenza, in Edilizia e territorio, 2009, 10 ss.; P. Marzaro, L’amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema complesso, Torino, 2009; Id., La “cura” ovvero l'amministrazione del paesaggio: livelli, poteri e rapporti tra enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. giur. urb., 2008, 423 ss.; S. Amorosino, Introduzione al diritto del paesaggio, Roma-Bari, 2010.
[3] La controversia può essere così brevemente riassunta in fatto: la ricorrente, società locataria di una struttura alberghiera nel Comune di Maratea, ha impugnato il diniego di autorizzazione paesaggistica relativo alla realizzazione di una struttura temporanea a servizio dell’albergo de quo. In particolare, il diniego opposto dalla Regione Basilicata si è sostanziato nel fatto che «trattasi della stessa opera per cui l’Ufficio di pianificazione territoriale e paesaggio, in data 05/08/2022, ha determinato un diniego al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs42/2004, avendo acquisito il diniego assoluto della proprietà alla realizzazione di cui trattasi». Pertanto, al fine di proseguire l’iter istruttorio della pratica, «sussiste la necessità di acquisire preventivamente l’assenso della società proprietaria dell’immobile in oggetto». Avverso tale specifico profilo, la ricorrente ha lamentato la violazione di legge, l’eccesso di potere e la disparità di trattamento, in quanto l’Amministrazione regionale, in buona sostanza, avrebbe errato nel qualificare il rapporto contrattuale quale “locazione”, mentre in realtà lo stesso costituirebbe un contratto di “affitto d’azienda” di durata pari a quattordici anni. L’affittuario, adunque, sarebbe subentrato nella pienezza dei rapporti facenti capo al concedente e avrebbe acquisito «prerogative di godimento e di disposizione equivalenti a quelle del proprietario giacché estese non solo sulle dotazioni di scorta (c.d. capitale circolante) ma anche sugli impianti (c.d. capitale fisso)». Secondo tale ricostruzione, dunque la ricorrente vanterebbe rispetto al bene alberghiero una posizione giuridica qualificata, quale diritto personale di godimento, alla presentazione dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. 42/2004 e alla presentazione del permesso a costruire ex art. 11 del d.P.R. n. 380/2001.
[4] Si veda M.R. Spasiano, Art. 146, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, 1116 ss.; P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G.F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, 2007, 135 ss.
[5] Ancora sull’autorizzazione paesaggistica in generale si veda L. Corti, Il controllo statale sulle autorizzazioni paesaggistiche nel (quasi concluso) regime transitorio, in Riv. giur. amb., 2010, 785 ss.; D. Logozzo, La “nuova” disciplina in materia di autorizzazione paesaggistica, in Urb. e app., 2010, 907 ss.; A. Serritiello, La semplificazione nel sistema di amministrazione del paesaggio, in AEDON, 2013, 1 ss.; G. Mari, Le incertezze irrisolte in tema di autorizzazione paesaggistica, in Riv. giur. ed., 2014, 103 ss.; E. Zampetti, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica tra esigenze di semplificazione e garanzie costituzionali, in Nuove Autonomie, 2014, 316 ss.; P. Carpentieri, Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela. Semplificazione e tutela, in AEDON, 2016, 3, 1 ss.; M. Immordino, R. Lombardi, Elementi di legislazione dei beni paesaggistici, in A. Police, M.R. Spasiano (a cura di), Manuale di governo del territorio, Torino, 2016, 209 ss.; G. Mari, La rilevanza della disciplina del silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti relativi ai titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell’edilizia. Considerazioni a margine di una recente circolare del MIBACT, in Riv. giur. ed., 2016, 61 ss.; P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato, in Federalismi.it, 2016, 1 ss.; G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi, in AEDON, 2016, 3, 54 ss.; S. Amorosino, Il nuovo regolamento di liberalizzazione e semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche (d.P.R. n. 31 del 2017), in Riv. giur. urb., 2017, 174 ss.; B. Fenni, Tutela del paesaggio e esigenze di semplificazione, in Ambientediritto.it, 2017, 1 ss.; P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, in Riv. giur. urb., 2017, 220 ss.; G. Piperata, Paesaggio, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, 243 ss.; M. Sinisi, L’autorizzazione paesaggistica tra liberalizzazione e semplificazione (D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31): la “questione aperta” del rapporto tra semplificazione amministrativa e tutela del paesaggio, in Riv. giur. ed., 2017, 4, 235 ss.; G. Zborowski, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Torino, 2018, 1127 ss.
[6] Si veda, in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 2021, n. 5407; Id., sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776; Id., sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4818, tutte in giustizia-amministrativa.it. Di particolare rilievo è il caso di cui a Cons. Stato, sez. IV, 30 agosto 2018, n. 5115, in Dir. e Giust., 2018, secondo cui, per il tramite dell’istanza di cui all’art. 19, comma 6 ter l. n. 241/1990, e nei limiti del suo interesse ad agire, il privato terzo, in caso di SCIA edilizia, può solo richiedere all’Amministrazione «la verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia applicabile al caso di specie. Ma il privato non può certo richiedere all’amministrazione di verificare – in capo al soggetto che agisce sulla base di una Scia - la sussistenza delle condizioni perché questi possa essere destinatario di un titolo edilizio ex art. 11 d.P.R. n. 380/2001, proprio perché il medesimo articolo esclude che la Scia possa essere ricondotta ad un provvedimento amministrativo».
[7] Cfr., oltre alle pronunce già richiamate nella nota precedente, Cons. Stato, sez. V, 04 aprile 2012, n. 1990, in Foro amm.-C.D.S., 2012, 4, 891 ss., secondo cui, anche in materia di concessione di costruzione, deve essere applicato il principio per cui, ai fini dell’accertamento della proprietà di un’area, i dati catastali hanno valore meramente indiziario e ad essi può essere attribuito valore probatorio soltanto quando non risultino contraddetti da specifiche determinazioni negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del contenuto dell’atto al quale deve farsi risalire la titolarità dell’area medesima, da cui emerga l’effettiva, diversa estensione e delimitazione dell’oggetto del contratto stesso.
[8] Si veda, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 2022, n. 1827, in Foro amm., 2022, 3, 371 ss., ove si rileva che tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza, con la conseguenza che l’Amministrazione, quando venga a conoscenza, ad esempio, dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico sulla “pienezza” del titolo di legittimazione addotto dal richiedente.
[9] C.G.A.R.S., 11 maggio 2021, n. 413; Cons. Stato, sez. II, 30 settembre 2019, n. 6528, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui «colui che richiede un titolo edilizio deve allegare e dimostrare di essere legittimato alla realizzazione dell'intervento che ne costituisce oggetto, il Comune non è tenuto a svolgere approfondite indagini al fine di appurare l'effettiva esistenza della legittimazione, ma deve limitarsi ad effettuare valutazioni sommarie, basate su prove di facile apprezzamento; conseguentemente, in caso di contestazioni sul titolo di legittimazione, pur potendo condurre le necessarie attività istruttorie il Comune non può sovrapporre propri apprezzamenti a quelli di competenza del giudice civile, e quindi deve arrestarsi laddove il richiedente non sia in grado di produrre elementi prima facie attendibili».
[10] Cons. Stato, n. 5407/2021 cit.
[11] In giurisprudenza, Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2021, n. 4919, in giustizia-amministrativa.it.
[12] Si veda Cons. Stato, sez. VI, 02 agosto 2011, n. 4576; Id., 08 giugno 2007, n. 3027; Id., sez. IV, 05 giugno 2012, n. 3300, quest’ultima in Riv. giur. ed., 2012, 3, 798 ss., ove si chiarisce che nelle controversie derivanti dall’impugnazione di un permesso di costruire, la coesistenza su un medesimo bene di più diritti reali, implica che più soggetti possano agire anche indipendentemente l’uno dall’altro a difesa dei rispettivi diritti insistenti sul medesimo bene: tale legittimazione, peraltro, «spetta anche all’usufruttuario, a prescindere dalla circostanza che l'usufruttuario sia anche detentore del bene».
[13] Cons. Stato, sez. IV, 05 giugno 2012, n. 3300; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 07 marzo 2011, n. 1318, in giustizia-amministrativa.it. Secondo T.A.R. Veneto, sez. IV, 13 novembre 2013, n. 1270, il diritto di usufrutto, in quanto ricomprende anche la possibilità di sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria del suolo, costituisce titolo idoneo a legittimare la richiesta del permesso di costruire. Secondo Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1238, in giustizia-amministrativa.it, in base all’art. 11 del d.P.R. n. 380/2001 anche il nudo proprietario ha diritto a richiedere il titolo edilizio, mentre secondo un orientamento più risalente (T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, sez. II, 30 luglio 1997, n. 306, in giustizia-amministrativa.it) il nudo proprietario non sarebbe legittimato, salvo si tratti di interventi che determinino la modifica ca della destinazione d’uso dell’immobile, per la quale è richiesto l’assenso sia dell'usufruttuario che del proprietario.
[14] T.A.R. Abruzzo, sez. I, 01 settembre 2011, n. 504, in Foro amm.-T.A.R., 2011, 9, 2768 ss. Come detto, il permesso di costruire è rilasciato, salvi i diritti dei terzi, non solo al proprietario, ma anche a “chi abbia titolo per richiederlo”, dovendosi intendere tali soggetti anche nei contitolari del diritto dominicale, nell’enfiteuta, usufruttuario, titolare del diritto di superficie, d’uso e d’abitazione, fino al promissorio acquirente in possesso del godimento dell'immobile; ora, «dal momento che il comproprietario condominiale ha il diritto ad utilizzare il suo titolo reale parziario, al pari di tutti gli altri condomini, l'Amministrazione non è, pertanto, tenuta ad effettuare alcuna disamina puntuale dei rapporti tra gli stessi condomini, essendo sufficiente la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi fa l'istanza ed il bene oggetto dell'edificazione».
[15] T.A.R. Basilicata, sez. I, 25 ottobre 2010, n. 779, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 10, 3353 ss.
[16] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 18 luglio 2011, n. 1365, in Riv. giur. ed., 2011, 5, 1362 ss., ove si specifica che l’art. 11 d.P.R. n. 380 del 2001, nel disporre che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi ne abbia titolo, prevede, quale condizione legittimante la presentazione della richiesta, la sussistenza di una situazione giuridica assimilabile alla proprietà ovvero alla qualificata aspettativa di poter esercitare le prerogative del proprietario sull'area ove realizzare l'intervento. In tale ipotesi, rientra la stipulazione di un contratto di opzione e ciò «in ragione della sua configurazione quale sostanziale proposta irrevocabile, con vincolo a carico del concedente e diritto potestativo in favore dell’opzionario, trattandosi senz'altro di istituto idoneo a fa sorgere, in capo all'interessato, una situazione di qualificata aspettativa».
[17] Sul punto, T.A.R. Sardegna, sez. II, 11 maggio 2017, n. 332, in giustizia-amministrativa.it.
[18] Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776, in Riv. giur. ed., 2014, 5, 1069 ss., ove si chiarisce che tale lettura si estende anche alle procedure di condono edilizio, per la cui richiesta la normativa di riferimento rinvia alla domanda di concessione edilizia e a chi abbia titolo per presentarla. Cfr. pure Cons. Stato, sez. I, 28 giugno 201, n. 7563, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 6, 1740 ss.; Id., sez. VI, 25 marzo 2011, n. 1842, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 3, 991 ss.; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 08 luglio 2013, n. 1500, in Foro amm.-T.A.R., 2013, 7-8, 2500 ss.; Cons. Stato, sez. IV, 26 gennaio 2009, n. 437, in Riv. giur. ed., 2009, 3, 898 ss.; Id., 27 ottobre 2009, n. 6545, in Foro amm.-C.d.S., 2009, 10, 2307 ss.
[19] In giurisprudenza, T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 03 settembre 2008, n. 10036, in Foro amm.-T.A.R., 2008, 9, 2523 ss., ove si evidenzia che anche l’amministratore di un condominio, se e quando munito di specifici poteri a lui conferiti dai singoli condomini, può richiedere il rilascio di una concessione edilizia in quanto la legge non esclude che i soggetti titolati possano avvalersi di altri soggetti, regolarmente incaricati secondo le regole generali per esercitare il loro diritto. Ciò può facilmente verificarsi «nell'ipotesi di lavori di ristrutturazione di uno stabile condominiale per i quali è richiesta la concessione edilizia o nel caso di demolizione e successiva ricostruzione di un edificio condominiale».
[20] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 12 dicembre 2013, n. 2443 e Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2011, n. 4370, in giustizia-amministrativa.it, ove si evidenzia che sia necessario guardare ai contenuti del contratto stipulato dalle parti ed alle facoltà in esso conferite, comparando le stesse con il tipo di intervento edilizio che si è richiesto per l’immobile.
[21] T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 24 gennaio 2012, n. 765; T.A.R. Basilicata, sez. II, 26 luglio 2010, n. 532, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 8, 2638 ss., laddove i giudici amministrativi evidenziano che «il provvedimento di concessione edilizia può essere rilasciato al proprietario dell'area o a chi ha titolo per richiederla, quale titolare di un diritto reale ovvero un diritto obbligatorio che accordi al richiedente la disponibilità del suolo o la potestà edificatoria, mentre una semplice relazione di fatto, ancorché tutelata, quale quella legata al mero possesso dell'area, non è idonea a conferire il diritto ad ottenere il rilascio del titolo concessorio».
[22] Cons. Stato, sez. VI, 02 febbraio 2012, n. 568, in giustizia-amministrativa.it.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776, in giustizia-amministrativa.it.
[24] Si veda, in particolare, Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745 in Riv. giur. ed., 2020, 5, 1292 ss., ove si chiarisce che «se è vero che l'Amministrazione comunale, nel corso dell'istruttoria sul rilascio della concessione edilizia, deve verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è chiesta la concessione edilizia, benché la concessione sia sempre rilasciata facendo salvi i diritti dei terzi, è anche vero, però, che deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, o di verificare l'inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l'attività edificatoria dell'immobile, atteso che la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all'attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune». Cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 23 dicembre 2019 n. 6394, in Foro amm., 2019, 12, 2039 ss.
[25] Si veda T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. III, 10 gennaio 2019, n. 56, in giustizia-amministrativa.it, ove si sottolinea, nel dettaglio, che ogni qual volta è nota la situazione di comproprietà dell’immobile oggetto di intervento, l’ente locale è tenuto ad accertare che vi sia l’assenso di tutti i comunisti coinvolti, senza che possano essere opposte, al fine di escludere la necessità di tale assenso, vicende sostanziali e processuali che presuppongono accurate ed approfondite indagini circa i sottesi rapporti civilistici.
[26] Cons. Stato, sez. VI, 07 settembre 2016, n. 3823, in Foro amm., 2016, 9, 2105 ss. In particolare, secondo il giudice di seconde cure, in sede di procedimento per rilascio di titolo edilizio (in specie, in sanatoria) deve formare oggetto di valutazione, da parte del Comune, la sussistenza di tutti i presupposti cui la legge condiziona il suddetto rilascio e, fra essi, anche la circostanza che l’istanza di sanatoria «provenga da un soggetto qualificabile come proprietario dell'edificio oggetto degli interventi della cui sanatoria giuridica si tratti e che abbia l'intera proprietà del bene, e non solo una parte o quota di esso; non può invece riconoscersi la legittimazione al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, atteso che il contegno tenuto da quest'ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento». Cfr. pure Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 2016, n. 2116; Id., 25 settembre 2014, n. 4818, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[27] T.A.R. Sardegna, sez. I, 25 febbraio 2022, n. 135, in Riv. giur. ed., 2022, 3, 832 ss. che conferma, in linea con costante impostazione giurisprudenziale, il fatto che il Comune, in sede di rilascio del titolo abilitativo, deve verificare l’esistenza del titolo giuridico per realizzare l’intervento, ex art. 11, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, ma non è tenuto a svolgere verifiche complesse in ordine al regime proprietario dei beni né, tanto più, a risolvere conflitti tra parti private; cfr. pure Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2329, in Riv. giur. ed., 2021, 3, 921 ss.
[28] Del resto, il rilascio del titolo edilizio non incide sui rapporti tra privati, ma lascia impregiudicati i diritti degli aventi diritto; tanto è confermato dall’art. 11, comma 3, d.P.R. 380/2001, nella parte in cui sancisce espressamente che “il rilascio del permesso di costruire non comporta limitazione dei diritti dei terzi”. Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte ribadito che «il rilascio del titolo edilizio abilitativo, facendo salvi i diritti dei terzi, non interferisce nell'assetto dei rapporti tra privati; pur restando fermo il potere (dovere) dell'Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica per la realizzazione dell'intervento edilizio da assentire. Si tratta, in sostanza, di un controllo generale di conformità che non può spingersi comunque sino a penetranti analisi, nel senso che l'Amministrazione non è tenuta a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali circa gli effetti pregiudizievoli dell'intervento progettato sui diritti reali vantati da terzi sulle parti comuni dell'edificio o sull'incidenza dell'intervento su vincoli reali gravanti sull'edificio stesso»; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 24 gennaio 2022, n. 435; Id., sez. IV, 13 novembre 2020, n. 5204, in giustizia-amministrativa.it.
[29] Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2021, n. 4919; Id., 24 febbraio 2022, n. 1302, in Foro amm., 2022, 2, 191 ss.
[30] Diverso è il caso in cui in cui il Comune sappia che il diritto di chi richiede il titolo abilitativo è contestato: in tal caso, l’ente deve compiere le indagini necessarie per verificare se tali contestazioni siano fondate e negare il rilascio del titolo laddove il richiedente non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento del suo diritto (così Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2021, n. 2951, ove si specifica che se è vero che il rilascio del permesso non incide sui diritti dei terzi è anche vero che i principi di economicità dell’azione amministrativa sconsigliano di rilasciare titoli abilitativi aventi ad oggetto interventi edilizi oggetto di facili impugnative da parte dei controinteressati).
[31] In situazione di comproprietà dell’immobile oggetto di intervento (risultante, ad esempio, dall’atto di proprietà), si è rilevato come l’ente locale è tenuto ad accertare che vi sia l’assenso di tutti i comproprietari coinvolti, senza che possano essere opposte, al fine di escludere la necessità di tale assenso, vicende sostanziali e processuali che presuppongono accurate ed approfondite indagini circa i sottesi rapporti civilistici (T.A.R. Catanzaro, n. 56/2019 cit.). Più nel dettaglio, si è evidenziato come il comproprietario è singolarmente legittimato solo con l'avallo, esplicito (delega) o implicito degli altri, desumibile quest'ultimo anche dal c.d. “factum fiduciae” e cioè un comportamento concludente attestante un rapporto fiduciario tra i vari comproprietari, che è stato talvolta ricondotto alla c.d. “tolleranza pregressa”, ossia nel tempo trascorso senza che vi sia un’esplicita espressione di dissenso da parte degli altri comproprietari; Cons. Stato, sez. IV, 29 agosto 2019, n. 5947, in giustizia-amministrativa.it.
[32] Secondo il TAR Basilicata, nella pronuncia in commento, parte resistente «non ha affatto proceduto a una autonoma riqualificazione del contratto di affitto d’azienda in locazione, essendosi limitata ad affermarne l’equivalenza ai fini che qui rilevano, in quanto entrambi tali tipi contrattuali attribuiscono al locatore o all’affittuario un diritto personale di godimento». In particolare, si è evidenziato come l’affitto di azienda è un contratto in forza del quale il proprietario concede un diritto personale di godimento a un terzo dietro pagamento di un canone, integrando una “species” del “genus” della locazione.
[33] Si veda anche S. Speranza, Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022), in Giustizia Insieme, 2022. Sia consentito il rinvio anche a G. Delle Cave, «In interpretatione non fit claritas»: sulla duplice (anzi triplice) esegesi pretoria in materia di silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990 e parere paesaggistico soprintendizio, in Giustizia Insieme, 2023; Id., Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990, ivi, 2022.
[34] D. Galasso, Nelle aree vincolate l'autorizzazione paesaggistica è sempre necessaria, in Dir. e giust., 2016, 10, 12 ss.; L. Corti, Vincoli e autorizzazioni paesaggistiche: orientamenti consolidati e profili di novità, in Riv. giur. amb., 2011, 3, 524 ss.
[35] T.A.R. Liguria, sez. I, 26 maggio 2011, n. 1015 e T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 09 novembre 2010, n. 23672 in Foro amm.-T.A.R. 2010, 11, 3596 ss., secondo cui, ad esempio, non può essere annoverato tra questi soggetti il promissario acquirente «cui non sia stata attribuita la detenzione del bene». Pertanto, è necessaria la disponibilità materiale del bene «pena l'inefficacia del sistema di tutela giurisdizionale». Sul punto, si veda V. Parisio, Art. 146, comma 12, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Giuffrè, 2019, 1310 ss. Recentemente, Cons. Stato, sez. I, 30 dicembre 2022, n. 2208, in giustizia-amministrativa.it.
[36] Si veda T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 09 novembre 2010, n. 23672, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 11, 3596 ss.
[37] Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 2022, n. 1827, in giustizia-amministrativa.it.
[38] Sul punto, si veda Cons. Stato, sez. IV, 2023 n. 2836, in Riv. giur. ed., 2023, 3, 634 ss., ove si evidenzia che il parere di compatibilità paesaggistica costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito di quella sequenza di atti e attività preordinata al rilascio o al diniego del provvedimento di autorizzazione paesaggistica: le valutazioni espresse sono finalizzate all'apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o diniego di tale autorizzazione. Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 11 febbraio 2019, n. 190; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 03 settembre 2018, n. 5317; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 31 agosto 2016, n. 2040, tutte in giustizia-amministrativa.it. Cfr. S. Caggegi, Funzione del parere di compatibilità paesaggistica e sindacabilità degli atti finalizzati alla tutela ambientale. Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2836, in Giustizia Insieme, 2023.
[39] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2023 n. 5407, in giustizia-amministrativa.it.
[40] N. Durante, Il controverso regime delle autorizzazioni paesaggistiche, relazione nell’ambito del convegno “La tutela dei beni paesaggistici e culturali, a venti anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”, 2024.
[41] Si veda anche T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 17 febbraio 2023, n. 513, in giustizia-amministrativa.it.
[42] S. Amorosino, Autorizzazioni paesaggistiche: una sentenza “passatista” del Consiglio di Stato disattesa dal T.A.R. Salerno, in Urb. e app., 2021, 4; P. Carpentieri, Silenzio assenso e termine a provvedere, anche con riferimento all’autorizzazione paesaggistica. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in giustizia-amministrativa.it, 2022.
[43] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09 giugno 2020, n. 3689, in giustizia-amministrativa.it.
[44] Si veda, sul punto, la lucida analisi di O. Carparelli, Brevi note in tema di soggetti legittimati a richiedere la concessione edilizia, in LexItalia, 2020.
[45] Secondo O. Carparelli, op. cit., detta causa, che, di regola, è tipica per ciascuna fattispecie di contratto, «deve essere lecita; sicché, non sarebbe legittimo e/o lecito che le parti facciano ricorso all’utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge (art.1344 c.c.), nel senso che non è lecito che le stesse, intenzionalmente, attribuiscano al negozio una funzione obiettiva diversa da quella tipicamente prevista, per il raggiungimento di una comune finalità contraria alla legge».
Gli impianti “minimi” nel servizio di gestione integrata dei rifiuti. Tutela dell’ambiente e promozione della concorrenza tra potere di direttiva dello Stato, pianificazione regionale e regolazione di ARERA (nota a Cons. St., sez. II, 12 dicembre 2023, n. 10734)
di Saul Monzani
Sommario: 1. Premessa. La classificazione degli impianti di trattamento secondo la regolazione ARERA. - 2. Il principio di evidenza pubblica in rapporto ai principi di prossimità e libera circolazione dei rifiuti urbani. La illegittimità di regimi di privativa non giustificati. - 3. La governance “multi-livello” del servizio di gestione integrata dei rifiuti. La ritenuta carenza di potere, anche implicito, di ARERA in tema di impianti “minimi”. - 4. Il meccanismo degli impianti “minimi” quale strumento di natura regolatoria al servizio della pianificazione regionale nel quadro delle direttive statali. La ricomposizione della governance “multi-livello”.
1. Premessa. La classificazione degli impianti di trattamento secondo la regolazione ARERA.
La fattispecie che è stata oggetto della giurisprudenza che ci si accinge ad esaminare riguarda il meccanismo introdotto dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) nell’ambito del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani in tema di impianti “minimi”.
In particolare, con la delibera del 3 agosto 2021 n. 363 di approvazione del Metodo Tariffario Rifiuti per il secondo periodo regolatorio 2022-2025 (MTR-2), l’Autorità, per quanto qui rileva, ha prospettato, “al fine di sostenere lo sviluppo di un adeguato sistema infrastrutturale”, di adottare strumenti di regolazione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento, sulla base della classificazione, operata a livello di pianificazione regionale, degli impianti di chiusura del ciclo integrato dei rifiuti in “integrati”, “minimi” e “aggiuntivi”.
Tale classificazione viene ora effettuata sulla base di quanto previsto nel Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti (PNGR) di cui al decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica n. 257 del 24 giugno 2022 per cui: gli impianti “integrati” sono quelli gestiti dall’operatore incaricato del servizio integrato di gestione dei rifiuti; gli impianti “minimi” sono quelli individuati come indispensabili nella misura in cui offrono capacità in un mercato con rigidità strutturali, caratterizzato da un forte e stabile eccesso di domanda e da un limitato numero di operatori; mentre, infine, quelli “aggiuntivi” sono individuati in via residuale.
Ebbene, sotto il profilo tariffario, gli impianti di chiusura del ciclo gestiti dall’operatore incaricato del servizio di gestione integrata dei rifiuti sono sottoposti ad una regolazione dei costi riconosciuti e delle tariffe di accesso secondo quanto previsto dal Metodo tariffario adottato dall’Autorità, integrata da un meccanismo di perequazione ambientale, il quale, prevede, da un lato, il riconoscimento di incentivi a favore di chi conferisce agli impianti di recupero della frazione organica dei rifiuti urbani e di incentivi (più limitati e comunque vincolati a prestazioni ambientali soddisfacenti raggiunte nei territori di provenienza) a favore di chi conferisce agli impianti di incenerimento con recupero di energia (a parziale compensazione dei corrispettivi dovuti per l’accesso a tali impianti) nonchè, dall’altro lato, l’applicazione di disincentivi per chi conferisce in discarica o in impianti di incenerimento senza recupero di energia (come maggiorazione dei corrispettivi dovuti per l’accesso a tali impianti).
Gli impianti classificati come “minimi”, anche se facenti capo a gestori non integrati, sono parimenti sottoposti all’applicazione di una regolazione dei costi riconosciuti e delle tariffe integrata dal meccanismo di perequazione ambientale appena descritto.
Infine, gli impianti di chiusura del ciclo “aggiuntivi” non sono assoggettati a regolazione tariffaria, potendo offrire sul mercato la loro capacità, ma sono comunque tenuti all’obbligo di applicare condizioni di conferimento non discriminatorie, pubblicando, sul proprio sito internet, i criteri principali alla base della individuazione dei corrispettivi di accesso, nonché sono sottoposti a disincentivi ove si tratti di discariche o di impianti di incenerimento senza recupero di energia.
Nel descritto contesto, il metodo MTR-2 prevede, in particolare, che in sede di classificazione degli impianti di chiusura del ciclo siano esplicitati: a) i flussi che si prevede vengano trattati per impianto; b) la distinzione dei medesimi secondo il criterio di prossimità che si ritiene utile specificare; c) l’elenco dei soggetti che si prevede conferiscano ai medesimi impianti.
In sostanza, in sede di individuazione degli impianti “minimi”, la pianificazione regionale giunge a determinare i flussi “di prossimità” dei rifiuti che obbligatoriamente devono essere convogliati a ciascun impianto ubicato sul territorio regionale stesso, a fronte del riconoscimento al gestore di una remunerazione determinata in via regolatoria.
Il meccanismo fin qui succintamente illustrato è stato oggetto di contestazione da parte degli operatori del settore, in particolare di quelli titolari di impianti collocati fuori dalla regione presa a riferimento, i quali hanno lamentato un effetto restrittivo della concorrenza nonché hanno dubitato della legittimazione di ARERA ad intervenire sul tema.
Così, la sentenza che ci si accinge ad illustrare ha esaminato e definito la latitudine applicativa della regola dell’evidenza pubblica nel campo del servizio di gestione integrata dei rifiuti, ciò rispetto agli (ulteriori) principi contenuti nel Codice dell’ambiente in tema di “prossimità” nonchè di libera circolazione sul territorio nazionale di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata. Inoltre, la giurisprudenza oggetto del presente commento si è interrogata circa la sussistenza in capo ad ARERA del potere di disciplinare in via regolatoria il meccanismo in questione, con le relative conseguenze che, asseritamente, produrrebbero una sorta di regime di “privativa” del segmento dello smaltimento[1].
2. Il principio di evidenza pubblica in rapporto ai principi di prossimità e libera circolazione dei rifiuti urbani. La illegittimità di regimi di privativa non giustificati.
Come è noto, il Codice dell’ambiente (di cui al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 s.m.i.) ha previsto, all’art. 200, che, in via “ordinaria”, la gestione dei rifiuti urbani sia effettuata sulla base degli Ambiti Territoriali Ottimali delimitati dalle Regioni, in una prospettiva “integrata” volta al superamento della frammentazione gestionale e al conseguimento di adeguate dimensioni gestionali, nonché previa valutazione del sistema stradale e ferroviario di comunicazione e ricognizione degli impianti di gestione di rifiuti già realizzati e funzionanti nell’ambito territoriale di riferimento. Come è altrettanto noto, però, il comma 7 del predetto art. 200 consente alle Regioni di adottare modelli alternativi o in deroga al modello degli Ambiti Territoriali Ottimali; ciò sulla base di un piano regionale dei rifiuti che dimostri la propria adeguatezza rispetto agli obiettivi strategici previsti dalla normativa vigente, con particolare riferimento ai criteri generali e alle linee guida riservati, in materia, allo Stato.
Il successivo art. 202 del Codice dell’ambiente, in tema di modalità di affidamento del servizio in questione, fa riferimento, in particolare, alla “gara” pubblica, rinviando comunque alla disciplina vigente, anche di livello europeo, in materia di affidamento dei servizi pubblici locali. A tale ultimo proposito, rileva il disposto del vigente Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, il quale, all’art. 7, in nome del principio di “auto-organizzazione amministrativa”, effettua a sua volta un rinvio, per quanto riguarda i servizi di interesse economico generale di livello locale, a quanto previsto dal d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201 recante “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica”.
Ebbene, l’art. 14 di quest’ultimo corpus normativo, in quanto a “modalità di gestione del servizio pubblico locale”, fa riferimento sostanzialmente alle consuete tre possibilità: a) affidamento a terzi mediante procedura ad evidenza pubblica svolta in conformità al diritto dell’Unione europea; b) affidamento a società a capitale misto pubblico-privato tramite una gara avente come doppio oggetto la quota societaria e l’affidamento del servizio, in conformità al diritto dell’Unione europea; c) affidamento diretto c.d. “in house”, nei limiti fissati dall’Unione europea.
Più specificamente, il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. nella l. 24 marzo 2012, n. 27, dettato in tema di “concorrenza, sviluppo delle infrastrutture e competitività” (decreto c.d. “Crescitalia”), ha ribadito, all’art. 25, volto alla “promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali”, comma 4, che la gestione ed erogazione dei servizi di gestione integrata dei rifiuti urbani sono affidate ai sensi del predetto art. 202 del Codice dell’ambiente, nel rispetto della normativa europea e nazionale sull'evidenza pubblica; ciò con esplicito riferimento alle attività di raccolta, raccolta differenziata, commercializzazione e avvio a smaltimento e recupero.
Segue l’ulteriore precisazione per cui nel caso in cui gli impianti siano di titolarità di soggetti diversi dagli enti locali di riferimento, come spesso avviene, all’affidatario del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani devono essere garantiti l’accesso agli impianti a tariffe regolate e predeterminate e la disponibilità delle potenzialità e capacità necessarie a soddisfare le esigenze di conferimento indicate nel piano d’ambito.
D’altro canto, l’art. 181, comma 5, del Codice dell’ambiente specifica che per le frazioni di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata destinati al riciclaggio e recupero è sempre ammessa la libera circolazione sul territorio nazionale al fine di favorire il più possibile il loro recupero, privilegiando, anche con strumenti economici, il principio di prossimità agli impianti di recupero.
Quest’ultimo principio, peraltro, risulta valorizzato nel già citato Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (PNGR), ove, con particolare riferimento ai rifiuti organici, si afferma che essi devono essere gestiti “prioritariamente” all’interno del territorio regionale nel rispetto del principio di prossimità, al fine di limitarne il più possibile la movimentazione. In tale prospettiva, si indica alle Regioni la necessità di verificare la propria autonomia impiantistica e di pianificare eventuali impianti necessari alla copertura del fabbisogno, rimanendo comunque impregiudicata la libera circolazione di tale frazione nonché la possibilità di conseguire l’autonomia gestionale, anche su un territorio più ampio, da individuare come “macroarea”, previo accordo tra le Regioni interessate[2].
Ebbene, la giurisprudenza oggetto del presente commento ha proceduto ad una disamina del rapporto sistematico che intercorre, da un lato, tra il principio generale dell’evidenza pubblica, quale modalità “principale” di affidamento del servizio di igiene urbana che, in quanto “integrato” comprende anche l’attività di recupero, e, dall’altro lato, il principio di “prossimità” degli impianti di recupero delle frazioni di rifiuto urbano oggetto di raccolta differenziata nel contesto della “sempre ammessa” circolazione di tale tipologia di rifiuti sul territorio nazionale[3].
Così individuato il quadro di riferimento, la giurisprudenza ora in esame è giunta a negare la sussistenza di una qualche forma di “privativa” rispetto, in particolare, alle attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati, da intendersi in senso lato fino a comprendere anche le attività di avvio al recupero, le quali attività devono pertanto ritenersi suscettibili di essere svolte anche dai privati muniti delle prescritte autorizzazioni ambientali[4].
A siffatte conclusioni, si è pervenuti partendo dal dato normativo di cui agli artt. 101-109 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea per cui un regime di privativa e dunque di “riserva di attività”, per essere ammesso nel sistema, deve essere sia previsto da una esplicita norma di legge, senza che possa essere ricavato o esteso in via interpretativa, nonché deve essere giustificato alla luce del principio di concorrenza.
Ancora più specificamente, la giurisprudenza che si sta considerando ha osservato come la direttiva europea 2008/98/CE “Rifiuti”, nel considerando 6, indichi come obiettivo principale in materia quello di “ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente”, giungendo a prescrivere, all’art. 15, agli Stati membri di adottare “le misure necessarie per garantire che ogni produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provveda personalmente al loro trattamento oppure li consegni ad un commerciante o ad un ente o a un’impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti o ad un soggetto addetto alla raccolta dei rifiuti pubblico o privato”, prefigurando, così, un “sistema complesso nel quale agiscono vari soggetti, pubblici e privati”. Tali indicazioni si ritrovano nella normativa nazionale e, in particolare, nell’art. 177 del Codice dell’ambiente, secondo il quale i soggetti pubblici possono esercitare le loro competenze anche “avvalendosi, ove opportuno, mediante accordi, contratti di programma o protocolli d'intesa anche sperimentali, di soggetti pubblici o privati”.
Sotto altro profilo, sempre nella medesima sede, si è rilevato che la direttiva predetta indica, all'art. 23, lo strumento a disposizione degli Stati membri per raggiungere gli obiettivi indicati, là dove prevede che essi “impongono a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere l'autorizzazione dell'autorità competente”, introducendo così un regime autorizzatorio che peraltro non è universale, dato che, ai sensi del successivo art. 24, gli stessi Stati membri possono escludere la necessità dell’autorizzazione in due casi, uno dei quali è proprio l’attività di recupero. Per tale via, si è concluso che la scelta di un regime autorizzatorio, per di più derogabile, appare di per sé contraria alla previsione di una privativa in materia, sia di carattere generale, sia nel caso particolare dell’attività di recupero, che, in ipotesi, potrebbe svolgersi anche senza autorizzazione e ciò anche sulla base dei principi europei di proporzionalità e adeguatezza: ne consegue, in tale prospettazione, che l’attività predetta può esser svolta da più soggetti, purché nel rispetto degli interessi pubblici coinvolti, non essendovi spazio per ricavare l’esistenza di una privativa che non risulta espressamente prevista dalle norme sulla gestione integrata dei rifiuti urbani[5].
Dal contesto così come appena ricostruito, la sentenza oggetto precipuo del presente commento, ha tratto spunto per ribadire che la regola generale in tema di gestione integrata dei rifiuti urbani è quella improntata all’evidenza pubblica, ovvero in prima battuta alla gara. In siffatto ordine di idee, si è osservato come il principio di “prossimità”, pur funzionale alla migliore tutela ambientale possibile, tuttavia non è in grado di comprimere in maniera assoluta il valore della concorrenza, costituendo, al più, un fattore di “mitigazione”, attraverso il quale, pur sempre nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica, si valorizzino ed incentivino, con l’attribuzione di un punteggio premiale, le offerte che, tra le altre, garantiscano al meglio anche tale, ulteriore, principio[6].
Del resto, sempre secondo l’impostazione ora in rassegna, dallo stesso testo dell’art. 181, comma 5, del Codice dell’ambiente traspare come l’obiettivo principale del legislatore sia quello di “favorire il più possibile” il recupero delle frazioni di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata, mentre il criterio della “prossimità” viene individuato quale criterio preferenziale da incentivare “anche con strumenti economici”, ma senza che tale obiettivo ulteriore sia in grado di trasformare la libera circolazione di tali frazioni di rifiuti da regola ad eccezione, legittimando regimi di privativa o affidamenti diretti tali da sovvertire le regole in materia di affidamento degli appalti pubblici.
Sulla scorta del descritto impianto argomentativo, in definitiva, la giurisprudenza in commento ha statuito la illegittimità dei meccanismi che finiscano per stabilire una sorta di privativa ingiustificata, in particolare per quanto attiene l’attività di recupero delle frazioni di rifiuto urbano oggetto di raccolta differenziata (nel caso concreto si trattava della frazione organica - FORSU), a favore degli impianti “minimi” collocati sul territorio regionale; ciò nel momento in cui, come è avvenuto nella fattispecie concreta decisa dalla giurisprudenza in commento, vengano individuati a livello di pianificazione regionale, con carattere ritenuto “precettivo”, i bacini di riferimento di ciascun impianto, al quale gli enti locali interessati debbano, di fatto, conferire i rifiuti, così da sottrarre indebitamente tale attività alla dinamica concorrenziale del mercato del trattamento e smaltimento dei rifiuti, a discapito degli operatori collocati fuori del contesto regionale[7].
La necessità di sottoporre il conferimento dei flussi presso gli impianti di trattamento alla predetta dinamica competitiva, evitando regimi di privativa non giustificati, emerge nella giurisprudenza anche dal punto di vista delle modalità di affidamento del servizio di gestione integrata dei rifiuti. Si allude al fatto che, con l’abrogazione dell’art. 201 del Codice dell’ambiente, il quale attribuiva all’Autorità d’Ambito il compito di individuare un soggetto preposto alla realizzazione, gestione ed erogazione “dell'intero servizio”, quest’ultimo non è più configurato come un tutto inscindibile, essendo ben possibile che entro i confini di un Ambito Territoriale Ottimale si affidi tutto il servizio ovvero singoli segmenti di esso separatamente[8].
Da quest’ultimo punto di vista, in giurisprudenza è apparsa censurabile la scelta di una stazione appaltante di affidare tramite procedura ad evidenza pubblica il servizio di gestione integrata dei rifiuti sulla base di un unico lotto, senza fornire un’adeguata motivazione, ai sensi e per gli effetti del disposto di cui all’art. 51 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (ora art. 58 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), che dia conto dei vantaggi economici e/o tecnico-organizzativi derivanti dall’opzione del lotto unico, piuttosto che della suddivisione in più lotti, e che espliciti le ragioni che giustifichino il sacrificio della concorrenza in un determinato settore del mercato, in relazione agli interessi, oltre che delle imprese, anche degli utenti[9]. In altri termini, il carattere “integrato” del servizio in questione non è considerato elemento valido e sufficiente, di per sé, a giustificarne l’affidamento “in blocco”, senza una preventiva indagine dei differenti mercati aventi ad oggetto le singole attività per le differenti tipologie di rifiuto. Alla luce della giurisprudenza segnalata, pertanto, occorre considerare, ancora una volta, che, pur nell’ambito di una gestione “integrata” dei rifiuti, nulla osta, anzi è doveroso, considerare le specificità dei singoli settori della filiera; ciò, con particolare riferimento al segmento relativo al recupero dei rifiuti, il quale costituisce un’attività di mercato che, come tale, non può essere oggetto di una privativa ingiustificata[10].
3. La governance “multi-livello” del servizio di gestione integrata dei rifiuti. La ritenuta carenza di potere, anche implicito, di ARERA in tema di impianti “minimi”.
Un’ulteriore questione passata in rassegna dalla sentenza in commento, riguarda la riconducibilità, o meno, delle disposizioni in tema di impianti “minimi” al potere regolatorio attribuito dalla legge all’Autorità, nonché l’eventuale sovrapposizione di tale potere rispetto alle attribuzioni spettanti alle Regioni e, salendo al livello superiore, allo Stato.
L’impostazione che ci si accinge ad esaminare[11] prende le mosse dalla constatazione per cui la disciplina legislativa attributiva dei poteri alle Autorità indipendenti si connota spesso, vista l’oggettiva difficoltà di fare altrimenti, per l’utilizzo di clausole di ampio respiro, più orientate verso una prospettiva finalistica piuttosto che determinate in maniera tassativa nel loro contenuto: ciò ha portato la giurisprudenza all’elaborazione della nota teoria dei c.d. “poteri impliciti”, con riferimento a quei poteri che non sono espressamente contemplati dalla legge ma che si desumono, all’esito di una interpretazione sistematica, dal complesso della disciplina della materia, perché strumentali all’esercizio di altri poteri, posto che nei settori di competenza delle Autorità indipendenti è oggettivamente complesso per il legislatore predeterminare quale possa essere il contenuto del provvedimento amministrativo, in presenza di poteri di regolazione con una valenza tecnica e che si esplicano in ambiti in costante evoluzione per dinamiche di mercato differenti; ciò con l’ulteriore precisazione per cui siffatto meccanismo, in quanto derogatorio del principio di legalità, va applicato in modo stringente nonché va “affiancato” da particolari garanzie di carattere procedimentale, per consentirne la compatibilità costituzionale[12].
Così individuata la cornice di riferimento, il ragionamento condotto dai giudici amministrativi, al fine di pervenire alla decisione in commento, prende le mosse dalla considerazione del disposto di cui all’art. 1, comma 527, della l. 27 dicembre 2017, n. 205, il quale, proprio nella citata dimensione “finalistica”, conferisce ad ARERA una funzione di regolazione e controllo del servizio integrato dei rifiuti, al fine di garantire accessibilità, fruibilità e diffusione omogenee sull’intero territorio nazionale nonchè adeguati livelli di qualità in condizioni di efficienza ed economicità della gestione, armonizzando gli obiettivi economico-finanziari con quelli generali di carattere sociale, ambientale e di impiego appropriato delle risorse, nonchè di assicurare l’adeguamento infrastrutturale agli obiettivi imposti dalla normativa europea. In particolare, tra le funzioni così attribuite, quelle che interessano la tariffa del servizio riguardano la predisposizione ed aggiornamento del metodo tariffario per la determinazione dei corrispettivi del servizio integrato dei rifiuti e dei singoli servizi che costituiscono attività di gestione, a copertura dei costi di esercizio e di investimento, compresa la remunerazione dei capitali, sulla base della valutazione dei costi efficienti e del principio «chi inquina paga» (lett. f); la fissazione dei criteri per la definizione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento (lett. g); l’approvazione delle tariffe definite, ai sensi della legislazione vigente, dall’ente di governo dell'ambito territoriale ottimale per il servizio integrato e dai gestori degli impianti di trattamento (lett. h).
Ciò posto, secondo i giudici amministrativi l’attività di regolazione così attribuita all’Autorità “non può avere una portata illimitata”, dovendo l’atipicità finalistica del relativo potere confrontarsi con la tipicità dei poteri di altre amministrazioni che con il primo in qualche modo interferiscono. In tale ottica, sempre in base all’orientamento ora in considerazione, le norme del Codice dell’ambiente che ripartiscono le competenze in tema di gestione dei rifiuti, “non possono che costituire un limite all’espansione finalistica del potere di ARERA, arginandolo alla radice”.
Ebbene, le predette norme che vengono in considerazione riguardano l’aspetto di indirizzo, di competenza dello Stato, nonché quello di pianificazione, attribuito alle Regioni, del servizio di gestione integrata dei rifiuti.
Dal primo punto di vista, la giurisprudenza in commento ha richiamato l’impostazione, ormai consolidata, per cui la disciplina dei rifiuti rientra nella materia inerente la “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, lett. s), della Costituzione: in tale prospettiva, si è precisato che la legislazione statale, anche in attuazione degli obblighi europei, rappresenta un livello di tutela uniforme trasversale che si impone sull’intero territorio nazionale come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino[13].
Ciò posto, il carattere trasversale di detta competenza statale andrebbe ad interessare non solo le disposizioni di carattere sostanziale in tema di rifiuti, ma anche la dimensione organizzativa, entro la quale lo Stato alloca le funzioni amministrative in materia di tutela dell’ambiente, individuando più livelli e soggetti, i cui rispettivi ruoli devono essere coordinati nella prospettiva di una maggiore adeguatezza ed efficienza degli interventi di attuazione delle politiche ambientali.
Partendo da tale presupposto, la sentenza oggetto precipuo del presente commento, passa in rassegna le norme del Codice dell’ambiente le quali, anche innovando rispetto all’assetto precedente, “disegnano” un meccanismo pianificatorio “a cascata” che coinvolge Stato e Regioni, secondo un approccio multilivello.
In primo luogo, sul fronte statale, l’art. 195 del Codice ha attribuito al livello centrale, in un’ottica di integrazione e coerenza delle pianificazioni regionali, la funzione volta ad individuare criteri generali, differenziati per i rifiuti urbani e per i rifiuti speciali, ai fini dell’elaborazione dei piani regionali. In siffatta ottica, l’introduzione dell’art. 198-bis del Codice in tema di “Programma nazionale per la gestione dei rifiuti” confermerebbe la scelta di avocare al livello centrale le scelte di principio, affidando a tale atto il compito di definire i criteri e le linee strategiche cui le Regioni e le Provincie autonome devono attenersi nell’elaborazione dei piani regionali.
In secondo luogo, e di conseguenza, viene in considerazione, ai sensi dell’art. 196, la predisposizione del “Piano regionale di gestione dei rifiuti”, il quale comprende, secondo quanto specificato dal successivo art. 199, l’analisi delle modalità di gestione dei rifiuti adottate nell’ambito geografico interessato, le misure da assumere per migliorare l’efficacia ambientale delle diverse operazioni di gestione dei rifiuti, nonché una valutazione del modo in cui i piani contribuiscono all’attuazione degli obiettivi e delle disposizioni nazionali di cui al Codice dell’ambiente stesso. In particolare, per ciò che attiene al tema oggetto del presente in commento, i piani regionali suddetti, sempre in forza del predetto art. 199, comma 3, del Codice, individuano: tipo, quantità e fonte dei rifiuti prodotti all’interno del territorio, suddivisi per ambito territoriale ottimale per quanto riguarda i rifiuti urbani, rifiuti che saranno prevedibilmente spediti da o verso il territorio nazionale e valutazione dell’evoluzione futura dei flussi di rifiuti, nonché la fissazione degli obiettivi di raccolta differenziata da raggiungere a livello regionale (lett. a); i sistemi di raccolta dei rifiuti e impianti di smaltimento e recupero esistenti (lett. b); una valutazione della necessità di nuovi sistemi di raccolta, della chiusura degli impianti esistenti per i rifiuti, di ulteriori infrastrutture per gli impianti per i rifiuti in conformità del principio di autosufficienza e prossimità e se necessario degli investimenti correlati (lett. c). Si tratta, in sostanza, di svolgere un’analisi della domanda e dell’offerta, al fine di stabilire: le politiche generali di gestione dei rifiuti, incluse tecnologie e metodi di gestione pianificata dei rifiuti, o altre politiche per i rifiuti che pongono problemi particolari di gestione (lett. e); il complesso delle attività e dei fabbisogni degli impianti necessari a garantire la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di trasparenza, efficacia, efficienza, economicità e autosufficienza della gestione dei rifiuti urbani non pericolosi all’interno di ciascuno degli ambiti territoriali ottimali, nonché ad assicurare lo smaltimento e il recupero dei rifiuti speciali in luoghi prossimi a quelli di produzione al fine di favorire la riduzione della movimentazione di rifiuti (lett. h).
L’assetto di competenze fin qui descritto, in definitiva, esprime la necessità, sempre secondo la giurisprudenza in commento, che la “regìa” in tema di gestione dei rifiuti resti unitaria, in modo da assumere una visione d’insieme delle criticità, così da individuare soluzioni che possono anche travalicare i confini territoriali. In altri termini, sussisterebbe la necessità di salvaguardare un sistema che preveda un coordinamento statale nella individuazione delle scelte necessarie a chiudere in maniera efficiente il ciclo dei rifiuti. In particolare sotto il profilo della dotazione impiantistica, il bilanciamento tra tutela dell’ambiente, da un lato, e promozione della concorrenza, dall’altro lato, non potrebbe essere rimessa alla singola Regione in assenza di indicazioni da parte dello Stato soprattutto in situazioni di deficit infrastrutturale, rispetto al quale occorrerebbe una valutazione prospettica ed equidistante al fine di valutare necessità e priorità.
Nel quadro così ricostruito, si è giunti a ritenere che ARERA, nel fornire i criteri per individuare gli impianti “minimi” quale fattore essenziale per la chiusura del ciclo integrato dei rifiuti, abbia finito per indirizzare il potere pianificatorio delle Regioni, avocando, di fatto, un potere di direttiva il quale, come si è visto, spetta allo Stato, potere che quest’ultimo non ha inteso delegare all’Autorità, così che quest’ultima ha finito per individuare una soluzione di carattere normativo alle criticità impiantistiche consistente nella sostanziale acquisizione al sistema pubblicistico di impianti operanti in regime di libera concorrenza.
4. Il meccanismo degli impianti “minimi” quale strumento di natura regolatoria al servizio della pianificazione regionale nel quadro delle direttive statali. La ricomposizione della governance “multi-livello”.
Così ricostruito l’iter argomentativo seguito dalla giurisprudenza in commento al fine di escludere un potere, anche implicito, di ARERA in tema di individuazione di impianti “minimi”, occorre svolgere alcune considerazioni sulle conclusioni cui sono approdati i giudici amministrativi.
Sul punto si potrebbe anche dubitare che l’Autorità abbia effettivamente sconfinato nell’ambito coperto da attribuzioni statali e regionali in materia di gestione integrata dei rifiuti, soprattutto tenendo conto che il suo intervento era da considerarsi limitato alle situazioni di conclamato deficit impiantistico, con riferimento alle quali l’intento dell’Autorità è stato quello di arginare, tramite la sottoposizione ad una regolazione tariffaria, un eccessivo potere di mercato in capo ai pochi impianti esistenti, nonché i conseguenti riflessi in tema di incremento dei costi di gestione dei rifiuti urbani e dunque di una maggiore spesa per gli utenti.
Tale, limitato, campo di applicazione del meccanismo degli “impianti minimi” non parrebbe rientrare nel potere di “direttiva” attribuito allo Stato dall’art. 198-bis del Codice dell’ambiente, in quanto consistente nella definizione dei “criteri e linee strategiche” delle pianificazioni regionali. Analogamente, al livello territoriale viene demandato, come già illustrato, il compito, tra gli altri, di svolgere un’analisi della domanda e dell’offerta, al fine di stabilire le politiche generali di gestione dei rifiuti, entro cui si colloca l’individuazione della eventuale necessità di realizzare nuovi impianti, in modo da garantire la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità ma anche autosufficienza e prossimità. Così, in fondo, l’individuazione degli impianti “minimi” costituisce solo un possibile strumento di carattere regolatorio al servizio delle “politiche generali” predette, del quale le singole Regioni, a seguito delle necessarie analisi della situazione di riferimento, possono decidere di avvalersi, o meno, fermi restando i poteri di programmazione e pianificazione in capo a Stato e Regioni sulla realizzazione di nuovi impianti[14].
Per contro, tra le competenze legislativamente conferite all’Autorità rientra, come già sottolineato, oltre alla predisposizione ed aggiornamento del metodo tariffario del servizio integrato dei rifiuti e dei singoli servizi che costituiscono attività di gestione, ivi comprese quelle che si inseriscono in un contesto di mercato, anche la fissazione dei criteri per la definizione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento. Peraltro, le attribuzioni delle Autorità in materia di regolazione economico-tariffaria sono state ulteriormente confermate e ribadite, in linea generale, dal disposto di cui al d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201, recante “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica” (art. 6, comma 1, e art. 26, comma 1).
Nel descritto scenario, si sarebbe potuto anche riconoscere ad ARERA quantomeno un potere di natura implicita desumibile in via interpretativa volto ad impedire eccessivi poteri di mercato in capo a pochi operatori in certi e specifici contesti, proprio allo scopo di “di garantire accessibilità, fruibilità e diffusione omogenee sull’intero territorio nazionale nonchè adeguati livelli di qualità in condizioni di efficienza ed economicità della gestione”, così come prescritto in una prospettiva “finalistica” dal già segnalato art. 1, comma 527, della l. 27 dicembre 2017, n. 205.
Del resto, lo stesso Ministero competente, nell’approvare il PNGR attraverso il già citato d.m. 24 giugno 2022 n. 257, ha mostrato di non ravvisare alcuna “invasione” di competenza da parte di ARERA nel momento in cui essa ha disciplinato il meccanismo degli impianti “minimi” nell’ambito del Metodo Tariffario Rifiuti per il secondo periodo regolatorio 2022-2025 (MTR-2), così come ammesso anche dai giudici amministrativi nella giurisprudenza in commento[15]. Infatti, il citato Programma ministeriale, al par. 5.2., ha dato atto dell’adozione da parte di ARERA, con un intervento evidentemente ritenuto legittimo, di una sua “propria distintiva tassonomia degli impianti di trattamento dei rifiuti urbani”assoggettabili a regolazione tariffaria, cui lo stesso Ministero rinvia, riconoscendo, pertanto, il potere dell’Autorità in tema. In particolare, sempre secondo il Ministero, la definizione del meccanismo in questione si colloca nell’ambito degli obiettivi che hanno guidato da subito l’azione di ARERA: da un lato, la promozione della capacità del sistema locale (regionale o di macroarea) di gestire integralmente i rifiuti, con una forte attenzione al profilo infrastrutturale del settore, per ricomporre i divari territoriali e le carenze impiantistiche rilevate, favorendo così anche il pieno esplicarsi degli stimoli concorrenziali al raggiungimento dell’efficienza allocativa; dall’altro lato, lo sfruttamento ottimale delle potenzialità di valorizzazione economica insite nelle diverse filiere dei rifiuti, incentivando lo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative ed ambientalmente sostenibili, penalizzando oltremodo lo smaltimento in discarica, in coerenza con gli obiettivi di carattere ambientale dettati dal quadro euro-unitario e nazionale.
In tale “riconoscimento” operato dal Ministero si potrebbe scorgere una conferma della possibilità, in realtà, di riconoscere all’Autorità un potere anche solo in via implicita nel campo in considerazione, proprio nell’ottica del perseguimento e della realizzazione degli obiettivi che la legge le ha affidato.
Ancora, sempre nella medesima sede, si è dato atto che il perimetro di azione di ARERA è da ritenersi circoscritto, quantomeno prioritariamente, agli impianti di trattamento finale dei rifiuti urbani volti all’effettiva chiusura del ciclo mediante operazioni di smaltimento o di recupero (impianti di trattamento della frazione organica, inceneritori e discariche), con esclusione degli impianti riconducibili alle filiere del riciclaggio, destinati al recupero di materia, gestiti da Consorzi di filiera, o da altri soggetti, con i quali i Comuni possono sottoscrivere specifiche convenzioni per la copertura degli oneri sostenuti per le raccolte differenziate dei rifiuti, nonché degli impianti riconducibili ad altre filiere di riciclaggio destinati al recupero di materia diversi dagli impianti di trattamento biologico della frazione organica.
Al successivo par. 9, si precisa ulteriormente che le scelte in ordine alla qualificazione degli impianti di chiusura del ciclo come “minimi” devono trovare adeguata giustificazione e sviluppo nei pertinenti atti di programmazione regionale, a seguito dell’analisi dei flussi nonché di una ricognizione degli impianti di trattamento presenti sul proprio territorio: in tale ordine di idee, la classificazione in questione può essere attribuita agli impianti che “risultino operare, offrendo la propria capacità di trattamento, in un mercato caratterizzato da rigidità strutturali, nella misura di un ampio e stabile eccesso di domanda a fronte di un limitato numero di operatori presenti, avendo eventualmente capacità di trattamento già impegnata da flussi garantiti dagli strumenti di programmazione, o da altri atti amministrativi, o, comunque, essendo individuati come tali in sede di programmazione”.
Infine, per quanto qui rileva, viene anche ribadito dal PNGR che l’individuazione degli impianti di chiusura del ciclo “minimi” richiede da parte delle Regioni e Province autonome la contestuale indicazione: a) dei flussi che si prevede vengano trattati per impianto, anche ove ancora non risultassero negli strumenti di programmazione vigenti; b) dell’eventuale distinzione dei medesimi secondo il criterio di prossimità che la Regione o Provincia autonoma ritengano utile specificare; c) dell’elenco dei soggetti che si prevede conferiscano ai medesimi impianti (quali per esempio i gestori della raccolta e del trasporto dei rifiuti urbani o i gestori di impianti di trattamento intermedio).
Tutto ciò considerato, pare confermato l’assunto in precedenza proposto per cui l’individuazione degli impianti “minimi” costituisce un possibile strumento di carattere regolatorio al servizio delle “politiche generali” che comunque sono decise a livello regionale, sulla base delle direttive impartite dallo Stato nell’ottica di garantire livelli uniformi di tutela ambientale.
Ad ogni buon conto, a ricomporre il quadro in qualche misura “spezzato” dalla giurisprudenza commentata è intervenuta nuovamente la stessa ARERA con la deliberazione del 23 gennaio 2024 n. 7, la quale, in dichiarata ottemperanza alle sentenze amministrative esaminate, pur confermando sostanzialmente l’impostazione già assunta, ha dato espressamente conto della necessità che la determinazione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento avvenga tramite la modulazione degli strumenti di regolazione, distinguendo gli impianti di chiusura del ciclo in “integrati”, “minimi” e “aggiuntivi”, di cui al MTR-2, “in coerenza con i criteri indicati nel Programma nazionale per la gestione dei rifiuti (PNGR) approvato con il decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica 24 giugno 2022, n. 257”.
In definitiva, l’Autorità, con la recente delibera indicata, ha preso atto dell’emanazione del PNGR, ancora non esistente all’epoca della delibera del 3 agosto 2021 n. 363 di approvazione del MTR-2, il quale comunque, come si è illustrato, si è espresso in senso conforme a quanto già stabilito in precedenza dall’Autorità stessa[16]. Quest’ultima, nell’ottemperare alle statuizioni del giudice amministrativo, ha comunque rivendicato il fatto che attraverso la definizione del meccanismo degli impianti “minimi” essa non ha mai “inteso intervenire sulle competenze pianificatorie di altri soggetti competenti alla concreta individuazione di tale tipologia di impianti, né sulle competenze in materia di assegnazione dei servizi che possono essere svolti attraverso i medesimi impianti”. L’intervento in tale ambito, sempre secondo l’Autorità, non ha certo voluto provocare la creazione di una privativa nei termini che i giudici amministrativi hanno ritenuto di cogliere, bensì, al contrario, è stata animata da una “finalità di tipo pro-concorrenziale” volta a ridurre il potere di mercato detenuto in certi contesti in maniera eccessiva dai gestori degli impianti di trattamento, con i conseguenti effetti negativi in termini di costo del servizio per i cittadini.
In definitiva, una volta ricostruite le dinamiche di governance “multi-livello” del servizio in questione, si può affermare, conclusivamente, come il dibattito sviluppatosi sul tema degli impianti “minimi” testimoni un processo, avviato ma ancora in corso, di armonizzazione ed equilibrio tra valori tradizionalmente ritenuti, perlomeno in qualche misura, antitetici, ossia la tutela dell’ambiente, attraverso i principi di auto-sufficienza e prossimità, da un lato, e la promozione della concorrenza, dall’altro lato, in coerenza con la gerarchia dei valori affermati a proposito delle modalità di affidamento di contratti pubblici.
La sfida, come si diceva tuttora in atto, è quella di individuare un punto di equilibrio tra i suddetti valori, nella consapevolezza che lo stimolo della concorrenza può risultare funzionale anche ad una migliore tutela dell’ambiente, nel contesto di un’economia sostenibile e circolare; ciò a beneficio della società e della qualità dell’ambiente.
Tuttavia il corretto dispiegarsi di una sana e virtuosa logica di mercato necessita ancora di interventi “correttivi”[17], soprattutto sul fronte impiantistico, come quello posto in essere dall’Autorità, e poi di fatto recepito anche in sede ministeriale, anche se probabilmente si sarebbe dovuto verificare il contrario. In tale quadro, appare chiarissima la situazione di squilibrio infrastrutturale che caratterizza il nostro Paese: come rilevato nel PNGR, infatti, la distribuzione geografica degli impianti risulta fortemente disomogenea tra le Regioni italiane in termini di numerosità, capacità autorizzata e scelte tecnologiche, in quanto circa il 65% della complessiva capacità di trattamento autorizzata per gli impianti di recupero della frazione organica biodegradabile è operativa al Nord; per converso, quote considerevoli di rifiuti prodotte nelle aree del Centro e nel Mezzogiorno vengono trattate in impianti localizzati in altre aree, soprattutto nell’Italia Settentrionale, quindi non coerentemente con i principi di auto contenimento territoriale o prossimità dettati dagli indirizzi normativi e delle buone pratiche.
In tale contesto, dunque, un ruolo importante ai fini del reperimento del punto di equilibrio poc’anzi evocato è svolto senz’altro dall’attività di regolazione di ARERA, in coerenza ai poteri che la legge le ha attribuito, da ultimo anche rispetto al servizio di gestione integrata dei rifiuti. In tale ottica, come da sempre rivendicato dall’Autorità stessa, l’intervento in tema di impianti “minimi”, che di fatto ha solo anticipato quello statale nei contenuti, appare necessario al fine di contenere un fenomeno che ancora diffusamente sussiste, ovvero quello per cui i (troppo) pochi operatori esistenti in molti contesti territoriali detengono un potere di mercato eccessivamente ampio, tanto da costituire una sorta di oligopolio che appare il contrario del libero mercato (solo) astrattamente propugnato dai giudici amministrativi, a tutto discapito dei costi riversati sui cittadini.
Dunque, ove la situazione di deficit impiantistico lo richieda (e ciò purtroppo si verifica ancora in parecchi contesti territoriali, costituendo più che l’eccezione la regola), l’intervento di ARERA appare, come da sempre dichiarato dall’Autorità stessa, come volto a correggere una sorta di fallimento del mercato, nell’ottica di garantire condizioni eque di gestione del servizio e, in prospettiva, di sviluppare un’effettiva concorrenza laddove ancora non vi siano le condizioni (ciò anche stimolando nuovi, quanto cospicui, investimenti infrastrutturali), piuttosto che, come invece ritenuto dai giudici amministrativi, a creare dei regimi di privativa ingiustificati. Così, una volta ricostruite correttamente le dinamiche della governance “multilivello” del servizio di gestione integrata dei rifiuti, con il ripristino del potere di indirizzo statale, appare condivisibile la sostanziale conferma, nei termini illustrati, del meccanismo degli impianti “minimi”, quale (possibile) strumento delle politiche generali di gestione dei rifiuti individuate dalle Regioni.
[1] Cons. St., sez. II, 12 dicembre 2023, n. 10734, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In tema si v. anche F. Smerchinich, Servizi rifiuti, impianti minimi, principio di prossimità e concorrenza: alcuni chiarimenti tra giurisprudenza e programma nazionale di gestione dei rifiuti (PNGR), in Appalti & Contratti, 2023, 39 ss.
[3] Sul punto cfr., oltre alla sentenza oggetto precipuo del presente commento, anche Cons. St., sez. IV, 31 luglio 2023, n. 7412, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Sul punto cfr. Cons. St., sez. IV, 29 maggio 2023, n. 5257 nonché Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 30 marzo 2022, n. 410, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. Sul tema si v., in generale, A. Benedetti, Organizzazione e regolazione dei servizi locali di interesse economico: il caso del ciclo dei rifiuti urbani, in www.federalismi.it, 24 febbraio 2021.
[5] In tema cfr. anche R. Raponi, L’autorizzazione alla realizzazione di nuovi impianti nel settore della gestione dei rifiuti assoggettati al libero mercato. Quali limiti incontra la discrezionalità amministrativa e il principio di precauzione?, in www.giustamm.it, 20 ottobre 2023.
[6] In tal senso già Cons. St., sez. IV, 24 dicembre 2020, n. 8315, in www.giustizia-amministrativa.it., ha sottolineato che sebbene i principi di “libera circolazione” nel territorio nazionale e di “prossimità” agli impianti di recupero (o di autosufficienza) siano entrambi presenti nella legislazione nazionale, il primo costituisce il criterio cardine, mentre il secondo è individuato come l'opzione preferibile tra più scelte.
[7] In tema è intervenuta anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), con segnalazione del 22 dicembre 2022, pubblicata sul Bollettino dell’Autorità n. 2 del 9 gennaio 2023, ove è stato rimarcato che l’individuazione di impianti “minimi” per la chiusura del ciclo appare uno strumento condivisibile in una prospettiva concorrenziale quando la sua finalità sia quella di garantire, in situazioni di carenza di capacità di trattamento o di smaltimento dei rifiuti, il completo asservimento ai flussi regionali degli impianti esistenti in base a tariffe definite dal regolatore per evitare l’applicazione di prezzi eccessivi da parte dei pochi impianti esistenti (dotati di potere di mercato), ed anche nella prospettiva di stimolare nuovi investimenti (per coprire il gap impiantistico) e per il tempo necessario allo sviluppo di tale nuova capacità. Tuttavia, prosegue l’Autorità, in assenza di uno specifico deficit impiantistico o di rigidità strutturali a livello regionale tali da giustificare la predeterminazione dei flussi e degli impianti di destinazione, non è giustificabile l’individuazione di impianti “minimi”, in quanto essa finisce per impedire la concorrenza tra gli impianti regionali e gli altri impianti limitrofi, collocati in regioni diverse, la quale, invece, è di per sé idonea a consentire di raggiungere un livello adeguato di qualità e prezzi competitivi. In tale prospettiva, sempre secondo l’Autorità, anche l’osservanza del principio di “prossimità” non può riferirsi rigidamente ai confini amministrativi regionali, ma deve eventualmente essere declinato in termini di effettiva distanza dal luogo di raccolta del rifiuto nonché deve tenere conto della tipologia e delle caratteristiche dei potenziali impianti di destinazione nonchè dei mezzi di trasporto impiegati. In dottrina, F. Leonardis, Codice dell’ambiente e regolazione dei rifiuti nella nuova stagione dell’economia circolare, in Riv. quad. dir. amb., 2022, 82-83, ha evidenziato la tendenza ad affidare insieme alle attività di raccolta, trasporto e avvio a smaltimento delle diverse frazioni della raccolta urbana, anche le attività di recupero e riciclo di essa che, invece, dovrebbero tipicamente essere svolte in regime di mercato, così che tale impropria attribuzione di titolarità esclusiva in capo al gestore delle suddette frazioni viene a configurare una sorta di monopolizzazione dei mercati concorrenziali “a valle”. In tale ottica, si rileva anche la necessità di valutare le determinazioni di ARERA nel momento in cui consentono alle Regioni di “ripubblicizzare”, attraverso lo schema degli impianti “minimi”, la gestione degli impianti di riciclo organico senza tener conto del principio di concorrenza. Viene poi rilevata la necessità di indagare come possa conciliarsi l’apertura alla concorrenza dei cd. mercati “a valle” con il principio di prossimità nella gestione dei rifiuti. Sempre in tema si v. anche G. Marchianò, L’economia circolare con particolare attenzione ai rifiuti urbani, ex d.l. n. 121 del 3 settembre 2020, in www.ambientediritto.it, 2022.
[8] Così, Cons. St., sez. IV, 29 maggio 2023, n. 5257, cit.
[9] Così T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 24 aprile 2023, n. 1012, in www.giustizia-amministrativa.it. Nello stesso senso cfr. anche T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 2 gennaio 2024, n. 9; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 29 marzo 2024, n. 259, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Sul punto, la sentenza oggetto precipuo del presente commento ha rilevato come, in particolare dopo l’introduzione del concetto di economia “circolare”, l’approccio al servizio dei rifiuti, nella sua dimensione integrata, necessita di una “completa rivisitazione”, al fine di valorizzare/valutare quelle attività che escono dal regime di privativa per inserirsi in un ambito di mercato. In tema, oltre alla giurisprudenza già citata in precedenza, cfr. T.A.R. Emilia-Romagna Bologna, sez. II, 16 gennaio 2023, n. 17, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 16 ottobre 2023, nn. 2331, 2332, 2334, ivi, in cui, pur confermando l’insussistenza di una privativa comunale, tuttavia non si esclude a priori la possibilità da parte di un ente locale di acquisire il servizio di recupero della FORSU alla mano pubblica ai sensi dell’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 201 del 2022, purchè siffatta scelta avvenga, come previsto dalla legge, all’esito di apposita istruttoria, svolta sulla base di un effettivo confronto tra le diverse soluzioni possibili, da cui risulti che la prestazione dei servizi da parte delle imprese liberamente operanti nel mercato sia inidonea a garantire il soddisfacimento dei bisogni delle comunità locali.
[11] Siffatta impostazione si rinviene, oltre nella sentenza oggetto principale del presente commento, anche in Cons. St., sez. II, 6 dicembre 2023, n. 10548 e n. 10550, nonché in Id., 14 dicembre 2023, n. 10775, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Così, di recente, T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 24 febbraio 2023, n. 486, in Foro amm., 2023, II, 211. In tema, si v. anche Cons. St., sez. VI, 14 dicembre 2020, n. 7972, in Giur. comm., 2022, II, 152, in cui si è rilevato che nell'esercizio dei poteri desunti in via interpretativa occorre rafforzare la legalità procedimentale, la quale assume una valenza forte per “compensare” le mancanze della legalità sostanziale. Ancora prima cfr. Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2015, n. 1532, in Foro amm., 2015, n. 760. In tema si v. in dottrina, tra gli altri, A. Marra, I poteri impliciti, in Dir. amm., 2023, 697 ss.; F.F. Guzzi, I poteri amministrativi impliciti: un tema alla ricerca di soluzioni, in www.ambientediritto.it, 2023; S. Spuntarelli, Poteri impliciti (ad vocem), in Enc. dir., I Tematici, V, 2023, 934 ss.; M. Ramajoli, Attività regolatoria e norme attributive dei poteri: alcune considerazioni, in Riv. reg. merc., 2022, 26 ss.; G. Manfredi, Legalità procedurale, in Dir. amm., 2021, 749 ss.; C. Acocella, Poteri indipendenti e dimensioni della legalità. Le prospettive di sostenibilità dell'implicito nell’esperienza delle autorità amministrative indipendenti, in Id. (a cura di), Autorità indipendenti. Funzioni e rapporti, Napoli, 2022, 11 ss.; F.L Maggio, Questioni interpretative sui poteri normativi delle Autorità amministrative indipendenti, in www.federalismi.it, 2001; P. Pantalone, Autorità indipendenti e matrici della legalità, Napoli, 2018; G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in Dir. amm., 2007, 703 ss.; N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001.
[13] Così, tre le tante, si v. Corte cost., 7 ottobre 2021, n. 189, in Foro amm., 2022, II, 358; Corte cost., 23 luglio 2015, n. 180, in Giur. cost., 2015, 1355; Corte Cost., 14 luglio 2015, n. 149, ivi, 1282; Corte Cost., 10 aprile 2015, n. 58, ivi, 519. Sul punto cfr. anche Cons. St., sez. IV, 17 maggio 2022, n. 3870, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2017, n. 3146, in Riv. giur. ed., 2017, I, 940; Cons. St., sez. IV, 16 dicembre 2016, n. 5340, in Foro amm., 2016, 2932.
[14] Sul punto cfr. anche P. La Selva, Alcune riflessioni su ambiente e concorrenza nella regolazione del mercato dei rifiuti, in Dir. ec., 2023, 89 ss, il quale sottolinea come in tema di classificazione degli impianti “minimi” non risulti una riserva di regolamentazione statale evincibile dal quadro normativo.
[15] In particolare, al punto 53 della sentenza del Consiglio di Stato n. 10550 del 2023, cit., si ammette proprio che “il Ministero mostra in verità di condividere le opzioni dell’Autorità, evidentemente non ravvisando nella relativa estrinsecazione alcuna invasione delle proprie competenze”.
[16] Per la verità, ARERA, già nel documento di consultazione n. 196 del 2021, recante “Primi orientamenti per la definizione del Metodo Tariffario Rifiuti per il secondo periodo regolatorio”, aveva espresso l’opportunità di un intervento governativo con il quale individuare (e aggiornare con frequenza periodica, ad esempio biennale) gli impianti di chiusura del ciclo “minimi” da assoggettare a regolazione al fine di promuoverne l’efficienza in un quadro di progressivo dinamismo concorrenziale. Senonchè, come si è ampiamento rappresentato, tale intervento governativo è pervenuto solo con il d.m. 24 giugno 2022, n. 257, il quale ha comunque sostanzialmente confermato l’impostazione adottata in precedenza dall’Autorità con la delibera del 3 agosto 2021 n. 363 di approvazione del MTR-2.
[17] Sul tema degli interventi correttivi di situazioni di “fallimento del mercato” cfr., tra gli altri, P. Lazzara, La regolazione amministrativa: contenuto e regime, in Dir. amm., 2018, 355.
Porgo i saluti della magistratura requirente del distretto di Palermo a tutti i partecipanti a questo importante momento di confronto e dialogo.
Cosa significa interpretare una legge? Cosa significa essere imparziali “per e nel” giudizio? Significa, in primo luogo, individuare il percorso logico giuridico idoneo a dare risposte alle istanze di giustizia dei cittadini. È ovvio che un magistrato deve essere tecnicamente attrezzato, preparato nelle materie giuridiche e negli altri settori del sapere che fanno da corollario al diritto. Ma ciò non basta. Il magistrato colto, capace di muoversi con agilità nel sistema delle fonti nazionali ed internazionali non può prescindere da una raffinata capacità di leggere la norma inserendola nel quadro costituzionale, calandola nel caso concreto perché così rende le norme “viventi”. E nessuna intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, potrà mai realizzare un’attività intellettuale così complessa e delicata. Ne consegue che quella verso la legge è la sola soggezione che il magistrato deve avvertire come obbligo ed è condizione essenziale per un’interpretazione corretta e per una autentica imparzialità.
Ma che cosa significa essere “autenticamente” imparziale? Possiamo sostanziare il concetto con un elementare esempio. Il magistrato autenticamente imparziale è in grado di garantire “i diritti degli ultimi e dei primi” e cioè di tutti, nello stesso modo. Significa salvaguardare i diritti di coloro che per condizioni di povertà e disagio non hanno voce. Significa tenere insieme diritti, valori, principi.
Imparzialità significa, per il magistrato, riuscire ad essere nel mondo con le sue idee, con il suo vissuto, con il suo pensiero, ma senza farsi condizionare nello svolgimento dell’attività da quel bagaglio esistenziale che, inevitabilmente, si porta dentro. È vero, abbiamo bisogno di prevedibilità nelle decisioni ed in questa direzione è preziosa l’attività nomofilattica della Suprema Corte che aiuta e sostiene. Ma dobbiamo essere consapevoli che allorché l’imparzialità si fa carne, ogni vicenda umana può atteggiarsi diversamente ed una norma, calata nel vissuto di un imputato o di una vicenda civilistica può, e a volte deve, determinare decisioni differenti, alle quali dobbiamo pervenire attraverso il gesto ermeneutico scrupolosissimo, sostanziato sempre da motivazioni accurate, realizzate con scrupolosa osservanza delle leggi e dei valori costituzionali e dalle quali deve trasudare il nostro equilibrio.
L’imparzialità è, altresì, un concetto poliedrico perché il magistrato non solo deve essere imparziale, ma deve anche “apparire” imparziale. Il cittadino deve essere certo che il suo giudice interpreterà la norma senza essere condizionato da qualsivoglia convinzione extra giuridica. Tutto questo è, ancora una volta, ovvio. Ma, attenzione, la necessaria apparenza di imparzialità e l’indispensabile conseguente self restraint, non devono dilatarsi fino a sopprimere le libertà fondamentali del magistrato che non possono essere frantumate. Se occorre una forma di scrupolosissima sensibilità da parte del magistrato che gli impone di astenersi da condotte che possono, anche solo in potenza, offuscarne l’imparzialità, altrettanto equilibrio occorre nell’interpretare le condotte del magistrato, per evitare che qualsiasi situazione, espressione del mero atteggiarsi dell’esistenza, possa essere vista con sospetto e, conseguentemente, comprometta la serenità del magistrato. Equilibrio, dunque, e bilanciamento senza sbavature per salvaguardare l’essenza stessa dello ius dicere realizzato dall’uomo e che mai nessuna intelligenza artificiale potrà sostituire.
Qualcuno ha detto che un magistrato ha il delicatissimo compito di prendere fra le mani un fatto umano sporco di terra e dargli dignità giuridica. Si tratta di un lavoro complicato che richiede impegno e sobrietà. Il magistrato è solo nella fase della decisione, ma nel percorso che lo conduce al provvedimento interagisce con interlocutori indispensabili. Mi riferisco agli avvocati, insostituibili per garantire la genesi vivifica dell’attività interpretativa, imparziale e coerente, che ogni giorno siamo chiamati a realizzare. Il dialogo con l’avvocatura ed il confronto nel processo costituiscono un momento centrale del lavoro del magistrato perché aiutano a coltivare il dubbio. Il dubbio è uno dei pilastri fondamentali per un’interpretazione corretta ed imparziale nel senso più ampio e nobile del termine. Un magistrato senza dubbi non è un buon magistrato. Ed è l’avvocato che consente, con il suo apporto coraggioso e coerente, di mantenere intatta l’arte del dubbio. Invero, il cittadino deve essere sicuro che attraverso la difesa tecnica (e, quindi, attraverso l’esercizio del dubbio e del suo superamento), qualsiasi situazione sarà trattata e condurrà ad una decisione resa a seguito di un’analisi prospettica accurata che nulla ha tralasciato.
Ma, ancora una volta, attenzione, perché quella serenità che deve essere garantita al cittadino deve essere riconosciuta, negli stessi termini, al magistrato. Anche il magistrato deve poter essere “sereno”. I numeri, le statistiche, la performance, gli obiettivi da realizzare non possono divenire un totem al cui altare sacrificare quella sfera di tempo ragionevole che occorre per giungere a decisioni ponderate.
Il continuo ed alluvionale flusso riformatore, inoltre, non consente quella stratificazione giurisprudenziale che è essenziale per la certezza del diritto e rende il nostro quotidiano vivere nelle aule di giustizia una sorta di fatica di Sisifo, sostanziando una continua rincorsa all’aggiornamento professionale, attività spesso vana perché dopo poco tempo, quella norma muta o, peggio, è inapplicabile perché in contrasto con altre fonti, anche internazionali o con la Carta Costituzionale. In tal modo si altera irrimediabilmente il nostro rapporto con il cittadino che non comprende quale complesso meccanismo sottende alle nostre quotidiane fatiche.
Concludo con l’auspicio che si saprà “tenere insieme” e non separare le carriere, che vanno mantenute unite affinché il P.M. tragga sempre beneficio dalla linfa vitale della giurisdizione. Si potrebbero, invece, impiegare le risorse occorrenti per dar vita a due CSM per potenziare le strutture funzionali a rendere finalmente moderno il sistema giustizia e ciò a beneficio della collettività. Siamo consapevoli, più che mai in questo momento storico ove la terra è pianeta che sanguina, che ognuno deve fare la sua parte con pazienza e senso di responsabilità. Voglio richiamare quello che nel 1984 Rosario Livatino ebbe a dire del ruolo del magistrato nella società. Le sue parole erano intrise di speranza e appaiono di straordinaria attualità perché ci restituiscono, in contro luce, quale deve essere il minimo comune denominatore dell’attività del magistrato che vuole fare la sua parte nell’ottica positiva del cambiamento e del rasserenamento dei rapporti con gli altri poteri della Stato: “Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata ( del magistrato) e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti con l’ambiente sociale nel quale egli vive. Qui è importante che egli offra di sé stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà riceverle ed assumerle come se fossero sue (ragioni) e difenderle davanti a chiunque. Solo se (il giudice) offre questo tipo di disponibilità personale, il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole”.
Sono certa che la magistratura, autonoma ed indipendente da ogni altro potere, con orgoglio e con la schiena dritta che ha saputo mantenere nei momenti più complessi della sua storia, saprà proseguirà in questa univoca direzione ideale. A dispetto del resto.
Sommario: 1. Il caso e le ragioni del ricorso per cassazione – 2. Il “principio di non punibilità” delle vittime di tratta: a) le indicazioni ricavabili dal diritto internazionale ed eurounitario – 2.1. b) l’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p. - 2.2. c) l’iter logico-argomentativo da seguire in caso di reati commessi da potenziali vittime di tratta - 3. Estensione analogica dell’art. 54 c.p. o conferma dei principi generali? Una possibile lettura processuale delle conseguenze derivanti dall’interpretazione conforme – 3.1. Il rapporto tra la vulnerabilità della vittima di tratta e gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p. – 4. Conclusioni.
1. Il caso e le ragioni del ricorso per cassazione
Con la sentenza n. 2319 del 2024 la Corte di cassazione ha ritenuto applicabile la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) a una persona che, vittima di tratta di esseri umani, commetta dei reati in materia di stupefacenti, quando la stessa versi in una condizione di vulnerabilità e di asservimento che le impedisca di sottrarsi alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione delle autorità competenti.
Il caso oggetto della pronuncia riguarda una donna che, costretta a fuggire dalla Nigeria appena diciottenne e sottoposta a gravi violenze, compresi numerosi stupri, nel viaggio fino alla Libia, aveva tentato di estinguere l’ingente debito accumulato con i trafficanti prima con l’attività di prostituzione e, poi, divenendo “corriere della droga”.
Condannata per trasporto illecito di sostanze stupefacenti, ricorre per cassazione, lamentando la mancata applicazione, da parte dei giudici d’appello, della causa di giustificazione prevista dall’art. 54 c.p. La sentenza di secondo grado, pur senza mettere in discussione la sua condizione di vittima di tratta, aveva escluso che l’imputata si trovasse nell’assoluta impossibilità di recidere i contatti con il contesto criminale da cui era derivata la commissione del reato: si valorizzavano, a tal fine, non solo le specifiche modalità della condotta (tempi ravvicinati di due trasporti di droga, disponibilità di due telefoni cellulari al momento dell’arresto, spese di difesa in giudizio sostenute dal capo dell’associazione), ma anche, più in generale, l’assenza di elementi da cui potesse ricavarsi l’assoluta, prolungata e persistente impossibilità della donna di sottrarsi al “controllo” dei connazionali e di rivolgersi alle istituzioni pubbliche.
2. Il “principio di non punibilità” delle vittime di tratta: a) le indicazioni ricavabili dal diritto internazionale ed eurounitario
Le motivazioni dei giudici di appello sono state considerate dalla suprema Corte lacunose e generiche, specie perché del tutto avulse dallo specifico contesto nel quale la vittima si è trovata ad operare.
La sentenza n. 2319 del 2024 conclude per la possibile applicazione dello stato di necessità nei confronti di persone vittime di tratta ricorrendo a un complesso apparato argomentativo, che, a sua volta, si regge sull’obbligo di interpretare l’art. 54 c.p. in maniera conforme alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali ed eurounitarie. Da queste ultime, infatti, si ricaverebbe che la tratta di persone costituisce una violazione dei diritti umani, da cui deriverebbe, come necessaria conseguenza, un generale principio di non punibilità delle vittime di tratta per reati commessi in connessione o come conseguenza della condizione in cui sono costrette.
Tra le fonti di diritto internazionale assume una rilevanza centrale la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani del 16 maggio 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), ratificata dall’Italia con la legge n. 108 del 2010. La Convenzione di Varsavia, muovendosi nell’orizzonte tracciato dalla tutela dei diritti fondamentali, non solo valorizza l’identificazione delle vittime di tratta (art. 10), ma stabilisce che ciascuno Stato si impegni a prevedere «la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette» (art. 26).
Sul versante CEDU, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le condotte di tratta, sebbene non esplicitamente menzionate dalla Convenzione, si risolvano in una violazione dell’art. 4 della Convenzione (proibizione della schiavitù e del lavoro forzato)[1].
La Corte EDU, poi, ad avviso dei giudici di legittimità, avrebbe esplicitamente riconosciuto un principio di non incriminazione della vittima di tratta, per reati commessi in conseguenza del suo stato di sfruttamento: il riferimento è alla sentenza V.C.L. e A.N. c. Regno Unito[2], relativa al caso di due cittadini vietnamiti, condannati per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti nonostante la sussistenza di numerosi elementi da cui ricavare il fondato sospetto che gli stessi fossero vittime di tratta. I giudici di Strasburgo, in realtà, precisano più volte che dal diritto internazionale non possa ricavarsi alcun generale divieto di procedere penalmente nei confronti di una vittima di tratta[3], pur sottolineando come un procedimento penale nei confronti di vittime, anche solo potenziali, di tratta potrebbe porsi in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure a tutela delle stesse. Il dovere di adottare misure operative (operational measures) ex art. 4 CEDU Convenzione ha due obiettivi principali: proteggere la vittima di tratta da ulteriori danni e facilitare il suo recupero. È evidente (it is axiomatic) che il perseguimento delle vittime di tratta sarebbe dannoso per il loro recupero fisico, psicologico e sociale, determinando una condizione di vulnerabilità che potrebbe portarle, nuovamente, a divenire vittime di tratta: «non solo dovrebbero affrontare il calvario di un processo penale, ma una condanna penale potrebbe creare un ostacolo alla loro successiva integrazione nella società. Inoltre, la detenzione può ostacolare il loro accesso al sostegno e ai servizi previsti dalla Convenzione anti-tratta»[4]. Diviene fondamentale, quindi, identificare un soggetto come vittima di tratta, in modo da verificare se e come questa condizione sia in grado di incidere sul giudizio relativo alla sua responsabilità penale[5].
Anche dal diritto eurounitario, precisa la Corte di cassazione, si ricavano indicazioni utili per ricostruire la “posizione giuridica” delle vittime di tratta, che, in particolare, attribuiscono rilievo alla condizione di vulnerabilità in cui le stesse verserebbero in ragione del reato commesso nei loro confronti.
Si ricordano, in proposito, la Direttiva 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta di essere umani e la protezione delle vittime[6], attuata in Italia con il d.lgs. n. 24 del 2014 che, oltre a modificare l’art. 601 c.p. recependo le indicazioni del diritto europeo, ha introdotto una serie di misure finalizzate all’emersione del fenomeno criminale attraverso un sostegno alle vittime di tratta, anche quando le stesse non si rivolgano all’Autorità giudiziaria: è un dato acquisito, precisano i giudici di legittimità, che la volontà delle vittime di non denunciare derivi da paura o da sfiducia nelle istituzioni.
Indicazioni utili sono ricavabili anche dalla Direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, recepita dall’ordinamento italiano con il d.lgs. n. 212 del 2015. Il considerando 17 della Direttiva 2012/29/UE inquadra la tratta di esseri umani nel più ampio contesto della violenza di genere, includendo poi le vittime di tratta tra quelle maggiormente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria (art. 22).
Le indicazioni offerte dal diritto internazionale e da quello eurounitario convergerebbero verso la conclusione del divieto di incriminazione o, meglio, di un generale principio di non punibilità delle vittime di tratta: «la più rilevante conseguenza giuridica del costituire la tratta una violazione dei diritti umani delle vittime […] è il principio della loro non incriminazione per i reati commessi in connessione o come conseguenza della situazione in sono costrette», come necessaria conseguenza del più generale principio di non contraddizione dell’ordinamento.
Il potere ricattatorio cui le vittime di tratta sono costrette escluderebbe qualsiasi forma di autonomia decisionale: la condizione di vulnerabilità delle vittime, quindi, si trova in connessione diretta con il sostanziale annullamento della loro libertà di scelta.
I reati oggetto della valutazione di eventuale punibilità sono non solo quelli direttamente collegati alla condizione di irregolarità della vittima di tratta o, ancora, quelli con cui ci si appropria dei proventi criminosi (furto, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti), ma anche i cosiddetti reati di liberazione, commessi, cioè, per sottrarsi dallo sfruttamento, anche di soggetti terzi. A quest’ultima categoria, precisa la Corte di cassazione, andrebbero ricondotti anche i reati che, pur in assenza di una diretta coercizione, sono causalmente collegati alla condizione di sfruttamento nella quale versa la vittima di tratta, nota all’istigatore e da quest’ultimo sfruttata.
2.1. b) l’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p.
A questo punto resterebbe da verificare, ad avviso della suprema Corte, in che modo il principio di non punibilità delle vittime di tratta trovi ingresso nell’ordinamento interno.
In assenza di norme specifiche, il principio in questione potrebbe pur sempre “filtrare” attraverso la norma generale dell’art. 54 c.p., (ri)letto in maniera conforme al diritto internazionale ed europeo.
L’art. 54 c.p. si fonderebbe su una generale ratio di bilanciamento di interessi tra loro confliggenti, uno dei quali è necessariamente destinato a soccombere[7]. Il giudizio di bilanciamento deve fondarsi sul complesso delle fonti, anche non nazionali, che delineano la fisionomia degli interessi in conflitto. Il giudice comune è infatti tenuto a un obbligo di interpretazione conforme, che, pur trovando la sua origine storica nel primato del diritto eurounitario su quello nazionale e nel principio di leale collaborazione degli Stati europei, è divenuto un principio di portata più generale, estendendosi, anzitutto, al sistema CEDU e alla Convenzioni del Consiglio d’Europa. L’interpretazione conforme, precisa la Corte di cassazione confermando premesse ormai sufficientemente consolidate, è in grado di produrre i suoi effetti anche sul diritto penale, sia pur con i limiti individuati dal divieto di interpretazioni contra legem e dal divieto di effetti in malam partem[8].
Una lettura dell’art. 54 c.p. ispirata dall’interpretazione conforme, allora, dovrebbe tener conto della lettera e della ratiodegli obblighi internazionali ed europei, consistenti nella tutela dei diritti fondamentali delle persone vittime di tratta e nel divieto di vittimizzazione secondaria derivante da un processo penale non dovuto.
2.2. c) l’iter logico-argomentativo da seguire in caso di reati commessi da potenziali vittime di tratta
L’autorità giudiziaria, chiariscono i giudici di legittimità, sarebbe tenuta a un doppio accertamento.
Il primo accertamento riguarda l’effettiva sussistenza della condizione di vittima di tratta. L’individuazione delle vittime di tratta deve fondarsi su una serie di indici sintomatici, contenuti, tra l’altro, in linee guida nazionali e internazionali, che costituiscono un utile strumento a disposizione (anche) dell’autorità giudiziaria[9]: si pensi, a titolo esemplificativo, alla provenienza da un Paese esposto al rischio di tratta, a viaggi lungo rotte utilizzate da organizzazioni criminali, all’esposizione a fenomeni di violenza o sfruttamento nei Paesi di transito, alla presenza di debiti contratti prima e durante il viaggio.
Se questo primo accertamento si conclude con un esito positivo, il giudice dovrebbe valutare una possibile applicazione dell’art. 54 c.p., secondo un accertamento capace di valorizzare la condizione di vulnerabilità del preteso responsabile.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto che l’imputata fosse vittima di tratta, aveva escluso l’applicazione dello stato di necessità senza considerare lo specifico contesto in cui la stessa si era trovata ad agire e senza fornire, dunque, analitica motivazione sulle ragioni per cui non potesse operare l’art. 54 c.p., interpretato in maniera conforme alle indicazioni ricavabili dalle fonti non nazionali.
Da queste premesse, deriverebbe la conclusione per cui «la scriminante dello stato di necessità è invocabile da una persona vulnerabile che risulti essere vittima di tratta e in condizioni di asservimento nei confronti di soggetti a capo di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, nel cui ambito sia stata costretta a compiere operazioni di trasporto di sostanze stupefacenti, senza alcuna possibilità di sottrarsi concretamente alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione dell’Autorità».
3. Estensione analogica dell’art. 54 c.p. o conferma dei principi generali? Una possibile lettura processuale delle conseguenze derivanti dall’interpretazione conforme
La pronuncia della Corte di cassazione, certamente condivisibile negli esiti, lascia emergere con apprezzabile chiarezza l’estrema complessità della condizione di chi, vittima di tratta, commetta a sua volta dei reati. L’impressione, tuttavia, è che restino non esplicitati alcuni aspetti tecnico-giuridici, relativi, in particolare, agli elementi costitutivi dello stato di necessità.
Pare opportuno precisare che l’applicazione dell’art. 54 c.p. in condizioni analoghe a quelle oggetto della pronuncia in commento era già “sperimentata” dalla giurisprudenza di legittimità. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza n. 40270 del 2015, con cui la suprema Corte ha ritenuto applicabile lo stato di necessità al caso di una donna, già riconosciuta da una sentenza irrevocabile come vittima del reato in riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento sessuale (art. 600 c.p.), condannata in primo e secondo grado per aver commesso atti osceni in luogo pubblico (art. 527 c.p.), consistiti nell’aver consumato un rapporto sessuale, durante la propria attività di prostituzione, nella pubblica via, alla vista dei passanti. In questa occasione, secondo i giudici di cassazione, la condizione di asservimento che aveva costretto la donna alla prostituzione di strada si traduceva in una sostanziale reificazione della persona, privata della propria libertà di autodeterminazione[10]. Gli interventi sulle vittime di reati come la tratta e lo sfruttamento di essere umani sono proprio caratterizzati da un superamento della condizione di vulnerabilità attraverso un recupero della loro capacità di autodeterminazione, da conseguire mediante un allontanamento dagli sfruttatori e, eventualmente, una denuncia degli stessi[11]. Affermare, come avevano fatti i giudici di merito, che per la vittima sarebbe stato agevole sottrarsi al pericolo rivolgendosi alle forze dell’ordine «significa banalizzare un fenomeno criminale gravissimo, che lede in maniera significativa e permanente i diritti umani e, soprattutto, equivale a violare i principi in materia di protezione delle vittime per tali reati e in materia di posizione delle vittime nel processo penale contenuti nelle fonti giuridiche internazionali (vanno richiamati sia il Protocollo Nazioni Unite c.d. Trafficking, già citato, che la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, ratificata con la L. 2 luglio 2010, n. 108) e negli strumenti europei comunque vincolanti per il nostro sistema giuridico (si vedano la direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani e la direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI)»[12].
La sentenza n. 2319 del 2024 della Corte di cassazione riprende ed enfatizza il riferimento alle fonti internazionali ed europee, le quali inciderebbero, per il tramite dell’interpretazione conforme, sulla lettura dell’art. 54 c.p.
Non risulta del tutto chiaro, però, se dall’obbligo di interpretazione conforme derivi una vera e propria estensione analogica dell’art. 54 c.p., consentendo l’applicazione della scriminante a casi che, altrimenti, sarebbero esclusi dal suo ambito di operatività; e, se così fosse, quale sarebbe l’elemento costitutivo dello stato di necessità ampliato per “recepire” le indicazioni derivanti dalle fonti non nazionali.
L’impressione, in effetti, è quella per cui dall’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p. derivino non tanto delle conseguenze sostanziali (ampliamento dei requisiti costitutivi della scriminante), quanto, piuttosto, degli effetti processuali: in presenza di una accertata condizione di vittima di tratta e, quindi, di vulnerabilità della persona, cui si aggiunga la presenza di un nesso causale tra questa condizione e il reato commesso, dovrebbe ritenersi sussistente una presunzione relativa sulla sussistenza dei requisiti costitutivi dell’art. 54 c.p., che, ovviamente, può essere superata in giudizio da una prova contraria.
La condizione di vittima di tratta, anche sulla base delle indicazioni offerte dalle fonti non nazionali di riferimento, comporterebbe una posizione più favorevole, sul versante processuale, per la persona che commetta reati causalmente collegati a quella condizione, determinando quella che, sia pur con tutte le peculiarità del processo penale, potrebbe sbrigativamente definirsi come una “inversione dell’onere della prova”[13].
La condizione di vulnerabilità delle vittime di tratta, almeno secondo l’id quod plerumque accidit, faciliterebbe l’accertamento relativo a tutti gli elementi costitutivi dello stato di necessità, che, quindi, non sarebbe necessario estendere per via analogica.
3.1. Il rapporto tra la vulnerabilità della vittima di tratta e gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p.
Gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p., il cui accertamento potrebbe essere influenzato dalla posizione di vulnerabilità della vittima di tratta, sono i seguenti: a) la costrizione; b) la necessità di evitare un danno grave alla persona; b) la non evitabilità altrimenti del pericolo; c) l’attualità del pericolo.
a) Il rapporto tra la condizione di vulnerabilità, la costrizione e la non evitabilità altrimenti del pericolo. L’elemento della costrizione sembra quello sul quale si focalizzano alcuni dei passaggi più significativi della sentenza n. 2319 del 2024 della Corte di cassazione.
Si precisa, infatti, che il giudizio relativo alla sussistenza dello stato di necessità deve essere valutata sia in riferimento al primo comma dell’art. 54 c.p. sia in riferimento alla coazione morale disciplinata dal successivo terzo comma, richiamando l’orientamento per cui, nel caso di pericolo derivante dall’altrui minaccia, lo stato di necessità sussisterebbe anche in presenza di una coazione solo relativa, da cui deriva una limitazione, ma non un completo annullamento, della libertà di scelta del soggetto[14].
Nell’accertamento della coazione, evidentemente, dovrà attribuirsi rilievo alla condizione di vulnerabilità della vittima. Non è un caso che l’art. 2 della direttiva 2011/36/UE definisca la posizione di vulnerabilità come la situazione in cui lapersona non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima. Così come non è un caso che la condizione di vittima di tratta venga usualmente indicata, anche dall’art. 90-quater c.p.p., come uno degli “indici sintomatici” da cui ricavare la vulnerabilità della persona[15]. Potrebbe obiettarsi che il concetto di “vittima vulnerabile” si trovi usualmente riferito alla persona offesa, mentre in questa ipotesi si pretenderebbe di qualificare con l’attributo della vulnerabilità chi ha commesso un certo reato, sia pur essendo stato vittima, in passato, di un reato diverso. Come però chiarito dalla Corte EDU, l’esigenza è quella di tutelare persone che abbiano subito gravi violazioni di diritti fondamentali, posto che da un processo penale potrebbe derivare un’ulteriore violazione di quei diritti.
La vulnerabilità, ad ogni modo, non comporta, di per sé sola, uno stato di costrizione rilevante ex art. 54 c.p.: è necessario che tra la vulnerabilità e la costrizione sussista un rapporto di derivazione causale, nel senso che, come si precisa più volte nella sentenza in commento, il reato deve essere la conseguenza della condizione di vulnerabilità che caratterizza la persona, in quanto vittima di tratta.
Se questo nesso sussiste, la condizione della vulnerabilità integra non solo il requisito della costrizione (il solo al quale si fa esplicito riferimento nell’art. 26 della Convenzione di Varsavia), ma anche quello della non evitabilità altrimenti del pericolo. Quest’ultimo rappresenta, come noto, uno degli elementi da cui si ricava una formulazione estremamente restrittiva dell’art. 54 c.p., rispetto, anzitutto, a quella del “contiguo” art. 52 c.p. in materia di legittima difesa[16]. Come precisato dalla Corte di cassazione, la materiale possibilità di sottrarsi al “controllo” dei propri sfruttatori deve essere contestualizzata, prendendo in considerazione quello stato di soggettivo asservimento che spesso caratterizza la persona vittima di tratta e che, di fatto, non rende praticabile altra via se non quella di subire la condotta abusiva nei suoi confronti.
Muovendo dagli effetti processuali di un’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p., potrebbe quindi ritenersi che, se la vittima di tratta commette un reato “connesso” alla sua condizione, dovrà di regola ritenersi sussistente tanto l’elemento della costrizione quanto quello della non evitabilità altrimenti del pericolo, salva prova contraria eventualmente acquisita nel corso del processo.
b) La necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. La scriminante dello stato di necessità, come noto, può operare solo in presenza del pericolo di un danno grave alla persona.
Anche il pericolo di un danno grave alla persona, consistente, per esempio, in un pericolo per la vita, l’integrità fisica o la libertà personale, potrebbe ritenersi strutturalmente insito nella condizione di asservimento in cui versano le vittime di tratta.
Ben potrebbe concludersi, allora, che anche per questo requisito operi una presunzione relativa, superabile da prova contraria nell’ambito del processo.
Analoghe considerazioni valgono per il pericolo attuale, che, così come per la scriminante della legittima difesa, potrebbe consistere non solo in un pericolo “presente” in senso stretto, ma anche in un pericolo “incombente” o “perdurante”: quest’ultimo, in particolare, si verificherebbe nel caso in cui l’aggressione al proprio diritto è in corso e possono quindi esserne evitati sviluppi ulteriori o quando l’offesa non si è ancora consolidata, non essendosi completato il passaggio dalla situazione di pericolo a quella di danno[17].
La questione relativa all’attualità del pericolo, tornata al centro del dibattito scientifico, per la scriminante della legittima difesa, in riferimento alla violenza di genere e alla reazione delle donne nei confronti della violenza maschile[18], ben potrebbe estendersi, più in generale, ai casi in cui chi commette il reato si trovi in una condizione di oppressione tale da determinare (almeno) una significativa compromissione della propria libertà morale e personale. La condizione di vulnerabilità di una vittima di tratta, che commetta un reato derivante dalla sua condizione, potrebbe, ancora una volta, dar luogo a una presunzione relativa della sussistenza di un pericolo attuale, a meno che, nel corso del processo, non emerga che il pericolo in questione non rispondesse neppure al modello del pericolo incombente o perdurante.
4. Conclusioni
La sentenza in commento offre spunti di indubbio rilievo, specie nella parte in cui, per reati commessi da persone vittime di tratta, valorizza un’interpretazione dell’art. 54 c.p. conforme alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali ed eurounitarie: la tratta, rappresentando una violazione dei diritti fondamentali, impone una tutela rafforzata delle sue vittime, anche attraverso meccanismi che, pur senza garantire una generalizzata impunità a fronte della commissione di reati, tengano conto della particolare condizione di vulnerabilità che fa da sfondo alla condotta penalmente rilevante.
L’art. 54 c.p., per la verità, sembra da solo sufficiente a garantire le esigenze in questione, senza che il suo ambito di operatività debba essere ampliato per via analogica.
Il rafforzamento della tutela, allora, potrebbe transitare per un versante più strettamente processuale, consistente, più esattamente, in una “regola di giudizio” più favorevole all’imputato. A fronte dell’accertamento che la persona sia una vittima di tratta in condizione di vulnerabilità nonché del collegamento causale del reato commesso e la situazione in questione, dovrebbe muoversi da una presunzione relativa della sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 54 c.p., salvo un’eventuale prova contraria che venga a formarsi nel corso del processo penale.
Diviene dunque cruciale la fase della individuazione delle vittime di tratta, secondo le indicazioni puntualmente chiarite dalla Corte di cassazione. Questa operazione, oltre a garantire il rispetto degli obblighi convenzionali, come delineati dalla Corte EDU, consentirebbe non solo di mettere al riparo le vittime di tratta da una (sia pur sui generis) vittimizzazione secondaria, ma contribuirebbe a rafforzare i meccanismi di emersione di un fenomeno criminale spesso difficile da monitorare e, allo stesso tempo, ad attivare gli strumenti capaci di assicurare un’effettiva liberazione dal vincolo di asservimento che, pressoché inevitabilmente, deriva da una così profonda violazione dei diritti fondamentali della persona.
[1] Corte EDU, Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010, 25965/04, § 282; Corte EDU, M. e altri c. Italia e Bulgaria, 31 luglio 2012, 40020/03, § 151.
[2] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, 16 febbraio 2021, 77587/12, 74603/12.
[3] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., § 158 («It is clear that no general prohibition on the prosecution of victims of trafficking can be construed from the Anti-Trafficking Convention or any other international instrument»).
[4] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., 159.
[5] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., 162. V. anche il successivo § 196, dove, in riferimento all’art. 6 CEDU, si ribadisce che, sebbene le vittime di tratta non siano immuni dall’esercizio dell’azione penale, lo status di vittima di tratta può influire sulla valutazione relativa all’interesse pubblico di iniziare un procedimento penale, rappresentando, quindi, un aspetto fondamentale della difesa dell’imputato, che deve essere garantito dallo Stato.
[6] V., in particolare, l’art. 2 direttiva 2011/36/UE: al primo paragrafo si stabilisce che «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano punibili i seguenti atti dolosi: il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento», precisando al paragrafo successivo che «per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima».
[7] Si tratta di una premessa, che, sebbene criticabile per più ragioni, rappresenta un assunto ampiamente condiviso dalla dottrina italiana (allineata, sul punto, a quella tedesca): valga, per tutti, il rinvio a F. Mantovani, Diritto penale, Milano, Wolters Kluver-Cedam, 2020, 255-256; T. Padovani, Diritto penale, XIII ed., Milano, Giuffrè, 189 ss.; F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, Giappichelli, 2018, 61 ss.
[8] Per un più ampio inquadramento del principio di interpretazione conforme in materia penale, tanto sul versante eurounitario quanto su quello convenzionale, sia consentito il rinvio ad A. Massaro, Diritto penale europeo, Torino, Giappichelli, 2023, 36 ss.
[9] La Corte di cassazione fa riferimento alle “Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento” allegate al “Piano nazionale di azione contro la tratta e il grave sfruttamento” previsto dall’art. 13 della l. n. 228 del 2003, che hanno recepito tanto gli indicatori quanto i protocolli contenuti nei documenti elaborati dalle organizzazioni internazionali, tra cui UNDOC (United Nations Office on Drugs and Crime). Più in generale, v. M. G. Giammarinaro, L’individuazione precoce delle vulnerabilità alla tratta nel contesto dei flussi migratori misti, in Quest. giust., 2/2018.
[10] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 7 del Considerato in diritto.
[11] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 9 del Considerato in diritto.
[12] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 10 del Considerato in diritto.
[13] Sull’onere della prova da intendersi come “rischio per la mancata prova”, amplius, P. Ferrua, La prova nel processo penale. Struttura e procedimento, vol. I, II ed., Giappichelli, 2017, p. 83-84: «di ‘onere della prova’ nel processo penale non si può parlare in senso proprio: l’espressione, infatti, implicherebbe la validità della prova solo se prodotta dalla parte interessata ad affermare la proposizione da provare. Viceversa, secondo il codice vigente, la prova è validamente assunta, chiunque l’abbia prodotta (accusa, difesa o giudice)».
[14] Cass., Sez. III pen., 2 febbraio 2022, n. 15654, punto 5 del Considerato in diritto.
[15] Cfr. G. Fazzeri, Stato di necessità ed interpretazione convenzionalmente conforme: la Corte di cassazione si pronuncia sulla “vittima di tratta”, in Sist. pen., 26 marzo 2024, il quale osserva come il diritto interna non definisca né la nozione di “vittima di tratta” né quella di “posizione di vulnerabilità” con la stessa precisione delle fonti internazionali ed eurounitarie.
[16] M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, Giuffrè, 2004, 572; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 286.
[17] F. Mantovani, Diritto penale, cit., 274.
[18] P. Di Nicola Travaglini, La legittima difesa delle donne nell’omicidio conseguente a reati di violenza di genere, in La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, a cura di C. Pecorella, Mimesis, Milano, 2022, 158 ss.; R. Battistoni, L’omicidio del coniuge maltrattante: tra legittima difesa (putativa) e proporzionalità della pena in astratto, in Sist. pen., 21 giugno 2023.
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