ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti.
Trent’anni dopo.
L’Ingegneria costituzionale e le Riforme.
di Alessandro Mangia
Sommario: 1. Che cos’è la forma di governo – 2. Il Triangolo che cambia – 3. La nuova legittimazione duale del Governo. – 4. Partiti e Quirinale – 5. Una riforma limitata – 6. L’eliminazione dei Senatori a vita – 7. L’eliminazione dello scioglimento disgiunto – 8. Il modello Westminster di vent’anni fa. Legge elettorale e i principi ‘supremi’ - 9. La procedimentalizzazione del rapporto di fiducia – 10. Responsabilità giuridica e responsabilità politica – 11 La libertà del parlamentare e l’ingegnere costituzionale – 12. Sapienza politica, educazione alla politica, e ingegneria costituzionale.
1. Che cos’è la forma di governo
Se si deve svolgere una riflessione in margine al Disegno di Legge Costituzionale n. 935/2024, presentato al Senato in data 15 Novembre 2024 (cd. Riforma Meloni) è bene partire subito da una premessa.
E questa premessa è offerta dalla antica osservazione di M. Duverger per cui la forma di governo non è una parte della Costituzione: la ormai ridicolmente celebre ‘Costituzione dei poteri’, isolabile da un ‘Costituzione dei diritti’, da una ‘Costituzione Economica’, o da altro.
Né la forma di governo è una disciplina che può essere esaminata ‘tecnicamente’, come a qualcuno piace dire da trent’anni, nella logica dell’‘ingegnere’ costituzionale, nel tentativo di isolare il proprio discorso dal sovraccarico politico che inevitabilmente accompagna ogni discorso sulle riforme.
La forma di governo è sempre un risultato di fatto in rapporto ad una situazione attuale e concreta: è, cioè, il risultato dell’interazione fra a) le norme costituzionali che distribuiscono la funzione di indirizzo politico tra gli organi dello Stato (e di questo si occupa la riforma in questione); b) la legislazione elettorale, ossia il modo in cui i voti vengono convertiti in seggi (di cui la riforma si occupa in parte, e a grandissime linee); c) la composizione del sistema politico, ossia la sua articolazione in partiti. Che è analizzabile in termini di numero, struttura, divaricazione ideologica, radicamento territoriale. E di cui il diritto non può occuparsi, ma che deve tenere presente, come ben sapeva un Maestro del Diritto costituzionale come L. Elia che, sulla base di questa osservazione, aveva costruito, nel 1970, una sua teoria della forma di governo, tutta incentrata sul ruolo dei partiti[1] e delle ‘forze politiche’.
E, a questa tripartizione classica, andrebbe aggiunta la ricognizione di quella che, in mancanza, di meglio si suole definire ‘prassi’ di azione degli organi costituzionali: perché, invariati quei tre elementi di cui si è appena detto, è la ‘prassi’ a generare, della forma di governo, quelle trasformazioni (Verfassungswandlungen)[2] che i giuristi in passato hanno cercato di ricondurre alle categorie della ‘consuetudine’ o della ‘convenzione’ costituzionale, fino a parlare, in certe fasi, di diritto costituzionale ‘informale’ o ‘non scritto’ (ungeschriebenes Verfassungsrecht) a proposito delle ‘regolarità’ (non delle ‘regole’) di funzionamento delle istituzioni [3].
Se ci si limita ad esaminare uno solo di questi quattro elementi, ogni osservazione non può che essere parziale e di limitata utilità.
2. Il Triangolo che cambia
Qualche tempo fa R. Bin ha provato a spiegare questa peculiarità del discorso attorno alla forma di governo, dicendo che la forma di governo italiana è un Triangolo i cui vertici sono Governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica. E questo Triangolo non è fisso, ma si trasforma e cambia nel tempo, restando però sempre un triangolo: quel che si è chiamato, per amor di geometria, ‘isomorfismo’ della forma di governo[4].
Si tratta di una buona metafora. E lo è per diverse ragioni: innanzi tutto perché spiega con un’immagine semplice qualcosa di complesso: e cioè il fatto che le forme di governo ‘divengono’ nel tempo, e quindi costringono gli studiosi a confrontarsi con qualcosa che, ad es., era chiarissimo a chi, all’inizio del XIX Secolo, era già avvertito del fatto che “La Costituzione … è, ma allo stesso tempo diviene: e cioè procede nel suo processo di formazione. Questo procedere è una modificazione che non è immediatamente percepibile e non assume la forma della revisione formale”, sicché “il perfezionarsi di una situazione è apparentemente silenzioso e inosservato. Ed è questa la ragione per cui, con il trascorrere del tempo, una Costituzione può giungere ad essere qualcosa di molto diverso da ciò che è stata in passato” [5].
Ed è, in secondo luogo, quella del Triangolo, una buona metafora perché allarga il campo d’analisi delle riflessioni condotte negli ultimi trent’anni. Che hanno inseguito, con la logica dell’“ingegneria costituzionale”, il mito del ‘Governo di legislatura’. Che si sarebbe dovuto raggiungere attraverso forme di ‘razionalizzazione’ del rapporto politico tra Governo e Parlamento (la famosa ‘sfiducia costruttiva’ ne è un ottimo esempio), o attraverso interventi sulla legislazione elettorale, fino a dar vita ad un genere letterario autonomo, a cavallo tra diritto costituzionale e scienza politica.
L’immagine del Triangolo porta, insomma, nel campo d’indagine quello che del Triangolo è il vertice: ovverosia il Presidente della Repubblica. Ed aiuta così a mettere a fuoco alcune trasformazioni degli ultimi anni, sfuggite a chi si è impegnato solo sul problema della ‘durata’ dei governi, o sulle vicende della legislazione elettorale.
Si tratta di trasformazioni riconducibili alla circostanza per cui la Presidenza della Repubblica avrebbe assunto, rispetto ai tempi della cd. Prima Repubblica, un ruolo talmente stagliato da essere stato, in certe fasi, assolutamente dominante rispetto a Governo e Parlamento, realizzando di fatto durante il Governo Draghi – e questo è stato evidente - una concentrazione di potere politico mai vista prima nella Storia repubblicana.
Il che non è avvenuto per caso. Se in passato - e così è stato dal 1948 fino al triennio 1991/1993 - la Presidenza della Repubblica aveva dato mostra di un profilo non troppo definito rispetto all’asse Governo-Parlamento, imperniato su un sistema dei partiti estremamente stabile (la vecchia idea del ‘Presidente-Notaio della Repubblica), è da allora che all’improvvisa debolezza del sistema politico ha dovuto fare riscontro, con sempre maggiore consapevolezza, il ruolo del Quirinale.
Il Triangolo disegnato qualche tempo fa da R. Bin, insomma, ha preso a cambiare forma allora, con la fine dei partiti della Prima Repubblica. E da allora il vertice ha preso ad allontanarsi dalla base, fino a staccarsene nettamente.
Credo sia questo, più che il vecchio e consumato tema della ‘stabilità’ e della ‘governabilità’, l’elemento su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione e su cui si dovrebbe ragionare. Perché è questo l’elemento che ha segnato, dal punto di vista della forma di governo, il percorso della cd. Seconda Repubblica rispetto alla Prima[6]. Qualche rifiuto ad emanare Decreti legge del Governo; la conseguente prassi della contrattazione preventiva del Governo con il Quirinale in ordine al contenuto dei Decreti Legge prima della delibera in Consiglio dei Ministri e della trasmissione al Presidente per l’emanazione ex art. 15 l. 400/1988; un uso quotidiano e troppo consapevole del potere di esternazione, sapientemente amplificato dalla stampa ufficiale; qualche rifiuto di nomina di Ministri proposti dal Presidente del Consiglio incaricato che un tempo si sarebbe confinato nel riserbo dei colloqui tra Quirinale e Presidente del Consiglio – come è sempre stato e che invece è diventato una stupefacente dichiarazione a reti unificate; qualche assunzione di ruolo politico e copertura di Governi cd. ‘tecnici’ o ‘del Presidente’, non solo nella fase della Pandemia, dove questo fenomeno è stato eclatante; la concentrazione in capo al Quirinale del cd. Potere Estero, solo marginalmente disciplinato dall’art. 80 Cost. (non tutti i Trattati devono passare per le Cruna dell’Ago dell’autorizzazione alla ratifica ex art. 80); interventi estemporanei sull’attività di inchiesta del Parlamento; ‘moniti’ al Governo e alle forze politiche puntualmente rilanciati da Uffici Stampa efficientissimi, testimoniano di una trasformazione nel ‘funzionamento’ della forma di governo che non sempre è stata capita fino in fondo dalla cronaca politica. E nemmeno dagli studiosi, se non i più avvertiti[7].
E che è culminata nella creazione per fatti concludenti dell’istituto della rielezione del Presidente della Repubblica sulla base del principio - tutt’altro che pacifico - per cui ciò che è extra legem dev’essere per forza legittimo.
Il che, pur essendo assai discutibile dal punto di vista della logica giuridica, è sembrato d’un tratto un principio ovvio, da sempre presente in Costituzione. E comunque sanzionato dall’acclamazione parlamentare (tanto diversa da un plebiscito popolare?) ad un Presidente rieletto nel 2013 che, a conferma del suo nuovo ruolo di Presidente rieletto, si è subito preoccupato di rimbrottare un Parlamento acclamante.
Il che sembra un’ottima dimostrazione del fatto che la forma di governo dipende sempre, schmittianamente, dalla situazione di fatto e dall’occasione politica. E che le riforme – ad es. l’introduzione dell’istituto della rieleggibilità del Presidente della Repubblica - si compiono assai più per fatti concludenti, come si è detto all’inizio, che per via di legislazione costituzionale[8].
3. La nuova legittimazione duale del Governo
Il punto interessante, però, è che questa progressiva concentrazione di ruolo politico del Quirinale si è realizzata quasi sempre con il consenso, o con l’acquiescenza del sistema politico.
E ciò è avvenuto per molte ragioni, non ultimo il semplice fatto che un sistema dei partiti complessivamente debole e poco autorevole, come era quello della Seconda Repubblica, doveva cercare un elemento di legittimazione fuori di sé. E questo elemento, dopo qualche iniziale fase di conflitto (i tempi dei ‘non ci sto’ del conflitto Scalfaro/Berlusconi), è stato cercato – e trovato – in chi, di volta in volta, ha occupato il Quirinale.
Alla sovralegittimazione del Quirinale da parte di partiti deboli e poco istituzionalizzati, ha fatto così riscontro una prestazione di garanzia da parte del Quirinale stesso nei confronti del sistema politico – o di certe sue parti - che ha ridefinito in termini del tutto nuovi la nozione di organo di ‘garanzia’, che ormai ha assunto, nella vita dello Stato, connotati che un tempo erano propri solo del Diritto civile. E che, si ammetterà, era del tutto sconosciuta ai tempi della Prima Repubblica, quando ad essere garanti della Costituzione erano non gli inquilini del Quirinale (e il relativo aiutantato burocratico, un tempo confinato nei ruoli che gli spettavano), ma i Partiti usciti dall’esperienza Costituente: soprattutto quelli a più forte e diffuso radicamento popolare. Che di quella Costituzione erano i garanti per la semplice ragione di esserne stati i creatori.
Venuto meno quel sistema, e sovraccaricato di funzioni il Quirinale, la forma di governo repubblicana, che nella mente di chi l’aveva pensata doveva essere una forma di governo a legittimazione unica, di tipo monista/parlamentare, ha preso a funzionare secondo i vecchi schemi della legittimazione duale dello Statuto Albertino: dove ad una legittimazione dal ‘basso’ del Governo, espressa dal Parlamento statutario (con i limiti che sappiamo), doveva corrispondere una legittimazione dall’ ‘alto’, di tipo ‘istituzionale/burocratico’, espressa dall’ inquilino di turno del Quirinale.
Ed era. In Età Statutaria, dall’incontro fra queste due legittimazioni – una dal ‘basso’ ed una dall’ ‘alto’ – che dovevano nascere tanto i Governi, nominati dal Monarca e fiduciati dal Parlamento, come le leggi, votate dal Parlamento e sanzionate dal Monarca (art. 3 St. Alb.)[9].
È chiaro che, non esistendo più dal 1946 una Monarchia, non è più questa la situazione, nonostante gli accostamenti – goffamente celebrativi – tra il nome di battesimo di qualche Presidente della Repubblica e il titolo di ‘inquilino del Quirinale’.
Ma è difficile negare che il rapporto strutturale che si è andato a creare fra i vertici del Triangolo non sia divenuto assai simile a quello tipico dell’Età Statutaria.
Se a questo si aggiunge che, da quella fase, il Quirinale, per diverse ragioni, sempre più evidenti dai tempi del Governo Monti del 2011, si è fatto carico del ruolo di terminale delle esigenze riassunte nella formula del ‘vincolo esterno’, proveniente, di volta in volta dall’Unione Europea e dai cd. ‘Mercati’[10], è facile capire come, dopo la crisi del Novembre 2011, il vero problema della forma di governo italiana non sia stata tanto – come si ripete dal 1991-1993 dai cd. ‘ingegneri costituzionali’ – ‘la cronica instabilità’ o la ‘debolezza’ dei Governi.
Il nuovo problema, semmai, è stato la concentrazione di potere politico che si realizza nel momento in cui due vertici del Triangolo – Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio - si avvicinano fino ad identificarsi: nel momento, cioè, in cui, per ragioni esogene al sistema dei partiti, sono entrati in scena i Governi del Presidente (Governo Monti 2011; Governo Draghi 2021), che hanno trasformato il Triangolo di R. Bin in una linea retta che ha un unico vertice e un unico punto d’arrivo.
4. Partiti e Quirinale
E questo punto d’arrivo è dato da un Parlamento fatto di partiti deboli, con scarso radicamento popolare e con enorme volatilità di consenso, sempre più popolato da capi locali da tenere a bada da parte dei rispettivi Segretari (o, come si dice oggi, dei Leader), attraverso una contrattazione continua e, soprattutto, attraverso il potere di composizione delle liste elettorali[11]. Che è poi l’unico istituto che garantisce la ‘governabilità’ non dello Stato, ma dei Partiti, sancito dal meccanismo delle liste ‘bloccate’: con conseguente impossibilità per gli elettori di scegliere il proprio rappresentante.
In questa situazione non è difficile cogliere le ragioni della trasformazione del ruolo della Presidenza della Repubblica, e dell’assunzione, da parte di questa, di un ruolo arbitrale che in passato - prima della crisi 1991-1993 - non aveva mai avuto. E che nemmeno era stato immaginato in quell’Assemblea Costituente in cui il ruolo degli appena ricostituiti Partiti era forte e definito, appoggiato com’era da un consenso popolare diffuso quanto erano diffuse le speranze di ricostruzione dopo lo sfacelo della II Guerra Mondiale.
System der Bedürfnisse) >span class="s1">a base economica, stavolta nemmeno legato ad un territorio, come poteva essere ancora nel XIX Secolo[12].
Sicché, quando ci si è accorti che il Triangolo era cambiato, il Notaio era già diventato, nel migliore dei casi, Arbitro attivo. E questo, per una ragione o l’altra, è stato accettato da tutti, a dimostrazione del fatto che la forma di governo è sempre una ‘situazione attuale e concreta’ in senso schmittiano (il risultato di una combinazione complessa di variabili), e solo in parte una disciplina da analizzare tecnicamente.
Prova ne siano – se ce ne fosse bisogno - i dubbi e le polemiche agitati nei mesi scorsi sulla stampa in ordine alla possibilità che il Quirinale non firmasse – ex art. 87 Cost. - un Disegno di Legge governativo che incidesse, almeno in parte, sulle sue prerogative.
5. Una riforma limitata
La riforma Meloni consta di cinque punti, chiaramente messi in luce dalla Relazione di accompagnamento. E si presenta programmaticamente come una riforma ‘minimale’.
E senz’altro lo è, almeno rispetto ai discorsi sulle macroriforme della II parte della Costituzione andate a referendum nel 2016 (Riforma Renzi), nel 2006 (Riforma Berlusconi), nel 2001 (Riforma del Titolo V), figlie del dibattito trentennale sulle riforme che, si diceva sopra, ha dato vita ad un genere letterario ormai autosufficiente. E lo è, a maggior ragione, una riforma limitata se messa a confronto con il materiale e gli articolati accumulatisi negli anni a far data della Bicamerale De Mita-Jotti e (1993) e dalla Bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) e delle proposte di Semipresidenzialismo e di Premierati ‘forti’ e ‘deboli’ che vi trovavano formulate.
Per inciso, molto di quanto prodotto in quella sede è stato trasposto nella riforma del Titolo V approvata con referendum nel 2001, i cui prodotti sono ben noti a quanti hanno dimestichezza con il Diritto delle Regioni.
6. L’eliminazione dei Senatori a vita
Il primo punto è dato dalla abrogazione dell’art 59/2 Costituzione, relativo alla prerogativa presidenziale di nominare cinque Senatori a vita “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo artistico, scientifico e letterario”. Sul che non c’è troppo da dire, se non del fatto che sarebbe l’eliminazione di un istituto oggettivamente privo di funzione, che ha dato men che mediocre prova di sé, che è stato usato maldestramente in occasione della nomina di qualche Governo tecnico.
E la cui presenza nel sistema non è nient’altro se non un omaggio riservato ai Costituenti al vecchio art. 33 St. Alb., per il quale il Senato avrebbe dovuto essere “composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l'età, di quarant'anni compiuti, scelti fra le categorie seguenti:
1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato;
2° Il Presidente della Camera dei Deputati;
3° I Deputati dopo tre legislature, o sei anni di esercizio;
4° I Ministri di Stato;
5° I Ministri Segretarii di Stato;
6° Gli Ambasciatori;
7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di tali funzioni;
8° I Primi Presidenti e Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti;
9° I Primi Presidenti dei Magistrati d'appello;
10° L'Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il Procuratore Generale, dopo cinque anni di funzioni;
11° I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni;
12° I Consiglieri del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di funzioni;
13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati d'appello, dopo cinque anni di funzioni;
14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare. Tuttavia i Maggiori Generali e i Contr'Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività;
15° I Consiglieri di Stato, dopo cinque anni di funzioni;
16° I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza;
17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di esercizio;
18° I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina;
19° I Membri ordinarii del Consiglio superiore d'Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio;
20° Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria;
21° Le persone, che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione de' loro beni, o della loro industria “.
Che il Costituente, all’atto di rendere il Senato elettivo, abbia conservato solo la categoria 20°, adattandola alla problematica nozione di ‘Patria’, è significativo. Così come è significativo, e non può essere salutata se non con favore, la proposta dell’abolizione definitiva della curiosa categoria del Senatori a vita, che altro non sono se non un residuato, privo di qualunque funzione, della forma di Stato monarchica[13].
7. L’eliminazione dello scioglimento disgiunto
Il secondo punto è dato dalla abrogazione della parte dell’art. 88 che garantisce la possibilità per il Presidente di sciogliere una sola delle due Camere. Si tratta, in realtà, di una norma che poteva avere senso fino al 1963, quando è stata allineata la durata delle Camere e il sistema parlamentare è stato trasformato, dal sistema a debole differenziazione che era stato pensato in Costituente, in un bicameralismo perfetto. Non è difficile capire che si tratta di una norma che, dal 1963, non ha molto senso, non ha mai trovato applicazione, ed è caduta in desuetudine. In un sistema bicamerale perfetto lo scioglimento è del Parlamento tutto, oppure non è. Ma questo sarebbe ininfluente, e l’art. 88 potrebbe tranquillamente restare com’è, non fosse che questa disposizione indebolisce il cuore della riforma medesima, che si trova nella riforma dell’art. 92 Cost. sulle modalità di investitura del Presidente del Consiglio.
8. Il modello Westminster di vent’anni fa. La legge elettorale e i principi ‘supremi’
Il terzo punto, infatti, è rappresentato dalla riscrittura integrale dell’art. 92, ed è orientato a portare, all’interno della forma di governo statale, quel ‘modello Westminster’ del simul stabunt simul cadunt che è stato poi inserito nell’attuale art. 126 Cost., che, sulla base della elezione ‘diretta’ del Presidente della Regione, regola i rapporti fra Presidente e Consiglio. E che, in buona sostanza, faceva già parte delle proposte della Bicamerale D’Alema-Berlusconi del 1997[14].
Il senso della riforma è indicato dalla Relazione di accompagnamento, laddove si specifica che si vuole introdurre ‘un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere”, assai simile a quello proposto a suo tempo da S. Galeotti, in margine ai lavori del cd. Gruppo di Milano[15]. Si tratta di una variante definita ‘forte’ tra gli addetti ai lavori rispetto alla proposta di premierato ‘debole’ avanzata a suo tempo da A. Barbera nel 1995[16], i cui pregi e difetti sono stati analizzati, e da tempo, dalla dottrina giuridica[17].
«Art. 92. – Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni.
Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri».
La novità più significativa – e allo stesso tempo il punto più critico – nella redazione del nuovo art. 92 è dato dall’inserimento in Costituzione di una disciplina sul sistema elettorale, che viene sottratta al rituale dibattito politico istituzionale che ha accompagnato fin dall’inizio il discorso sulle riforme, imponendo un sistema elettorale maggioritario, che assegni (almeno) il 55 per cento dei seggi al candidato Presidente vincitore e alle liste collegate, nel tentativo di assicurare al Governo una maggioranza stabile e certa. Il che di per sé è apprezzabile.
L’interrogativo però che sorge subito è che una disciplina del genere può funzionare e non generare effetti di sovra- o sotto-rappresentazione solo in presenza di un sistema dei partiti in cui sia presente un numero limitato di liste. Che genere di rappresentanza garantirebbe una lista (o una coalizione) che raggiungesse – ad esempio – il 20 per cento dei voti espressi, con un tasso di astensione oscillante, come è avvenuto, tra il 36,09 per cento del 2022, il 27,07 del 2018, il 24,80 del 2013, il 21,90 del 2008?
Riemergono qui le osservazioni iniziali sulla struttura della nozione di forma di governo. Una forma di governo funziona in modo differenziato a seconda della concorrenza o meno di alcuni elementi fattuali, quali la composizione del sistema dei partiti, l’affluenza al voto, la distribuzione del consenso tra le liste partecipanti alla consultazione. E questi elementi fattuali non possono essere controllati o indirizzati, se non in minima parte, dal legislatore, costituzionale o meno che sia.
Il fatto che si inseriscano in Costituzione due principi generali, finora appannaggio della scienza politica, e cioè ‘governabilità’ e ‘rappresentatività’, dimostra, da parte dei redattori del nuovo art. 92, piena consapevolezza del problema, ed il tentativo di circoscriverne la portata.
Va da sé che, a rigore, l’inserimento in Costituzione del criterio per cui la legge elettorale deve garantire almeno il 55 per cento al Governo supererebbe molti dei paletti precedentemente posti dalla Corte costituzionale nella sua giurisprudenza in materia elettorale (si cfr., a tacer d’altro, C. cost. 1/2014; C. cost. 35/2017) e che costituiscono oggi un limite alla progettazione di una ennesima legge elettorale. Per inciso, quante sono state le leggi elettorali in vigore in Italia dall’introduzione del Mattarellum e quanti i progetti di riforma[18]? Si ricordi qui solo il dibattito svoltosi in margine al referendum costituzionale del 2020 (cd. ‘Taglio’ dei parlamentari) all’interno del quale si sosteneva la necessità di un ennesimo intervento sulla legislazione elettorale per adeguare gli effetti del (malaugurato) ‘Taglio’ sulla ‘rappresentatività’ degli organi: un dibattito poi spentosi durante l’emergenza Covid.
Ciò detto, pare difficile ritenere che una norma costituzionale espressa possa essere tacciata di incostituzionalità, come pure qualcuno ha generosamente fatto, alla luce dei principi di ‘governabilità’ e ‘rappresentatività’. Così come è difficile pensare che la Corte costituzionale possa estendere il suo sindacato ad una norma costituzionale di deroga espressa, nonostante le invocazioni alla giurisprudenza sui ‘principi supremi’ inaugurata con C. cost. 1146/1988 e proseguita con 238/2014. Quali sarebbero i ‘principi supremi’ in gioco in questo caso? E quanto ‘ideologica’, se non schiettamente ‘politica’, è la loro invocazione?
Anche perché, prendendo sul serio questi argomenti, che si fondano, come al solito, sul parametro della ragionevolezza, una disciplina elettorale che garantisse almeno il 55 per cento dei seggi a liste sovrarappresentate non sarebbe incostituzionale in sé, ma sarebbe, di volta in volta, e di elezione in elezione, incostituzionale a seconda dell’affluenza elettorale e della distribuzione dei voti. A seconda, cioè che si verifichi o no quell’effetto distorsivo della rappresentanza che è implicito in ogni formula elettorale diversa dal ‘proporzionale’ puro.
Insomma, l’asserita incostituzionalità del nuovo art. 92 Cost. in rapporto agli impalpabili ‘principi supremi’, invocati dagli interpreti di un certo ‘neocostituzionalismo’, dipenderebbe in concreto dall’affluenza alle urne, dal numero delle liste, e dalla distribuzione dei voti: sicché, per capirci, a seconda dei casi, l’art. 92 riformato potrebbe essere prima costituzionale, poi incostituzionale, e poi ancora costituzionale in concreto a seconda di come vadano le elezioni.
Il che, si converrà, non sembra un grande modo di ragionare di Costituzione in termini che non vogliano essere, diciamo così, strumentali; o, per dirla in altro modo, improntati ad un certo ‘neocostituzionalismo’ di maniera che vive di ‘principi’ alti e ‘altissimi’, che stanno al di sopra del legislatore costituzionale. E che però sarebbero liberamente e definitivamente – e cioè senza possibilità di impugnazione ex art. 137 Cost. - ‘bilanciabili’ dalla Corte costituzionale.
Anzi, l’esempio della disciplina costituzionale, prima costituzionale, poi incostituzionale, e poi ancora costituzionale, a seconda dell’esito del voto, dovrebbe bastare a mettere in luce quanto strumentali possano essere certe invocazioni che confondono diritto e opzioni politiche. E quanto contraddittori e paradossali siano gli esiti di un sindacato di costituzionalità ridotto, a tacer d’altro, alla libera applicazione di ‘proporzionalità’ e ‘ragionevolezza’ a qualunque fattispecie.
Il problema che queste invocazioni mettono in luce, semmai, è un altro. Ed è il problema di valutare l’opportunità di approvare o meno una riforma, più o meno ben fatta, più o meno utile, più o meno rispondente alle esigenze messe in luce dalla Relazione di accompagnamento: in una battuta, più o meno rispondente agli obiettivi schiettamente ‘politici’ di ogni proposta di riforma costituzionale. Ma qui dovrebbe weberianamente fermarsi il discorso del giurista che non voglia essere attore politico che non aspiri al ruolo di Giudice-Profeta cui ci ha abituati un certo tipo di giurisprudenza, non solo costituzionale[19].
Attiene, insomma, a quella sfera della discrezionalità politica del legislatore, ordinario o costituzionale, che in altri tempi si diceva non avrebbe dovuto essere oggetto di intervento da parte del Giudice costituzionale. E che l’art. 28 l.87/1953 – apparentemente ancora in vigore – intendeva proteggere, fissando così il perimetro entro il quale avrebbe dovuto muoversi la cognizione del Giudice costituzionale, prima ancora che i ‘principi supremi’ fossero immaginati.
9. La procedimentalizzazione del rapporto di fiducia
Il terzo punto riguarda l’intervento sull’art. 94 Cost., che detta una disciplina pure ricalcata sulla logica dell’attuale art 126 Cost. Fermo restando il principio per cui “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (co. 1), e che “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e mediante appello nominale (co. 2)”; e ferma restando la disciplina della mozione di sfiducia contenuta nei co. 4 e 5, le innovazioni riguardano il co. 3, dove si legge che:
«Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere»;
e un eventuale, ultimo co. 6 dove si legge che
«In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».
È evidente che, nel complesso, si tratta di una disciplina che mira da un lato (art. 92) ad automatizzare il procedimento di scelta del Presidente del Consiglio, spostandolo dal Capo dello Stato al corpo elettorale; dall’altro mira a procedimentalizzare (art. 94 co. 3) il conferimento della fiducia da parte delle Camere prevedendone lo scioglimento pressoché immediato nel caso in cui, con il voto di fiducia, non intendessero confermare l’indicazione uscita dalla consultazione elettorale. E nella fase successiva mira a garantire che il Programma di Governo approvato dagli elettori prosegua per la durata della legislatura.
Il che è in linea con l’ambizione trentennale di avere governi ‘stabili’ e ‘duraturi’ che garantiscano la ‘governabilità’ del Paese. Il che sembra confermato dall’esperienza di applicazione del cd. ‘Modello Westminster’ all’interno degli Esecutivi regionali.
In realtà, riprendendo i termini di un dibattito vecchio di almeno vent’anni, è lecito dubitare che le dinamiche di funzionamento del sistema di relazioni fra Presidente e Consiglio verificatesi dopo la riforma del 1999 siano destinate a riprodursi a livello nazionale, dove i Governi si trovano a gestire rapporti e interessi – innanzi tutto in sede di redazione ed approvazione della legge di bilancio che li fa essere destinatari di sollecitazioni che le Regioni – con i loro enormi problemi - non devono affrontare.
Ed è lecito dubitare della capacità di tenuta del meccanismo, di per sé molto chiaro e lineare, disegnato nella riforma, per il fatto che questo meccanismo pretende di irreggimentare in uno schema fisso una serie di variabili non compiutamente prevedibili, vincolando l’azione di Governo - che sia guidato dal Presidente del Consiglio investito dall’elezione politica, o da un suo eventuale ‘continuatore’ - alle “dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” enunciati in origine.
Il che dà per scontato ciò che scontato non è: ovverosia che la vita dello Stato possa essere irreggimentata in una situazione di regolarità perenne, prevedibile dalla politica, e sanzionabile dal corpo elettorale in termini di voto sul ‘programma’ all’atto delle elezioni. E che quel voto sia parametro di legittimazione della successiva azione del governo, guidato che sia dal ‘premier’ o da un suo successore.
Come dovrebbe comportarsi la maggioranza in presenza di un evento imprevisto, perché in natura imprevedibile, come una situazione di tensione internazionale o una Pandemia, o soltanto una crisi finanziaria dipendente da variabili esogene, non controllabili dal Governo? Dovrebbe seguire la linea politica enunciata dal Premier di fronte al caso imprevisto perché imprevedibile, e quindi al di fuori del ‘programma’ originario, oppure dovrebbe rompersi la maggioranza?
E che senso avrebbe in questo caso conferire il mandato a formare un nuovo Governo ad un “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto“ se la maggioranza si è già dissolta?
E, ancora, che senso avrebbe, esaurito questo passaggio, sciogliere le Camere e mandare il Paese ad elezioni in una situazione di crisi finanziaria, o sanitaria, o di politica internazionale con conseguente campagna elettorale e governo dimissionario in carica per il disbrigo degli ‘affari correnti’ ?
È chiaro che irrigidire il ‘programma di governo’ trasformandolo in un parametro di legittimazione dell’azione di un Governo sconta il fatto di vincolare l’azione di ogni governo ad un complesso di previsioni e di indirizzi che possono avere senso all’atto delle elezioni, ma che è destinato a perdere via via attualità e praticabilità con l’allontanarsi nel tempo del momento della elezione/investitura.
In altri termini: avrebbe senso, oggi, nel 2024, un governo vincolato ad un programma politico elaborato nel 2019 e sanzionato dal voto popolare del 2019?
Ma non si tratta soltanto di questo. Chi ci dice che, fermo restando lo schema disegnato dalla riforma, la maggioranza di governo, pur restando compatta, non si traduca, di fatto, in un governo diverso attraverso il ‘sostegno esterno’ di forze politiche uscite sconfitte dalla consultazione elettorale? Siamo sicuri che una norma del genere di quella contenuta nel d.d.l. 935/2023 prevenga il trasformismo, non solo del parlamentare, ma delle stesse maggioranze di Governo? Cosa impedirebbe, di fatto, al Presidente del Consiglio ‘eletto’, in una mutata situazione di fatto (ecco tornare la ‘situazione’ schmittiana), di guidare, con il consenso di tutti, un ‘Governo di unità nazionale”, eludendo o aggirando l’“investitura” o il “mandato popolare” ricevuto solo qualche anno prima in contrapposizione a chi oggi sostiene il Governo dall’esterno e ne condiziona le scelte [20]?
10. Responsabilità giuridica e responsabilità politica
In realtà il punto debole di questa proposta di procedimentalizzazione è l’idea che il ‘programma elettorale’ di un dato momento, costruito su una data ‘situazione attuale e concreta’, possa essere irrigidito e assolutizzato fino a divenire parametro unico di legittimazione di un Governo. Sicché, allontanatosi quel Governo dal programma originario, quel Governo dovrebbe automaticamente cadere con ritorno ad elezioni.
Il che, per quanto paradossale, dipende da un certo modo di accostarsi al problema della stabilità dei governi: che, come si è detto, è quello tipico dell’ingegneria costituzionale. Ma dipende, soprattutto da una mancata comprensione della natura della responsabilità politica che il Parlamento può far valere, in un sistema parlamentare, nei confronti del Governo; e, corrispondentemente, della responsabilità politica che l’elettore può far valere nei confronti del singolo parlamentare.
Come è stato messo bene in luce da V. Angiolini anni fa, il discrimine fra responsabilità giuridica e responsabilità politica è la natura del parametro alla luce del quale quella responsabilità può essere fatta valere[21]. La responsabilità giuridica è tale perché – si tratti di responsabilità civile nelle sue diverse forme, penale, o contabile – è sempre una responsabilità a parametro fisso, precostituito dalla legge o comunque dall’ordinamento. E la fissità del parametro è al tempo stesso criterio di giudizio, e garanzia di chi può, potenzialmente, essere ritenuto giuridicamente ‘responsabile’.
Invece ciò che, per approssimazione a questa, i giuristi definiscono responsabilità politica è strutturalmente altro. È, cioè, una forma di responsabilità a parametro mobile: a parametro, cioè, di volta in volta fissato da chi ha il potere (o il dovere) di far valere questa forma di responsabilità, esercitando un controllo sull’azione di chi vi è soggetto. Ed in questa circostanza si esprime un principio di ‘libertà’ della politica, che non sopporta irreggimentazioni o vincoli.
Forse che un Governo che adempia idealmente per una legislatura in modo preciso e puntiglioso il programma enunciato ha diritto a restare in carica? O i parlamentari hanno in ogni momento il potere e il dovere di sfiduciarlo nell’interesse della Nazione, qualora ritengano che l’azione di quel Governo sia inadeguata alla ‘situazione’ del momento, anche se quell’azione è stata perfettamente rispondente alle “dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” assunti al momento dell’entrata in carica?
È chiaro che in questi casi si sconta una indebita sovrapposizione tra lo schema di funzionamento della responsabilità in senso proprio – che è quella ‘giuridica’ – e quella che, in mancanza di meglio, e per approssimazione, i giuristi hanno definito nel tempo responsabilità ‘politica’[22].
La quale, si badi, non si ritrova soltanto nel rapporto fiduciario intercorrente tra Governo e Parlamento ex art. 94 Cost., ma si ritrova, con le medesime caratteristiche, nell’art. 67 Cost. e nella disciplina del ‘libero mandato’ che regge il sistema della rappresentanza[23].
Forse che il Parlamentare che adempie scrupolosamente per una legislatura agli impegni assunti (non si sa più verso chi? Verso i propri elettori o verso la Nazione di cui ci parla l’art. 67 ?) ha diritto alla rielezione nella legislatura successiva? E il Parlamentare che invece non cambi casacca e gruppo parlamentare deve essere sanzionato perché ritenuto politicamente responsabile con esclusione dalla legislatura successiva? O invece l’elettore, in quanto titolare del potere di far valere – o meno - la responsabilità politica dell’eletto può decidere di riconfermarlo ad onta della sua fedeltà alle ‘dichiarazioni’ elettorali? E con lui riconfermare quella maggioranza più o meno fedele agli ‘indirizzi programmatici’?
11. La libertà del parlamentare e l’ingegnere costituzionale
Semmai, è proprio riflettendo sulla natura dell’art. 67 Cost., e sul principio del libero mandato che vi è racchiuso, che è possibile cogliere il fatto che, per quanto ci si sforzi di ingabbiare una maggioranza all’interno di una logica di premi e punizioni che incentivino o meno certi comportamenti, finché resta il principio del libero mandato a tutelare la libertà di voto del singolo parlamentare non esiste meccanismo che possa garantire nel tempo la durata di una maggioranza.
Il che è stato scoperto ancora trent’anni fa quando si gettava la croce sui governi di coalizione e sulla legge elettorale proporzionale e si raccontava che una legge maggioritaria avrebbe restituito lo Scettro al Principe, e che con una legge elettorale maggioritaria i governi sarebbero stati di legislatura[24]. Poi si è scoperto in fretta che i Governi del maggioritario cadevano per le stesse identiche crisi di coalizione che segnavano i tempi della Prima Repubblica; e che le maggioranze di governo variavano con frequenza anche maggiore di quanto non avvenisse ai tempi della Prima Repubblica.
Ciò che ogni riforma prodotta con la logica dell’ingegneria costituzionale, affermatasi trent’anni fa come soluzione al problema della crisi dei Partiti, sconta è l’irriducibilità della libertà del Parlamentare, garantita dal divieto del mandato imperativo ex art. 67 Cost., ad un sistema di premi e punizioni (se si preferisce, di incentivi e disincentivi) di tipo comportamentale.
Il che è soltanto l’altra faccia del problema derivante dal fatto che, alla caduta del sistema dei Partiti della Costituente, e al vuoto generatosi in quel momento, si è creduto di poter ovviare attraverso una sorta di Automa politico: uscendo, cioè, dalla prospettiva del Costituzionalismo come tecnica per la limitazione e il temperamento di un potere politico già esistente in premessa[25], e prendendo a guardare alla Costituzione come ad una ‘macchina’ che avrebbe dovuto produrre ‘politica’ e ‘decisioni’ in un contesto di stabilità ed efficienza, imposta dalla nuova logica della ‘concorrenza’ del ‘sistema paese’ con altri ‘sistemi paese’ codificata in Maastricht 1992[26].
“Bentham disse una volta che i due grandi ‘motori’ (engines) della realtà sono la punizione e il premio. E sicuramente ‘ingegneria’ deriva da engine. Mettendo assieme metafora e etimologia, sono arrivato a ‘ingegneria costituzionale’ per rendere l’idea, primo, che le costituzioni sono qualcosa di simile a macchine o meccanismi che devono ‘funzionare’ e che devono dare comunque risultati; e, secondo, che è improbabile che le costituzioni funzionino a dovere (come dovrebbero), a meno che non impieghino i ‘motori’ di Bentham, e cioè punizioni e premi”[27]. Così, nel 1995, G. Sartori descriveva il nuovo approccio, mutuato dalle scienze sociali, che avrebbe dovuto sostituire – e che di fatto ha sostituito con i risultati fallimentari che sappiamo – il vecchio ‘metodo giuridico’ nell’affrontare il problema delle ‘riforme’.
Trent’anni di esperienze fallimentari dei sedicenti ingegneri costituzionali - di quanti cioè hanno creduto opportuno importare il metodo empirico delle scienze sociali per ‘misurare’ le rese dei sistemi istituzionali[28] e applicare il behaviourismo alla politica - dovrebbero averci mostrato i grossi ed evidenti limiti di questo approccio
Chi ragiona in questo modo lascia in ombra il fatto che non si può chiedere alla Costituzione e agli artifici tecnici di fare ciò che la politica dovrebbe fare, e cioè fabbricare maggioranze per produrre decisioni condivise e socialmente accettabili e, magari, anche giuste. E lascia in ombra il fatto – ben chiaro a chi, come V. E. Orlando, distingueva nettamente fra ‘diritto’ e ‘politica’ - che c’è uno spazio che spetta alla Costituzione così come c’è uno spazio che spetta alla politica. Perché questi spazi, nella mente del fondatore del ‘metodo’ giuridico, erano separati e separati dovevano restare: nel rispetto reciproco[29].
La Costituzione può fornire un quadro normativo, e alcuni meccanismi di razionalizzazione dei procedimenti attraverso i quali giungere a queste decisioni, ma non può fare molto di più.
E ciò si può dire perché, fino a quando sta in Costituzione il pilastro dell’art. 67, a garanzia della libertà d’azione del parlamentare, il parlamentare ha tutto il diritto di uscire dalla maggioranza di cui fa parte, a prescindere dal sistema di ‘premi’ e ‘punizioni’ inventati dagli ‘scienziati sociali’ improvvisatisi giuristi.
E quando questa libertà si colloca in un sistema multipartitico, dove un governo per forza di cose deve essere governo di coalizione, l’instabilità delle coalizioni non è una patologia del sistema, ma ne è la fisiologica conseguenza nel momento in cui gli interessi dei componenti della coalizione divergono.
Ed è un bene che sia così, perché la libertà del parlamentare è soltanto la proiezione, sul piano delle istituzioni, di quella libertà dell’elettore che è garantita dall’art. 48 Cost. E che è il fondamento di quell’idea di ‘sovranità popolare’ su cui dovrebbe reggersi l’organizzazione della Repubblica[30].
12. Sapienza politica, educazione alla politica, e ingegneria costituzionale
Insomma, ciò che non si capisce – o non si vuole capire – è che senza un sistema di partiti stabile e sufficientemente istituzionalizzato non c’è espediente tecnico che regga di fronte alla imprevedibilità delle situazioni che costellano la vita dello Stato. E, di converso, anche la peggiore (sulla carta) forma di distribuzione del potere di indirizzo tra gli organi di vertice dello Stato può funzionare benissimo in presenza di una classe politica adeguatamente formata e consapevole del proprio ruolo.
Che in un sistema parlamentare le maggioranze vadano e vengano, si compongano, e si ricompongano – giova ripeterlo - è semplice fisiologia del sistema.
La stranezza è arrivata dopo, quando, con una classe politica, è venuta meno anche quella che, in mancanza di meglio, si definiva un tempo ‘sapienza politica’. E si è preteso di sostituire questa ‘sapienza’ con l’‘Ingegneria costituzionale’: e cioè il tentativo di ricreare a tavolino ciò che era venuto meno assieme al sistema politico della Prima Repubblica. La curiosa idea del ‘pilota automatico’ che dovrebbe guidare un Paese, nelle dichiarazioni di un certo funzionariato europeo, è, in fondo, figlia della stessa cultura benthamiana applicata alle istituzioni, e di cui ci parlava, lucidamente, G. Sartori ancora nel 1995[31].
Il problema, semmai, messo da parte Bentham e i suoi epigoni, più o meno consapevoli, è un altro, ed è quello con cui ci confrontiamo da almeno trent’anni: e cioè che se viene meno un sistema dei partiti, viene meno anche la funzione di educazione alla politica che i partiti hanno svolto attraverso le loro scuole di politica e che ne garantiva la replicazione nella continuità.
M. Weber, più di un secolo fa, ci diceva che la politica è una professione (in realtà un Beruf) che si impara. Se una società non educa e non forma, si preclude la replicazione sociale e si ritrova a breve senza una classe politica[32]. E senza una classe politica addestrata all’ufficio di cui ci parlava Weber la libertà del parlamentare – da garanzia della libertà del cittadino – si trasforma, e diventa uno scherzo insopportabile[33]. E dà spazio ai surrogati della politica, i cui frutti sono stati bene espressi da trent’anni di Ingegneria costituzionale.
Di cui, vale la pena di dirlo, questo progetto di riforma, stante la sua brevità, non è nemmeno il frutto peggiore. Semmai è solo un frutto un po’ troppo maturo, e dal sapore già noto.
[1] L. Elia, Governo (forme di), in Enc. Dir., XIX, 1970, ora in Costituzione, Partiti, Istituzioni, Il Mulino, Bologna 2009, 161.
[2] A. Mangia, Mutamento costituzionale e dogmatica giuridica, in Lo Stato n. 18/2022, 61 ss., sulla scorta di G. Jelllinek, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung. Eine staatsrechtlich-politische Abhandlung, Berlin, Verlag von O. Haring, 1906, dove, fra l’altro, si parla di ‘mutamento costituzionale per mancato esercizio di funzione (nicht Ausübung) da parte di un organo dello Stato‘. Una traduzione parziale della riflessione di Jellinek si trova ora in M. Carducci (a cura di), Mutamento costituzionale, Lecce, Pensa Editore, 2004
[3] Una sintesi recente del dibattito sul punto del diritto costituzionale ‘non scritto’ si trova ora in H. A. Wolff, Ungeschriebenes Verfassungsrecht unter dem Grundgesetz, Tübingen, Mohr, 2019.
[4] R. Bin R., Il Presidente Napolitano e la topologia della forma di governo, in Quad. Cost. 1/2019,
[5] G. F. W. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, oder Naturrecht und Staastwissenschaft im Grundrisse, herausgegeben von Dr. Eduard Gans, II Aufl, Berlin 1840, § 298: «(Die Entwickelung der Verfassung.) Die Verfassung muß an und für sich der feste geltende Boden sein, auf dem die gesetzgebende Gewalt steht, und sie muß deswegen nicht erst gemacht werden. Die Verfassung ist also, aber ebenso wesentlich wird sie, d. h., sie schreitet in der Bildung fort. Dieses Fortschreiten ist eine Veränderung, die unscheinbar ist und nicht die Form der Veränderung hat … So ist also die Fortbildung eines Zustandes eine scheinbar ruhige und unbemerkte. Nach langer Zeit kommt auf diese Weise eine Verfassung zu einem ganz anderen Zustande als vorher». La trad. it. si trova in Lineamenti di filosofia del diritto. Nuova edizione riveduta, con le Aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 2021, 375.
[6] Fondamentale qui resta G. U. Rescigno, A proposito di Prima e Seconda Repubblica, in Studi parl. e di pol. cost. 103/1994, 5.
[7] M. Gorlani, Libertà di esternazione e sovraesposizione funzionale del capo dello Stato, Milano, Giuffré, 2012; D. Galliani, I sette anni di Napolitano. Evoluzione politico costituzionale della Presidenza della Repubblica, Milano, 2012, Università Bocconi Editore, 2012; A. Pertici, Presidenti della Repubblica. Da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, Bologna, il Mulino, 2022
[8] A. Mangia, Potere, procedimento, e funzione nella revisione referendaria, in Rivista AIC 3/2017.
[9] P. Colombo, Storia costituzionale della Monarchia italiana, Laterza, Roma-Bari 2001.
[10] Esemplari le considerazioni che si ritrovano in Guerra G., Appunti sul ruolo del Presidente della Repubblica dopo Maastricht, in Democrazia e Diritto 2/2002, 101
[11] G. Sapelli, La democrazia trasformata. La rappresentanza fra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
[12] Hegel, G. F. W., Grundlinien der Philosophie des Rechts, p. 248. Sulla necessaria separazione (Trennung) fra Stato e società nella prospettiva del governo del ‘Sistema dei Bisogni’ cfr. E. Forsthoff, Der Staat der Industriegesellschaft, C.H. Beck Verlag, München, 1971, trad. it Lo Stato della società industriale, Milano, Giuffré, 2011, a cura di A. Mangia.
[13] S. Bonfiglio, Il Senato in Italia. Riforma del bicameralismo e modelli di rappresentanza, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[14] G.G. Floridia – S. Sicardi, I progetti presentati alla Commissione, in P. Costanzo - G. F. Ferrari- G.G. Floridia -R. Romboli - S. Sicardi, La commissione Bicamerale per le riforme costituzionali. I Progetti, i Lavori, i Testi approvati, Cedam, Padova 1998, 139: “In un primo gruppo di progetti, il capo del governo o Primo Ministro è eletto dall’assemblea rappresentativa su designazione del Presidente della Repubblica o su candidature presentate da un terzo dei deputati con un voto a maggioranza assoluta … Un secondo gruppo di progetti prevede invece l’investitura elettorale del premier, ma secondo due modalità alquanto diverse. (i) La prima ipotesi è quella della elezione a suffragio universale, contestuale alle elezioni parlamentari, per lo più a maggioranza assoluta dei voti validi (con un eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati) ma talora anche a maggioranza semplice, e spesso accompagnata dall’elezione di un Vice primo Ministro destinato a subentrare sino alla fine del mandato, in caso di morte o impedimento permanente (nel caso di dimissioni si prevede invece il ricorso ad elezioni anticipate delle Camere o del primo Ministro). (ii) La seconda ipotesi è quella di una sua designazione indiretta attraverso un collegamento vincolante con le coalizioni che si formano per le elezioni politiche, per cui il Presidente della Repubblica deve nominare il Primo Ministro candidato collegato allo schieramento che abbia ottenuto il maggior numero di parlamentari… Per l’ipotesi di rottura del rapporto fiduciario si prevedono generalmente lo scioglimento e le elezioni anticipate nel caso in cui sia approvata una mozione di sfiducia a maggioranza assoluta della Camera dei Deputati o del parlamento in seduta comune.”
[15] S. Galeotti, Un Governo scelto dal popolo. “Il Governo di legislatura”. Contributo per una ‘Grande Riforma’ istituzionale, Milano Giuffrè, 1984, su cui G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, cit., 227.
[16] A. Barbera, in Liberal 9/1995, 44.
[17] G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, Laterza, Roma-Bari, 1996, 229: “La seconda versione del neoparlamentarismo si deve soprattutto all’elaborazione di Barbera, il quale, in una delle ultime proposte, ha prospettato un sistema articolato nel modo seguente: a) viene chiesto il collegamento di ciascun candidato nei collegi uninominali a un candidato ; b) viene designato Premier il candidato la cui coalizione proponente abbia conseguito la maggioranza dei seggi (calcolata sulla quota eletta nei collegi uninominali e sulla quota che verrebbe eletta nella proporzionale qualora non si operi alcuna correzione); c) in mancanza di tale maggioranza viene corretta la distribuzione proporzionale del 25 % dei seggi in modo da assicurare la maggioranza del 55 % dei seggi alla lista che sia arrivata prima; d) vengono indette nuove elezioni in caso di rottura della coalizione che ha espresso il Premier designato (da realizzare per convenzione costituzionale senza una modifica della norma costituzionale) … Rispetto alla versione ‘forte’ del neoparlamentarismo c’è qualcosa in meno, perché non esiste la votazione diretta ed esclusiva per il Premier. La versione ‘debole’ del neoparlamentarismo vuole raggiungere un risultato: si è eletti Premier in quanto leader di una maggioranza, e non in quanto singoli. L’obiettivo è quello di collegare la scelta elettorale ed il successivo giudizio di responsabilità ad una piattaforma programmatica e non esclusivamente al fascino personale del candidato Premier, evitando che tra quest’ultimo e il popolo si possa instaurare un circuito plebiscitario.” Semmai è da osservare che è l’ambiguità dell’articolato proposto a generare i problemi a suo tempo messi in luce da G. Pitruzzella, non essendo chiaro, se non dalla Relazione di accompagnamento al d.d.l., che si vuole introdurre ‘un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere”. Nel che sta il punto critico della riforma, rilevato da più parti, e la variante rispetto allo schema proposto da Barbera nel 1995.
[18] Un elenco delle leggi elettorali che si sono susseguite dal 1992 in poi si ritrova in A. Mangia, Legge proporzionale? Cosa nasconde il finto ritorno alla Prima Repubblica (intervista resa a F. Ferraù), in www.ilsussidiario.net (13 09 2019).
[19] A. Mangia, L’interruzione della Grande Opera. Brevi note sul dialogo fra le Corti, in DPCE 3/2019, 859.
[20] Osservazioni analoghe si trovano in Bin R., Il Premierato è una bufala e ha due corni, in www.lacostituzione.info , 22 marzo 2024. Ma critiche analoghe, rivolte all’originario Modello Westminster, si ritrovano in G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, cit., 231.
[21] Angiolini V., Il diritto costituzionale e le ‘braci’ della responsabilità politica, Riv. Dir. Cost. 3/1998, 57
[22] G. U. Rescigno, La responsabilità politica, Giuffré, Milano 1967.
[23] Zanon N., Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Giuffré, Milano, 1991.
[24] G. Pasquino, Restituire lo Scettro al Principe. Proposte di riforma istituzionale, Laterza, Roma-Bari 1986.
[25] N. Matteucci, Costituzionalismo, in Dizionario di politica diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 1983, 249.
[26] A. Mangia A., Costituzione e partiti politici. Le riforme tra mito e realtà, in Vita & Pensiero 4/2006, 68.
[27] G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna 1995, 9.
[28] Un buon esempio di questo approccio misurativo/classificatorio è dato dal fin troppo celebre Lijphart A., Patterns id Democracy. Government Forms and Performance in Thirty-Six Countries, Yale University press, 2012, trad. it. Le democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna.
[29] B. Sordi, Diritto pubblico e Diritto privato. Una genealogia storica, Il Mulino, Bologna, 2020, 118. Ma di rilievo sul punto, è anche L. Elia, La Scienza del diritto costituzionale dal Fascismo alla Repubblica, in Costituzione, Partiti, Istituzioni, cit., 317.
[30] G. Guarino, Lezioni di diritto pubblico, I, Milano, Giuffré, 1967, 78 per il quale la sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost., lungi dall’essere una sostanza impalpabile, non sarebbe null’altro se non la somma delle libertà e delle posizioni soggettive (poteri, facoltà e interessi legittimi) riconosciute all’individuo dall’ordinamento sulla base dell’art.48 Cost.
[31] J. Bentham, Un Frammento sul Governo, a cura di E. Castrucci, Milano, Giuffré, 1990.
[32] A. Mangia, Merito e trasmissione del sapere nei processi di replicazione sociale. Art. 34 Cost., in I. Rizzi, (a cura di), Per Merito, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023.
[33] In questo senso già E. Forsthoff, Lo Stato moderno e la virtù, in Stato di diritto in trasformazione, a cura di C. Amrante, Milano 1973.
Nell'immagine: Seduta inaugurale del primo parlamento italiano (18 febbraio 1861), xilografia, 1861, R0480004, Museo del Risorgimento, Torino.
Questo contributo costituisce il primo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista.
D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere)
di Andrea Apollonio
La sfiducia mostrata dal legislatore nel d.d.l. Nordio nei confronti del pubblico ministero, per quanto qui interessa sul fronte delle intercettazioni, sembra collocarsi in una più generale tendenza dell'attuale politica criminale di netto rifiuto delle funzioni giurisdizionali (in senso stretto) in capo al magistrato inquirente, non più primo "giudice" del procedimento ma "cane da guardia" della polizia giudiziaria; e neppure in questo ruolo valorizzato appieno sul piano ordinamentale. Non più co-protagonista della giurisdizione teso al pieno accertamento dei fatti, ma irredimibile accusatore ad ogni costo. La distanza tra giudici e pubblici ministeri, che il Costituente aveva convintamente azzerato, almeno a considerare le ultime leggi adottate appare ormai incolmabile.
Sommario: 1. Prologo: il messaggio veicolato dalla classe politica - 2. La "rilevanza" delle comunicazioni intercettate - 3. La "nuova" disciplina della tutela del terzo - 4. La <<compiuta esposizione>> dei fatti (e il pubblico ministero stretto in una morsa) - 5. I divieti (relativi e assoluti) di pubblicazione - 6. Epilogo: intercettazioni, separazione delle carriere e doveri delle parti.
1. Prologo: il messaggio veicolato dalla classe politica
Il c.d. "d.d.l. Nordio" (disegno di legge governativo approvato in prima battuta dal Senato il 13 febbraio 2024) presenta, tra le varie modifiche al codice di procedura penale, una parziale rimodulazione della disciplina delle intercettazioni relativa da un lato all'ampliamento dei divieti di pubblicazione del materiale intercettato e, dall'altro, all'implementazione dei profili di riservatezza del terzo estraneo al procedimento; due profili che tendono ad integrarsi tra loro.
Su questo versante, attraverso i media si è veicolato il messaggio per cui si introducono <<alcune modifiche alla disciplina delle intercettazioni al fine di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento>>[1]; in alcune ricostruzioni giornalistiche si parla di <<stop per le intercettazioni>>[2] nel caso di soggetti non indagati e comunque intercettati. L'obiettivo dichiarato della classe politica è dunque quello di <<aumentare la tutela della riservatezza di una persona, estranea al processo, che possa essere citata in una conversazione intercettata>>[3].
Ad osservare più da vicino la legge di nuovo conio, però, ci si avvede che non solo per il terzo che - suo malgrado - viene coinvolto in una attività di intercettazione nulla cambia, giacché - come si vedrà - le formule introdotte sono prive di reale efficacia innovativa, ma che le modifiche normative satellitari in tema di rapporti con la stampa - effettuate con lo stesso d.d.l. Nordio e con la coeva legge di delegazione europea n. 15 del 21 febbraio 2024 - creano, in realtà, un vulnus maggiore per il terzo coinvolto nel procedimento, perché attraverso l'irrigidimento dei divieti di pubblicazione a carico dei giornalisti - a cui però, al netto dei suddetti divieti, non può ovviamente essere preclusa la possibilità di dare una notizia di cronaca giudiziaria, purché rigorosamente verificata - si determina una tensione maggiore nel (e del) circuito giustizia-media, dovendo la notizia stessa, nella sua illustrazione e comprensione, spesso complessa dal punto di vista tecnico-giuridico, essere in qualche misura rielaborata dai professionisti della stampa.
Il d.d.l. Nordio è in questo senso emblematico di come <<quando viene usata come arma ideologica, il garantismo finisce sempre per ritorcersi contro le persone che presume di garantire>>[4].
Ma viste in una più ampia prospettiva ordinamentale, le modifiche introdotte, pur numericamente esigue, gettano una cupa ombra (l'ennesima) sull'operato del pubblico ministero, dipinto come un soggetto della procedura poco attento agli elementi a discarico degli indagati, insensibile alle esigenze di tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti (tutti, indagati inclusi) e - sopratutto - incapace di discernere l'effettiva rilevanza (ai fini delle sue stesse indagini) delle conversazioni captate, soccorrendo in seconda battuta, a tali manchevolezze, il giudice: fino al punto di coprire, con un divieto assoluto di pubblicazione, tutti gli atti relativi all'attività di intercettazione lavorati dal pubblico ministero, che non siano stati riportati dal giudice in un suo provvedimento.
La sfiducia mostrata dal legislatore nel d.d.l. Nordio nei confronti del pubblico ministero, per quanto qui interessa sul fronte delle intercettazioni, sembra collocarsi in una più generale tendenza dell'attuale politica criminale di netto rifiuto delle funzioni giurisdizionali (in senso stretto) in capo al magistrato inquirente, non più primo "giudice" del procedimento ma "cane da guardia" della polizia giudiziaria; e neppure in questo ruolo valorizzato appieno sul piano ordinamentale. Non più co-protagonista della giurisdizione teso al pieno accertamento dei fatti, ma irredimibile accusatore ad ogni costo.
La distanza tra giudici e pubblici ministeri, che il Costituente aveva convintamente azzerato, almeno a considerare le ultime leggi adottate appare ormai incolmabile.
2. La "rilevanza" delle comunicazioni intercettate
Il cuore di questa mini-riforma è costituito dalle modifiche dell'art. 268 del codice di procedura penale; le ulteriorimodifiche, verrebbe da aggiungere. Va infatti specificato che il co. 2-ter dell’art. 1 del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, convertito con modifiche nella legge 9 ottobre 2023, n. 137, già interveniva sulla disciplina della verbalizzazione delle intercettazioni (c.d. "brogliacci", redatti dalla polizia giudiziaria preposta all’ascolto delle conversazioni), modificando i commi 2 e 2-bis dell’art. 268. Da un lato, il comma 2 (che prevede la verbalizzazione sommaria) veniva sostituito dalla previsione più articolata per cui <<nel verbale di esecuzione delle operazioni redatto dalla polizia giudiziaria viene trascritto, anche sommariamente, soltanto il contenuto delle comunicazioni intercettate rilevante ai fini delle indagini, anche a favore della persona sottoposta ad indagine>>; dall'altro veniva specificato che <<Il contenuto non rilevante ai fini delle indagini non è trascritto neppure sommariamente e nessuna menzione ne viene riportata nei verbali e nelle annotazioni della polizia giudiziaria, nei quali è apposta l'espressa dicitura: "La conversazione omessa non è utile alle indagini">>.
Per rafforzare questa previsione veniva poi modificato il comma 2-bis dell’art. 268 con cui si onera il pubblico ministero di controllare che i verbali rispettino il più generale divieto di trascrizione delle comunicazioni "non rilevanti" di cui al novellato comma 2, peraltro sostituendo il richiamo ai dati sensibili, rigidamente imperniato su una nozione normativa, con un più lato rinvio a <<fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori>>.
Un provvedimento che accentuava ulteriormente gli aspetti della primigenia c.d. "riforma Orlando", che <<era volta, sostanzialmente, a innovare la disciplina delle intercettazioni telefoniche in funzione della necessaria tutela della riservatezza delle persone>>[5]. Peraltro, sempre con la riforma Orlando era già stato modificato, nel contesto, la speculare norma di cui all' art. 114 - che ha nel corso del tempo assunto, com'è stato affermato, una <<funzione centrale nell'intero articolato in quanto si pone all' "incrocio" tra problematiche essenziali, quali la tutela delle indagini e la pubblicità degli atti, il diritto di cronaca e di critica, il diritto di difesa e quello alla formazione della prova penale>>[6] - con l’introduzione del comma 2-bis che fino a ieri stabiliva che è sempre vietata la pubblicazione, anche parziale del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi dell’art. 268, 415-bis o 454 c.p.p.: norma che a quel punto vedeva ampliata per le intercettazioni l’ambito di operatività del divieto di pubblicazione previsto per gli altri atti, e su cui si tornerà più avanti.
Le interpolazioni effettuate dal legislatore del 2023 sul tessuto dell'art. 268, che va letto assieme all'art. 114, specificano quella che già era la regola - alquanto scontata - di selezione del materiale intercettato: la trascrizione delle sole comunicazioni rilevanti per le indagini; così come di palese evidenza è il collegamento della "rilevanza" con elementi che si mostrino <<a favore della persona sottoposta ad indagine>>. "Rileva", infatti, ciò che è in grado di confermare o di disattendere l'iniziale, a volte anche solo abbozzata, tesi accusatoria, sulla quale si è espresso il Gip con il suo provvedimento autorizzativo.
In ogni caso, volendosi confrontare con il sistema nel suo complesso, una siffatta "rilevanza" si evince(va) chiaramente dal co. 6 dello stesso articolo (nella parte in cui <<il giudice dispone l'acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza>>), ma anche, al di là del dato normativo, su un piano logico, meta-giuridico.
Occorrerebbe, una volta per tutte, chiarire che il concetto di rilevanza è sempre in nuce al procedimento; e che il pubblico ministero, nell'attività di accertamento dei reati cui è preposto, ha interesse - e non può essere diversamente - a fare emergere solo le conversazioni rilevanti, in un senso o nell'altro. Se è vero che una conversazione viene trascritta per essere poi non tanto utilizzabile quanto concretamente utilizzata dal pubblico ministero (un esempio tra tutti: per la richiesta di misura cautelare), non avrebbe alcun senso per l'organo inquirente pescare nel - torbido o limpido che sia - bacino delle conversazioni private prive di agganci con l'indagine che si sta conducendo.
Diversamente, si dovrebbe immaginare una polizia giudiziaria prima (che ascolta, seleziona e trascrive) e un pubblico ministero poi (che effettua una verifica del materiale trascritto, avalla le operazioni compiute e dà ulteriore corso al procedimento, ad es. avanzando la richiesta di misura cautelare) che d'accordo tra loro intendano cristallizzare dettagli della vita personale di indagati e terzi manifestamente irrilevanti ai fini dell'indagine; per ragioni chiaramente - e patologicamente - estranee alle finalità del procedimento penale, quali la divulgazione a mezzo stampa di tali dettagli, quindi per finalità ancora più estranee alla giustizia.
Sembra che sia stata proprio l'idea, che però non risulta in alcun modo corroborata nella prassi, del pubblico ministero "guardone", incline al voyeurismo giudiziario, ad avere inquinato il recente dibattito pubblico sulle intercettazioni, strumento di ricerca della prova semplicemente imprescindibile, e ad avere stimolato i successivi interventi di riforma contenuti - adesso - nel d.d.l. Nordio in commento.
3. La "nuova" disciplina della tutela del terzo
Se il legislatore del 2023 aveva specificato il concetto di "rilevanza" nel campo delle intercettazioni, senza di fatto incidere sulla prassi giudiziaria, meglio definendo però l'idea stereotipata sull'operato e sulla collocazione stessa del pubblico ministero nella cornice ordinamentale sotteso alle recenti riforme, il legislatore del 2024, con il d.d.l. Nordio, la rimarca innestando ulteriori modifiche nel corpo dell'art. 268.
Oggi, a seguito della legge n. 137/2023, l'art. 268 descrive una peculiare dinamica applicativa, una doppia fase di selezione/controllo: in prima battuta (co. 2) v'è la polizia giudiziaria che trascrive soltanto le comunicazioni rilevanti (verbali da ritenersi sempre comprensivi, come si è detto, degli elementi <<a favore della persona sottoposta ad indagine>>); in seconda battuta (co. 2-bis) il pubblico ministero che, verificata la corretta selezione operata dalla polizia giudiziaria (<<dà indicazioni e vigila>>), svolge un ulteriore controllo: si accerta che siano espunte, o comunque non compaiano nei verbali, <<espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori>>. Selezioni, verifiche e controlli che, si ribadisce, il pubblico ministero già era tenuto ad effettuare[7], la cui tipizzazione strutturata in questa "doppia fase" dà peraltro corso ad un fraintendimento logico: perché se le conversazioni sono a monte rilevanti per l'indagine (nel senso favorevole o sfavorevole all'indagato) queste vanno in ogni caso trascritte (ne va della completezza dell'indagine) e il controllo del pubblico ministero, che può definirsi "successivo" solo per la peculiare struttura dell'art. 268 giacché nella prassi tale controllo si svolge "in diretta" con costanti interlocuzioni tra l'organo investigativo e quello requirente, in presenza di una conversazione rilevante è volto a ratificare la selezione operata dalla polizia giudiziaria. Non a caso, il legislatore del 2023 non ha potuto esimersi dall'inserire nel co. 2-bis la formula di chiusura <<salvo che risultino rilevanti ai fini dell'indagine>>: che compendia tutto quanto si è detto.
Questo fraintendimento logico si accentua con la modifica apportata, sempre al co. 2-bis, dal d.d.l. Nordio: oggi infatti il pubblico ministero vigila affinché i verbali non riportino, oltreché espressioni lesive o indicazioni sulla vita privata degli interlocutori, <<espressioni [...] che consentono di identificare soggetti diversi dalle parti>>, salvo sempre che risultino rilevanti ai fini dell'indagine.
L'indicazione del legislatore sembra proiettarsi in una duplice direzione operativa: la polizia giudiziaria non dovrebbe riportare le generalità degli interlocutori (ad es. non dovrebbe riportare i dati del titolare dell'utenza chiamata); né dovrebbe riportare espressioni che consentano di identificare qualsivoglia soggetto che non sia compreso nel novero degli indagati - e se queste espressioni inopinatamente compaiono, il pubblico ministero dovrebbe provvedere ad espungerle.
Si tratta di una preclusione normativa che richiede un bilanciamento circa l'importanza della captazione, e che nondimeno lascia perplessi. Anche qui, e a maggior ragione: se una conversazione è rilevante, lo è a tutto tondo: se corrotto e corruttore conversano per dieci minuti del campionato di calcio, e poi toccano per pochi secondi la questione dell'appalto da assegnare scalzando i concorrenti A e B, i dieci minuti saranno omissati, ma quei pochi secondi devono essere illustrati nel dettaglio, e nel dettaglio devono essere indicati (e quindi identificati dalla polizia giudiziaria) i concorrenti A e B di cui costoro parlano.
Oppure, se il corrotto chiama un funzionario alle sue dipendenze per annunciare che il corruttore farà pervenire la documentazione mancante per la "regolare" partecipazione al bando di gara, è necessario identificare il funzionario: che in un momento successivo potrà sempre essere chiamato a rendere informazioni al pubblico ministero per meglio lumeggiare i fatti, e cogliere qualche altro dettaglio del pactum sceleris tra corrotto e corruttore.
L'attività investigativa di identificazione, inoltre, è essenziale che si faccia nell'immediatezza, e la si faccia anche a costo di vincere qualche dubbio sul concetto di rilevanza, nel senso che una conversazione potrebbe essere nell'immediatezza intesa come solo potenzialmente rilevante, per poi acquisire piena e concreta rilevanza nello sviluppo dell'indagine, ed essere così, pur a posteriori, debitamente valutata.
L'identificazione va fatta nell'immediatezza, non la si può fare in seguito (né nel seguito dell'indagine, né in altra fase processuale): dal punto di vista investigativo, la polizia giudiziaria deve disporre di ogni elemento utile a conoscere il contesto in cui opera (ad es. chi sono i concorrenti scalzati dal fascino irresistibile della tangente), mentre dal punto di vista processuale è noto che il dato identificativo non sarebbe più recuperabile una volta chiuse le indagini. Se ad es. in fase dibattimentale il giudice, ritenendolo un elemento conoscitivo utile al pieno accertamento dei fatti, volesse sapere chi è il concorrente B, approfondendo i motivi dell'esclusione, non lo potrebbe più sapere: in dibattimento, non potrebbe chiederlo più a nessuno. E per questo l'iter argomentativo seguito in una sentenza di condanna o di assoluzione potrebbe risultare monco.
Un ulteriore onere viene specularmente addossato al giudice dal d.d.l. Nordio quando - a mente del co. 6 dell'art. 268 - <<dispone l'acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali o soggetti diversi dalle parti, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza>>: ed è a questo punto inutile rimarcare che la locuzione <<soggetti diversi dalle parti>> è frutto dell'interpolazione disposta dal d.d.l. in parola, che anche in questo caso sembra prefigurare una indagine "parcellizzata"[8], à la carte.
E varrà anche per il giudice nella fase di stralcio descritta dal co. 6 quanto si è detto per il pubblico ministero: se la conversazione è rilevante, è rilevante anche rispetto all' interlocutore e alle persone terze che nella conversazione vengono citate. Se rilevante, la conversazione - o la parte rilevante di essa - non potrà che essere illustrata in tutto il suo perimetro, ivi compresa - ovviamente - l'identificazione dei soggetti diversi dalle parti.
4. La <<compiuta esposizione>> dei fatti (e il pubblico ministero stretto in una morsa)
Si tratta di regole elaborate con l'intento di specificare nel dettaglio una prassi - ma si potrebbe anche dire: di imbrigliare sempre più pubblico ministero e giudice in vincoli formali poco consoni ad una serena valutazione dell'importanza oggettiva di un dato elemento per l'indagine - ma che rischiano di determinare un effetto inverso, e perverso: se oggi, a seguito della "riforma Cartabia", il pubblico ministero è tenuto - correttamente - a prestare la massima attenzione al momento in cui iscrivere un soggetto nel registro degli indagati (anche in virtù del potere di retrodatazione, affidato a lui stesso e al giudice)[9], considerate le nuove regole a "tutela" del terzo egli - quale riflesso condizionato - sarà portato ad adottare un ulteriore scrupolo nel valutare la sussistenza dei presupposti per l'iscrizione del terzo, in presenza di pur blandi indizi di reità: e il terzo, una volta iscritto, sfugge alle regole (comunque inefficaci, per tutto quanto si è detto) poste a tutela della sua riservatezza.
Il pubblico ministero, in altri termini, è stretto in una morsa: da un lato la conversazione rilevante, che ancora oggi, nonostante tutto, deve essere trascritta e completamente illustrata; dall'altro la tutela della riservatezza del terzo, i cui dati, se confluiscono in una conversazione rilevante, non possono essere pretermessi. Stretto nella morsa, e pressato dall'irrigidimento dei controlli sul registro degli indagati, il rischio è che il pubblico ministero azioni disinvoltamente lo strumento dell'iscrizione, che qualifica in "parte" chi era ab origine "terzo"; questo, se non altro, lo farebbe uscire dal cul de sac in cui lo stesso legislatore (in particolare attraverso il combinato disposto della riforma Cartabia e del d.d.l. Nordio) lo ha infilato.
Un effetto certo non auspicabile nell'economia del procedimento, perché potrebbe appesantire inutilmente il fascicolo d'indagine; non auspicabile, sopratutto, nel quadro delle garanzie del procedimento, se è vero che già la sola iscrizione nel registro degli indagati può alimentare <<la gran cassa dei social media>>[10] ed essere frutto di effetti pregiudizievoli per il soggetto.
La completezza dell'indagine è un valore processuale ed è garanzia sopratutto per l'indagato/imputato, che dovrebbe avere tutto l'interesse ad un pieno accertamento del fatto. È lo stesso legislatore che ha elaborato il d.d.l. Nordio a riconoscerne la portata, con le modifiche degli articoli 291 e 292, per cui, rispetto alla richiesta del pubblico ministero di misure cautelari, nella stessa sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, <<in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione>> (art. 291 co. 1-ter). Una formula di chiusura - che a sua volta contempla la clausola di salvaguardia della "compiuta esposizione" (ma non è dato sapere di cosa) - che si ripete anche all'art. 292 rispetto all'ordinanza cautelare, informata alla regola per cui quando è necessario per l'esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali, <<in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione degli elementi rilevanti>> (co. 2-quater).
Al netto di una evidente asimmetria (al co. 1-ter si parla solo di <<compiuta esposizione>> mentre al co. 2-quater ci si riferisce espressamente agli <<elementi rilevanti>>: e non può che essere così), forse frutto di un lapsus calami, il concetto di <<compiuta esposizione degli elementi rilevanti>> evidenzia per tabulas che laddove una trascrizione rilevante viene trascritta deve essere corredata da tutti i possibili elementi conoscitivi, perché - per l'appunto - deve essere "compiutamente" esposta al giudice, sia nella fase delle indagini preliminari sia delle fasi successive.
Il valore processuale della completezza dell'indagine, e quindi della <<compiuta esposizione>> della rilevanza degli elementi raccolti attraverso l'attività captativa, viene messo in discussione, attraverso un bilanciamento a dir poco difficoltoso quando non impossibile con la (altrettanto doverosa) tutela della riservatezza del terzo, perché si ritiene (a torto o a ragione) che ciò che finisce nel fascicolo del pubblico ministero possa essere, un domani, pubblicato sui giornali o - peggio - fare il giro del web.
Se così, il legislatore avrebbe dovuto concentrarsi su un altro settore del codice, e in particolare sui divieti di cui all'art. 114. L'ha fatto, ma l'ha fatto in guisa da innescare ulteriori effetti perversi sul piano ordinamentale.
5. I divieti (relativi e assoluti) di pubblicazione
Il d.d.l. Nordio è pervaso dalla preoccupazione che tutto ciò che viene trascritto nei verbali delle attività di intercettazione, acquisiti al procedimento, confluendo nel fascicolo del pubblico ministero possa finire, presto o tardi, sulle scrivanie dei giornalisti. Il legislatore non ne fa mistero, avendo le modifiche lo scopo esplicito di <<rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione [corsivo nostro] delle comunicazioni intercettate>>[11].
Ne è lampante riprova la modifica del co. 2-bis dell'art. 114, che attraverso le modifiche imposte dal d.d.l. Nordio adesso recita: <<È sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni se non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento>>, sostituendo l'ultima parte che si riferiva al contenuto delle intercettazioni <<non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454>>.
Quest'ultima formula, pur richiamando tre norme tra loro molto diverse per struttura e fase processuale di riferimento, intendeva evidenziare che, in materia di intercettazioni, per tutto ciò che non era legittimamente acquisito al procedimento, era sempre vietata la pubblicazione, anche parziale; e questo perché tutto ciò che era acquisito al procedimento passava attraverso il già illustrato giudizio di rilevanza svolto dal pubblico ministero[12].
L' interpolazione normativa operata dal d.d.l. Nordio, questa più delle altre esaminate, conduce ad una concezione invero squalificante della figura del pubblico ministero, perché viene sancito il principio per cui, in materia di intercettazioni, vige il divieto assoluto di pubblicazione di qualsiasi atto della polizia giudiziaria (che opera sotto il controllo del pubblico ministero) e dello stesso pubblico ministero (quale ad esempio una richiesta di misura cautelare), se non viene ripreso dal giudice - e fatto proprio - nel suo provvedimento. Confrontando il dato precedente con l'attuale, può dirsi - volendo rimarcare gli effetti più radicali - che è solo l'atto di "appropriazione" del dato dell'intercettazione da parte del giudice a rendere legittima l'acquisizione dello stesso; e che il controllo effettuato medio tempore dal pubblico ministero conserva un valore residuale, meramente infra-procedimentale, perché lo legittima soltanto a presentare quel dato al giudice ai fini delle sue richieste. È interessante notare che nei lavori preparatori del d.d.l. in commento si parla, con riferimento alla modifica dell'art. 114, di "ampliamento" del divieto di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni[13]. Così non è: non si tratta di una modifica quantitativa (un mero "ampliamento"), ma qualitativa: è sovvertita la natura del divieto, che adesso copre ogni atto del pubblico ministero, passando da una distinzione tra fasi del procedimento ad una distinzione tra i soggetti del procedimento: non più il pubblico ministero, ma solo il giudice valuta la rilevanza delle conversazioni captate ai fini di una eventuale e successiva ostensione.
Breve: il co. 2-bis riguarda soltanto le intercettazioni ma completa, con una regola speciale, il sistema dei divieti di cui al co. 1 e al co. 2[14], affermando che, sebbene il verbale di intercettazione sia legittimamente confluito nel fascicolo del pubblico ministero attraverso le operazioni di cui all'art. 268, sebbene non sia più, tale verbale o il suo contenuto, coperto da segreto istruttorio (co. 1), sebbene sia stata superata la fase dell'udienza preliminare (co. 2), quegli atti rimangono coperti da un divieto di pubblicazione assoluto, a meno che non siano stati riportati in un provvedimento del giudice e, in particolare, nell'ordinanza di misura cautelare.
Quindi oggi il sistema va ricostruito: vede gli atti delle indagini o dell'udienza preliminare non più coperti dal segreto investigativo che restano sottoposti ad un divieto di pubblicità immediata, nel senso che è vietata la pubblicazione del loro contenuto testuale, non anche del loro contenuto come notizia, dunque di una sintesi contenutistica. La ratio di un tale divieto deve essere colto sul piano procedurale, perché è teso a garantire una <<corretta formazione del convincimento giudiziale>>[15], in virtù del principio di separazione delle fasi che esige che al giudice del dibattimento sia di regola interdetta la preventiva conoscenza degli atti delle indagini preliminari. Quanto invece al contenuto delle intercettazioni, il sistema si chiude con la già vista preclusione assoluta di cui al co. 2-bis.
Va specificato che la violazione dei divieti di cui all'art. 114 comporta - oltre alla responsabilità penale ex art. 684 c.p. e, in caso di violazione del segreto delle indagini, ex art. 326 o art. 379-bis c.p., a condizione che il divieto sia previsto dalla legge e non da un provvedimento dell'autorità giudiziaria - una responsabilità disciplinare per i funzionari pubblici e per gli esercenti professioni per le quali è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, come i giornalisti (art. 115)[16]; responsabilità disciplinare cui ovviamente sfuggono tutti coloro che, pur senza essere iscritti ad alcun albo, offrono servizi di informazione alla sterminata comunità del web - e basti solo pensare al popoloso arcipelago dei blog, che possono essere gestiti da qualunque internauta.
6. Epilogo: intercettazioni, separazione delle carriere e doveri delle parti
Ad osservare quest'ultima modifica normativa nella prospettiva ordinamentale, la preclusione assoluta di cui all'art. 114 evidenzia una - irragionevole - distinzione tra atto del procedimento e atto relativo alle intercettazioni, affermando per quest'ultimo una sorta di "presunzione" di legittimità, non all'esito delle operazioni di cui all'art. 268 (come è giusto che sia: all'esito della selezione e dei controlli operati dal pubblico ministero come sopra descritti), ma solo dopo essere stato riportato in un atto del giudice. L'art. 268, che disciplina l'esecuzione delle operazioni di intercettazioni, da solo non basta più a giustificare la pubblicazione del dato procedimentale, e pur in presenza dei requisiti previsti dalla legge: va coordinato con le norme che riguardano i provvedimenti del giudice (es. l'art. 292 in punto di misure cautelari), dovendosi considerare a questo punto assorbente la verifica di legittimità dell'acquisizione (in ragione della rilevanza) svolta dal giudice, spostando in un cono d'ombra le valutazioni effettuate dal pubblico ministero.
In una prospettiva - lo si ripete - ordinamentale, si prefigura un pubblico ministero forzosamente allontanato dal giudice, che diverrebbe a questo punto l'unico, almeno per il tema che qui ci occupa, a poter realizzare un effettivo controllo di natura giurisdizionale. Un pubblico ministero che il d.d.l. Nordio sembra intendere quale organo di direzione e coordinamento della polizia giudiziaria, e solo incidentalmente quale soggetto della giurisdizione.
Il d.d.l. Nordio - è vero - contempla in subiecta materia poche modifiche, ma sono piccoli brani di un complessivo spartito appuntato quasi esclusivamente, a tratti ossessivamente, sull'erosione della sfera delle facoltà e dei poteri del pubblico ministero; senza ulteriori perifrasi, sulla separazione delle carriere intesa quale soluzione radicale, ordinamentale e costituzionale a tutti i mali della giustizia.
Senza voler considerare che la fiducia dei cittadini nella corretta amministrazione della giustizia penale è stata nel tempo minata da fattori endogeni ed esogeni d'ogni tipo, ma tra questi ultimi un ruolo di spicco può essere assegnato alle recenti leggi adottate nel primo scorcio dell'attuale legislatura (si vedano le modifiche sul c.d. "codice rosso", che ampliano e infittiscono a dismisura la rete dei controlli sull'operato del pubblico ministero per questa tipologia di reati), a quelle in procinto di essere varate (si vedano, appunto, le modifiche contenute nel d.d.l. Nordio in commento), agli annunci del governo (si veda quello, ad alto impatto suggestivo, sui test psico-attitudinali per l'accesso alla magistratura); oltreché, s'intende, al continuo rullìo di tamburi sulla sempre imminente legge costituzionale sulla separazione delle carriere.
Forse sono altrove i veri problemi della giustizia italiana.
Forse, tornando al tema delle intercettazioni e delle modifiche varate, il problema non è a monte.
Non è il materiale audio-video captato, in quanto tale, né ovviamente i verbali che ne riportano il contenuto, a costituire il problema, i quali peraltro sono sottoposti ad una particolare cautela prevista nella conservazione nel c.d. "archivio del procuratore" (art. 89-bis disp. att. c.p.p.), istituito sempre dalla riforma Orlando.
Non sono le intercettazioni, in quanto tali, il problema: queste sono, come si sa, il principale e in molti casi unico mezzo di prova di cui l'organo investigativo dispone per il perseguimento di reati carsici ma non per questo meno odiosi, che minano alla base il patto sociale su cui si fonda la nostra democrazia. Solo per citare due tipologie delittuose che solo attraverso le intercettazioni possono essere scoperte: la compravendita di droga e la corruzione del pubblico ufficiale, il cui pactum nessuno ha interesse a denunciare.
Forse il problema è a valle, e sta in chi - legittimamente - dispone di questi atti e potrebbe avere l'interesse a farli pubblicare. Il legislatore è consapevole dei rischi della fuga dell'atto dal procedimento, e se ne avvede nell'art. 116, che disciplina il rilascio di copie degli atti del procedimento, che il d.d.l. Nordio integra con la previsione per cui <<Non può comunque essere rilasciata copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi dell’articolo 114, comma 2-bis, quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori, salvo che la richiesta sia motivata dall’esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato>>.
Questo il punto: gli atti che riguardano le intercettazioni effettuate nel procedimento sono - ovviamente - nella disponibilità dei magistrati titolari di quel procedimento, della polizia giudiziaria operante, anche solo temporaneamente (si pensi agli adempimenti esecutivi quali ad es. la notifica dell'ordinanza di misura cautelare), delle parti del procedimento e dei loro difensori.
Se così, il problema andrebbe più correttamente ricondotto nell'alveo dei doveri di ciascuno: ciascun soggetto della procedura dovrebbe essere responsabile - e quindi consapevole - rispetto ai propri doveri di riservatezza, in maniera tale da tenere al riparo il procedimento giudiziario da influenze esterne quali quelle mediatiche, che nei casi più eclatanti rischiano di trasformarlo in un vero e proprio "circo"[17]. E in questo riparto di responsabilità e doveri, un ruolo centrale deve rivestire la leale collaborazione tra magistratura e avvocatura, nelle aule giudiziarie e fuori di esse, volta a definire il perimetro di un'etica condivisa dentro cui l'informazione giudiziaria può esplicare il proprio fisiologico compito[18].
Anche perché, superato il campo deontologico, sta il magmatico campo normativo: che sul piano della legge ordinaria vede un continuo affastellarsi di regole senza soluzione di continuità. E sul punto basti considerare che la legge 21 febbraio 2024, n. 15, legge di delegazione europea 2022 – 2023, chiede ora al Governo di <<modificare l'art. 114 del codice di procedura penale prevedendo, nel rispetto dell'art. 21 della Costituzione e in attuazione dei principi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell'ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343>>. Si tratterebbe di spingere ancora più avanti le limitazioni di pubblicità, innescando ulteriori tensioni con il diritto/dovere di cronaca giudiziaria: non è forse questa la <<complessiva rimeditazione del bilanciamento, attualmente cristallizzato nella normativa oggetto delle odierne censure, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all'attività giornalistica>>, sollecitata di recente dalla Corte Costituzionale[19]; di farlo attraverso l'ennesima modifica all'art. 114, peraltro del tutto scoordinata nel procedere alla distinzione tra l’atto e il suo contenuto, perché, <<oltre che difficilmente attuabile sul piano pratico, da simile distinzione scaturiscono non di rado distorsioni nocive sia sul piano del diritto all’informazione sul processo che su quello di tutela di imparzialità del giudice dibattimentale>>[20].
Una nuova regola juris, l'ennesima, che deve però fare i conti con un bilanciamento di valori costituzionali ancor meglio avvertito sul piano convenzionale, dacché la Corte Edu di Strasburgo si è occupata a più riprese delle questioni connesse alla pubblicazione di atti di un procedimento penale, affermando che non vi è alcuna preclusione, almeno in linea di principio, affinché il giornalista divulghi informazioni di natura confidenziale, purché vi siano tutti i presupposti normativo-costituzionali che sorreggono il diritto di cronaca, e per contro escludendo che il diritto alla riservatezza delle comunicazioni prevalga in ogni caso[21].
I due piani del diritto positivo non solo quindi non riescono ad integrarsi ma generano continui corto-circuiti, tra gli operatori del diritto e quelli dei media.
Ciononostante, è del tutto evidente che il legislatore voglia continuare ad interpolare - una interpolazione senza fine - la normativa di riferimento; quando invece occorrerebbe, perlomeno, una rilevante "pausa di applicazione", volta a verificare la concreta operatività della normativa e a fornire al legislatore gli elementi utili ad immettere nel sistema gli eventuali correttivi.
Si assiste, all'opposto, ad una vera e propria bulimia legislativa, in forza della scelta, chiaramente elettoralistica, della classe politica, di mantenere sempre aperto il cantiere della giustizia penale. Ad una riforma se ne fa seguire un'altra, e poi un'altra ancora. Ad ogni passaggio la confusione normativa aumenta, le questioni si fanno sempre più complesse, il problema, i problemi di fatto irrisolvibili. E la fiducia del cittadino nel sistema-giustizia, nel frattempo, tracolla.
[1] Sì del Senato al Ddl Nordio: dall’abuso d’ufficio alle intercettazioni, ecco cosa cambia, in Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2024.
[2] L. Milella, Riforma della Giustizia, cosa prevede il testo di Nordio: dal bavaglio ai giornalisti allo stop per le intercettazioni, in La Repubblica, 15 giugno 2023.
[3] Così secondo l'AGI del 15 giugno 2023, nel lancio giornalistico titolato "Nel decreto Nordio ci saranno più garanzie per chi è indagato".
[4] A. Nappi, Contro le virgolette: il garantismo delle perifrasi, in Questione Giustizia, 19 marzo 2024.
[5] Relazione di presentazione al Senato del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 161 del 30 dicembre 2019, richiamato in C. Gallo, La procedura di deposito e selezione delle intercettazioni, in Questione Giustizia, 21 febbraio 2020.
[6] E. Aprile, Sub 114, in Commentario essenziale - Procedura penale, Piacenza, 2021, p. 116.
[7] A. Zampini, Perimetro del segreto e regime di pubblicabilità delle intercettazioni: rilievi critici e spunti interpretativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p. 1570 ss.
[8] Già all'inizio del percorso riformatore in materia di intercettazioni avviato nel 2018 intravedeva il rischio di "parcellizzazione" dell'indagine e dei suoi profili operativi G. Giostra, I nuovi equilibri tra diritto alla riservatezza e diritto di cronaca nella riformata disciplina delle intercettazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 526 (in nota).
[9] Cfr. P. Filippi, Il pubblico ministero come ridisegnato dalla riforma Cartabia, in Giustizia Insieme, 21 novembre 2023.
[10] V. Manes, Giustizia Mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, p. 69.
[11] Relazione allegata al Disegno di Legge n. 808 presentato dal Ministro della giustizia (Nordio) e dal Ministro della difesa (Crosetto) comunicato alla Presidenza il 19 luglio 2023 recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare", p. 4.
[12] G. Pestelli, La controriforma delle intercettazioni di cui al d.l. 30 dicembre 2019 n. 161: una nuova occasione persa, tra discutibili modifiche, timide innovazioni e persistenti dubbi di costituzionalità, in Sistema Penale, 2, 2020, p. 118.
[13] Dossier a cura del servizio studi della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica pubblicato 1° agosto 2023 in ordine alle "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare" - A.S. n. 808, p. 21.
[14] Che statuisce, al co. 1, che <<È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto>>; e al co. 2 che <<È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, fatta eccezione per l'ordinanza indicata dall'articolo 292>>.
[15] G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989, p. 331.
[16] In questo senso, ancora E. Aprile, Sub 114, cit., p. 117.
[17] Citando il titolo del noto pamphlet di D. S. Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, Macerata, 1994.
[18] Sia consentito il rinvio a A.Apollonio, La stagione dei doveri nel rapporto tra presunzione di innocenza e informazione giudiziaria - Relazione tenuta all’incontro di studio "Le emergenze del sistema penale", in Diritto di Difesa, 13 ottobre 2023.
[19] Ordinanza n. 132 del 2020 della Corte Costituzionale, richiamata in V. Manes, Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Torino, 2023, p. 30.
[20] G. Illuminati, Divieto di pubblicazione e formazione del convincimento giudiziale, in AA. VV., Processo penale e informazione, Macerata, 2001, p. 52.
[21] Cfr. C. Edu, 1914/02-2007, 7 giugno 2007, Dupuis e altri c. Francia.
(Immagine: Richard Estes, Telephone Booths, acrilico su masonite, 1967, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid)
Il nuovo articolo 362bis cod.proc.pen.[1] (introdotto dall’art. 7, comma 1, L. 24 novembre 2023, n. 168) impone ai pubblici ministeri di valutare entro trenta giorni la sussistenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari per una vasta serie di reati commessi in danno del coniuge o della persona cui si è o si è stati legati da relazione (tra gli altri i consueti maltrattamenti, atti persecutori, lesioni, violenza sessuale… ma anche – meno prevedibilmente – minaccia aggravata e violenza privata).
Premesso che in presenza di gravi indizi ed esigenze cautelari è normale che venga avanzata richiesta di misura cautelare e che già oggi si assiste a un evidente incremento esponenziale delle misure richieste per codice rosso (conosco i dati della Procura di Bologna, ma credo che la tendenza sia evidente e nazionale), ci si deve chiedere quale sia l’obiettivo di questo ennesimo intervento del legislatore volto a sollecitare iniziative della magistratura requirente.
La risposta più scontata e immediata è che si vuole indurre a fare maggiore uso delle misure cautelari, il che potrebbe anche accadere, con il paradosso che sarebbe soprattutto l’effetto intimidatorio nei confronti dei sostituti procuratori e non tanto una effettiva evoluzione del grado di tutela delle vittime. Effetto intimidatorio per il PM, che diviene di fatto il parafulmine di qualsiasi evento successivo non previsto e non evitato (e quindi da attribuire – con il senno del poi – alla mancata adozione della misura, in qualche modo suggerita e presunta come necessaria dal legislatore).
Gli operatori del diritto già conoscono gli effetti distorsivi che la minaccia sanzionatoria ha prodotto sui sanitari, producendo la c.d. medicina difensiva; analogamente la produzione normativa in materia di codice rosso (ed il clima che questa ha alimentato) sta conducendo ad una procedura penale difensiva, volta anche (se non soprattutto) a scongiurare rischi per il magistrato prima ancora che per la presunta persona offesa.
Altro che diritto penale minimo: con buona pace della presunzione di innocenza, la logica eccezionale della misura cautelare viene mortificata e distorta al punto da mettere il titolare delle indagini nella posizione quasi di dover giustificare la sua non adozione.
L’esperienza degli ultimi anni ci dice come il maggiore ricorso a questo strumento e l’aumento delle pene non si sono dimostrati sufficienti a invertire l’allarmante tendenza del fenomeno.
È un problema che i penalisti conoscono bene: la risposta processuale e sanzionatoria è necessaria e doverosa ma non risolve problemi che hanno sempre radici più complesse (mutatis mutandis, l’eccezionale severità delle pene in materia di stupefacenti si è rivelata da decenni un’arma spuntata per contrastare questa piaga…)
Perché ci si concentra sulla minaccia di repressione? Perché non costa nulla ed è più efficace nel convincere l’opinione pubblica che si sta affrontando il problema.
Basta un tratto di penna per aumentare la pena o chiedere al PM di valutare sempre l’adozione di misure cautelari, mentre una strategia di prevenzione richiede tempo e investimenti: sostegno all’occupazione femminile, aiuto alla maternità, creazione di una forte rete di strutture qualificate per l’aiuto alle vittime e l’accompagnamento rieducativo dei maschi maltrattanti e violenti, educazione civica e sentimentale che raggiunga tutti i giovani, superamento di schemi culturali radicati…
Si tratta di una strada lunga ed in salita, alla quale si è preferita la scorciatoia di aumentare la pressione sulle Procure. Altro che diritto penale minimo: si sceglie una visione rovesciata, come se l’adozione di misure potesse essere la normalità in un sistema di diritto che deve fare della presunzione di innocenza la pietra angolare del processo.
Ancora una volta, tocca ribadire ciò che dovrebbe essere ovvio: il processo penale è una delicata procedura tecnica per attribuire responsabilità e non può essere trasformato in uno strumento di prevenzione generale, se non - appunto - rischiando una distorsione dei principi giuridici posti a tutela di diritti fondamentali.
Questa ennesima norma manifesto finisce per complicare e burocratizzare ulteriormente il lavoro delle Procure (moltiplicando gli adempimenti per i magistrati e per segreterie già in crisi cronica). Non ci si vuole certo sottrarre al deciso contrasto della violenza di genere, ma ciò deve avvenire nel rispetto dei principi costituzionali che governano il nostro diritto penale.
C’è anche un ulteriore rischio insito in questa alluvionale crescita degli obblighi connessi al codice rosso: gli uffici requirenti e i tribunali (soprattutto i piccoli e medio-piccoli) stanno finendo per essere inesorabilmente schiacciati su questa materia, con la conseguenza fisiologica che viene abbassata la guardia su altri fenomeni criminali.
Pensiamo, ad esempio, a quanto sarebbe decisivo un più efficace contrasto ai reati tributari ed economici (in crescita esponenziale anche per il grande flusso di fondi per il PNRR e non solo), così da recuperare alla collettività enormi somme di denaro (centinaia di milioni), che potrebbero investirsi anche in politiche di prevenzione della violenza di genere.
Gli obblighi previsti dall’articolo 362bis cpp (sapientemente rubricato misure urgenti di protezione della persona offesa: chi oserebbe essere contrario!?) rappresentano un approccio sbagliato: sia al fenomeno grave che si vuole prevenire e tutelare, sia rispetto alle ricadute sul lavoro delle Procure, divenute ancora una volta comodo capro espiatorio di ciò che la politica non sa comprendere.
[1] Art. 362-bis. Misure urgenti di protezione della persona offesa (1)
1. Qualora si proceda per il delitto di cui all'articolo 575, nell'ipotesi di delitto tentato, o per i delitti di cui agli articoli 558-bis, 572, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583-bis, 583-quinquies, 593-ter, da 609-bis a 609-octies, 610, 612, secondo comma, 612-bis, 612-ter e 613, terzo comma, del codice penale, consumati o tentati, commessi in danno del coniuge, anche separato o divorziato, della parte dell'unione civile o del convivente o di persona che è legata o è stata legata da relazione affettiva ovvero di prossimi congiunti, il pubblico ministero, effettuate le indagini ritenute necessarie, valuta, senza ritardo e comunque entro trenta giorni dall'iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato, la sussistenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari.
2. In ogni caso, qualora il pubblico ministero non ravvisi i presupposti per richiedere l'applicazione delle misure cautelari nel termine di cui al comma 1, prosegue nelle indagini preliminari.
3. Il giudice provvede in ordine alla richiesta di cui al comma 1 con ordinanza da adottare entro il termine di venti giorni dal deposito dell'istanza cautelare presso la cancelleria.
(Immagine: Benjamin West, Benjamin Franklin Drawing Electricity from the Sky, olio su tela, Philadelphia Museum of Arts, 1816)
L’evoluzione della magistratura italiana in età repubblicana: un profilo storico
Intervento di Antonella Meniconi al 36° Congresso dell'ANM, Palermo 10-12 maggio 2024
Sommario: 1. Premessa – 2. La Costituzione tra eredità del passato e lenta attuazione – 3. Il cambiamento di prospettiva (1961-1992) – 4. Una nuova fase (1994-?).
Porgo un saluto deferente al presidente della Repubblica e alle autorità presenti.
Ringrazio molto il presidente Giuseppe Santalucia e l’Associazione per avermi invitato a fornire il mio contributo in questa prestigiosa occasione.
Dopo una breve premessa, il mio intervento si concentrerà su tre momenti importanti nella storia della magistratura e del nostro Paese nel periodo repubblicano:
1. Premessa
Un lungo e accidentato cammino ha portato la magistratura dagli esordi stentati nell’età liberale alla compressione della libertà del giudice durante il fascismo fino a giungere alla Costituzione repubblicana e al riconoscimento pieno dell’indipendenza ma poi alla sua lenta attuazione e alle tensioni per realizzarla degli anni Sessanta e Settanta, che contribuirono ad avviare la democratizzazione dell’ordine giudiziario e l’adeguamento della giurisprudenza ai principi costituzionali.
Un cammino complesso che – possiamo dire – ha portato alla nascita di un nuovo modello di giudice, un giudice che definirei «democratico» nel senso della attuazione piena della funzione costituzionale. Un giudice che si è dimostrato in grado di fronteggiare con coraggio e con dolorosi sacrifici il terrorismo, le mafie e la corruzione. E che ora si trova a dover far fronte alle nuove sfide poste dalla crescente domanda di giustizia (e non solo in termini quantitativi) di una società in rapida evoluzione e alla necessità di riaffermare i valori di indipendenza e autonomia costituzionali nel nuovo contesto che si profila[1].
2. La Costituzione tra eredità del passato e lenta attuazione
Nel novembre del 1950, al V Congresso nazionale dei magistrati italiani che si svolse a Napoli, Piero Calamandrei, già «padre costituente», allora anche presidente del Cnf, sottolineò come il lavoro dei magistrati impegnati in quell’assise si potesse definire come quello degli «architetti» della Costituzione.
«Voi – diceva il giurista fiorentino – cooperate col vostro consiglio a portare a compimento l’augusto edificio costituzionale che la Costituzione lasciò necessariamente incompiuto».
Mancava, infatti, a quasi tre anni dall’approvazione della Carta, «il coronamento supremo di quell’edificio che dovrebbe essere non solo il simbolo visibile, ma proprio la garanzia interna di una coesione stabile», quella più importante, ovvero – sempre secondo Calamandrei – «la indipendenza della Magistratura impersonata dal Consiglio superiore che la Costituzione ha voluto porre sotto l’alta presidenza del Capo dello Stato». Se ci si batteva – come facevano allora i magistrati riunitisi nell’Anm – perché l’indipendenza divenisse realtà, ci si batteva dunque per il consolidamento e il compimento della Repubblica[2].
La Costituzione aveva introdotto una rottura forte rispetto all’assetto precedente, connotato dalla soggezione del giudice, e ancor più del pubblico ministero, sia al potere politico, sia a quello dei superiori gerarchici, scelti a loro volta dal governo.
Una gabbia gerarchica avvolgeva allora l’esercizio dell’attività giurisdizionale; una gabbia rafforzata dall’Ordinamento Grandi del 1941, ma in parte già attiva e operante anche nel periodo liberale, quando margini di autonomia maggiore erano magari riconosciuti alla magistratura giudicante, ma non però a quella requirente sottoposta, anche per quello che atteneva alle sue funzioni, alla direzione del guardasigilli[3].
Il controllo gerarchico e politico fu solo in parte rimosso con la c.d. Legge Togliatti delle guarentigie del 1946, che aveva, tra l’altro, stabilito l’elettività del Consiglio superiore della magistratura e della Corte suprema disciplinare (due organi separati, entrambi istituiti nel primo Novecento dal ministro di Giolitti Vittorio Emanuele Orlando), ma che restavano composti solo da alti magistrati.
L’azione del ministro comunista – lo avrebbe poi rivendicato egli stesso in Assemblea costituente – si era spinta «sino al limite estremo delle garanzie dell'indipendenza e dell'autonomia, ma non [aveva fatto ancora] della Magistratura un potere autonomo dello Stato»[4].
Una pagina nuova si apriva con la Carta costituzionale: una «Giustizia con l’abito nuovo», per citare un anonimo commentatore dell’agosto 1943 (a soli pochi giorni dalla caduta del fascismo), avrebbe smesso la «clamide dittatoriale» per tornare «alla sua vecchia e fiera tradizione»[5]. Forse la tradizione, come ho detto, non era stata tutta virtuosa, ma che si dovesse superare il fascismo era un fatto dato per assodato.
Non voglio certo ricordare a voi i principi fondamentali che la nostra Costituzione ha stabilito, mi limiterò a elencarli:
la magistratura è riconosciuta come “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104, c. 1);
viene affermata l’indipendenza dei singoli giudici, stabilendo che essi sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, c. 2);
ai magistrati (quindi anche ai p.m.) è riconosciuta la garanzia dell’inamovibilità. (art. 107, c.1) e della eguaglianza secondo il principio che “i magistrati si distinguono soltanto per diversità di funzioni” (art. 107, c. 3).
Per rendere effettiva una condizione essenziale dell’indipendenza dei magistrati viene istituito il Csm cui erano attribuiti compiti di autogoverno, in particolare in materia di assunzioni, assegnazioni di sede e di funzioni, promozioni, trasferimenti, e provvedimenti disciplinari (art. 105) nei confronti di tutti i magistrati.
Al dicastero della Giustizia erano tassativamente riservate solo attribuzioni riguardanti l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110). Il ruolo di controllo della legalità sull’operato degli altri apparati dello Stato e del potere politico era garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112), che imponeva al p.m. il potere-dovere di procedere nei confronti di qualsiasi reato, da chiunque commesso, in attuazione del principio di eguaglianza.
Di fatto nel testo costituzionale si prevedeva il superamento dei precedenti modelli (quello dell’integrazione/dipendenza e quello della separazione/dipendenza).
L’Assemblea costituente abbandonava totalmente l’idea del giudice-funzionario, disegnando uno «statuto», e un modello di magistrato, che rafforzava e garantiva la sua indipendenza, valorizzandone il ruolo professionale.
Questo sistema fu rafforzato dall’applicazione rigorosa del principio del «giudice naturale», che, stabilita l’attuazione della disciplina relativa al sistema della precostituzione del giudice impedì la possibilità per chiunque di operare in modo tale da scegliersi il magistrato da cui farsi giudicare.
Nei decenni successivi, tuttavia, questi valori costituzionali stentarono ad affermarsi: tardò l'istituzione della Corte costituzionale e del Csm, avvenute rispettivamente nel 1956 e nel 1958; intanto due disposizioni transitorie frenarono ulteriormente l’attuazione costituzionale: si prevedeva, infatti, che, fino a quando non fosse stato emanato il nuovo ordinamento giudiziario, si continuassero ad applicare le norme del 1941 (modificate, ma solo in parte, come si è accennato nel 1946). Inoltre, il controllo di costituzionalità sarebbe stato esercitato secondo le norme allora vigenti fino all’entrata in funzione della nuova Corte costituzionale, e ciò comportava che quel compito fosse affidato alla Cassazione. Il che avrebbe dopo il 1956 generato non pochi conflitti tra le due istituzioni, superati poi con la prevalenza finale del nuovo organo.
Le ragioni di questo che è stato definito anche (da Calamandrei) «congelamento costituzionale», sono molteplici.
Caduto il regime, molta parte della struttura amministrativa e giudiziaria precedente restò in piedi, per lo meno lungo tutto il primo decennio repubblicano. Si è parlato di «continuità» tra il regime fascista e la nuova Repubblica: fu una continuità anche e forse soprattutto di uomini, di élites dirigenti formatesi durante l’esperienza del regime. Non vi fu, peraltro, un’epurazione dei vertici della magistratura più compromessi con il fascismo, come del resto ciò non avvenne in tutta l’amministrazione dello Stato: tentata timidamente nel 1944-45, l’epurazione fu definitivamente accantonata dopo la proclamazione della Repubblica e l’amnistia del 22 giugno 1946[6].
Per questi e per altri motivi (legati al mutato contesto internazionale e alla rottura dell’unità antifascista), i cambiamenti profondi sanciti dalla Costituzione faticarono a penetrare nelle stanze chiuse del Ministero della giustizia, e ancor più nei palazzi marmorei dei tribunali. Una eredità difficile da gestire condizionò la nascita e lo sviluppo del nuovo Stato democratico, anche in termini di «stili» giudiziari e modalità di esercizio del potere giurisdizionale, nonché in ragione di un fattore generazionale da non sottovalutarsi. Non era un caso che il modello «sacerdotale» del magistrato, «decoroso funzionario», tecnocrate e burocrate, rimanesse, nella pubblicistica solo di poco precedente alla Costituzione (il volumetto assai diffuso Il sacerdote di Temi del magistrato Guido Raffaelli edito nel 1945), l’archetipo asettico anche se ormai già un po’ démodé del buon giudice italiano[7].
L’entrata in funzione del Csm (nel 1959, dopo l’emanazione della legge dell’anno precedente)[8] fu il primo elemento ad aprire la crisi del sistema; insieme alla rifondazione nel 1945 dell’Anm e al crescere del dibattito sull’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Un dibattito che non solo si sviluppò in seno all’Associazione ma anche in altre sedi «miste» di giuristi di diversa provenienza (come il Centro d’Azione per la Riforma Giudiziaria, fondato nel 1949, poi dal 1962 riorganizzato nei Comitati di azione per la giustizia)[9].
Era però – quello del 1959 – ancora un Csm a rigida composizione gerarchica, nel quale mantenevano salde posizioni di preminenza i giudici della Cassazione. Essi rappresentavano salvo eccezioni, per ragioni anagrafiche oltre che ideologiche, la quintessenza del conservatorismo giudiziario. Di fatto il nuovo Csm risentiva del clima polemico, e anche frettoloso, nel quale era nato, e la stessa legge istitutiva, che ne aveva limitato la portata su alcuni punti decisivi, sarebbe stata sottoposta a dure critiche dalla dottrina e dalla magistratura, fino al punto da essere ritenuta per alcuni versi incostituzionale.
La prima consiliatura del Csm, che ancora all’epoca si riuniva nella Sala degli Arazzi al Quirinale, dove spesso il presidente Gronchi, che ne aveva fortemente voluto l’istituzione, partecipava quasi al termine della sua giornata di lavoro, fu connotata in definitiva dal tentativo di configurare un organo meramente amministrativo (quasi di «consulenza del ministro»)[10], piuttosto che come il vertice di un potere autonomo di «rilevanza costituzionale» quale stabilito dalla Carta del 1948[11].
L’inaugurazione della nuova sede nel restaurato Palazzo dei Marescialli (ora intitolato a Vittorio Bachelet) avvenne il 15 febbraio 1962. Iniziava così anche una fase strutturalmente diversa della vita del Csm.
3. Il cambiamento di prospettiva (1961-1992)
Il 1961 fu un anno importante. Si tenne infatti un primo importante convegno scientifico, con la partecipazione di magistrati, politici, studiosi anche stranieri, organizzato da Giuseppe Maranini (poi criticato nell’assise di Gardone di quattro anni successiva), dal titolo «Magistrati o funzionari?», che era poi l’interrogativo retorico, che si poneva chi voleva un cambiamento di prospettiva dopo la deludente prova della legge di attuazione del Csm. Il futuro della magistratura italiana appariva allora come sospeso tra due idee contrapposte: un corpo giudiziario composto da «giuristi che traevano la loro qualificazione da un elevato grado di professionalità» e dal rispetto dei dettami della Costituzione; oppure un segmento sociale di specialisti caratterizzato da una progressione in carriera tipica dei funzionari pubblici, com’era stata in definitiva fino ad allora lungo l’intera esperienza dello Stato liberale e in quello fascista?[12]. In termini attuali si potrebbe tradurre così: esponenti di un ramo della burocrazia statale sia pure prestigioso e autorevole oppure membri di una istituzione posta a cerniera tra la Repubblica e la società civile?
E in effetti il rischio di una burocratizzazione del «mestiere di giudice» – è stato avvertito recentemente da magistrate autorevoli come Gabriella Luccioli – è un pericolo presente anche nella realtà odierna.
I Sessanta furono, d’altronde, gli anni del cosiddetto «disgelo costituzionale», cioè la fase storica in cui emerse con più nettezza – sino ad apparire insopportabile – la contraddizione profonda tra i principi costituzionali e l’ordinamento giuridico ereditato dal fascismo. Il tumultuoso sviluppo di una società attraversata da un’accelerata modernizzazione (erano gli anni del boom economico) e i nuovi equilibri politici rappresentati dai governi di centro-sinistra avrebbero presto inciso anche sul tradizionale assetto del potere giudiziario. Così come avrebbero inciso le difficoltà di adeguare la struttura giudiziaria così com’era organizzata allora alla domanda crescente di giustizia posta dalla modernizzazione (si pensi allo sviluppo di intere aree del diritto come quello del lavoro, alle novità presentatesi nel diritto commerciale e bancario, ai mutamenti radicali che si profilavano in ambito penale).
Si formava contemporaneamente nelle università, sulle riviste specialistiche, negli studi legali, negli stessi tribunali una generazione nuova di intellettuali accomunati dall’esigenza di ripensare metodi e categorie delle scienze giuridiche. Anche la contestazione del potere assoluto delle alte gerarchie giudiziarie si svolgeva con un forte connotato generazionale: nel 1968 tutti i magistrati di Cassazione (e il 70 per cento di quelli d’appello) risultavano in servizio da prima del 1944, mentre ben il 99 per cento dei componenti dei tribunali erano entrati dopo quello spartiacque. A dieci anni dalla istituzione del Csm l’«alta magistratura», da cui erano tratti i capi degli uffici giudiziari, proveniva per tre quarti dal periodo fascista nel quale si era formata e aveva compiuto parte della carriera, mentre i gradi «inferiori», i giovani, erano stati reclutati pressoché interamente dopo la caduta della dittatura[13]. Una leva di «pretori-ragazzi» dirigeva molte delle preture: ne erano entrati 3.154 tra il 1946 e il 1957 su circa 5.000 posti in organico.
Avanzava in quegli anni un’impostazione basata innanzitutto sulla critica del formalismo giudiziario, cioè alla teoria del giudice «bocca della legge» posta a fondamento del controllo gerarchico, a cui adesso si contrapponevano due obiettivi ormai imprescindibili: la rilevanza dell’ideologia costituzionale (i valori del giudice, il sistema di linee guida rappresentato dalla Costituzione) e l’indipendenza (la separazione del magistrato dalla sua origine di classe, la sua terzietà rispetto al conflitto sociale). Del resto, se si pongono a confronto lo stile delle sentenze della Suprema Corte e quello delle pronunce dei pretori (più tardi definiti «d’assalto» dalla stampa conservatrice) non si può non rilevare – pur ovviamente nella differente funzione delle due giurisdizioni – il diverso «stile», la sensibile attenzione posta dai secondi alle materie del diritto del lavoro, della libertà sindacale e di sciopero, ai diritti civili, alla libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di stampa, di espressione artistica e cinematografica. Spesso – come emerge dai documenti d’archivio – il confronto tra queste due concezioni sarebbe giunto a un punto critico, provocando il deferimento davanti alla sezione disciplinare del Csm di giovani magistrati ritenuti colpevoli di partecipare troppo attivamente alla vita politica e sociale del tempo: e il Csm avrebbe dovuto allora esercitare tutta la sua capacità e il suo ruolo di mediazione per tenere insieme le due anime del corpo giudiziario. Insomma, una lotta forse non solo sorda si combatteva in quegli anni tra innovatori e conservatori.
Cionondimeno si apriva una stagione «straordinaria» – secondo le parole di Adolfo Beria di Argentine, che vi prese parte – con protagonisti di diverso orientamento politico e culturale uniti nell’avvertire i «sussulti del rinnovamento che attraversava il Paese», un movimento repentino e travolgente cui occorreva che la giurisdizione desse risposta.
Dal punto di vista «interno», ma con una valenza anche esterna, si succedevano cambiamenti rilevanti.
In primo luogo, la sentenza della Corte costituzionale, che, nel 1963, aveva dichiarato incostituzionali alcune parti della legge del 1958 relative agli eccessivi poteri del guardasigilli, aveva rafforzato l’indipendenza del Csm rispetto al potere esecutivo. Poi nel 1965 e nel 1966, in due discorsi tenuti davanti al Csm, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, aveva chiesto un profondo rinnovamento della giustizia, auspicando un ruolo più propositivo del Consiglio (anche attraverso la promozione e l’impulso di opportune indagini statistiche) per arrivare a un più efficiente utilizzo dei magistrati, anche con la eventuale revisione delle piante organiche degli uffici giudiziari.
Ma c’era poi un altro fatto, in prospettiva ancora più significativo, che si verificava proprio in quegli anni. Per la prima volta, nel 1963, dopo molte resistenze e un lungo percorso iniziato almeno dal 1919, le donne furono ammesse al concorso in magistratura. Le prime otto vincitrici entrarono in servizio il 5 aprile 1965. Alla fine del 1967 – dopo altre tornate di concorso – si contavano ormai 73 uditrici giudiziarie. Fu l’inizio di una «lunga marcia» dentro le istituzioni: dal 2015 in poi la presenza femminile in magistratura ha superato definitivamente quella maschile.
Anni di cambiamenti, dicevo.
Non è un quindi un caso che nel 1965 – dopo la scissione dell’Umi avvenuta nel 1961 e la costituzione delle correnti (Magistratura indipendente, Terzo Potere e Magistratura democratica) all’interno dell’Anm (che nacquero per esprimere il pluralismo all’interno dell’Associazione) – il congresso di Gardone rappresentasse non solo un momento determinante per l’affermazione di un nuovo modello di giurisdizione, ma fondativo di una nuova idea di giurisdizione in un’Italia che mutava vertiginosamente.
Un evento che portava al centro della società italiana la magistratura («sono presenti oltre un migliaio di congressisti, magistrati, parlamentari, professori, avvocati, giornalisti» ci dicono le cronache congressuali). A Gardone venne approvata all’unanimità, dopo accese e tumultuose discussioni, una mozione che introduceva l’impegno del giudice «alla consapevolezza della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili limiti della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[14]. Si apriva adesso una stagione profondamente diversa, segnata dal progetto del giudice interprete e custode dei valori costituzionali.
Un altro mutamento importante riguardò le carriere dei magistrati e contribuì a scardinare il sistema gerarchico:
le nuove regole sull’avanzamento in carriera approvate tra il 1966 e il 1973 (le cd Leggi Breganze e Breganzone) abolirono la progressione di carriera per concorso, stabilendo quella per anzianità con una valutazione del Csm, prima per i magistrati di appello e poi anche per quelli di Cassazione. Il che dava una risposta concreta alle esigenze avanzate dai magistrati anche in termini stipendiali.
Si trattava anche qui di un mutamento quasi «epocale», in quanto il potere sugli avanzamenti di carriera (e relativi stipendi) era stato da sempre una prerogativa gelosamente conservata e puntigliosamente esercitata dalla magistratura dei gradi alti, e si era tradotta in un potere enorme di condizionamento sulla stessa attività giurisdizionale, in quanto il concorso per titoli si basava propriamente sulla valutazione successiva dei provvedimenti giudiziari. Il potere di conformazione così esercitato dalla gerarchia aveva a lungo avuto la meglio sugli indirizzi giurisprudenziali più innovativi (per esempio nel campo del diritto del lavoro o dell’ambiente) o semplicemente sulle indagini scomode nei confronti degli esponenti del potere economico e politico.
Scindendosi ora gli avanzamenti economici dalle funzioni effettivamente svolte, si compiva un passo importante nella direzione dell’indipendenza interna del corpo giudiziario, ma si apriva la strada anche a una sorta di automatismo della carriera, conferendo un ruolo delicatissimo al Csm nella valutazione dei curriculum degli interessati ai fini del conferimento degli incarichi direttivi. Ruolo – va subito detto – che in anni più recenti sarebbe stato però condizionato dal peso delle correnti e dall’influenza della componente laica nelle loro diverse combinazioni[15].
Inoltre, è stato rilevato anche da autorevoli magistrati come la conquistata indipendenza interna ed esterna abbia sconfinato talvolta in una sensazione di irresponsabilità con conseguenze negative anche in termini di «laboriosità», «diligenza», e «contenuto dei provvedimenti»[16].
Gli anni Settanta sono spesso definiti «anni di piombo», ma furono anche, e direi, soprattutto un «decennio operoso» secondo la felice definizione che ne diede nel 1981 Massimo Severo Giannini valutando l’accumularsi in quel decennio di alcune importanti riforme[17]. In effetti, solo a titolo di esempio, si pensi all’approvazione della legge sul divorzio, alla nuova legislazione sul diritto di famiglia, allo Statuto dei lavoratori, alle leggi sul referendum, all’attuazione dell’ordinamento regionale. Tappe importanti per ognuna delle quali il ruolo della magistratura si sarebbe rivelato decisivo.
In questi anni il giudice si trasformava: da mero interprete a soggetto attivo del nuovo diritto (fino a teorizzarne anche un «uso alternativo»), e ciò grazie alla Costituzione e al controllo di costituzionalità «diffuso», cioè affidato al singolo magistrato su ogni singola legge, in un rapporto fondamentale con la Corte costituzionale. L’ampio accoglimento delle eccezioni di costituzionalità sollevate dai giudici di merito contribuì a completare l’opera di riforma, contribuendo a quella che Roberto Romboli ha definito «una defascistizzazione in mano ai giudici».
Non fu però una rivoluzione pacifica. Anche per l’influenza che vi esercitavano fattori esterni (il conflitto sociale e politico via via più aspro), continuava a svolgersi lo scontro mai definitivamente tra due concezioni del giudice: una costruita attorno all’applicazione formale del diritto e alla corrispondente nozione di riserbo attorno alla propria vita professionale (e personale) l’altra incline a un diritto che chiamerei sostanziale, aperto al riferimento costante alla Costituzione; ma anche foriero, nel lungo periodo, di una esposizione pubblica (ben presto anche mediatica) del giudice. Dal 1988 una trasmissione Rai avrebbe avuto un successo quasi travolgente: si intitolava «Un giorno in Pretura» e portava (sarei per dire metteva in scena) i momenti topici di processi talvolta intentati contro gente comune, più tardi contro esponenti del ceto politico soprattutto imputati di corruzione.
Ciò sembrava ad alcuni una apertura democratica (la giustizia diventava finalmente – si diceva – l’agognata casa di vetro alla portata del cittadino); ma ad altri appariva, e forse in fondo era, un metodo malsano di rappresentare la complessa attività del giudice nel processo, stralciandone e spettacolarizzandone gli aspetti più appetibili in chiave di audience per darli in pasto al grande pubblico.
È indubbio, tuttavia, che in quegli anni, dai Settanta in poi (in campo civile, dei diritti, e in campo penale nella lotta al terrorismo) emerse a tutto tondo l’importanza centrale che i magistrati storicamente ricoprono nella società italiana, divenuta assai più evidente negli anni di fine secolo. Si vide, ad esempio, come assumessero un peso le parole delle sentenze, forse anche al di là delle decisioni nel merito: mi ha molto colpito la sentenza del 2005 della Corte di cassazione sulla strage di piazza Fontana del 1969, che non potendo condannare gli imputati li ha dichiarati responsabili di fronte al tribunale della storia[18], un’espressione che forse qualche decennio prima non avrebbe figurato in un atto giudiziario; ma si potrebbero fare molti esempi.
Al tempo stesso, la proiezione pubblica della sfera giudiziaria cominciò a porre un problema, che si sarebbe evidenziato con più forza dall’inizio degli anni Novanta, ovvero quello della responsabilità e della legittimazione politica dei magistrati nel momento in cui godevano di una piena autonomia e indipendenza.
È, peraltro, questo un problema molto attuale, che si lega al tema stesso di questo Congresso, ovvero quello dell’imparzialità nell’esercizio della giurisdizione (ma non solo: anche in ciò che può apparire non imparziale), e dello spazio che può avere l’interpretazione giurisprudenziale nell’ambito dei valori costituzionali e in quelli, successivi, dei principi fondamentali dell’Unione europea, soprattutto quando maggiore è l’ambito di scelta dell’interprete in campi controversi, ovvero quando i valori si contrappongono, ciascuno rivendicando un riconoscimento di tipo costituzionale. Il limite che i magistrati si dovrebbero dare – ha sostenuto Vladimiro Zagrebelsky – sta probabilmente in un self restraint, non certo nell’applicazione nei confronti di tutti della legge penale, come giusto che sia, ma nella riduzione il più possibile della discrezionalità che la legge conferisce loro[19]. Mi sembra una ragionevole riflessione.
Tornando agli anni Settanta, senza ombra di dubbio nella lotta al terrorismo i magistrati pagarono il prezzo più alto di tutti in termini di vite umane. I giudici caduti sia per mano del terrorismo di destra che di quello di sinistra, alla fine di quella sanguinosa stagione, sarebbero stati undici, meticolosamente selezionati nell’élite della magistratura italiana, la più impegnata nel fronteggiare in prima fila l’insorgenza sovversiva. Basterà fare i nomi di Emilio Alessandrini, Guido Galli e Girolamo Tartaglione (tutti, tra l’altro, collaboratori del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale di Milano) per ricordare quale ferita i terroristi abbiano inflitto allo Stato e alla società civile che si riconosceva nelle istituzioni democratiche e a esse rimaneva tenacemente fedele.
Dal punto di vista della tipologia del lavoro giudiziario – come è stato sottolineato acutamente da Edmondo Bruti Liberati – quest’ultimo sarebbe cambiato in misura notevole, almeno per quanto riguarda le procure e gli uffici di istruzione, aprendosi al lavoro d’équipe e superando il tradizionale modulo organizzativo del giudice dedito isolatamente al proprio fascicolo. Una metodologia, questa, sperimentata con successo durante il terrorismo e poi implementata e istituzionalizzata nella lotta contro le mafie e la corruzione.
Furono questi due che ho appena citati, infatti, gli altri fronti che si aprirono a partire dagli anni Ottanta e Novanta, in cui caddero quattordici magistrati di grande valore. Tra i quali non posso non ricordare, qui, a Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che riuscirono a istruire il maxiprocesso, il quale proprio nel gennaio del 1992 aveva portato a una decisa sconfitta di Cosa nostra (poi confermata in Cassazione). Il primo avrebbe anche promosso, pur tra contrasti anche all’interno della stessa magistratura e revisioni del progetto originario, l’istituzione della Direzione nazionale antimafia e delle Direzioni distrettuali antimafia (1991-1992).
Si trattava a questo punto di una magistratura dotata di una indipendenza «interna», sia «esterna». Una magistratura di altissima qualificazione professionale e dotata di uno spirito di missione, che si trovò a combattere in primo piano le emergenze criminali. Con successo, indubbiamente. Ma anche in una posizione che è stata definita di «supplenza» nei confronti della classe politica. Una classe politica, che, nella sua parte predominante almeno, fu ambigua, in qualche misura connivente se non complice, comunque spesso latitante nei confronti della lotta alle mafie, mentre per quanto riguarda la corruzione divenne a partire dagli anni ’80 una sorta di antagonista della magistratura.
La rottura tra classe politica e magistratura, che non si era verificata nel caso del terrorismo, è stato uno dei fatti istituzionali più gravi e drammatici degli ultimi decenni del secolo scorso e del primo, almeno, del nuovo. L’effetto più vistoso è che la magistratura ha assunto potere ma al tempo stesso è stata lasciata sola, isolata ed esposta più di quanto non implicassero i doveri da essa espletati.
Negli stessi anni – intanto – emergeva una crisi non inedita (era stata oggetto anzi di indagini e studi, nonché di denunce, sin dagli anni Settanta almeno) della giustizia in quanto sistema. Le statistiche giudiziarie facevano emergere la realtà sconfortante dei ricorsi pendenti in ambito civile (con un numero esorbitante di controversie di lavoro e previdenziali), e anche in ambito penale (i tempi esorbitanti dei processi, dei rinvii, delle sentenze definitive). Mentre si manifestava una domanda di giustizia, anche nuova, che non riceveva un’adeguata risposta[20]. La macchina della giustizia, se si vuole usare questa espressione, si era ingolfata.
È questo un dato importante, su cui non mi posso soffermare, quello della crescita della giustizia inevasa, della mancata risposta al bisogno di giustizia da parte del cittadino. Causata da molti fattori che anch’essi non possono essere analizzati come meriterebbero in questa mia relazione, tra i quali certamente si deve almeno citare l’incontrollato proliferare e la via via peggiore qualità della legislazione ma anche la giurisdizionalizzazione di molti settori, l’affermarsi dei nuovi diritti riconosciuti dalla giurisprudenza.
Quanto all’organo di autogoverno, il Csm, già a partire dalla III consiliatura (1968-1972) con la presenza di grandi figure della magistratura, come Salvatore Giallombardo, Adolfo Beria d’Argentine, Francesco Saja (e gli altri che non nomino) il Consiglio perse il suo carattere di organo «burocratico» di secondo piano dal punto di vista istituzionale, che aveva connotato le prime due consiliature (ancora senza un proprio apparato o una sede, ad es.), per acquisirne sempre di più uno di primo piano, promuovendo man mano lo status dei diritti e dei doveri dei magistrati più consono al dettato costituzionale (ad es. la formazione delle tabelle annuali per la composizione degli uffici giudiziari per attuare il principio del giudice naturale) ed elaborando importanti relazioni al Parlamento (la prima del 1970, su Realtà sociale ed amministrazione della giustizia), nonché sviluppando il suo potere «paranormativo» attraverso lo strumento delle circolari contenenti le norme dirette ai capi degli uffici.
Nel 1975, la riforma in senso proporzionale[21] accentuò in misura notevole il carattere rappresentativo dell’organo e il pluralismo giudiziario al suo interno, segnando una tappa centrale per l’affermazione del ruolo costituzionale del CSM, un ruolo che si era sviluppato a partire dal 1958, rafforzati con l’abolizione della carriera e che si affermava adesso, appunto, con l’introduzione del sistema proporzionale.
Nonostante le divisioni, in special modo sulla legislazione d’emergenza, tra il 1978 e il 1980, un segnale di unità fu dato dall’Anm, che ridivenne l’espressione di tutto il corpo giudiziario, con il rientro di Md nella giunta unitaria e dell’Umi tra i suoi ranghi e con l’elezione di Adolfo Beria di Argentine alla presidenza dell’Associazione.
Il Csm divenne purtroppo centrale tra gli organi dello Stato anche per gli avversari della democrazia, perché, il 12 febbraio 1980, le Brigate rosse ne uccisero il vicepresidente, Vittorio Bachelet. E fu poi al centro anche della vicenda della P2, non solo perché a scoprirne gli elenchi a Castiglion Fibocchi furono due magistrati (Gherardo Colombo e Giuliano Turone nel 1981), ma perché la magistratura fu l’unico corpo dello Stato a intervenire con fermezza, proprio attraverso l’azione della sezione disciplinare dell’organo, contro i giudici appartenenti alla loggia e il nuovo vicepresidente Zilletti costretto alle dimissioni dal presidente Pertini.
Non mi è possibile seguire partitamente, senza scadere nella cronistoria o in una visione semplificante di un «conflitto» tra politica e magistratura purtroppo molto frequente e complesso da interpretare, gli eventi che si succedettero così velocemente a cavallo e dopo la crisi della c.d. Prima Repubblica. Semplificando, si può dire che ancora una volta la magistratura si trovò in prima fila, sia nelle indagini condotte sulla corruzione, a volte partite negli anni Ottanta, ma spesso conclusesi al tempo senza un nulla di fatto per una serie di avocazioni e dinieghi delle autorizzazioni a procedere (prima dell’abolizione della Commissione inquirente avvenuta per referendum nel 1987 e dell’autorizzazione a procedere nel 1993), sia per gli attacchi ricevuti dal Partito socialista e dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga in conseguenza dell’avvio di quella che è stata chiamata Mani pulite.
4. Una nuova fase (1994-?)
Con Mani pulite e la lotta alla criminalità mafiosa iniziava davvero una nuova fase. Da un lato, il lavoro giudiziario uscì dall’alveo di un discorso per addetti ai lavori e divenne fattore di rinnovamento complessivo della società e della politica, con una legittimazione anche politica dell’operato della magistratura e un senso comune, quasi morale, dei magistrati di contribuire in prima persona al rispristino della legalità e della giustizia nel nostro Paese; dall’altro, di conseguenza, mutò la rappresentazione e l’autorappresentazione del magistrato visto sempre più dall’opinione pubblica, anche grazie alla spinta dei mass media, nella sua veste di pubblico ministero (rafforzato anche dal nuovo codice di procedura penale del 1989), e meno di giudice terzo, imparziale. E questa torsione potrebbe aver determinato, negli anni successivi, delle conseguenze anche sull’esercizio della giurisdizione, un esercizio delicato che deve tener conto di tutti i settori (anche di quello civile, spesso trascurato) e di tutti i diritti, soprattutto di chi non ha altri strumenti se non quelli della giustizia. Per questo motivo ritengo che l’unità della cultura della giurisdizione tra pubblici ministeri e giudici sia un valore da conservare proprio a tutela dei cittadini.
D’altro canto, la politica non seppe o non volle individuare un nuovo sistema di pesi e contrappesi, in grado di evitare che i controlli sull’agire pubblico e amministrativo venissero demandati solo alla sfera penale e che vi fosse questo sovraccarico di aspettative nei confronti dell’azione giudiziaria: sarebbero state necessarie riforme volte a estirpare per il futuro le cause della corruzione e dei fenomeni criminali.
I dieci anni successivi furono segnati da instabilità parlamentari, connotati da un bipolarismo e da un’alternanza incompiuti nella loro rissosità, scanditi dallo sfarinamento della coalizione di centro-destra nel 1995, poi dall’affermazione del centro-sinistra nelle elezioni politiche del 1996, e infine dal ritorno al potere di Berlusconi nel 2001. Oltre un decennio di vita pubblica fu contaminato da polemiche e attacchi violenti, e contraddistinto da numerosi provvedimenti in materia di giustizia assunti a tutela manifesta, e dichiarata, di interessi particolari.
Il tutto sfociò, nel 2005 (all’epilogo del secondo esecutivo Berlusconi), nell’approvazione di una riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario ad opera del titolare del dicastero, Roberto Castelli (ministro della Lega Nord). Nonostante il parere negativo del Csm, il rinvio alle Camere per vizi di incostituzionalità da parte del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e malgrado le pressanti critiche delle opposizioni, la legge Castelli fu varata con poche modifiche rispetto al testo originario e costituì una reale controriforma rispetto agli indirizzi affermatisi faticosamente negli anni precedenti.
Una riforma che era in realtà una controriforma, guardandola in una prospettiva storica, al di là della contingenza, per individuarne le continuità e le discontinuità: un tentativo di rimettere indietro le lancette dell’orologio della storia e tornare all’ordinamento precedente.
Al di là degli aspetti specifici, pur importanti, relativi alla separazione di fatto delle funzioni di giudice e pubblico ministero e all’introduzione dei test psico-altitudinali (tra l’altro), le novità sostanziali erano costituite dalla forte limitazione dei poteri riservati al Csm (ad esempio nella materia concorsuale) e, più in generale, dal deciso ritorno al passato, con la valorizzazione dell’aspetto gerarchico (con il ruolo accresciuto della Cassazione) e dell’iniziativa del guardasigilli in molti ambiti (come per le nomine dei capi degli uffici)
La riforma ebbe vita breve, non si radicò nell’ordinamento. Fu dapprima sospesa dal nuovo governo di centrosinistra nel 2006 e poi corretta, sia pure con certe ambiguità, con la rimozione di alcune parti, come l’abolizione del test, rimanendo alcuni limiti al passaggio tra le funzioni giudicante e requirente, e la valutazione quadriennale della professionalità del magistrato da parte del Csm.
Sono questi aspetti che penso conosciate bene.
Il dato significativo, che mi sento di segnalare, fu che, ancora una volta, in un quadro politico molto instabile, non si riuscì a dare risposte di più lungo respiro che riformassero la giustizia nel rispetto sia del principio dell’indipendenza, sia di quello, non più prescindibile, dell’efficienza del servizio giudiziario (anche in relazione alla prospettiva europea). Criticità che hanno assunto sempre di più dimensioni enormi (non mi posso soffermare sui dati), ma che pongono un problema ineludibile – come ben sapete – anche alla stessa magistratura.
In fondo, questo si è ripetuto anche nel periodo più recente. La crisi della giustizia e del ruolo della magistratura, così evidente anche per quello che riguarda la situazione delle correnti (su cui occorrerebbe aprire una riflessione e un’autocritica maggiore)[22], si può rinvenire, salvo virtuose eccezioni, sempre in questa assenza di progettualità complessiva condivisa (si pensi al ritardo nella riforma del codice penale del 1930 oggetto di non so quante commissioni di studio). Si succedono, invece, riforme parziali, che vengono subito smantellate e ridiscusse dai governi successivi, spesso per motivi politici, senza dare loro il tempo di essere attuate e di vederne i risultati; riforme che, in una continua instabilità, riguardano anche le regole processuali, mettendo in crisi, ancora una volta, il rapporto tra il cittadino e lo Stato. Riforme, inoltre, che mettono in discussione quei valori di autonomia e indipendenza della magistratura che la Costituzione ha consegnato e che sono stati attuati faticosamente nel corso di quasi 80 anni.
Nel 1950 Calamandrei, nel discorso al Congresso dell’Anm che ho citato all’inizio, riprendeva, a proposito dell’autonomia piena della magistratura da lui auspicata, una famosa frase del Contratto sociale di Rousseau «Malo periculosam libertatem quam quietum servitium»: «Preferisco una libertà insicura a una servitù tranquilla». «Perché solo la libertà – continuava – può dare agli uomini ed anche ai magistrati il pieno senso della loro responsabilità»[23].
[1] Per motivi di spazio si rinvia per la bibliografia e gli approfondimenti ad Antonella Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2013 e Edmondo Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2018.
[2] Piero Calamandrei, Per l’indipendenza della magistratura, ora in Id., Opere giuridiche, Napoli, Morano, 1976, vol. II, pp. 424-428, p. 425.
[3] Art. 69 del R.d. n. 12 del 30 gennaio 1941.
[4] D.lgt. n. 511 del 31 maggio 1946.
[5] C.M., La Giustizia con l’abito nuovo, in «La Tribuna», 11 agosto 1943.
[6] Mi permetto di rinviare a L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica, a cura di Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona, Bologna, Il Mulino, 2022.
[7] Michele Luminati, Priester der Themis. Richterliches Selbstverstandnis in Italien nach 1945, Frankfurt am Main, V. Klostermann, 2007.
[8] Legge n. 195 del 24 marzo 1958.
[9] Giovanni Mammone, 1945-1969. Magistrati, Associazione e correnti nelle pagine de La Magistratura, in Cento anni di Associazione magistrati, Milanofiori, Assago, IPSOA, 2009, pp. 27-53.
[10] In tal senso si veda la decisione n. 248 del 14 marzo 1962 del Consiglio di Stato.
[11] Daniela Piana, Antoine Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 64 ss.
[12] Magistrati o funzionari? Atti del Symposium Ordinamento giudiziario e indipendenza della magistratura, a cura di Giuseppe Maranini, Milano, Edizioni di Comunità, 1962.
[13] Si trattava di 524 magistrati di Cassazione e 1.317 di appello su 1.881; per i tribunali il numero era di 2.692. Cfr. Guido Neppi Modona, La Magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il difficile cammino verso l’indipendenza, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di Francesco Barbagallo, vol. III, 2, Torino, Einaudi, 1997, pp. 83-137 pp. 83-137, p. 136.
[14] Associazione nazionale magistrati, Atti e commenti. XII Congresso nazionale Brescia-Gardone 15-28-XI-1965, Roma, Arti grafiche Jasillo, 1966, pp. 309-310.
[15] Vladimiro Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, in Storia d’Italia. Annali 14. Legge
Diritto Giustizia, a cura di Luciano Violante, Torino, Einaudi, 1998, pp. 713-792, pp. 757 ss.
[16] Giorgio Lattanzi, La «carriera» dei magistrati tra vecchio e nuovo ordinamento giudiziario, in «Quaderni costituzionali», 1983, p. 154.
[17] Cit. da Guido Melis, La legislazione ordinaria, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», n. 4, 2001, numero speciale dedicato a Il diritto pubblico nella seconda metà del XX secolo, pp. 1043- 1077, p. 1059.
[18] Benedetta Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Torino, Einaudi, 2019.
[19] Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, cit., pp. 789-790.
[20] Angelo Ferrati, Relazione per l’inaugurazione per l’anno giudiziario 1980. Assemblea generale 9 gennaio 1980, Tavole statistiche.
[21] L. n. 695 del 22 dicembre 1975.
[22] Guido Melis, Le correnti nella magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, «Questione giustizia», 2020.
[23] Calamandrei, Per l’indipendenza della magistratura, cit., p. 428.
Gli altri contributi dal 36° Congresso dell'Associazione Nazionale Magistrati (Palermo 10-12 maggio 2024) apparsi finora su Giustizia insieme sono la Relazione introduttiva al 36° congresso nazionale Associazione Nazionale Magistrati di Giuseppe Santalucia, Intervento di Lia Sava al 36° congresso nazionale ANM, Intervento di Matteo Frasca al 36°congresso nazionale ANM.
I presìdi dello Stato di diritto nei micro Stati.
Garanzie ordinamentali, forme di accountability, qualità professionale e deontologica del giudice. Verso un modello Europeo [1]
di Giovanni Canzio e Daniela Piana
Sommario: 1. Contesto e inquadramento internazionale - 2. Declinare i modelli europei di governance giudiziaria sulla base di “size” e “legacy” - 3. Le qualità del giudice - 4. Un caso paradigmatico: la Repubblica di San Marino [3].
1. Contesto e inquadramento internazionale
La letteratura di cui oggi disponiamo per inquadrare la tematica in oggetto si ancora a due autorevoli ambiti di elaborazione intellettuale e istituzionale. Il primo riguarda la comparazione fra forme di governo e, al suo interno, fra diversi assetti e configurazioni organizzative adottate nei contesti nazionali al fine di conservare o di introdurre visibili, durature e effettive garanzie di supremazia della regola del diritto rispetto a qualsiasi altra forma di arbitrario esercizio del potere. [2]
In questo senso è chiara la accettazione concettuale della necessità dell’esercizio della discrezionalità decisionale ma, proprio a partire da questa constatazione che costituisce premessa dell’intero impianto di ragionamento, si afferma con altrettanta cogenza epistemologica e quindi pratica la necessità di introdurre nei modelli degli strumenti istituzionali che rendano l’esercizio del potere non solo legittimo se e solo se avviene all’interno di un perimetro dato –lex erga omnes – ma anche se rispondente a forme terze di accountability.
L’elemento della terzietà e dei presidi di quest’ultime diviene dunque sul piano ordinamentale il carattere fondativo del potere giudiziario. Eppure, resta che vi sia una parte fondamentale dedicata all’interno del modello al ruolo svolto dalla norma del diritto, diritto che, per dirla con Santi Romano, è più della somma dei dispositivi di carattere positivo – scritto e codificato. Si tratta di un ordine istituzionale le cui radici sono site nella società e da questa devono trarre larga parte del loro legittimo e duraturo corso.
In questo filone si situa l’analisi svolta dei sistemi giudiziari, all’interno della quale è già stata riscontrata una debolezza scientifica degli studi dedicati ai micro Stati.
Il secondo ambito di letteratura riguarda invece lo sviluppo della narrativa del policy making dispiegato a partire dagli anni 80 del secolo scorso in materia di promozione dello Stato di diritto. Organizzazioni internazionali e fora transnazionali sono da allora impegnati nella articolazione non solo di standard ma anche di strumenti di enforcement, sia attraverso la più tradizionale forma del judicial enforcement, sia attraverso forme di monitoraggio e di rilevazione del quantum con cui un caso paese si discosta dagli standard in materia di contrasto alla corruzione (GRECO), di qualità della giustizia (CEPEJ), di qualità e terzietà dell’istanza giudiziaria e giurisdizionale (CCJE), di qualità della norma e del procedimento di costruzione di questa (Commissione di Venezia). Anche in questo secondo contesto l’attenzione data alle specificità dei micro Stati resta residuale.
2. Declinare i modelli europei di governance giudiziaria sulla base di “size” e “legacy”
Le riforme dell’ordinamento giudiziario, della organizzazione dei servizi della giustizia e delle condizioni che, per le loro diverse funzioni, garantiscono il consolidamento dello Stato di diritto a fronte delle variazioni congiunturali di carattere politico, economico, e sociale, costituiscono un portato di lunga durata della esperienza comparata ed internazionale del XX secolo e certamente del primo ventennio del XXI secolo.
Ancorando alla letteratura comparata che coniuga analisi delle istituzioni formali e studio delle dinamiche funzionali aventi ad oggetto l’interazione fra attori e strutture, ovvero fra attori, meta regole e regole, questo lavoro intende promuovere una prospettiva europea di modulazione degli standard di effettività dello Stato di diritto che si sono affermati in Europa come combinazione di diverse traiettorie di cambiamento culturale, giuridico, sociopolitico, per affrontare una lacuna esistente nella letteratura.
Si intende offrire ad attori internazionali, nazionali e locali una bussola per potere variare e modulare le diverse variabili in gioco quando la grandezza dello Stato in cui le riforme vengono attuate si riduce al di sotto di una certa soglia.
Il ragionamento che si tratteggia muove da una approfondita valutazione dell’importanza degli interessi di carattere economico e finanziario e li mette in relazione con le forme e i gradi di proceduralizzazione che devono essere caratterizzanti delle arene di decisione degli attori giudiziari e giuridici di modo che la autonomia della giurisdizione non sia alcun modo “catturata” da interessi che siano eteronomi rispetto alla tutela dei diritti fondamentali e della democrazia. Esso accoglie una premessa di fondo: “il valore da tutelare è l’imparzialità. Essa è il risultato dell’esercizio di una postura etica e epistemologica sulle decisioni all’interno di uno spazio incomprimibile di giudizio del Giudice”. Tale spazio viene definito, protetto e garantito con l’ordinamento. La qualità del fattore individuale svolge un ruolo tanto maggiore quanto più debole sarà il grado di impersonalità e di generalizzazione dei modi operandi di tutte le istituzioni dello Stato. In altri termini, la ricerca sino ad ora svolta permette di individuale le traiettorie di sviluppo di uno stream avente come impatto sia la formazione sia delle professionalità del diritto, sia della cultura istituzionale di livello statuale, sia ancora delle giovani generazioni.
Si tratta di una prospettiva che apre verso l’introduzione nel set internazionale di standard e di benchmark un cluster di riferimenti che siano capaci di individuare come introdurre e preservare presidi di Stato di diritto nei micro Stati e negli Stati che, in modo polare rispetto a questi, abbiano profili di bassa istituzionalizzazione della organizzazione pubblica del potere. La ragione scientifica sottesa alla comparazione fra queste due tipologie è semplice. Si riferisce infatti al potenziale di rischio di cattura dell’organizzazione del potere pubblico da parte di stakeholders che siano posizionati in una situazione di forte asimmetria di potere e dunque di vantaggio nella interazione con lo Stato o con le istanze del governo e/o dei poteri dello stato in genere. Il potenziale di cattura non va inteso solo nel momento preciso della interazione che avviene per costruire una strategia collaborativa, ma anche nel prosieguo della stessa. Per potere declinare gli standard europei con una specificità – e dunque un rafforzamento – connessa alla condizione del micro-Stato si ritiene utile:
Estendendo dallo studio di caso alla analisi comparata la ricerca intende procedere con le seguenti ipotesi esplicative del potenziale di deterioramento della qualità della giustizia intesa come effetto di sistema al cui determinarsi partecipano i quattro fattori richiamati – società, politica, storia, narrativa:
Ne consegue che occorre ripensare le matrici di fattori che intervengono a tutela dello spazio di autonomia del giudice. Quello spazio sarà dunque più fortemente garantito quanto più sarà alto:
Il riconoscimento del ruolo incomprimibile delle scelte di alta politica istituzionale.
Nelle strutture che hanno piccole dimensioni le variabili che hanno un impatto sulla terzietà e sulla distanza di sicurezza di carattere funzionale sono
Queste ragioni spiegano perché la variabile A – agency è cruciale e comparativamente più impattante anche nel breve periodo rispetto ad altri sistemi sociopolitici.
La qualità del giudice, la dimensione culturale e l’integrità sono leve sulle quali una strategia di rafforzamento o consolidamento dello Stato di diritto in micro-Stati deve agire in modo permanente. Ne consegue l’insufficienza della iper-proceduralizzazione se non associata a forte ancoraggio valoriale dei comportamenti individuali e responsabilità forte delle scelte.
3. Le qualità del giudice
Uno degli aspetti di maggiore rilievo attiene ii meccanismi virtuosi con cui è possibile nei micro-Stati rafforzare le garanzie integrità etica e di responsabilità. Si ritiene che in queste realtà sia opportuno creare una istanza ben identificata dall’esterno e un luogo definito dove avviene la formazione, ossia la forma mentis e la forma modus operandi. Infatti, la formazione è una politica istituzionale di livello sovra-ordinato, ossia essa costruisce la conditio sine qua non si dà continuità al cambiamento avviato con la riforma dell’ordinamento. Tale formazione nel caso specifico non deve essere di natura positivista, quanto invece portare alla costruzione di una cultura che rilanci la immagine della magistratura.
Nell’inquadramento internazionale affermatosi in materia di rule of law e promozione della qualità della giustizia la qualità del comportamento del giudice si trova associata sia ai principi guida che ispirano l’institutional design e la progettazione delle riforme costituzionali e ordinamentali, sia agli effetti che sono da tale comportamento generato sulla fiducia e la affidabilità (liability) del sistema giustizia.
Nel 2022 l’Opinione 3 del Comitato Consultivo Europeo dei Giudici pone in capo alle restanti norme di soft law il cardine facente perno su fiducia / affidabilità e di qui inferisce le conseguenze sia in materia di linee guida comportamentali, sia di principi operativi da adottare, nel rispetto delle tradizioni dei singoli paesi, nel contesto della valutazione e della policy di professionalità.
Appare dunque fondamentale ricordare la necessaria adesione comportamentale del giudice ad un principio non solo di self-restraint, in materia di comunicazioni con l’esterno, ma anche di self-governing, mettendo sulla autonomia coniugata alla forte consapevolezza del magistrato la responsabilità di evitare qualsiasi forma di anche percepita personalizzazione, distorsione, discriminazione, non solo nei fatti, ma anche negli aspetti percepiti e trasmessi al pubblico.
In ragione di queste premesse sono generalmente da tenersi distinti gli aspetti di qualità professionale rispetto a quelli di qualità comportamentale relativi al contributo/impatto che il comportamento del magistrato ha sulla immagine del sistema di giustizia. Analogamente l’Opinione ben distingue i profili di responsabilità penale.
Nella differenziazione delle forme di accountability quella disciplinare appare dunque la più fortemente connessa con le garanzie di tutela dell’immagine del potere giudiziario, individuando nella legittimazione astratta ed impersonale un bene da tutelare trasversalmente, in una ottica di massimizzazione anche delle forme di garanzie minime.
È nondimeno stato successivamente asserito dalla Opinione 7 che, a valle di una forte preferenza internazionale per la codificazione nei principi etici all’interno di un format normativo suscettibile di essere attuato in modo trasparente e prevedibile, il contesto sociale e culturale può richiedere specificità che la soft law permette.
Di qui la necessità di valorizzare quanto emerso sul piano dell’evidenza empirica nell’ambito della ricerca “Rule of law nei micro-Stati”, dove alcuni elementi specifici richiedono non solo una attenzione culturale, ma anche una previsione operativa nel contesto delle riforme ordinamentali e processuali:
Tenendo conto di queste specificità si desumono tre strumenti di normatività cogente che intervengono nel contesto della qualità del magistrato.
In altri e più generali termini vale il principio della massimizzazione della precauzione rispetto al rischio di vulnus della immagine di imparzialità, al quale principio non è possibile dare una risposta attraverso la sola procedimentalizzazione e la sola formalizzazione delle norme deontologiche e professionali.
4. Un caso paradigmatico: la Repubblica di San Marino [3].
La Repubblica di San Marino ha approvato negli ultimi anni una serie di profonde riforme legislative, di tipo costituzionale, ordinamentale e processuale, al precipuo fine di efficientare il sistema di giustizia e rafforzare i valori di indipendenza e autonomia della giurisdizione. L’esperienza riformatrice sammarinese - che non è stata priva di resistenze, dubbi e ostacoli - ben può essere segnalata come paradigmatica con riguardo ai micro Stati europei, le cui peculiari specificità di sistema esigono un più solido ancoraggio delle regole dello Stato di diritto ai principi di fonte sovranazionale.
Va ricordato, quanto alla genesi delle riforme e alle relative dinamiche, che il sistema di giustizia sammarinese ha attraversato tumultuose vicende negli anni 2017-2020, con visibili effetti di sostanziale destrutturazione e di caotico stato della giurisdizione, accompagnati dalla pesante lacerazione anche della rete di relazioni personali e istituzionali (di cui è stata riprova la nomina di una personalità esterna quale Dirigente del Tribunale unico, consentita solo in presenza di circostanze gravi e straordinarie e per un tempo definito, non superiore a cinque anni). Di qui la pressante esigenza di segnare con rigore una linea di radicale discontinuità rispetto al quadro dei conflitti politico-giudiziari che avevano caratterizzato quel drammatico periodo, essendo evidente il rischio che potessero essere travolti i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura e potesse venir meno irrimediabilmente la fiducia dei cittadini nella giustizia.
È stata determinante in proposito, la decisa azione di “vigilanza collaborativa” esercitata dal Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) che, con il Rapporto del 25 settembre 2020 sul Quarto Ciclo di Valutazione, ha ritenuto di prescrivere puntuali e specifiche raccomandazioni (ben 14) alla Repubblica di San Marino sulla prevenzione della corruzione, da recepire con appositi provvedimenti legislativi entro il termine prefissato di marzo 2023. La rilevazione delle criticità stratificate da lungo tempo e delineate puntualmente nelle raccomandazioni ha così comportato, di necessità, l’apertura di un vasto “cantiere” di riforme per sterilizzare le più vistose distorsioni evidenziate dal GRECO. Attraverso la costituzione di appositi gruppi di lavoro, composti da giuristi anche italiani, e in un dialogo costante con gli organi consiliari e di governo, si è pervenuti in un tempo relativamente breve, nel corso degli anni 2020-2022, all’elaborazione di una serie di procedure legislative di riforma del sistema di giustizia, esitate in leggi approvate dal Consiglio Grande e Generale (l’unica Camera legislativa sammarinese) con una larghissima maggioranza.
Mette conto di offrire un quadro d’assieme, seppure sintetico e non esaustivo, delle più importanti riforme legislative approvate, sulla spinta del Rapporto GRECO, nel breve arco temporale di un biennio, da dicembre 2020 a dicembre 2022.
- Giudici per l’azione di responsabilità civile. La legge costituzionale n. 2 del 3 dicembre 2020 ha affidato ai nuovi giudici per l’azione di responsabilità civile (due per il primo grado, uno per l’appello e uno per la terza istanza, con i relativi supplenti) la competenza a giudicare nei procedimenti civili, penali o amministrativi “qualora tutti i competenti giudici si siano legittimamente astenuti o siano stati legittimamente ricusati o comunque non possano più giudicare per essersi già pronunciati”. Di talché si è consentito di sbloccare la trattazione di un notevole numero di cause (instaurate da magistrati o nei confronti di magistrati), ferme e non giustiziabili, rispetto alle quali – a causa delle modeste dimensioni del Tribunale e del territorio statale – tutti i magistrati versavano, per plurime e legittime ragioni, in una situazione di obiettiva incompatibilità “a catena”.
- Ordinamento giudiziario, Consiglio giudiziario e Commissione consiliare per gli affari di giustizia. La legge costituzionale n. 1 del 7 dicembre 2021 reca la riforma organica dell’Ordinamento giudiziario e del Consiglio giudiziario, nel rispetto sia degli standard europei che della storia e delle specifiche tradizioni del sistema sammarinese, in un contesto storico-spaziale caratterizzato dalle pressanti istanze di adeguamento ai parametri sovranazionali derivanti dalla partecipazione della Repubblica di San Marino al Consiglio d’Europa. In particolare, le raccomandazioni del GRECO hanno sensibilmente orientato sia l’attrazione della disciplina nella più elevata fonte normativa, quella di rango costituzionale, sia la funzionalizzazione dei relativi istituti e procedure alla efficace stabilizzazione dell’organo garante – il Consiglio Giudiziario - e al rafforzamento dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura, di cui sono compiutamente delineati i criteri di reclutamento, i doveri, le varie forme di valutazione della professionalità e della responsabilità, con le relative sanzioni. Il Consiglio Giudiziario ha approvato, a sua volta, il Regolamento interno che ne disciplina l’attività e il funzionamento. La legge costituzionale n. 1 del 2021, a sua volta, è integrata dalle previsioni relative alla composizione, alle funzioni e ai poteri della Commissione consiliare per gli affari di giustizia, di cui alla contestuale legge qualificata n. 2 del 7 dicembre 2021. Con riguardo ai profili complessivi della garanzia di effettiva indipendenza, secondo gli indicatori delineati con rigore dai competenti organismi sovranazionali e in particolare dalla Commissione di Venezia, va tuttavia rimarcato il persistente deficit ordinamentale costituito dall’ormai arcaico, fisso e non più tollerabile statuto retributivo e previdenziale dei magistrati sammarinesi, del quale appare auspicabile il superamento mediante un equo riordino, che sia coerente con i progressivi avanzamenti di carriera e con le relative valutazioni di professionalità.
- Procedura penale. Il processo penale sammarinese richiedeva da tempo un intervento legislativo capace di meglio assicurare l’efficace funzionamento degli istituti già presenti e di introdurre nuove e più avanzate soluzioni. La legge ordinaria n. 24 del 2 marzo 2022 reca una serie di disposizioni dirette ad implementare le garanzie e l’efficienza del processo penale, con particolare riguardo ai settori più delicati e alle aree maggiormente esposte al deficit di effettività delle garanzie, quali l’istruttoria, le misure cautelari, il sequestro e la confisca, i rimedi e i riti alternativi, l’appello e la terza istanza. La legge di riforma (della cui applicazione è previsto il monitoraggio annuale) presta speciale attenzione ai diritti della difesa, alla speditezza, all’economicità, alla pubblicità e all’indipendenza dei giudizi.
- Astensione e ricusazione dei giudici. La disciplina dei due istituti, contenuta nella legge qualificata 30 ottobre 2003 n. 145, che identificava i casi di astensione obbligatoria e facoltativa, e nella legge 16 settembre 2011 n. 139, che ne delineava la procedura, necessitavano di un urgente intervento di revisione, realizzato con la legge 2 marzo 2022 n. 23, poiché la loro applicazione aveva evidenziato l’eccessiva complessità e farraginosità dei meccanismi, in contrasto con i principi di speditezza ed economicità processuale e con le garanzie difensive.
- Equa riparazione. È stato inoltre predisposto un articolato disegno di legge, ora all’esame dei competenti organi istituzionali, che – al pari della disciplina italiana in materia (c.d. legge Pinto) – prevede, insieme con una serie di misure acceleratorie del giudizio attraverso il temperamento dell’assoluto potere dispositivo delle parti e l’attribuzione al giudice di un limitato potere officioso, i casi e i limiti dell’attribuzione di un equo indennizzo a favore della parte che assume di avere subito un danno dalla irragionevole durata del procedimento, così prevenendo la trattazione della relativa controversia innanzi alla più lontana Corte Edu.
- Codice etico. In ossequio a una specifica raccomandazione del GRECO, che attribuisce rilievo alle regole deontologiche – distinte da quelle strettamente disciplinari - della condotta professionale ed extraprofessionale dei magistrati, e a quanto disposto dall’art. 15, comma 12, della l. cost. n. 1 del 2021, i magistrati sammarinesi hanno elaborato un codice etico ispirato ai valori e agli standard internazionali in materia, che è stato recepito dal Consiglio Giudiziario con un’apposita delibera.
A fronte della disastrosa situazione in cui versavano i vari settori del Tribunale si è inoltre ottenuto di implementare adeguatamente l’organico dei diversi ruoli della magistratura (circa trenta magistrati, di cui la metà esterni), anche mediante l’ingresso di giuristi italiani di indubbio prestigio accademico e professionale nelle funzioni di maggior rilievo, quali giudici delle impugnazioni, in coerenza con la lunga, antica e originale tradizione sammarinese.
Pur restando infine singolare e funzionalmente ibrida, nel panorama europeo, la figura storicamente risalente del Procuratore del Fisco, nella veste di garante della legalità e di organo requirente nei diversi gradi di giudizio, non sono state poche, tuttavia, le novità ordinamentali e processuali che all’interno del nuovo ordinamento giudiziario, mitigandone in parte la storica separatezza istituzionale, hanno investito tale soggetto, in termini di declinazione più trasparente del ruolo e delle funzioni, dei poteri e dei doveri, della responsabilità e della disciplina, seppure in forme tuttora incompiute e di non agevole collocazione nella prospettiva di una più ampia e generale riforma del processo penale.
Infine, laddove si consideri che l’ordinamento della Repubblica prevede il Tribunale “unico” e giudici - tutti - monocratici, per tutti i gradi di giudizio fino alla terza istanza, va rimarcato che a nessun giudice, benché monocratico com’è nella tradizione sammarinese, spetta uno strumento di difesa “personale” dei propri provvedimenti nei confronti dei giudici superiori che eventualmente li riformino o li annullino. Secondo le regole basilari che fondano la giurisdizione, il giudice, per l’impersonalità della pubblica funzione, esprime non il proprio autoritarismo decisorio bensì l’autorevolezza della istituzione alla quale appartiene, conseguendone, viceversa, il sovvertimento dei principi costituzionali e della rule of law e un palese corto circuito istituzionale. il diritto fondamentale al “buon giudice”, declinazione particolare del diritto al “giusto processo” di cui all’art. 6 CEDU, non può non comportare che il sistema processuale contempli e legittimi rimedi straordinari, di tipo preventivo o, se occorra, di tipo impugnatorio, contro possibili forme di autoreferenzialità del giudice monocratico, nel caso di provvedimento macroscopicamente abnorme, o contro il rischio di parzialità da parte di questi: un “bastione contro l’arbitrio” (rempart contre l’arbitraire).
All’esito del descritto processo riformatore si è registrato il lusinghiero Rapporto di Conformità adottato dal GRECO durante la 91a riunione plenaria del 13-17 giugno 2022, che esprimere ampia soddisfazione (come è riconosciuto anche dai componenti della Commissione di Monitoraggio dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa -APCE- nell’ottobre 2022) per il notevole sforzo messo in opera dalle Autorità sammarinesi, “con determinazione e in maniera approfondita”, al fine di migliorare e razionalizzare il funzionamento del sistema giudiziario.
È evidente che nessuna riforma è in grado da sola di risolvere i problemi strutturali di un sistema, ma esse, tutte insieme, sono destinate a mutare il quadro istituzionale di riferimento in direzione di più solidi approdi europei della Repubblica di San Marino, le cui istituzioni e articolazioni della società e dell’economia sono determinate a stare e operare in Europa, nel prisma della Rule of Law e dello Stato di diritto. D’altra parte, a fronte della complessità e del fluido dinamismo del diritto e della giurisdizione, dev’essere verificata, col tempo e con l’esperienza, la solidità e l’empirica praticabilità dell’impianto riformatore e delle nuove regole, attraverso una costante opera di monitoraggio del loro funzionamento e di proposizione, laddove occorrano, di ulteriori interventi migliorativi, modificativi o integrativi.
Le riforme dell’ordinamento giudiziario, della organizzazione dei servizi della giustizia e delle condizioni che, per le loro diverse funzioni, assicurano il consolidamento dello Stato di diritto, a fronte delle variazioni congiunturali di carattere politico, economico e sociale, costituiscono un portato di lunga durata della esperienza sovranazionale e internazionale.
Nella letteratura comparata che studia le forme e le dinamiche delle istituzioni si riscontra, tuttavia, una lacuna quanto all’analisi delle diverse variabili in gioco quando la grandezza dello Stato in cui le riforme vengono attuate si riduce al di sotto di una certa soglia. La recente esperienza riformatrice della Repubblica di San Marino, diretta all’efficientamento del sistema di giustizia centrato sull’organo di autogoverno, appare perciò esemplare per l’analisi empirica con riguardo a tutti i micro-Stati che sono nel perimetro del Consiglio d’Europa - Andorra, Liechtenstein, Malta, Montecarlo, Lussemburgo - e la cui realtà pure si configura come soggetta a peculiari specificità di sistema.
La disamina delle dinamiche delle garanzie e la individuazione dei punti di allerta del sistema di giustizia sollecitano, nel controllo di qualità della imparzialità e terzietà del giudice nei micro Stati, la elaborazione di linee guida per l’attuazione di riforme che siano mirate al saldo ancoraggio dello Stato di diritto, attraverso una forte professionalizzazione e responsabilizzazione degli attori della giurisdizione e una rimodulazione della legislazione ordinamentale e processuale ispirata all’evoluzione dei migliori standard sovranazionali.
La storia e la tradizione sammarinesi, come quelle di ogni piccolo Stato di modeste dimensioni per territorio e popolazione, sono infatti contraddistinte da forte identità, autonomia, rete di relazioni ambientali e informali dominanti, contiguità fra i poteri e le élite, densità di interessi economici e finanziari, che si presentano inversamente proporzionali al limitato peso del sistema sociopolitico. Come pure va rimarcato che il giudice sammarinese rende quotidiana testimonianza di come possano sopravvivere la struttura ed i principi informatori del processo di diritto comune, in un ordinamento che rifiuta la codificazione civile e continua a vivere l’esperienza ermeneutica dell’adattamento dello ius commune ai rapporti giuridici attuali.
Sicché, la giurisdizione, siccome esposta anch’essa, proprio a causa della modesta grandezza dello Stato, in uno spazio “vulnerabile”, esige all’evidenza l’identificazione di un più solido ancoraggio di qualità, valoriale ed etico, di matrice prevalentemente esterna ed europea, per garantire l’efficace tenuta dei meccanismi della Rule of Law e la piena adesione del sistema di giustizia ai principi di “supremacy of the law, equality before the law, accountability to the law, fairness in the application of the law, separation of powers, participation in decision-making, legal certainty, avoidance of arbitrariness, procedural and legal transparency”.
S’intende dire che nei micro Stati gli interessi di carattere economico-finanziario e politico, benché eteronomi rispetto alla tutela dei diritti fondamentali e della democrazia, tendono talora ad assumere il dominio delle istituzioni e a prevaricare sulle regole e sullo statuto delle garanzie di autonomia e imparzialità della giurisdizione. Con il lineare e logico corollario che per i micro Stati appare comparativamente più alto il bisogno di solidità e continuità dei presidi istituzionali e ordinamentali, in termini di impatto identitario delle responsabilità funzionali e di sottrazione delle più alte scelte costituzionali agli orientamenti congiunturali e variabili della politica. E ciò al fine di sterilizzare la potenziale reversibilità di fatto degli effetti delle riforme e il conseguente rischio di deterioramento della qualità della giustizia a favore di dinamiche informali mosse da interessi di contesto, eteronomi rispetto alla sfera di terzietà e imparzialità del giudice.
In tali contesti lo spazio di autonomia del giudice sarà dunque più fortemente garantito quanto più alto sarà il grado di sistematicità e integrazione delle riforme nel quadro europeo e più avvertito il riconoscimento da parte della comunità professionale e delle élite della centralità della qualità della giurisdizione.
Nelle strutture che hanno piccole dimensioni la deontologia, la formazione culturale, la trasparenza e la partecipazione dei protagonisti della giurisdizione possono costituire il veicolo di vitali meccanismi virtuosi. Viceversa, appare insufficiente la mera proceduralizzazione del fenomeno, se non associata al sicuro ancoraggio valoriale dei comportamenti individuali e al senso di responsabilità delle scelte decisorie. Con particolare riguardo a quest’ultime, nella concreta attuazione delle riforme vanno ripristinate, per un verso, la cogenza e l’effettività dei baluardi formali che definiscono il perimetro “non vulnerabile” da interessi eteronomi, ma anche, per altro verso, la prevedibilità e la comprensibilità all’esterno dell’azione giudiziaria, attraverso la pronta e corretta comunicazione istituzionale, l’accesso e l’agevole fruizione degli atti e dei documenti che giustificano le decisioni, sia di carattere giurisdizionale che di tipo organizzativo, e che vanno redatti secondo uno stile conciso ed essenziale, ispirato ai canoni della chiarezza e della sintesi, espressione anch’essi del “giusto processo”.
[1] Le riflessioni proposte sono il risultato di una prima fase di ricerca scientifica e di esperienza istituzionale aventi come target il rafforzamento delle garanzie di effettività nei piccoli Stati. La ricerca è partita dalla esperienza di recente riforma costituzionale, ordinamentale e processual-penale della Repubblica di San Marino per estrapolare ipotesi sulle interazioni fra le variabili qui enunciate ed estendere la analisi empirica a tutti i micro-Stati che sono nel perimetro del Consiglio d’Europa: Andorra, Liechtenstein, Malta, Montecarlo, San Marino, unitamente alla integrazione di due casi di controllo metodologico (controllo delle ipotesi che nascono dalla introduzione nella modellistica comparata della dimensione “size” dello Stato): il Lussemburgo che resta una unità di analisi di piccole dimensioni ma diversamente dagli altri paesi appare fortemente caratterizzato da un efficientamento del sistema giustizia, e la Svizzera che invece si situa nel disegno della ricerca come il “most dissimilar case”, ossia il caso che non risponde alla condizione di essere un micro-Stato e non risponde alla condizione di essere uno Stato con una organizzazione interna ordinamentale riconducibile ai due grandi modelli esistenti nella tradizione europea demo-costituzionale, ossia quello centrato sull’organo di auto-governo e quello centrato sulla governance dell’esecutivo temperata da forme di agentificazione (come ad esempio il caso Olandese, il caso Irlandese).
[2] La letteratura di riferimento, di cui non si dà qui conto nella sua estesa e plurale origine e natura scientifica, attiene alla disamina di carattere empirico e funzionale delle istituzioni in una chiave comparata. Nell’ambito della International Political Science Association il Research Committee Comparative Judicial Systems rappresenta una sede di incontro degli studi approntati con metodi di carattere empirico, sia di natura quantitativa – come, ad esempio, la misura dell’impatto delle alte corti sul potere legislativo e/o esecutivo – sia di natura qualitativa – come ad esempio gli studi di carattere sociologico sulle professionalità, i comportamenti e le dimensioni di public accountability delle corti. Resta che la questione dei micro Stati trova assai di rado trattazione. Soprattutto appare agli autori mancante una trattazione di carattere comparato, empirico, fatta con una griglia di analisi strutturata su più dimensioni e più livelli, capace di cogliere le dinamiche di interdipendenza fra garanzie di sistema e garanzia micro, fortemente significative come si argomenta in questo lavoro per le qualità del giudice e, in contesti di “size” micro, di comparativamente superiore significatività agli effetti della tutela della rule of law e dello Stato di diritto.
[3] Il paragrafo riproduce il testo, riveduto e ampliato, del saggio di G. CANZIO, La ‘stagione delle riforme’ nel micro-Stato di San Marino (2020-2022), in AA.VV., Lex generalis omnium. Un diritto del passato nel presente, a cura di A. Legnani Annichini e G. Santucci, Mucchi Editore, Modena, 2023, p. 11 ss.
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