ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nella sua ormai lunga esperienza professionale Lei ha avuto l’occasione di svolgere diverse funzioni: è stato sostituto Procuratore a Napoli, anche presso la DDA, poi all’ufficio del massimario, Presidente dell’ANAC ed attualmente riveste il ruolo di Procuratore della Repubblica a Perugia. Tale diversità di ruoli Le ha consentito di analizzare il fenomeno corruttivo sotto diverse angolature, sia come investigatore in relazione al caso concreto che come, potremmo dire, studioso ed osservatore del fenomeno.
Quali sono i punti deboli del sistema attuale di tutela contro la corruzione, cosa manca e cosa sarebbe auspicabile introdurre o modificare, tanto in un’ottica di garanzia per l’indagato che in un’ottica di tutela effettiva della collettività contro un fenomeno i cui effetti si riverberano sulla efficienza ed effettività dei servizi resi al cittadino e dunque sullo sviluppo economico, sociale, culturale del Paese.
È necessario prima di affrontare specificamente la questione posta partire da una considerazione di fondo. Grazie soprattutto al lavoro svolto in sede internazionale e riversatosi in varie convenzioni, la più importante delle quali è quella dell’ONU del 2003 varata in Messico a Merida, la corruzione non è più vista solo come un atto, pur grave, di “tradimento” del funzionario pubblico rispetto al dovere di fedeltà assunto con l’Istituzione di appartenenza. Soprattutto quella corruzione che riguarda il sistema lato sensu delle commesse pubbliche (la cd. grand corruption) va, invece, considerata come un meccanismo che distorce le regole della concorrenza e del mercato, al punto di minare persino le stesse fondamenta della democrazia. Su questo punto sono concordi tutti i preamboli delle convenzioni internazionali e non è un caso che una felicissima definizione di essa attribuibile al Presidente Mattarella, la indica come “furto di democrazia”.
Questo cambio di paradigma è fondamentale perché giustifica la messa in campo di strumenti molto più raffinati del passato che si imperniano non solo sulla tradizionale attività repressiva/penale ma anche sulla più moderna prevenzione.
Grazie allo stimolo internazionale, l’Italia si è dotata, a partire dalle legge Severino del 2012, di un armamentario molto più efficiente di quello precedente, valutato positivamente sul piano sovranazionale, creando anche un’autorità indipendente ad hoc (l’ANAC) con il compito di sovrintendere al rispetto delle disposizioni in materia di prevenzione ma non mancando di rafforzare contestualmente gli strumenti repressivi, sia introducendo nuovi reati (corruzione per l’esercizio delle funzioni, traffico di influenze illecite etc), ma anche di strumenti ritenuti idonei a farla emergere (attenuanti in caso di caso di collaborazione, non punibilità in presenza di un’autodenuncia, possibilità di utilizzare le operazioni sotto copertura etc).
Sarebbe impossibile in questa sede individuare criticità e punti di forza di questo nuovo ed articolato impianto, ma io credo che esso sia ben strutturato ed ha già dato alcuni buoni risultati, consentendo all’Italia di recuperare tante posizioni, ad esempio nella classifica di Transparency international.
Quell’impianto necessiterebbe di una manutenzione che non lo metta, però, in discussione e soprattutto dovrebbe essere supportato anche dal punto di vista culturale e politico. Invece, nell’ultimo periodo l’intero sistema anticorruzione è oggetto di critiche ed attacchi anche da esponenti delle Istituzioni pubbliche che ne stanno facendo perdere la sua forza. Non c’è legge che possa funzionare se chi dovrebbe sostenerla non ci crede ed anzi propone revisioni profonde e, a mio modo di vedere, peggiorative.
È stato approvato anche alla camera il disegno di legge C. 1718 che porta il nome dell’attuale Ministro della Giustizia, Nordio. La modifica normativa che connota tale disegno di legge è certamente l’abolizione tout court della controversa fattispecie dell’abuso d’ufficio, rispetto alla quale lei ha già preso espressamente posizione fornendo un contributo tecnico – giuridico in sede di audizione alla Camera dei deputati, avvenuta il 13 settembre 2023 che, come quello di altri Suoi colleghi, pare essere rimasto del tutto inascoltato.
Perché, in sintesi, gli effetti dell’abrogazione di tale norma possono determinare un serio arretramento nel sistema di tutela contro la corruzione?
Voglio premettere che è mia convinzione che l’abrogazione dell’abuso di ufficio abbia effetti deleteri sul sistema Paese che vanno ben oltre le questioni della corruzione. Viene meno, infatti, un presidio, che al di là dell’applicazione concreta, di legalità dell’azione amministrativa. Il delitto di abuso tutela, infatti, direttamente il valore costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sanzionando comportamenti di strumentalizzazioni dell’azione amministrativa che dovessero intenzionalmente avvantaggiare o danneggiare qualcuno. Ed è falso quanto viene ogni giorno affermato anche da personaggi di primo piano della politica, secondo cui l’abrogazione non attenuerebbe la tutela del valore costituzionale dell’imparzialità perché il sistema in generale ha già altri strumenti alternativi È invece indiscutibile, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, che gli atti prevaricatori o i favoritismi anche eclatanti, compiuti senza una controprestazione di utilità, resteranno senza tutela penale. certo essi potranno, se emersi, essere sanzionati in via disciplinare, ma non c’è bisogno di una conoscenza profonda dell’amministrazione pubblica per sapere quanto sia inefficiente il sistema disciplinare nella pubblica amministrazione. L’abrogazione ridurrà senza dubbio, quindi, il controllo di legittimità sull’azione amministrativa ed indirettamente, quindi, rischierà di creare un humus favorevole ai fatti corruttivi. Ma l’effetto più negativo per le indagini sulla corruzione deriva dall’impossibilità di utilizzare l’abuso di ufficio come “reato spia”. Chi si occupa di indagini di pubblica amministrazione sa bene che un’indagine per corruzione molto raramente parte da una notizia di reato specifica e che essa soprattutto consegue ad indagini sulla regolarità di atti amministrativi. Quando in futuro non si potrà avviare nessun accertamento su possibili strumentalizzazioni dell’azione amministrativa, sarà difficilissimo reperire in altro modo una notizia di reato per corruzione. Questa affermazione, che viene contestata dai fautori dell’abrogazione con argomenti squisitamente ideologici (del tipo che i reati spia sarebbero espressione di una cultura della “pesca a strascico”), trova, invece, supporto proprio dalle convenzioni internazionali che ritengono indispensabile, per un’efficacia azione anticorruzione, la previsione di una fattispecie penale di abuso.
È noto che la ragione posta a fondamento della necessità di abolire l’abuso d’ufficio sia, in sintesi, la presunta inutilità della norma – valutata in virtù delle poche sentenze di condanna e delle numerose assoluzioni scaturite dai procedimenti penali avviati per tale fattispecie - unitamente agli effetti persino dannosi che la stessa avrebbe comportato ingenerando la c.d. “paura della firma” e la conseguente paralisi dell’azione amministrativa.
Si tratta di una giusta chiave di lettura? Cosa indica, se così non è, il dato relativo alle assoluzioni e come avrebbe potuto essere diversamente letto e valorizzato?
Che ci sia una tendenza nell’amministrazione a rallentare l’azione amministrativa per la paura dei funzionari di subire conseguenze negative sul piano personale per il loro agire è un dato purtroppo indiscusso. Nel nostro linguaggio si è persino coniata un’espressione (“burocrazia difensiva”) mutuata da altri ambiti (quello sanitario dove si parla di “medicina difensiva) che è assolutamente sconosciuta in altri Paesi. Dare, però, la colpa di questa situazione all’abuso di ufficio è frutto di una visione superficiale che sarà purtroppo certamente smentita nel prossimo futuro. I fatti dimostreranno che anche dopo l’abolizione dell’abuso la burocrazia difensiva non sparirà affatto e le amministrazioni non eccelleranno per la celerità delle decisioni. La paura della firma ha ragioni più complesse, frutto spesso di una cattiva organizzazione dell’amministrazione e di una non sempre adeguata preparazione dei funzionari, di cui essi non hanno nessuna colpa, perché non vengono loro nemmeno spiegate le tantissime e continue modifiche legislative in ambiti delicati, come ad esempio quelli degli appalti pubblici. Quanto al dato delle assoluzioni, è certamente indiscutibile che ve ne sono state numerose soprattutto nei tre gradi di giudizio, spesso anche con il ribaltamento di decisioni di condanna di primo grado. Le ragioni di ciò sono varie e dipendono indiscutibilmente non solo dalla struttura della norma ma anche dall’interpretazione della giurisprudenza che ha ritenuto, fra i parametri normativi che giustificano la violazione di legge, di annoverare anche regole spesso elastiche che rendono non sempre chiaro stabilire a priori cosa è lecito e cosa non lo è. Questa considerazione avrebbe, però, giustificato un intervento di modifica sulla fattispecie e non certo l’abrogazione. Del resto, il legislatore del 2020 con una riforma certo non scritta bene era intervenuto sul punto e non si è voluto nemmeno attendere gli esiti concreti di tale riforma; era una battaglia ideologica quella di mostrare “lo scalpo” dell’abuso di ufficio. Il legislatore, quindi, con la scelta che ha fatto ha ammesso la sua impotenza nello scrivere una norma migliore! Credo, invece, sia un argomento davvero insignificante quello pure utilizzato durante la fase di discussione del ddl che molti procedimenti di abuso si concludono con un nulla di fatto e cioè con l’archiviazione. Se dovessimo applicare questo criterio per stabilire quali norma lasciare in vita, rischieremmo di dover abrogare mezzo codice, a partire dal delitto di furto, in cui oltre il 95 per cento dei procedimenti vengono definiti con archiviazione per essere ignoti gli autori del reato. Ovviamente l’argomento parte dall’idea che nei confronti dei funzionari pubblico anche solo l’avvio di un procedimento potrebbe rappresentare un danno, non controbilanciato dall’archiviazione. Questa affermazione è almeno parzialmente vera, ma anche in questo caso si sarebbe potuto intervenire con disposizioni ad hoc per sterilizzare queste conseguenze negative (e la riforma di Cartabia le aveva già avviate stabilendo che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli), piuttosto che giungere al taglio netto.
Quanto, secondo la sua esperienza, il tipo di discrezionalità esercitata (politica, amministrativa o tecnica) contribuisce a rendere maggiormente controllabile, e dunque criticabile ex post, la correttezza dell’agire del pubblico funzionario? Potrebbe essere utile diversificare la responsabilità in ragione del tipo di discrezionalità esercitata o della qualifica rivestiva o del tipo di condotte realizzate, prevaricatrici o favoritrici o, ancora, in relazione al settore specifico di riferimento (es: settore sanitario o degli appalti)?
Partiamo da una considerazione. La discrezionalità nella pubblica amministrazione rappresenta un dato fisiologico, direi persino ontologico. Serve perché l’amministrazione deve essere in grado di adattare le norme alle situazioni concrete che non sono prevedibili in astratto. L’idea di un’amministrazione che si limita ad eseguire le norme di legge è una semplificazione che non tiene conto della complessità delle vicende soprattutto in una società come quella attuale caratterizzata da tante stratificazioni e specificità. Ciò detto è evidente che la discrezionalità è maggiormente a rischio di strumentalizzazioni illecite rispetto all’attività vincolata ma è un rischio che non si può in astratto sterilizzare. Esistono poi forme diverse di discrezionalità che concedono maggiori o minori margini di scelta da parte del funzionario. Onestamente sarei scettico nel pensare che possa graduarsi la responsabilità penale o di altro tipo in relazione alle diverse forme di discrezionalità. Credo, invece, una strada percorribile potrebbe essere quella di lavorare su regole non giuridiche (tipo linee guida) che contengono regole sostanziali e procedimentali idonee a guidare nei casi concreti la discrezionalità ed il cui rispetto potrebbe valere come una presunzione di legittimità per l’azione del funzionario. Un sistema, quello cui penso, non diverso da quello delle linee guida nei vari settori della medicina, riconosciute giuridicamente dalla legge Gelli/Bianco. Un tale meccanismo potrebbe forse garantire maggiormente il cittadino rispetto agli arbitri, ma anche il funzionario rispetto ai rischi che potrebbero derivare dal suo agire.
Abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Il DDL Nordio prevede anche la modifica dell’art. 346 bis c.p., con un ritorno all’originaria versione della norma, per come introdotta nel 2012 dalla Legge Severino ma, allo stesso tempo, un restringimento dello spettro applicativo della fattispecie con la previsione della natura “economica” dell’utilità data o promessa e una tipizzazione assai stringente del concetto di “mediazione onerosa”.
Quali sarebbero, a suo modo di vedere, gli effetti collaterali di questa modifica normativa, specialmente alla luce della coeva abrogazione dell’abuso d’ufficio?
Malgrado il traffico di influenze sia stato introdotto da poco più di 10 anni (dalla legge Severino del 2012) siamo alla terza riscrittura! E già questa è una clamorosa patologia del sistema. Un tira e molla che non fa onore alla nostra legislazione. Ciò detto, voglio premettere che io non ero stato fra entusiasti della modifica della fattispecie arrecata dalla legge cd. “spazzacorrotti” 2019 e soprattutto non mi aveva convinto l’assorbimento nella norma del millantato credito. Questo reato, infatti, si era ritagliato nel corso degli anni un suo spazio nel sistema penale, perché puniva un comportamento fraudolento nei confronti di un soggetto privato che danneggiava contestualmente anche l’immagine di imparzialità dell’amministrazione pubblica e dei suoi funzionari. La scelta della “spazzacorrotti”, che aveva avuto come effetto di rendere punibile anche chi era stato vittima di una vera e propria frode, non mi aveva convinto anche si trattava di un’opzione patrocinata dalle convenzioni internazionali. Il ddl Nordio sul punto torna indietro, ma senza ripristinare il millantato credito; fa, invece, confluire la millanteria (o come si preferisce dire la “vendita di fumo”) nella truffa, che però è sanzionato in modo molto più lieve del precedente delitto oltre ad essere procedibile a querela. Ma la parte della riforma che più mi trova critico è quella in cui è stata definita la “mediazione illecita”; si tratta di un concetto generico, soprattutto perché nessuna disposizione chiarisce quando la mediazione è lecita, che aveva sempre attirato gli strali della dottrina, per il suo difetto di tassatività e quindi in astratto la scelta del legislatore non può che essere condivisibile. Senonché, però, nella sua determinazione il ddl Nordio ha richiesto, fra l’altro, quale requisito imprescindibile che l’attività oggetto di traffico debba costituire per il pubblico ufficiale trafficato un illecito penale. Con la contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, le cd “mediazioni cd onerose” (quelle cioè in cui il trafficante si fa dare denaro o utilità economica per un suo “intervento”), finalizzate ad ottenere da parte del pubblico ufficiale una strumentalizzazione delle sue funzioni, diventeranno lecite. Ciò significa che da domani la condotta di chi dovesse chiedere del denaro per richiedere una “raccomandazione” ad un componente di commissione di concorso per far promuovere un candidato non costituirebbe più reato! E tanti altri analoghi esempi potrebbero essere fatti. È un passo indietro indiscutibile per il contrasto al malaffare nella pubblica amministrazione. Con le modifiche del decreto Nordio si depotenzia quindi in modo significativo la capacità applicativa della norma, con il rischio, altresì, che quelle poche condanne ottenute potranno persino decadere.
Si ritiene utile ripubblicare questo contributo, già apparso su Questa Rivista il 19 luglio, a beneficio delle lettrici e dei lettori.
Surrogazione di maternità come “reato universale"
Audizione in Commissione Giustizia del Senato sui disegni di legge n. 163, 245, 475 e 824, in data 22 maggio 2024
di Gabriella Luccioli
Nell’infinito dibattito sulla compatibilità della gestazione per altri con il nostro ordinamento è forse giunto il momento di porre un punto fermo. La maternità surrogata, sanzionata penalmente dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40, è una pratica che offende, in ogni sua conformazione, la dignità della madre e quella del bambino: della prima, in quanto ridotta ad una donna cosa, a mero contenitore di una vita destinata per contratto ad altri e soggetta ad un controllo proprietario che investe la salute, il vitto, al fumo, lo stile di vita, le frequentazioni, del secondo in quanto reso oggetto di scambio fin dal momento del suo concepimento, gestito alla stregua di un bene cedibile o donabile, mero strumento per soddisfare il desiderio di genitorialità degli adulti, deprivato alla nascita dei suoi dati anagrafici, nonché del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica. E tale lesione si verifica sia che la pratica surrogatoria abbia assunto carattere oneroso sia che sia espressione di solidarietà.
Come è noto, la Costituzione e le Carte dei diritti attribuiscono al concetto di dignità un contenuto ampio, nel quale coesistono una dimensione soggettiva, ancorata alla sensibilità, alle esperienze ed alla percezione dei singoli individui, ed una oggettiva, che attiene al valore originario e non comprimibile di ciascuna persona; la dignità ferita dalla maternità surrogata chiama in gioco la sua dimensione “oggettiva”, identificata con la dignità innata, che appartiene al patrimonio irrinunciabile di ciascuno e non può essere oggetto di scelte di volontaria rinuncia, perché ogni ferita di quella dignità è una ferita a tutto il genere umano. Nella visione di Kant la dignità di ogni persona, elemento coessenziale al suo status, esprime la dignità dell’intera umanità; ogni essere umano è diverso dagli altri, ma tutti sono eguali in dignità.
La lesione del valore supremo della dignità della donna e del bambino comporta che la trascrizione automatica dell’atto di nascita di un bimbo avvenuta all’estero a seguito di surrogazione, che finirebbe per legittimare in modo indiretto detta pratica, non sia consentita per il suo irriducibile contrasto con l’ordine pubblico internazionale.
Questi principi sono stati affermati a chiare lettere dalle Sezioni Unite della Cassazione con le note sentenze n.12193 del 2019 e n. 38162 del 2022, sono stati ribaditi dalla Corte Costituzionale nelle pronunce n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021. È peraltro evidente che il rilievo giuridico che si pretenderebbe di attribuire con la trascrizione automatica al progetto genitoriale dei committenti implicherebbe necessariamente l’assorbimento dell’interesse del figlio con quello degli aspiranti genitori.
Tali conclusioni vanno assunte come principi definitivamente acquisiti nel nostro ordinamento e non più oggetto di discussione: lo richiede l’esigenza di certezza del diritto e di stabilità e prevedibilità delle decisioni, lo impone l’urgenza di porre un argine a quella molteplicità di iniziative scoordinate che vanno dalla emissione di circolari ministeriali rivolte ai sindaci, tramite i prefetti, perché non trascrivano certificati di nascita emessi all’estero o alle proposte di “sanatoria” per i bimbi già nati, in un quadro di notevole confusione.
Il Parlamento con i disegni di legge oggi all’esame ha scelto di rafforzare la configurazione della surrogazione quale fattispecie criminosa introducendo una sorta di reato universale[1], attraverso l’aggiunta al comma 6 dell’art. 12 della legge n. 40 del 2004 di un periodo ai sensi del quale il cittadino italiano che compie atti di surrogazione all’estero è punito secondo la legge italiana. In tal senso è il disegno di legge S. n. 824, che riproduce il testo approvato dalla Camera dei Deputati nello scorso luglio. Tra le varie proposte di legge presentate alle Camere fin dalla precedente legislatura la scelta di voto è dunque caduta su quella, di contenuto assai stringato e di semplice articolazione, che non ha altro oggetto che l’estensione della punibilità alle condotte di surrogazione dei cittadini all’estero. Nello stesso senso è il disegno di legge S. n. 245.
Non si è intervenuti quindi in tali disegni di legge né sulla struttura della fattispecie né sul trattamento sanzionatorio, il quale in ragione della sua non elevata entità sembra porsi come strumento repressivo dell’esercizio organizzato della pratica in discorso piuttosto che come misura di dissuasione dei committenti nella loro aspirazione alla genitorialità.
Gli altri due disegni di legge sono un po' più articolati, in quanto l’uno estende l’ambito di applicazione anche alla commercializzazione di gameti o di embrioni avvenuta all’estero (atto n. 163), l’altro eleva in misura consistente la pena prevista per la surrogazione (atto n. 475). Entrambi inoltre sembrano riguardare, con l’uso del pronome chiunque, sia i cittadini italiani che gli stranieri.
Mi soffermo per esigenze di tempo sul cosiddetto reato universale, comune a tutti gli articolati.
La scelta operata in detti testi, che nella sua nettezza solleva questioni complesse sul piano del diritto penale internazionale, appare del tutto impropria, di chiara ispirazione propagandistica e di evidente matrice identitaria ed ideologica, nonché priva di ogni utilità sul piano concreto.
Va innanzi tutto osservato che la conclamata volontà di configurare la gestazione per altri come reato universale, in deroga al principio generale della territorialità, confligge con il dato di fatto che detta pratica nel panorama internazionale è disciplinata in modo assai diversificato, essendo consentita in alcuni Stati solo per fini altruistici, in altri anche per fini commerciali, in altri ancora essendo sanzionata in qualunque sua forma. Secondo la comune accezione costituiscono reati universali quelli percepiti come tali a livello globale, come i crimini di guerra, la pirateria, la tortura, il genocidio.
Del tutto impropria appare quindi l’intenzione di istituire un reato universale in relazione ad un fatto che non è universalmente assunto come tale.
Va inoltre considerato che, a legislazione vigente, secondo la norma generale di cui all’art. 6, comma 2, c.p. il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. La giurisprudenza ha fornito una nozione ampia del concetto di in parte, ritenendo sufficiente a radicare la giurisdizione del giudice italiano qualsiasi condotta che si inserisca nella serie di comportamenti diretti alla realizzazione dell’illecito: in ragione dell’ampio collegamento con la giurisdizione italiana così accolto resta integra la punibilità secondo il nostro ordinamento, oltre che nel caso di nascita del bambino in Italia, in tutti i casi in cui l’accordo di surrogazione sia stato concluso in territorio italiano o comunque sia stata posta in essere in Italia qualsiasi condotta (ad esempio il pagamento del corrispettivo pattuito) eziologicamente collegata all’evento della surrogazione.
L’art. 7 c.p. ha attribuito il crisma della universalità ad alcuni specifici reati che esigono la punizione del colpevole, cittadino o straniero, in qualsiasi luogo siano stati commessi, in ragione della loro capacità lesiva di interessi fondamentali dello Stato. Ai fini che qui interessano non appare ragionevole invocare l‘ipotesi di cui al n. 5 di detto art. 7, riguardante ogni altro reato per il quale specifiche disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana, atteso che detta norma di chiusura va logicamente interpretata in armonia con le altre previsioni contenute nello stesso art. 7 e non può pertanto non riferirsi a fattispecie penali omogenee alle altre: come è evidente, la surrogazione non ha nulla di simile ai reati contro la personalità dello Stato o contro i suoi elementi identificativi, come il sigillo o le monete, che hanno un’impronta intrinsecamente extraterritoriale. Si ritiene generalmente in dottrina che i reati assoggettabili a tale più ampia estensione della giurisdizione italiana debbano essere quelli posti a tutela di fondamentali interessi statuali o di interessi di riconosciuto valore universale, certamente non ravvisabili nel delitto di surrogazione. Non senza considerare che stante la lieve entità della pena prevista per tale delitto sono possibili istituti deflattivi che consentirebbero di non arrivare ad una sentenza di condanna e in ogni caso di evitare l’esecuzione della pena detentiva[2].
Del tutto estraneo alla previsione in esame è l’art. 8 c.p., secondo il quale è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’art. 7.
Va altresì ricordato che ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p. qualsiasi delitto comune punito con pena inferiore nel minimo a tre anni, e quindi anche la gestazione per altri, è già punibile se commesso interamente all’estero da cittadini italiani (sempre che si trovino nel territorio dello Stato), a richiesta del Ministro della giustizia, ovvero a istanza o a querela della persona offesa. Non ho notizia di iniziative adottate in passato[G1] dal Ministro in relazione a surrogazioni di maternità realizzate interamente all’estero.
È ulteriormente da osservare che secondo la prevalente letteratura scientifica e parte della giurisprudenza, avallata dai lavori preparatori al codice penale, il citato art. 9 c.p. consente di punire all’estero un reato comune commesso da cittadini solo ove sussista la doppia incriminazione, configurato tale elemento come requisito implicito di punibilità del delitto comune commesso dal cittadino all’estero e come strumento regolatore dei rapporti di cooperazione giudiziaria internazionale tra i vari Paesi. Il Parlamento sembra voler prescindere da tale requisito, non ponendosi la questione della implausibilità di una fattiva collaborazione dello Stato estero per l’accertamento di un fatto considerato lecito nel suo ordinamento. È allora forte il rischio di ridurre l’affermazione della giurisdizione italiana ad una mera enunciazione simbolica, espressione di uno sterile paternalismo.[3] Va in aggiunta considerato che il superamento del requisito della doppia incriminazione aprirebbe seri problemi in ordine alla consapevolezza della illiceità e perseguibilità della condotta.
In conclusione la norma in esame, che incide direttamente sulla disciplina contenuta negli articoli da 7 a 10 del codice penale, si profila come del tutto velleitaria ed inutile.
L’introduzione della modifica dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40, che appare a mio avviso giustificata nella sua inutilità soltanto dalla finalità di rafforzare lo stigma dell’illiceità penale della gestazione per altri e di escogitare uno strumento volto a disincentivarne l’utilizzo, scoraggiando il turismo procreativo, risulta infine del tutto disallineata rispetto alle sollecitazioni più volte dirette al legislatore dalla Corte Costituzionale a trovare in tempi rapidi, con un intervento da ultimo definito indifferibile, uno strumento di definizione dello status dei minori nati da gestazione per altri.
Dietro la scelta del Parlamento sembra leggersi il rifiuto di apprestare soluzioni normative ai problemi scaturiti dall’utilizzo delle nuove tecniche riproduttive, seguendo una linea politica tesa soltanto alla individuazione del nemico comune da sconfiggere. Una scelta siffatta non solo esprime indifferenza rispetto al dovere di rispondere ad una esigenza sociale che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone, e soprattutto dei bambini, ma segna una grave frattura tra le istituzioni, per il mancato rispetto delle decisioni e delle sollecitazioni della Corte Costituzionale, che è organo di garanzia dei diritti, e per la mancata volontà di assumere la responsabilità di completare il sistema di tutele del quale detta Corte ha segnalato le carenze, affrontando finalmente la disciplina della maternità surrogata non da un solo lato di visione, ma in tutta la sua complessità ed in tutte le sue implicazioni.
Occorre insomma separare la valutazione della fattispecie illecita dalle sue ricadute sul rapporto di filiazione, prendendo finalmente consapevolezza che quei bambini sono comunque venuti al mondo, esistono ed hanno il diritto di avere uno status, quello status del quale l’art. 315 c.c. ha sancito inequivocabilmente l’unicità.
Questa è la vera priorità: apprestare con spirito laico e senza nascondersi dietro steccati ideologici regole dirette a fornire tutela a detti minori.
Non sembra inutile al riguardo ricordare che il 14 marzo 2023 la Commissione politiche europee del Senato ha approvato una risoluzione che, svolgendo rilievi critici alla proposta di Regolamento europeo in tema di filiazione e certificato europeo di filiazione, dopo aver ampiamente richiamato la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38162 del 2022 ha affermato che appare … condizione essenziale che la proposta preveda esplicitamente la possibilità di invocare la clausola dell’ordine pubblico in via generale su tutti i casi di filiazione per maternità surrogata, a condizione di assicurare una tutela alternativa ed equivalente, quale quella del citato istituto dell’adozione in casi particolari, e che ciò valga esplicitamente anche con riguardo al certificato europeo di filiazione.
1 V. in senso critico CALVANESE, La surrogazione di maternità realizzata all’estero e la sua punibilità in Italia, in giudicedonna.it, n. 1-2/2023; FUSCALDO, Il reato di maternità surrogata: ratio e questioni, in Diritto.it, 25 settembre 2023; GATTA, Surrogazione di maternità come “reato universale”? A proposito di tre proposte di legge all’esame del Parlamento, in Sistema Penale, 2 maggio 2023.
[2] V. sul punto D’ALOIA, Serve davvero il “reato universale” di maternità surrogata?, in federalismi.it,18 ottobre 2023.
[3]V. sul punto MANNA, Rilievi critici sulla penale rilevanza tout court della maternità surrogata e sulle proposte governative di qualificarla come “reato universale”, in Sistema Penale, 18 luglio 2023; PELISSERO, Surrogazione di maternità: la pretesa di un diritto punitivo universale. Osservazioni sulle proposte di legge n. 2599 (Carfagna) e 306 (Meloni), Camera dei Deputati, in Sistema Penale, 29 giugno 2021.
Sul tema si vedano anche Il totem del “reato universale” e quei bambini dimenticati dal Parlamento di Gabriella Luccioli, Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia di Mirzia Bianca, Maternità surrogata. Le conclusioni della Procura generale all’udienza dell’8 novembre 2022. Requisitoria dell'Avvocato generale Renato Finocchi Gherzi, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022 di Mirzia Bianca, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso di Gabriella Luccioli, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite di Arnaldo Morace Pinelli, Non si attende il legislatore. Lo spinoso problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni unite di Arnaldo Morace Pinelli, Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta. Nota a Trib. Milano 23.9.2021di Rita Russo, La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33 di Arnaldo Morace Pinelli. Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S.Stefanelli) Intervista di Rita Russo, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? di Gabriella Luccioli, Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore. Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) -Cour de Cassation - Assemblée plénière. di Rita Russo, Ricorso alla surrogazione di maternità da parte di una coppia di donne e condizione giuridica del nato. Commento a Trib. Bari, decr. 7 settembre 2022 di Emanuele Bilotti, Il cambiamento della famiglia: aspetti psico-sociali e problemi giuridici di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo, Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c., L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006) di Stefania Stefanelli, Il diritto alla cura dei nati contra legem di Alberto Gambino; Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021 di Gilda Ferrando, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020 di Mirzia Bianca, Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia di T. Greco, Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione di Rita Russo, Fecondazione post mortem di Remo Trezza, Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere. La lezione di Gabriella Luccioli: dalla discriminazione all’uguaglianza.
Lo stato dell’arte sui criteri di priorità nell’azione penale: evoluzione storica e prospettive future
di Federica Antonia Orlacchio
Abstract
Il contributo intende ripercorrere brevemente il percorso dei criteri di priorità nell’azione penale, dai primi sforzi organizzativi dei Procuratori, passando per le questioni relative all’assenza di una certa base normativa, sino alla recente valutazione di quest’ultima proposta da parte del Legislatore.
Evidenziando i punti più importanti di questo lungo dibattito, si vorrà da ultimo soffermarsi sulle varie proposte che hanno preceduto l’emanazione della l. 134/2021, meglio nota come Riforma Cartabia che ha, per la prima volta, introdotto una disciplina organica dei criteri di priorità, lasciando tuttavia aperti vari interrogativi. Di questi si sta attualmente discutendo in Commissione Giustizia, ove si sta valutando il testo del d.d.l. S-933, che intende completare il percorso avviato dalla riforma: esaminando il progetto, il presente contributo vorrà evidenziarne alcune criticità, interrogandosi sulle possibili soluzioni proposte in dottrina.
The article intends to briefly retrace the path of the priority criteria, starting from the prosecutors’ first organizational efforts, passing through issues related to a lack of a certain regulation, all the way to the recent evaluation of this proposal by the lawmaker.
By highlighting the most important points of this long debate, the article will lastly focus on the various proposals that preceded the emanation of the law no. 134 of 2021, better konwn as the Cartabia Reform, that for the first time introduced an organic discipline to the priority criteria, however leaving some questions open. These questions are currently being discussed by the Judiciary Committee where the text of the draft law no. S-933, which intends to complete the process started by the Reform, is being evaluated: by examining the project, this article aims to highlight some critical issues, questioning on the possibile soluzione propose in the doctrine.
Sommario: 1. I criteri di priorità quale possibile soluzione alla lenta erosione dell’art. 112 Cost. – 2. Gli sforzi organizzativi della Procura torinese – 3. L’opinabile assenza di una base normativa: un quadro incerto – 4. L’insoddisfazione resta: è necessaria una cornice legislativa – 5. Il modello statico del d.d.l Bonafede: una delega in bianco per le Procure – 6. Le scelte della Commissione Lattanzi – 7. La stabile cornice parlamentare della l. 27 settembre 2021, n. 134 – 8. I dubbi permangono – 9. Considerazioni a caldo sul d.d.l S-933 – 10. Valutazioni conclusive: i nodi da sciogliere
1. I criteri di priorità quale possibile soluzione alla lenta erosione dell’art. 112 Cost.
Lungo e tortuoso è stato il cammino che la proposta dei criteri di priorità ha dovuto affrontare in più di trent’anni di acceso dibattito, coinvolgendo importanti soggetti istituzionali sino a persuadere lo stesso Legislatore, finalmente intervenuto di recente dopo anni di colpevole inerzia, con un passo che, tuttavia, non sembra essere risolutivo.
È la legge n. 134 del 2021, meglio nota come Riforma Cartabia, a porre fine al silenzio sino ad ora serbato sul punto, nell’ottica di una più ampia aspirazione di ricostruzione organizzativa della giustizia penale, tentando di ovviare alla profonda crisi di efficienza, effettività e autorevolezza che essa patisce[1].
Una ritrosia, la sua, non da denunciare completamente, se solo vuol pensarsi alla grande tensione che l’“operazione priorità” ha da sempre presentato con il principio di obbligatorietà dell’azione penale e, soprattutto, con le interpretazioni rigide, a tratti esasperate, che dello stesso, ancor oggi, la letteratura giuridica si ostina a dare: nell’affermare, alquanto laconicamente, che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, la norma detta un principio ontologicamente irrealizzabile, nella misura in cui pretende che la pubblica accusa assicuri paritaria e soprattutto dignitosa attenzione a tutte le notitiae criminis verosimilmente riconducibili a fattispecie criminose.
Ecco che la possibilità di assicurare prioritaria trattazione a taluni procedimenti rispetto ad altri cerca di ergersi da tempo quale possibile soluzione rispetto all’annoso problema dell’ingolfamento della macchina processuale, impiegando al meglio le poche risorse materiali e umane disponibili.
Insomma, per assicurare effettività non soltanto alla regola di cui all’art. 112 Cost. ma anche ai valori ad esso sottesi è indispensabile assumere un approccio realistico, acquisendo consapevolezza del discrimen intercorrente tra la dimensione concreta del principio di obbligatorietà (e, dunque, spazi valutativi fisiologici connaturati al dovere di agire) e patologiche deviazioni dalla ratio della scelta costituzionale[2].
In questo senso deve interpretarsi la proposta qui in commento, testimonianza più evidente dello sforzo di dottrina e magistratura di lasciare inalterato il principio della legalità dell’agire, permettendo tuttavia allo stesso di adeguarsi alla realtà.
Dunque, l’idea è semplice: dinanzi all’impossibilità ormai riconosciuta di analizzare con la stessa tempistica tutte le notizie di reato, la migliore soluzione, ponendosi in una prospettiva pragmatica, sarebbe quella di individuare, sulla base di canoni obiettivi, un ordine di preferenza nello svolgimento delle indagini[3].
2. Gli sforzi organizzativi della Procura torinese
Trattasi di un’impostazione particolarmente suggestiva, emblematicamente suggerita dagli stessi uffici inquirenti: la paternità del problema è ascrivibile alle famose circolari torinesi, essendo state le prime ad aver avuto il “pregio di affrontare senza reticenze ed ipocrisia il problema”[4].
Fu Vladimiro Zagrebelsky, allora a capo della Procura torinese, ad inaugurare, nel 1990, questa nuova filosofia dell’organizzazione del lavoro, proponendo una “risposta trasparente ad uno stato di necessità”[5]: egli, partendo dal dato fattuale concernente l’eccessivo sovraccarico della procura torinese e la limitata capacità di lavoro dell’ufficio, anelava ad una programmazione dello stesso sotto il profilo quantitativo, affermando per questa via l’ineluttabilità dell’elaborazione dei criteri di priorità nella conduzione delle indagini preliminari. Sottolinea, tra l’altro, che tale modus operandi non sarebbe in contrasto con con il dettato costituzionale in tema di obbligatorietà, posto che il mancato esercizio dell’azione penale per tutte le notizie non infondate deriverebbe non tanto da considerazioni di opportunità relative alla singola notitia criminis, quanto piuttosto dall’oggettiva incapacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso.
Assolutamente lontano sarebbe pertanto il pericolo di sconfinare in arbitrio assoluto dell’ufficio, impedito a monte dai principi costituzionali di eguaglianza da un lato, e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione dall’altro.
In sostanza, nell’ottica di Zagrebelsky, i criteri di priorità si articolano verso l’alto, e dunque nella direzione di un’elevata prelazione per i reati più gravi in base alle pene edittali, alle singole tipologie di reato, alla posizione della vittima e all’attualità cautelare[6].
Qualche anno più tardi, è ancora una volta la Procura di Torino ad offrire un ulteriore spunto sul tema, riaccendendo in chiave critica il dibattito: la “Circolare Maddalena” del 2007[7], successiva all’approvazione della legge 31 luglio 2006, n. 24, recante “Concessione di indulto”[8], articolava diversamente i criteri, questa volta verso il basso, in virtù di valutazioni meramente procedimentali, postergando procedimenti a citazione diretta, con indagati irreperibili o quando ancora fosse prossima la prescrizione del reato.
Evidenziata la difficile situazione in cui versavano il sistema giudiziario in generale e facendo emergere le disastrose inefficienze provocate proprio dal provvedimento clemenziale, il Procuratore riteneva “contrario ad ogni logica insistere nel trattare tutti e comunque i procedimenti pendenti”: invitava pertanto ad un uso parsimonioso dell’azione penale, privilegiando “la strada della richiesta di archiviazione (anche generosa) ogni qualvolta appaia praticabile e anche solo possibile”[9].
Lungi dunque dal guardare al futuro, come la precedente, la circolare in questione si fermava al presente[10], mirando ad esaurire le pendenze inattive e affermando, per la prima volta, la regola dell’accantonamento degli affari non prioritari, tenuto conto di una serie di fattori legati “all’oggettività del fatto, alla gravità della lesione degli interessi protetti, alla soggettività del reo, all’ interesse all’azione dell’indagato o imputato o delle persone offese, alla irreperibilità dell’indagato etc. etc.”[11].
3. L’opinabile assenza di una base normativa: un quadro incerto
I provvedimenti torinesi fanno da precedente e divengono con il tempo un indiscusso punto di riferimento per altrettante Procure della Repubblica, le quali dimostrarono, negli anni a venire, un regolare attivismo a riguardo. Emulando i propositi delle circolari cui si è fatto cenno, sono stati adottati nel tempo provvedimenti simili, ispirandosi a scelte prioritarie sulla base di specifiche esigenze e tenuto conto delle rispettive realtà circondariali: tutto ciò ha dato vita alle cd. buone prassi, ossia delle prassi organizzative che tentano di smaltire nel modo più efficace il flusso di affari[12].
Esse hanno ricevuto il placet da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha sposato la causa in maniera sempre più convinta, arrivando al punto di interpretare l’adozione dei parametri orientativi nella gestio degli affari penali (di cui valorizzava la natura prettamente organizzativa) in termini di sostanziale doverosità, nell’ottica di maggiore efficienza della giustizia e anche di uniformità dell’azione penale[13].
Tuttavia, per quanto encomiabili fossero gli sforzi organizzativi delle Procure – essendo testimonianza di una forte responsabilizzazione e presa di coscienza da parte degli stessi operatori del processo – i medesimi venivano censurati dai più, per la mancanza di una norma che conferisse alle loro scelte oggettività e predeterminazione: è proprio questo, anzi, il passaggio che ha concentrato le principali contestazioni della dottrina più ostile poiché – si diceva – una gestione orizzontale avrebbe rischiato di scalfire i contorni di una regola costituzionale sempre più in crisi.
Non può comunque nascondersi che, negli anni, vi sono stati degli interventi che hanno dato alla luce nuove norme nelle quali, non senza difficoltà e sforzo interpretativo, si è cercato di trovare un appiglio all’“operazione priorità”: il massimo risultato a cui è pervenuto il Legislatore in tempi più lontani sta nella norma dettata in tema di riforma del giudice unico, ossia l’art. 227 del d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51[14]. Con la disposizione de qua si è, per la prima volta, normativamente accreditata l’idea che la selezione delle notizie di reato potesse rappresentare, in una prospettiva futura, la soluzione alla malvista discrezionalità di fatto incontrollata[15].
Poco dopo il Legislatore è intervenuto nuovamente sul tema, attraverso il d. l. 24 novembre 2001, n. 341[16], che ha introdotto l’art. 132-bis tra le disposizioni di attuazione del codice di rito, con il quale sono state create corsie preferenziali per taluni procedimenti ai fini della formazione dei ruoli d’udienza da parte degli uffici giudicanti, inizialmente per ragioni spiccatamente processuali, ossia là dove si pongono gravi ragioni d’urgenza con riferimento alla scadenza dei termini cautelari. Nondimeno, l’attuale profilo contenutistico risulta sensibilmente diverso, essendo stato oggetto di ripetuti interventi normativi[17] che ne hanno mutato l’originale assetto, risultando ora comprensivo di ipotesi così eterogenee che pare difficile rinvenire per le stesse una base comune.
Per quanto apprezzabile fosse l’intento legislativo di regolamentare, secondo canoni oggettivi e soprattutto verificabili, delle priorità, nessuna delle due norme oggetto di precedente disamina ha permesso di individuare una copertura legale alle prassi.
Anzitutto militava in senso opposto l’incontestabile circostanza che entrambe fossero non tanto rivolte ai pubblici ministeri, bensì agli uffici giudicanti[18]; e, ancora, che le medesime fossero prospettate ad un momento successivo all’esercizio dell’azione penale, dunque in quanto tali non avevano rilevanza alcuna per la determinazione delle priorità, che invece si pone nei primi momenti del segmento meramente procedimentale.
4. L’insoddisfazione resta: è necessaria una cornice legislativa
L’indiscutibile incertezza derivante dall’assenza di una solida base normativa ha quindi da sempre rappresentato un’evidente criticità della teoria dei criteri di priorità, messa in discussione da quanti guardavano alle attività delle Procure come eccentriche, difettando queste ultime di fonte legislativa di rango primario.
Fondamentalmente, la predeterminazione legislativa delle precedenze da seguire nella trattazione delle notizie di reato sarebbe l’unica via per ridurre l’inventiva della magistratura inquirente, alla cui libera scelta verrebbe altrimenti rimessa la sorte di taluni procedimenti.
A dire il vero, quest’ultima strada è stata percorsa in passato, addirittura dall’Organo di autogoverno della Magistratura, tanto in sede disciplinare[19] che in altre occasioni: anzi, rebus sic stantibus, questa sarebbe apparsa per taluni la migliore soluzione poiché il magistrato inquirente disporrebbe di maggiore conoscenza, rispetto ad un legislatore lontano e distratto[20], della realtà delinquenziale del territorio di sua competenza, pertanto sarebbe maggiormente in grado di calibrare la risposta alla tracotanza degli autori del reato[21].
Quella della definizione dal basso delle priorità si sarebbe allora presentata come soluzione necessitata dinanzi alla non più tollerabile neghittosità del legislatore, che è invece intervenuto su altri settori – depenalizzazione, deproccessualizzazione, potenziamento dei riti alternativi – con scarsi risultati.
Una tale affermazione viene tuttavia – opportunamente – contestata da quanti paventano il pericolo che una giustizia a macchia di leopardo possa presentarsi sì più vicina ai cittadini, ma effettivamente pericolosa. Permettere agli uffici di Procura di provvedere ex se porrebbe le basi per una differente applicazione della legge penale e per una disparità di trattamento tra individui che si troverebbero ad essere trattati in maniera assai diversa, a seconda del luogo in cui abbiano commesso il medesimo reato. Il che, a tacer d’altro, non soltanto determinerebbe momenti di tensione con l’art. 112 Cost., ma anche con gli artt. 3 e 25 Cost.[22].
Se allora la fissazione delle priorità diviene espressione di indirizzo politico in materia criminale, l’unica scelta da prendere in considerazione sarebbe quella di un coinvolgimento attivo del Parlamento: anzi, questa risulta essere la via maestra per quanti si dicono favorevoli all’introduzione dei criteri di priorità. In uno Stato di diritto ed in base ad un elementare principio di separazione di poteri, tale organo dovrebbe essere l’unico a poter regolare il sistema penale, decidendo di volta in volta, in base a trasparenti criteri di politica giudiziaria, a quale categoria di reati dare l’eventuale precedenza[23].
Una soluzione del genere avrebbe un indubbio pregio nell’ottica di conferire legittimazione democratica alle scelte di politica criminale compiute dalla pubblica accusa, anzi le assicurerebbe il massimo grado: l’idea di un collegamento tra quest’ultima e il Parlamento poggia sull’opinione per cui, all’organo che rappresenta in maniera diretta i cittadini, spettano poteri di controllo democratico su tutte le attività di rilevanza pubblica e conseguenzialmente, su una delle più importanti, ossia l’esercizio della funzione requirente[24].
Ecco che, allora, l’unico soggetto legittimato alla definizione delle priorità non può che essere proprio l’organo legislativo: calzante e significativa l’osservazione secondo cui come solo quest’ultimo può provvedere alla predisposizione di fattispecie criminose, così non può non essergli devoluto l’eventuale compito di dettare priorità ai fini dell’esercizio dell’azione penale, attraverso uno strumento suscettibile anche di controllo di costituzionalità[25].
5. Il modello statico del d.d.l Bonafede: una delega in bianco per le Procure
Gli interrogativi posti dalle precedenti riflessioni non hanno ricevuto integrale soddisfazione nel d.d.l. Bonafede, presentato dal Governo Conte II alla Camera il 13 marzo 2020: l’AC 2435[26], nell’intento di assicurare l’efficacia della risposta giudiziaria, assegnava – all’art. 3, comma 1, lett. h) – al legislatore delegato il compito di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Si continuava poi che “nell’elaborazione dei criteri di priorità, il Procuratore della Repubblica, curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.
Una novità, come si è detto, rilevante ma non sconvolgente[27]: difatti, non è difficile cogliere l’aderenza del disegno qui prospettato alle prassi che si sono andate formando[28], e la sua perfetta rispondenza alle indicazioni del C.S.M. succedutesi negli ultimi quindici anni.
Il circuito ivi delineato si colloca infatti interamente nell’ambito giudiziario, dall’individuazione all’applicazione, sino al controllo sull’attuazione dei criteri di priorità[29]: in un’ottica “autoreferenziale”[30] si prevedeva che l’elaborazione dei medesimi fosse devoluta alle Procure e ai progetti organizzativi redatti dai dirigenti degli Uffici del pubblico ministero. Venne attivamente coinvolto anche lo stesso C.S.M che avrebbe assicurato trasparenza nella gestione dell’azione[31]: si anelava dunque ad un dialogo ed una costante comunicazione che avrebbe dovuto – nelle intenzioni del progetto – assicurare maggiore omogeneità.
Siffatta impostazione venne tuttavia caldamente osteggiata dalla dottrina maggioritaria, la quale le muoveva aspre critiche per aver sostanzialmente sottratto al legislatore una sua funzione.
Le voci dei più auspicavano per contro un ruolo maggiormente significativo per il Parlamento, evidenziando profonde criticità della proposta: anzitutto il meccanismo delineato dal d.d.l. Bonafede avrebbe assegnato un ruolo politico alla magistratura, responsabilità che non le compete[32]; quest’ultimo sembrava poi essere insensibile a tutte le criticità derivanti da un conferimento del compito di predeterminazione dei criteri alle singole Procure, poiché non avrebbe scongiurato il rischio di una perseguibilità dei reati a macchia di leopardo[33].
Insomma, un disegno poco convincente. Ciononostante, un qualche consenso pur lo meritava e nello specifico con riferimento al meccanismo di individuazione dei criteri di priorità, nella misura in cui si chiamava il Procuratore della Repubblica a raccordarsi con gli uffici giudicanti – naturali destinatari dei provvedimenti in cui si concretizza la scelta di agire – e anche quella opposta affidata alla richiesta di archiviazione, collocando le sue determinazioni nella più ampia dimensione del distretto.
Osservandolo più attentamente, questo modello partecipato non negava totalmente il ruolo del Parlamento, ma lo articolava diversamente: la sua tipica funzione di controllo sarebbe stata invero assicurata dalla previsione secondo cui il Ministro della giustizia avrebbe provveduto all’illustrazione dell’andamento della gestione dell’azione nei vari distretti giudiziari, nel più ampio ambito delle comunicazioni annuali sull’Amministrazione della giustizia ex art. 86 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12[34].
Il Legislativo avrebbe così verificato la congruità dei dati acquisiti, ora chiedendone la correzione, ora valutando l’eventuale necessità di un intervento del Governo, volto ad assicurare un maggiore stanziamento di risorse per la revisione di taluni criteri.
6. Le scelte della Commissione Lattanzi
Per ovviare comunque alle permanenti perplessità verso il progetto sopra delineato, con la formazione del Governo Draghi, la Ministra della giustizia Prof. Marta Cartabia insediò una nuova commissione di studio per elaborare proposta di riforma: con il decreto del 16 marzo 2021 venne infatti costituita presso l’ufficio legislativo del Ministero una commissione “per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in tema di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge AC 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizone dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”.
Le modifiche presentate intendevano quindi accogliere tutte le critiche avanzate all’originaria proposta, provvedendo ad un’intensificazione del ruolo del Parlamento: ne risulta un progetto di profonda distanza culturale e tecnica[35].
La Commissione Lattanzi, “in piena aderenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento”[36], intendeva dunque rimettere a quest’ultimo organo il delicato ruolo delle priorità: lo avrebbe fatto attraverso un’indicazione periodica di criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità, che avrebbe fatto riferimento all’apposita relazione del C.S.M. sugli effetti prodotti nel periodo precedente.
Una volta poi definita la cornice dell’alto, si sarebbero mossi i singoli uffici giudiziari che avrebbero provveduto autonomamente, stabilendo dei criteri “dinamici” che tenessero conto della realtà locale – tanto sotto il profilo criminale quanto sotto quello organizzativo – per assicurare concretezza alle scelte parlamentari. In quest’ottica, dunque, sarebbe stato superato l’elenco di criteri statici contemplato all’interno dell’art. 132-bis disp. att. c.p.p. che – si sottolinea nella Relazione – hanno dimostrato negli anni “tutta la loro inidoneità a garantire razionale ed effettiva trattazione degli affari penali”.
Si evidenziava, pertanto, da parte dei primi commentatori, la contrapposizione tra le periodicità delle regole parlamentari e la dinamicità dei criteri dei singoli uffici di Procura, espressione di scelte di politica criminale e di una puntuale concretizzazione delle stesse sul piano territoriale. La Commissione, com’è stato evidenziato, si è mossa dunque con condivisibile cautela e delicatezza, cercando di non urtare la sensibilità degli uffici giudiziari, privati di quella competenza esclusiva che riservava loro il d.d.l. Bonafede[37].
Ad ogni modo, bisognava tessere le lodi del disegno qui in commento per la scelta di rendere obbligatorio l’intervento del Parlamento nella definizione delle priorità, considerata la loro afferenza alla materia di politica criminale. Un tratto che rendeva di gran lunga preferibile quest’ultimo rispetto al precedente, non foss’altro per una sua evidente armonia con il fisiologico rapporto tra potere legislativo e giudiziario: il primo dà le determinazioni di principio, ed il secondo, lungi dal vedersi attribuito un ruolo di mero esecutore di direttive altrui, le specifica concretamente[38].
Opinabile era invece l’eccessiva genericità della formula con cui veniva devoluto al Parlamento il compito di dettare criteri generali: essa risultava particolarmente equivoca nella misura in cui, non parlando expressis verbis di legge, lasciava aperta l’ipotesi che vi si provvedesse per il tramite di un atto di indirizzo. Atti che non difficilmente dimostrano la loro inattitudine ad assumere tali connotati: basti qui ricordare che trattasi di atti per loro natura fluidi, nel contenuto e nelle forme, dunque in quanto tali maggiormente esposti alle fluttuazioni derivanti dalle mutevoli congiunture politiche[39].
7. La stabile cornice parlamentare della l. 27 settembre 2021, n. 134
Finalmente si approda all’emanazione del testo definitivo[40], il quale assegna al legislatore una traccia sensibilmente differente: si legge nell’art. 1, comma 9, lett. i) che “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforma esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Si conclude poi per la necessità di “allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”[41].
In continuum rispetto alle scelte precedenti, si ritiene indispensabile quell’elemento interlocutorio interno alle stesse realtà circondariali, volto ad assicurare maggiore omogeneità. Salta, tuttavia, subito all’occhio una fondamentale differenza rispetto alle proposte della Commissione Lattanzi: la determinazione dei criteri da parte del Parlamento non viene affidata all’atto periodico di indirizzo politico; bensì allo strumento solenne, impegnativo e soprattutto stabile della legge che dunque, in quanto tale, risulterà vincolante per tutti gli operatori[42].
Una legge cornice rigida – dunque non periodica – completata dalle successive scelte dei capi degli uffici, sembra essere quindi un buon tentativo di mediazione, che lasci giusti spazi di manovra ai Procuratori della Repubblica ma al contempo impedisca loro di tirare troppo, con il rischio che si spezzi “la corda dell’irresponsabilità politica”[43].
Per dare attuazione alla delega, è intervenuta la minimale disciplina contenuta nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150[44], la quale ha preso posizione su poche questioni. In effetti, per dare seguito alla delega sono state adottate una serie di disposizioni non tutte contemplate all’interno del decreto legislativo che intende adempiervi: la Relazione di accompagnamento sottolinea che, nelle more dell’adozione dell’atto avente forza di legge, il Parlamento è intervenuto con la legge 17 giugno 2022, n. 71, prevedendo una modifica dal punto di vista ordinamentale[45]. Il doppio intervento supporta l’idea che i criteri di priorità abbiano una duplice rilevanza, non avendo questi essenzialmente natura procedimentale, bensì incidendo anche su scelte organizzative, sin dall’attività successiva all’iscrizione della notizia di reato[46].
Dal punto di vista procedimentale, l’art. 1, comma 1, lett. a) interviene allora sulle disposizioni di attuazione attraverso l’introduzione dell’art. 3-bis, ove si prescrive che il pubblico ministero, tanto nella trattazione delle notizie di reato quanto nell’esercizio dell’azione penale, debba conformarsi ai criteri di priorità contenuti all’interno del progetto organizzativo della Procura. Contestualmente viene introdotto l’art. 127-bis disp. att. c.p.p. dove si prevede che, nell’esercizio dei poteri di avocazione che spettano al Procuratore generale, si tenga conto dei criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio della Procura della Repubblica. Un’introduzione, si dirà, assolutamente doverosa per assicurare coerenza tra la neo-introdotta disciplina delle priorità con quanto previsto in tema di avocazione: in mancanza, vi sarebbe un paradosso nell’“avocazione per inazione”, rispetto ad un’inazione che trova giustificazione proprio nei criteri di priorità[47].
La norma necessita tuttavia di una lettura in combinato disposto con la novellata disciplina ordinamentale, secondo cui la predisposizione dei criteri, all’interno dei progetti organizzativi adottati a cadenza quadriennale e nel più ampio ambito dei criteri generali stabiliti dal Parlamento, dovrà tener conto del “numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. A dire il vero, dalla norma risulta un ingranaggio procedurale particolarmente complesso, cui viene data voce a diversi soggetti[48], provvedendo così ad una procedimentalizzazione dei criteri di priorità: i progetti organizzativi dovranno infatti essere approvati, fatte eventuali osservazioni del Ministro della giustizia, dal C.S.M. in quanto conformi agli standard dallo stesso dettati; dovranno poi essere ascoltati i dirigenti degli uffici giudicanti e il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati.
8. I dubbi permangono
Se per alcuni il risultato così raggiunto può rappresentare un punto di arrivo, esso altro non è che un punto di partenza.
Ciò è maggiormente chiaro laddove si tenga presente che quello che dai più era stato definito come intervento epocale, si limita a prevedere lo stretto necessario per consentire la redazione e l’operatività dei criteri di priorità: vengono infatti pericolosamente lasciati aperti taluni – o meglio, troppi – interrogativi, che non permettono di dirimere i contrasti che hanno sempre caratterizzato la proposta dei criteri di priorità, anzi, potrebbero essere in grado di potenziarli. Il Legislatore, piuttosto che lasciare al non detto davvero poco, va in tutt’altro senso: nulla dice, ad esempio, circa la periodicità o “fissità” della legge cornice. Propenderebbe nel primo senso la mutevolezza, nel tempo, della criminalità e delle esigenze della sua repressione[49]; nel senso opposto, invece, plurimi fattori: anzitutto, si dice, se il Legislatore avesse realmente voluto rendere periodica la legge cornice, lo avrebbe fatto expressis verbis[50], o ancora, la circostanza che pur proposta durante i lavori parlamentari, non è stata inserita nel testo definitivo.
Ulteriori incertezze concernono il riferimento ai “criteri generali”, ponendo una locuzione così generica una serie di questioni: dovrebbe essere sia evitata una mera predisposizione di elenco di reati da preferire, direttamente proveniente dal Legislativo, tanto una statuizione eccessivamente vaga, tale da riconoscere ampio spazio discrezionale alle Procure.
Difficoltà tutte avvertite dal Parlamento che, a distanza di quasi due anni dalla delega, tarda a stilare una griglia di criteri generali: le Procure, nel frattempo, attendono, tant’è che si è reso doveroso per l’Organo di autogoverno intervenire nuovamente[51].
Le acque sembrano tuttavia cominciare a smuoversi: in questi mesi si sta discutendo, in Commissione Giustizia, del d.d.l. S-933, intitolato “Disposizioni di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale” di iniziativa dei senatori Zanettin e Stefani. Nell’ottica di ovviare ad una serie di lacune ed incongruenze della disciplina attuativa della delega, i proponenti intendono, tra le altre cose, affiancare all’art. 3-bis disp. att. c.p.p. un nuovo articolo 3-ter, prefiggendosi di cristallizzare il rispetto del principio per cui il pubblico ministero debba attenersi ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi, a tal fine indicandoli specificamente[52]:
9. Considerazioni a caldo sul d.d.l S-933
Questa (tardiva) iniziativa legislativa – non semplicemente opportuna, ma assolutamente necessaria – si espone nondimeno ad una serie di critiche.
Anzitutto si evidenzia, da parte dei primi commentatori, un vizio di fondo: la proposta sembra infatti alterare l’equilibrato meccanismo compromissorio delineato dalla l. 134/2021 prima e dalla l. 71/2022 poi, che unisce una valutazione preventiva definita all’interno di una legge cornice alla concretizzazione di quelle stesse indicazioni da parte dei Procuratori, i quali vi provvedono attraverso un procedimento partecipato.
A ben vedere, il d.d.l qui in commento introduce direttamente – come parametro di riferimento dell’attività dei pubblici ministeri – i criteri di priorità, non facendo più comprendere quale sia il rapporto tra i criteri generali di spettanza del Legislatore e quelli “di dettaglio” contenuti nel progetto organizzativo[53].
Non convince, poi, l’estrema vaghezza che lo contraddistingue: in effetti le lett. a) e c) sembrano sposare una logica piuttosto ampia, ispirata a criteri formali e oggettivi, che sebbene appaia coerente con l’intento del Legislatore di definire dei “meta-criteri”, risulta essere eccessivamente generica. In effetti, il criterio della “gravità dei fatti” appare poco specifico, sino al punto di divenire privo di contenuto precettivo. Tale problema interpretativo, tuttavia, potrebbe trovare una soluzione se si facesse riferimento alle previsioni edittali: un Legislatore attento e sensibile, si dice, è colui che gradua la pena sulla base della gravità del reato[54].
I medesimi problemi si pongono poi per il riferimento all’ “offensività in concreto del reato” che, anzi, rischia addirittura di sovvertire ogni criterio generale di priorità sulla base di una valutazione concreta, effettuata caso per caso dall’Autorità Giudiziaria procedente[55].
Un’ispirazione diversa sembra invece connotare la lett. b) che identifica singole fattispecie di reato, sicuramente coerente con l’ottica del “doppio binario” che, in aderenza a direttive sovrananzionali, intensifica la tutela di vittime di taluni reati, velocizzando i tempi dei relativi procedimenti. Nondimeno, essa non soltanto rischia di determinare una disomogeneità e poca chiarezza del dettato legislativo, ma accentua il pericolo di cavalcare, per questa via, l’onda dell’emotività dell’opinione pubblica, molto instabile e soprattutto particolarmente suggestionabile.
Discutibile risulta poi il richiamo, nella lett. a), “alla realtà criminale e alle esigenze di protezione della popolazione”: una scelta, questa, giustificata dai proponenti in virtù del forte legame tra le medesime e i criteri di priorità e, tra le altre cose, perfettamente rispondente alle indicazioni dell’Organo di autogoverno nella “super-circolare” del 2017, che riconosce ai pubblici ministeri un compito di mediazione tra le istanze del territorio e l’azione penale[56]. Orbene, un soggetto politicamente irresponsabile e privo di legittimazione democratica come la pubblica accusa non potrà misurare sic et sempliciter la maggiore o minore sensibilità della comunità rispetto alla persecuzione di taluni reati: quest’ultime integrerebbero valutazioni di carattere politico, in quanto tali in collisione con l’art. 112 Cost., che ammette tutt’al più una discrezionalità tecnica.
Così come formulato, allora, tale “meta-criterio” non convince: per allontanare i pericoli di una regionalizzazione del sistema a scapito dell’uniformità dell’azione penale, sarebbe necessaria una cornice legislativa più stringente e stabile – la cui completezza presupporrebbe un’analisi di vari fenomeni criminali e peculiarità regionali – che potrà essere poi adeguatamente dettagliata dai singoli Procuratori.
Tantomeno condivisibile la seconda parte della lett. c), nella misura in cui raccorda la previsione dell’offensività in concreto alla condotta della persona offesa: una lettura poco approfondita lascerebbe addirittura intendere che sia la volontà di quest’ultima a condizionare la determinazione delle priorità, in palese contrasto con i principi del nostro sistema[57].
Più chiaro invece si presenta forse il richiamo al “danno patrimoniale o non”, riferendosi ad un concetto di gravità in concreto del fatto, desumibile dal danno provocato; mentre del tutto inopportuno è il profilo della mancata partecipazione dell’indagato ai percorsi di giustizia riparativa: certo, una lettura – troppo – generosa potrebbe permettere di ricavarne indirettamente una valorizzazione in positivo per l’indagato che decida di parteciparvi. Ma, comunque, più forti sono i dubbi di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., che non può vedersi così condizionato.
A prescindere dal discutibile profilo contenutistico, ciò che desta maggiori perplessità è il mancato coordinamento con il nutrito catalogo di reati cui dare una precedenza nella formazione di ruoli d’udienza e trattazione dei processi, ossia l’art. 132-bis disp. att. c.p.p[58]: quandanche la norma abbia costituito guida irrinunciabile per la fase investigativa, essa risponde ad una logica del tutto differente, per cui sarebbe necessaria un’armonizzazione tra gli uffici requirenti e giudicanti che sia rispettosa della razionalità del sistema e dunque degli artt. 3 e 111 Cost. Anzi, si osserva, l’occasione potrebbe essere proprizia per una riscrittura dell’infelicissima norma che, a dire il vero, non ha mai funzionato: certo, l’operazione è alquanto delicata e difficile.
10. Valutazioni conclusive: i nodi da sciogliere
Le riflessioni che precedono dimostrano come l’acceso dibattito sui criteri di priorità fatichi a trovare soluzione.
Certo è che sul Parlamento grava un compito delicatissimo: per quanto lacunosa, la recente iniziativa legilsativa ha l’indubbio merito di aver preso dichiaratamente posizione in questo articolato dibattito, in cui ancora forti sono le voci dottrinali che si dicono assolutamente contrarie all’introduzione dei criteri di priorità all’interno di un ordinamento, come quello italiano, governato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Si tratta di un veicolo normativo da trasformare secondo talune direttive per far sì che diventi un vero e proprio statuto dei criteri di priorità. Ecco, dunque, i nodi da sciogliere.
Si auspica una maggiore chiarezza del dettato normativo, che definisca anzitutto cosa debba intendersi per fascicolo prioritario: ciò, infatti, non significa semplicemente “metterlo davanti” ad altri, ma destinare ad esso le migliori risorse umane e materiali; sono scelte da ponderare attentamente, per allontanare il rischio di condannare i reati “secondari” ad una sicura prescrizione. Doveroso sarà poi il coordinamento con l’art. 132-bis disp. att. c.p.p., per assicurare omogeneità tra priorità investigative e quelle da seguire nella fase giudicante: il traino dovrebbe essere individuato nelle prime, cui facciano seguito i criteri nella formazione dei ruoli d’udienza.
Ulteriore tratto su cui la proposta rimane discutibilmente silente è quello relativo alle conseguenze della mancata osservanza dei criteri definiti dai progetti organizzativi: è una questione particolarmente delicata, poiché si tratterebbe di capire se, ad esempio, possa essere sottoposto a procedimento disciplinare il magistrato che non abbia osservato la scala delle priorità, esercitando l’azione penale che il dettato costituzionale proclama obbligatoria; non si dimentichi che è tuttavia possibile valorizzare a tal fine un rimedio processuale già presente nel nostro ordinamento, qual è quello dell’avocazione, la cui disciplina è stata già adeguata alle novità di cui qui si sta tenendo conto.
Si tratta, insomma, di questioni che non possono essere lasciate aperte, ma che al contrario necessitano di un approfondito esame.
[1] Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR. La Procura tra prospettive organizzative, temi istituzionali e scelte comportamentali, in Quest. giust., 2021, p. 55.
[2] Fiandaca-Di Chiara, Il pubblico ministero e l’esercizio dell’azione penale, in Una introduzione al sistema penale: per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene, 2003, p. 248.
[3] Catalano, Introduzione, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali delle scelte sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 1 ss.
[4] Ceresa-Gastaldo, Dall’obbligatorietà dell’azione penale alla selezione politica dei processi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, p. 1427.
[5] Rossi, Per una concezione “realistica” dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, p. 315. L’espressione in realtà è una costante in tutte le delibere del Consiglio Superiore della Magistratura tese ad esprimere un favor verso gli sforzi organizzativi degli uffici inquirenti.
[6] Si specifica infatti che non è possibile definire le priorità sulla base del mero criterio cronologico, nè tantomeno è possibile affidarsi alla debole indicazione della semplicità e della rapidità della trattazione dell’indagine preliminare, occorrendo una valutazione maggiormente approfondita. Punto di riferimento indiscusso saranno considerazioni rivenute all’interno dello stesso ordinamento e sulla ragionevolezza su cui esso si fonda.
[7] Circolare della Procura della Repubblica, Tribunale di Torino, 10 gennaio 2007, “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della legge 31 luglio 2006 n. 241 che ha concesso l’indulto”, in Quest. giust., 2007, p. 621 ss.
[8] L’approvazione della legge di indulto, non essendo stata accompagnata da un parallelo provvedimento di amnistia, aveva sollevato non pochi problemi, avendo comportato l’immediata liberazione dei detenuti, ma senza tuttavia aver alleggerito gli uffici dal carico giudiziario esistente.
[9] Maffeo, I criteri di priorità dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, in Proc. pen. e giust., 2022, p. 62 ss.
[10] Una differenza sottolineata dallo stesso autore della circolare nel su intervento al Convegno La circolare Maddalena e il futuro dell’obbligatorietà dell’azione penale (Torino, 12 marzo 2007), organizzato dalla Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e Valle D’Aosta. Qui afferma infatti che “è profondamente diversa dalla circolare Zagrebelsky perchè tra la mia e quella antecedente passa la stessa differenza che c’è tra futuro e passato: mentre la prima impostava una prospettiva futura, la mia si è limitata a prendere atto di una certa situazione, di un certo provvedimento che sicuramente introduceva una nota di minore utilità in una situazione in cui, di fatto, gli uffici giudiziari torinesi sarebbero arrivati inevitabilmente a seguito del formarsi delle serie di discrezionalità che si sommano”. Si ascolti l’intero intervento in https://www.radioradicale.it/scheda/220013/la-circolare-maddalena-e-il-futuro-della-obbligatorieta-dellazione-penale.it.
[11] Circolare della Procura della Repubblica, Tribunale di Torino, 10 gennaio 2007, “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della legge 31 luglio 2006 n. 241 che ha concesso l’indulto”, cit., p. 621 ss., punto 7.
[12] Così Sottani, Organizzazione degli uffici di procura. Modelli organizzativi e bilanci delle Procure della Repubblica, in L’obbligatorietà dell’azione penale. Atti del XXXIII Convengo Nazionale di Verona 1-12 ottobre 2019 dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Giuffrè, 2021, p. 64.
[13] Sul punto, si veda l’analisi di Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi es esercizio dei poteri di vigilanza, in Dir. pen. cont., 9 novembre 2016, p. 7 ss; Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134, in Quest. giust., 2021, pp. 86-91.
[14] Secondo la norma “Al fine di assicurare la rapida trattazione dei processi pendenti alla data di efficacia del presente decreto, nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si tiene conto della gravità e concreta offensività del reato, del pregiudizio, che può derivare da ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa”.
[15] Frioni, Le diverse forme di manifestazione della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 557. Effettivamente, l’intervento normativo qui in commento si pone come un’importante risposta, in ambito penale, alle difficoltà organizzative che già gravano sul sistema e che maggiormente si sarebbero poste in virtù della ristrutturazione degli uffici giudiziari secondo il modello del giudice unico. In un tale contesto, il legislatore non si è semplicemente limitato ad operare su un piano prettamente organizzativo, ma è piuttosto intervenuto sulla disciplina processuale, allo scopo di stimolare la rapida definizione dei procedimenti in corso attraverso l’introduzione di specifici meccanismi acceleratori. Si legga sul punto il prezioso contributo di Bresciani, Commento all’articolo 227 d. lgs. 19/2/1998 – Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, in Leg. pen., 1998, p. 475 ss.
[16] “Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia”, convertito con modifiche nella l. 19 gennaio 2001, n. 4.
[17] D. l. 23 maggio 2008, n. 92 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), conv. con modif. dalla l. 24 luglio 2008, n. 125; d. l. 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema id protezione civile e di commissariamento delle province), conv. con modif., dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119; l. 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice di penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) e la l. 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate); l. 26 aprile 2019, n. 36 (Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa).
[18] Così, Catalano, La lunga marcia dei criteri di priorità, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali delle scelte sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 56; Frioni, Le diverse forme di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen¸ 2002, p. 557; Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, in Cass. pen.¸ 2020, p. 12 ss; Maffeo, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 65.
[19] Conviene qui ricordare il famoso “Caso Vannucci” riportato in Cass. pen., 1998, p. 1490 ss.
[20] Deganello, Notizie di reato ed ingestibilità dei flussi: le scelte organizzative della procura torinese, cit., p. 1592 ss.
[21] Catalano, L’individuazione dell’organo cui affidare la fissazione dei criteri di priorità, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 155.
[22] Così Maffeo, I criteri di priorità dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 61 ss. Si fa poi notare in dottrina, tra le altre cose, che come la magistratura non potrebbe dar vita a fattispecie penali di derivazione giurisprudenziale, per le stesse ragioni non potrebbe allestire criteri gerarchici che accelerino o decelerino la persecuzione dei reati, poiché così facendo le si riconoscerebbe una discrezionalità politica che non le si addice. Si tratta di un passaggio opportunamente evidenziato da Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 16 il quale continua che “non bisogna confondere i progetti semplicemente organizzativi, al cui elaborazione spetta alle procure, con i criteri di priorità che incidono sulla persecuzione dei reati, sino a comprometterla di fatto per reati collocati nella fascia inferiore”.
[23] Petrelli, Azione penale, non basta la super-circolare, Il Mattino, 26 novembre 2017.
[24] Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, p. 286.
[25] Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 16.
[26] “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso la corte d’appello”.
[27] Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, in Quest. giust., 2021, p. 50.
[28] Anzi, sarebbe chiara la volontà di fornire alle medesime una base normative ad hoc. Così Gialuz-Della Torre, Il progetto governativo di riforma della giustizia approda alla camera: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in Sist. pen., 2020, p. 164 ss. Questi ultimi Autori criticano la suddetta proposta, aspettandosi che si intervenisse diversamente, e cioè attribuendo ruolo centrale al Parlamento: anelavano, per questa via, che fosse “lo stesso Parlamento a rivendicare a sé la responsabilità di dettare le direttive generali in tema di criteri di priorità, le quali potrebbero poi essere specificate, tenuto conto delle peculiarità territoriali, a livello di procure. È evidente la difficoltà di tale prospettiva, ma sarebbe certamente più rispettosa dell’architettura costituzionale. Ove una tale strada non sia considerata politicamente percorribile, quantomeno è auspicabile che venga chiarito in modo esplicito nel testo della legge delega, per come oggi configurato l’obbligo in capo alle procure della Repubblica di rispettare nella stesura dei criteri di priorità le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura, onde assicurare così almeno una certa uniformità tra i parametri adottati a livello locale”.
[29] Si veda sul punto Rossi, I criteri di priorità tra legge cornice ed iniziativa delle procure, in Quest. giust., 2021, p. 78; Monaco, Riforma della giustizia penale e criteri di priorità nell’esercizio dell’azione, in Federalismi.it, 2022.
[30] Rossi, I criteri di priorità tra legge cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 76 ss.
[31] Giarda-Spangher, Art. 3-bis – Priorità nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale, in Codice di procedura penale commentato, Wolters Kluwer, 2023, tomo IV, p. 3152 ss.
[32] Catalano, La lunga marcia dei criteri di priorità, cit., p. 59.
[33] Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, cit., p. 50.
[34] Maffeo, I criteri di priorità tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 61 ss.
[35] Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure, cit., p. 78.
[36] Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. AC 2435, 24 maggio 2021, p. 20, consultabile presso https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LATTANZI_relazione_finale_24mag21.pdf.
[37] Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, in Proc. pen. e giust., 2021, p. 1401 ss.
[38]Ancora Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, cit., p. 1043 il quale si pronuncia positivamente circa le scelte della Commissione Lattanzi poiché “alle procure ben può essere offerta la possibilità di intervenire in funzione consultiva nel procedimento legislativo, fornendo dati sul carico penale e sulle risorse disponibili, avanzando proposte e suggerimenti. I pubblici ministeri continueranno inoltre a godere di una notevole discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, perché i criteri saranno necessariamente fissati con direttive generali, presumibilmente per categorie di reati in base all’interesse leso; all’interno delle quali saranno sempre gli uffici giudiziari ad individuare reati cui applicare le priorità”.
[39] Rossi, I criteri di priorità tra cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 79. E ancora, Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, cit., p. 287 ss. L’Autore infatti evidenzia come la risoluzione sia strettamente connessa alla funzione di indirizzo politico e dunque volta ad arricchire il rapporto Camera-Governo; parimenti per l’ordine del giorno, laddove se ne valorizzi la natura di atto di indirizzo, essendo rivolto prioritariamente all’Esecutivo. In definitiva, si tratta di atti che pur potendo essere adottati per specifici scopi, afferiscono al legame fiduciario tra Parlamento e Governo, controllando il primo che l’attività del secondo sua conforme al programma stilato al momento della fiducia. Anzi, si dice, l’inattitudine degli atti de quibus ad assurgere a strumenti per la definizione delle priorità dovrebbe già dedursi dalle loro caratteristiche strutturali, assumendo spesso il carattere dell’accessorietà.
[40] Legge 27 settembre 2021, n. 134 contenente “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.
[41] Si espressero in questo senso già risalenti voci dottrinali, tra cui Illuminati, Come adattare la “domanda” all’“offerta” di giustizia, in La ragionevole durata del processo; garanzie ed efficienza della giustizia penale, Giappichelli, 2005, p. 92 ss.
[42] Opzione, conviene ricordarlo, avente un duplice pregio: non solo limita i problemi di eguaglianza, ma rende controllabili dalla Corte Costituzionale le scelte prioritarie.
[43] Queste le parole di Caprioli, I criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tra “Delega Cartabia” e legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Cass. pen., 2024, p. 1427 ss.
[44] “Attuazione della legge 27 settembre, n. 134. Recante al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione die procedimenti giudiziari”.
[45] Più nello specifico, l’art. 13 ha direttamente sostituito i commi 6 e 7 dell’art. 1 del d. lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero: si prevede ora che il progetto organizzativo dell’ufficio inquirente, predisposto dal procuratore della Repubblica, contenga criteri di priorità finalizzati alla selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, “tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale, e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziari disponibili”.
[46] “Relazione illustrative al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, p. 253, consultabile in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/10/19/22A06018/sg.
[47] Queste le parole di Marzaduri, durante la sua audizione informale sul d.d.l. S-933 (Disposizioni in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale) in 2a Commissione (Giustizia), martedì 16 gennaio 2024. Si ascolti il suo intervento in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244509.
[48] Caprioli, I criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tra “Delega Cartabia” e legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., p. 1427 ss.
[49] Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre, n. 134, in Quest. giust., 2021, p. 94.
[50] A favore di questa soluzione è Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 80.
[51] Si legga la Delibera del 3 maggio 2023 consultabile presso il sito del Consiglio Superiore della Magistratura.
[52] Si legga la Relazione introduttiva del presente disegno di legge, consultabile in https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01394143.pdf.
[53] Così il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il Dott. Santalucia, intervenuto in videoconferenza in 2a Commissione (Giustizia) sul d.d.l. S-933 (Disposizioni in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale), martedì 30 gennaio 2024. Si ascolti il suo intervento in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244677. Prima ancora anche il Prof. Gialuz, secondo cui tale proposta rappresenterebbe un passo indietro rispetto ai risultati conquistati con la l. 134/202, innestandosi sul modello statico che prevede la definizione delle priorità direttamente da parte del Parlamento, e di cui già v’è traccia nel nostro ordinamento, stante la disposizione di cui all’art. 132-bis disp. att. c.p.p, https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244509.
[54] Ancora, Marzaduri, cit.
[55] Criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale: l'audizione di UCPI, 30 gennaio 2024, https://www.camerepenali.it/cat/12286/criteri_di_priorità_nellesercizio_dellazione_penale_laudizione_di_ucpi.html.
[56] Circolare sull’organizzazione degli Uffici di Procura (Delibera del Pelunum in data 16.11.2017, così come modificata alla data del 16.6.2022), www.csm.it, p. 2.
[57] Criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale: l'audizione di UCPI, cit., p. 2.
[58] Conviene ricordare che l’art. 4 del d.d.l. S-933 intende ampliare notevolmente il catalogo della norma qui in commento inserendovi la lett. a)-quater (processi relativi ai delitti di cui agli articoli 558-bis, 583-quater, e 612-ter del codice penale).
Immagine: William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844, olio su tela, cm 91×122, National Gallery, Londra.
In tema di decreto legge 92 del 4 luglio 2024 “Carcere Sicuro” si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024, e Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario di Fabio Gianfilippi, pubblicato il 10 luglio 2024.
Osservazioni sugli interventi in materia di Liberazione anticipata e misure in materia penitenziaria di cui al Decreto legge n. 92 del 4 luglio 2024. Audizione presso la Commissione Giustizia del Senato in materia di D.L. 92 del 2024, 10 luglio 2024.
di Maria Cristina Ornano
Il Decreto legge n. 92 del 4.7.2024 introduce alcune importanti novità in materia penitenziaria, in relazione alle quali una prima lettura critica suggerisce le osservazioni di seguito esposte.
Art.1 Assunzione di personale
L’art. 1 del Decreto prevede l’assunzione di mille operatori di Polizia penitenziaria da farsi in due scaglioni di 500 unità ciascuno tra il 2025 ed il 2026. Si tratta di un intervento apprezzabile e, tuttavia, non sufficiente, né adeguato. Non sufficiente, ove si considerino le scoperture degli organici del personale di Polizia penitenziaria e i tempi effettivi dell’immissione in ruolo, che ragionevolmente non potrà avvenire per il primo scaglione prima del 2027 nonostante il previsto periodo di formazione ridotto rispetto all’ordinario, previsione, questa, che preoccupa data la delicatezza dei compiti assegnati agli operatori di Polizia Penitenziaria.
Non adeguato, perché ripropone un’idea di sicurezza del carcere affidata al solo controllo ed alla vigilanza, trascurando del tutto il profilo trattamentale: il decreto, infatti, non prevede nuove assunzioni di funzionari giuridico pedagogici, psicologi e mediatori culturali. Figure tutte indispensabili per il trattamento e la rieducazione e, con essi, per la stessa sicurezza all’interno degli istituti di pena, la quale, all’evidenza deve fondarsi, anzitutto, sull’osservanza del patto trattamentale che proprio le figure richiamate sono istituzionalmente chiamate a stimolare.
Art. 5 Interventi in materia di liberazione anticipata
Entrando nel vivo della riforma, apprendiamo dalle premesse del decreto che l’obiettivo perseguito con l’intervento riformatore è, tra gli altri, quello della semplificazione delle procedure e dell’accesso ai benefici penitenziari.
Tuttavia, l’esame dell’articolato conduce a ritenere che l’effetto che si produrrà, al netto dell’eliminazione di qualche onere procedurale di scarso impatto, sarà assai diverso: appesantimento della procedura, tempi di definizione più lunghi e un aggravio dei carichi di lavoro dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianze, mentre è facile prevedere che non ci sarà il pur auspicato ed atteso effetto di alleggerimento del sovraffollamento carcerario.
In dettaglio:
A) L’art. 5 comma 1: Obbligo di indicazione del fine pena “virtuale” nell’ordine di esecuzione
Con il comma 1 dell’art. 5 si novella l’art. 656 c.p.p. con l’introduzione del comma 10 bis, con il quale si gravano le Procure dell’obbligo di indicare nell’ordine di esecuzione, accanto al fine pena effettivo, quello figurativo o virtuale, ossia quello derivante dal calcolo delle detrazioni di pena che sarebbero applicate in caso di regolare condotta inframuraria e di partecipazione alla proposta rieducativa. A fronte di una informazione che appare di scarsa utilità pratica per i detenuti ai quali è già oggi ben chiara la possibilità di conseguire uno sconto di pena in caso di comportamento esente da rilievi disciplinari, le Procure saranno onerate di un calcolo che dovrà farsi, per così dire, manualmente, perché il sistema informatico non fa questo genere di elaborazioni, le quali possono presentare in concreto profili problematici, in caso, ad esempio, di plurimi titoli e di periodi di “presofferto”; è facile che si possa incorrere in errori e v’è il rischio che, paradossalmente, si possano ingenerare equivoci negli operatori e negli interessati.
Quindi un adempimento che finisce inutilmente col creare un nuovo onere, non irrilevante, su Procure che già oggi faticano ad emettere tempestivamente gli ordini di esecuzione, senza un reale vantaggio per alcuno.
Nulla, poi, dovrebbe essere previsto per i detenuti in espiazione dell’ergastolo, non essendo rispetto agli stessi ipotizzabile una riduzione di pena “virtuale”.
B) L’art.5 comma 2: La nuova liberazione anticipata
L’art. 5 comma 2 elimina l’obbligo di comunicazione delle liberazioni anticipate concesse d’ufficio. La previsione, volta a sgravare le Sorveglianze di un adempimento di cancelleria, pone due ordini di problemi. Anzitutto, non considera che in tal modo le Procure non sono poste in condizioni di conoscere il provvedimento concessorio e di esercitare tempestivamente la facoltà di reclamo, che non è stata abrogata. Ove confermata in questi termini, la disposizione presenta profili critici, anche di legittimità costituzionale. In secondo luogo, essa pare in insanabile contrasto con la previsione di cui al comma 4 del nuovo art. 69 bis O.P. a mente del quale: “Il provvedimento che concede o nega il riconoscimento del beneficio… è comunicato o notificato senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 del codice di procedura penale…”.
Si tratta di una evidente contraddizione che si auspica venga emendata in sede di conversione.
C) L’art. 5 commi 3 e ss.: la nuova procedura di Liberazione anticipata
La nuova disciplina della Liberazione anticipata presenta molteplici profili problematici sia sul piano tecnico giuridico, sia della semplificazione dell’accesso ai benefici che la riforma afferma di voler realizzare.
La disciplina antecedente alla riforma prevedeva una procedura che attivabile solo su istanza di parte fin dal maturare del primo semestre utile. Un meccanismo siffatto ha diversi vantaggi:
-per il detenuto, il quale ha modo di veder concretamente maturare le detrazioni di pena da scontare nel progredire del suo percorso detentivo e, nel contempo, di comprendere, in caso di rigetto, come deve modificare il suo comportamento se vuole accedere al beneficio.
La liberazione anticipata, infatti, non è finalizzata solo alla determinazione della pena finale da scontare in funzione della scarcerazione definitiva o della maturazione del quantum di pena per l’accesso a certi benefici ove richiesto, ma da un lato, come chiarito dalla Corte costituzionale, assolve anche alla finalità della rieducazione, dall’altra favorisce l’osservanza di comportamenti inframurari corretti; essa rassicura il detenuto perché gli fornisce una prospettiva concreta e periodicamente aggiornata rispetto al suo fine pena, e, in tal modo aiuta a stemperare le tensioni che la carcerazione produce; ciò che giova anche alla sicurezza ed alla qualità della vita all’interno degli istituti di pena.
- Per gli uffici la progressiva e tempestiva maturazione delle liberazioni anticipate, semplifica la loro gestione e assicura la determinazione di un fine pena certo, utile non solo ai fini di evitare ritardi nelle scarcerazioni, ma anche ai fini della decisione dell’istanza di misura alternativa o altri benefici premiali.
I problemi attuali della gestione delle Liberazioni anticipate sono legati al numero dei procedimenti pendenti, oggi elevatissimo, e alla dilatazione dei tempi dell’istruttoria quando il detenuto attende periodi lunghi per richiedere la Liberazione anticipata. Il cumulo dei semestri, infatti, complica molto e allunga l’istruttoria per la necessità di chiedere a tanti istituti di pena le relazioni comportamentali e gli atti relativi ai procedimenti disciplinari necessari per la decisione; questi atti non sono disponibili nelle banche dati accessibili al Magistrato, che ha a sua disposizione il solo elenco delle sanzioni disciplinari inflitte, ma devono essere richieste a ciascun carcere, perché ciascun istituto ha gli atti relativi ai periodi che il detenuto ha trascorso in esso, ma non anche quelli delle altre carceri.
Il problema attuale della gestione è però la conseguenza del numero ridotto dei Magistrati di Sorveglianza dovuto al sottodimensionamento degli organici e della cronica carenza di personale nei Tribunali e Uffici di Sorveglianza, costantemente scoperti e financo esclusi dalle risorse del P.n.r.r. per la Giustizia.
Il decreto legge innova profondamente l’impianto procedurale, prevedendo come ipotesi ordinaria la concessione della Liberazione anticipata ex officio, ma collegata a predeterminati snodi processuali (istanza di misura alternativa o di altro beneficio e scarcerazione definitiva), e su istanza di parte solo residualmente, in presenza di uno specifico interesse che il detenuto dovrà allegare ai fini dell’ammissibilità dell’istanza.
La prima ipotesi di concessione ex officio (medio tempore) è delineata al comma 1 del nuovo 69 bis O.P.) il quale prevede che, allorquando sia formulata richiesta di misura alternativa o di altro beneficio, il Magistrato accerta la sussistenza dei presupposti per la liberazione anticipata in relazione ad ogni semestre antecedente, ove rilevante.
In questo caso l’istanza può essere presentata solo a decorrere dal termine di novanta giorni antecedenti al maturare dei presupposti per l’accesso alla misura alternativa alla detenzione o altri benefici premiali, termine individuato applicando “virtualmente” le detrazioni di pena di cui il detenuto beneficerebbe ove gli venissero concesse le detrazioni di pena relative ai semestri di pena fino a quel momento espiata.
La seconda ipotesi di concessione ex officio (finale) è quella prevista al comma 2 del nuovo art. 69 bis O.P., il quale prevede che il Magistrato nei novanta giorni antecedenti al fine pena virtuale (ossia determinato considerando le possibili detrazioni in caso di concessione della liberazione anticipata relativa ai semestri non ancora valutati), accerta la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione anticipata, e ciò all’evidenza in funzione di stabilire se sia maturato il tempo della scarcerazione definitiva.
La terza ipotesi (su istanza) è meramente residuale. L’interessato, infatti, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 69 bis O.P. potrà richiedere la concessione di L.A. solo quando vi abbia uno specifico interesse, diverso dai casi in cui il magistrato deve accertare la L.A. d’ufficio, pena l’inammissibilità.
In tal modo, tuttavia, collegando l’accertamento della Liberazione anticipata ad alcuni predeterminati momenti processuali, si crea proprio quell’effetto di cumulo di semestri da valutare che allunga e complica i tempi di istruttoria. Non potendo il detenuto formulare l’istanza se non in casi del tutto residuali e, peraltro, di difficile individuazione, ed essendo il Magistrato tenuto a fare l’accertamento solo in alcuni momenti processuali, questi, di regola, si troverà ad accertare la Liberazione anticipata in relazione a molti semestri e, quindi, la relativa istruttoria sarà di regola sempre complessa e richiederà tempi lunghi.
La circostanza che nell’ipotesi di accertamento medio tempore o incidentale, ossia connesso alla richiesta di misura alternativa o di un beneficio, incomba sul Direttore dell’istituto nel quale il detenuto richiedente è ristretto, l’onere di trasmettere gli atti istruttori, ciò non vale certo a sveltire l’istruttoria; il Direttore, infatti, ha le sole relazioni e gli atti disciplinari relativi ai periodi trascorsi dal detenuto nel suo istituto, ma non anche quelli relativi alla condotta inframuraria dei periodi trascorsi nelle altre carceri e, perciò, dovrà mandare la richiesta di informazione e trasmissione degli atti agli altri istituti e poi fornirli al Magistrato. E poiché il trasferimento del detenuto nel corso della sua carcerazione in diversi istituti è situazione assai frequente, ben si comprende come più numerosi sono i semestri da valutare, più si complica l’istruttoria e si allunga il tempo di definizione del procedimento.
E, analogamente, ciò accadrà quando il Magistrato dovrà procedere d’ufficio nel caso del comma 2 art. 69 bis O.P., ossia in funzione della scarcerazione definitiva, ovvero, quando deve decidere sull’ istanza dell’interessato nell’ipotesi residuale sopra delineata.
Ma v’è di più. La nuova disciplina delineata al comma 1 dell’art. 69 bis O.P. (medio tempore) non solo finisce col dilatare i tempi di istruttoria della Liberazione anticipata, ma incide, aggravandola, sull’istruttoria della misura alternativa o sulla concessione di un beneficio penitenziario. Tali procedimenti, infatti, prima della riforma erano del tutto autonomi dalla liberazione anticipata, in virtù del fatto che il detenuto poteva formulare periodicamente, parallelamente al progredire del suo percorso detentivo, la richiesta di concessione del beneficio, sicché il fine pena era generalmente aggiornato al dato effettivo risultante dalle detrazioni per le L.A. effettivamente concesse. E, in casi in cui al momento di valutazione di una misura alternativa o di un beneficio penitenziario vi fossero istanze di liberazione anticipata pendenti il cui esito fosse rilevante ai fini della determinazione del quantum di pena, nulla vietava all’interessato di segnalarlo all’ufficio ed a quest’ultimo di trattare l’istanza con priorità.
La riforma collega ora l’accertamento ex officio “medio tempore” alla istanza di misura alternativa o di beneficio; nel caso in cui la competenza sulla richiesta di misura alternativa sia del Tribunale di Sorveglianza, l’accertamento della L.A. resta tuttavia del magistrato; comunque si voglia costruire questa sequenza procedimentale (bifasica/incidentale/autonoma), vi sarà comunque la necessità di iscrivere un nuovo procedimento monocratico, all’ esaurimento del quale potrà essere decisa la misura alternativa. E poiché questo rappresenta la regola, tale sequenza “bifasica” sarà l’ipotesi più frequente, con conseguente ulteriore aggravio della procedura.
Problematica appare poi la nuova Liberazione anticipata in caso di procedure di misura alternativa di competenza del Magistrato di Sorveglianza, ossia in caso di esecuzione della pena presso il domicilio di cui alla legge n. 199/2010 per soggetti detenuti che debbano espiare pene inferiori ai diciotto mesi e in caso di richiesta di applicazione in via provvisoria della misura alternativa. Orbene, non è chiaro se in questi casi il Magistrato , investito della richiesta, debba preventivamente accertare la Liberazione anticipata rilevante; in caso affermativo, ci si troverebbe dinanzi ad una contraddizione del sistema, trattandosi di procedure nate per essere concesse con rapidità e, nel caso della provvisoria, sul presupposto dell’urgenza, situazioni entrambe non compatibili con l’ appesantimento e le lungaggini che possono scaturire dall’istruttoria per la valutazione della nuova Liberazione anticipata.
Si può, quindi, con ragione concludere che la nuova disciplina delineata al comma 1 dell’art. 69 bis O.P., ossia quella che interviene medio tempore, non solo finisce col dilatare i tempi di istruttoria della Liberazione anticipata, ma incide, aggravandola, sull’ istruttoria della misura alternativa o sulla concessione di un beneficio penitenziario, giacché la decisione sull’istanza di misura alternativa o su altro beneficio richiede il preventivo accertamento, ove rilevante, di una liberazione anticipata con una istruttoria ora di regola più complessa del passato, quando il fine pena era generalmente aggiornato al dato effettivo risultante dalle detrazioni per le L.A. effettivamente concesse.
V’è, inoltre, il rischio di accertamenti sulla Liberazione anticipata che si traducono in un inutile istruttoria della procedura per la concessione di misure alternative ed altri benefici, perché con la riforma, mancando il costante aggiornamento del fine pena “reale”, l’istanza potrà essere formulata anche da soggetti i quali, pur non avendo ancora raggiunto il quantum di pena effettiva, alleghino tuttavia che con gli sconti di pena della Liberazione anticipata avrebbero il requisito temporale : salvo poi scoprire ad esito di una laboriosa istruttoria che la Liberazione anticipata non può essere concessa per uno o più semestri e che l’istanza di misura alternativa o di altri benefici, alla cui istruttoria si è doverosamente dato corso, è inammissibile. Istruttorie inutili, quindi, che appesantiscono senza motivo i carichi di lavoro delle Sorveglianze.
La seconda ipotesi di concessione ex officio (finale) presenta profili di grave criticità, specie alle luce delle condizioni in cui versano i Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza e desta grande preoccupazione in quanto il meccanismo messo in atto potrebbe addirittura favorire ritardate scarcerazioni.
Il comma 2 dell’art. 69 bis O.P. statuisce che entro novanta giorni dalla scadenza del fine pena “virtuale” (ossia quello figurato derivante dall’astratta detrazione dei periodi di liberazione anticipata non ancora valutati), il Magistrato deve valutare i presupposti per la concessione della Liberazione anticipata in relazione ai semestri non ancora valutati.
Si pone qui un problema analogo a quello posto dall’altra ipotesi di accertamento d’ufficio (medio tempore)di cui al comma 1 dell’art. 69 bis O.p., ossia che, essendo ora la Liberazione anticipata d’ufficio concentrata in due soli snodi processuali, si crea quell’effetto di cumulo dei semestri in valutazione che renderà difficilmente osservabile il termine dei novanta giorni per l’espletamento dell’attività istruttoria e la concessione in tempo utile ad evitare scarcerazioni fuori termine.
Ma soprattutto la norma ragiona come se il sistema informatico a disposizione del Magistrato fosse strutturato per tenere uno scadenziario che consenta di monitorare e aggiornare per ogni detenuto il suo fine pena virtuale: ciò che non è, sicché lo scadenziario andrebbe redatto attraverso un laboriosissimo calcolo manuale per ogni persona detenuta.
Si tratta di un adempimento che i Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza non sono in grado di sostenere con le risorse attuali.
V’è poi il serissimo rischio di ritardi legati all’istruttoria, ritardi legati ad un’organizzazione dell’esecuzione penale che sconta una scarsissima informatizzazione (si pensi che i registri informatici a distanza di oltre un anno e mezzo dall’entrata in vigore della riforma Cartabia non sono aggiornati per l’annotazione delle pene sostitutive, non esiste fascicolo informatico e il processo è ancora tutto cartaceo) e carenze croniche di personale.
Il nuovo sistema costruisce un meccanismo farraginoso, che rischia di essere confusivo e di ingenerare incertezza su un punto su cui occorre certezza e che occorre costantemente monitorare: ossia l’effettivo ed aggiornato fine pena, in assenza del quale il rischio di ritardi nelle scarcerazioni è elevatissimo.
L’ ipotesi residuale, ossia su istanza di parte di cui al comma 3 dell’art. 69 bis O.P., sanziona a pena di inammissibilità la richiesta di concessione di Liberazione anticipata non motivata da uno specifico interesse. È difficile immaginare quale interesse diverso da quelli sottesi alla procedura ex officio possano configurarsi, sicché l’ipotesi è realmente residuale.
Nondimeno, è ragionevole prevedere che essa darà luogo a molte inammissibilità, perché i detenuti possono comunque presentare la richiesta di un beneficio, salvo poi vedersela dichiarare inammissibile.
Già oggi le ipotesi di inammissibilità rappresentano una parte non insignificante delle procedure iscritte e costituiscono un costo “secco” per tutto il sistema : per il detenuto che vede frustrata la sua aspettativa, per i Tribunali e gli uffici che devono comunque iscrivere, inviare per il parere al Procuratore generale, fare il decreto di inammissibilità e poi notificarlo alle parti; per le difese, alle quali in caso di ammissione al Patrocinio a spese dello Stato ove il procedimento si definisca con la declaratoria di inammissibilità non possono essere liquidati i compensi.
Il sistema delineato dalla riforma appare nel complesso fortemente peggiorativo del preesistente, non solo per gli uffici, come si è più sopra cercato di illustrare, ma anche per la persona detenuta.
Ed invero, chiunque abbia conoscenza del carcere, sa quanto sia importante per le persone detenute poter vedere la loro pena concretamente ed effettivamente ridursi per effetto del riconoscimento delle liberazioni anticipate in parallelo al progredire della loro detenzione.
Dà loro una prospettiva e alimenta una speranza di una vita futura fuori dal circuito penitenziario, aiuta a stemperare la tensione che l’ambiente carcerario inevitabilmente crea, favorisce l’adesione alla proposta rieducativa, inducendo a tenere un comportamento inframurario corretto e rispettoso delle persone e delle regole, pena la perdita del beneficio della decurtazione della pena.
Questo vale anche per coloro che devono scontare pene molto lunghe o addirittura l’ergastolo ed anzi, a maggior ragione, perché si tratta di detenuti che per molto tempo non possono adire ad altri benefici che non sia la liberazione anticipata.
Lo strumento della liberazione anticipata vigente prima del D.L.4.7.2024, ha assolto anche ad un’altra fondamentale funzione, ossia quella di contribuire al mantenimento dell’ordine e della sicurezza negli istituti di pena.
Il sistema delineato dalla riforma, ancorando la concessione del beneficio a determinati momenti processuali, priva le persone detenute della possibilità di conseguire la riduzione della pena cui possono ambire in concomitanza col maturare dei semestri, rinviando l’accertamento al maturare dei requisiti per accedere a misure alternative o a benefici, ovvero all’approssimarsi di un fine pena virtuale. E, accanto a ciò, si aumenta il rischio di incorrere in istanze inammissibili.
È facile prevedere che tutto ciò si tradurrà in un sentimento di diffusa frustrazione e di disillusione, che facilmente tracima nella tensione che alimenta la violenza dentro il carcere, della quale a farne le spese saranno gli stessi detenuti e le persone che in carcere lavorano, ad iniziare dagli operatori di Polizia penitenziaria.
Infine, è da segnalare che manca una disciplina transitoria e, stante la natura “mista” dell’istituto in parola, ciò genera (e in concreto sta già determinando) una grave incertezza sulle questioni di diritto intertemporale. Si tratta di una vistosa lacuna normativa che dovrà essere colmata in sede di conversione.
In conclusione, il sistema delineato dalla riforma, al netto dell’unico snellimento procedurale derivante dalla soppressione della previsione del parere obbligatorio del Pubblico ministero, appare sotto ogni aspetto peggiorativo del regime preesistente : penalizza i detenuti e su essi e sulla sicurezza nelle carceri rischia di avere un impatto molto negativo, dilata i tempi delle procedure istruttorie, onera gli uffici della necessità di adempimenti non sostenibili, non semplifica le procedure, non alleggerisce i carichi di lavoro delle Sorveglianze. E, soprattutto, aggrava esponenzialmente il rischio di ritardi nelle scarcerazioni.
In questo quadro, infine, appare davvero difficile che la nuova disciplina possa produrre l’effetto da tante parti auspicato di ridurre il tasso di sovraffollamento carcerario e v’è anzi il rischio che l’effetto finale prodotto dalla nuova disciplina sia quello di rendere più difficile la fuoriuscita dal circuito penitenziario.
C) L’art. 6: Interventi in materia di corrispondenza telefonica
È apprezzabile la previsione di una implementazione del numero dei colloqui telefonici e settimanali con l’equiparazione della relativa disciplina a quella di cui all’art. 37 D.P.R. n.230/2000. Tuttavia, a fronte della previsione dell’incremento, che sarà comunque futuro e condizionato all’adozione di un apposito regolamento, è indispensabile garantire l’effettività della previsione, la quale è tutt’altro che scontata, tenendo presente che già oggi la fruizione dei colloqui telefonici è penalizzata da una disciplina che impone un lavoro aggiuntivo al personale di Polizia penitenziaria per l’accompagnamento alle sale e la vigilanza; oggi la scarsità di personale rende sempre più difficile assicurare la fruizione dei colloqui telefonici nella misura prevista dalla disciplina vigente e costringe in molti casi a contenere la concessione dei colloqui aggiuntivi previsti dall’art. 39 comma 2 R.E..
Va poi segnalato che molti istituti hanno problemi di connessione e questo penalizza la concreta possibilità di svolgere i colloqui in modalità audiovisiva.
Occorrerebbe in questa materia adottare un deciso cambio di passo. La recente sentenza n.10/2024 della Corte Costituzionale, la quale ha riconosciuto come diritto fondamentale del detenuto quello all’affettività, fornisce una autorevole base per avviare una profonda rivisitazione del sistema dei colloqui, che consenta ai detenuti, con le debite esclusioni, di poter fruire di apparecchi telefonici nelle camere detentive, così da consentire di coltivare quotidianamente la relazione affettiva con i prossimi congiunti e umanizzare la carcerazione. Si tratta di esperienza già ampiamente e positivamente collaudate in altre realtà che, pure, non riservano ai loro detenuti un trattamento meno severo del nostro.
Tale soluzione porrebbe anche fine al traffico di telefonini all’interno del carcere, apparecchi detenuti abusivamente e non controllati e, questi sì, suscettibili di essere impiegati per traffici illeciti.
D) L’art. 8. Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti
La previsione di elenchi delle comunità terapeutiche e riabilitative per soggetti con dipendenze e soggetti affetti da patologie psichiatriche articolati in sezioni regionali ed il loro monitoraggio è previsione apprezzabile nella logica di una informazione aggiornata sulle risorse presenti sul territorio, come positiva è la previsione di strutture da destinare all’accoglienza di soggetti in condizione di indigenza.
Si tratta, però, di una previsione avente scarsa ricaduta pratica nella gestione dei detenuti tossicodipendenti e di quelli affetti da patologie psichiatriche, soggetti che costituiscono una parte cospicua della nostra popolazione carceraria.
I problemi che quotidianamente la Magistratura di Sorveglianza si trova ad affrontare, prima ancora della carenza delle strutture residenziali, è la mancanza di servizi all’interno del carcere, dal Ser.D al C.S.M., e la mancanza di rete tra la sanità penitenziaria ed il territorio, situazioni che rendono difficile e per alcuni detenuti impossibile la presa in carico, la strutturazione del PRTI ( programma riabilitativo terapeutico individualizzato) e la maturazione di adeguata compliance rispetto ad una offerta terapeutica che contempli l’inserimento comunitario.
Assenti in molte Regioni sono poi le A.T.S.M. - Articolazioni di tutela della salute mentale- destinate alla presa in carico di detenuti che manifestino in carcere gravi patologie psichiatriche ed all’osservazione psichiatrica, di talché i detenuti affetti da patologie psichiatriche anche quando in fase di acuzie, devono essere gestiti nelle sezioni ordinarie con un’offerta terapeutica che, quanto alla psichiatria, è sempre più scarsa, mentre pressoché assente è quella psicoterapeutica e socioassistenziale, le quali, invece, sono indispensabili per costruire dei percorsi di cura alternativi al carcere.
L’elenco delle strutture, pertanto, non risolve alcuno dei problemi esistenti e non servirà in concreto per favorire l’uscita dal circuito penitenziario di detenuti tossicodipendenti e affetti da patologie psichiatriche.
E) L’art. 7. L’esclusione dei detenuti in regime di 41 bis dai programmi di giustizia riparativa
Scarsamente comprensibile appare la ragione per la quale l’art. 7 del D.l. 92/2024 abbia inteso precludere ai soggetti ristretti in regime di cui all’art. 41 bis O.P. l’accesso ai programmi si giustizia riparativa; appare un divieto irragionevole, posto che si preclude una opportunità trattamentale che appare estremamente utile proprio per questa categoria di soggetti, per la cui rieducazione occorre fare un profondo lavoro di stimolo alla riflessione e all’introspezione per favorire processi di revisione critica, quali anche i programmi di giustizia riparativa possono favorire.
Per la sua irragionevolezza la norma presenta profili di criticità costituzionale, sicché è auspicabile che l’esclusione sia eliminata in sede di conversione
F) L’art. 10. La riforma in materia di procedure semplificate
La riforma è apprezzabile, realizzando per questo tipo di procedura l’auspicata semplificazione e snellimento.
Va comunque segnalato che queste procedure riguardano esclusivamente i condannati liberi e non i detenuti, sui quali quindi la novità introdotta non ha alcun effetto. La mancanza di norme di diritto transitorio porrà anche in questo caso problemi interpretativi, con il rischio di orientamenti difformi tra gli uffici.
Proposte di emendamenti e integrazioni
A) Sulla liberazione anticipata
1) L’idea di fondo della riforma, ossia di una liberazione anticipata concessa d’ufficio, appare senz’altro apprezzabile e andrebbe confermata, ma con alcuni importanti aggiustamenti della disciplina.
A) Una prima ipotesi potrebbe essere quella di prevedere che in caso di regolare condotta inframuraria al maturare di uno o più semestri (auspicabilmente non oltre i due), il Direttore dell’istituto trasmetta al Magistrato di Sorveglianza la relazione comportamentale positiva (ossia che attesti l’assenza di condotte di rilievo disciplinare), a seguito della quale l’Ufficio giudiziario provvede con immediatezza concedendo il beneficio.
Si dovrebbe a questo punto riservare all’istanza di parte solo l’accertamento dei semestri non concessi, eventualmente collegando la proposizione della istanza all’indicazione di un interesse specifico; in questi casi il detenuto, che conosce i fatti di rilievo disciplinare che sono stati di ostacolo al riconoscimento del beneficio, valuterà l’opportunità di fare richiesta di L.A. anche per tali semestri; è probabile che in molti casi lo stesso detenuto rinunci, consapevole che il beneficio non sarà concesso a cagione del comportamento gravemente irregolare tenuto.
B) Una ipotesi alternativa potrebbe essere quella per cui, mantenendo fermo il regime ex officio previsto dalla riforma, si reintroduca la Liberazione anticipata su istanza di parte, senza preclusioni; il doppio regime consentirebbe di recuperare i vantaggi del sistema previgente (fine pena reale costantemente aggiornato grazie alle richieste di parte e semplificazione della procedura) e avrebbe in più la garanzia della sua applicazione quando, per i più diversi motivi, l’interessato, pur meritevole, non abbia richiesto l’applicazione del beneficio.
In tutti i casi, occorre essere consapevoli che qualunque sia la scelta in sede di conversione, in mancanza di implementazione del personale addetto alle liberazioni anticipate, l’arretrato già cospicuo si aggraverà, con tutte le conseguenze illustrate del rischio di scarcerazioni tardive.
Sarebbe sufficiente assegnare agli Uffici qualche unità aggiuntiva del personale di Polizia Penitenziaria, magari attingendo dal personale femminile del corpo che non può essere impiegato nelle sezioni maschili, per consentire agli uffici di abbattere l’arretrato e lavorare sul corrente.
In alternativa, occorrerebbe in via d’urgenza disporre l’obbligo di applicazione di personale dell’amministrazione giudiziaria da altri uffici i quali in questi anni si sono giovati, a differenza delle Sorveglianze, degli addetti all’Ufficio per il Processo.
2) Comunicazioni delle Liberazioni anticipate concesse
Occorre eliminare la contraddizione presente nel testo, prevedendo che anche le L.A. concesse ex officiovadano comunicate, specie alle Procure, ciò sia ai fini dell’eventuale reclamo, sia soprattutto, ai fini dell’aggiornamento del fine pena.
3) Disciplina transitoria
Manca del tutto una previsione sul regime intertemporale, la quale è, invece, indispensabile, pena il caos negli uffici e difformità di orientamenti tra gli uffici nell’interpretazione del regime applicabile, tenendo presente delle centinaia di migliaia di istanze tuttora pendenti.
4) Sulle strutture terapeutiche
È indispensabile prevedere l’obbligatoria costituzione dentro gli istituti penitenziari di adeguati presidi sanitari per i tossicodipendenti e i malati psichiatrici, quali il Ser.D e il C.S.M. con la previsione del necessario raccordo con il territorio, indispensabile per la costruzione di programmi terapeutico riabilitativi credibili e sostenibili dal detenuto.
5) Sul 41 bis O.P.
Occorrerebbe eliminare l’esclusione dei soggetti detenuti in regime di cui all’art. 41 bis O.P. dai programmi di giustizia riparativa, così evitando il rischio di recepire una norma di dubbia legittimità costituzionale.
Proposte integrative finalizzate a favorire l’alleggerimento del sovraffollamento carcerario
L’intervento riformatore sulla liberazione anticipata non avrà e non potrà favorire l’alleggerimento del sovraffollamento carcerario, ma, al contrario, potrebbe finire col rallentare la uscita dal circuito penitenziario anche da parte di chi abbia espiato la sua pena.
Un intervento semplice e che potrebbe introdursi in sede di conversione è quello che preveda l’elevazione del limite di pena entro il quale è possibile concedere la detenzione domiciliare ordinaria, portandolo dai due anni attuali ai quattro anni.
Ciò consentirebbe di ampliare la platea dei soggetti detenuti che potrebbero ambire alla misura alternativa alla detenzione, peraltro in una situazione di maggior sicurezza perché sottoposti a più stringenti limitazioni e controlli, ed ai quali potrebbe anche, nei casi necessari, applicare anche speciali modalità di controllo con il cosiddetto “braccialetto elettronico”.
La procedura per la concessione della detenzione domiciliare è, peraltro, più rapida e semplice di quella volta alla concessione dell’affidamento in prova, sicché un tale riforma potrebbe avere un effetto immediato sul sovraffollamento carcerario.
I dubbi di legittimità costituzionale di una tale soluzione non paiono fondati, maggiormente dopo l’entrata in vigore della nuova penalità introdotta con la riforma Cartabi.
Quest’ultima, infatti, ha previsto la possibilità, ad esito del giudizio, della concessione della detenzione domiciliare sostitutiva quando la pena irrogata sia inferiore ai quattro anni. Omologare il limite di pena anche per la corrispondete misura alternativa non solo servirebbe a restituire razionalità al sistema, ma lo renderebbe più equo consentendo a tutti quei soggetti che per la loro pericolosità sociale o per la mancanza di un valido programma non possono ambire alla misura alternativa, di adire alla più rigorosa misura alternativa della detenzione domiciliare, magari con la previsione di poter dopo la metà della pena espiata in D.D. fare istanza di misura alternativa.
Un meccanismo così congegnato consentirebbe anche un più penetrante monitoraggio del detenuto domiciliare e di testarne l’affidabilità in funzione dell’ammissione a misure più ampie secondo un criterio di gradualità o, viceversa, di constatarne l’inaffidabilità.
Gli interventi della Corte costituzionale sulla detenzione domiciliare non ostano ad una eventuale modifica normativa ove rivolta, come qui si propone, ad ampliare la platea degli aspiranti alla misura quale alternativa alla detenzione in carcere e ad una riscrittura della stessa nel nuovo quadro delineato dalla riforma Cartabia.
Immagine: Interior View of the Main Hall of Prison, East Side, which is 6 Stories High, and Contains 600 Cells, 1860/69. Albumen print, stereocard, no. 4318 from the series " Sing Sing Prison Views".
Sul rapporto tra magistratura e i social network si veda anche Limiti alla comunicazione social extraistituzionale del magistrato ordinario di Luigi Salvato e I magistrati nell’era dei social tra libertà di espressione ed esigenze d’imparzialità di Francesco Dal Canto.
Social network, libertà di espressione e lavoro[1]
di Patrizia Tullini
Sommario: 1. Premessa – 2. L’uso dei social network nel lavoro privato, il diritto di critica e la logica precauzionale. – 3. Social e lavoro pubblico: dal Codice di comportamento del dipendente pubblico alla Social media policy. – 4. La prospettiva deontologica per il lavoro pubblico non privatizzato.
1. Premessa.
La prospettiva del giurista del lavoro considera l’uso dei canali di comunicazione social da parte dei lavoratori e la circolazione delle informazioni tramite web alla luce dell’assetto normativo e della strumentazione giuridica che, sebbene in termini tutt’altro che sistematici e strutturati, ormai da tempo tenta d’individuare un punto di equilibrio e di mediazione tra i molteplici interessi in potenziale conflitto.
Il quadro normativo, infatti, deve fare i conti con un delicato bilanciamento fra diritti fondamentali e fra interessi meritevoli di tutela: si confrontano, da un lato, i diritti individuali alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, alla difesa della vita privata, alla tutela dell’identità personale e professionale; dall’altro lato, i diritti all’esplicazione della personalità e alla libera manifestazione del pensiero, incluso il diritto di critica, attraverso tutti i mezzi tecnologici disponibili. Al contempo, rilevano il potente diritto alla trasparenza e quello all’informazione (nel duplice versante dell’interesse a informare e ad essere informati), che trova nella rete Internet il proprio mezzo e il proprio fine ([2]). E, non da ultimo, i legittimi interessi delle organizzazioni pubbliche e private alla tutela del prestigio e della propria immagine, alla garanzia di riserbo da parte del dipendente sulle notizie apprese nell’ambiente lavorativo o per ragioni di servizio.
Questa complessa operazione di bilanciamento – che deve svolgersi «in ossequio al criterio di proporzionalità» (Considerando 4, GDPR) – si atteggia in forme e modi differenti nell’ambito del lavoro privato e in quello pubblico, nonché nell’area più articolata del lavoro pubblico c.d. non privatizzato (che forse è quella più vicina alla magistratura).
Dunque, sebbene l’habitat tecnologico risulti pressoché identico e l’uso di mezzi di comunicazione digitale presenti problematiche comuni nel mondo del lavoro, occorre tuttavia introdurre qualche essenziale distinguo.
2. L’uso dei social network nel lavoro privato, il diritto di critica e la logica precauzionale.
Nel settore privato, l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori sancisce il diritto alla libera manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro «nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge». Si ribadisce così la copertura costituzionale del diritto fondamentale di libertà, ma si stabiliscono anche dei limiti rintracciabili nella disciplina ordinaria.
E, fra questi ultimi, entra in gioco una norma codicistica (art. 2105 c.c.) che prevede l’obbligo di fedeltà derivante dalla condizione di subordinazione giuridica: un obbligo interpretato dalla giurisprudenza in termini abbastanza ampi, così da individuare alcune limitazioni rispetto all’esercizio del diritto di critica da parte del dipendente ([3]). Applicando i criteri giuridici già estrapolati dalla giurisprudenza penale in relazione alla critica giornalistica (spec. oggettività, continenza formale e sostanziale), s’intendono tutelare l’onore della persona del datore di lavoro, oltre che l’immagine e la reputazione commerciale dell’impresa.
Si tratta peraltro di limiti elaborati per i media tradizionali, mentre i social network rappresentano canali di comunicazione soggettiva, raramente oggettiva, se non addirittura di natura emotiva. La comunicazione digitale rimbalza e si ricondiziona con altri mezzi di circolazione delle informazioni in uno scambio reciproco, privo di un reale controllo. Il flusso continuo dei dati attraverso la pluralità dei canali web accresce in modo esponenziale la fruibilità pubblica delle informazioni e il rischio di una loro appropriazione da parte di altri, tenuto conto della difficoltà di verificare le operazioni di trattamento che si svolgono nello spazio della rete e di applicare i criteri di regolazione già fissati dal GDPR.
Ciò suggerisce di valorizzare soprattutto la logica precauzionale, che si esprime attraverso l’adozione di accorgimenti preventivi e di dispositivi tecnologici in grado d’impedire o ridurre l’acquisizione e l’utilizzo incontrollato delle informazioni immesse in rete (ad es., filtri e restrizioni all’accesso a pagine web personali). In forza d’un criterio di auto-responsabilità, il titolare delle informazioni può esprimere il proprio potere di autodeterminazione e manifestare liberamente le proprie opinioni consegnandole alla rete ma, al contempo, assume l’impegno di minimizzare il rischio della loro estrazione da parte di altri e di un utilizzo improprio o abusivo.
A questa logica di carattere precauzionale aderisce la giurisprudenza sovranazionale ([4]), nonché quella interna che ammette il diritto del lavoratore di esprimere di commenti ed espressioni critiche nei confronti del datore di lavoro purché siano applicate specifiche cautele per evitare la loro circolazione incontrollata (ad es., mailing list chiusa, newsgroup e chat riservate). In tal modo, si equipara la comunicazione telematica “chiusa” alla corrispondenza privata, che ha una piena tutela costituzionale (e penale).
In verità il carattere “chiuso” può circoscrivere o restringere la platea dei destinatari delle informazioni ma non riesce a privatizzare davvero il profilo social: tuttavia, in questa ipotesi, si ritiene operante una (sorta di) presunzione di riservatezza della comunicazione digitale. Si ritiene, cioè, che sussista un (implicito) interesse «contrario alla divulgazione anche colposa» dell’informazione o della critica, che consente di esonerare il lavoratore dalla propria responsabilità disciplinare escludendo l’elemento soggettivo della condotta ([5]).
3. Social e lavoro pubblico: dal Codice di comportamento del dipendente pubblico alla Social media policy.
Se si considera l’ambito del lavoro pubblico, la questione appare ancora più complessa, tenuto conto che nell’operazione di bilanciamento fra posizioni giuridiche in conflitto entrano anche i principi costituzionali relativi all’attività della Pubblica Amministrazione (legalità, correttezza, imparzialità, buon andamento, cura dell’interesse generale) e, quanto al lavoro pubblico non privatizzato, si aggiungono altri valori fondamentali che riconoscono e tutelano la funzione o il ruolo istituzionale ricoperto (così, ad es., per la magistratura, per i professori universitari).
Un indizio di tale complessità si può forse ravvisare nel gioco di rinvii tra una pluralità di livelli normativi, ai quali è affidato il compito di definire in modo appropriato il punto di bilanciamento in considerazione delle peculiari caratteristiche delle organizzazioni pubbliche.
Nel settore pubblico privatizzato, il TU n. 165/2001 (cfr. art. 54, mod. ex d.l. n. 36/2022, conv. in l. n. 79/2022) ha previsto l’adozione di un Codice di comportamento del dipendente che sostanzialmente integra le previsioni del Codice disciplinare, con un (primo) rinvio all’autoregolamentazione delle singole Amministrazioni per la necessaria integrazione e per la tipizzazione di condotte specifiche (co. 5). Il Codice di comportamento deve obbligatoriamente contenere una sezione dedicata al «corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media … anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione» (co. 1-bis).
Di recente il regolamento di attuazione del TU n. 165/2001 che ha introdotto il “modello” del Codice di comportamento ha aggiunto alcune disposizioni relative all’impiego delle tecnologie digitali per fini istituzionali e all’uso dei canali web da parte del dipendente pubblico (cfr. artt. 11-bis e 11-ter, DpR n. 62/2013, mod. con DpR n. 81/2023). Si tratta di norme ispirate alla logica di tipo precauzionale e al dovere di riservatezza sulla funzione o sull’attività dell’ufficio, con l’intento principale di evitare che opinioni e giudizi personali possano essere attribuiti, o comunque riconducibili, all’amministrazione di appartenenza.
Ma è ovvio che il ruolo istituzionale del dipendente pubblico non si dismette con facilità, tramite una mera clausola di disclaimer posta in calce al messaggio veicolato dalla rete.
In verità, nel dettato regolamentare manca l’individuazione di misure o di cautele concrete e determinate, salva la previsione dell’obbligo di astenersi da espressioni diffuse via web che possano risultare potenzialmente lesive dell’immagine, del prestigio e del decoro dell’amministrazione. Per ovviare alla genericità, il DpR n. 62/2013 ha consentito, tramite un ulteriore rinvio ai singoli codici di comportamento degli enti pubblici, di adottare (in questo caso, in via facoltativa) una social media policy – sul modello del settore privato – per regolare l’interazione del dipendente con le differenti piattaforme digitali e definire le modalità d’uso non corrette (e sanzionabili).
Al riguardo, sono state dettate solo due linee-guida per l’integrazione dei codici di comportamento: individuare le condotte del dipendente pubblico che siano suscettibili di «danneggiare la reputazione delle amministrazioni» e graduare le stesse condotte «in base al livello gerarchico e di responsabilità del dipendente» (cfr. art. 11-ter, co. 4).
4. La prospettiva deontologica per il lavoro pubblico non privatizzato.
Sebbene le basi normative comuni possano suggerire identiche conclusioni per tutto il settore pubblico, resta al fondo una significativa differenza tra il Codice di comportamento del lavoratore alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e il Codice etico previsto per la magistratura (e per l’Avvocatura di Stato) (cfr. art. 54, co. 4, T.U. n. 165/2001).
Il lessico corrente è spesso generico e indifferenziato, come se i termini avessero il medesimo valore semantico: codice etico, deontologico, di condotta, di comportamento, social media policy. Vale la pena di sottolineare, invece, le caratteristiche di Codici che presentano una diversa natura giuridica: caratteristiche e differenze che risultano apprezzabili tanto sul piano dei contenuti quanto per le conseguenze che ne derivano nell’ipotesi di violazione o inosservanza delle rispettive previsioni.
Mentre il Codice di comportamento del dipendente pubblico introduce un elenco di “doveri” connessi al servizio o ai compiti che gli sono affidati ed è considerato, per legge, una «fonte di responsabilità disciplinare» (cfr. art. 54, co. 3, T.U. n. 165/2001), il Codice etico non è destinato ad integrare il versante disciplinare del rapporto di lavoro con l’Amministrazione, ma ne rimane distinto e separato.
Il Codice etico previsto per il lavoro pubblico non privatizzato rinvia, in modo diretto e immediato, ai principi costituzionali e alle regole fondamentali del vivere civile, che costituiscono il necessario riferimento valoriale per improntare i comportamenti nelle relazioni con l’ordinamento istituzionale, con i soggetti che con esso interagiscono (quelli che, con linguaggio privatistico, si chiamerebbero stakeholders) e, in generale, con i terzi con i quali si instaurano contatti fisici o virtuali.
Per sua natura e funzione, il Codice etico non può che essere formulato attraverso clausole e concetti generali (o quanto meno “aperti”), con contenuti determinati o comunque determinabili ma, in ogni caso, lungi dai requisiti di tipicità e tassatività (almeno relativa) che si richiede a una tassonomia di regole e divieti dai quali scaturisce la responsabilità disciplinare e un potere giuridico di tipo punitivo.
Del resto, se si considerano i contatti e le attività che si svolgono tramite il web, la pretesa di tipizzare in modo puntuale e imperativo le condotte eticamente sensibili avrebbe poco successo. La velocità dello sviluppo tecnologico e la continua evoluzione delle pratiche digitali sconsigliano di seguire questa via, al prezzo di un’eccessiva genericità oppure d’una rapida obsolescenza delle ipotesi e delle situazioni forzatamente tipizzate.
Ne consegue che le violazioni di un Codice etico dovrebbero essere valutate su un piano diverso da quello propriamente disciplinare, e pertanto accertate da un organismo di probiviri (o di garanti) anziché da un collegio di disciplina, con la possibilità di applicare misure di reazione giuridico-sociali che dovrebbero essere distinte dalle sanzioni disciplinari.
[1] Intervento alla Tavola Rotonda “I magistrati e i social”. Incontro di studio sul tema “La magistratura e i social network”, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 16-17 maggio 2024.
[2] Non è un caso che anche il diritto alla cancellazione del dato immesso nella rete sia assoggettato a bilanciamento con altri interessi. Secondo Cass., I sez. civ., 8 febbraio 2022, n. 3592, siccome la cancellazione del dato (inclusa la copia cache) incide sulla capacità del motore di ricerca di rispondere all’interrogazione dell’utente, «esige una ponderazione del diritto all’oblio dell’interessato con il diritto alla diffusione e all’acquisizione dell’informazione relativa al fatto nel suo complesso, attraverso parole chiave anche diverse dal nome della persona».
[3] Cfr., ad es., Cass. lav. 30866/2023; Cass. lav. 35922/ 2023; Cass. lav. 1379/2019.
[4] C. Edu, 15 juin 2021, Affaire Melike c. Turquie, riconosce che la rete rappresenta «un des principaux moyens d’exercice de la liberté d’expression», tuttavia i vantaggi di questo mezzo si accompagnano ad un certo numero di rischi: «est donc essentiel pour l’évaluation de l’influence potentielle d’une publication en ligne de déterminer son étendue et sa portée auprès du public».
[5] In tal senso cfr., ad es., Cass. lav. 10.9.2018, n. 21965; Cass. lav. 13.10.2021, n. 27939. Non è molto distante la posizione della C. Edu, 15 juin 2021, cit., che ha ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva postato like su alcune pagine web in quanto «une mention “J’aime” exprime seulement une sympathie à l’égard d’un contenu publié, et non une volonté active de sa diffusion».
Immagine: Paul Klee, Labyrinthian Park, acquerello e matita su carta, 1939, Zentrum Paul Klee, Bern, depositum from a private collection, Switzerland.
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