ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Un consiglio giudiziario serio - 2. Il diritto di tribuna e l’apporto dei componenti non togati - 3. Le mancate conferme - 4. Il fondamentale ruolo decentrato del Consiglio Giudiziario.
1. Un consiglio giudiziario serio
Nel momento in cui il legislatore sta rimettendo mano alla normativa sui Consigli Giudiziari può essere di interesse partire da un’esperienza concreta, congrua come lasso temporale, in un distretto che al di là di quello che si pensa è l’ottavo per bacino di utenza ed il decimo come movimento di affari.
Esperienza che, come Presidente di Corte, ho vissuto per oltre sette anni, protratta per due consigli giudiziari e lavorando (oltre che con due Procuratori generali ed un Avvocato generale) con complessivamente diciotto consiglieri eletti o nominati (ivi compresi sei magistrati onorari, quattro avvocati e due professori universitari).
Il primo elemento del tutto positivo che devo rilevare è la pressoché totale assenza di logiche di appartenenza. Del primo consiglio (2016 – 2020) facevano parte tre consiglieri eletti nelle liste di Area, due nelle liste di Autonomia e Indipendenza, una in quella di Magistratura Indipendente, di cui tre di Bergamo, due di Brescia ed uno di Cremona, mentre nel secondo Consiglio erano stati eletti tre consiglieri nelle liste di Area, una di Autonomia e Indipendenza, uno di Unità per la Costituzione ed uno in una lista autonoma di P.M. bresciani, di cui quattro di Brescia e due di Bergamo. Mentre come avvocati vi sono sempre stati un avvocato del foro di Brescia ed uno del foro di Bergamo ed un professore universitario dell’Università di Brescia nel primo quadriennio e dell'Università di Bergamo nell’attuale tornata. Infine come magistrati onorari risultavano eletti nella tornata 2016 -2020 un giudice onorario di Bergamo ed uno di Cremona ed una vice procuratrice onoraria di Bergamo, mentre nell’attuale composizione risultano un giudice onorario di Bergamo ed uno di Mantova ed una viceprocuratrice onoraria di Cremona.
Nonostante le diversità di provenienza professionale, culturale e geografica quanto è stato unificante è sempre stato quello che io definirei “sentirsi come istituzione”, con un metodo di lavoro comune e la tensione per arrivare attraverso un costante dialogo a soluzioni condivise.
Riprova è la costante unanimità delle decisioni assunte, non raggiunta in meno di dieci casi avendo trattato complessivamente più di tremila pratiche.
Sono state sin dall’inizio accolte soluzioni, in primis regolamentari, per nulla scontate e che in altri distretti hanno comportato lacerazioni e disaccordi, quali il diritto di tribuna per i componenti non magistrati, l’incompatibilità (con relativo allontanamento con sostituzione e partecipazione del Vicario o dell’Avvocato generale) del Presidente della Corte e del Procuratore generale in tutte le pratiche relative a provvedimenti da loro adottati, il coinvolgimento in sedute plenarie dei componenti della sezione autonoma per tutti quei provvedimenti che pur spettando alla sezione ordinaria avevano riverberi su posizioni o status dei giudici onorari.
Ed è stato adottato un metodo di lavoro che nel contempo responsabilizzava il relatore (designato sulla base di rigidi criteri automatici) e puntava al coinvolgimento di tutti i componenti e alla semplificazione. Il relatore difatti una volta esaminata la pratica mandava a tutti i componenti la sua proposta in modo da raccogliere eventuali suggerimenti o opinioni differenti e di poterne discutere a ragione.
Questo ha consentito di effettuare una larga selezione delle pratiche all’ordine del giorno, concentrandosi su quelle più complesse o che comunque richiedevano un approfondimento. Va premesso che in una seduta del Consiglio Giudiziario vengono trattate tra le 20 e le 30 pratiche di cui per molte (applicazioni, variazioni tabellari, criteri organizzativi, autorizzazioni a residenze fuori sede) l’esito è pacifico o dovuto e che una metodologia di questo tipo, inevitabilmente più lenta all’inizio e sempre più efficiente man mano che si raggiunge una sintonia tra i componenti, ha consentito di concentrare l’attenzione e la discussione sui punti controversi o maggiormente complessi.
Il primo requisito del lavoro svolto è stata la serietà: scelte organizzative esaminate sulla base delle circolari del C.S.M. e della razionalità gestionale, valutazioni di professionalità non appiattite verso l’alto, ma che cercavano di cogliere specificità e capacità del singolo magistrato. Se in questo periodo si è avuto un solo parere negativo sulle progressioni in carriera questo non è stato dovuto a spirito corporativo, ma un quadro di professionalità positive per una magistratura molto giovane rispetto ad altri distretti (circa il 30 % infraquarantenni) e molto impegnata. Lo sforzo è stato di differenziare, sia evidenziando le eccellenze, sia puntando sulla specificità e individualità che deve avere ogni valutazione di professionalità (in più di un caso in cui i rapporti dei dirigenti degli uffici apparivano uniformi e stereotipati sono stati restituiti con preghiera di individualizzare le caratteristiche e capacità del singolo magistrato).
2. Il diritto di tribuna e l’apporto dei componenti non togati
Il contributo dato da avvocati e professori universitari è stato estremamente prezioso: a quanto ho potuto verificare questi componenti hanno visto il diritto di tribuna deliberato a livello regolamentare come un momento di trasparenza ed hanno potuto riscontrare direttamente come molti assunti purtroppo diffusi (l’appiattimento delle valutazioni di professionalità, l’emissione di pareri sempre positivi) fossero in realtà luoghi comuni con ben poco fondamento.
E la partecipazione a pieno titolo, spesso come relatori, in materia tabellare, organizzativa e nelle pratiche di vigilanza è stata fondamentale per rappresentare che ad esempio il parere negativo su variazioni tabellari non derivava da contrasti interni, ma da un’analisi gestionale che partiva dalle direttive consiliari e dalle esigenze di efficienza.
In particolare poi in occasione dell’apertura della pratica di vigilanza sulla situazione della Procura di Brescia nel 2018 (derivata dalla perquisizione di un giornalista per notizie comparse su quotidiani relative ai figli dell’allora Procuratore della Repubblica), è stata fondamentale la condivisione unanime nell’aprire e poi nel condurre un’istruttoria delicatissima, che ha poi consentito di giungere ad una soluzione del problema. Avere l’appoggio del foro e dell’accademia è stato al riguardo fondamentale.
Così importante è stato il loro apporto nelle pratiche di vigilanza condotte ogni anno sulle assegnazioni di cui erano stato investiti i magistrati neo nominati per evitare episodi di nonnismo, deteriori per gli stessi, ma più in generale per la funzionalità del servizio. Pratiche che, va detto, dopo un inizio sofferto che aveva riscontrato molteplici violazioni delle direttive consiliari e dell’equità di trattamento, hanno portato ad una positiva attenzione verso i neo magistrati.
Posso capire le perplessità riguardo alla partecipazione a pieno titolo di avvocati e professori in sedi in cui non si vive un rapporto di collaborazione e rispetto, come invece ho riscontrato a Brescia e nel distretto, ma credo vada anche valorizzata la valenza aggiuntiva che garantisce una condivisione in positivo delle valutazioni.
Anzi se devo rimarcare che il limite non sarà l’utilizzo strumentale del ruolo contro magistrati “scomodi”, ma l’eccessiva timidezza e a volte accondiscendenza che spesso il foro ha per i “propri” giudici e P.M. nei cui confronti i giudizi negativi sono rarissimi. Nella mia esperienza la facoltà di effettuare osservazioni, già prevista dalla legge, è rimasta sostanzialmente inoperosa, mentre al contrario grande rigore è stato dimostrato in occasione delle conferme dei magistrati onorari per i quali in diversi casi era stata chiesta la revoca, spesso sulla base di generiche lamentele e non, come prevede la legge, di fatti specifici.
Un rapporto di collaborazione comunque dimostratosi prezioso e fecondo.
3. Le mancate conferme
Una questione a parte che dimostra la serietà del Consiglio Giudiziario di Brescia, ma anche la difficoltà di interlocuzione con il Consiglio Superiore della Magistratura, sono i pareri negativi sulle conferme per un incarico semidirettivo e due incarichi direttivi espressi all’unanimità (in un caso con un voto contrario) e poi disattesi dal Consiglio Superiore della Magistratura (in un caso nella passata consigliatura ed in due casi nella presente).
Le conferme sono uno snodo fondamentale nell’organizzazione dell’ufficio, anche perché mentre la valutazione ex ante al momento della nomina viene fatta per molti aspetti alla cieca (sia perché l’aspirante spesso non aveva mai sperimentato un incarico, sia per l’impatto con una nuova sede ed una nuova realtà), la conferma opera dopo quattro anni sul campo e quindi una valutazione sulla capacità del dirigente può essere compiutamente svolta. Non solo, ma non va sottovalutato l’importanza e l’impatto che può avere un buon dirigente per l’andamento dell’ufficio e per la stessa comunità locale.
Un momento cruciale che, tra l’altro, dovrebbe essere vissuto non come una deminutio della professionalità dei magistrati, ma come una verifica delle sue capacità gestionali, potendoci benissimo essere ottimi magistrati inadatti a ruoli organizzativi o ancora incapacità di adeguarsi a situazione ambientali e gestionali particolari.
Ebbene in questi tre casi il Consiglio Giudiziario di Brescia, dopo una serrata istruttoria, ed una inevitabile sofferenza, aveva emesso un parere contrario unanime (in un caso con un voto dissenziente).
L’andamento ed i tempi delle procedure di conferma da parte dei C.S.M. hanno poi aspetti che meritano approfondimento.
Quanto alla conferma di un Presidente di sezione del Tribunale di Brescia (incarico con scadenza del 22 luglio 2020) l’Ordine degli Avvocati di Brescia aveva dato parere contrario in data 3 luglio 2020 ed il Consiglio giudiziario aveva emesso un parere contrario unanime in data 7 aprile 2021, poi confermato il 19 maggio 2021 dopo le osservazioni formulate dall’interessato, fondato sulle insufficienti capacità organizzative e relazionali, sul clima di conflittualità creatosi in sezione e sulla mancata adozione di provvedimenti organizzativi relativi alla sua sezione, più volte sollecitati dal Presidente del Tribunale e poi adottati direttamente dallo stesso. Il C.S.M. all’esito di due audizioni del Presidente di sezione in data 6 luglio 2021 e 25 luglio 2022 e di un’ulteriore istruttoria delegata, ha ritenuto nella proposta di maggioranza approvata in sede plenaria che tutti i provvedimenti organizzativi richiesti spettavano al Presidente del Tribunale (che peraltro li aveva emessi) e non al Presidente di sezione, ha valorizzato i buoni risultati raggiunti in tema di efficienza e di informatizzazione, ed ha operato una diversa ricostruzione dei fatti ed in particolare dei contrasti emersi in sezione e di alcune segnalazioni (in particolare relative alla gestione di una tirocinante). Più in specifico ha valorizzato che alcuni elementi di conflittualità e presenza risultano superati dopo il 2019 e ha ridimensionato le difficoltà relazionali verificatesi.
Si è trattato di una delibera consiliare molto combattuta a fronte di due proposte ampiamente motivate (31 pagine quella di maggioranza poi approvata e 48 quella di minoranza), di un dibattito serrato e di una votazione molto contrastata (11 voti contro 9).
Pur essendo la proposta di conferma indubbiamente motivata, al di là dei tempi impiegati (oltre due anni), la stessa in realtà non affronta sino in fondo le criticità emerse, inizialmente sollevate dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, in parte dallo stesso Presidente del Tribunale e poi dalle varie audizioni (di 5 magistrati, tra cui il Presidente del Tribunale ed il Presidente Vicario, oltre ai delegati dell’Ordine degli Avvocati e dei Commercialisti) condotte dal Consiglio Giudiziario da cui emergevano oltre ad alcuni episodi di conflittualità interna molto accentuati, una limitata presenza in ufficio. Non possono essere risolutive le dichiarazioni ivi ampiamente richiamate del 16 settembre 2021 rese dal personale amministrativo della cancelleria della sezione sul clima positivo ivi esistente e del 30 luglio 2021 della Camera civile di Brescia sul clima di collaborazione, pervenute nel corso della procedura e non raccolte nell’ambito dell’istruttoria compiuta dagli organi di governo autonomo e quindi non assistite dalla stessa garanzia di genuinità. Non solo, ma detta valorizzazione ha sortito l’inevitabile effetto, anche se probabilmente non voluto, di colpevolizzare i magistrati della sezione che avevano espresso opinioni dissenzienti sulla gestione proprio nel corso dell’istruttoria condotta dal Consiglio Giudiziario. Non un buon risultato. Anche per l’effetto – anche questo inevitabile, al di là delle intenzioni – di dissuadere in generale i componenti degli uffici dal far emergere criticità nelle procedure di conferma e di valutazione di professionalità, ove invece si registra da anni una notoria carenza di informazioni obiettive su fatti e condotte, al di là di abusate aggettivazioni altisonanti.
Quanto alla conferma del Presidente del Tribunale di Brescia (incarico con scadenza al 27 aprile 2020) il Consiglio Giudiziario di Brescia aveva emesso in data 20 luglio 2020 un parere favorevole unanime sulla base dei risultati e delle capacità organizzative. Successivamente in data 4 novembre 2021 il magistrato veniva sanzionato a livello disciplinare con la censura (sentenza divenuta definitiva il 24 novembre 2022) per i rapporti avuti con il consigliere togato Luca Palamara riguardo a segnalazioni per incarichi direttivi e semidirettivi nel distretto di Brescia ed il C.S.M. invitava il Consiglio Giudiziario a integrare il parere alla luce di questa sentenza. Il Consiglio Giudiziario, con un voto contrario, in data 8 giugno 2022 dava un nuovo parere, questa volta sfavorevole, evidenziando come i nuovi fatti sottoposti all’esame denunciavano “un difetto di indipendenza” ed erano tali “da compromettere significativamente l’autorevolezza nell’esercizio delle funzioni direttive”, aspetti negativi ritenuti aventi valenza assorbente rispetto ad ogni altra valutazione positiva a suo tempo espressa sulla capacità del magistrato. In particolare il Consiglio Giudiziario rilevava che dal tenore delle conversazioni captate poteva cogliersi come l’esercizio delle funzioni da parte del Presidente fosse stato “significativamente influenzato da logiche e criteri di carattere correntizio che non appaiono compatibili con l’indipendente esercizio dell’incarico direttivo e di coordinamento attualmente ricoperto”.
L’interessato veniva sentito dal C.S.M. in data 9 maggio 2023.
Al plenum del C.S.M. in data 19 luglio 2023 pervenivano due proposte e veniva approvata quella di maggioranza che deliberava la conferma, ritenendo irrilevanti gli aspetti relativi a indipendenza ed autorevolezza e facendo prevalere le valutazioni precedenti relative alla capacità organizzativa.
Tre punti balzano immediatamente all’occhio: da un lato i tempi del C.S.M. protrattisi per oltre tre anni, dall’altro l’incongruenza di chiedere un’integrazione al Consiglio Giudiziario per poi ritenere i fatti (oggetto della condanna disciplinare) non rilevanti ed infine di ignorare in sostanza le argomentazioni del parere negativo espresso dal Consiglio Giudiziario.
Devo al riguardo precisare che non parlo per “fatto personale”. Non ho partecipato ad alcuna delle delibere del Consiglio di Brescia relative al Presidente del Tribunale in quanto avevo, come previsto dalla procedura, stilato ancora nel 2020 il rapporto informativo sull’attività svolta dallo stesso, dando atto del quadro organizzativo e dei risultati, da cui aveva largamente attinto il Consiglio Giudiziario nel suo parere favorevole del 2020.
Quanto al Presidente del Tribunale di Bergamo (incarico con scadenza il 26 settembre 2021) il parere unanime negativo del Consiglio giudiziario in data 18 novembre 2021 derivava da una valutazione non favorevole dal punto di vista meramente organizzativo. Venivano ad essere rilevanti criticità nella gestione della sezione penale dibattimentale e della sezione famiglia, nonché una carenza di misure organizzative nel periodo della pandemia e in alcuni settori oltre che la gestione dei rapporti con i magistrati dell’ufficio.
In più occasioni emergeva la debolezza dei provvedimenti presidenziali adottati, poi revocati o modificati a seguito dell’interlocuzione con il Consiglio giudiziario, o ancora non approvati per essere stati adottati in violazione delle norme contenute nell’ordinamento giudiziario e nelle circolari che disciplinano la formazione delle tabelle.
L’interessato veniva sentito dal C.S.M. in data 5 settembre 2023.
Al plenum del C.S.M. in data 20 dicembre 2023 pervenivano due proposte e veniva approvata quella di maggioranza che deliberava la conferma. Proposta estremamente succinta (meno di tre pagine) che valorizzava la valutazione espressa dall’Ispettorato generale del Ministero relativa all’ispezione condotta dal 20 settembre al 19 ottobre 2021 presso il Tribunale che osservava “il positivo, seppur non omogeneo, quadro complessivo delineato attesta l’impegno del personale amministrativo e l’apprezzabile produttività dei magistrati e dà altresì conto di una struttura organizzativa che, pur se penalizzata dal deficit di personale, è improntata a criteri di funzionalità e di equa distribuzione dei carichi di lavoro e, dunque, ben diretta dal Presidente del Tribunale, del quale sono emerse le doti di equilibrio e la dedizione all’Ufficio.”
In realtà nella delibera più elementi non venivano citati, né risultavano presi in esame: i rilievi critici contenuti nel rapporto informativo del 9 settembre 2021, le criticità (comunque unite ad apprezzamenti) emerse dal parere del 27 maggio 2021 del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo, le numerose violazioni e conseguenti prescrizioni emesse in ogni caso in sede di ispezione (settore civile non contenzioso, incremento delle pendenze e dei tempi nel settore penale, situazioni di grave disfunzione in alcune aree organizzative), i rilievi consiliari sui programmi di gestione 2021 e 2022 e sulle tabelle 2020 – 2023, il parere negativo o l’invito a modificare i decreti presidenziali da parte del Consiglio Giudiziario su numerosi provvedimenti di variazione tabellare. Con l’ulteriore chiosa che in Consiglio Giudiziario il relatore sui provvedimenti organizzativi del Tribunale di Bergamo era ed è un avvocato di Brescia, pertanto fuori da qualsiasi logica interna alla magistratura e con evidenza indifferente ed imparziale, oltre che competente.
Tali elementi erano stati ripresi nella proposta di minoranza che proponeva la non conferma in cui vengono citati espressamente dieci decreti presidenziali successivamente revocati o non approvati e si osserva come le vicende relative alle variazioni tabellari denotano “la difficoltà di avere un disegno generale” e la “tendenza a inseguire la soluzione momentanea più facile”.
Ovviamente anche in questo caso può essere che il Consiglio Superiore avesse ragione ed il Consiglio giudiziario torto (nessuno è ovviamente infallibile), ma lasciano francamente perplessi sia i tempi lunghi (oltre due anni), sia l’estrema sinteticità della decisione, sia il non avere preso in esame, se non in modo estremamente sommario, gli argomenti posti a base del parere negativo proposto, sia infine una sorta di decisività dell’esito dell’ispezione ministeriale, senza affrontare gli elementi contrastanti che emergevano dalla stessa e la finalità di tipo burocratico amministrativo e non di analisi gestionale tipica dell’atto.
A mio parere garanzia fondamentale per i magistrati è un autogoverno serio e capace che rifugga da appiattimenti verso l’alto e che dimostri serietà e curiosità di sapere e capire.
4. Il fondamentale ruolo decentrato del Consiglio Giudiziario
Il ripetuto dissenso avutosi tra Consiglio Giudiziario di Brescia e Consiglio Superiore della Magistratura potrebbe essere qualificato come fisiologico, rientrando nelle differenze di valutazione che possono esservi in una materia inevitabilmente discrezionale come le valutazioni. Anche se mettono in discussione lo stesso istituto della conferma, pur previsto e voluto dalla legge, stante l’evidente cautela corporativa con cui il Consiglio lo maneggia.
Ma in realtà questo dissenso pone un ulteriore problema.
Con la modifica introdotta dall’art. 3 comma 1 lettera a della legge delega 17 giugno 2022 n.71 verrà data la “facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all'esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari (…), con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell'ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova determinazione del consiglio dell'ordine degli avvocati.”
Un sistema complesso che verrà meglio articolato nei decreti legislativi in discussione, ma che crea una simmetria tra Consiglio Superiore della Magistratura e Consigli Giudiziari, con, anche a livello deliberante, una componente togata maggioritaria ed una componente laica.
Sarebbe l’occasione per realizzare il più volte auspicato decentramento delle funzioni del Consiglio Superiore. E’ ormai pacifico che l’accresciuta complessità del sistema giustizia mette in crisi il C.S.M. come quantità di pratiche da affrontare e come tempi di decisione. Ogni settimana il plenum del Consiglio vara tra le 250 e le 500 delibere sulle più diverse questioni (dalle incompatibilità, alle nomine, agli incarichi, alle aspettative, ai diversi documenti organizzativi, ai pareri, alle proposte, alle risposte ai quesiti, etc.) e i tempi di decisione, in particolare su nomine, variazioni tabellati, programmi organizzativi, applicazioni sono spesso troppo lunghi, tanto da rischiare di divenire irrilevanti. Questa constatazione aveva già portato lo stesso C.S.M. ad approvare il 20 ottobre 1999 una Risoluzione sul decentramento dei Consigli Giudiziari che affermava “la centralità del Consiglio giudiziario nell’opera di sistematica rilevazione, conoscenza, descrizione, misurazione, documentazione e valutazione del lavoro professionale dei magistrati.”
Rilevava che “I Consigli giudiziari sono i destinatari naturali ed i collettori di tutte le informazioni e valutazioni provenienti da altri soggetti che a loro volta hanno il compito di osservare il magistrato nel suo percorso di formazione o nella sua attività lavorativa o che di fatto lo osservano (i magistrati collaboratori per gli uditori giudiziari; i dirigenti degli uffici per i magistrati in servizio etc.).” e che “è un fatto che, senza l’apporto effettivo e costante del Consiglio Giudiziario, il C.S.M. non è in grado di acquisire conoscenze effettive e serie sul magistrato, sul suo reale valore professionale, sulle sue attitudini e vocazioni, sulla sua quotidiana dedizione all’attività di ufficio.”
La Risoluzione concludeva ritenendo possibile delegare ai Consigli Giudiziari solo attività istruttorie e di proposta, nella consapevolezza dei limiti posti dall’art.105 della Costituzione che attribuisce al Consiglio e non ad altri organi “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Risoluzione che nella sostanza rimaneva sulla carta e decongestionava ben poco l’attività (tra l’altro all’epoca molto meno complessa) del C.S.M.
Altra proposta che andava nella stessa direzione era la previsione emersa nella Commissione di Riforma dell’Ordinamento Giudiziario costituita nel 2015 – Presidente Michele Vietti - di riservare al Consiglio Giudiziario la delibera sulle valutazioni di professionalità in caso di giudizio unanimemente positivo. La competenza del C.S.M. veniva rispettata prevedendo che il Consiglio dovesse comunque trasmettere la delibera al C.S.M. per il quale valeva la regola del silenzio assenso: se entro 60 giorni non venivano prese iniziative la valutazione era convalidata.
Ipotesi di silenzio assenso (sempre susseguenti a delibere unanimi) e di delega rispetto a materie circoscritte normalmente del tutto pacifiche e che oggi corrispondono solo o quasi ad appesantimento burocratico sarebbero da esplorare (ad esempio in tema di aspettative, incarichi di insegnamento per poche ore, supplenze e applicazioni non contestate), in modo da consentire al C.S.M. di concentrarsi sulle questioni davvero meritevoli di approfondimento.
Ma questo passaggio, che ritengo auspicabile, può essere praticato e fecondo solo se si costruisce una reciproca fiducia tra Consiglio Superiore e Consigli Giudiziari e ciò significa da un lato incrementare i momenti di contatto e di interlocuzione tra gli organi e dall’altro che la diversa opinione e delibera del C.S.M. sia adeguatamente motivata, sia a fini di trasparenza, sia per consentire al Consiglio Giudiziario una verifica ed un eventuale adeguamento al diverso orientamento adottato. Altrimenti risulta solo un comportamento imperativo che, specie in magistratura, sappiamo perdente.
Il decentramento è una prospettiva da perseguire, che richiede fantasia, collaborazione e la costruzione di un rapporto di reciproca fiducia che, come le vicende di Brescia evidenziano, è ancora da realizzare.
Ma errori, limiti e difficoltà vanno esaminati e denunciati proprio per essere superati da parte di donne e uomini di buona volontà.
Relazione introduttiva al 36° congresso nazionale Associazione Nazionale Magistrati
di Giuseppe Santalucia
Palermo 10 maggio 2024
1. Signor Presidente della Repubblica, Sua Eccellenza Arcivescovo di Palermo, signori giudici costituzionali, signor vicepresidente e signori componenti del Consiglio superiore della Magistratura, onorevoli rappresentanti del Parlamento nazionale, del Governo della Repubblica e del Parlamento regionale, Autorità tutte, civili e militari; gentili ospiti, avvocati ed esponenti del mondo accademico; care colleghe, cari colleghi; cittadine e cittadini.
A nome dell’Associazione nazionale magistrati porgo i saluti e un sincero ringraziamento per la vostra presenza.
Un particolare e deferente saluto rivolgo al Presidente della Repubblica, facendomi interprete dei radicati sentimenti di gratitudine dei magistrati italiani per l’attenzione e la vicinanza che sempre ci ha riservato.
Ringrazio vivamente il Sindaco di Palermo, il Presidente dell’Assemblea regionale e il Presidente della Regione siciliana per gli indirizzi di saluto con cui hanno inteso onorare la giornata di apertura del Congresso.
Mi sia consentito manifestare la mia viva gratitudine alla sezione palermitana dell’Associazione nazionale magistrati, al suo presidente e alla sua segretaria, e per loro tramite a tutti i magistrati del distretto, per l’entusiasmo e la dedizione con cui si sono adoperati all’organizzazione di questa importante assise.
E da ultimo ma non per ultimo un grande grazie va al Sovrintendente della Fondazione Teatro Massimo, maestro Marco Betta, per averci consentito di fruire della bellezza e della magnificenza di questo luogo, splendida cornice per avviare i nostri lavori.
2. Il Congresso si accinge ad una discussione, che mi auguro feconda, sui tratti costitutivi dell’essere magistrato.
Interpretare la legge e rendere un giudizio imparziale sono l’in sé della funzione.
Tramontate alcune ingenue convinzioni ottocentesche, è assunto condiviso che l’interpretazione sia operazione intellettuale complessa, non riducibile a semplici sillogismi che facciano derivare la regola concreta da una norma astratta, che si vorrebbe chiara e facilmente leggibile, sì che il giudice possa essere un mero e asettico esecutore.
Ed è altrettanto incontestato che egli debba essere sottratto all’influenza dei poteri pubblici e da qualsiasi centro di potere anche privato, in modo che possa decidere il caso senza prendere pregiudizialmente parte per uno degli interessi in gioco.
Ciò non significa che non vi siano ampi margini per una discussione ricca su entrambi i versanti.
A parte alcune certezze intorno a nuclei concettuali forti, sono consistenti gli spazi per il confronto di posizioni.
3. Vi è una costante problematicità, e quindi attualità, delle questioni.
Le ragioni sono facilmente comprensibili.
Dall’affermazione che l’applicazione della legge non è attività meramente esecutiva, e quindi del tutto neutrale, non restano per ciò solo individuati lo spazio riservato all’interpretazione ed i suoi limiti.
E dal riconoscimento del valore della imparzialità, e quindi della necessità di un disinteresse del singolo magistrato per l’oggetto del processo, non deriva la specifica indicazione di quali possano essere i fatti e i comportamenti, soprattutto extraprocessuali, incidenti sulla imparzialità del giudizio.
In più, non va trascurato il nesso tra interpretazione e imparzialità per così dire percepita.
Accade che da più parti ci si interroghi se e in qual misura gli spazi di discrezionalità concessi da un testo privo di puntualità prescrittiva siano riempiti per mezzo di opzioni valoriali del singolo decidente.
Basta allora scrostare di un po’ la superficie per vedere quanto di controverso si agiti ancora intorno alle colonne portanti della giurisdizione.
4. L’opzione congressuale è attuale anche per un complementare ordine di considerazioni, che danno conto di come non possano restare fuori dallo spettro di esame i non pochi dati di novità che oggi incidono sul mondo della giustizia.
Una riflessione di tal tipo non si sovrappone ai dibattiti convegnistici che rivelano l’interesse continuo su questi stessi temi della dottrina, anche di matrice giurisprudenziale e forense.
L’intento è di misurarsi con le implicazioni politiche della discussione, averne compiuta consapevolezza per meglio comprendere il contesto in cui la giurisdizione si trova ad operare, a cogliere le ragioni profonde di polemiche che investono l’esercizio della giurisdizione e che non si spiegano soltanto sulla base di quel che viene detto nel contingente momento di attenzione mediatica.
5. Accolta questa prospettiva, che non accantona l’esame dei nodi tecnici e dei profili di più stretta giuridicità, è utile indietreggiare di qualche passo dal quadro che anche le novità dell’ultimo periodo vanno componendo.
Si riesce a scorgere in tal modo una linea di tendenza che attraversa il tempo presente con maggiore incisività, una direttrice in cui sembrano naturalmente collocarsi, ora per dichiarata provenienza ora per successiva attrazione, iniziative legislative, dichiarazioni e prese di posizione di esponenti autorevoli del mondo politico, e, sia pure su altro piano, il raffinato dibattito scientifico sulla natura e sui limiti dell’interpretazione.
Al di là dei momenti in cui il fenomeno si palesa con franche prese di posizione e la constatazione tiene luogo di una mera percezione, si coglie in più occasioni una spinta alla ridefinizione in senso restrittivo dei confini entro cui la giurisdizione può esprimersi e può far uso degli strumenti propri del suo agire.
L’idea sottesa a più voci critiche è che progressivamente la giurisdizione abbia accresciuto il proprio ruolo finendo con l’essere, invece che fattore di stabilizzazione e di ordinata risoluzione dei conflitti, causa o concausa di quella instabilità e precarietà di necessari equilibri che segnano la società nel tempo presente.
6. Il Congresso è stato preceduto da ben due Assemblee straordinarie, convocate lo scorso anno a distanza di qualche mese l’una dall’altra sull’onda della diffusa preoccupazione insinuatasi tra i magistrati per effetto:
Si badi, non una critica al provvedimento di non convalida fondata su argomenti volti a metterne in evidenza la discutibilità giuridica, ma una polemica nei confronti della magistrata, accusata di non essere imparziale in ragione della partecipazione, svariati anni prima, ad una manifestazione di protesta contro decisioni del Governo, espressione di altre maggioranze politiche, che avevano impedito alla nave con a bordo molti migranti tratti in salvo in mare di approdare nel porto catanese.
La partecipazione ad una manifestazione di piazza, che per anni era stata ignorata, è stata ritenuta la spia dell’esistenza di un pregiudizio, di una pregiudiziale avversione alle politiche governative di contenimento dell’immigrazione clandestina.
7. Come nella precedente, anche nell’ultima occasione è venuto in rilievo il timore di un progressivo indebolimento dei presìdi culturali che dovrebbero inibire, contenere, la pretesa delle maggioranze di governo che decisioni di tribunali e corti non contrastino o addirittura si adeguino ai loro programmi e fini.
La nostra posizione, in entrambi gli episodi, è stata però ispirata dalla ricerca di un confronto e non dalla contrapposizione con la politica per rievocare fantasmi di un passato che non vogliamo ritorni ad inquinare il discorso sulla giustizia.
E con questo spirito abbiamo voluto un Congresso che sappia, da un lato, individuare le ragioni di una crisi di senso sull’essenza della giurisdizione che sembra investire, con diversità di toni e di ampiezza, molte delle democrazie liberali; e dall’altro, dipanare una questione complessa che tocca molto da vicino la vita dei magistrati.
Siamo qui anche per interrogarci su quale sia, di quale ampiezza e di quale incidenza sui diritti e sulle libertà del cittadino-magistrato, la proiezione deontologica di una libertà interpretativa che non si può seriamente vagheggiare di comprimere in nome di una semplicistica rievocazione del principio della separazione dei poteri, nutrito alle convinzioni settecentesche della giurisdizione come potere nullo.
8. Nelle relazioni illustrative di tre dei quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare sulla cd. separazione delle carriere, che sono da tempo all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, si scrive che l’intero mondo occidentale è attraversato da una crisi del diritto e del processo, perché vive il problema della eccessiva espansione del giudice, che ormai “governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell’economia, dell’ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica” (AC nn. 23, 434, 824).
Il sommario riferimento a quel che accade oltre Italia sembra evocare le tensioni e i conflitti che stanno interessando la vita di altri Stati, entro e fuori dall’Unione europea.
Sono stati coniati nuovi termini e nuove espressioni per indicare l’asserito dominio del giudiziario: “governo dei giudici”, “giudizializzazione” della vita pubblica, “giuristocrazia”, tutti diretti a manifestare una crescente insofferenza verso una tecnocrazia delle regole che sopravanzerebbe il governo della politica.
Si pensi a quel che è accaduto in Israele, dove la recente riforma della giustizia, che ha scatenato imponenti proteste, è stata ispirata dalla volontà di limitare i poteri della Corte suprema e di ristabilire un diverso rapporto con il potere legislativo e quello esecutivo, vietando il controllo di ragionevolezza dei provvedimenti d e limitando fortemente la possibilità di annullamento delle leggi ritenute in contrasto con le cd. leggi fondamentali.
E, ancora, a ciò che è avvenuto all’interno dell’Unione europea, in Polonia e in Ungheria. I sistemi normativi di entrambi questi Paesi sono stati posti sotto osservazione ad opera degli organismi dell’Unione anche per l’inadeguatezza nell’assicurare una effettiva indipendenza del potere giudiziario.
Sia chiaro!
Non intendo accreditare impropri parallelismi e indulgere in eccentriche assimilazioni.
Ma quel che avviene in una importante democrazia di stampo occidentale come Israele e nello spazio comune europeo può essere eletto a sintomo della difficoltà che, al di là delle specificità dei singoli Paesi, si sconta nel rinvenire una condivisione su quale debba essere il grado di effettività dello Stato di diritto – solennemente proclamato nel Trattato dell’Unione (articoli 2 e 7) – sotto il profilo della indipendenza e dell’ambito di azione del potere giudiziario, che sia compatibile con il mantenimento in capo agli organi della rappresentanza della prerogativa di fissare i fini dell’azione e di poter contare sulle concrete condizioni per raggiungerli.
9. Questa difficoltà lambisce il discorso pubblico del nostro Paese.
Si denuncia l’espansione del giudiziario collegandolo più o meno dichiaratamente ad una pretesa egemonica della magistratura, che sperimenterebbe da tempo una libertà di azione conquistata a scapito della legge.
Si trascura però di considerare che l’enfatizzazione del giudiziario potrebbe essere in buona misura figlia della incapacità della politica latamente intesa, che è propria del nostro tempo, di coinvolgere e di includere ampi strati della società nella definizione di progetti collettivi e di realizzazione di fini comuni e condivisi.
Se i circuiti della politica hanno perso gran parte della loro capacità inclusiva, se l’impegno collettivo per la costruzione del futuro della comunità non è più un potente fattore di aggregazione, è inevitabile che ci si ritragga sempre più in una dimensione privata, che si ricerchino nelle aule di giustizia le risposte alle domande che nei luoghi tradizionali dell’agire politico non si riesce più a formulare.
La via per il riequilibrio che si va cercando potrebbe non essere quella della compressione forzosa degli spazi di giurisdizione; si potrebbe scoprire che in tal modo si raggiungerebbe il risultato non già di rimettere “ogni cosa a suo posto”, secondo l’efficace titolo di un recente interessante studio di un grande giurista (LUCIANI) ma, forse, di indurre maggiore instabilità sociale per il disconoscimento, ad interessi che reclamano visibilità e tutela, di ogni istanza di rappresentazione nei luoghi istituzionali.
10. Per restare ancorati a quel che ci riguarda direttamente, il tentativo di ridurre l’incidenza del giudiziario si scorge in plurimi segnali.
La “paura della firma” di amministratori e funzionari pubblici, invece che indurre ad una migliore tipizzazione delle fattispecie di responsabilità, sta portando alla eliminazione di una ipotesi criminosa – l’abuso di ufficio – secondo una direttrice che si stenta a ricondurre nell’alveo di una concezione liberale, che vorrebbe una rafforzata tutela delle libertà individuali di fronte alle angherie dei detentori dei pubblici poteri.
Lo stesso può dirsi in riguardo alla spinta, che non si arresta, al mantenimento di moduli emergenziali, escogitati per affrontare la pandemia da Covid-19 e incentrati sull’allentamento dell’area del controllo e quindi sull’abbassamento dei livelli di responsabilità, ancora una volta dei detentori di pubblici poteri.
Lo “scudo erariale”, ossia la limitazione della responsabilità di amministratori pubblici ai casi di dolo e condotte omissive gravemente colpose, introdotto nel 2020 in piena emergenza pandemica, è stato di recente ulteriormente prorogato, con il decreto milleproroghe, sino al 31 dicembre 2024 –il termine inizialmente fissato al 31 luglio 2021 era stato già prorogato al 30 giugno 2024 – e la Corte dei conti ha sollevato questione di legittimità costituzionale, evidenziando l’irragionevolezza della norma “nell’attuale sistema di pesi e contrappesi fondato sull’inscindibile binomio potere/responsabilità tipico anche del diritto euro-unitario”.
Non siamo per questa parte di fronte ad una misura inedita.
La logica degli scudi si era già concretizzata in più occasioni, ma se essa si combina all’idea che un pieno esplicarsi della funzione giudiziaria può non essere funzionale al recupero di efficienza della macchina amministrativa e mediatamente ad una maggiore vitalità dell’economia, allora prende corpo una concezione del giudiziario come potere scomodo.
Ancora.
Quale altra plausibile ragione può assegnarsi al disegno – coltivato nell’ambito dei progetti di revisione costituzionale per la separazione delle carriere – di alterazione dell’attuale rapporto di proporzione numerica tra magistrati e laici nella composizione del Consiglio superiore della magistratura, anzi nei due Consigli superiori che si avranno una volta separato il pubblico ministero dalla magistratura giudicante, se non l’indebolimento della presenza del giudiziario nel settore nevralgico deputato a quella delicatissima attività che, con felice espressione, è indicata come di “amministrazione della giurisdizione”?
Non persuade, come ratio del progetto di revisione, l’intento di diminuire la cifra di politicità dell’organo di cd. governo autonomo, se perseguito, con intrinseca irrazionalità, per mezzo di un aumento della quota della componente di nomina politica.
Lo stesso progetto di separazione delle carriere, coltivato con ostinazione pur dopo che la separazione delle funzioni è stata da ultimo portata alla sua massima espansione con buona pace del favor per la pluralità delle esperienze professionali, reca con sé il germe dell’indebolimento della giurisdizione, almeno quella penale, nel suo complesso.
Essa troverà compimento una volta che il pubblico ministero, separato dalla giurisdizione e collocato in un ideale ma ad oggi sconosciuto spazio di autonomia e di contestuale estraneità all’area dei tradizionali poteri dello Stato, sarà in breve attratto nel raggio di influenza del potere esecutivo, che mal tollera di non poter includere l’azione penale nei programmi di governo.
La prospettiva è tutt’altro che una fantasia spesa ad arte per contrastare quel progetto.
Proprio perché molte democrazie occidentali conoscono la dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo, sterilizzata nei suoi effetti distorsivi, nella maggior parte dei casi, da culture politiche e architetture istituzionali proprie di quei Paesi, la parabola di un riassetto istituzionale innescato dalla revisione costituzionale non sarà condizionabile nella sua traiettoria dalle dichiarazioni di chi oggi, alfiere della separazione, assicura e rassicura sulla piena indipendenza del pubblico ministero di domani.
11. La rivisitazione in senso riduttivo del ruolo del giudiziario dovrebbe rispondere a due grandi bisogni.
Il mantenimento di una netta separazione tra i poteri dello Stato, dovendosi evitare che il giudice si appropri della prerogativa di apprestare soluzioni che implichino apprezzamenti e scelte di natura politica, con il conseguente scolorimento di imparzialità, anche solo della sua apparenza.
La tutela del diritto dei cittadini di poter contare sulla sufficiente prevedibilità delle decisioni di tribunali e corti, possibile a condizione che l’interpretazione delle norme sia fedele al testo delle disposizioni e non ci siano spazi di eccessiva discrezionalità nella individuazione delle regole del caso concreto, tale da aprire alla creazione per via giurisprudenziale del diritto, giocoforza priva dei caratteri di astrattezza e generalità.
Si può dire, tentando una semplificazione riassuntiva, che sono ragioni che attengono sia alla dimensione del potere che a quella del servizio.
Le direttrici in cui sembra incanalarsi il discorso sulla giustizia, benché connotate da nuclei di valore meritevoli di considerazione, potrebbero risultare dissonanti rispetto al cammino che fu tracciato nel secolo scorso anche grazie agli sforzi e all’impegno della magistratura italiana.
Se assecondate perdendo di vista il senso progressista di quel movimento culturale che si sviluppò intorno alla prima parte della Costituzione, farebbero correre il rischio di un arretramento di tutele e di garanzie.
Sta qui l’utilità che la magistratura torni a ragionare sul rapporto con la legge, sulla soggezione alla legge, principio fondativo della sua autonomia e della sua indipendenza.
E che lo faccia da protagonista con un contributo di cultura istituzionale e di esperienze professionali senza restate spettatrice muta di un processo e di un dibattito che, pur movendo da premesse diverse, la chiamano direttamente in causa.
12. C’è un evento che individua una conquista culturale storica per la nostra giurisdizione: la scoperta nell’attività interpretativa del giudice comune del rapporto diretto con la Costituzione, da cui prese piede una nuova concezione del rapporto di soggezione.
Mi riferisco al 12° Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, che si tenne a Brescia-Gardone Riviera nel settembre 1965 e fu dedicato a “Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione”.
Quel Congresso si concluse con una mozione unitaria in cui si individuarono, come compiti del giudice, l’applicazione diretta delle norme costituzionali, ove tecnicamente possibile; il rinvio alla Corte costituzionale delle leggi non riconducibili per via interpretativa al dettato costituzionale; il dovere quindi di interpretazione conforme a Costituzione di tutte le leggi.
Approdo di quel fecondo percorso fu che ai giudici competeva di attuare l’indirizzo politico costituzionale, ovviamente nei limiti e con l’armamentario tipico del giudiziario.
Le ricadute di quel modo nuovo di intendere il rapporto di soggezione e quindi, in ultima istanza, il legame del giudice con la società furono colte dall’esterno, a volte con accenti di forte critica.
Il salto di qualità rispetto ad un modello strettamente funzionariale di magistrato fu visto da taluno come una pericolosa ingerenza del magistrato nella sfera riservata alla politica, nei termini dell’assunzione di un ruolo e di una funzione propri degli organi politicamente responsabili.
La relazione diretta con la Costituzione, non sempre e non necessariamente mediata dalla soluzione legislativa, costituì al contempo fattore di potenziamento dei risultati perseguibili per via interpretativa e condizione per la rilegittimazione in senso autenticamente professionale della figura del magistrato.
La grande novità fu costituita dal mutamento di paradigma, con l’irrompere del pluralismo dei principi e la conseguente necessità del loro bilanciamento, all’interno di uno spazio, quello dell’interpretazione, fino ad allora conformato in modo apparentemente rassicurante agli insegnamenti della scuola dell’esegesi.
13. Mutò da allora il tradizionale modo di intendere il ruolo del giudice e si iniziò a porre la questione della politicizzazione in termini anche di aperta critica, per la temuta compromissione del principio fondante della separazione dei poteri.
Non è un caso che a qualche anno di distanza da quel Congresso fu presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge sulla premessa che la politica e la contestazione, intesa questa come il confronto vivace che all’interno dell’Associazione nazionale si sviluppava proprio sul ruolo del magistrato, avevano fatto ingresso nella magistratura.
Per contrastare quanto denunciato, ossia che la magistratura si avviava così “a diventare un centro di potere, strumento di scelte politiche e di partiti”, due deputati, gli onorevoli Manco e Romeo, entrambi del gruppo del Movimento sociale italiano, proposero l’introduzione del divieto non soltanto di iscrizione a partiti politici ma anche ad associazioni di categoria, quindi all’Associazione nazionale magistrati e ai gruppi che nella sua lunga storia ne hanno animato e ancora ne animano fecondamente la vita e il dibattito interno, volendone decretare, sia pure per via indiretta, lo scioglimento.
Accade oggi che, sull’onda – ancora una volta – dell’accusa alla magistratura di assumere indebitamente un ruolo politico, ritorna con forza l’incomprensione per quella cultura della giurisdizione e dei diritti che conquistò il suo spazio nel momento di maggior forza dello Stato sociale di diritto.
E, allora, che fare?
14. Nella spiccata diversità di contesto va anzitutto riconosciuto che la forza della legge, la sua presa sulla realtà giudiziaria non è scemata con l’avvento dello Stato costituzionale, seppure essa attraversi una crisi dovuta a più fattori, per la ricorrente scarsa chiarezza dei suoi enunciati linguistici, per l’oggettiva difficoltà nell’assicurare coerenti coordinamenti tra la molteplicità dei testi normativi che si stratificano nel tempo.
In ultima istanza, anche per le difficoltà delle maggioranze politiche nella costruzione di prescrizioni sufficientemente univoche in ragione del tributo pagato a logiche compromissorie conseguenti alla carenza di omogeneità nelle scelte di valore e conseguentemente nelle visioni programmatiche.
Detto questo, e ricordata la perdita non soltanto della primazia nella collocazione tra le fonti quanto della esclusività dell’ordine gerarchico affiancato dal criterio ordinativo della competenza per l’ingresso nell’ordinamento nazionale del diritto eurounitario con efficacia diretta (regolamenti e direttive dettagliate), occorre confermarsi nella consapevolezza che il vincolo di soggezione alla legge conserva integra la sua centralità come condizione ineludibile per l’indipendenza della magistratura e quindi per la tenuta dello Stato di diritto.
Le mura della legge non segnano soltanto il confine che il giudice non può valicare nel dare e fare giustizia, ma sono i bastioni che proteggono e danno effettività alla sua indipendenza.
La soggezione, a cui nessuno intende sottrarsi, si invera però in un impegno interpretativo condotto facendo uso di tutte le tecniche e gli strumenti che la stessa legge offre, dal criterio logico, a quello teleologico, a quello sistematico, saggiando della norma la conformità costituzionale e convenzionale.
La posizione della giurisprudenza è chiara e inequivoca.
Si è detto, e non vi sono deduzioni contrarie o diverse, che l’interpretazione dei giudici si limita a portare alla luce un significato precettivo interamente contenuto nel significante, nel testo normativo; e che essa non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato linguistico, quindi del testo di legge.
Senza scardinare “i cancelli delle parole” (IRTI), il giudice non può che interpretare la singola disposizione cogliendo le relazioni con le altre, nella rete sistematica che le tiene insieme.
In tal modo si è ben lontani dalla produzione di norme e si resta a buon diritto nel campo proprio dell’interprete.
Come è stato autorevolmente affermato, “soltanto il fraintendimento della disposizione… frutto di una lettura … che prescinde dagli strumenti interpretativi rivolti a farne emergere il significato, si traduce nella creazione di una norma…altrimenti inesistente” (S. U. n. 9659 del 2023).
E che il testo normativo sia e debba essere punto di partenza e punto di arrivo dell’interpretazione (IRTI) è affermazione che non riceve smentita nelle sentenze dei giudici italiani.
La fallacia di molte critiche che su questo terreno si muovono è allora nel non comprendere:
15. Queste puntualizzazioni non escludono l’utilità di una aggiornata considerazione di quali siano le implicazioni del principio di soggezione alla legge.
La rivendicazione del potere di interpretazione esercitato con il diretto parametro della Costituzione e del diritto convenzionale è opzione culturalmente distante dalla pretesa di creare norme nel caso concreto.
Non va poi dimenticato che le norme non hanno tutte la stessa struttura: vi sono le norme-regole e le norme-principi e quelle che, per meglio governare la complessità dei fenomeni, ricorrono a clausole generali, affidando al giudice, all’interprete, secondo un modulo cooperativo fondato sulla fiducia, il compito faticoso di adattare la regola ai mutamenti sociali.
Per tutte queste ipotesi al giudice spetta di operare una scelta, e a questo punto le domande si fanno insistenti.
Nel caso dell’interpretazione conforme, tra più soluzioni compatibili, quale è quella da privilegiare?
Quella a maggior tasso di conformità o quella che, magari più distante dalla Costituzione ma non per questo tacciabile di contrarietà, è più vicina al testo da interpretare?
In nome dell’indirizzo costituzionale, il giudice è abilitato a mettere da canto un programma legislativo per così dire di minore intensità costituzionale?
Se il richiamo al testo appare cogente, in che modo esso si combina con l’esigenza di assicurare una lettura sistematicamente coerente della disposizione, di armonizzarla all’interno di un sistema formato da norme le cui disposizioni non hanno minor forza e vincolatività di quella al cui testo si vorrebbe riservare una (maggiore) efficacia attrattiva?
Vi è spazio per una applicazione diretta della Costituzione, tenendo distinta l’applicazione dall’attuazione che, come è stato detto (LUCIANI), è riservata al legislatore a cui soltanto spetta di definire tempi e modalità del programma di inveramento costituzionale?
16. Al riconoscimento di margini più o meno ampi per scelte di concretizzazione e modellamento del precetto segue il timore che l’imparzialità sia destinata a soccombere.
Su questo delicato versante conviene tenere a mente, a mo’ di premessa, l’autorevole avvertimento che l’idea del giudice privo di idee e di passioni non ha mai trovato riscontro nella realtà (SILVESTRI) e che la dichiarata estraneità alla dialettica culturale e politica nella società servì per lungo tempo a mascherare l’adesione dei magistrati, di molti di loro, al blocco storico-politico dominante e la loro dipendenza dal potere politico.
Nel cono d’ombra della ostentata riservatezza e della proclamata neutralità alligna a volte una faziosità che non si riscontra in chi non fa mistero delle sue convinzioni ma è professionalmente attrezzato per saper trascendere, nella decisione, le proprie opzioni di valore affrancandosi dalle personali concezioni in modo da realizzare il grado massimo di indipendenza, quella da se stesso (SCODITTI)
Lungo questa direzione vanno valorizzate le potenzialità antagoniste del processo rispetto allo scivolamento verso l’arbitrario soggettivismo.
La rigorosa osservanza delle sue regole, il dovere di ascolto delle parti e soprattutto l’obbligo di rendere compiuta motivazione sono gli ostacoli che la trasparenza processuale pone per inibire il pericolo che il giudice e il suo patrimonio ideale siano metro della decisione.
17. Resta da indagare l’aspetto forse più problematico della imparzialità e della sua apparenza, come condizione di credibilità dell’istituzione giudiziaria, ossia il problema di come conciliarla con i diritti del magistrato- cittadino nella sua vita sociale e di relazione.
Conviene prendere le mosse dalle affermazioni della Corte costituzionale.
Con una prima pronuncia (sent. n. 224/2009) si è chiarito:
Con una successiva decisione (sent. n. 170 del 2018) si è ulteriormente precisato che i principi di indipendenza e di imparzialità vanno tutelati non soltanto sul pano dell’esplicazione delle funzioni giudiziarie ma anche “quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che dell’indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare”.
Entra in gioco per tale via il profilo dell’etica professionale, su cui è naturale che una parola importante sia pronunciata dai magistrati che al codice deontologico devono prestare convinta adesione.
18. Questa messe di questioni, complesse ma di grande interesse, sarà resa nel prossimo futuro di poco rilievo dall’intelligenza artificiale?
Può immaginarsi una giustizia digitale sostitutiva, si può aspirare ad un giudice automatico, come è stato appellato (BARBERIS), che ci restituisca al potere nullo vagheggiato senza successo secoli addietro e per esso alla certezza del diritto senza ombra di parzialità?
L’interrogativo apre ad orizzonti ampi verso cui ci incamminiamo in molti con scarsa consapevolezza.
Il Congresso servirà almeno ad accendere una spia, a indurci a considerare se il giudizio possa strutturarsi, in nome della certezza, secondo gli schemi dell’operazione algoritmica; o se, di contro, la struttura dialogica dell’esperienza giuridica e specificamente del momento processuale sia intimamente refrattaria allo schema algoritmico.
Come già acutamente osservato (ROMANO) il dialogo, anche quello processuale, non è trattabile sulla base di meccanismi computazionali, perché “non è anticipabile nel futuro” siccome si svolge nella “formazione del senso, aperta alla molteplicità dei contributi … dei dialoganti” (ROMANO).
Deve allora, a mio giudizio, salutarsi con favore quella disposizione che compare nel recente disegno di legge di iniziativa governativa in materia di intelligenza artificiale che ha cura di precisare che “è sempre riservata al magistrato la decisione sulla interpretazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sulla adozione di ogni provvedimento”, potendo i sistemi di intelligenza artificiale essere utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario (Art. 14).
19. Concludo con l’auspicio che una riflessione ampia, che involge anzitutto il rapporto con gli altri poteri dello Stato, non attiri sul Congresso l’usurata critica della politicizzazione, che si rinnova con puntualità quando la voce e l’azione dell’Associazione nazionale magistrati hanno la pretesa di uscir fuori dall’ambito, pur nobile, della difesa degli interessi di tipo impiegatizio.
Non appena l’orizzonte si amplia, nel tentativo di prendere parola su temi che interessano il mondo della giustizia anche più di qualche aspetto della carriera intesa in senso burocratico, viene revocata in dubbio la legittimazione ad intervenire, gettando l’ombra pesante della faziosità.
Va sgombrato il campo da questa ipoteca, liberandoci dal sospetto, maliziosamente coltivato, che i magistrati che intervengono nel pubblico dibattito su temi che ineriscono alla giustizia siano politicizzati e quindi inaffidabili.
Il termine “politica”, con i suoi derivati, non può divenire un dispositivo di espulsione dalla sfera pubblica, perché una democrazia partecipativa non può che arricchirsi del contributo di una categoria che di giustizia e di giurisdizione può dire a ragion veduta.
L’intervento argomentato nella discussione non porta con sé il tentativo obliquo di interferire nell’esercizio del potere di decisione che spetta ad altri; può invece consentire decisioni e soluzioni di migliore qualità, di maggiore avvedutezza. È l’esercizio, oltre che di un diritto, di un dovere, che direi di natura civica, di contribuzione al benessere della comunità di cui si è parte viva.
Vogliamo poter dire, e sentire ancora, le stesse parole che Pericle rivolse agli ateniesi, quando con orgoglio affermava che ad Atene coloro che non si occupavano di politica erano considerati non persone tranquille ma buoni a nulla; e che ad Atene la discussione sugli affari della città non era ritenuta un ostacolo sulla via della democrazia.
Di quella idea di democrazia vogliamo continuare a sentirci eredi.
Con vivo compiacimento dichiaro aperto il 36° Congresso nazionale.
Buon lavoro!
Il nuovo Tribunale persone minori e famiglie: cosa occorrerebbe fare entro il 17 ottobre 2024 perché possa funzionare
PARTE PRIMA
di Domenico Pellegrini
Sommario: 1. Premessa: riepilogo sintetico delle attività preliminari per l’avvio del TPMF e ipotesi di cronoprogramma - 1.1. Ipotesi di cronoprogramma - 1.2. Ipotesi circa il fabbisogno di risorse - 1.2.1. Ipotesi 1: lo studio del Dog - 1.2.2. Ipotesi 2: un calcolo secondo i carichi esigibili - 1.2.3. Osservazioni su fabbisogno, aumento dei carichi di lavoro e gestione pendenze ante 17 ottobre 2024.
1. Premessa: riepilogo sintetico delle attività preliminari per l’avvio del TMPF e ipotesi di cronoprogramma
1.1. Ipotesi di cronoprogramma
1.2. Ipotesi circa il fabbisogno di risorse
Rinviando al § 7 per una analisi di dettaglio delle possibili modalità di determinazione del fabbisogno di risorse magistratuali e amministrative per il nuovo TPMF si riportano sinteticamente di seguito alcune ipotesi di calcolo.
1.2.1. Ipotesi 1: lo studio del Dog
Nel 2022 il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Ministero della Giustizia (DOG) ha condotto un primo studio per determinare l’organico del personale di magistratura necessario per l’avvio del TPMF.
Il risultato complessivo di tale studio proponeva la seguente dotazione organica:
Nello studio del DOG si evidenziava una dotazione complessiva e le modalità di recupero di tali risorse in parte dalle piante organiche degli uffici giudiziari e in parte da un aumento del personale di magistratura.
Per quanto attiene al personale amministrativo nello stesso studio il DOG evidenziava i seguenti fabbisogni:
Per quanto attiene ai dirigenti amministrativi il fabbisogno complessivo era stato quantificato dal DOG in 65 unità complessive.
1.2.2. Ipotesi 2: un calcolo secondo i carichi esigibili
Questa ipotesi considera il numero di iscrizioni nazionali in materia di famiglia e di procedimenti in gestione al giudice tutelare (tutele/ads/curatele/vigilanze): il numero delle sopravvenienze viene diviso per il numero di iscrizioni/gestioni stabilite dal CSM nella circolare sui carichi esigibili.
Nel valutare il numero di iscrizioni si è attribuito un peso alle procedure consensuali pari a 1/10 delle procedure contenziose.
Dei carichi esigibili vengono considerate l’ipotesi minima, mediana e massima (per il GT è stato ipotizzato un ruolo di 1000/1800/4000 procedimenti in gestione).
In base al dato mediano occorrono 634 giudici nelle sezioni circondariali.
Per i dati dei giudici distrettuali e per le Procure si rinvia allo studio del DOG e quindi per il nuovo TPMF servono:
1.2.3. Osservazioni su fabbisogno, aumento dei carichi di lavoro e gestione pendenze ante 17 ottobre 2024
In relazione alle ipotesi di fabbisogno si osserva che:
a) la previsione del Dog prevedeva, tanto per i magistrati che per il personale amministrativo, che il fabbisogno fosse soddisfatto sia da risorse sottratte alle Corti di Appello che ai Tribunali ordinari, sia da nuove risorse aggiunte con un aumento della pianta organica nazionale;
b) tale aumento veniva incontro alla esigenza di non sottrarre risorse dai (numerosi) tribunali più piccoli, dove vi è una sola sezione civile ed a volte una sola sezione promiscua: in tali uffici la perdita anche di una sola unita può portare alla paralisi dell'ufficio;
c) inoltre evitava di gravare in modo eccessivo su quegli uffici che oggi destinano da 1,1 a 1,9 risorse full-time equivalent al settore famiglia: invero poiché i giudici del TPMF svolgono funzioni esclusive nella materia di competenza a tali uffici potrebbe essere sottratta un numero di risorse fisiche superiore alla quota full time equivalent.
Va poi evidenziato che con la sottrazione ai giudici onorari esperti del TM delle competenze in materia di ascolto del minore e delle parti processuali e quindi di celebrazione delle udienze più impegnative il lavoro di questi ultimi si riverserà sui giudici ordinari.
I giudici onorari esperti sono 770: lavorando due giorni a settimana il loro lavoro equivale a quello di circa 250 giudici togati.
L’aumento di carico di lavoro stimabile, sui giudici ordinari, considerate le attività già devolute ai giudici esperti, può essere stimato nel 30%: tale dato non è stato preso in considerazione nel calcolo del fabbisogno che sotto tale profilo è sottostimato.
In ogni caso, qualunque decisione sulla pianta organica presuppone la risoluzione del tema delle cause pendenti presso i tribunali ordinari.
La attuale soluzione normativa prevede la permanenza di tali cause presso i tribunali ordinari che quindi dovranno organizzare specifiche sezioni anche qualora i giudici delle sezioni specializzate si trasferiscano presso il nuovo TPMF. In tale caso la copertura della pianta organica del TPMF potrebbe essere ridotta, inizialmente, ma con necessità di adeguare la copertura ogni 6 mesi per evitare la formazione di un forte arretrato.
Viceversa, ove con modifica normativa si adotti la soluzione opposta (ossia che i nuovi TPMF gestiscano anche le pendenze dei tribunali ordinari in materia di famiglia al 17 ottobre 2024, la pianta organica dei TPMF dovrà non essere adeguata ma adeguatamente coperta.
Va segnalato che con l’attuale normativa le Corti di Appello rimarranno competenti sugli appelli nei confronti dei provvedimenti del TO ben oltre il 31-12-2029: calcolando un tempo di definizione di 2 o 3 anni per gli appelli contro i provvedimenti di primo grado si può stimare una competenza residua della Corte fino al 2032/2033. È pur vero che la CDA rimane competente per gli appelli contro i provvedimenti collegiali del TPMF ma questi ultimi, a normativa invariata, non riguardano nessun procedimento dell’attuale TO.
Tale residualità della competenza della CDA, il cui peso diminuirà nel tempo, rischia di determinare, come per i TO, l’affidamento delle cause a sezioni non più specializzate.
La creazione di due circuiti giudiziari per le cause di famiglia determina la possibilità che mentre le separazioni introdotte prima del 17 ottobre verranno decise dal collegio TO con appello alla CDA, i divorzi introdotti il 17 ottobre 2024 dopo vengano decisi dal TPMF circondariale con appello al TPMF distrettuale, con tempi diversi e non coordinabili tra loro.
(Immagine: José Ferraz de Almeida Júnior, Scena di famiglia, 1891, Pinacoteca di Stato di San Paolo, Brasile)
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio.
Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao
Sommario: 1. Introduzione. Parlare in nome del diritto penale. Il principio di legalità oltre le ‘Scuole’ - 2. Tra equità e legalità - 3. «Politica e diritto penale» - 4. Lo Stato e il fascismo - 5. «Grazia e giustizia trasformate in strumento di parte» - 6. Epilogo. Il ricordo dei penalisti.
1. Introduzione. Parlare in nome del diritto penale. Il principio di legalità oltre le ‘Scuole’
In Porte aperte Leonardo Sciascia ha offerto un’immagine illuminante di Giacomo Matteotti tra diritto e politica, ripresa da diversi studiosi, «Matteotti era stato considerato, fra gli oppositori del fascismo, il più implacabile, non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta, da cui scioltamente si entrava e si usciva, ma perché parlava in nome del diritto, del diritto penale»[1].
Il Matteotti che parlava in nome del diritto penale parlava in nome della legalità, bussola per il Matteotti politico[2], un socialista riformista, oppositore democratico del fascismo, con un futuro nell’Italia liberata ‘diviso’ tra «mito» e «prolungato silenzio sulla sua vita e sui suoi scritti»[3].
A un anno dall’assassinio di Matteotti il deputato e costituzionalista Enrico Presutti scriveva che il Nostro «pagò con la vita non una battaglia per un ideale socialista e per un partito, ma per una rivendicazione della legalità e della giustizia»[4]. Per la condivisione ‘senza se e senza ma’ di questi principi Matteotti non pare incasellabile in una delle ‘Scuole’ penali, che si contendevano il campo scientifico ed accademico ancora nei primi due decenni del Novecento[5], neppure nella galassia del socialismo giuridico[6]. Non ‘politicizzava’ una ‘doppia legalità’, sostanziale e processuale[7], pensata come «pregiudiziale»[8] nella battaglia per la giustizia sociale; «in vista di un progresso reale della legislazione e della giurisprudenza»[9] esprimeva un ‘eclettismo’[10] nel segno del penale come tutela giuridica delle libertà, per Mario Sbriccoli cuore vitale della «penalistica civile»[11].
Come è noto, Matteotti si laureava nel 1907 a Bologna con una Tesi sulla recidiva, relatore Alessandro Stoppato, cattolico moderato, tra gli artefici del codice del 1913, dal 1920 deputato liberale e senatore. Il penalista polesano pare aver appreso dal maestro soprattutto il senso garantista del processo penale, vocato, citando Francesco Carrara, alla punizione del colpevole e al tempo stesso alla libertà e sicurezza dell’«innocente»[12]. Era un principio condiviso; il socialista Enrico Ferri – maestro della Scuola positiva, talora criticato da Matteotti per il determinismo, sotteso al paradigma della «difesa sociale»[13] – distingueva tra codice penale dei «birbanti» e codice di procedura degli «onesti sottoposti a processo»[14]. Incoraggiato da Stoppato il giovane polesano soggiornava anche all’estero per studiare i problemi teorici e i dati fattuali della giustizia criminale europea e transatlantica, pienamente acquisiti e meditati[15]; nel 1910 usciva La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici. Matteotti non ‘dissolveva’ il diritto penale nelle scienze sociali, pur considerate nell’opera; metteva a tema, tra l’altro, i ‘carrariani’ «limiti legali», «ultimo baluardo della libertà individuale»[16]. In una significativa lettera alla moglie Velia la rivoluzione bolscevica interrogava il penalista socialista sul senso della «scienza da tavolino», dal momento che «due giorni di rivoluzione russa» avevano posto «nel nulla migliaia di volumi sulla legislazione anteriore»; ebbene, Matteotti scriveva che «il taglio di un’immensa foresta» non cancellava il ruolo garantista del «più minuto lavoro dell’intagliatore», delle «sottogliezze giuridiche»[17].
Piero Gobetti ha ricordato che «ai facili successi avvocateschi» ‘alla Ferri’ Matteotti aveva preferito «aridi studi di procedura penale», da «professori di diritto»[18]; in particolare gli scritti pubblicati tra il 1917 e il 1919 possono sembrare «aridi», in quanto connotati da un serrato argomentare tecnico-giuridico. Matteotti prendeva però le distanze dalla «glossa che nulla chiarisce», con riferimento al Trattato di Vincenzo Manzini[19]; lo specialismo dava forza all’idea della rilevanza costituzionale della giustizia penale. In una lettera pubblicata sulla Rivista di diritto e procedura penaleMatteotti scrivava al socialista Eugenio Florian, «illustre professore», anche per una considerazione polemica sui criteri metodologici della scienza penalistica, «ai giovani sembra interdetto di muovere grosse questioni se non si scrivono grossi volumi, infarciti di citazioni»[20]. Eppure i lavori dell’«avvocato in Rovigo» erano accolti anche dal liberale Luigi Lucchini, dal 1874 direttore della Rivista penale, assertore, nelle crisi della legalità di fine Ottocento e nel 1925, delle «leggi penali indissolubilmente legate alle vicende delle pubbliche libertà»[21].
Nell’immediato dopoguerra pareva prossima una riforma della giustizia penale, nel segno del rafforzamento della difesa sociale; nel 1919 il guardasigilli Ludovico Mortara incaricava Ferri di riformare il codice Zanardelli, tra le critiche di Lucchini della scelta di campo positivista[22]. Gli scritti di Matteotti non accennavano al Progetto ferriano di codice penale – anticipato da una Prolusione del 1919 – che stravolgeva le grandi fondazioni della codificazione, principio di stretta legalità in primis[23]. Nella recensione dei Principi di scienza del diritto penale di Giuseppe Sabatini Matteotti ancorava il diritto penale alla «nozione formale e essenzialmente giuridica del reato, quale è fissata dal legislatore in concreto», non alla «generica anormalità e pericolosità dell’individuo, come fu rimproverato ai primi positivisti»[24].
A differenza della Russia sovietica, e poi della Germania nazista, il regime fascista non avrebbe rinunciato alla legalità, che cambiava di segno nella profonda trasformazione costituzionale dello Stato. Matteotti ne coglieva l’esordio nell’«abuso dei decreti legge»[25]; per Alfredo Rocco la «nuova legalità fascista» poggiava proprio nella legge 100/1926sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche[26]. Quanto al penale, nel 1939 Giuliano Vassalli – «penalista partigiano», poi padre dell’unico codice della Repubblica[27] – indicava nel principio di stretta legalità il cardine della codificazione, con i «giuristi tutti concordi» nel «riaffermare il valore del principio», pur nel «mutare dei punti di vista», dalla tutela delle «libertà individuali» a quella della «autorità dello Stato»[28]. Ebbene, prima della costruzione del regime Matteotti denunziava questa torsione autoritaria del nullum crimen sine lege, elemento costitutivo della «Dittatura fascista»[29], di cui coglieva un’inedita capacità di comunicazione di massa e di mobilitazione permanente del popolo. Nella Biblioteca della Camera il deputato socialista unitario leggeva quasi quotidianamente «libri di economia o diritto»[30], in vista dei suoi scritti e per l’attività parlamentare; la tensione la legalità – architrave degli scritti del biennio tra il 1917 e il 1919 – ispirava la documentatissima requisitoria di Matteotti contro la «dominazionefascista», non governo, dal momento che la violenza contro i nemici del fascismo appariva l’elemento costitutivo dell’«illegalismo fatto permanente»[31].
2. Tra equità e legalità
Negli scritti del periodo bellico e postbellico risaltava la consapevolezza di Matteotti delle grandi trasformazioni sociali, che andavano spostando il centro dell’ordine giuridico liberale dalla legalità all’equità, dalla legislazione alla giurisprudenza, dalla giurisdizione all’amministrazione[32]. In un ampio saggio, scritto da confinato militare nei pressi di Messina[33], il penalista sosteneva che la «sentenza penale» di un «non giudice», incaricato dal «potere esecutivo» di «giudicare e condannare senza averne il potere secondo lo stututo fondamentale del regno (art. 71)», non valeva «più di quella che potrebbe arbitrarsi di emanare un privato qualsiasi, un consiglio comunale, o il consiglio di stato; non esiste assolutamente»; asseriva «può essere impugnata, può passare in giudicato e avere giuridica rilevanza soltanto UNA SENTENZA EMANATA DA UN GIUDICE» (sic)[34]. Matteotti indicava nel Parlamento l’artefice della «legislazione», che, «anche nei tempi che sembrava affermata dalla volontà di uno solo», non appariva «mai un fatto arbitrario, ma attua esigenze, obbedisce a tendenze e utilità suggerite dai diversi strati sociali». Asseriva che il «desiderio di riforme, che diano più larga soddisfazione alla giustizia di contro alla formalità del giudicato», non doveva far perdere di vista il «sistema legislativo attuale», con il «dovere dell’interprete e dello studioso di applicarlo secondo la sua precisa e chiara volontà». Matteotti negava alla Cassazione la facoltà di ammettere nullità insanabili in nome dell’«equità»; sottolineava che la sentenza passava in giudicato «non appena trascorra il termine utile senza che sia presentato un gravame formalmente valido». Criticava certe interpretazioni della Suprema corte, che avevano annullato talune sentenze in nome del «supremo interesse della giustizia» o di «verità giuridiche che non possono essere coperte dal giudicato». Il «punto di vista dell’equità» pareva «una breccia che si apre in un sistema legislativo […] pericolosa breccia»; in una lucida lettura del passato e del presente dell’Italia Matteotti metteva a tema il senso della legalità, «in uno Stato e in un tempo come il nostro, dove è altrettanto facile l’abuso delle autorità, quanto la diffidenza del popolo verso di esse, è da preferirsi nelle leggi l’interpretazione più esatta e rigida e far posto all’esigenze dell’equità solo con le dovute riforme legislative»[35].
Quanto al «sistema meglio rispondente alle esigenze del senso popolare di giustizia, del momento storico attuale», Matteotti scriveva che «si potrà proporre de lege ferenda […] ma intanto si applichi quello che la legge vuole»[36].
Nel dilemma tra equità e legalità il penalista polesano pareva ‘anticipare’ l’ideario di Piero Calamandrei, che, di fronte al «complicato labirinto di giurisdizioni speciali», metteva a tema il «significato costituzionale delle giurisdizioni di equità», nella tensione a che l’istituzione di organi specializzati evitasse l’arbitrio del giudice ed il diritto libero, ascritto alla «Russia comunista»[37]. Nel 1920 Calamandrei pubblicava i due volumi de La Cassazione civile, organo supremo di garanzia di certezza del diritto ed unità e uniformità della giurisprudenza[38]; Matteotti lasciava un manoscritto, Cassazione. Studio di diritto processuale penale[39]. Alcuni scritti ne rimandavano il senso, nel legare la Corte suprema all’esigenza di legalità, anche contro le forme conciliative ed istanze equitative di quella stagione. Sulla Rivista di diritto e procedura penale Matteotti scriveva dunque a Florian a proposito della «nuova giurisdizione dell’intendenza di finanza, creata dai diversi decreti lgt.sui consumi»; riprendeva gli argomenti del maestro sull’«organo spurio», iscritto nella «giustizia penale dei pieni poteri». Il giurista polesano poneva l’alternativa tra accettare la giurisdizione dell’Intendente di finanza tra le «speciali penali» o «disconoscerne il carattere penale»; auspicava «esca dal diritto penale tutta la materia che non gli appartiene», affinchè «i giudici penali», «liberati dall’ingombro», potessero «procedere e attuare un diritto penale [che] prepari gli sviluppo della scienza futura». Per il momento commentava nei termini dello «scandalo giuridico» lo spostamento dal magistrato ordinario all’«improvvisato giudice», deputato a «giudicare reati e delinquenti»[40]. Florian riconosceva all’«egregio nostro amico e collaboratore» il merito di «liberare l’ala del suo pensiero a più vasto orizzonte»; apprezzava la critica dell’«enorme estensione dell’applicazione della pena», ridotta a «comune denominatore di fatti intimamente e giuridicamente diversi»[41].
In un saggio sui ricorsi in Cassazione Matteotti considerava il «massimo istituto» come «organo sommo di controllo», in grado di «garantire la legalità del procedimento» e a «toglier di mezzo le violazioni o erronee applicazioni della legge penale». Il giurista polesano sosteneva che la garanzia della Cassazione penale, elemento costitutivo della ‘normale’ legalità, diveniva indispensabile «in tempo di guerra o accelerato conflitto sociale», quando erano istituiti tribunali speciali in occasione di «moti rivoluzionari e lotte civili». In particolare Matteotti sottolineava che le sentenze dei tribunali militari e del Tribunale supremo di guerra e marina erano impugnabili senza limiti di tempo, in nome della «resistenza agli arbitri e abusi della forza», con un «ultimo giudizio, ma di puro diritto per ridurre al minimo le possibilità di un arbitrio». Quanto ai ricorsi in Cassazione, il penalista polesano misurava la distanza dai tempi del «diritto di grazia», «quando le libertà e le garanzie erano malsicure»; Matteotti sosteneva che, nello Stato di diritto, i ricorsi erano ammessi in caso di «violazione dei diritti del singolo e della collettività», di fronte ad un’«unica corte per l’unità del diritto»[42].
Nell’ampio Il concetto di sentenza penale e le dichiarazioni di incompetenza in particolare Matteotti scriveva «non ex regula ius, sed ex iure regula»[43]; osservava che «ogni epoca, ogni momento storico», avevano un proprio «complesso variabile di necessità», di cui il «legislatore» era chiamato a «tenere conto». Nella critica dell’art. 98 del codice di procedura penale del 1913 ancorava però eventuali riforme della codificazione al rispetto dei «concetti essenziali», che «richiedono saldezza e unità», liberi, con toni ‘carrariani’, da «ogni criterio politico dove prevalga la contingenza e il compromesso, per pretendere una maggiore purezza formale»[44]. Di fronte alle istanze per una giustizia sostanziale, che si affacciavano in quella stagione, il penalista polesano intendeva affidare la «legislazione» alla ‘razionalità’ dello Stato di diritto, anche se sosteneva che non vi era una «idea immutabile di sentenza», una «unica e assoluta verità». «Preparare il diritto positivo di domani», anche con la critica della «definizione legislativa» di sentenza, era intesa come un’operazione ‘legale’, che l’operatore della giustizia era tenuto a svolgere «senza offesa alla legge»[45].
Da una prospettiva che legava il diritto penale sostanziale e la giurisdizione Il pubblico ministero è parte – citato da Vassalli nel 1942[46] – affrontava una «controversia antica e mai sanata»[47]. Matteotti muoveva rilievi al codice di procedura penale del 1913, che aveva costruito un organo di giustizia «imparziale», portatore – con le parole di Manzini – di un «interesse giuridico superiore». La critica della manziniana entità unitaria di giudice e pubblico ministero come personificazione dello Stato muoveva dalla distinzione di funzioni tra magistrati, ancorata ad un processo leale e garantito da accusa e difesa ‘ad armi pari’. Il pubblico ministero come «parte», garanzia di legalità processuale, era dunque incaricato «non della condanna a ogni costo anche dell’innocente, ma alla persecuzione di chi realmente l’offese», con la sottolineatura della «limitazione della libertà personale di quei soli individui che, delinquendo, dimostrarono la loro inattitudine alla normale vita sociale». Matteotti intendeva sottrarre il pubblico ministero al ruolo di «figlio della politica»[48], stigmatizzato da Carrara e dalla penalistica liberale, collocandolo entro il principio della «divisione dei poteri, su che si fondano i moderni regimi costituzionali», con le «garanzie d’indipendenza di cui sono circondati gli organi di giustizia»[49].
In Classificazione degli incidenti di esecuzione Matteotti sosteneva la tesi dell’intangibilità del giudicato e di una pena da adattare alla «individualità» del condannato; prevedeva che, «nel prossimo avvenire», pene ed altre misure sarebbero state considerate provvedimenti esecutivi, con un caveat garantista, «ma qualificati come ‘pene’». Evocava una «futura magistratura specializzata», «non più quella di oggi», una «importantissima magistratura amministrativa fornita di speciali cognizioni», «salvo il controllo eventuale di legalità da parte della giurisdizione». Nel chiedere più tutele giuridisdizionali per questa fase del processo penale – istanza accolta dalla codificazione del 1930 in tema di misure di sicurezza – Matteotti preferiva il «giudice» al Ministero dell’Interno, «quando oggi si dice che un provvedimento è affidato all’amministrazione significa subito abbandonarsi alla discrezione più indiscreta, a criteri che nulla hanno in comune con i fini e l’essenza della pena».
Concludeva pertanto che, nel frattempo, era opportuno affidare le decisioni in tema di esecuzione penale al giudice, «provvisoria tavola di salvezza, alla quale […] conviene attaccarci»[50].
In una lettera a Matteotti Arturo Rocco – ‘pontefice’ dell’indirizzo tecnico-giuridico, nazionalista, futuro artefice del codice penale del 1930[51] – espriemeva grande apprezzamento per il saggio, per «portare luce non indifferente su un tema – quello dell’esecuzione – che è senza dubbio tra i più oscuri e difficili del diritto procedurale penale»[52]. In un intervento del 24 marzo 1922 alla Camera Matteotti tornava sull’argomento; osservava che l’esecuzione della pena era nelle attribuzioni del Ministero dell’Interno, e che si faceva strada l’idea di affidarla a quello della Giustizia. Il deputato spiegava che, in Italia, il primo era «strumento politico che il presidente del Consiglio appetisce per sè, e vuol tenere per sè, come strumento di potere, unicamente»; aggiungeva che, da Depretis a Giolitti, quel «Ministero meramente politico» non aveva assolto, a differenza di altri paesi, a «fini di assistenza sociale», quale appunto l’esecuzione della pena. Matteotti denunziava inoltre la vanitas di presentare al governo le sue proposte di riforma in tema di carceri, colonie penitenziarie agricole, «minorenni corrigendi», col paragone del gettarle «in un acqua senza fondo»[53]. Il decreto Oviglio del 31 Dicembre 1922 n. 1718 e l’attuativo del 28 giugno 1923 n 1890 spostavano la competenza in tema di esecuzione penale dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia[54].
3. «Politica e diritto penale»
Il bilancio di Matteotti sul «fascismo della prima ora»[55] e sulla «dominazione fascista» intendeva smontare l’autorappresentazione di successo del «governo», in grado di «ristabilire l’autorità dello Stato e la legge, che si diceva diminuita dal bolscevismo prima e dalle bande armate del fascismo poi, soverchianti la debolezza del regime democratico»[56], «il governo fascista giustifica la conquista armata del potere politico, l’uso della violenza e il rischio di una guerra civile, con la necessità di ripristinare l’autorità della legge e dello Stato, e di restaurare l’economia e la finanza salvandole dall’estrema ruina»[57].
L’argomento aveva avuto un suo «fascino», anche tra i giuristi[58], che, di fronte alle violenze politiche e sociali del primo dopoguerra, dismettevano il tradizionale habitus tecnico nel denunziare quella che pareva, oltre la questione penale, una crisi dello Stato. Alfredo De Marsico misurava la distanza tra «nuovo della vita» e «vuoto della legislazione»[59], inadeguata alle «nuove forme di delitto collettivo»[60]; per Gennaro Escobedo il codice Zanardelli era un «abito che non sta più al ragazzo che cresce», l’«evoluzione della criminalità sociale e politica»[61]. Il Rdl 22.4.1920 incriminava reati politici e sociali, cui seguivano decreti di amnistia e indulto per ovviare al carico giudiziario[62]; di fronte ai «lavoratori ribelli» la Cassazione anteponeva la difesa dell’ordine alla libertà in nome della difesa dei «principi dello Stato di diritto»[63]. Nella consapevolezza del nesso tra «politica e diritto penale» Eduardo Massari descriveva i «movimenti collettivi»; osservava che gli scioperi nei servizi privati e pubblici, i boicottaggi, le invasioni di terre, l’autodifesa di leghe contadine, con sequestri ed improvvisati tribunali di classe per crumiri e dirigenti di aziende, rimanevano impuniti per l’inerzia dei «pubblici poteri»[64]. Destavano particolare allarme gli scioperi dei dipendenti pubblici, per Arturo Rocco «guerra» di un gruppo di lavoratori contro la Nazione, meritevole di una più decisa «repressione penale»[65]. Nella Prolusione del 1920, all’indomani dell’occupazione delle fabbriche, Alfredo Rocco stigmatizzava «lotte tra partiti e fazioni ormai apertamente armate»; osservava un’«opinione pubblica» stanca della «guerra incomposta dei particolari interessi contro tutti gli altri cittadini», auspicando il passaggio dalla «autodifesa di classe alla giustizia di Stato»[66]. Nella penalistica l’azione delle «guardie rosse» armate, a difesa degli stabilimenti occupati, acuiva l’allarme per il ‘sovversivismo’, indistinto contenitore politico, con la paura di «rivoluzioni sociali come quella francese e russa con spargimenti di sangue»[67]. Nella tensione a «restaurare la sovranità dello Stato» l’autorevole Trattato di Manzini scriveva «l’attività di sovversivi, anarchici, socialisti, etc […] estranei alla compagine nazionale, abbandonandosi a delitti di ogni specie, determinò l’attività dei cosiddetti fascisti, la quale, provvida dapprima, eccedette poi con spedizioni punitive »[68].
Dal canto suo Matteotti ricorderà che «proprio sotto la dirigenza di capi e di organizzazioni fasciste, si è avuto in Italia il primo esperimento di occupazione delle fabbriche»[69]; nel febbraio del 1924 coglierà che, nella campagna elettorale, l’occupazione delle fabbriche «è tornata per l’ennesima volta a servire di argomento polemico contro i… bolscevichi»[70].
Il Rdl 4.1.1921 incriminava l’occupazione arbitraria di immobili, cui seguivano provvedimenti di amnistia ed indulto; Lucchini criticava il pendolarismo del governo tra aumento delle pene e rinunzia all’esercizio dello ius puniendi[71]. Giolitti e Nitti peroravano per il ritorno alla legalità; Alfredo Rocco – nel 1921 eletto deputato a Roma nella lista dei blocchi nazionali – sosteneva che la scelta di «far entrare le masse popolari nella vita nazionale» aveva avuto successo di fronte ai «movimenti» del Risorgimento, «extralegali» ma «nazionali», altro dal «partito socialista, che non è un partito nazionale», ma «anarchia, digregazione dello Stato»[72]; indicava l’impossibilità di una «transazione tra il bene e il male, la verità e l’errore, la Nazione e antinazione»[73]. L’avvocato e giornalista dannunziano Pietro Marsich – difensore con successo dei fascisti in tribunale – dichiarava che la «vera difesa dello Stato» andava esercitata «fuori dalla legge, una volta che la legge è cosa vana»[74]. Lucchini distingueva tra socialismo, delitto comune, e violenza squadrista, intesa a ristabilire l’ordine; metteva in guardia dai socialisti di ogni tipo, fino a scrivere «fascisti, delitti a parte, continuate nella provvida opera vostra, e non fate distinzioni fra socialisti […] forse quelli che s’ammantano con la pelle dell’agnello rifomista sono i più pericolosi»[75].
Al Congresso nazionale socialista di Milano Matteotti denunziava l’inerzia della magistratura di fronte alla quotidiana violazione della legalità da parte delle squadre fascista, e criticava Lucchini, procuratore generale in Cassazione e direttore di una Rivista molto letta nel mondo giudiziario, che nel 1922 definiva il «socialismo una forma di delinquenza che i magistrati devono reprimere»[76]. All’indomani della marcia su Roma Lucchini scriveva che la formazione del Ministero Mussolini, rispettosa della legalità formale, aveva chiuso la «sanguinosa guerra civile […] con la Restaurazione nazionale e autorità dello Stato»[77]. Ferri costituiva il gruppo parlamentare dei socialisti nazionali, disposti ad interloquire con il «governo Mussolini», «comprensibile reazione agli eccessi del dopoguerra»[78].
4. Lo Stato e il fascismo
Di fronte a questo ‘coro’, in solitudine, alla fine del 1923 Matteotti dimostrava invece che «la legge» era stata svuotata di senso, ridotta a «finzione», e che lo Stato di diritto aveva lasciato il posto a quello fascista, «mai come in questo periodo la legge è divenuta una finzione, che non offre più nessuna garanzia per nessuno […]. Nessun cittadino sente sopra di sé la vigilanza di uno Stato; ognuno sente solo la minaccia di un partito che è padrone dello Stato, cosicché chi è membro del partito crede se stesso lo Stato; chi è avverso al fascismo, è costretto a confondere lo Stato nella sua avversione contro il partito dominante».
Il deputato socialista indicava la violenza come elemento costitutivo del governo Mussolini e la continuità tra «la parole dei capi» e la drammatiche «cronache dei fatti»; smontava la narrazione sulla pretesa restaurata «autorità della legge e dello Stato», con «numeri, fatti e documenti», denunziando il collasso della legalità, «mai tanto, come nell’anno fascista l’arbitrio si sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la nazione in due ordini, dominatori e sudditi […] diminuiti i compensi e le più piccole risorse della classe lavoratrice e dei ceti intermedi, che hanno perduto insieme ogni libertà e ogni dignità di cittadini».
Matteotti osservava inoltre che il governo aveva annunciato «la sostituzione di una rappresentanza del lavoro ai vecchi organi costituzionali», proposta che andava di pari passo con la «distruzione di fatto, ad una ad una, di tutte le migliori conquiste della legislazione operaia»[79]
La «Situazione economica e finanziaria» apriva la Parte Prima di Un anno e mezzo di dominazione fascista, con la puntuale critica del «miracolismo fascista», che, «mentre predica l’indipendenza dell’economia dallo Stato, si illude poi di influire immediatamente sulla economia con la volontà politica»[80]. Quanto al mutamento costituzionale in corso, Matteotti si impegnava nella difesa di un cardine della legalità statutaria, seppur eroso da tempo; condannava la concessione dei pieni poteri al governo in materia finanziaria e l’«abuso dei decreti legge». Ricordava che il presidente del Senato, Tittoni, il 3 aprile 1922 aveva chiesto di limitare la decretazione d’urgenza ai «casi eccezionalissimi», col definire il ricorso al decreto legge «frutto dell’improvvisazione e impreparazione […] via tortuosa alla quale ricorrono quelle classi […] le quali aspirano a ottenere vantaggi a danno di altre classi o della collettività sociale […] che per la via maestra della legge non ruiscirebbero a ottenere».
Dati alla mano, Matteotti dimostrava che dal 1915 al 1921, («periodo eccezionale guerra e dopoguerra»), la media annuale era stata di 419 decreti legge, 103 nei sei mesi del governo Facta, 517 «nell’anno fascista, senza contare i quasi 800 decreti emanati per la legge dei pieni poteri», taluni respinti dalla Corte di Conti o registrati con riserva. Elencava i provvedimenti, che, oltretutto, comportavano un importo di spesa ai danni di tutti i cittadini, nonostante l’«impegno sacro» della circolare ministeriale 14 maggio 1923 a non «eccedere le somme stanziate nei bilanci». Dimostrava che i «fatti fascisti sono perfettamente l’opposto del programma»[81].
Tra i provvedimenti in tema di «giustizia» Matteotti commentava la soppressione delle cinque Corti di Cassazione regionali e l’unificazione in Roma – peraltro auspicata da anni da Mortara e da Calamandrei – rilevando il «licenziamento» del «primo presidente e proponente Ludovico Mortara»[82], «caso inaudito del collocamento a riposo», accostato al «licenziamento» del docente di diritto costituzionale a Palermo e Messina, deputato, Ettore Lombardo Pellegrino[83]. Matteotti considerava poi che l’opportuna razionalizzazione delle circoscrizioni giudiziarie – attuata con la soppressione delle preture, tribunali, corti d’appello non attive – era stata corretta dall’«energico governo fascista, che torna a ricreare 250 sedi di distaccate di Pretura per tacitare le proteste e agitazioni dei fasci locali !». Definiva «generica e deplorevole» la «delegazione» al Governo da parte del Parlamento per «la riforma di alcuni codici»; Matteotti era consapevole delle spinte per un necessario aggiornamento della codificazione, ma sottolineava che «nessuno» aveva capito «le idee e i criteri del governo, oltre quelli già risultanti dallo studio delle antiche Commissioni; e non possono essere preveduti i risultati»[84].
Il paragrafo «Costituzione, Propaganda, ecc» coglieva la modernità del partito fascista, radicato nel territorio in modo militare, attento alla comunicazione di massa, grazie all’istituzione, presso diversi ministeri, di «uffici per reclamizzare ogni più piccolo atto del governo fascista», ed artefice, «all’estero», di una serrata «campagna di propaganda» per il fascismo, ben oltre il «puro interesse nazionale». Matteotti denunziava poi il senso del «mutamento costituzionale», proposto dal segretario del partito, Michele Bianchi, per cui il re avrebbe incaricato della formazione del governo «l’uomo più rispondente alla volontà del paese»; questi, una volta ottenuto il voto di fiducia della Camera, non avrebbe avuto bisogno di invocarne un altro «durante la legislatura». Il deputato socialista riportava quanto affermato da un sottosegretario, a proposito di non precisati «i dirigenti del fascismo», «intorno al Re per persuaderlo al mutamento costituzionale e che sperano di riuscire»[85].
Matteotti ripercorreva «la soppressione delle civiche libertà, la confusione della legge con l’arbitrio, dello Stato col partito»; «lo Stato asservito al partito» risaltava in particolare nella sostituzione degli organi statutari con la milizia, in violazione dell’art. 24, «L’Italia è il solo paese civile dove una milizia di partito tenuta in armi è pagata a spese dello Stati contro un’altra parte di cittadini».
Il deputato socialista unitario ricordava che il comandante De Bono aveva inviato telegrammi dichiarandosi «pronto a uccidere per il fascismo», e chiedeva «[chi, cittadini italiani ?]». Aggiungeva che il «Il Gran Consiglio Fascista si è sostituito al Consiglio dei ministri, disponendo delle cose della Nazione», e che la «Direzione del Partito Fascista chiama continuamente a rapporto i prefetti dello Stato italiano». Denunziava che «moltissimi impiegati dello Stato, professori, magistrati, operai sono stati esonerati o licenziati unicamnete perché non graditi al partito fascista». Accusava il fascismo di ridefinire la stessa cittadinanza, nel collasso dell’uguaglianza dei soggetti, «esser fascisti è insomma una seconda e più importante cittadinanza italiana, senza la quale non si godono i diritti civili e la libertà del voto, del domicilio, della circolazione, della riunione, del lavoro, della parola e dello stesso pensiero»[86].
Nel lungo e sinistro elenco delle «parole dei capi»[87] Matteotti coglieva in quelle di Mussolini la cifra del regime, «dittatura» – «se la Camera farà dei passi falsi sarà soppressa»[88] – e tensione per lo «Stato integralmente fascista […] la sostituzione della classe dirigente fascista, o ligia al fascismo, alla classe dirigente di ieri»[89]. Il segretario del partito socialista unitario difendeva le prerogative del Parlamento, la «funzione legislativa e di controllo», argine «all’arbitrio di un uomo o di un Partito, che solo dispone di forza armata al proprio servizio»[90]. In vista di un fronte unitario contro il fascismo indicava alle opposizioni, senza successo, l’obbiettivo comune della «riconquista delle libertà statutarie»[91]; ‘provocava’ la maggioranza, richiamandola all’«osservanza dell’autorità dello Stato e della legge … che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione»[92].
5. «Grazia e giustizia trasformate in strumento di parte».
Al Matteotti penalista appariva evidente il senso politico del «decreto di amnistia e condono del 22 dicembre 1922 n. 1641», che riservava la clemenza penale per i delitti commessi per le ‘consuete’ «cause economico sociali» e per un «fine nazionale»[93]. L’incriminazione del «fatto commesso o istigato, pregiudizievole al fine nazionale», eredità della guerra, era stato messo a tema da Florian, che raccomandava cautela nell’applicazione di norme che avevano senso nella giustizia penale dei pieni poteri[94]. Si era poi radicato l’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale sui fascisti, rappresentanti la nazione, e sui «sovversivi», l’antinazione, ‘incunabolo’ del rinunciare alla pena e al processo per i delitti commessi per un fine nazionale. Su La Scuola positiva Marsich indicava il senso ‘costituzionale’ del non punire i delitti commessi per un «fine nazionale», «il diritto accoglie la clemenza non perché soltanto clemenza, ma perché nella medesima riscontra una utilità pubblica […] l’interesse dello Stato a non punire prevale sull’interesse dello Stato a punire»[95].
I penalisti positivisti salutavano il riconoscimento del momento soggettivo nel reato, cardine della ‘Scuola’, senza considerare il profilo discriminatorio del fine nazionale; Arturo Santoro riprendeva gli argomenti di Sergio Panunzio sulla «violenza che si fa diritto», realizzando «il bene della nazione»[96]. Nei Principii di diritto criminale del 1928 Ferri sosterrà che, in virtù del decreto 1641/1922, il fine del delinquente era entrato nella legislazione in modo determinante, non più accessorio[97]. In alcuni appunti del 1924, inediti all’epoca, Calamandrei scriveva che il giudice, «senza perdere la sua obiettiva serenità», poteva valutare se, ai sensi della «legislazione penale», un reato fosse comune o politico, ma «non in quanto compiuto da un partito od un altro»; aggiungeva che se legislatore «cominciava a entrare in valutazioni che distinguono tra partito e partito (per es. reato per fini nazionali», il «giudice» era «chiamato in pericolose partecipazioni alla lotta politica»[98].
Alla «sovrana indulgenza» dedicava uno studio monografico di oltre cento cinquanta pagine l’avvocato e docente fiorentino Giulio Paoli, come Matteotti allievo di Stoppato; vicino a Calamandrei, Paoli – ricordato per per coniugare l’indirizzo tecnico con i «principi conclamati della Scuola classica» – firmerà il manifesto Croce e sarà trasferito per contrasti col regime dalla cattedra di Firenze a quella di Pavia[99]. Il volume del 1923 negava dunque alla «facoltà di clemenza» il carattere di «legale attuazione di una ingiustizia», mettendo a tema un «complemento di giustizia», una «riserva di elasticità del sistema puntivo». Paoli indicava poi «un elemento giuridico di importanza somma», il «fine nazionale», «per la prima volta nella legislazione italiana in cui, con la più rude chiarezza e con la piu netta precisione, si considera un obbiettivo ideologico per togliere illiceità al fatto commesso […] internazionalismo, socialismo, comunismo non possono sperare beneficio da una carta legislativa emanata nelle attuali condizioni storico-politiche. Sostenere il contrario sarebbe ridicolo prima che assurdo»[100].
Paoli distingueva però tra Stato e partito; argomentava che il «fine nazionale» doveva essere interpretato «nel senso delle istituzioni, ma non in senso fascista». Ammetteva, per esempio, il beneficio per chi si fosse opposto alla marcia su Roma per difendere il «governo allora al potere», pensando, («anche erroneamente)», che esso avrebbe «giovato alle sorti della nazione» più del fascismo, e per i reati commessi in occasione delle «risse tra fascisti e nazionalisti»; negava la clemenza per il reato commesso per un fine «repubblicano»[101]. Osservava comunque che l’esimente del «fine nazionale» contraddiceva il «principio statutario dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge», e quello «penalistico fondamentale, per cui si possono punire i fatti non le intenzioni»[102]. Paoli affidava però al giurista la «funzione tecnica», condizione di «indipendenza assoluta»; sosteneva che l’uomo di legge era tenuto a indicare che il legislatore «deviò» dai principi del penale, lasciando a lui il rispondere «per via politica, dinanzi alla coscienza del paese o dei suoi rappresentanti». Paoli dichiarava al lettore che non avrebbe trovato nel volume, «organizzato secondo un ordine logico», l’«osanna o il «crucefige»[103].
Matteotti era un penalista tecnico ma ‘criticante’; denunziava anche la prassi giurisprudenziale, dalla «inaudita larghezza», nel sottolineare il collasso dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla rinunzia alla pena, «si amnistiarono completamente e per tutti i reati, nessuno escluso, neppure quelli importanti la pena dell’ergastolo (per es. l’omicidio premeditato) per coloro che avevano delinquito per fine nazionale (?!) […] anche se il nesso di causalità era indiretto, anche se non era esclusivo, ammettendosi il concorso, purchè non prevalente, di motivi personali» […] per la prima volta nella concessione del beneficio si ebbero – a parità di condizioni obiettive per quel che attiene al delitto commesso – cittadini amnistiati del tutto (i fascisti) e cittadini a cui non si è concesso alcun beneficio, oppure il solo beneficio del condono di un anno (i non fascisti)».
Matteotti osservava che l’amnistia era ammessa «anche per i recidivi e per i pregiudicati», dal momento che «molti degli elementi criminali del fascismo avevano precedenti penali», e che l’esclusione per due condanne per i reati più gravi contro la persona o la proprietà non impediva l’applicazione del beneficio, purchè i reati fossero stati commessi «per fine nazionale (art. 7 !) ». Come i penalisti positivisti Matteotti metteva a tema l’importanza della «suprema considerazione delle condizioni soggettive e di ambiente, che degradavano la quantità criminosa del commesso reato»; ossevava però che quel giusto principio si era risolto nel negare il beneficio ai «cosiddetti sovversivi». Coglieva lo stravolgimento del principio statutario, la «grazia e giustizia trasformate in strumento di parte», l’«amnistia ha finito per assolvere tutti i delitti fascisti, anche i più crudeli, e orribili e repugnanti […] applicata perfino agli imputati dell’omicidio del deputato Di Vagno, perfino a responsabili di furto e ricettazione (quando il ladro, fascista, potè dare a intendere di aver rubato per finanziare … la marcia su Roma!».
Matteotti denunziava inoltre il «trattamento di estrema severità per gli… altri», i «sovversivi», smentendo l’argomento del «presidente del Consiglio», inteso a dimostrare che «il cosiddetto governo tirannico apriva le porte delle galere». Dati alla mano, Matteotti mostrava che, per «gli altri», «non ne fu aperta nessuna», e che il «completo oblio» aveva beneficiato solo i reati puniti con un minimo non superiore a tre anni «commessi in dipendenza di agitazioni, conflitti o competizioni economico-sociali. Quindi i beneficiati furono pochissimi». Riconosceva che, nei processi celebri di Ferrara e per i fatti di Palazzo d’Accursio a Bologna, «la giustizia ha smontato e ridotto alle vere proporzioni episodiche quei fatti sui quali si era maggiormente sviluppata la speculazione fascista». Al tempo stesso sottolineava i 1929 anni di galera, inflitti nella sola provincia di Bologna, i 700 anni di reclusione comminati dalle Assise di Trani a «quaranta contadini».
Quanto al «recentissimo decreto 31 ottobre 1923», inteso ad amnistiare «tutti i reati a movente politico», Matteotti sosteneva che, al di là dell’intento propagandistico, l’esclusione per tutti i delitti contro la sicurezza dello Stato e per quelli puniti con oltre tre anni di reclusione rendeva la misura «grottesca e iniqua». Affermava che una «vera pacificazione» avrebbe dovuto riservare la clemenza penale «proprio ai reati contro le persone commessi durante la guerriglia civile del 21 e del 22 e giudicati da giurie spesso e inevitabilmente traviate dall’odio e dal terrore». Ricordava che «ogni caduto di parte fascista è stato posto a carico di decine di sovversivi, condannati a gravissime pene, con o senza prove, spessissimo con prove adulterate»; denunziava, ancora per tutto il 1923, «invasioni fasciste di tribunali, assalti a imputati o a carceri, percosse ad avvocati e giudici»[104]. Nel 1940 il Codice dell’amnistie confermerà quanto scritto da Matteotti, ricordando che nei provvedimenti di clemenza del biennio 1922-1923 la magistratura di merito e la Cassazione – cui i decreti riconoscevano ampia discrezionalità – avevano assecondato il disegno del legislatore nel riconoscere il beneficio ad ogni reato inteso a «difendere le istituzioni contro un partito antinazionale e contrastare l’azione dei partiti sovversivi»[105].
6. Epilogo. Il ricordo dei penalisti
Nelle condoglianze trasmesse al sindaco di Fratta polesine Alfredo Rocco, presidente della Camera, di Matteotti ricordava la «forza del suo acuto intelletto, della sua vasta conoscenza, della sua fervida operosità […] la vita nobilissima, tutta spesa per la causa degli umili»[106]. Ad un anno dall’assassinio tra le testimonianze dei «compagni di lotta» il Comitato centrale delle opposizioni pubblicava un ricordo di Stoppato, che premetteva «io la pensavo politicamente in modo molto diverso da lui», nella sottolineatura sull’esser stati, lui e il «discepolo», «moralmente avvicinati quanto più il pensiero politico ci allontanava». Il maestro piangeva il «giurista colto e assennato», che coniugava «amore verace per la ricerca» e «alto spirito di illuminata libera impassibilità»; scriveva di «morte atrocemente tragica», che aveva tolto «alla scienza una forte promessa»[107]. Ferri lasciava al condirettore Florian – deputato, nel 1923 aggredito dai fascisti per averne denunziato le violenze, aderente al partito al socialista unitario – il compito di scrivere il necrologio su La Scuola positiva,indicata come sede per «battaglie scientifiche: preoccupazioni politiche le sono estranee; ma il diritto è libertà, è civiltà è legalità, onde la protesta, del resto unanime, contro l’immane delitto e la sua infernale preparazione»».
Florian scriveva di «bestiali sicari, che intendevano sopprimere in lui la libera voce, l’ardente apostolato, l’energia inflessibile del segretario politico del partito socialista unitario»; al rimpianto per l’«Apostolo e Martire» il maestro positivista univa una testimonianza di un «lato particolare della febbrile attività, attinente ai nostri studi». Ricordava il «discepolo di Alessandro Stoppato, al quale professò sempre affettuosa deferenza»; definiva Matteotti «milite della Scuola criminale positiva […] pure con atteggiamenti critici», a principiare dal libro sulla Recidiva, «ottimo contributo allo studio del penoso argomento». Elencava anche i lavori pubblicati tra il 1917 e il 1919, la Nullità assoluta, «articolo meditato e acuto», l’«arguta lettera» sulla giurisdizione dell’Intendente di finanza, la «larga moderna concezione del diritto penale», espressa nella recensione al volume di Sabatini, Il concetto di sentenza penale, pubblicato da Lucchini sulla Rivista Penale; concludeva «non di rado gli avvocati penali ebbero l’onore di soffrire e cadere per la libertà Matteotti partecipa alla sublime coorte di questi eroi del diritto»[108]. Nello scritto per il Comitato centrale delle opposizioni Florian sottolineava che «Matteotti ebbe mente di giurista», per «metodo e virtù di costruzione sistematica», e che, «morendo per la libertà, testimoniò ancora una volta che diritto e libertà sono termini indissolubili, beni ideali eterni»[109].
Lucchini ricordava l’aver ospitato nella Rivista Penale «vari pregevoli lavori» dello «studioso assiduo e valente delle nostre discipline», ed il recente invito, «per la molta considerazione per l’ingegno e la cultura», a tornare ai «prediletti studi. Ma la passione politica l’aveva ormai conquiso». Tra diritto e politica Lucchini pubblicava ‘l’ultima lezione’ di Matteotti, una lettera del 10 maggio 1924, in cui il penalista ringraziava il «Maestro», rammaricandosi nel non vedere, «purtroppo», «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati», cui anteponeva la rivendicazione della legalità, i «presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna», «non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono, secondo me, i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna. Ma quando io potrò dedicare ancora qualche tempo agli studi prediletti, ricorderò sempre la profferta e l’atto cortese che dal Maestro mi sono venuti nei momenti più difficili».
Lucchini metteva in conto «la tragedia Matteotti» alla «prepotenza e violenza predicate e praticate dall’alto, con la incosciente derisione di ogni principio di libertà, di giustizia e di legalità»[110]; da allora apertamente antifascista – fino a subire, quasi ottantenne, un processo davanti all’Alta corte di giustizia per offese al capo del governo – nel 1925 inaugurava il secondo cinquantennio della Rivista Penale ricordando che le «leggi penali sono indissolubilmente legate alle vicende delle pubbliche libertà»[111].
[1] Cfr. S. Caretti, Introduzione, in G. Matteotti, Scritti giuridici, a cura di S. Caretti, Pisa 2003, p. 21; P. Passaniti, Giacomo Matteotti e la recidiva. Una nuova idea di giustizia criminale, Milano 2022, p. 22; D. Castronovo, La concezione della recidiva in Giacomo Matteotti, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, a cura di D. Negri, Verona 2022, p. 44; G. Canzio, Giacomo Matteotti, il giurista in «Sistema penale», 10 gennaio 2024, in open access.
[2] Il legame tra il Matteotti giurista e politico – dall’attività a sostegno dei contadini del Polesine, al ruolo di amministratore locale, deputato dal novembre 1919 al Marzo 1921 per il Collegio Ferrara-Rovigo, in una Camera per due terzi rinnovata rispetto all’anteguerra, con la presenza, per la prima volta in Italia, dei grandi partiti di massa, rieletto nel 1921 e nel 1924, segretario del partito socialista unitario, riformista e legalitario – in C. Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Firenze 1984, p. 15 ss; sull’«assertore del diritto e della giustizia per altra, dolorosissima via» rispetto all’impegno scientifico cfr. G. Vassalli, Presentazione, in G. Matteotti, Scritti giuridici, cit., p. 23; P. Marchetti, Matteotti, Giacomo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo) diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, Bologna 2013, pp. 1307; P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., pp. 11 ss; sul legame tra la «causa del socialismo», del «nostro paese e anche della civiltà» cfr. M. Degl’Innocenti, Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano 2022, pp. 115 ss
[3] Sui conflitti interni alla sinistra e la rimozione della tradizione riformista, cui Matteotti apparteneva cfr. S. Caretti, Introduzione, in Un anno e mezzo di dominazione fascista, a cura di S. Caretti, Pisa 2020, pp. 21-28, che ricorda, tra l’altro, un intervento di Gianpasquale Santomassimo sul «Manifesto» del 18 luglio 2000; cfr. più di recente W. Veltroni, Introduzione, in G. Matteotti, Un anno di dominazione fascista, Introduzione di W. Veltroni e un saggio di U. Gentiloni Silveri, Milano 2020.
[4] E. Presutti, in Comitato centrale dell’opposizione, Giacomo Matteotti nel primo anniversario del suo martirio, Roma 1925; sul docente e deputato, vicino a Giovanni Amendola, allontanato dalla cattedra di diritto amministrativo e costituzionale a Napoli per la scelta dell’Aventino cfr. P. Allotti,Presutti, Enrico, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 1627-1628.
[5] Come è noto, Mario Sbriccoli ha indicato il carattere fuorviante della distinzione in ‘Scuole’, rigidamente strutturate, per restituire la ricchezza della penalistica, presenza culturale centrale nella storia nazionale tra Otto e Novecento; cfr. M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990), in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano 2009, p. 605. Sul tema si può vedere F. Colao, Le scuole penalistiche, in Enciclopedia italiana, Il contributo alla storia del pensiero, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma, 2012, pp. 349-356. Su Matteotti e le ‘scuole’cfr. A. Gargani, Il sistema penale tra tradizione liberale e posivismo (A proposito degli Scritti giuridici di Giacomo Matteotti), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2003, pp. 551-581; D. Negri, Giacomo Matteotti custode della legalità processuale contro l’arbitrio del potere, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, cit., p. 47.
[6] Su cui cfr. M. Sbriccoli, Il diritto penale sociale (1883-1912), in Id., Storia del diritto penale, cit., pp. 819-902.
[7] Sugli scritti di Matteotti con il diritto il penale scienza integrata cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 32.
[8] A. Gargani, Il sistema penale, cit., p. 576.
[9] Cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 32.
[10] Su Matteotti, che coniugava «la tradizione giuridica liberale» con «gli ideali di uguaglianza e democrazia» cfr. A. Gargani, Il sistema penale, cit., p. 579.
[11] Su cui M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Id., Storia del diirtto penale, cit., pp. 493-590, con un cenno a Matteotti, «che dedicava una lunga riflessione al «sistema penale fattore di recidiva», p. 563.
[12] A. Stoppato, Sul fondamento scientifico della procedura penale, in «Rivista Penale», 1893, p. 318; sul processualpenalista cfr. C. Storti, Stoppato, Alessandro, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 1919-1920. Su Matteotti inteso a «mettere in sicurezza il codice Stoppato»cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 52.
[13] Sul pensiero di Ferri e sulla «revisione critica di Matteotti tra elemento etico e difesa sociale» cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., pp 113 ss.
[14] E. Ferri, Discorsi parlamentari sul nuovo codice penale, Napoli 1889, p. 7; sul tema cfr. R. Orlandi, Rito penale e salvaguardia dei galantuomini, in «Criminalia», 2006, pp. 293 ss.
[15] Sulla profonda conoscenza di Matteotti delle teorie e pratiche penali anche fuori d’Italia cfr. M. Pifferi, Giacomo Matteotti e il riformismo penale europeo, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, cit., pp. 13 ss.
[16] G. Matteotti, La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, Torino 1910, pp. 161 ss, 292. Sulla kantiana teoria dei limiti nel pensiero di Carrara cfr. M. Montorzi, Tra progetto scientifico e politica del diritto: dentro il Programma del Corso di diritto criminale di Francesco Carrara,in Id., Crepuscoli granducali. Incontri di esperienza e di cultura giuridica in Toscana sulle soglie dell’età contemporanea, Pisa 2006 pp. 229 ss.
[17] La lettera alla moglie Velia in S. Caretti, Introduzione, cit. p. 16.
[18] Sul «nostro socialismo più tribuno che politico» cfr. P. Gobetti, Matteotti, Milano 1925, pp. 29, 45.
[19] G. Matteotti, Il concetto di sentenza penale e le dichiarazioni di incompetenza in particolare, in «Rivista penale», 1918, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 255. Sull’ostilità di Matteotti alla «civilistica penale» – felice formula coniata da M. Sbriccoli, La penalistica civile, cit., pp. 573 ss – e sul «tecnicismo giuridico bene inteso» cfr. D. Negri, Giacomo Matteotti, cit., pp. 51, 54; sugli scritti tra il 1917 e il 1919 cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 21; G. Canzio, Giacomo Matteotti, cit.
[20] E. Florian, La giustizia penale dei pieni poteri, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1918, pp. 160 ss, su cui G. Matteotti, Dalla critica alla ricostruzione (a proposito dell’Intendente di finanza improvvisato giudice penale), ivi, in Id., Scritti giuridici, cit., pp. 333 ss. Indicazioni sul penalista positivista ed assertore del «diritto penale scienza giuridica» (1900) in F. Colao, Florian Eugenio, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 878-879.
[21] L. Lucchini, Inaugurando il 2 Cinquantennio della Rivista, in «Rivista Penale», 1925, pp. 11-12; su Lucchini scienziato, alto magistrato, senatore, cfr. M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La «Rivista Penale» di Luigi Lucchini (1871-1900), in Id., Storia del diritto penale, cit., pp. 903-980.
[22] L. Lucchini, La riforma della legislazione criminale, in «Rivista penale», 1919, pp. 382 ss.
[23] E. Ferri, Relazione sul progetto preliminare di codice penale italiano, in «La scuola positiva», 1921, pp. 5 ss; sul testo indicazioni in F. Colao, «Un fatale andare». Enrico Ferri dal socialismo all’«accordo pratico» tra fascismo e Scuola positiva, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi, L. Loschiavo, Roma, 2015, pp. 139 ss; sul «silenzio» di Matteotti sul Progetto Ferri cfr. P. Passaniti, Giacomo Mattotti e la recidiva, cit., p. 50.
[24] G. Matteotti, Rendiconti analitici, G. Sabatini: Principi di scienza del diritto penale, Catanzaro 1918, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1918, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 374.
[25] G. Matteotti, Un anno di dominazione fascista (1924), Bologna 1980, p. 9. Sulla ‘fortuna dell’opera’ e sull’ampliamento, progettato da Matteotti cfr. S. Caretti, Introduzione, in Un anno e mezzo, cit., p. 21 ss; F. Venturini, Un anno e mezzo di dominazione fascista: sulle tracce di un ‘relitto archivistico’, in «Tempo presente», 2020, pp. 15-26; A. Aghemo, Un inedito mortis causa, in Un anno e mezzo, cit., pp. 13-20. «L’abuso dei decreti legge» apriva la Parte seconda, Atti del governo fascista, ivi, pp. 61 ss.
[26] A. Rocco, La legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, in Id., Scritti e discorsi politici, I, Roma 1938, pp. 69 ss. Sul punto cfr. L. Lacchè, Un groviglio costituzionale. Fasi e problemi della costituzione ‘fascista’ nelle trasformazioni del regime, in «Journal of constitutional history. Giornale di storia costituzionale», 1/2022, p. 22; La costruzione della ‘legalità’ fascista negli anni Trenta, a cura di G. Chiodi-I. Birocchi-M. Grandona, Roma, 2020; sull’architetto del regime cfr. P. Costa, Rocco, Alfredo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 1701-1704; G. Chiodi, Alfredo Rocco e il fascino dello Stato totale, in I giuristi e il fascino del regime pp. 103 ss.
[27] Cfr. G. Dodaro, Giuliano Vassalli tra fascismo e democrazia. Biografia di un penalista partigiano (1944-1948), Milano 2022; M. Pifferi, La penalistica del dopoguerra e le sfide della Costituzione repubblicana. Qualche considerazione sul problema e sul fine della pena, in «Journal of constitutional history. Giornale di storia costituzionale», 2023, p. 220.
[28] G. Vassalli, Nullum crimen sine lege, in «Giurisprudenza italiana», 1939, p. 127.
[29] La lettera di Matteotti a Turati del marzo-aprile 1924 in P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit, p. 11.
[30] F. Venturini, Un anno e mezzo, cit., p. 16; Id., Giacomo Matteotti e la giunta delle elezioni, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, cit. pp. 99 ss.
[31] G. Matteotti, Dopo un anno di dominazione fascista, in «Critica sociale», 1924, pp. 5-7.
[32] In generale sul tema cfr. C. Latini, «L’araba fenice». Specialità delle giurisdizioni ed equità giudiziale nella riflessione dottinale italiana tra Otto e Novecento, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2006, pp. 595 ss, sul primo dopoguerra in particolare, p. 696 ss.
[33] Sul pacifismo in Matteotti, anche per indicazioni bibliografiche cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 50.
[34] G. Matteotti, Nullità assoluta della sentenza penale, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1917, ora in Id., Scritti giuridici, cit. pp. 216-250, p. 248.
[35] Ivi, p. 220.
[36] Ivi, p. 250
[37] P. Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, in Id., Opere giuridiche, III, Roma 2019, p. 3
[38] P. Calamandrei, La Cassazione civile, I, Storia e legislazioni, in Id., Opere giuridiche, VI, Roma, 2019. Sul ‘monumento’ cfr. D. Luongo, La Cassazione civile di Calamandrei: cento anni dopo: spunti storico-giuridici, in «Rivista di storia del diritto italiano», 2020, p. 279 ss; R. Ferrante, Ideologie della giurisdizione e cultura giuridica togata. Tradizioni, nomofilachia, formanti e metodo storico, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2020, p. 333 ss
[39] Fonte in S. Caretti, Introduzione, cit, p. 19-20
[40] G. Matteotti, Dalla critica, cit., p. 334 ss.
[41] Ivi, p. 338
[42] G. Matteotti, Oggetti di ricorso per cassazione nelle giurisdizioni non ordinarie (militari, marittime, coloniali, ecc), in Codice di procedura penale, a cura di L. Lucchini, supplemento a «Rivista penale», 1918, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 320; sul saggio «capitolo completo dell’opera non venuta alla luce» cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 31
[43] G. Matteotti Il concetto di sentenza penale, cit., p. 294; sul saggio, preludio all’opera sulla Cassazione penale mai condotta a termine, ma che sarebbe stata «fondamentale» cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 31
[44] G. Matteotti, Il concetto di sentenza penale, cit, p. 252
[45] Ivi, p. 305
[46] G. Vassalli, La potestà punitiva, Torino 1942, p. 175. Sul collegamento ideale tra il saggio di Matteotti Il pubblico ministero è parte (1918) e il codice del 1988, che porta il nome di Vassalli cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 53
[47] G. Vassalli, Presentazione, cit., p 32; sulla «atavica stortura» cfr. M. Nobili, Il pubblico ministero; vecchie e recenti tendenze, in Id., Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova 1988, p. 158; sugli «argomenti penetrati così a fondo nell’esperienza storica da ripresentarsi puntuale ad ogni regressione inquisitoria del sistema processuale» cfr. D. Negri, Giacomo Matteotti custode, cit., p. 61
[48] Cfr. M.G. Di Renzo Villata, Un pubblico ministero ‘figlio della politica’? Azione penale e pubblico ministero tra dipendenza e libertà nell’Italia postunitaria, in Staatsanwaltschaft. Europäische und amerikanische Geschichten, curr. B. Durand, L. Mayali, A. Padoa Schioppa, D. Simon, Frankfurt am Main 2005, pp. 203-310
[49] G. Matteotti, Il pubblico ministero è parte, in «Rivista penale», 1919, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 369
[50] G. Matteotti, Classificazione degli incidenti di esecuzione, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1919, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 337-367; sullo scritto «vera monografia» cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 30; sul tema in generale, con una considerazione sul «profetico Matteotti» cfr. M.N. Miletti, La pena nel processo. Giurisdizionalizzazione dell’esecuzione nella penalistica dell’Italia liberale, in «Diritto penale contemporaneo», 4/2017, p. 39
[51] Sull’autore della nota Prolusione sassarese del 1910, svolta nella penalistica tra ‘800 e ‘900 cfr L. Garlati, Arturo Rocco inconsapevole antesignano del fascismo nell’Italia liberale, in I giuristi e il fascino del regime, cit., pp. 191 ss
[52] La lettera di Arturo Rocco in S. Caretti, Introduzione, cit., p. 20; P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 52
[53] Bilancio del Ministero dell’Interno, in G. Matteotti, Scritti giuridici, cit., p. 385-387
[54] M.N. Miletti, La pena, cit., p. 31
[55] G. Matteotti, Il fascismo della prima ora, in Id., Scritti sul fascismo, a cura di S. Caretti, Pisa 1983, pp. 291-385. L’opera, forte della documentazione della stampa fascista ed in particolare de Il popolo d’Italia, usciva postumo nel luglio 1924; denunziava, tra l’altro, il carattere demagogico e populistico del movimento nel 1919 e lo sviluppo violento dal 1920.
[56] G. Matteotti, Dopo un anno, cit., p. 5, su cui A. Aghemo, Un inedito, cit., p. 17-18
[57] G. Matteotti, Un anno, cit., p. 3
[58] Cfr. I. Birocchi, Il giurista intellettuale e il regime, in I giuristi e il fascismo del regime, cit., pp. 9-61
[59] A. De Marsico, La giurisprudenza di guerra e l’elemento sociale del diritto (1920), in Id., Studi di diritto penale, Napoli 1930, p. 24. Sul giurista e politico cfr. A. Mazzacane, Alfredo De Marsico e le ideologie giuridiche del Novecento, in Alfredo De Marsico. L’avvocato, lo scenziato del diritto, l’uomo delle istituzioni, a cura di C. Masi, M. Di Lauro, Napoli 2003, pp. 43 ss
[60] A. De Marsico, La difesa sociale contro le nuove forme di delitto collettivo, in «Rivista penale». 1920, p. 201.
[61] G. Escobedo, Quale reato commetta il macchinista, il quale si rifiuti di far partire il treno se prima non discendano i carabinieri che viaggiano per motivi di servizio, in «Giustizia Penale», 1922, col. 706.
[62] Amnistie, condoni e indulti. Raccolta cronologica completa dalla proclamazione del Regno d’Italia, Santa Maria Capua Vetere 1950, pp. 39 ss.
[63] Fonti in C. Storti Lavoratori ribelli e giudici eversivi. Sciopero e licenziamento collettivo nella giurisprudenza di Cassazione tra 1900 e 1922, in Il diritto del Duce. Giustizia e repressione nell’italia fascista, a cura di L. Lacchè, Roma 2015, p. 29.
[64] E. Massari Politica e diritto penale, in «Dizionario penale», 1921, pp. 142 ss.
[65] Art. Rocco, Diritto o delitto ?A proposito degli scioperi nei pubblici servizi, in «L’idea nazionale», 1920, pp. 467 ss.
[66] Alf. Rocco, Stato e sindacati (1920) in Id. Scritti e discorsi politici, Milano 1938, p. 636
[67] G. Marasco, L’occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze, in «Rivista Penale», 1922, pp. 79 ss Sulla penalistica e sull’opinione pubblica davanti all’occupazione delle fabbriche si può vedere F. Colao, Il processo «Scimula Sonzini». Politica e diritto penale alle origini del fascismo, in Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di F. Colao, L. Lacchè, C. Storti, Bologna 2008, pp. 439-470.
[68] V. Manzini, Trattato di diritto penale Italiano, V, Torino 1921, p. 672.
[69] G. Matteotti, Il fascismo della prima ora, cit. p. 297
[70] Ivi, p. 377
[71] L. Lucchini, Ancora e sempre amnistie, in «Rivista penale», 1921, p. 488.
[72] Alf. Rocco, Sulle comunicazioni del governo (1921), in Id., Discorsi parlamentari, con un saggio introduttivo di G. Vassalli, Passione politica di un uomo di legge, Bologna, p. 77.
[73] Alf. Rocco, Sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona (1921), ivi p. 190.
[74] P. Marsich, La posizione teorica e pratica del Fascismo di fronte allo Stato, in E. De Felice, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, Torino 2004
[75] L. Lucchini, Volpi sopraffine, ivi, 1921, p. 80; cfr. inoltre Id., Il socialismo militante in Italia è un delitto comune, ivi, 1922, pp. 23 ss; Id., Delitti politici, ivi, pp. 201 ss. Su Lucchini in questa stagione cfr. M.N. Miletti, Dall’adesione alla disillusione. La parabola del fascismo nella lettura panpenalistica di Luigi Lucchini, in I giuristi e il fascino del regime, cit. pp. 303 ss
[76] Ricorda che, in seguito, Matteotti modificò il giudizio su Lucchini, e che i rapporti tra i due «tornarono cordiali» S. Caretti, Introduzione, cit., p. 8
[77] L. Lucchini, Restaurazione nazionale e autorità dello Stato, in «Rivista penale»,1923, p. 493.
[78] E. Ferri, I socialisti nazionali e il governo fascista. Programma del Partito, Roma 1923.
[79] G. Matteotti, Dopo un anno, cit., pp. 3-5
[80] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit, p. 33
[81] Ivi, pp. 60 ss, 68
[82] Ivi, p. 111-112; Matteotti non ricordava le due sentenze del 1922, ispirate da Mortara, intese a rivendicare alla Corte suprema il rilievo di incostituzionalità dei decreti legge; cfr. M. Meccarelli, Le Corti di Cassazione nell’Italia unita. Profili sistematici e costituzionali della giurisdizione in una prospettiva comparata (1865-1923), Milano 2005, pp. 264 ss; M. Boni, Il figlio del rabbino. Lodovico Mortara, storia di un ebreo ai vertici del Regno d’Italia, Viella, Roma, 2018, pp. 110 ss
[83] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit, p. 131
[84] Ivi, p. 112
[85] Ivi, pp. 150-151
[86] Ivi, pp. 126-130
[87] Ivi, pp. 155-343
[88] Ivi, p. 155
[89] Ivi, p. 171
[90] G. M. Parlamento e governo, in «echi e commenti», 5 giugno 1924, su cui C. Carini, Giacomo Matteotti, cit., p. 228, 235
[91] Fonte in C. Carini, Giacomo Matteotti, cit., pp. 197-203
[92] Fonte in S. Caretti, Introduzione, cit., p. 21
[93] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit, p. 112-114; sul decreto 1641/1922 esemplare della «amnistie faziose» cfr. P. Caroli, Il potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti, Napoli 2020, p. 117; si può vedere F. Colao, Leggendo alcune recenti pubblicazioni in tema di clemenza per la ‘pacificazione’. Scene della giustizia di transizione nel Novecento italiano, in «Italian Review of legal History», 6/2020, pp. 145-159
[94] E. Florian, Del fatto, commesso od istigato, pregiudizievole all’interesse nazionale, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1919, p. 120
[95] P. Marsich L’obbiettività giuridica dell’amnistia, in «La Scuola positiva»1923, pp. 362 ss.
[96] A. Santoro, Il delitto politico nella recente amnistia, in «La Scuola positiva»,1923, p. 190.
[97] E. Ferri, Principi di diritto criminale, Torino 1928, p. 324.
[98] Fonte in G. Donzelli, Diritto e politica nel pensiero di Piero Calamandrei, Bologna 2022, p. 339
[99] Sul penalista fiorentino avversario del regime cfr. G. Paoli, Fare l’avvocato, con l’arringa nel processo Majorana e scritti vari, a cura di M. Pisani, Pisa 2011
[100] G. Paoli, L’indulgenza sovrana del dicembre 1922. Note di diritto e procedura penale al R. decreto di amnistia e indulto del 22 Dicembre 1922, n. 1641, Firenze 1923, p. 14
[101] Ivi, p. 17-18
[102] Ivi, p. 6
[103] Ivi, 2
[104] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit., p. 114
[105] Fonti in A. Jannitti Piromallo, Codice delle amnistie, degli indulti e delle grazie, Milano 1940, pp. 63 ss
[106] Fonti in P. Evangelisti, Postfazione, in Un anno e mezzo, cit., p. 349 ss
[107] A. Stoppato, in Giacomo Matteotti nel primo anniversario, cit. p. 71-72
[108] (E. Flo), Giacomo Matteotti, in «La scuola positiva», 1924, p. 288
[109] E. Florian, Matteotti giurista, in Giacomo Matteotti nel primo anniversario, cit., p. 36
[110] L. Lucchini, Chi semina vento raccoglie tempesta, in «Rivista penale», 1924, pp. 101-4; sull’«ultimo contatto tra Matteotti e la scienza del diritto penale» cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 54
[111] L. Lucchini, Inaugurando, cit., p. 11-12, su cui M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale, cit., p. 980.
L'immagine è una di quelle esposte nella mostra Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della Democrazia, visitabile a Palazzo Braschi (Roma) fino al 16 giugno 2024. La Redazione segnala altresì il convegno Il pensiero di Giacomo Matteotti che si terrà a Roma il 22 e 23 maggio 2024 presso l'Accademia Nazionale dei Lincei.
Riflessioni a proposito della valutazione ambientale strategica: autorità coinvolte e autonoma impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. (Nota a T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 12 gennaio 2024, n. 52)
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La complessità dell’istituto anche alla luce della normativa vigente. – 2.1. La V.A.S. nelle intenzioni del legislatore eurounitario. – 2.2. La frammentarietà della disciplina sul piano interno e ricadute sul piano pratico. – 3. Autorità procedente e competente e problematicità legate ai diversi livelli di competenza. – 4. L’aspetto problematico circa la natura stessa della V.A.S. – 5. Impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. e ulteriori profili processuali. – 6. Osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie
La pronuncia presa in esame concerne l’istituto della valutazione ambientale strategica e, nello specifico, l’aspetto di ordine processuale dell’autonoma impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. in relazione ad una variante al piano delle regole emessa, nella fattispecie concreta in questione, dalla Autorità Procedente, anziché da quella Competente.
La sentenza riguarda nello specifico una variante al PGT avviata nell'ambito di una procedura di SUAP finalizzata al cambio di destinazione d'uso di un’area, da residenziale ad artigianale, determinante la modifica al Piano delle Regole e, pertanto, sottoposta a screening di valutazione ambientale strategica.
In dettaglio, la società ricorrente, ditta operante nella attività di stampaggio metallico, proponeva al Comune resistente nel giudizio in questione una variante al P.G.T., ai sensi e per gli effetti dell’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 e dell’art. 97 della l.r. n. 12/2005, concernente l’ampliamento di un opificio produttivo esistente, mediante la costruzione di un fabbricato artigianale da adibirsi ad uso magazzino, su area sita a margine di una via del Comune interessato avente destinazione residenziale, contigua e limitrofa al predetto opificio esistente.
Con delibera di Giunta n. 42 del 14 marzo 2017, il Comune esprimeva il proprio atto d’indirizzo favorevole rispetto all’avvio del procedimento istruttorio relativo alla variante allo strumento urbanistico e individuava nella fattispecie quale Autorità Procedente il Responsabile SUAP e quale Autorità Competente altro soggetto.
Mediante delibera n. 61 del 28 marzo 2017, di poco successiva, il Comune approvava l’avvio del procedimento di variante al Piano delle Regole attraverso la procedura di SUAP, nonché l’avvio del procedimento di assoggettabilità a V.A.S.
Ebbene, nel giugno 2017, l’Autorità Procedente adottava le determinazioni conclusive della conferenza indicando come si ritenesse doveroso sottoporre la proposta in oggetto alla procedura di V.A.S.; tale provvedimento veniva di seguito approvato, sempre dalla medesima Autorità Procedente, mediante specifica determina di assoggettabilità n. 292 del 27 luglio 2017.
Proprio avverso tale atto insorgeva pertanto la ricorrente, deducendone l’illegittimità per incompetenza, violazione della normativa di settore ed eccesso di potere sotto svariati profili. La società ricorrente impugnava l’atto predetto chiedendone l’annullamento, oltre alla condanna del Comune al risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa.
L’ente locale, costituitosi in giudizio, eccepiva, in rito, l’inammissibilità della domanda di annullamento per carenza d’interesse, in particolare sulla base dell’argomentazione della natura endoprocedimentale della determina di assoggettabilità a V.A.S., rilevando altresì l’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse, in particolare, in considerazione del nuovo quadro normativo in materia introdotto dalla l. n. 108 del 29 luglio 2021, oltre che dalla l. n. 233 del 29 dicembre 2021.
Tale ultimo profilo, nello specifico, è ritenuto infondato dal giudice adito, il quale considera non condivisibile l’eccepita sopravvenuta carenza d’interesse per mutamento del quadro normativo, in applicazione del noto principio tempus regit actum.
Del pari, ritiene il collegio giudicante infondata l’ulteriore eccezione d’inammissibilità per carenza d’interesse sollevata dal Comune, per come si avrà modo di esporre in maniera più dettagliata oltre (cfr. § 5).
Con specifico riguardo all’aspetto processuale della autonoma lesività e, dunque, conseguente possibile immediata impugnabilità degli atti conclusivi della stessa procedura di valutazione di impatto ambientale e di screening, in particolare, il giudice ritiene condivisibile e, pertanto, richiama sul punto, l’orientamento già espresso dal medesimo Consiglio di Stato in materia di assoggettabilità a V.I.A., giudicato applicabile, in ragione dell’eadem ratio, anche al caso concreto in esame concernente come esposto una fattispecie di assoggettabilità a V.A.S.[i]
2. La complessità dell’istituto anche alla luce della normativa vigente
2.1. La VAS nelle intenzioni del legislatore eurounitario
Come noto, la valutazione ambientale (V.A.S.) trova il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001 e ha la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nell’ambito del procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi idonei ad impattare significativamente sullo stesso, con lo scopo della promozione di uno sviluppo sostenibile[ii].
La V.A.S., peraltro, condivide con altri strumenti di valutazione, quale soprattutto la valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) su singoli progetti, l’ispirazione al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo, in maniera tale da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato alle predette esigenze di tutela[iii].
Peraltro, sebbene la locuzione di cui trattasi sia stata per la prima volta individuata proprio in ambito comunitario, si ravvisavano tuttavia, sia a livello internazionale, sia in taluni Stati, istituti simili già prima della introduzione della V.A.S. medesima[iv].
In ambito eurounitario, la scelta del legislatore si è collocata inizialmente nel senso della individuazione di una disciplina unicamente rivolta alla valutazione dei “progetti”, dunque con specifico riguardo alla V.I.A. e, solo in un secondo momento, con riferimento anche a “piani e programmi”, con la conseguente previsione di una disciplina differenziata per la V.A.S. rispetto a quella già disposta per la V.I.A.
In tal senso, pare che la Commissione europea, al fine di giustificare tale scelta di ordine legislativo, abbia posto in evidenza come i progetti possano potenzialmente produrre un impatto distorsivo sulla concorrenza maggiore rispetto a quello determinato da piani e programmi.
A ciò si aggiunga che, neppure in sede di modifica della disciplina in materia, condotta per mezzo della direttiva n. 2011/92/UE, si sia optato a livello europeo per una scelta di accorpamento sul piano normativo delle due predette discipline.
Di conseguenza, a livello interno, la dottrina ha posto in evidenza in senso pressochè unanime il merito della specifica disciplina dettata sul piano nazionale in materia di valutazione ambientale strategica: la stessa cioè sarebbe stata in grado di sopperire alle carenze proprie della procedura di valutazione di impatto ambientale, integrando i medesimi interessi ambientali all’interno del procedimento pianificatorio sin dalla fase inziale e, dunque, non a valle del procedimento, laddove le opzioni percorribili che residuano si riducono alla possibilità di dare assenso ovvero manifestare dissenso rispetto alla realizzazione di un progetto[v].
Mediante, l’esperimento della V.A.S., in altri termini, sarebbe possibile conoscere gli esiti della valutazione circa gli effetti di piani e programmi sul piano ambientale in una fase iniziale, considerando il procedimento pianificatorio in ottica complessiva, con conseguenti ricadute pratiche positive per gli stessi operatori abilitati a consultare il piano regolatore di un Comune e a conoscere in una fase preliminare in quali aree potrebbe essere consentito collocare un impianto avente potenziali effetti dannosi per l’ambiente[vi].
2.2. La frammentarietà della disciplina sul piano interno e ricadute sul piano pratico
Nell’ordinamento interno si è registrato anzitutto un notevole ritardo nel recepimento della menzionata direttiva in materia di valutazione ambientale di piani e programmi, in conseguenza del quale, come noto, si sono aperte due procedure di infrazione ad opera della Commissione europea nei confronti del nostro Paese.
Di seguito, la relativa disciplina è stata inserita nell’ambito del Codice dell’ambiente del 2006, con una successiva riscrittura della medesima per mezzo del d.lgs. n.4/2008 e, a seguire, del d.lgs. n. 128/2010. Da ultimo, si registra l’ulteriore modifica del Codice in questione ad opera del d.lgs. n. 104/2017, in attuazione della direttiva 2014/52/UE, dalla quale emerge un insieme di previsioni evidentemente complesso e articolato circa la valutazione in oggetto.
Ciò in ragione dei diversi livelli normativi che vengono in rilievo e, altresì, alla luce della presenza di diverse autorità coinvolte, con attribuzione di specifici compiti, secondo un riparto di competenze multiforme sul fronte prescrittivo: si contano in materia stratificate fonti, sovranazionali, nazionali e regionali, ma anche eterogenee fonti di rango primario e secondario, cui si affiancano in aggiunta strumenti di soft law.
A ciò si somma poi un ulteriore elemento di complessità, derivante dalla evidente difformità tra le singole discipline regionali sul tema, con discrepanze anche e soprattutto rispetto all’approccio nell’attribuzione delle competenze alle autorità coinvolte sul piano normativo, ma anche nel riscontro fattuale e sul piano della prassi.
Nell’ambito di tale frammentario quadro sul piano normativo interno, rispetto alle diverse legislazioni regionali si rinvengono punti comuni anche su aspetti qualificanti, bensì anche peculiarità significative della singola legislazione regionale: così talune Regioni hanno emanato normative organiche in tema di V.A.S.; altre, nell’ambito delle legislazioni di loro competenza, hanno puntualmente disciplinato le proprie competenze e quelle degli enti locali, così come i criteri al fine della individuazione degli enti locali territoriali interessati ed i soggetti competenti nella materia ambientale, ovvero ancora eventuali ulteriori modalità, rispetto a quelle indicate nel Codice, per l’individuazione di piani e programmi da sottoporre a V.A.S.
In particolare, come accennato, in talune realtà regionali si è in presenza di una normativa, di rango primario e secondario, oltre che di ulteriori numerosi provvedimenti quali delibere regionali sulla materia[vii].
Il medesimo art. 7 del d.lgs. 152/2006, infatti, dispone che la V.A.S. risulta assoggettata alla normativa dettata in sede statale rispetto a piani e programmi la cui approvazione compete ad organi dello Stato, mentre deve conformarsi alle disposizioni delle leggi regionali nell’ipotesi di piani e programmi la cui approvazione sia di competenza delle Regioni (o delle Province autonome) o degli enti locali.
In questo senso, difatti, la tutela ambiente rientra, ai sensi dell’art. 117, comma 2 lett. s), nell’ambito delle competenze esclusive statali, sebbene residui un margine di intervento facente capo alle singole Regioni, abilitate ad intensificare la tutela apprestata dalla legge statale (e non evidentemente a ridimensionarla) pur nel rispetto della c.d. “teoria del punto di equilibrio”, a condizione cioè che la disciplina locale più restrittiva non risulti lesiva di altri interessi ritenuti parimenti meritevoli di protezione.
In aggiunta, si consideri il disposto dell’art. 3-quinquies, comma 2, del d.lgs. 152/2006 il quale precisa che “le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un'arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali”[viii].
3. Autorità procedente e competente e problematicità legate ai diversi livelli di competenza
Ecco che, proprio rispetto a tale ultimo profilo, con riguardo alla fattispecie in esame i giudici ritengono nella sentenza in commento dirimente e, dunque, dotata di carattere assorbente, la specifica censura relativa alla incompetenza dell’autorità che nel caso di specie ha assunto la decisione e dunque, conseguentemente, ha emesso concretamente la determinazione di assoggettamento a VAS della variante al piano delle regole.
Proprio in ragione di tale difformità rispetto al dettato normativo sul punto i giudici ritengono nel caso in esame che la domanda di annullamento sia fondata e vada pertanto accolta[ix].
In particolare, nel caso di specie tale decisione veniva assunta dall’Autorità procedente, anziché da quella competente, come previsto sul piano normativo e specialmente dall’art. 4, comma 3 quater, della l.r. n. 12/2005. Peraltro, si rileva nella pronuncia come tale circostanza emerga ex actis e non sia stata contestata.
Sul punto si esprimeva peraltro il Comune resistente deducendo come la suddetta determina, seppur adottata dall’Autorità procedente sarebbe stata tuttavia di seguito ratificata, ex tunc, ad opera dall’Autorità competente, in ragione del fatto che la stessa vi avrebbe dato seguito senza alcuna contestazione.
Il giudice amministrativo interpellato nel caso de quo rileva nondimeno in merito come l’atto amministrativo di ratifica implicante la sanatoria del vizio di incompetenza relativa postuli specifici presupposti individuati in sede normativa, dei quali tuttavia non si ravvisa traccia nell’ambito del provvedimento in questione.
Si tratterebbe, in particolare, dei seguenti elementi: la necessità di esternazione delle “ragioni di interesse pubblico” giustificatrici del potere di sostituzione, intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica; la menzione dell'atto da convalidare; l'indicazione del vizio che lo inficia; una chiara manifestazione della volontà di eliminare il vizio (c.d. animus convalidandi) e, da ultimo, la produzione degli stessi effetti che l'atto oggetto di convalida intendeva produrre.
Ebbene, la pronuncia in esame offre certamente spunti di riflessione a proposito di tale aspetto, ossia circa il riparto di competenze tra Autorità procedente e competente nell’ambito di una procedura di V.A.S., così come espresso nella normativa statale sull’istituto, oltre che più nel dettaglio nell’ambito della normativa regionale.
Peraltro, proprio a proposito di tale questione, nella presente sede, si impone necessariamente una attenta riflessione in chiave critica, la quale pare di maggiore interesse laddove si interseca con l’ulteriore profilo della natura stessa della V.A.S., così come emerge dal dato normativo, bensì anche come delineata nel tempo dalla prevalente dottrina e giurisprudenza[x].
Sul piano strettamente normativo occorre rilevare come l’art. 5 del d.lgs. 152/2006, recante Codice dell’Ambiente, operi un preciso riferimento all’Autorità procedente e all’Autorità competente, senza imporre, tuttavia, un principio di necessaria separazione tra le stesse.
Del resto, come posto in luce dallo stesso giudice amministrativo, la ricostruzione volta a sostenere a livello interpretativo il suddetto principio di separazione parrebbe basato sull’implicita convinzione che la V.A.S. rappresenti un momento di controllo sull’attività di pianificazione, posto che invece occorrerebbe intenderla come incentrata su di un rapporto di “collaborazione” tra le due autorità in vista del comune obiettivo dell’elaborazione di un piano o programma attento ai valori della tutela e sostenibilità ambientale, seppur in un contesto dialettico, essendo le predette autorità in questione deputate alla tutela di interessi diversi[xi].
Rispetto al riparto di competenze in caso di V.A.S. di rilievo locale, in particolare, si è approdati ad un complesso e articolato quadro sul piano normativo, il quale vede la coesistenza di una legislazione regionale, primaria e secondaria, caratterizzata da una pluralità di approcci, soprattutto con riferimento alle modalità procedimentali, tanto che risulta concretamente impraticabile una sintesi e comparazione tra le diverse discipline regionali.
In linea generale, tuttavia, emerge il dato comune e diffuso per cui le Regioni abbiano per lo più delegato sul punto gli altri Enti territoriali, sicché si assiste sovente ad una sovrapposizione tra l’Autorità proponente e l’Autorità competente quali articolazioni distinte della stessa Amministrazione.
In merito occorre ribadire come tale dato non si ponga però in contrasto con la disciplina eurounitaria, ai fini del rispetto della quale non rilevano i meccanismi concretamente impiegati dagli Stati membri, bensì unicamente “che essi siano idonei ad assicurare il risultato voluto di garantire l’integrazione delle considerazioni ambientali nella fase di elaborazione, predisposizione e adozione di un piano o programma destinato a incidere sul territorio. Sicché “per nulla illegittima, e anzi quasi fisiologica, è l’evenienza che l’autorità competente alla V.A.S. sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa autorità procedente”.[xii]
Sul piano europeo, in dettaglio, l'art. 6, 3 della direttiva 2001/42 non imporrebbe in altri termini che sia creata o designata un'altra Autorità consultiva in ragione di tale disposizione, “purché, in seno all'autorità normalmente incaricata di procedere alla consultazione in materia ambientale e designata a tal fine, sia organizzata una separazione funzionale in modo tale che un'entità amministrativa, interna a tale autorità, disponga di un'autonomia reale, la quale implichi, segnatamente, che essa abbia a disposizione mezzi amministrativi e risorse umane propri, sia in tal modo in grado di svolgere i compiti attribuiti alle autorità consultive ai sensi di tale art. 6, n. 3, e, in particolare, di fornire in modo oggettivo il proprio parere sul piano o programma previsto dall'autorità dalla quale essa promana”[xiii].
Tale specifico aspetto, tuttavia, parrebbe oggi recepito nell’ordinamento interno sul piano normativo unicamente con riferimento alla valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell’art. 7 bis, comma 6 del Codice dell’ambiente.
In dettaglio, così come emerge dal Rapporto del 2017 redatto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sullo stato di attuazione dei procedimenti di V.A.S., le Regioni avrebbero perlopiù delegato le funzioni di “Autorità competente” a province, città metropolitane e comuni, in quanto preposti alle scelte urbanistiche nell’ambito del proprio territorio di riferimento.
Posto tuttavia che tale delega non può non risolversi – al pari del resto di quanto avviene con riferimento alla tutela del vincolo paesaggistico – nella concentrazione delle attività istruttorie e di quelle valutative nel medesimo contesto organizzativo, si imporrebbe poi in capo alle Regioni un ruolo di garanzia circa la reale separazione e autonomia di giudizio tra le articolazioni interne indicate come competenti in concreto.
Nel medesimo Rapporto ministeriale, si pone in evidenza del pari come la frammentazione dei procedimenti derivata da tali deleghe abbia prodotto concretamente un onere aggiuntivo per le Regioni, chiamate a monitorare i procedimenti attivati sul territorio, garantendo la necessaria unitarietà della governance[xiv].
Nel solco dell’orientamento giurisprudenziale predominante, il Consiglio di Stato, a proposito del riparto di competenze, pertanto, come anticipato, è giunto ad affermare che dalle definizioni oggi contenute nell’art. 5, d.lgs. n. 152 del 2006 di “Autorità competente” e “Autorità procedente” risulta chiaro solo che entrambe siano “amministrazioni”, non che le stesse debbano essere diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in un diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente)[xv].
4. L’aspetto problematico circa la natura stessa della V.A.S.
Un’ulteriore questione connessa a quella appena trattata riferita al problematico riparto di competenze nell’ambito della procedura di V.A.S. riguarda pertanto la natura stessa della V.A.S. quale fase interna nell’ambito del procedimento pianificatorio ovvero, secondo altra interpretazione affermatasi, quale procedimento a sé stante e dotato di una sua autonomia, un sub-procedimento autonomo cioè rispetto alla più generale procedura di pianificazione.
Alla luce dello stesso dettato di cui all’art. 11 del Codice dell’Ambiente, parrebbe maggiormente sostenibile quell’opzione ermeneutica che concepisce la V.A.S. non quale procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, bensì come un passaggio endoprocedimentale di esso[xvi].
Tale ricostruzione ermeneutica, inoltre, fa capo a talune specifiche pronunce del Consiglio di Stato nell’ambito delle quali si è sostenuta la tesi della valenza meramente endoprocedimentale della V.A.S., la quale si concretizzerebbe in un passaggio interno al procedimento e finalizzato alla espressione di un parere di verifica circa la sostenibilità ambientale della medesima pianificazione[xvii].
Secondo tale orientamento, peraltro, si ravviserebbe un’argomentazione a sostegno della tesi de qua proprio nel dato della sostanziale identità funzionale tra Autorità procedente e Autorità competente (così come espresso nel paragrafo precedente).
In altri termini, dal dettato normativo sull’argomento non emergerebbe che la valutazione ambientale strategica sia attribuita ad un’amministrazione diversa rispetto a quella competente rispetto all’adozione del piano.
Di contro, i sostenitori della tesi della autonomia della V.A.S. fondano invece tale assunto sull’argomentazione della distinzione tra Autorità procedente, chiamata all’elaborazione del piano o del programma e Autorità competente rispetto all’espletamento della V.A.S., anche in ragione della necessaria indipendenza e imparzialità che dovrebbe connotare l’Autorità competente al fine dello svolgimento della valutazione in oggetto[xviii].
5. Impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. e ulteriori profili processuali
Rispetto alle questioni di ordine processuale che vengono in rilievo nel caso in esame, si pone in evidenza come il giudice nella pronuncia in questione ritenga infondata l’eccezione di inammissibilità della domanda di annullamento sollevata dal Comune per carenza d’interesse, sulla base della argomentazione della natura endoprocedimentale della determina di assoggettabilità a VAS.
In merito, a proposito della autonoma lesività e, dunque, conseguente possibile immediata impugnabilità degli atti conclusivi della stessa procedura di valutazione di impatto ambientale e di screening, nella sentenza si ritiene condivisibile l’orientamento già espresso dal Consiglio di Stato, a proposito della procedura di V.I.A., giudicato applicabile in ragione dell’eadem ratio anche al caso concreto in esame.
In tal senso, infatti, si esplicita testualmente come “fin dal loro ingresso nell’ordinamento[xix], le procedure di VIA e di screening, pur inserendosi sempre all’interno del più ampio procedimento di realizzazione di un’opera o di un intervento, sono state considerate da dottrina e giurisprudenza prevalenti come dotate di autonomia, in quanto destinate a tutelare un interesse specifico (quello alla tutela dell’ambiente), e ad esprimere al riguardo, specie in ipotesi di esito negativo, una valutazione definitiva, già di per sé potenzialmente lesiva dei valori ambientali[xx]. Questo è il motivo per il quale anche gli atti conclusivi della procedura di screening, seppure connotati dal rilevato grado di provvisorietà, nell’accezione meglio esplicitata, sono stati ritenuti immediatamente impugnabili dai soggetti interessati alla protezione di quei valori, ovvero dal privato che ritenga immotivato l’aggravio procedurale impostogli”[xxi].
A proposito delle censure proponibili avverso le decisioni in materia di V.A.S., peraltro la giurisprudenza pare si sia assestata poi nel senso che le medesime siano ritenute ammissibili nella misura in cui la parte istante indichi la concreta lesione alla sua proprietà derivata dall’inosservanza delle norme sul procedimento, laddove in aggiunta si dimostri che proprio le determinazioni raggiunte in sede di V.A.S. abbiano inciso in maniera determinante sulla decisione finale concernente la destinazione urbanistica del suolo[xxii]; sarebbe di contro inammissibile una doglianza meramente “strumentale”, ritenuto che il generico interesse ad un rinnovato esercizio del potere pianificatorio ad opera dell’Amministrazione non sarebbe sufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo[xxiii].
In altri termini, sotto il profilo dell’interesse ad agire, la procedura di V.A.S. non sarebbe impugnabile al fine di ottenere ad opera dell’amministrazione una riedizione del potere pianificatorio.
Tale rigida opzione ermeneutica si spiegherebbe, nondimeno, in ragione del fatto che proprio la V.A.S. va a collocarsi nell’ambito di un procedimento di pianificazione caratterizzato da ampia ed evidente discrezionalità delle scelte urbanistiche, per natura insindacabili eccettuati i casi di manifesta erroneità, illogicità, ovvero arbitrarietà delle scelte operate dall’amministrazione.
Le limitazioni alle censure proponibili avverso i provvedimenti adottati in sede di V.A.S. incontrano, in definitiva, i limiti propri del medesimo sindacato esperibile in materia di valutazioni ambientali e dunque anche di valutazione di impatto ambientale, connotate del pari da discrezionalità tecnica, con tutte le implicazioni del caso.[xxiv]
Ancora, occorre considerare che le censure proposte in tema di V.A.S. dovrebbero essere essenzialmente e, in ultima istanza, orientate all’ottenimento di una più marcata ed effettiva tutela dei valori ambientali.
La complessità dell’istituto della V.A.S. evidentemente dà luogo a problematiche anche di ordine più strettamente processuale così come nel caso di specie, ma si pensi ad ulteriori implicazioni quali quelle della possibilità autonoma impugnabilità del parere V.A.S., in relazione alla natura giuridica del medesimo; il connesso aspetto degli effetti della mancata acquisizione del parere V.A.S., ovvero della configurabilità di una V.A.S. “postuma”, aspetto sul quale peraltro la giurisprudenza si è pronunciata con arresti di segno opposto.
In particolare, secondo un primo orientamento, la fase di valutazione della V.A.S. deve essere effettuata prima dell’approvazione del piano, o comunque durante la predisposizione del medesimo, in quanto gli impatti significativi sull’ambiente vanno necessariamente presi in considerazione ex ante.
In tal senso i sostenitori di tale tesi richiamano l’argomentazione per cui non esiste una disposizione per la V.A.S. corrispondente alla logica di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 152/2006 in materia di V.I.A.; l’art. 11 del Codice, infatti, stabilisce semplicemente l’annullabilità del piano o del programma non assoggettato preventivamente a V.A.S., con l’unica mitigazione, quindi, di stabilizzare gli effetti del provvedimento qualora non venga impugnato[xxv].
Di contro, secondo altro orientamento del giudice amministrativo, il diritto dell’Unione non osta a che la valutazione sia effettuata ex post, purché le norme nazionali che consentono la regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto comunitario[xxvi].
6. Osservazioni conclusive
Rispetto alla sentenza in commento la peculiare statuizione che si ritiene di maggior rilievo non è tanto quella relativa alla predicata incompetenza dell’autorità che, nel caso di specie, ha emesso la determinazione di assoggettamento a V.A.S., quanto certamente quella concernente la ritenuta autonoma lesività del provvedimento di assoggettamento alla valutazione ambientale strategica della variante oggetto di causa.
Tale affermazione, infatti, concretizzatasi nel rigetto dell’eccezione d’inammissibilità per carenza d’interesse sollevata dal Comune resistente, viene di fatto a discostarsi dall’orientamento dominante della giurisprudenza amministrativa, volto alla esclusione della possibilità di far valere in giudizio vizi relativi alla proceduta di V.A.S. ad opera di soggetti privati interessati alla edificazione.
Come esplicitato difatti dalla predetta giurisprudenza amministrativa sul punto, a tale conclusione si dovrebbe pervenire ritenuto che l’istituto in questione è finalizzato ad esigenze di tutela ambientale, in quanto tali pertanto antitetiche rispetto alla posizione giuridica del cittadino interessato alla edificazione[xxvii].
Tuttavia, si ritiene che il caso di specie, se analizzato nel dettaglio, mostri come tale discostamento del giudice nel caso concreto rispetto alla consolidata giurisprudenza sul punto sia soltanto apparente. In altri termini, dalla pronuncia in questione non emergerebbe una negazione della natura meramente endoprocedimentale della V.A.S., così come esplicitato da ultimo dal supremo consesso amministrativo nell’ambito della nota sentenza n. 6152/2021[xxviii].
Tale ricostruzione sarebbe cioè confermata dal giudice amministrativo lombardo il quale, nel caso in esame, avrebbe piuttosto posto l’accento su altri aspetti dirimenti e, in particolare, sul fatto che nella fattispecie concreta non si discuterebbe dell’esito della pianificazione, bensì di una sezione procedurale iniziale dell’istituto della valutazione strategica interessata dal predetto vizio di incompetenza.
Ancora, nel caso di specie, il giudice giunge alla conclusione esplicitata sulla base dell’argomentazione determinante per cui la decisione di assoggettamento a V.A.S. rappresenterebbe senza dubbio un atto dotato di lesività, essenzialmente in quanto implicante un evidente aggravio procedimentale, in senso analogo rispetto agli effetti prodotti da uno screening negativo nell’ambito di una procedura di valutazione di impatto ambientale.
Detto altrimenti, la decisione di assoggettamento a V.A.S. in questione avrebbe vincolato il privato ad intraprendere tale fase endoprocedimentale, a cui il medesimo avrebbe potuto sottrarsi alla luce di una decisione spettante ad una Autorità diversa, ovvero quella competente[xxix].
[i] Tra le pronunce più recenti sul tema si v., in partic., TAR Veneto, sez. II, 22 maggio 2023, n. 680.
[ii] Sulla tematica si v. G.F. Ferrari, Valutazione ambientale strategica e di impatto ambientale, in S. Nespor, L. Ramacci (a cura di), Codice dell’ambiente: profili generali e penali, Milano, 2022, 2689 ss.; si v. altresì G. Delle Cave, La Valutazione Ambientale Strategica: ratio, caratteristiche e peculiarità (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 01 settembre 2021, n. 6152), in questa rivista; B. Giuliani, Valutazione ambientale strategica, valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale, in M. Allena-A. Bartolini-P. Chirulli (a cura di), Trattato di diritto del territorio, vol. II, Torino, 2018, pp. 1067 ss.; R. Greco, VIA, VAS e AIA: queste sconosciute, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010.
[iii] V. sull’argomento Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[iv] Così, a titolo esemplificativo, in Inghilterra o in Olanda. Si v. peraltro in argomento M. D’Orsogna – L. De Gregoriis, La valutazione ambientale strategica, in AA.VV., Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da P. Dell’Anno – E. Picozza, vol. II, Discipline ambientali di settore, Cedam, 2013, 561 ss.
[v] Cfr. in particolare, E. Boscolo, La valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e programmi: dalla VIA alla VAS, in Urb. e app., 2002, 10, 1121 ss. e M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007.
[vi] Sull’argomento si v. tra gli altri, L. Ugolini, F. Vanetti, La sottoposizione a Valutazione ambientale strategica (V.A.S.) degli strumenti di pianificazione urbanistica ed il coordinamento con la Valutazione di impatto ambientale (V.I.A.). Nota a sentenza: CGUE, sez. II, 7 giugno 2018, causa C-671/16; CGUE, sez. II, 7 giugno 2018, causa C-160/17, in RGA, 3, 2018, 529-534; A. Cassatella, Discrezionalità amministrativa e valutazione ambientale strategica, in Riv. giur. urbanistica, 1, 2016, 164-195; S. Amorosino, La Valutazione Ambientale Strategica dei piani territoriali ed urbanistici e il silenzio assenso di cui al nuovo art. 17 bis L. n. 241/1990, in Urb e app., 12, 2015, 1245-1251.
iv È il caso di Regione Lombardia ove, in relazione alla V.A.S., rilevano la l. r. 12/2005, bensì anche, tra le altre, le DGR n.6420/2007, n.761/2010; n. 3836/2012; n.6707/2017 e n. 2667/2019. Sul sistema lombardo cfr. in partic. P. Brambilla, L’autorità procedente non è competente. Ma l’autorità competente lo è?, in RGA online, 51, 2024, ove si chiarisce come le modalità organizzative della VAS nella Regione Lombardia siano rette da criteri e indirizzi di soft law e specialmente la DCR 351/2007 e la DGR 10971/2009, le quali dispongono che entrambe le Autorità, competente e procedente, siano collocate nella stessa amministrazione, con conseguente pretermissione della prerogativa della separazione. Ne consegue che nel modello lombardo è la stessa amministrazione che valuta e decide, sovente mediante figure appartenenti a uffici diversi, ma con il coinvolgimento diretto anche di sindaci o segretari comunali, specialmente ove siano interessati piccoli comuni, così come previsto nell’ambito della DGR 13071/2010.
[viii] Lo stesso giudice costituzionale si è pronunciato in numerose ipotesi sul tema. Si v., tra le altre: Corte cost. 29 marzo 2013, n. 58, pronunciatasi a proposito della legge della Regione Veneto, secondo la quale “è consentito alla legge regionale incrementare gli standard di tutela dell’ambiente, quando essa costituisce esercizio di una competenza legislativa della Regione e non compromette un punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato”; Corte cost. 1° dicembre 2006, n. 398, ove, nel dichiarare legittima una legge Regione Friuli Venezia Giulia, si è precisato che “la valutazione ambientale strategica, disciplinata dalla direttiva 2001/42/CE, attiene alla materia ‘tutela dell’ambiente’. Da tale constatazione non deriva tuttavia la conseguenza che ogni competenza regionale sia esclusa”; Corte cost. 17 giugno 2010, n. 221, sempre su una l. Regione Friuli Venezia Giulia, che invece ha ritenuto non lesiva della potestà legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente la previsione, nella legislazione regionale, di termini procedimentali ridotti.
[ix] Sempre a proposito delle competenze nell’ambito della procedura “dinamica” di valutazione ambientale strategica si v. una recente pronuncia a proposito del caso del piano di gestione dei rifiuti di Roma: Cons. Stato, sez. IV, 9 febbraio 2024, n. 1349.
[x] V. sul tema E. Boscolo, La valutazione ambientale strategica di piani e programmi, in RGE, 1, 2008, 3-17.
[xi] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[xii] Si v. in partic. in questo senso Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133. Tra le pronunce più recenti a proposito della non indispensabile separazione tra le due autorità in oggetto si v. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 14 gennaio 2016, n. 81 e Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2023, n. 7130.
[xiii] Così Cons. Stato, sez. IV, 1° settembre 2015, n. 4081, ove si richiama CGUE, 20 ottobre 2011, C-474/10, Department of the Environment for Northern Ireland c. Seaport (NI) Ltd e al.
[xiv] V. Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[xv] Ibidem.
[xvi] V. in argomento F. Vanetti – E. Serra, Valutazione ambientale strategica e limiti del sindacato giurisdizionale, in RGA online, n. 50, febbraio 2024.
[xvii] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133; si v, inoltre, TAR Abruzzo, Pescara, 9 febbraio 2012, n. 51.
[xviii] Cfr. tra le altre TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17 maggio 2010, n. 1526.
[xix] Si fa riferimento, in particolare, al d.P.R. 12 aprile 1996 in materia.
[xx] Si richiama in particolare sul punto Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2009, n. 1213.
[xxi] Così la sentenza in commento, la quale opera un riferimento a Cons. Stato, sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379.
[xxii] Così, tra le più recenti, TAR Toscana, Firenze, sez. I, 23 giugno 2023, n. 641.
[xxiii] In questo senso, tra le pronunce più recenti, si v. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 5 dicembre 2023, n. 2951; Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2023, n. 7130; TAR Lombardia, Milano, 4 aprile 2019 n. 451 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 7 luglio 2020, n. 1291.
[xxiv] Cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 2022, n. 4355 e Id., 28 marzo 2023, n. 3168.
[xxv] Si v., in tal senso, TAR Puglia Bari, n. 1677/2020 ove si è precisato che “è solo l’Amministrazione che può valutare funditus l’interesse pubblico ambientale e se vi siano profili nuovi non già considerati e quali essi siano e, per questo, è la stessa a dover, in prospettiva logico-giuridica, dar impulso, nel caso di specie, ad un nuovo procedimento di V.A.S., qualora lo ritenga in concreto indispensabile, alla luce del P.P.T.R.”.
Cfr. A. Forina, Le sopravvenienze urbanistico-edilizie e l'ammissibilità di una valutazione ambientale strategica postuma (commento a T.A.R. Puglia, Bari, sez. II, 22 dicembre 2020, n.1677), in Riv. giur. urbanistica, 3, 2021 655-685.
[xxvi] Così, in particolare, TAR Lombardia, Milano, n. 1319/2018 che, applicando le coordinate date dalla CGUE 27 luglio 2017, C‑196/16 e C‑197/16 sulla eliminazione delle conseguenze illecite derivanti dall’omessa effettuazione di una valutazione di impatto ambientale (VIA), ha ritenuto che il diritto dell’Unione non osta a che la valutazione sia effettuata ex post, purché le norme nazionali che consentono la regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto comunitario. Sebbene tali principi siano stati enucleati in materia di V.I.A. il T.A.R. Milano ha ritenuto di estendere l’approccio della CGUE ad una procedura di V.A.S., in ragione del simile schema procedimentale e del comune carattere preventivo delle due valutazioni.
[xxvii] In tal senso la stessa giurisprudenza ha rilevato sul punto come la valutazione ambientale (V.A.S.) trovi il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001 e abbia “la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nel procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi astrattamente idonei ad impattare significativamente sullo stesso. Essa condivide con altri strumenti di valutazione, come la valutazione di impatto ambientale (VIA) su singoli progetti e quella di incidenza, riferita ai siti di Natura 2000, l’ispirazione al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo, in modo da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato a ridette esigenze di tutela”. Così, in particolare, Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[xxviii] Ibidem, laddove, in particolare, il Collegio nell’ambito della sentenza ha esplicitato di non condividere “l’approccio ermeneutico di fondo della parte appellante, che desume la necessaria “separatezza” tra le due autorità dalla implicita convinzione che la VAS costituisca una sorta di momento di controllo sull’attività di pianificazione svolta dall’autorità proponente, con il corollario dell’impossibilità di una identità o immedesimazione tra controllore e controllato, appunto. Siffatta ricostruzione, invero, è smentita dall’intero impianto normativo in subiecta materia, il quale invece evidenzia che le due autorità, seppur poste in rapporto dialettico in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale: ciò si ricava, testualmente, dall’art. 11, d.lgs. n. 152 del 2006, che secondo l’opinione preferibile costruisce la V.A.S. non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima. Ciò trova conferma anche nelle più recenti modifiche normative, peraltro in materia di V.I.A., che declinano l’esigenza di segnalare ogni situazione di conflitto, anche potenziale, alle competenti autorità (art. 50, comma 1, lett. c), punto 3, d.l. n. 76 del 2020, che ha modificato sul punto l’art. 7 bis, comma 6, d.lgs. n. 152 del 2006); ma senza incidere sulla previgente previsione inforza della quale l’autorità competente può coincidere con l’autorità proponente di un progetto, purché ne vengano separate in maniera appropriata, nell’ambito della singola organizzazione, le funzioni potenzialmente confliggenti”.
[xxix] V. sul punto P. Brambilla, L’autorità procedente non è competente. Ma l’autorità competente lo è?, cit.
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