1. Il tema della sessione odierna, all’interno di un convegno dedicato a magistratura e social network, è assai ampio perché investe la comunicazione istituzionale ed extraistituzionale e, quindi, anche le esternazioni dei magistrati non concernenti i procedimenti dagli stessi trattati ed attinenti a vicende politiche, giudiziarie e di costume. Non mi soffermo sulla differenza tra social network e social media e, muovendo dalla nozione data di questi ultimi dal Consiglio Consultivo dei giudici europei (CCJE)[1], svolgo alcune considerazioni esclusivamente in ordine ai limiti che si impongono ai magistrati nella comunicazione extraistituzionale stabiliti da norme di diritto positivo e la cui violazione può dare luogo a responsabilità disciplinare.
2. I social media, soprattutto nei primi anni di diffusione, hanno costituito uno spazio in cui tutto sembrava possibile, regolamentato dal legislatore, non solo italiano, con ritardo e non sempre con efficacia. Questo spazio virtuale è occupato anche dai magistrati, non di rado con esternazioni su questioni della politica e di costume e su vicende giudiziarie, con esiti spesso criticati dall’opinione pubblica, ma non solo, soprattutto in quanto rischierebbero di appannare l’immagine di imparzialità. Il loro uso da parte dei magistrati è quindi diventato «argomento di attuale preoccupazione» per la stessa magistratura[2] ed ha reso pressante la questione delle regole che devono governarlo. Il Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) ha infatti sottolineato «che ancora pochi codici di condotta forniscono orientamenti pratici specifici a questo riguardo»[3]; nel senso di una carente regolamentazione positiva è l’indicazione contenuta in un atto dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione[4].
È difficile dissentire da tale constatazione, se si ha riguardo ai doveri stabiliti dal codice disciplinare recato dal d.lgs. n. 109 del 2006 (di seguito, codice), i soli la cui violazione dà luogo a responsabilità disciplinare, sui quali mi soffermo brevemente.
3. La cautela raccomandata da molti atti sovranazionali ed internazionali nell’utilizzo dei social mediada parte dei magistrati[5] costituisce il contenuto dei doveri generali stabiliti dall’art. 1, comma 1, del codice, concernenti però esclusivamente quelli nell’esercizio delle funzioni. Questa disposizione stabilisce i doveri del «riserbo»[6], dello «equilibrio», della «imparzialità» (anche come immagine della stessa), i quali implicano e sanciscono quello di cautela. Riduce, ma non vanifica l’importanza dell’enunciazione la sua «funzione prevalentemente simbolica (o se si vuole "pedagogica") e deontologica», poiché, ferma l’inidoneità ad incidere sulla tipizzazione contenuta nel codice, assume rilievo «nell'ambito delle valutazioni rimesse al giudice in presenza di clausole generali»[7]. Nondimeno, la riferibilità dei doveri alle condotte tenute nell’esercizio delle funzioni esclude che possano riguardare la comunicazione social extraistituzionale, strutturalmente inidonea ad integrare le fattispecie dell’art. 2 del codice, salvo, forse, quanto a due delle stesse.
La prima è quella prevista dal comma 1, lettera c) (violazione dell’obbligo di astensione), che può assumere rilievo non soltanto sul piano probatorio, circostanza questa da sola insufficiente a desumere dalla previsione un limite concernente l’uso dei social[8]. La considerazione che i social sono caratterizzati da un’ampia gamma di modalità di interazione (like, commenti, post, segni grafici di differente significato, quali il pollice alzato, il cuore ecc.), in continua evoluzione, pone infatti la questione del significato di detti segni e del nuovo significato di risalenti nozioni (in particolare dell’amicizia) e può preludere ad un rilievo della stessa ai fini dell’integrazione di detto illecito. La questione è stata approfondita in altri ordinamenti[9], di recente anche dal Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con riguardo alla nozione di «amicizia»[10]. Quest’ultimo si è orientato nel ritenere che «le amicizie sui profili social non costituiscono un elemento di per sé rilevante a manifestare la reale consuetudine di rapporto personale» e, quindi, i presupposti dell’obbligo di astensione. Nondimeno, ha dato atto che «le amicizie e i contatti sui social network e media, pur non equiparabili a quelli della vita reale, quando concernono persone coinvolte nell’attività professionale del magistrato devono essere contenute ovvero evitate, allorché essi possano incidere sulla sua immagine di imparzialità». La direttiva è improntata a ragionevole prudenza, ma occorre andare oltre. In un tempo in cui sempre più evapora la distinzione tra mondo reale e mondo virtuale, è necessario riflettere sull’ammissibilità di un’interpretazione che omologhi le nozioni dei due diversi mondi e tenga altresì conto della forza del significato dei richiamati segni[11]. Tanto, ancora più in considerazione della natura di illecito di mera condotta della violazione dell’obbligo di astensione, che tutela l’immagine di imparzialità e non richiede, sotto il profilo soggettivo, il dolo specifico e, quindi, l’intento di favorire o danneggiare una delle parti[12]. Per dette ragioni, dalla fattispecie funzionale potrebbero essere desunti nuovi, precisi limiti che si impongono nella comunicazione in esame, con diretta ricaduta sull’esercizio delle funzioni di una condotta tenuta al di fuori delle stesse.
La seconda fattispecie è quella dell’art. 2, comma 1, lettera d) (comportamenti abitualmente o gravemente scorretti). Secondo la giurisprudenza di legittimità, i comportamenti che la integrano non devono necessariamente essere frutto dell'esercizio delle funzioni. Il concetto di "ufficio" non ha infatti una mera connotazione "logistica" e, quindi, i comportamenti non concernono i soli rapporti direttamente investiti dall'esercizio delle funzioni e riguardano anche le relazioni di tipo personale con soggetti che le hanno intessute con il magistrato per il ruolo che questi svolge, non essendo altresì necessario che la scorrettezza abbia avuto in concreto una ricaduta negativa in termini funzionali sui compiti istituzionali[13]. Non occorrendo che il comportamento sia frutto dell'esercizio delle funzioni, la norma prefigura «una responsabilità disciplinare “di posizione”»[14], che rende rilevante, ai fini dell’integrazione dell’illecito, la comunicazione social extraistituzionale.
Limitando l’attenzione ai social consistenti in applicazioni che permettono lo scambio di informazioni e documenti tra più di due persone (più complessi problemi si pongono per le app di scambio tra due sole persone) e che danno luogo ad una vera e propria piazza, sia pure virtuale, la comunicazione in esame può integrare l’illecito quando concerna colleghi e personale dell’ufficio[15], ovvero una parte del procedimento[16] e non di rado concorre con quello dell’art. 4, lettera d), del codice[17]. I doveri enucleabili dalla fattispecie sono dunque riferibili alla stessa, benché la rilevanza della condotta con riguardo ad un numero limitato di soggetti (magistrati, collaboratori dell’ufficio, parti, difensori e quanti abbiano avuto rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario) ed a rapporti intessuti per ragioni di ufficio[18], tendenzialmente non li renda applicabili alle esternazioni socialaventi ad oggetto i più generali temi sopra indicati.
La comunicazione social extraistituzionale può, infine, venire in rilievo, in relazione alle fattispecie dell’art. 2, comma 1, lettere e), u), v)[19], ma esclusivamente sul piano probatorio, non al fine di identificare limiti alla stessa, fatta forse eccezione per la prima[20], ciò che rende inutile soffermarsi su di esse.
4. Le esternazioni a mezzo social non sembrano suscettibili di integrare le fattispecie dell’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 2006. Il codice, nel disegno originario, contemplava, nell’art. 1, comma 2, i doveri inerenti ai comportamenti al di fuori dell’esercizio delle funzioni e stabiliva che non dovevano compromettere «la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario». A tale dovere generale corrispondevano la fattispecie dell’art. 3, comma 1, lettera l), recante una rigorosa, ma generica, norma di chiusura secondo cui costituiva illecito «ogni altro comportamento tale da compromettere la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza», nonché quella della lettera f), in virtù della quale costituiva illecito disciplinare «la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo».
L’abrogazione di dette disposizioni da parte della legge n. 269 del 2006 ha relegato fuori dell’ambito disciplinare le esternazioni che, per la polemica ed inappropriata presa di posizione del magistrato sui temi più vari (anche politici), potrebbero in tesi metterne in discussione l’immagine di imparzialità. Su tale conclusione non incide la riferibilità, sostenuta da una parte della dottrina, del dovere di riserbo dell’art. 1 all’attività extrafunzionale del magistrato[21] che, a tacere d’altro[22], deve fare i conti con la ricordata, limitata funzione dei doveri generali. Irrilevante, come accennato, è poi la valenza meramente probatoria della comunicazione social, extraistituzionale, al fine della prova dei presupposti delle fattispecie dell’art. 3.
5. Le esternazioni a mezzo social possono, infine, costituire illeciti disciplinari configurabili in relazione a fatti reato che, nei casi previsti dall’art. 4 del codice, assumono detta connotazione indipendentemente da una loro connessione con l’esercizio delle funzioni e concorrono con gli illeciti previsti dagli artt. 2 e 3 del codice[23].
In disparte l’analisi nel dettaglio delle fattispecie dell’art. 4, comma 1, lettere a), b), c), che qui non interessa, è sufficiente osservare che si tratta di un illecito in relazione al quale viene in rilievo il magistrato quale cittadino, che nei comportamenti incontra i limiti che si impongono a tutti e, con riguardo ad esternazioni che possono integrare il reato di diffamazione – quello cui, tendenzialmente, può dare luogo la comunicazione extraistituzionale social – si pongono le ordinarie questioni concernenti i presupposti della natura diffamatoria delle dichiarazioni[24] e l’idoneità dell’esternazione ad integrare una «comunicazione» con più persone[25].
Un elemento di specificità è costituito dalla previsione della lettera d), secondo cui costituisce illecito disciplinare «qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l'immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l'azione penale non può essere iniziata o proseguita». La considerazione che l’archiviazione del procedimento penale non esclude l’illecito[26] rende chiaro l’aggravamento della posizione del magistrato rispetto a chi non è tale, ancora più dopo il rafforzamento dell’irrilevanza del provvedimento in ambito extrapenale con la riforma Cartabia[27]. Aggravamento che rinviene la sua ratio nell’esigenza di garantire un livello di correttezza più alto di quello che può essere preteso dal comune cittadino[28], di evidente importanza con riguardo al reato di diffamazione integrato dalle esternazioni nei social.
La configurazione dell’illecito è condizionata alla compromissione dell'immagine del magistrato e della funzione giudiziaria, sotto il profilo della credibilità e della imparzialità, unico bene giuridico protetto dalla richiamata disposizione[29]. Può dunque «accadere che un determinato fatto, pur integrando un’ipotesi di reato, sia però concretamente privo di una effettiva idoneità lesiva dell'immagine sociale del magistrato»[30]. La circostanza che la lesione dell’immagine dipende dalle concrete modalità di consumazione dell’illecito[31] e non è esclusa dalla «circostanza che l'immagine pubblica dell'incolpato sia stata, in concreto e direttamente, compromessa a seguito dello strepitusconseguente all'esercizio dell'azione disciplinare»[32], connota peraltro la norma di evidente rigore.
6. Il breve excursus dimostra la sostanziale inesistenza di limiti alla comunicazione socialextraistituzionale stabiliti dal codice. Sembra dunque emergere un vuoto nel sistema di tutela dei doveri deontologici del magistrato, nonostante sia convincimento pacifico e condiviso che questi anche nei comportamenti al di fuori dell’esercizio delle funzioni è tenuto ad una condotta in grado di preservare la considerazione di cui deve godere presso la pubblica opinione e la fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria.
In realtà, non esiste il paventato vuoto assoluto. Il sistema deontologico della magistratura ordinaria si caratterizza rispetto a tutti gli altri (concernenti impiegati pubblici e professionisti) in quanto è articolato su più piani. A seguito dell’attribuzione all’A.N.M. dell’approvazione del codice etico[33], accanto ai doveri deontologici stabiliti dal codice, la cui violazione dà luogo a responsabilità disciplinare, sussistono infatti ulteriori, per certi versi più rigorosi, doveri deontologici, riferibili anche alla comunicazione in esame[34], dei quali è garante l’A.N.M. che, qualora ne accerti la violazione, irroga una sanzione che incide sul rapporto associativo.
Ulteriori doveri deontologici concernenti (per quanto qui interessa) il ‘saper essere’ magistrato, pure riferibili alla comunicazione in esame, sono altresì stabiliti dalle norme primarie, secondarie e dalle direttive consiliari[35], della cui osservanza è garante il C.S.M. e che vengono in rilievo, tra l’altro, in occasione delle valutazioni di professionalità e del conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi.
Si tratta di un articolato sistema che è rispettoso dei principi sovranazionali, i quali non esigono un’imprescindibile relazione tra dovere deontologico e responsabilità disciplinare[36] e che esclude l’esistenza del paventato vuoto assoluto.
7. Non è tuttavia possibile ignorare l’istanza per la previsione di limiti all’utilizzo dei social da parte dei magistrati proveniente dall’opinione pubblica, ma non solo, tenuto conto della richiamata presa di posizione del CGJE con l’Opinion n. 25-2022, che auspica l’introduzione nel codice di previsioni che rendano disciplinarmente sanzionabili le esternazioni social che non li osservano e che, tuttavia, deve fare i conti con complessi problemi.
Il primo è dato dalla difficoltà, se non dalla sostanziale impossibilità, della tipizzazione dell’illecito in esame che, peraltro, è questione che riguarda il complessivo sistema disciplinare, di cui ha dato atto anche il CCJE[37], ritenendo non «necessario (in virtù del principio nulla poena sine lege o su qualsiasi altra base) o anche possibile cercare di specificare in termini precisi o dettagliati a livello europeo la natura di tutti i comportamenti scorretti che potrebbero portare a procedimenti e sanzioni disciplinari»[38]. Siffatta difficoltà potrebbe far pensare all’introduzione nel codice di una clausola generale che renda disciplinarmente sanzionabili le esternazioni social lesive dei beni della credibilità della funzione, dell’imparzialità e della fiducia nella magistratura.
L’ardua praticabilità di una tale scelta è tuttavia nota, come lo è il risalente dibattito sulla questione della previsione degli illeciti disciplinari mediante una clausola generale, giudicata dalla Corte costituzionale rispettosa del principio di legalità[39], ma autorevolmente contrastata[40], non avendo avuto successo la tesi intermedia, prospettata nella Relazione Paladin, che suggeriva di prevedere «clausole finali con cui si colpisce ogni “comportamento idoneo” a ledere interessi specificamente individuati dalla legge»[41], accolta nel disegno originario del codice, ma, come accennato, abrogata dalla legge n. 269 del 2006.
La compatibilità con la Costituzione della scelta in favore di una clausola generale è tuttavia destinata a scontrarsi con ostacoli pressoché insormontabili, soprattutto con riguardo al tema in esame.
Il principio che dovrebbe informarla è chiaro, è stato più volte concordemente enunciato dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale[42] e da atti sovranazionali[43] ed è stato efficacemente sintetizzato dal C.S.M.[44]: i magistrati, come tutti i cittadini, godono della libertà riconosciuta e garantita dall’art. 21 Cost., ma la funzione svolta fa venire in rilievo valori costituzionali, che impongono un bilanciamento e, quindi, una compressione dell’espansione di detta libertà, la quale non deve compromettere l’affidabilità, la credibilità e l’immagine di imparzialità della magistratura. Ed è altresì arduo, pressoché impossibile, trovare chi non condivida le parole di Piero Calamandrei: «I giudici, per godere della fiducia del popolo, non basta che siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali»[45].
Se è facile concordare sul principio generale, assai difficile, se non impossibile, è giungere ad una condivisa applicazione dello stesso, per quanto chiaro, almeno all’apparenza. Stabilire quali siano gli accennati limiti, alla luce del bene protetto, pur essendo indiscusso che questo è costituito dalla credibilità e dall’immagine di imparzialità della funzione giudiziaria, vuol dire confrontarsi con un rebus sostanzialmente non risolubile. La pratica impossibilità di una soluzione condivisa emerge, in sintesi: x) dalla giurisprudenza costituzionale, dato che l’apprezzamento del contenuto e della rilevanza dei «più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni» che si impongono nel bilanciamento, ha condotto la Corte, nella decisione di due questioni di legittimità costituzionale, in relazione a due fattispecie, a soluzioni non del tutto collimanti, della cui diversità potrebbe almeno discutersi, come qui non è possibile[46]; x-1) dalla giurisprudenza convenzionale, in quanto la recente sentenza della Corte EDU Danileţ c. Romania, per le ben tre opinioni dissenzienti, ma forse anche per quella concorrente, è emblematicamente espressiva della difficoltà (se non dell’impossibilità) di stabilire un condiviso discrimine tra opinioni legittime e censurabili; x-2) dagli atti sovranazionali, tra gli altri, le Linee guida predisposte dalla Rete globale sull’integrità dei giudici e l’Opinion n. 25 (2022) del CCJE, favorevoli all’utilizzo dei social media, ma consapevoli dell’esigenza di «preservare l’autorità morale, l’integrità, il decoro e la dignità della loro funzione» (art. 5 delle prime) e del fatto che «azioni relativamente piccole e casuali (come ad es. un “like”) […] possono avere potenzialmente implicazioni significative (art. 6 delle Linee guida), sicché «I giudici non dovrebbero impegnarsi nei social media in un modo che possa influenzare negativamente la percezione pubblica dell’integrità giudiziaria» (§ 73 dell’Opinion), che, quindi, indulgono in prospettazioni che, in definitiva, non sciolgono i nodi che dovrebbero essere dipanati; x-3) dalla dottrina, come si desume, da ultimo, dal complesso delle autorevoli opinioni contenute in un numero monografico di Questione giustizia[47], emblematiche della difficoltà di scrivere lo statuto dell’imparzialità del magistrato – anche, e soprattutto, con riguardo al profilo dell’immagine della stessa – in una moderna società democratica, specie al tempo di internet.
Siffatta difficoltà non solleva dall’obbligo di dare contenuto all’imperativo di «trovare un equilibrio tra il diritto fondamentale di un singolo giudice alla libertà di espressione e l'interesse legittimo di una società democratica a preservare la fiducia del pubblico nella magistratura»[48]. Non ho, ovviamente, soluzioni salvifiche e, per il tempo a disposizione, devo limitarmi ad osservare che la questione è complicata, tra l’altro, perché investe la concezione della figura e del ruolo del giudice, del rapporto tra il magistrato e la legge, tra il legiferare ed il giudicare. Nell’impossibilità di affrontare in questa sede detta questione, dovremmo almeno concordare con la considerazione che il giudice «non è una macchina sillogizzante»[49] e prendere atto che si è affermata la «discrezionalità (della interpretazione) giudiziaria» e che questa, unitamente ad altre note ragioni, ha determinato l’espansione del potere giudiziario. Ma se i giudici hanno assunto poteri che li portano a decisioni concernenti interessi vitali ben oltre quanto accadeva nel passato, anche recente, se «il giudice è anche, in una certa misura, un creatore di diritto», si impongono allora – come ha sottolineato l’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ) – «responsabilità e regole etiche coerenti con questa evoluzione» ed «il serio rispetto della deontologia professionale»[50]. Più si riduce il tecnicismo e si espande la discrezionalità giudiziaria, più si amplia il dovere dell’apparenza di imparzialità, che impone al magistrato di non essere coinvolto nelle vicende politiche, sulle quali maggiormente si focalizza l’attenzione, ma anche giudiziarie. Ed emerge altresì il "paradosso del giudice", in quanto deve essere "terzo" rispetto alle dinamiche culturali e sociali e, tuttavia, allo stesso tempo, in esse deve essere "immerso", affinché possa correttamente e compiutamente svolgere l’attività diretta a realizzare i valori costituzionali[51].
A questo antico problema se ne è aggiunto uno nuovo, determinato dal fatto che nel mondo della rete il verdetto, in un’ansia di velocità della risposta, assurta a valore assoluto e dominante ben oltre quanto imposto dalla ragionevole durata del processo, tende ad essere abnormemente attratto alla «smisurata giuria pubblica» dei social, che giudicano in tempo reale, attraverso anomali plebisciti, nel dilagare del processo mediatico. Questo fenomeno va contrastato, tenendo altresì conto che in questi distorti processi mediatici le esternazioni dei magistrati non irragionevolmente, per competenza e professionalità, sono accreditate di particolare peso. L’esito, devastante, è che le esternazioni, benché non provenienti dai magistrati che trattano i processi, hanno un alto potenziale lesivo della presunzione di innocenza, concorrendo a comporre il quadro probatorio della c.d. giustizia mediatica, alimentandone le distorsioni, fenomeno che va decisamente contrastato e che esige, quanto ai magistrati, di evitarle.
Le complesse questioni poste dalle esternazioni social extraistituzionali vanno dunque affrontate muovendo dalla premessa che nel tempo che stiamo vivendo, del «crepuscolo del dovere», occorre una rinnovata attenzione ai doveri; ce lo impone la Costituzione, come altrove ho cercato di dimostrare[52]. La funzione di giudicare, scriveva Piero Calamandrei, implica un «potere misterioso, che può essere straziante per il giudice più che per il giudicato» e, se «la vocazione del missionario è vocazione di sacrificio», «quella del giudice [aggiungo, e del pubblico ministero] esige uno spirito di sacrificio anche più inflessibile»[53]. Chi decide di fare parte della magistratura, opera una scelta non solo lavorativa, ma di vita, di una missione al servizio del Paese, che richiede consapevolezza di svolgere un servizio fondamentale per garantire la sicurezza, la legalità, i diritti fondamentali, la democrazia. Ed è alla luce di tale significato della funzione che vanno riempiti di contenuti doveri e limiti che vengono in gioco nel bilanciamento della libertà di manifestazione del pensiero e della tutela dell’immagine di imparzialità ed indipendenza, della presunzione di innocenza. Per meritare la fiducia, bene ha detto Giorgio Lattanzi, «il giudice, come anche il pubblico ministero, non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire imparziale, e per apparire tale occorre che sia privo di legami politici, economici, sociali, personali o anche solo ideologici che possano farlo ritenere condizionato o condizionabile»[54] e, aggiungerei, pregiudizialmente schierato.
La rinnovata attenzione ai doveri va assicurata attraverso la maturazione di una condivisa professionalità, che condensa il complesso delle regole patrimonio comune della funzione giudiziaria concernenti anche il ‘saper essere’ magistrato, da garantire anzitutto mediante la formazione, che non è soltanto affinamento delle conoscenze tecnico-giuridiche, ma è costruzione di una comunanza di idee e di valori, in vista della condivisione del più profondo significato di detti doveri, della funzione e del significato dell’essere magistrato quale scelta di vita. È questa la strada da percorrere per contrastare la pretesa di un diritto disciplinare quale principale, se non addirittura unico, strumento di garanzia della correttezza dei comportamenti, per evitare la riproposizione in tale ambito delle dinamiche degenerative che affliggono il diritto penale. Ed è una strada che impone di abbandonare la tentazione dell’autoreferenzialità, di non indulgere nel ritenere il ruolo attribuito alla funzione giudiziaria assistito da una sorta di primazia culturale all’interno e fuori del processo, di riscoprire il significato della funzione come dovere, che impone limiti, i quali ne costituiscono necessario corollario, strumentali a garantire autonomia e indipendenza. Una strada da percorrere interrogandosi sull’esigenza di dare nuova forza, significato ed effettività agli interventi del C.S.M. nel corso della vita professionale, sulla possibilità di innovare il sistema deontologico non disciplinare che oggi fa capo all’A.N.M.[55] Le singole sentenze, «per quanto rese “in nome del popolo italiano” non hanno bisogno del consenso popolare», ma «la funzione giudiziaria, considerata nella sua interezza, invece ne ha necessità assoluta»[56] e ciò esige anche un’affidante definizione dei confini della comunicazione extraistituzionale social, nella consapevolezza che, se non siamo in grado di dare risposte alle legittime istanze dell’opinione pubblica e dei cittadini, è alto il rischio di una caduta di fiducia che la magistratura non può permettersi.
Pubblichiamo il testo dell’intervento al convegno organizzato dal C.S.M. sul tema “La magistratura e i social network”, Roma 16/17 maggio 2024, in attesa del suo inserimento agli atti da parte del Consiglio Superiore.
[1] Nel Parere n. 25 (2022) sulla libertà di espressione dei giudici.
[2] Parere del CCJE n. 25 (2022), § 21.
[3] Parere del CCJE n. 25 (2022), § 21.
[4] Recante le Risposte della Suprema Corte di Cassazione al questionario, proveniente dalla Corte Suprema della Repubblica Ceca, su “Le attività secondarie e l’uso dei social media da parte dei magistrati“, ottobre 2021, in cui si legge: «L’attività compiuta dai singoli magistrati sui social network non è invece oggetto di regolamentazione positiva, neppure nella forma di regole non vincolanti aventi funzione di direttive o raccomandazioni. Peraltro, deve ritenersi che essa trovi la sua misura e i suoi limiti nelle norme che connotano la deontologia del magistrato».
[5] Limitatamente alla comunicazione extraistituzionale, tra i principali: Bangalore Principles of Judicial Conduct (2002), Aja, 2002, specie artt. 4.6-4.8; Linee guida non vincolanti sull’utilizzo dei social media da parte dei giudici, predisposte dalla Rete Globale sull’integrità dei giudici, Vienna, 2019; Guida sulla comunicazione con i media e il pubblico per i tribunali e le autorità giudiziarieDocumento preparato dal Gruppo di lavoro CEPEJ sulla qualità della giustizia, Strasburgo, 2018, dedicato alla comunicazione istituzionale; ma con riferimenti al tema in esame (v. art. 3.5); Parere del CCJE n. 25 (2022), cit. nella nota 1. Cfr. anche Parere n. 3 (2002) del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) all'attenzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sui principi e le regole che disciplinano la condotta professionale dei giudici (v., in particolare, la parte concernente l'imparzialità, paragrafo B); Statuto universale del giudice, adottato dal Consiglio Centrale dell’UIM a Taiwan il 17 novembre 1999, aggiornato a Santiago del Cile il 14 novembre 2017 (specie art. 6.2); Rapporto ENCJ sulla fiducia del pubblico e l’immagine della giustizia, rapporto 2019-2020 sulla comunicazione con gli altri rami del potere; Rapporto ENCJ sulla fiducia del pubblico e l’immagine della giustizia, rapporto 2018-2019 sull’uso individuale e istituzionale dei social media all’interno della magistratura. Per ulteriori indicazioni, anche in ordine alla disciplina negli Stati al di fuori dell’Europa, F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Questione giustizia,1/2, 2024, 313; G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati sui rapporti tra giustizia, comunicazione e informazione, AA.VV., Comunicazione e giustizia, SSM, Roma, 2024, 3.
[6] Termine dal significato più forte di «riservatezza», che descrive «un atteggiamento richiesto al magistrato all’evidente fine di evitare che, facendo percepire i propri sentimenti e le proprie opinioni, possa suscitare dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità, danneggiando la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione», S.U. n. 6827 del 2014.
[7] S.U., n. 6827 del 2014.
[8] Post, immagini ecc., possono concorrere a dimostrare l’esistenza della «amicizia» o della «grave inimicizia» con uno dei difensori e/o delle parti, ovvero la manifestazione di un parere sull’oggetto del procedimento, così da integrare una causa di astensione. Ma questione diversa è, come si precisa nel testo, la rilevanza ex se dei segni. Per la rilevanza sul piano probatorio, Sezione disciplinare, sentenza n. 52 del 2018, concernente la pubblicazione nel profilo Facebook della magistrata di fotografie che la ritraevano in atteggiamenti confidenziali con un avvocato.
[9] Si rinvia sul punto a F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati, cit.; G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati, cit.
[10] Linee guida in materia di uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi, Delibera del 25 marzo 2021, n. 40, su cui G. Grasso, Libertà di espressione e regole di condotta: l’uso responsabile dei social media da parte della magistratura, Foro it., 2021, III, c. 313.
[11] In ordine alla valenza da attribuire al «richiamo sul proprio profilo Facebook, [di] una pubblica petizione» su una data piattaforma, Sezione disciplinare, sentenza n. 86 del 2021. Sulla sufficienza dell’utilizzo di un nickname in un blog, per escludere la responsabilità, Sezione disciplinare, sentenza n. 67 del 2018, che comunque ha ritenuto le dichiarazioni prive di carattere diffamatorio.
[12] Per la cui integrazione non si richiede uno sviamento di potere o un vantaggio per il magistrato o per il terzo. Per la giurisprudenza disciplinare in tema di astensione, da ultimo, R. Sanlorenzo. Imparzialità, libertà di espressione del magistrato e illecito disciplinare, Questione giustizia,1/2, 2024, 161.
[13] Ex plurimis, S.U. n. 22302 del 2021. Tuttavia, va segnalato che la Sezione disciplinare, sentenza n. 81 del 2018, ha ritenuto che la mail inoltrata nella mailing list riservata a magistrati aderenti all'A.N.M., contenente un’aspra critica di un provvedimento giurisdizionale costituisce condotta non tenuta nell’esercizio delle funzioni, ma ha poi assolto il magistrato sulla scorta della concorrente motivazione che nell’esternazione «non si rinvengono riferimenti individualizzanti che consentano di identificare l'autore del provvedimento oggetto di critica», non essendo stati indicati «in modo specifico l'organo giudicante dell'atto stesso, né la sua data di emissione, né il numero di registro, né tanto meno le parti ed i rispettivi difensori».
[14] Così, peraltro criticamente, G. Verde, La vicenda Palamara e le ripercussioni sulla magistratura: una riflessione “eretica”, in, Sul potere giudiziale e sull’inganno dei concetti, Torino, 2023, 207.
[15] Sezione disciplinare, sentenza n. 79 del 2023, avente ad oggetto la pubblicazione nel profilo Facebook, in bacheca libera e visibile a tutti gli utenti del portale, di numerosi post contenenti espressioni ed apprezzamenti dal contenuto gravemente sconveniente, offensivo, minaccioso ed anche diffamatorio di colleghi e funzionari dello stesso ufficio in cui svolgeva le funzioni il magistrato incolpato; analogamente, sentenza n. 153 del 2021.
[16] Sezione disciplinare, sentenza n. 127 del 2017, relativa all’inserimento nel profilo Facebook dell’incolpato di espressioni di apprezzamento sull’avvenenza di un attore, parte del procedimento assegnato alla magistrata, assolta, perché il fatto è stato giudicato di scarsa rilevanza.
[17] Sezione disciplinare, sentenza n. 79 del 2023, avente ad oggetto la pubblicazione nel profilo Facebook, in bacheca libera e visibile a tutti gli utenti del portale, di numerosi post contenenti espressioni ed apprezzamenti dal contenuto gravemente sconveniente, offensivo, minaccioso ed anche diffamatorio di colleghi e funzionari dello stesso ufficio in cui svolgeva le funzioni il magistrato incolpato; analogamente, sentenza n. 153 del 2021.
[18] Sentenza n. 81 del 2018, avente ad oggetto l’aspra critica di un provvedimento giudiziario in una mail inoltrata nella mailing listdell'A.N.M., ritenuta tuttavia priva di riferimenti individualizzanti. Anche in relazione alla tipologia di rapporti indicati nel testo si pone, ovviamente, la generale questione dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero, come accaduto nel caso deciso dalla Sezione disciplinare con la sentenza n. 86 del 2021, che ha assolto il magistrato dall’illecito dell’art. 2, lettera d), ritenendo che l’avere postato nel proprio profilo Facebook, a carattere pubblico, una petizione divulgata da una piattaforma, diretta ad ottenere che la Sezione disciplinare rivedesse un’ordinanza cautelare, aspramente criticata, aveva «assunto i connotati della "inopportunità", ovvero della riprovevolezza professionale, sotto il profilo della carenza di equilibrio, ma non appare aver trasmodato oltre il limite della liceità disciplinare».
[19] Lettera e) «l'ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato»; lettera u), «la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui»; lettera v), «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione di quanto disposto dall'articolo 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 10».
[20] In tal senso viene in rilievo un caso deciso dalla Sezione disciplinare, sentenza n. 99 del 2015: promossa azione disciplinare anche in relazione all’illecito dell’art. 2, lettera e), in quanto l’incolpato con le dichiarazioni contenute in una mail inoltrata nella mailing listdell’A.N.M., concernenti un procedimento pendente, avrebbe compiuto «anche una grave interferenza nei riguardi dei componenti il collegio giudicante e dello stesso PM di appello, esposti tutti ad una sorta di censura preventiva», la Sezione riqualificava l’illecito in quello dell’art. 4, lettera d), del codice, sicché non ha risolto la questione, in vero assai dubbia, dell’idoneità delle esternazioni in esame ad integrare l’illecito della lettera e). Vicenda analoga è quella decisa dalla sentenza n. 23 del 2014 (pure concernente dichiarazioni contenute in una mail inoltrata nella mailing list dell’A.N.M.), che ha riqualificato gli illeciti contestati dell’art. 2, comma 1, lettere d), e) e u), ritenendo «unica norma applicabile quella prevista dall'art. 4 lettera d)».
[21] Su detta questione, anche per riferimenti, S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Milano, 2013, 303.; D. Cavallini, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, 239.
[22] L’espresso richiamo nell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 «dei doveri disciplinati dall’articolo 1» costituisce, infatti, già da solo indice dell’irriferibilità di detti doveri alle fattispecie dell’art. 3, risultando altrimenti del tutto privo di senso e giustificazione quello operato dalla richiamata lettera.
[23] S.U. n. 1719 del 2020.
[24] Tra le altre, Sezione disciplinare, sentenza n. 98 del 2019, avente ad oggetto apprezzamenti in post pubblicati nei profili Facebook, Instagram e Twitter, giudicati «estranei ad una critica lecita essendosi tradotti in un autentico insulto»; sentenza n. 95 del 2016, concernente un post pubblicato dal magistrato nel proprio profilo Facebook, interpretato nel senso che le frasi contestate, nel contesto complessivo del post, non erano affatto offensive. Relativamente alle mailing list: ordinanza n. 50 del 2020, avente ad oggetto una mail inoltrata in una mailing list di magistrati; sentenza n. 99 del 2015, concernente una mail inoltrata nella mailing list dell’A.N.M., di cui è stata ritenuta la natura diffamatoria, ma il fatto giudicato di scarsa gravità ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006.
[25] Ritenuta integrata dalla Sezione disciplinare con la sentenza n. 107 del 2016, in riferimento al caso di post nel profilo Facebook che aveva una «pluralità dei destinatari, circa tremila, nonostante si trattasse di un'area riservata del proprio profilo Facebook». La sentenza aveva peraltro fatto applicazione dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, ma è stata in tale capo cassata con rinvio dalle Sezioni unite civili ed all’esito del relativo giudizio la Sezione disciplinare ha irrogato la sanzione dell’ammonimento, con la sentenza n. 20 del 2018. Le dichiarazioni contenute in una mail inoltrata in una mailing list dell’A.N.M. sono state ritenute idonee ad integrare una comunicazione con più persone: sentenza n. 99 del 2015 (sintetizzata nella nota che precede); ordinanza n. 120 del 2011, («non v'è dubbio che l'immissione in una mailing list gestita da un'associazione di messaggi contenenti frasi offensive o denigratorie dell'altrui reputazione in astratto è senz'altro riconducibile al delitto di diffamazione commesso attraverso il peculiare "mezzo di pubblicità" della rete Internet»); ordinanza n. 167 del 2010.
[26] Tanto se disposta per estinzione del reato, per improcedibilità, ovvero per infondatezza della notizia di reato, oppure per difetto dell’elemento soggettivo, S.U. n. 16277 del 2010.
[27] Come di recente sottolineato dalla Corte costituzionale, sentenza n. 41 del 2024.
[28] S.U. n. 10796 del 2015, con riguardo al caso dei messaggi telematici nel dominio informatico dell'A.N.M.
[29] Tra le molte, S.U. n. 18987 del 2017; n. 6327 del 2012; n. 25091 del 2010. Per detta ragione, è irrilevante la mancata percezione dell'offesa da parte della vittima del reato, S.U. n. 18987 del 2017.
[30] S.U. n. 34992 del 2022.
[31] S.U. n. 28263 del 2023 che sembra farle assurgere ad elemento necessario ma anche sufficiente ai fini della lesione del bene giuridico protetto dalla disposizione.
[32] S.U. n. 34992 del 2022.
[33] Art. 58-bis del d.lgs. n. 29 del 1993, trasfuso nell’art. 54 d.lgs. n. 165 del 2001, riscritto, senza sostanziali modifiche, dalla legge n. 190 del 2012.
[34] In particolare, cfr. l’art. 6.
[35] Tra l’altro, nella Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati, con le modifiche apportate dall’Assemblea plenaria”, e succ. mod. e nella Circolare n. P 14858 del 28 luglio 2015, recante il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria, e succ. mod.
[36] La Magna carta dei giudici stabilisce, infatti, che «L’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari» (art. 18); la Opinion no. 3 (2002) del CCJE esplicita che, «anche se c'è una sovrapposizione e un'interazione, i principi di condotta dovrebbero rimanere indipendenti dalle regole disciplinari applicabili ai giudici» (art. 48); secondo l’European judicial systems CEPEJ Evaluation Report 2020, «per quanto riguarda i procedimenti disciplinari, le violazioni dell’etica professionale non giocano un ruolo importante»
[37] Opinion n. 3 (2002) del CCJE: «alla fine, tutti ricorrono a formulazioni generali catch-all» e non è «necessario […] o anche possibile cercare di specificare in termini precisi o dettagliati a livello europeo la natura di tutti i comportamenti scorretti».
[38] Opinion n. 3 (2002) del CCJE, § 63.
[39] Sentenza n. 100 del 1981.
[40] È sufficiente ricordare la presa di posizione in favore della tipizzazione contenuta nel Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 luglio 1990, nel Parere reso dal CSM nel settembre del 1984 su un disegno di legge sulla responsabilità del magistrato presentato nel corso della IX Legislatura, nella dottrina, ex plurimis, G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano, 1977, 857.
[41] Relazione della Commissione Presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura, presieduta da L. Paladin, 10 gennaio 1991, 138.
[42] Per riferimenti sulla prima, C. Bologna, La libertà di espressione dei «funzionari», Bologna, 2020, 147 ss; sulla seconda, di recente, F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati, cit.; ID, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Questione giustizia, 9 giugno 2022; R. Sabato, Una nuova tutela “genetica” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo?, Questione giustizia, n.1/2, 2024, 222.
[43] Agli atti citati nella nota 5 adde, European Commission for Democracy through Law, Opinion n. 806/2015 On the Freedom of Expression of Judges, 23 giugno 2015 (Commissione di Venezia), in cui, pur ribadendo che la garanzia della libertà di espressione si estende anche ai giudici, è sottolineato che «la specificità dei doveri e delle responsabilità» e «il bisogno di assicurare l’imparzialità e l’indipendenza del giudiziario, vengono considerati obiettivi legittimi per imporre restrizioni specifiche alla (loro) libertà di espressione, associazione e riunione, incluse le attività politiche». Benché nessuno Stato aderente al Consiglio d’Europa preveda norme costituzionali che limitino la libertà di manifestazione del pensiero dei giudici, la legislazione e la giurisprudenza individuano spesso limiti alla libertà di espressione degli appartenenti all’ordine giudiziario, limiti la cui ampiezza è connessa anche al sistema di reclutamento dei magistrati e alle caratteristiche generali dell’ordine giudiziario medesimo.
[44] Nel sito web ufficiale del C.S.M., nella sezione dedicata all’autonomia della magistratura, che ospita anche le principali, pertinenti sentenze della Corte costituzionale e delibere consiliari, si legge: «I magistrati, come tutti i cittadini, godono della libertà riconosciuta e garantita dall’art. 21 Cost., la libertà, cioè, di manifestare il proprio pensiero. Tale libertà, però, attesa la peculiare funzione svolta dalla magistratura, si declina diversamente rispetto al cittadino comune, venendo in rilievo altri valori costituzionali, che consentono un ideale bilanciamento e, quindi, una compressione dell’espansione del diritto di libera manifestazione del pensiero. In particolare, la necessaria imparzialità e indipendenza che devono caratterizzare l’esercizio delle funzioni giudiziarie impongono dunque che il diritto in discorso non sia esercitato in modo anomalo o se ne abusi, abuso che si concreta ove vengano lese proprio imparzialità e indipendenza del magistrato».
[45] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1954, 239.
[46] Il riferimento è alle sentenze n. 197 del 2018 e n. 51 del 2024. La prima ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lettera e). La seconda ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale del richiamato art. 12, comma 5, limitatamente alla parte in cui stabilisce l’automatismo della rimozione del magistrato che «incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
[47] Magistrati: essere ed apparire imparziali, Questione giustizia, 1/2, 2024.
[48] CCJE, Opinion n. 25 (2022), § 31.
[49] Sono parole di P. Calamandrei, La vocazione del giudice, La Stampa, 8 maggio 1956, e in Opere giuridiche di Piero Calamandrei, vol. X, Roma 2019, 422.
[50] ENCJ working group. Judicial Ethics Report 2009-2010-Groupe de travail RECJ. Déontologie judiciaire Rapport 2009-2010.
[51] S. Mannuzzu, il fantasma della giustizia, Bologna, 1998, 43.
[52] Per esigenze di sintesi, mi permetto di rinviare a L. Salvato, Il ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale quale garante e promotore dei diritti fondamentali, Atti del Convegno su La giustizia al servizio del Paese, Palermo 12/13 ottobre 2023, Quaderni della Rivista della Corte dei conti, 2/2023, 105.
[53] P. Calamandrei, La vocazione del giudice, cit., 423.
[54] Intervento all’Incontro del Presidente della Repubblica con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con d.m. 2 marzo 2021, Roma, 30 marzo 2022.
[55] Muovendo dalla considerazione che, se le regole deontologiche presidiate dalla responsabilità disciplinare non sono preordinate a garantire l’ordine giudiziario ed i valori propri di quest’ultimo, ma sono strumentali alla tutela dell’ordinamento giuridico generale (cfr. Corte cost., sentenze n. 289 del 1992, n. 119 del 1995), tale connotazione dovrebbe caratterizzare anche le regole la cui violazione non dà luogo a detta responsabilità, con tutte le conseguenze che da ciò derivano.
[56] S. Mannuzzu, il fantasma della giustizia, cit., 28.
Immagine: Nam June Paik, Electronic Superhighway: Continental U.S., Alaska, Hawaii, 1995, fifty-one channel video installation (including one closed-circuit television feed), custom electronics, neon lighting, steel and wood; color, sound, approx. 15x 40 x 4 ft., Smithsonian American Art Museum, Gift of the artist, 2002.23, © Nam June Paik Estate.