ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta.
di Andreina Scognamiglio
Sommario: 1. Il caso di specie e i quesiti sollevati dalla ordinanza di rimessione. – 2. Il metodo seguito e le conclusioni raggiunte dalla IV Sezione. -3. Esame critico della tesi favorevole a rinvenire nelle disposizioni del codice la soluzione del problema del rapporto tra commissario ad acta ed amministrazione commissariata. – 4. La soluzione accolta dalla giurisprudenza con riferimento al caso del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio di ottemperanza ed applicabilità di questa giurisprudenza al caso del commissario nominato ex art. 117 c.p.a.. -5. Accordo sul metodo seguito dalla IV Sezione e perplessità sulle conclusioni raggiunte. – 6. Annullabilità o nullità del provvedimento emesso dalla amministrazione oltre i termini di decadenza. – 7. In sintesi.
1. Il caso di specie e i quesiti sollevati dalla ordinanza di rimessione
Nel 2012 una società immobiliare presenta al Comune di Termoli un progetto di recupero di interventi edilizi abusivi ai sensi della l. reg. Molise 14 maggio 1985 n. 17 per una area della quale la stessa società si era resa promissaria acquirente.
A fronte dell’inerzia del Comune, nel 2014 la società propone ricorso ex art. 117 c.p.a.. Il Tar Molise, accertato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, ordina al Comune di determinarsi sull’istanza e nomina un commissario ad acta, che si sarebbe insediato, nel caso in cui l’inerzia si fosse protratta oltre il termine assegnato dal giudice.
Scaduto il termine, il Commissario ad acta inizia la sua attività convocando una conferenza di servizi per l’esame della domanda.
A distanza di qualche mese, il Consiglio comunale dell’ente delibera di non potersi procedere all’intervento di recupero dell’insediamento edilizio abusivo per assenza dei presupposti e, con successivo atto, respinge l’istanza della società.
Su questa vicenda sostanziale si innestano tre sentenze del Tar Molise. Con la prima (n. 104/2017), il giudice di primo grado, adito con ricorso ex art. 29 c.p.a., dichiara nulli gli atti adottati dal Consiglio comunale oltre i termini assegnati alla amministrazione per provvedere e addirittura dopo l’insediamento del Commissario. La seconda (n. 469/2017) rigetta il reclamo proposto dal Comune avverso la determinazione con la quale il Commissario aveva individuato l’area della quale la società era divenuta promissaria acquirente tra quelle suscettibili di interventi edilizi di recupero, semmai annullabile dall’amministrazione comunale in autotutela. La terza (n. 287/2019) rigetta il ricorso contro la delibera comunale di annullamento della determina del Commissario ad acta trattandosi di atto amministrativo posto in essere da organo della p.a. che agisce quale sostituto dell’amministrazione competente e dunque rimovibile in autotutela.
Riuniti gli appelli rispettivamente proposti dal Comune e dalla società immobiliare avverso le sentenze n. 104/2017 e 287/2019, la Sezione IV del Consiglio di stato, con ordinanza n. 6925/2020, rimette all’Adunanza plenaria il quesito se, nel giudizio proposto avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione su una istanza del privato, la nomina del commissario ad acta, disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., o il suo insediamento, comportino per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il silenzio la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza ed il quesito, rispetto al primo conseguenziale, del regime giuridico dell’atto emanato tardivamente dall’amministrazione.
L’ordinanza richiama, con dovizia di precedenti, le tre letture proposte dalla giurisprudenza teorica e pratica: a) la nomina del commissario ad acta segnerebbe il limite oltre il quale verrebbe meno il potere-dovere di provvedere dell’amministrazione; b) il c.d. esautoramento dell’organo inottemperante (o inadempiente, ove si verta nell’ambito di un ricorso avverso il silenzio) si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale o dopo il suo insediamento; c) infine la competenza commissariale sarebbe in ogni caso concorrente con quella dell’amministrazione la quale resterebbe titolare del potere di provvedere anche dopo la scadenza del termine fissato dal giudice e dopo la nomina/insediamento del commissario.
Quanto al regime giuridico dell’atto tardivamente adottato dall’amministrazione istituzionalmente competente, la Sezione afferma di non poter in ogni caso condividere la tesi della nullità del provvedimento posto in essere dall’amministrazione dopo la nomina o l’insediamento del commissario. A tale conclusione osterebbe la lettera dell’art. 21septies della l. 241 del 1990 che è chiara nel comminare la nullità nel solo caso del “difetto assoluto di attribuzione”. Nel caso dell’atto tardivo, il potere-dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento sussiste invece senz’altro ed è anzi ribadito dall’ordine del giudice. Dunque pure a voler ammettere la natura perentoria del termine impartito da giudice e l’effettiva sostituzione dell’organo inadempiente da parte del commissario, il provvedimento adottato oltre il termine non sarebbe nullo ma semmai annullabile nella ordinaria sede di giurisdizione di legittimità, a seguito del relativo tempestivo ricorso ex art. 29 c.p.a..
La tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario solleva, invece, l’interrogativo circa il regime degli atti del commissario ad acta successivi alle determinazioni infine assunte dall’amministrazione e con queste non coerenti. Ad avviso della Sezione, il problema non è definitivamente risolto dall’art. 117 comma 4, il quale, rimettendo al giudice del silenzio “tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario ad acta”, lascia supporre che, al di fuori del caso in cui si contesti “l’esatto adempimento”, gli atti del commissario incaricato di portare a termine il procedimento sono soggetti alla giurisdizione generale di legittimità oppure al potere di autotutela dell’amministrazione istituzionalmente competente.
2. Il metodo seguito e le conclusioni raggiunte dalla IV Sezione
Esposti i termini della questione, la quarta Sezione prende motivatamente posizione a favore della tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario.
La tesi troverebbe conferma in una serie di principi, anche di rilievo costituzionale. Convergerebbero in questa direzione il principio di legalità, in connessione all’art. 97 Cost., per il quale l’ambito delle competenze dell’autorità amministrativa può essere inciso solo da una disposizione di legge; il principio di certezza dei rapporti giuridici, per il quale il carattere perentorio del termine assegnato all’amministrazione per provvedere deve risultare quanto meno da una espressa statuizione del giudice e dunque dal dispositivo della sentenza; il principio di responsabilità dei titolari degli uffici pubblici il quale sarebbe eluso se la perdurante inerzia del funzionario pubblico, comportando definitiva perdita del potere, fosse addirittura “premiata” con una sostanziale deresponsabilizzazione del funzionario. Infine – secondo la Sezione – congiura in questo senso anche un principio, se non di riserva, di preferenza per l’amministrazione il quale si dispiegherebbe al massimo grado quando l’attuazione della statuizione giudiziale di condanna ad agire investe l’attività di un organo collegiale di un ente esponenziale (quale appunto un consiglio comunale) essendo le valutazioni di spettanza di questo difficilmente sostituibili dal commissario ad acta.
L’ordinanza di rimessione dà atto di non essere quella della competenza concorrente la posizione espressa dalla Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019 che si è espressa a favore della posizione per la quale “l’insediamento del commissario ad acta… nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell'amministrazione inadempiente surrogata, priva quest'ultima della potestà di provvedere integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta ”[1].
Tuttavia per la Sezione il precedente non è decisivo poiché la Plenaria, chiamata in quell’occasione a decidere sul valore delle astreinte e comunque in relazione al giudizio di ottemperanza, non ha affrontato espressamente il problema del rapporto tra competenza commissariale e della autorità amministrativa istituzionalmente competente lasciando così non risolto il contrasto ermeneutico tra le varie tesi proposte che sarebbe perciò ancora aperto.
3. Esame critico della tesi favorevole a rinvenire nelle disposizioni del codice la soluzione del problema del rapporto tra commissario ad acta ed amministrazione commissariata
L’iter motivazionale della pronuncia lascia in ombra alcuni dati di diritto positivo che meritano una lettura più attenta se non altro perché su di essi fa leva la dottrina che forse più approfonditamente si è occupata del tema per argomentare proprio le conclusioni predilette dalla IV Sezione.
Il primo dato è offerto dall’art. 117 c.p.a. che, nel dettare la disciplina del rito speciale avverso il silenzio, non ripropone una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 21 bis della l. 1034 del 1971. La norma da ultimo citata prevedeva che “all’atto dell’insediamento, il commissario, preliminarmente all’adozione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo, l’amministrazione abbia provveduto” ed era stata univocamente letta nel senso che l’insediamento del commissario segnasse il momento della decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso[2]. Nella sua soppressione nel testo vigente dell’art. 117 c.p.a. viene dunque da alcuni ravvisato un chiaro indizio della volontà del legislatore di inaugurare un percorso diverso, conservando sine die in capo alla amministrazione il potere di decidere[3].
Per l’ordinanza in commento, quello della diversa formulazione della normativa sopravvenuta è elemento troppo labile per poter fondare su di esso la soluzione del quesito e, piuttosto, è tale da “rendere attuale e di preminente rilievo il dubbio esposto” poiché “il legislatore neppure ha introdotto la regola opposta”.
L’osservazione è condivisibile e non sembra che la mancata riproposizione di una disposizione, che invero era espressa in termini un po’ ingenui, equivalga ad un indice univoco di una consapevole e diversa scelta del legislatore.
Una consapevole scelta del legislatore emergerebbe invece, nella lettura da alcuni proposta, dal comma 5, dell’art. 117 c.p.a. per il quale “Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito”.
La possibilità del provvedimento sopravvenuto espresso e la sua efficacia sarebbero dunque ammesse dalla norma che ne prevede l’impugnabilità con motivi aggiunti e che offrirebbe così una valida sponda alla tesi della concorrenza tra potere dell’amministrazione e del commissario[4].
Il dato non è affatto preso in considerazione dall’ordinanza che dunque mostra di ritenerlo poco significativo.
La posizione è senz’altro condivisibile.
L’art. 117, comma 5, non fornisce una risposta esplicita o, quanto meno, non equivoca al quesito sollevato dalla IV Sezione. A ben vedere il contenuto della norma consiste nel mero rilievo dell’impugnabilità del provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio con motivi aggiunti[5], essendo la relativa facoltà riconosciuta al ricorrente, e non si può ad essa attribuire una portata più ampia di quella meramente processuale sua propria. Inoltre la facoltà di impugnare i provvedimenti sopravvenuti con motivi aggiunti, anziché con ricorso autonomo, è accordata al ricorrente “nel corso del giudizio” e questo, ai sensi dell’art. 117, comma 2, si conclude con la sentenza che “in caso di totale o parziale accoglimento (….) ordina all’amministrazione di provvedere”. Dunque la disposizione potrebbe al più essere letta nel senso di riconoscere la permanenza del potere di provvedere dell’amministrazione inadempiente fino al momento finale del giudizio stesso e cioè fino al momento dell’adozione della sentenza di condanna ad adempiere.
In definitiva, nemmeno l’argomento fondato sula lettera dell’art. 117 comma 5 è risolutivo e fondatamente la IV Sezione esclude che nelle disposizioni del c.p.a. sia rintracciabile una risposta univoca al quesito proposto.
4. La soluzione accolta dalla giurisprudenza con riferimento al caso del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio di ottemperanza ed applicabilità di questa giurisprudenza al caso del commissario nominato ex art. 117 c.p.a.
Una seconda verifica che si impone è se non sia possibile attingere alla più numerosa giurisprudenza che ha affrontato l’analogo problema con riferimento al giudizio di ottemperanza per estendere al commissario ad acta nominato ex art. 117 c.p.a. le soluzioni già raggiunte n quella sede.
La giurisprudenza degli ultimissimi anni sembra in effetti aver in parte risolto le divergenze interpretative puntualmente illustrate dalla ordinanza di rimessione ed avere maturato un orientamento abbastanza condiviso nel senso che l'insediamento del commissario ad acta ovvero la redazione del verbale d'immissione del commissario nelle funzioni amministrative e la sua presa di contatto con l'amministrazione segnano il definitivo trasferimento dei poteri in favore del primo, rimanendo precluso da quel momento all'amministrazione ogni margine di ulteriore intervento[6]. L’indirizzo è confermato dalla Plenaria n. 7 del 2019 che, invero, è abbastanza esplicita sul punto.
L’elaborazione giurisprudenziale in materia di ottemperanza potrebbe quindi fornire risposta al quesito che ugualmente si pone quando il commissario ad acta assume i suoi poteri nell’ambito di un ricorso avverso il silenzio configurandosi così quale parametro per quella soluzione unitaria del problema del rapporto tra potere commissariale e potere dell’amministrazione commissariata che pure l’ordinanza di rimessione auspica.
Contro l’utilizzo estensivo della giurisprudenza in tema di ottemperanza, si potrebbe invero osservare che l’art. 117 c.p.a. nel dettare la disciplina, alquanto sommaria, della c.d. seconda fase del rito speciale avverso il silenzio (che consiste appunto nella nomina del commissario ad acta) non fa rinvio all’art. 112 e seguenti del c.p.a.. Il dato potrebbe essere considerato ancor più significativo se si tiene conto che, diversamente, per l’art. 59 c.p.a., quando al giudice sono richieste misure attuative dei provvedimenti cautelari non spontaneamente eseguiti, “il tribunale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza di cui al Titolo I del Libro IV e provvede sulle spese”. Nel mancato rinvio alle norme che disciplinano il ricorso per l’ottemperanza potrebbe leggersi la consapevole volontà del legislatore di marcare la distanza tra i due giudizi [7] ognuno dei quali resterebbe quindi regolato dalla sua disciplina e relativa elaborazione giurisprudenziale.
Si tratta di un’opzione interpretativa sulla quale l’ordinanza in commento non si pronuncia e che comunque non è a mio avviso praticabile.
In primo luogo, la distanza tra il giudizio di ottemperanza e quello per la esecuzione della condanna a provvedere non sono poi così netta se si tiene conto che, nella prassi, non è infrequente l’utilizzo del ricorso ex art. 112 c.p.a. per far fronte alla perdurante inerzia dell’amministrazione, incurante della condanna a provvedere inflitta dal giudice ex art. 34, comma 1, lett. b)[8].
Ma il punto decisivo è un altro. Anche nel caso del giudizio di ottemperanza la soluzione più accreditata, che è poi “cristallizzata” dalla sentenza 7/2019, viene argomentata dalla giurisprudenza non tanto dalla disciplina positiva, che sul punto è carente anche nel giudizio di ottemperanza, quanto dai principi. E non c’è dubbio che i principi cui far riferimento sono i medesimi che si tratti di giudizio di ottemperanza, della fase di esecuzione di una sentenza resa all’esito del rito speciale ex art. 117 c.p.a. o di una ordinanza cautelare ex art. 59 c.p.a..
5. Accordo sul metodo seguito dalla IV Sezione e perplessità sulle conclusioni raggiunte
In definitiva il metodo seguito dalla ordinanza di rimessione che, come sopra sottolineato, attinge la soluzione dai principi è pienamente condivisibile.
Il dubbio è semmai se i principi richiamati dall’ordinanza conducano univocamente alle conclusioni che la Sezione mostra di prediligere.
In effetti sembra di poter osservare che i principi di legalità e di certezza dei rapporti giuridici non valgono qui tanto per la riserva alla legge che essi sanciscono riguardo alla individuazione delle competenze istituzionali delle singole amministrazioni. Questo aspetto è, a mio avviso, recessivo rispetto all’esigenza, che i medesimi principi sicuramente pongono, che l’organo titolare del potere sia uno ed uno soltanto in modo che il privato abbia un solo e certo interlocutore.
Per questa ragione proprio i principi richiamati implicano che, a partire da un certo momento (convenzionalmente individuabile nella redazione del verbale di immissione del commissario), il commissario ad acta non si aggiunge né si pone in concorrenza o, ancor meno, in subordine rispetto agli organi ordinari dell'amministrazione inadempiente, ma assume i poteri di questa e ne diviene titolare esclusivo, come organo straordinario, in via eccezionale e per tutto il tempo in cui il mandato gli è conferito.
Il principio di legalità può essere, quindi, a buona ragione richiamato proprio a sostegno della tesi opposta della consumazione del potere della p.a., competente a decidere secondo le regole ordinarie, in conseguenza e per effetto della nomina o dell’insediamento del commissario.
Il principio di responsabilità ha poi portata ambivalente.
Da un lato non sembra del tutto implausibile la tesi di chi imputa proprio all’indulgenza e alla cautela che spesso sono prevalse nella soluzione del problema del rapporto tra scadenza del termine e conservazione/esercitabilità del potere[9] di avere favorito la scelta dell’inazione da parte dell’organo pubblico[10]. Si tratta di un angolo di visuale opposto al quale non può negarsi un fondamento di verità.
Dall’altro il nostro ordinamento prevede severe sanzioni a carico del funzionario che non agisce. La mancata o tardiva conclusione del procedimento entro i termini prescritti comporta conseguenze gravi proprio sul piano della responsabilità. Il ritardo è elemento di valutazione della performance individuale nonché fonte di responsabilità disciplinare, amministrativo-contabile e civile del funzionario inadempiente. Astrattamente, e lasciando da parte lo scarso tasso di effettività delle misure disciplinari e sanzionatorie previste in caso di ritardo/inerzia, il funzionario che non agisce rischia altrettanto e forse di più rispetto a quello che, quanto meno, assume una decisione.
Il problema posto in luce dall’ordinanza di rimessione è tuttavia serissimo. L’attivazione di una competenza pienamente sostitutiva (almeno a partire da un certo momento) potrebbe essere vista di buon occhio dal funzionario che così si troverebbe esonerato dal peso e dalla responsabilità di decidere.
Qui si innesta l’altro argomento prospettato dalla IV Sezione a sostegno della tesi della competenza concorrente e che è quello della difficile sostituibilità della competenza e della discrezionalità di un organo collegiale di un ente esponenziale da parte di un organo tecnico quale il commissario ad acta.
Le possibili soluzioni si saldano.
L’esigenza di limitare il pericolo di atteggiamenti di comodo (o difensivi) da parte dell’amministrazione così come quella di salvaguardarne la sfera di discrezionalità potrebbero essere soddisfatte entrambe dall’impiego di strumenti di coazione indiretti in luogo di quello di coazione diretta consistente nella nomina del commissario ad acta. In altre parole i rilievi correttamente formulati dall’ordinanza di rimessione potrebbero trovare una composizione soddisfacente ove le parti fossero incoraggiate a chiedere[11] ed il giudice ad utilizzare con maggiore larghezza il rimedio dell’astreinte per indurre l’amministrazione recalcitrante ad agire. Della penalità di mora, che è espressamente prevista come misura di coercizione indiretta a disposizione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 114, lett. e) c.p.a., la giurisprudenza[12] ha definitivamente riconosciuto l’applicabilità generale e dunque l’utilizzabilità anche in sede di giudizio di cognizione[13]. Sicché nulla osta – sembra - al suo impiego anche nel rito avverso il silenzio e ad opera della sentenza che ordina all’amministrazione rimasta inerte di provvedere entro un termine.
6. Annullabilità o nullità del provvedimento emesso dalla amministrazione oltre i termini di decadenza
La soluzione che sembra di poter argomentare dai principi circa il rapporto tra potere commissariale e quello dell’amministrazione istituzionalmente competente apre il problema del regime dell’atto adottato dall’amministrazione oltre il termine segnato, appunto, dall’insediamento del commissario ad acta.
L’ordinanza di rimessione dubita fortemente che l’atto tardivo possa considerarsi nullo per la ragione che – essendo comunque l’amministrazione competente in astratto – non ricorre l’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione cui l’art. 21 septies della l. 241 del 1990 collega la nullità dell’atto. La violazione del termine impartito dal giudice, pure a volerne ammettere il carattere perentorio, comporterebbe pertanto l’annullabilità e non già la nullità del provvedimento.
A mio avviso, la categoria dell’annullabilità non è qui proficuamente utilizzabile.
A voler ricorrere ad essa si dovrebbe peraltro pure ammettere che l’inosservanza del termine concreti al più un vizio formale il cui effetto invalidante sarebbe eventuale e comunque sottoposto alla prova di resistenza di cui all’art. 21 octies. Gli effetti pratici della predicata annullabilità del provvedimento tardivo sarebbero, dunque, limitatissimi.
In definitiva delle due una: o l’amministrazione non decade mai dal potere di provvedere e il termine per l’esercizio del potere conserva la natura ordinatoria o meramente sollecitatoria che aveva prima della instaurazione del ricorso e della definizione del medesimo con sentenza di condanna[14] e allora l’inosservanza non comporta alcuna conseguenza in termini di validità/invalidità del provvedimento[15]; oppure il termine, almeno a partire dal momento che si è identificato con l’insediamento del commissario ad acta, assume carattere perentorio e di decadenza e allora è gioco forza concludere che la sua inosservanza comporta la sanzione più grave della nullità/inefficacia.
E’ chiaro, peraltro, che – come correttamente rileva l’ordinanza in commento – la “figura” di nullità cui fare riferimento non è quella del difetto di attribuzione perché l’amministrazione istituzionalmente competente è, in astratto, titolare del potere.
La categoria cui appellarsi sarebbe semmai quella - forse superata - della carenza di potere in concreto, nella quale un tempo si comprendevano proprio le ipotesi di esercizio del potere - pure conferito all’amministrazione - oltre i limiti temporali e spaziali per il suo valido esercizio[16] .
Si può supporre che la riluttanza della IV Sezione a ragionare in termini di nullità per carenza di potere in concreto trovi la sua giustificazione nel precipitato in punto di giurisdizione (ordinaria) che tale qualificazione tradizionalmente comporta e che sembra confermato dalla disciplina vigente. Difatti le “nullità” il cui accertamento è demandato al giudice amministrativo ex art. 31 c.p.a. sono solo quelle previste dalla legge e cioè, appunto, dall’art. 21 septies il quale però non contempla la figura della carenza di potere in concreto.
Tuttavia, da un lato, il silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 è materia di giurisdizione esclusiva, ai sensi dell’art. 133, lett. a) n.3, sicché la eventuale qualificazione del vizio in termini di carenza di potere in concreto può essere considerata comunque neutrale in termini di giurisdizione, dall’altro la disciplina dell’art. 21 septies, integrata sul punto dall’art. 114, comma 4, lett. c), offre spazio sufficiente per accogliere nell’alveo delle fattispecie di nullità/inefficacia da far valere in sede di giurisdizione amministrativa lo stato viziato del provvedimento tardivo.
L’atto adottato dall’amministrazione una volta scaduto il termine per provvedere impartito dal giudice e addirittura oltre i “tempi supplementari” accordati da una interpretazione benevola che le concede di agire fino all’insediamento del commissario di nomina giudiziale è posto in essere in violazione o elusione di sentenza esecutiva e, per questa ragione, incorre nella nullità/inefficacia sancita dall’ art. 114, comma 4, lett. b) e c), c.p.a.[17]
7. In sintesi
In conclusione, è pienamente condivisibile l’assunto, fatto proprio dall’ordinanza, per il quale la soluzione del problema del rapporto tra potere del commissario ad acta e potere dell’amministrazione commissariata deve essere rintracciata nei principi. L’indicazione che possiamo trarre dal principio di legalità, il quale non consente che il medesimo potere possa far capo a due soggetti diversi, è nel senso che, a partire da un certo momento identificabile con quello dell’insediamento del commissario ad acta,l’amministrazione commissariata decade dal potere di provvedere. L’atto adottato oltre detto termine non è nullo per difetto assoluto di attribuzione. Si può invece fondatamente ipotizzare che si tratti della nullità/inefficacia in cui incorrono, ai sensi degli artt. 21 septies l. 241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b) e c), gli atti emessi in violazione o elusione del giudicato o di sentenza comunque esecutiva.
Quanto ai pericoli di deresponsabilizzazione dell’amministrazione competente e/o di eccessiva compressione della sfera della discrezionalità amministrativa che la definitiva sostituzione della p.a. da parte del commissario ad acta potrebbe comportare, l’uno e l’altro potrebbero essere evitati da un più liberale utilizzo di strumenti di coazione indiretti. L’esecuzione della sentenza di condanna ad adottare il provvedimento, specie se priva di un contenuto di accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale, ben si presta ad essere assistita dalla penalità di mora a carico della stessa amministrazione la quale sarebbe costretta a adempiere assumendo la piena responsabilità delle conseguenze della propria azione e di quelle di una ulteriore inerzia.
[1] Vedi punto n. 5.6. della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019
[2] m. andreis, Commissario ad acta, regime dei suoi atti e nuovo codice del processo amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2012, p. 573 ss, per il quale la cautela imposta dalla norma che prescrive al commissario giudiziale di verificare se, anche tardivamente e sia pure all’ultimo momento, l’amministrazione ha comunque provveduto, esprime un atteggiamento di particolare deferenza che si giustifica in considerazione dell’ampiezza della discrezionalità che residua in capo all’amministrazione a seguito di sentenza che accerta l’obbligo di provvedere.
[3] l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo a cura di b. sassani e r. villata, Torino, 2012, a p. 929 nt. 68 osserva che l’art. 117, diversamente da quanto si era soliti ritenere in base all’art. 21bis della l. 1034 del 1971, non prevede “la decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di provvedere all’atto dell’insediamento del commissario ad acta, realizzandosi così una concorrenza di poteri dell’una e dell’altro, emancipati dai termini finali”.
[4] Così l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit. p. 911 per il quale “l’art. 117 comma 5, nell’abilitare il ricorrente avverso il silenzio ad impugnare con motivi aggiunti il provvedimento espresso sopravvenuto, presuppone che oggetto del ricorso introduttivo sia il silenzio inadempimento che lascia residuare in capo all’amministrazione il potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente”.
[5] La possibilità di impugnare il provvedimento sopravvenuto in corso di giudizio con motivi aggiunti aveva trovato in effetti resistenza nella giurisprudenza anteriore alla entrata in vigore del codice con il conseguente rischio per il ricorrente di incorrere in declaratoria di inammissibilità della domanda di annullamento del provvedimento sopravvenuto ove introdotta nelle forme previste per il rito camerale speciale. Sul punto, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27 ottobre 2006, n. 6439.
[6] Consiglio di Stato sez. V, 05/06/2018, n.3378; Consiglio di Stato sez. IV, 22/03/2017, n.1300; Consiglio di stato, sez. IV, 3 novembre 2015 n. 5014; Consiglio di Stato, sez. IV, 1 dicembre 2014, n. 5912; TA.R. Catania, (Sicilia) sez. IV, 10/07/2019, n.1746; T.A.R. Catania, (Sicilia) sez. III, 18/04/2018, n.772; T.A.R. Catanzaro, (Calabria) sez. I, 18/10/2017, n.1529; T.A.R. Napoli, (Campania) sez. VIII, 21/06/2018, n.4170
[7] Consiglio di Stato sez. VI, 28/01/2016, n.338
[8] Contra, però, T.A.R. Napoli, (Campania) sez. VII, 25/11/2019, n.5558. La sentenza, invero alquanto isolata, sostiene che il giudizio di ottemperanza non è esperibile per dare esecuzione ad una sentenza amministrativa in tema di silenzio in quanto il rito speciale già contiene la possibilità di richiedere al giudice che ha adottato la sentenza di accoglimento (statuendo la sussistenza dell'obbligo di provvedere dell'Amministrazione) di nominare (nella stessa sentenza o a seguito di successiva istanza dell'interessato) un commissario ad acta che dia compiuta attuazione, in sostituzione dell'Amministrazione inadempiente, al decisum sicché, a configurare una diversa via processuale (cioè che il giudizio di ottemperanza possa avere applicazione anche per l'esecuzione delle sentenze rese a seguito dello speciale procedimento previsto avverso il silenzio), si verrebbe a determinare un inutile quanto defatigante aggravamento dei rimedi processuali e addirittura a configurare un possibile profilo, per il ricorrente in ottemperanza, di abuso del processo.
[9] Cautela che sembra invero superata dal legislatore che, con l’art. 12, co. 1, lett. a) del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni, convertito in l. n. 120/2020), divenuto comma 8-bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, ha sancito l’inefficacia delle determinazioni relative a fattispecie in cui opera il regime del silenzio assenso e i provvedimenti inibitori relativi alle ipotesi di s.c.i.a. “adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti”. Almeno nelle fattispecie di silenzio assenso, il termine per provvedere assume oggi chiaramente natura perentoria. Su questi aspetti m. calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni) (note a margine di Cons. Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034 e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 1 luglio 2020, n. 7476) in www.giustiziainsieme.it 26 novembre 2020
[10] b. sassani, Il regime del silenzio e l’esecuzione della sentenza in Il processo amministrativo davanti al giudice amministrativo, Le nuove leggi amministrative a cura di r. villata, Torino 2004, p. 406.
[11] Sulla necessità dell’istanza di parte perché il giudice adotti la misura della penalità di mora, correttamente, Tar Trento, sez. I, 13/04/2018, n.85;
[12] Vedi A.p. 9 maggio 2019, n. 7.
[13] L’art. 34, comma 1, lett. e) anticipa al giudizio di cognizione la possibile adozione delle misure idonee ad assicurare l’attuazione della sentenza, compresa la nomina del commissario ad acta. La norma non esclude espressamente l’adozione di altre misure, come la penalità di mora. Il riferimento alla nomina del commissario ad acta non vale ad escludere la possibilità di adottare altre misure di coercizione indiretta, quale la comminatoria di penalità di mora e trova invece la sua spiegazione nel carattere maggiormente invasivo della misura sostitutiva. Sul punto sia consentito rinviare a a. scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. Proc. Amm,, 2017, p. 465.
[14] Nessun dubita, in effetti, che l’amministrazione conserva il potere-dovere di provvedere anche dopo la scadenza dei termini fissati dall’art. 2, l. 241 del 1990, salve le ipotesi nelle quali la legge espressamente sancisce il carattere perentorio, e a pena di decadenza, del termine, per tutti m.clarich, Manuale di diritto amministrativo, IV ed., Bologna, 2021, p. 251. La conclusione trova del resto conferma proprio nella disciplina in tema di ricorso avverso il silenzio. L’apparato rimediale approntato dal legislatore non avrebbe addirittura ragion d’essere se fosse preordinato all’adozione di provvedimenti espressivi di poteri da cui l’amministrazione è decaduta e per ciò solo illegittimi, così l. bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, cit., p. 929, nt. 68..
[15] Altrettanto ferma la posizione favorevole ad escludere che la tardività del provvedimento ne determini l’annullabilità. Peraltro al più si potrebbe ipotizzare un vizio formale da sottoporsi alla prova di resistenza di cui all’art. 21 octies comma 2...
[16] E tuttavia sulla vitalità della categoria vedi alb. romano, Nullità del provvedimento, in L’azione amministrativa a cura di alb. romano, Torino, 2016, p. 816 ss.
[17] Anche in questo caso, si verte peraltro in materia di giurisdizione esclusiva che è sancita dall’art. 133, lett. a, n. 5.
Memoria
di David Cerri
E io concederò nella mia casa e dentro le mie mura
un monumento e un nome (Yad Vashem),
un nome eterno che non sarà mai cancellato.
(Isaia 56:5)
Quando Bàal-shem doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, e diceva preghiere, assolto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito.
Quando, una generazione dopo, il Maggìd di Meseritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto andava secondo il suo desiderio.
Ancora una generazione dopo, Rabbì Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch’egli andava nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco, dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare”. E infatti ciò era sufficiente.
Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbì Yisrael di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: “non possiamo fare il fuoco,non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia.”
E – così prosegue il narratore – il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri tre.[1]
[1]La storia di Yisrael ben Eliezer, detto Bàal Shem Tov(Maestro del nome di Dio), rabbino polacco del ‘700, guaritore itinerante considerato il fondatore del chassidismo, è narrata da Gershom Scholem in Le grandi correnti della mistica ebraica(Torino, Einaudi, 1993, 353) come appresa dalla viva voce del grande scrittore israeliano Schemuel Y. Agnon.
A più di ottanta anni dall’emanazione delle prime leggi razziali italiane, date a San Rossore[1], ed in un momento storico nel quale l’Europa vede riaffacciarsi timori che credeva da tempo scomparsi, qualche riflessione sui “perché” dello scrivere non è forse inutile.
Brava gente, non dimenticate, brava gente, raccontate, brava gente, scrivete ![2]
In linea generale, uno di essi è costituito proprio dal dovere di tramandare la memoria di fatti e persone. Dirò di più: per chi si trova a scrivere per quel motivo al dovere si aggiunge spesso lo spontaneo desideriodi farlo; in ogni caso una spinta etica è difficile da negare, e se c’è un argomento sul quale la discussione sulla memoria e sulla necessità di preservarla si è fatta via via più approfondita è sicuramente quello della Shoah (ed in particolare, per noi italiani, la vicenda delle leggi razziali), che intendo usare come riferimento di base per un tentativo di verifica sul perché si sia scritto, e si continui a scrivere, di avvenimenti simili. Non solo da un punto di vista storiografico, naturalmente, ma anche quando l’impulso del ricordare crea nuova arte. Ma la memoria non è solo questo.
Non è mia ambizione anche solo tratteggiare le discussioni sul tema della memoria, tanto variegate e complesse esse sono. Si può però tentare di ricordarne alcuni tratti essenziali; mi soffermo allora soltanto su alcune questioni: la prima concerne la scelta fondamentale: ricordare o dimenticare?
La seconda è legata all’epoca nella quale viviamo, che vede cioè il passaggio dalla testimonianza alla storia ed insieme nuovi tentativi (che si approfittano giusto di tale passaggio) per rivederee correggereacquisizioni storiografiche indubitabili e documentate, forti solo degli effetti devastanti di una “discussione” pubblica tanto superficiale quanto pericolosa, grazie anche ai nuovi mediacapaci di ogni manipolazione.
Memoria e arte, arte e letteratura, poi, in un rapporto fecondo ma complesso per le diverse forme usate (ed i diversi obiettivi perseguiti) dagli scrittori; l’ultima infine verte su un piano duplice e più teorico: quello, da un lato, dell’ “etica della memoria”, e, dall’altro, quello della distinzione, rilevante anche ai fini del lavoro storiografico, tra pratiche di “oblio controllato” (talune forme di amnistia politica) e vera e propria cancellazione della memoria.
Su tutto, e me ne rendo conto, incombe l’ombra di una banalizzazione della Shoah dovuta all’enorme interesse mediatico degli ultimi decenni [3].
Ricordare o dimenticare ?
scrivere per non dimenticare.
Solo questo è negato anche a Dio: cancellare il passato [4]
La prima sembrerebbe avere una risposta scontata; non vi sarebbe motivo neppure per questo intervento se si scegliesse di dimenticare. Non è così, però. Vi sono motivazioni differenti che giustificano lo sforzo della memoria, e addirittura opzioni radicalmente diverse.
Partendo da queste ultime, un grande esponente della psicanalisi italiana - di origini ebraiche - come Cesare Musatti ha scritto che “determinate cose si dimenticano; altrimenti non si potrebbe continuare a vivere” [5]. Un silenzio terapeutico, si direbbe[6].
Un altro invito al silenzio ha invece diversa origine; Giacomo De Benedetti scrive che dopo il rastrellamento dell’ottobre 1943 a Fara Sabina, od Orte, una ragazza scorse alla grata di un vagone piombato del convoglio dei deportati il viso di una bambina che conosceva, e la chiamò.
Un altro viso si affacciò, e le accennò di tacere. “Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro” [7].
Un silenzio, questo, che immagino dovuto al pudore della disperazione.
Motivazioni entrambe nobili e comprensibili, ma che non possiamo accettare perché in realtà la memoria è uno strumento cui non possiamo rinunciare.
Quali invece le ragioni “pratiche” del ricordo, ed in particolare del conservarlo in forma trasmissibile (lo scriverne) ?
Conosciamo molti esempi di memorialistica privata degli anni della persecuzione razziale: si differenziano da altri per la costanza, l’oggettività ed il lungo periodo coperto (dal 1933 al 1945) quello del filologo Viktor Klemperer [8], e la cronaca degli ebrei di Plock fortunosamente redatta da Simha Guterman su strisce di carta, ed ancor più fortunosamente ritrovata in bottiglia 36 anni dopo [9]. In generale le memorie private hanno però un tono diverso, come due tra tutte celebri, quelle degli anni di guerra in Olanda di un’adolescente e di una giovane donna ebree olandesi, Anna Frank e Etty Hillesum [10]; o come quelle di Janina Bauman, moglie del sociologo Zygmunt, e figlia di un ufficiale polacco assassinato dagli stalinisti a Katyn, che ci ha lasciato le pagine del suo diario nel ghetto di Varsavia [11]; o come le lettere di Louise Jacobson, ragazzina francese deportata ad Auschwitz nel febbraio del 1943[12]. Ed è ancora una donna, Edith Bruck, a porre in epigrafe al racconto della sua lotta tra il dovere di non dimenticare e la condanna a ricordare una frase del Bàal Shem Tov: “L’oblio porta all’esilio, nella memoria è il segreto della redenzione” [13]. Forse la diversità del tratto è dovuta anche alla condizione femminile delle protagoniste [14], come si ricava a contrarioda altre testimonianze maschili, quale quella di Emanuel Ringelblum sempre da Varsavia, che non rinunciano neppure in quelle condizioni a qualche autoironico witz [15].
Scrivere, allora, per non dimenticare.
Scrivere per far giustizia
Mai dimenticherò tutto ciò,
anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai[16]
Oppure scrivere per vendicarsi.
I tedeschi hanno uno speciale inferno tutto per loro [17]
Si ha spesso l’impressione che la classe media tedesca abbia il diavolo in corpo[18]
“Se noi ci mettiamo a indagare la nostra colpa risalendo fino alla sua fonte originaria, veniamo a trovarci di fronte all'umanità che nella forma tedesca ha assunto un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibilità dell'uomo in quanto uomo” scriveva Jaspers nella sua opera più nota in questo ambito [19], frutto delle prime “libere” lezioni tenute ad Heidelberg nel 1946. Delle analitiche distinzioni operate dal filosofo tedesco – tra colpa criminale, colpa politica, colpa morale e colpa metafisica – ci può interessare qui la terza categoria, quella morale: “uno ha la responsabilità morale per quelle azioni che compie come individuo. E questo vale per tutte le sue azioni, anche per le azioni di ordine politico e militare che egli compie. In nessun caso vale la scusa che "gli ordini sono ordini".Quest’ultima affermazione, com’è noto, è il paravento dietro al quale si sono nascosti gli assassini: lo stesso Eichmann. Don Milani nella sua Lettera ai giudici ricordava che “A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito”[20], ma già Dietrich Bonhöffer aveva ammonito che “L’uomo del dovere alla fine dovrà compiere il proprio dovere anche nei confronti del diavolo”[21]
Responsabilità morale dell’individuo, dunque, che non contraddice il riconoscimento della “possibilità dell’uomo in quanto uomo” di compiere il male (e molto ci sarebbe da aggiungere sulla effettiva consistenza del libero arbitrio, secondo quanto di cui continuano ad informarci i neuroscienziati…).
Se allora il popolo tedesco ha un “inferno tutto per sé”, sarebbe errato ignorare quanto hanno compiuto altri popoli,: a cominciare, naturalmente, dagli italiani.
Italiani, brava gente ?
Angelo Del Boca nel suo celebre volume[22]ha giustamente apposto nel titolo il punto interrogativo all’affermazione che altrimenti è sempre scorsa sulla bocca di molti, anche tra di noi. E la domanda sarebbe giustificata non solo per il periodo qui in esame, ma anche per quello del colonialismo italiano, specialmente in Africa Orientale durante il fascismo, che non a caso è stata indicata come il laboratorio delle leggi razziali. Lecito quindi chiedersi: per tanti italiani che hanno soccorso gli ebrei perseguitati, quanti altri facevano parte delle schiere di aguzzini che, anche senza una direzione nazista – spesso comodo paravento per le giustificazioni post-belliche – cacciavano per ogni dove i loro concittadini di “razza” diversa ? Per tanti (pochi, pochissimi) professori universitari che rifiutarono nel 1931 il giuramento di fedeltà al regime, quanti (tutti gli altri) lo prestarono, magari con una “riserva interiore” come alcuni cattolici, o per meglio servire la causa dell’antifascismo all’interno delle istituzioni, come altri ispirati da Togliatti, o per non peggiorare le cose, come altri ancora…? [23]
Anche l’Università di Pisa ha conosciuto quel dramma [24], il cui lato peggiore è stato forse il momento del ritorno in cattedra dopo la caduta del fascismo: ritorno da taluni dei docenti espulsi tentato ma negato, da altri orgogliosamente rifiutato.
E per tanti (pochi) che nascosero i colleghi cui era impedito l’esercizio della professione consentendo loro una residua attività, a rischio e pericolo anche personale, quanti professionisti (la maggior parte degli avvocati, dei medici, ecc.) aderirono al fascismo e elessero per le cariche istituzionali i suoi corifei anche prima del ’26 ?
Se il termine “vendetta” può sembrare brutale e non appropriato, lo si abbandoni, una volta che abbia sortito il desiderato effetto di scuotere le coscienze, in favore di quello di “far giustizia”; ma è l’impostazione del dibattito storico nella categoria che va mutata, semplicemente indagando e riportando i “fatti”, senza accontentarsi delle agiografiche ricostruzioni del dopoguerra.
Così è successo per la categoria professionale che conosco meglio, facendone parte, quella degli avvocati. Una visione in parte autoconsolatoria, fondata su testimonianze autorevoli, quali quella di Piero Calamandrei, ha definito quella degli avvocati come la professione che più di ogni altra aveva sofferto della tirannia, per la necessità di lavorare quotidianamente in un quadro normativo nel quale trovare quotidianamente “la conferma esasperante della nostra vergogna”.E’, sempre con le parole del giurista fiorentino, il “lungo, logorante periodo” della “resistenza allusiva” fatta di lotta al fascismo “vivendoci in mezzo” (così lo ricorda Francesca Tacchi [25]); ed è ancora Calamandrei il testimone di un’interpretazione delle leggi razziali come tragico portato della “brutale amicizia” italo-tedesca [26]: “abbiamo sentito con orrore scendere dalla Germania e introdursi a poco a poco nella nostra legislazione la peste totalitaria annientatrice d’ogni forma di legalità”[27].
Il problema è che probabilmente non era andata proprio così.
Certamente l’occupazione tedesca mutò il quadro delle condizioni di vita degli ebrei italiani, ma le premesse teoriche delle leggi razziali avevano autonome fondamenta anche in Italia. E’ una considerazione che era già presente a chi – come Guido Alpa – si era dedicato agli studi sulla capacità, ricordando l’adesione o l’indifferenza di molti giuristi alla nuova tematica razziale [28], e che ora emerge con chiarezza dalle ricerche più recenti, che ne rintracciano l’origine nelle vicende delle guerre coloniali degli anni trenta, che avevano procurato all’Italia il suo “impero” [29]. Chi, nel 1939, comunicava a Stefano M.Cutelli (qualificatosi in copertina “squadrista” e direttore) di accettare “di buon grado” di far parte del Comitato scientifico del nuovo periodico Diritto razzista “…rivista di dottrina, diritto e giurisprudenza della razza, da voi così autorevolmente diretta” se non Santi Romano, allora Presidente del Consiglio di Stato? Santi Romano!
Joachim Fest, il grande storico del nazismo, ha narrato in un libro autobiografico–“Io no” [30]– in quale modo il padre, funzionario prussiano, avesse risposto alla madre che lo pregava di aderire al partito di Hitler,di fronte ad una carriera spezzata. La donna gli aveva ricordato che la “piccola gente” si era sempre difesa col mentire di fronte ai potenti; ma Johannes Fest, preside di una scuola cattolica licenziato a 42 anni per “attività antistatali”, le rispose: «Noi non siamo piccola gente! Non su questo argomento!». Il richiamo evangelico al «anche se tutti, io no» ci riporta al bivio apertosi di fronte a molti in quegli anni terribili. Non a tutti: “solo” a molti, perché tanti non avevano alcuna possibilità di scelta, come i docenti ed i professionisti che furono cacciati solo perché di razza ebraica. Sono gli “altri” che potevano scegliere: scegliere se tacere; se approfittare; se aiutare nell’ombra: se ribellarsi.
Del resto, la presunta “mitezza” delle leggi italiane è smentita dalla comparazione con le leggi tedesche, come ha dimostrato tra gli altri Valerio Di Porto [31], mentre la pratica della delazione – dai veri e propri cacciatori di taglie ai “volontari”, cittadini comuni – non è stata certo sconosciuta [32].
E sarebbe stato strano, del resto, che solo l’Italia avesse fatto eccezione ad un quadro europeo nel quale il nazismo incise su una realtà antisemita già profondamente radicata, come numerosi studi hanno indicato: dall’ampia ricostruzione di Mosse [33], alle ricerche di Browning e Gross [34], alla polemica opera di Goldhagen [35].
Salvaguardare la memoria di quegli anni significa quindi aprire gli archivi e scrivere di quanto vi si reperisca, per quanto sconvolgente possa essere: mai come in questi casi – ed in questi tempi – quest’opera non si esaurirà in una mera ricerca storica, ma ci dirà come reagire al totalitarismo e prevenire ogni tentativo di limitazione dei diritti fondamentali.
Dalla testimonianza alla storia
Chi dimentica o non è abituato a ricordare,
è sempre pronto a dar ragione all’ultima persona con cui parla[36]
La seconda questione ha al centro una domanda di intuitiva importanza: che accadrà dopo che anche l’ “ultimo testimone” diretto dello sterminio se ne sarà andato ? Non pochi di noi hanno infatti potuto conoscere personalmente persone scampate ai Vernichtungslager,e molti hanno almeno potuto apprenderne le testimonianze attraverso i mezzi di comunicazione: una per tutte, l’esperienza della monumentale ricerca di Claude Lanzmann sullaShoah [37]. Le due modalità peraltro non sono identificabili in tutto, lo dico pensando anche al ricorrente negazionismo, che come un fiume carsico di tanto in tanto si riaffaccia, inteso come movimento storiografico che in nome di uno scetticismo spinto all’estremo giunge a negare, o fortemente ridimensionare, alcuni fenomeni storici, in primis– quantomeno mediaticamente - la stessa Shoah.
Ha scritto David Bidussa che la Giornata della Memoria non è il “giorno dei morti”, ma quello della memoria per i vivi: “se la memoria è elaborata nel presente e si propone per il futuro significa che noi non ricordiamo ‘quello che è avvenuto’ come se fosse un dato, ma che lo ricordiamo attivamente, ossia insieme ne produciamo e riproduciamo la memoria”[38], compito che sarà allora – dopo l’ultimo testimone – esclusivamente nostro, e quindi inevitabilmente, come dire, di seconda mano.Un indirizzo operativo, dunque, tanto più consono all’angolazione che ho proposto poco sopra. Non ha torto, peraltro, neppure Marcello Pezzetti [39]quando ricorda che gli unici che hanno conosciuto davvero la Shoah sono quelli che non sono sopravvissuti, quelli che selezionati alla discesa dal treno venivano immediatamente avviati alle camere a gas, o rastrellati venivano subito fucilati e gettati nelle fosse comuni: la vera memoria è forse quella impossibiledello sterminio, non quella della vita nei lager. Impossibile, come scriveva Maurice Blanchot : “Noi leggiamo i libri su Auschwitz. Il voto di tutti, laggiù, l’ultimo voto: sappiate ciò che è accaduto, non dimenticate, e allo stesso tempo voi non lo saprete mai”[40].
Memoria e letteratura
Ho ricordato in epigrafe come l’atto del ricordare trovi espressione non solo nella memorialistica, nella ricerca storiografica vera e propria, ma anche nell’arte.
Il rapporto tra il genocidio e l’arte è complesso, e non possiedo certamente le competenze per discuterne. Mi limito a ricordare come il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, accettò nel 1941 la proposta di un deportato polacco (Franciszek Targosz, un artista) di creare un museo all’interno del lager; per il primo, un elemento di pompa per i caporioni nazisti in visita; per il secondo, che fu posto alla guida del museo, e per altri internati che vi furono addetti, un viatico per la sopravvivenza. Al di là delle opere esposte (ispirate forzosamente, per lo più, al realismo di regime) l’arte forse aveva poco a che fare con l’iniziativa, ciò nonostante il Museo del lager rimane una testimonianza dell’irriducibilità dell’essere umano ai suoi bisogni fisiologici essenziali.. L’arte entra davvero nei campi con la loro liberazione, e da allora non li dimentica più. Il 16 aprile 1945 un giovane Corrado Cagli, volontario nell’esercito degli Stati Uniti, dove si era rifugiato dopo gli attacchi razziali alle sue opere, entra tra i primi a Buchenwald. Cagli dall’esperienza del campo ricaverà un album di disegni, da leggersi – scrive lui stesso – “non come i disegni di un pittore, ma come le testimonianze di un soldato di ventura” [41]. Da allora e fino ad oggi la Shoah costituisce un tema ricorrente della ricerca artistica; basterebbe ricordare le opere di Joseph Beuys, che aveva fatto l’esperienza della guerra nella Luftwaffe sul fronte orientale (come l’installazione “Dimostrazione Auschwitz”, 1956/1964 [42]); di Anselm Kiefer e Gerhard Richter, o più recentemente, quelle di Miroslaw Balka (come “How it is”, alla Tate Modern nel 2009 [43]).
Credo, tuttavia, che per il discorso che facciamo l’ambito nel contempo più ampio e più congruo col valore della testimonianza sia quello della letteratura.
Efficacemente Carlo de Matteis ha titolato “Dire l’indicibile” la sua ricerca sulla memoria letteraria dello sterminio degli ebrei [44].
Paul Celan, per tutti, ha dimostrato l’astrattezza della sia pur celebre e suggestiva affermazione di Adorno secondo la quale “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro” [45], ma è assai più ampio il riflesso delle tragedie del ‘900 in letteratura.
Mentre la riflessione di intellettuali come Levi e Amery è al confine tra filosofia e letteratura, e le testimonianze di Wiesel e Antelme [46]presidiano quello con la storia, altri hanno scelto la via del romanzo o del racconto per tramandare la memoria di quei giorni; memoria che in alcuni casi è in realtà frutto almeno parziale di invenzione, ma non meno efficace, e soprattutto non meno “veritiera”.
E’ il caso di alcune pagine di Jorge Semprùn, come quelle - atroci - sulle uccisioni dei bambini ebrei di Il grande viaggio[47], dove peraltro anziché di finzione si deve parlare di rielaborazione letteraria di una esperienza personale (lo “stile” aiuta la percezione, la ricostruzione di un avvenimento realmente accaduto); mentre in Cynthia Ozick la ri-creazione integrale di una vicenda assai più che verosimile si scolpisce nel lettore in modo incancellabile, come ne Lo scialle [48].
Diverso l’approccio di altri, come Andrė Schwartz-Bart, che ne L’ultimo dei giusti [49](Premio Goncourt del 1959 e tra i primi a risvegliare un interesse di massa per la Shoah) tratteggia la saga di una famiglia ebrea dal medioevo fino agli esiti novecenteschi; o Peter Weiss, che trasforma il materiale cronachistico di un processo reale contro un gruppo di SS di Auschwitz (i verbali, le deposizioni) nell’“oratorio in 11 canti” de L’istruttoria[50]con uno stile oggettivo che si presta ad un incalzante crescendo. In tempi più recenti, una lettura chocè stata quella di Le benevoledi Jonathan Littell [51], il cui protagonista – brillante ufficiale delle SS, omosessuale, le cui memorie si immaginano scritte dopo la guerra nel suobuen retirofrancese - incontra fittiziamente i protagonisti della Shoah (Hitler, Himmler, Eichmann e tanti altri personaggi storici, tra i quali anche intellettuali come Junger e Brasillach) sullo sfondo di torbide storie familiari; al di là del valore dell’opera – sul quale il giudizio non è uniforme – la sorta di autobiografia che non arretra di fronte alla descrizione delle più atroci infamie ha avuto un successo mondiale, e possono far riflettere le circostanze dell’origine ebrea dello scrittore, e del suo voler scrivere in francese, benchè statunitense: una doppia dissociazione, verrebbe fatto di dire, non nuova agli esperimenti letterari sul genocidio. Infine, un recentissimo contributo fuori dal comune viene da una giovane scrittrice italiana, Annick Emdin, che in Io sono del mio amato[52]gioca proprio sul filo di una memoria-confronto tra gli anni della Shoah ed il 1995, tra il mondo degli shtetl polacchi e l’ Israele moderno, mossa da un principio affermato da uno dei suoi personaggi: “Il mondo è tutto pieno di altri mondi…Si potrebbe quasi dire che ogni persona è un mondo a sé e anzi, forse in una sola persona possono esserci infiniti mondi”.
L’etica della memoria
Mi piacerebbe che qualcuno si ricordasse
che qui una volta viveva una persona di nome David Berger [53]
Al filosofo israeliano Avishai Margalit (che è tra l’altro tra i fondatori del movimento pacifista Peace Now) dobbiamo l'idea della "società decente", che non coincide con la "società giusta" di John Rawls, perché mentre quest’ultima si occupa soprattutto dei criteri distributivi, Margalit con il concetto di “decenza” evidenzia il valore della dignità umana, che intesa essenzialmente come assenza di umiliazione precede quello stesso di giustizia [54].
La sua interpretazione si basa su una distinzione tra etica e morale, fondata sul tipo di relazione interpersonale considerata: l’etica si interessa delle relazioni che definisce “spesse” (i rapporti che si intrattengono con le persone vicine e verso cui si nutre un interesse diretto), mentre la morale di quelle “sottili” (che cioè riguardano ogni essere umano).
La conclusione dello studioso è quindi che “esiste un’etica della memoria, ma nella memoria c’è ben poca moralità”; Margalit ricorre al concetto di “cura”, volto al passato ed in relazione con la memoria: il prendermi cura di qualcuno – una relazione “spessa” – comporta il ricordo. Per questo motivo (l’intrecciarsi con la cura, essendo al centro della relazioni “spesse”) la memoria appartiene allora all’etica, mentre la morale ne è appunto estranea perché le relazioni “sottili” di cui si occupa non implicano il dovere della “cura”. L’etica della memoria si colloca quindi su un piano collettivo generale, che giustifica il dovere del ricordo, per evitare nuove manifestazioni di “male radicale”, che puntano a contestare la stessa idea a base delle relazioni “sottili”, che cioè si abbiano dei doveri verso gli altri solo perché anch’essi esseri umani. Non è stato Hitler ad affermare ai suoi generali, poco prima dell’invasione della Polonia, “Dopotutto, chi parla oggi dello sterminio degli armeni ?” [55].
La fonte di molte riflessioni di Margalit è la Bibbia ebraica, in particolare per quella sull’importanza di ricordare il nome; l’espressione biblica “cancellare il nome” riveste il duplice significato di uccidere l’uomo e distruggerne la memoria; lo ha ben presente Jacques Derrida quando commentando il Paul Celan diAschenglorierileva l’intraducibilità per così dire “ontologica”, l’intrasportabilità al di fuori della lingua dello sterminio – il tedesco – di un simile doppio termine (in italiano “gloria delle ceneri” ? “cenere ‘aureolata’ di gloria” ? oppure semplicemente ”c’è la cenere” ?): “cenere, questo è anche il nome di ciò che annienta o minaccia di distruggere persino la possibilità di portare testimonianza allo sterminio” ; e proprio Celan così concludeva quei versi: “nessuno testimonia per il testimone”[56].
La frase di Isaia citata all’inizio di questo contributo si riferisce al pio eunuco, al “legno secco” che non lascerà discendenza, cui tuttavia Dio garantisce un posto nella memoria; come scrive Margalit “Chiamare Yad Vashem il memoriale per le vittime dell’olocausto esprime l’idea che le vittime ebree in Europa sono come gli eunuchi che non lasciano tracce, e che ci sarà un luogo di raccolta nazionale per i loro nomi, sul modello di cui parla Isaia” [57].
Amnistia o amnesia [58]?
Grazie al lavoro della memoria, completato da quello del lutto, ognuno di noi ha il dovere di non dimenticare, ma di ricordare il passato, per quanto penoso possa essere, sotto la guida di una memoria pacificata [59]
Paul Ricoeur, dopo aver riflettuto sui significati del ricordare e del dimenticare, si pone la questione dei ricorrenti tentativi, propri delle democrazie moderne, di “sopire” conflitti, o meglio i loro lasciti, ricorrendo ad una sorta di “oblio controllato” (commanded forgetting). Ricoeur ricorda il giuramento imposto dai vincitori del partito democratico dopo la fine dell’oligarchia dei trenta Tiranni (Atene, 403 a.C.), con il quale ci si impegnava a mè mnesikakein,a“non ricordare i mali” nei confronti degli avversari, ma oggi vengono in mente, per esempio, due iniziative senza dubbio entrambe volute per fini di pacificazione dopo eventi estremi (l’apartheid; la guerra), ma molto diverse tra loro: la Commissione per la verità e la riconciliazione voluta da Mandela per il Sud Africa, e l’ amnistia c.d. “di Togliatti” del 1946, Le ragioni in casi del genere possono essere più che onorevoli, come riconosce lo stesso Ricoeur, ma anche il dubbio che le amnistie violino verità e giustizia ha buoni motivi di rimanere. Abbiamo ricordato questi due episodi proprio per sottolinearne le diversità; solo nel primo caso, quello del Sud Africa, il compito principale è quello di acquisire testimonianze (e, particolare non da poco, sui comportamenti di entrambe le parti), mentre il percorso per l’amnistia vera e propria richiede “una confessione piena e totale. Bisogna dichiarare tutto quello che si è fatto, assumersi responsabilità definite e precise. L’amnistia infatti è molto specifica ed è applicata per ogni atto. Non si può chiedere amnistia dicendo «ero nella polizia addetto alla sicurezza, chiedo l'amnistia per avere ammazzato delle persone oppure per avere torturato». No, bisogna riferire in modo specifico di ogni persona uccisa, di ogni persona torturata e ogni azione viene giudicata in base agli stessi criteri. La stessa persona può ottenere l’amnistia per un'azione, ma non per un'altra. Le famiglie delle vittime o la vittima, se è ancora in vita, hanno il diritto di opporsi alla concessione dell'amnistia e hanno anche il diritto di essere rappresentate da un legale. Possono opporsi alla concessione dell’amnistia dicendo che non è stata detta tutta la verità oppure che non c'era nessuna motivazione politica per quel determinato crimine” [60]. Ecco allora l’indicazione posta in epigrafe di questo paragrafo: un dovere di ricordare, proprio dell’individuo e non dello Stato, che non mira alla vendetta ma proprio a consentire la più ampia ripresa della convivenza. Ma vi è di più.
Il dovere di ricordare non può non presupporre il “lavoro” della memoria, che secondo Ricoeur si svolge su due fronti: oltre a combattere l’oblio (non quello naturalederivante dalla nostra biologia e dalle nostre abitudini, anche pubbliche, ma quello) “consistant en un art habile d'éluder l'évocation des souvenirs pénibles ou honteux, en une volonté sournoise de ne pas vouloir savoir, ni de chercher à savoir”[61](l’amnistia del ‘46 ? gli “armadi della vergogna” ?), deve anche evitare i “pericoli della ripetizione”, quel ridurre la memoria ad una raccolta di fatti che da un lato impedisce una reale comprensione di comee perchèciò che è accaduto è accaduto, e, dall’altro, coltiva l’odio e la vendetta. E tra il lavoro della memoria ed il dovere della memoria c’è, ci deve essere, uno spazio per il futuro, o, come la definisce Ricoeur, per la “promessa”, questa volontà “de tenir la parole qui nous engage en avant de nous-mêmes et ainsi nous maintient à la hauteur de nos meilleurs projets de vie personnelle et collective”[62]: questa una possibile chiave interpretativa delle diverse Commissioni per la verità e la riconciliazione che negli ultimi decenni hanno fatto seguito a traumatiche “cesure” storiche, come dittature e guerre. Abbiamo già ricordato quella sudafricana, ma un’altra importante esperienza è la ricostruzione operata dallaCommissione Nazionale sulla Scomparsa delle Persone (CONADEP) argentina, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, dei tragici avvenimenti di quella nazione nel periodo della dittatura militare (1976/1983). Il rapporto Nunca Más(Mai più) del 1984 [63], che non era diretto all’incriminazione dei responsabili (compito lasciato all’autorità giudiziaria ordinaria, e proseguito nonostante le successive traversie ed alternanze tra amnistie e processi), si apre col ricordo delle parole del Generale Dalla Chiesa che, durante il sequestro Moro, avrebbe risposto a chi suggeriva di torturare i brigatisti rossi: “L' Italia può permettersi di perdere Aldo Moro, ma non può permettersi di introdurre latortura”.
“Dire l’indicibile” quindi si può, e si deve; perché, ancora con Celan [64]
dice il vero, chi parla di ombre
[1]Interesse rinnovato dalle iniziative di “San Rossore 1938” svolte a Pisa nell’autunno 2018, sulle quali per tutti v. l’introduzione di Michele Battini, San Rossore 1938-2018, leggibile nel sito www.academia.edu(consultato il 29.11.2020).
[2]“Yidn, shraybt un farshraybt”in yddish, Simon Dubnov citato da P. Vidal-Naquet, Simon Doubnov: l'homme memoire, prefazione a S.Doubnov, Histoire moderne du peuple juif, Paris, Cerf, 1994 (ns. trad.). Dubnov fu storico ed intellettuale di nativa lingua yddish, nato nell’attuale Bielorussia, morto nel 1941 nei trasferimenti dal ghetto di Riga alla foresta di Rumbula dove si consumò il massacro di 25.000 ebrei ad opera dell’Einsatzgruppe A.
[3]Per tutti v. la satira di T.Reich, Il mio Olocausto, con prefazione di Cynthia Ozick - la scrittrice di Lo scialle, v.nota 42 - Torino, Einaudi, 2008, recensita da E. Löwenthal su La Stampa del 15.2.2008; v. anche M.Gerstenberg, The Abuse of Holocaust memory, Jerusalem, JCPA, 2009, spec.116 ss.
[4]Agatone (sec.V a.C) cit. da Aristotele nell’ Etica Nicomachea, II, 6.
[5]C.Musatti, Ebraismo e psicoanalisi, Pordenone, EST, 1994, 64.
[6]Oggi le scoperte delle neuroscienze sembrano consentire un controllo medico della memoria, questione eticamente quanto mai discutibile: v. ad es., A.J. Kolber, Therapetutic Forgetting: The Legal and Ethical Implications of Memory Dampening, Vanderbilt Law Review, Vo.59, 1561, 2006. SSRN: http://ssrn.com/abstract=887061(consultato il 29.11.2020).
[7]G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Palermo, Sellerio, 1993, 63.
[8]V.Klemperer, Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Milano, Mondadori, 2000.
[9]S.Guterman, Il libro ritrovato, Torino, Einaudi, 1991.
[10]A.Frank, Diario, Torino, Einaudi, 1966; E.Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 2000 (v.anche Parole con Ettydi L.Breggia, Torino, Claudiana, 2019.
[11]J.Bauman, Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia, Bologna, Il Mulino, 1994.
[12]Dal liceo ad Auschwitz. Lettere di Louise Jacobson,Roma, L’Arca,1996, con prefazione di E.Toaff e introduzione di F.Sanvitale.
[13]E.Bruck, Signora Auschwitz,Venezia, Marsilio, 1999.Un’ ampia scelta di brevi narrazioni sulla figura del Baal Shem Tovin M.Buber, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti, 1979.
[14]E la loro cultura: si paragonino le testimonianze dai campi di due deportate italiane - Albina Moinas di Monfalcone e Rosa Cantoni di Udine - nella Rivista telematica Deportati, Esuli, Profughe (DEP)dell’Università di Venezia Cà Foscari. Vero è che il generedelle memorie dei sopravvissuti dai campi è totalmente diverso, ed ancora diversa la posizione degli intellettuali: ricordo la polemica postuma tra Primo Levi – in I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986 – e Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
[15]In A.Nirenstein, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, Einaudi, 1958. Un esempio di storiella ebraica di Ringelblum: “Un tale arriva all’altro mondo ed incontra Cristo in paradiso. – Ehi ! – grida – cosa fa qui un ebreo senza il bracciale ? …- Lascia perdere, - gli risponde San Pietro, - è il figlio del padrone”.
[16]E.Wiesel, La Notte, Firenze, Giuntina, 1980, 40.
[17]Dalla trascrizione (ns. trad.) del processo tenuto nell’aprile del 1691 dalla Corte di Venden (oggi Cesis, in Lettonia): è la testimonianza del lupo mannaroOld Thiess, raccolta in Old Thiess, a Livonian Werewolf, a cura di C.Ginzburg e B.Lincoln, Chicago/London, University of Chicago Press, 2020.
[18]Ernst Junger citato da H.Arendt in Ritorno in Germania, Roma, Donzelli, 1996.
[19]K.Jaspers, La questione della colpa, Milano, Raffello Cortina, 1966.
[20]Don L. Milani, Lettera ai giudici(1965), che tra l’altro scrive anche delle imprese italiane in Africa; si legge in https://www.ildialogo.org/donmilani/letteragiudici.htm(consul. il 6.12.2020).
[21]D. Bonhöffer, Resistenza e resa, (a cura di E.Bethge), Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,1988, p.61
[22]A. Del Boca, Italiani, brava gente ?,Vicenza, Neri Pozza editore, 2010-12 ed.e.book.
[23]A.Capristo,L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani,2002; G.Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2001. Tra tutti spicca la figura di Piero Martinetti, filosofo, la cui straordinaria lettera al Ministro Giuliano si legge a http://www.fondazionepieromartinetti.org/piero-martinetti/lettera-al-ministro-giuliano.html(consult. 29.11.2020) .
[24]T.Fanfani, Shoah e cultura della pace - Pagine di storia del Novecento all'Università di Pisa, Pisa, Edizioni Plus - Pisa University Press, 2001; F.Demi-B.Manfellotto, Diario di un’infamia (Le leggi, le vite violate, il ricordo), Pisa, Pisa University Press, 2018.F.Pelini-I.Pavan, La doppia epurazione.L’Università di Pisa e le leggi razziali, Bologna, Il Mulino, 2009; A.Peretti-S.Sodi, Fuori da scuola.1938 - Studenti e docenti ebrei espulsi dalle aule pisane, Pisa, Pisa University Press, 2018; M.Emdin-B.Henry-I-Pavan (a cura di), Vite Sospese-1938. Università ed ebrei a Pisa,Pisa University Press, 2019
[25]F.Tacchi, Gli avvocati italiani dall’Unità alla repubblica, Bologna, Il Mulino, 2002, 431; v. anche di A.Meniconi, La maschia avvocatura, Bologna, Il Mulino, 2006, spec. 239 e ss.; Id.,Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche, in Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano,a cura di G.Speciale, Bologna, Patron ed., 2013,177 ss., ed ancora – a cure sue e di M.Pezzetti – Razza e inGiustizia (Gli avvocati ed i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche), Roma, Poligrafico e Zecca dello Stato, 2018, raccolta di studi patrocinata dal Consiglio Superiore della magistratura e dal Consiglio Nazionale Forense, dal Senato e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
[26]L’espressione è di F.W.Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Torino, Einaudi, 1963.
[27]Intervento al primo Congresso nazionale giuridico forense, Firenze 1947, in Atti del primo congresso nazionale giuridico forense del secondo dopoguerra, G.Alpa-S.Borsacchi-R.Russo (a cura di), Bologna, Il Mulino, 2008.
[28]G.Alpa, Status e capacità, Bari, Laterza, 1993, 130 ss.
[29]Per tutti v. E. De Cristofaro, Il codice della persecuzione, Torino, Giappichelli, 2008, 261 ss.; M.Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2008, in particolare sull’ “autosufficienza” dell’antisemitismo fascista; G.Alpa, 1938.i giuristi italiani, il codice civile e le leggi razziali, in Rass.Forense, 2014,159 ss.; I.Pavan, Prime note su razzismo e diritto in Italia. L’esperienza della rivista “Il Diritto Razzista” (1939–1942), in D. Menozzi, R. Pertici, M. Moretti (a cura di), Culture e libertà. Studi di storia in onore di Roberto Vivarelli, Pisa, ediz. della Normale, 2006, 371 ss.
[30]J.Fest, Io no. Memorie d’infanzia e gioventù, Milano, Garzanti, 2007. V. anche H.Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Pagine di storia della shoah, a cura di A.Chiappano e F.-Minazzi, Milano, Kaos ed., 2005, 191 ss.
[31]V. Di Porto, Le leggi della vergogna, Firenze, Le Monnier, 2000; Id., Il 1938 in Italia e in Germania, Spunti per una comparazione, in La Rassegna mensile di Israel, numero speciale n.2/2007, 225 ss. Per una rassegna della legislazione tedesca (con traduzione in lingua inglese) v. A.Tschentscher, Footprints of the Evil. Techniques of Nazi Lawmaking(March 27, 2010). SSRN: http://ssrn.com/abstract=1579414(consultato il 29.11.2020).
[32]R.Canosa, A caccia di ebrei, Milano, Mondadori, 2006; M.Franzinelli, Collaborazione e delazione, in Storia della Shoah in Italia, Torino, UTET, 2010, vol.I.V; S.Levis Sullam, I carnefici italiani, Milano, Feltrinelli, 2015; T.Schlemmer, Invasori, non vittime, Bari-Roma, Laterza, ed dig. 2019.
[33]G.L.Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1991. A cura di M.Battini e M.A.Matard Bonucci v. Antisemitismi a confronto: Francia e Italia, Pisa, Edizioni Plus - Pisa University Press, 2010.
[34]C.R.Browning, Uomini comuni, Torino, Einaudi, 1995; J.T.Gross, I carnefici della porta accanto, Milano, Mondatori, 2003.
[35]D.J.Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Milano, Mondatori, 1998.
[36]R.Franchini, 99 aforismi, Napoli, Giannini, 1976 (af.29).
[37]C. Lanzmann, Shoah, DVD con testi allegati, introduzione di F.Sessi e prefazione di S. de Beauvoir, Torino, Einaudi, 2007. Sulla nuova edizione dell’opera a 25 anni dalla prima uscita v. il commento di D.Denby in The New Yorkerdel 10.1.2011, “Look again”.
[38]D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino, Einaudi, 2009. Utili anche gli articoli di Giulio Busi raccolti in La Pietra nera del ricordo, Milano, IlSole24Ore, 2020.
[39]Di Pezzetti v. Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, Torino, Einaudi 2009.
[40]M. Blanchot, L'écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980, spec. p.130 ss. (ns. trad.)
[41]T.L.Cicciarella, La parabola di Corrado Cagli. Dagli attacchi razziali alla liberazione del campo di Buchevwald (1937-1945), che si legge in www.archiviocagli.com(consultato il 3.1.2021).
[42]G.Ray, Joseph Beuys and the after-Auscwitz sublime, in Terror and Sublime in Art and Critical Theory,New York, Palgrave MacMillan, 2005 (si legge in faculty.winthrop.edu, cons. il 3.1.2021).
[43]Esperienza straordinaria per chi ha potuto farla, l’ingresso attraverso una rampa nel buio totale nella grande camera di acciaio (profonda trenta metri ed alta tredici) inquieta e segna il visitatore. V. su YouTube HOW IT IS: Miroslaw Balka (G.Gheblawi) (consultato il 3.1.2021).
[44]C.De Matteis, Dire l’indicibile. La memoria letteraria della Shoah, Palermo, Sellerio, 2009.
[45]T.W.Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1981.
[46]R.Antelme, La specie umana, Torino, Einaudi, 1969.
[47]J. Semprùn, Il grande viaggio, Torino, Einaudi, 1990.
[48]C.Ozick, Lo scialle, Milano, Feltrinelli, 2003.
[49]A.Schwartz-Bart, L’ultimo dei giusti, Milano, Feltrinelli, 1961.
[50]P.Weiss, L’istruttoria, Torino, Einaudi, 1966.
[51]J. Littell, Le benevole, Torino, Einaudi, 2008. Le “benevole” sono le Eumenidi, che perseguitano il protagonista nella figura di due poliziotti nazisti che indagano sull’omicidio della madre, effettivamente da lui assassinata insieme al compagno.
[52]A.Emdin, Io sono del mio amato, Milano, Ugo Guanda Editore, 2020
[53]David Berger, ebreo polacco, cercò di sfuggire all’invasione tedesca rifugiandosi a Vilnius in Lituania; lì fu fucilato nel luglio del 1941, a 19 anni. La frase è tratta dalla sua ultima lettera all’amica Elsa.
[54]A.Margalit, La società decente, Milano, Guerini e associati, 1998; fondamentale di quest’Autore per ciò che ci interessa L’etica della memoria, Bologna, Il Mulino, 2006; J.Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008. Sulle teorie della giustizia utile a parere di chi scrive il riferimento a M.Sendel, Giustizia. Il nostro bene comune, Milano, Feltrinelli, 2010.
[55]Per la sintesi delle posizioni di Margalit sono debitore ai commenti di K.A.Appiah, You must remember this, in La Rivista dei Libri, maggio 2007, e di M.Bozzer, nella cit. Rivista telematica Deportati, Esuli, Profughe (DEP)dell’Università di Venezia, la cui lettura raccomando caldamente.
[56]Niemand / zeugt für den / Zeugen(ns.trad.).J.Derrida,Poetics and Politics of Witnessing(2004) inSovereignities in Question. The Poetics of Paul Celan,a cura di T.Dutoit e O. Pasanen, New York, Fordham University Press, 2005; Aschenglorieè nella raccolta di Celan del 1967 Atemwende.
[57]A.Margalit, L’etica della memoriacit., p.26. Importante il progetto dello Yad Vashem per assicurare, prima che sia troppo tardi, l’identificazione di tutte le vittime dello sterminio: www1.yadvas hem.org.
[58]R.Bodei, Libro della memoria e della speranza,Bologna, Il Mulino, 1995.
[59]P.Ricoeur, lecturetenuta a Budapest nel marzo 2003, Memory, history, oblivion,che si legge sul sito http://www.fondsricoeur.fr (consult. 29.11.2020); il testo consultato è Memory, history, forgetting,Chicago/London, University of Chicago Press, 2004.
[60]A.Russel, Signor nemico crudele: lei è stato perdonato, in Diario della settimana, III, n.10, 11.3.1998.
[61]P.Ricoeur, Le bon usage des blessures de la mémoire in Les résistances sur le Plateau Vivarais-Lignon (1938-1945), http://www.fondsricoeur.fr/uploads/medias/articles_pr/temoin-4.pdf(consultato il 29.11.2020); Id.,Témoins, témoignages et lieux de mémoires. Lesoubliés de l’histoire parlent, Polignac, Editions du Roure 2005. Il riferimento più generale è a P.Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato,Bologna, Il Mulino, 2004, i cui concetti principali sono sintetizzati nella lecturericordata in nota 62. Su Margalit e Ricoeur v. V.Bradford,On the Language of Forgetting, in Quarterly Journal of Speech 95.1 (2009), 89-104.
[62]P.Ricoeur, Le bon usage cit.
[63]http://www.desaparecidos.org/nuncamas/web/english/library/nevagain/nevagain_000.htm(consultato il 29.11.2020) la cui versione stampata in lingua inglese contiene una introduzione di Ronald D.Dworkin: NUNCA MAS: The Report of the Argentine National Commission on the Disappeared, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1986.
[64]“Wahr spricht, wer Schatten spricht”: P.Celan, Sprich auch du(Parla anche tu), in Von Schwelle zu Schwelle(1955) (trad. it. Di soglia in soglia,Torino, Einaudi, 1996).
La nuova proroga delle disposizioni emergenziali per i processi civili (d.l. 14 gennaio 2021, n.2). Una scheda di Franco Caroleo
Per il processo dell’emergenza, la stagione delle proroghe (a differenza di quella dell’amore cantata da Battiato) non conosce tregua. Lo scorso 14 gennaio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 2/2021 che, nel prorogare lo stato di emergenza epidemiologica, interviene indirettamente anche sul comparto giustizia.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 14 gennaio 2021, n. 2, “Ulteriori disposizioni urgenti in materia di contenimento e prevenzione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e di svolgimento delle elezioni per l’anno 2021”. (21G00002) (GU Serie Generale n. 10 del 14 gennaio 2021).
Le norme (indirettamente) riguardanti il processo civile
- art. 1, co.1.
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 1, co. 1, del d.l. n. 2/2021 recita: “All’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, le parole «31 gennaio 2021» sono sostituite dalle seguenti: «30 aprile 2021»”.
Il termine dello stato di emergenza (originariamente fissato al 31 gennaio 2021) è dunque prorogato al 30 aprile 2021.
Detto termine era stato individuato dall’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020, così come modificato dalla legge di conversione n. 176/2020, quale termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020 (questo il testo dell’art. 23, co. 1: “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9-ter. Resta ferma fino alla scadenza del medesimo termine l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”).
Conseguentemente, dalla proroga del termine fissato dall’art. 1, co. 1, d.l. n. 19/2020 deriva la proroga dell’operatività delle disposizioni emergenziali di cui agli artt. 23 d.l. n. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020.
Devono quindi ritenersi prorogati al 30 aprile 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Alessandro Pizzorusso e le riforme dell’ordinamento giudiziario: un ricordo a cinque anni dalla sua scomparsa[1]
di Francesco Dal Canto
Sommario: 1. Premessa - 2. La recente ripubblicazione di alcuni dei suoi numerosi scritti - 3. Il senso e l’obiettivo delle riforme in materia di ordinamento giudiziario - 4. La stagione delle riforme Castelli-Mastella - 5. Il Consiglio superiore della magistratura e la sua “politicizzazione” - 6. In conclusione.
1. Premessa
È per me un’emozione e un onore ricordare Alessandro Pizzorusso a cinque anni dalla sua scomparsa.
Ho avuto la fortuna di condividere con lui alcune esperienze professionali nella parte conclusiva della sua carriera e ho potuto sperimentare ciò che chiunque lo abbia incrociato ha senz’altro avvertito, ovvero la sua straordinaria cultura, la grande passione civile e l’integrità morale.
La sua sapienza sarebbe oggi molto utile per capire la delicata fase in cui si trova la magistratura all’indomani della gravissima crisi di legittimazione che l’ha investita dopo gli scandali dell’estate del 2019.
2. La recente ripubblicazione di alcuni dei suoi numerosi scritti
Di recente, soprattutto grazie al lavoro di Roberto Romboli, sono stati pubblicati, per i tipi dell’Editoriale scientifica, i due volumi de L’ordinamento giudiziario ove si raccolgono alcuni dei numerosissimi lavori che Pizzorusso ha dedicato a tale tema.
Il primo volume costituisce la ripubblicazione de L’organizzazione della giustizia in Italia, uscito per la prima volta nel 1982 e più volte rieditato per il grande successo riscontrato sia nella dottrina sia nella stessa magistratura; con tale opera, di impostazione manualistica, il Maestro intendeva recuperare una tradizione di studi risalente a Lodovico Mortara - autore del celebre Istituzioni di ordinamento giudiziario, pubblicato nel 1890 per l’editore Barbera - da lui ritenuto “il principale modello cui si debba guardare ai fini della realizzazione di una compiuta esposizione dei problemi dell’organizzazione della giustizia”[2].
Il secondo volume contiene invece una non semplice selezione - data la straordinaria prolificità di Pizzorusso - dei suoi contributi dedicati alla magistratura, raccolti in quattro principali aree: il modello italiano di ordinamento giudiziario, il ruolo della magistratura italiana nel sistema costituzionale, l’organizzazione degli uffici giudiziari e infine le riforme dell’ordinamento giudiziario.
A quest’ultima parte, ovvero al capitolo sesto del volume secondo de L’ordinamento giudiziario, è dedicato il presente intervento, in un periodo storico, a circa tredici anni dalla riforma Castelli-Mastella, in cui il tema è tornato prepotentemente al centro del dibattito. Si tratta di otto saggi, scritti tra il 1984 e il 2008, alcuni originariamente destinati ad essere pubblicati in riviste giuridiche, altri riproduttivi di interventi svolti in occasione di manifestazioni pubbliche, caratterizzati da un registro più vivace, talora pungente.
Pizzorusso spazia da un argomento all’altro dell’ordinamento giudiziario dando prova di una capacità incredibile di intrecciare le contingenze storico-politiche con le esperienze della propria vita, di magistrato, di docente, di componente del Consiglio superiore della magistratura, di intellettuale a tutto tondo, unitamente ad una mirabile capacità di inquadramento teorico-generale, sempre arricchito da una prospettiva alta, attenta alla storia e al diritto comparato. Colpisce la sua capacità di muoversi tra i diversi piani con padronanza e leggerezza.
Dalla rilettura di questi saggi risultano confermati due aspetti, uno oggettivo, l’altro soggettivo.
In primo luogo, appare evidente che l’ordinamento giudiziario è una materia dove tutto si tiene, dove è difficile parlare di un aspetto, e dunque anche incidere su di esso, senza dover prendere in considerazione anche altri; i suoi istituti sono fortemente interconnessi e dunque, come Pizzorusso spesso ricorda, necessitano di un intervento legislativo organico, ovvero di una legge generale e completa, come del resto è implicitamente richiesto dalla stessa Costituzione quando, in più occasioni, si riferisce alla legge sull’ordinamento giudiziario. Obiettivo che, purtroppo, come ancora Pizzorusso stigmatizza, non si è mai compiutamente realizzato; si è per lo più trattato di una “promessa non mantenuta”[3].
In secondo luogo, viene in risalto un aspetto più intimo. Tanto Pizzorusso era morbido e conciliante nelle relazioni personali quanto era rigido e severo nel giudicare la realtà intorno a lui. Un uomo mite e rigoroso, talora disincantato, ma mai rassegnato né indifferente, anzi capace in certi momenti di una passione civile che sapeva trasformarsi in rabbia; un sentimento che, sul piano intellettuale, dovrebbe probabilmente essere talora rivalutato.
3. Il senso e l’obiettivo delle riforme in materia di ordinamento giudiziario
Rileggendo i saggi sulle riforme, scelgo di mettere brevemente a fuoco tre temi ricorrenti e oggi di particolare attualità: a) il senso e l’obiettivo che dovrebbero avere le riforme; b) la riforma Castelli-Mastella del 2005-2007; c) il Consiglio Superiore della Magistratura.
Iniziando dal primo tema, può innanzi tutto dirsi che le prospettive di revisione costituzionale riguardanti il titolo IV della Parte II della Costituzione sono sempre guardate da Alessandro Pizzorusso con grande diffidenza e con toni sovente aspri e liquidatori, come si evince, ad esempio, dai pochi passaggi dedicati soprattutto ai lavori della Commissione bicamerale D’Alema del 1997[4].
Delle riforme legislative, invece, Pizzorusso si occupa spesso. Egli osserva che il principale obiettivo che con esse dovrebbe essere perseguito è quello della “difesa del modello” di ordinamento giudiziario delineato nella Costituzione, il quale, semplicemente, prevede “una certa figura di giudice e di pubblico ministero e affida al Consiglio Superiore della Magistratura le funzioni strumentali per realizzare tali figure”; mentre “non merita certamente di essere difesa una realtà di fatto che è ancora in larga misura informata all’ordinamento burocratico della magistratura quale era prevista negli ordinamenti anteriori, con le loro logiche carrieristiche e con la loro visione riduttiva del ruolo del diritto”[5].
Il modello da difendere è quello concepito dai Costituenti in continuità con un’importante tradizione di pensiero che ha avuto prima in Lodovico Mortara e successivamente in Piero Calamandrei i suoi principali teorici, in una sorta di staffetta ideale[6]. Sulla base di tali idee, l’ordinamento giudiziario italiano ha potuto progressivamente emanciparsi dal modello burocratico-amministrativo dal quale era derivato, assumendo, seppur con varie difficoltà e attraverso numerose tappe, una sua precisa identità a partire dall’entrata in vigore della Costituzione.
L’impostazione data ai problemi dell’ordinamento giudiziario dal Titolo IV deve essere per Pizzorusso assolutamente tutelata; egli chiosa, sconsolatamente, che in fondo quella dell’Assemblea costituente è stata “la sola breve stagione in cui il nostro paese si è indirizzato unitariamente e con entusiasmo sulla via della libertà e della democrazia”[7].
Le riforme, dunque, devono porsi come obiettivo quello di proseguire nell’attuazione dei principi costituzionali laddove essa è stata interrotta, deviata o in alcuni casi neppure iniziata. Se certamente molti passi in avanti si sono compiuti dal 1948, ciò è stato possibile più che per opera del legislatore, intervenuto quasi sempre senza una visione unitaria, grazie soprattutto al Consiglio Superiore della Magistratura, che ha tenacemente sottoposto, tra le molte critiche e qualche battuta d’arresto, le regole dell’ordinamento giudiziario ad una costante lettura adeguatrice rispetto ai principi costituzionali[8].
Pizzorusso riconosce che un’apprezzabile spinta riformista si è in verità registrata soprattutto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta[9], ovvero in un periodo di grande fermento culturale nel quale, anche grazie all’associazionismo dei magistrati che stava vivendo “il suo momento migliore”, si è realizzata l’idea moderna di giudice e di giurisdizione, in parallelo con il consolidarsi dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura e con la democratizzazione interna della stessa.
Successivamente tale spinta si è indebolita e ha preso forza, sia in alcuni ambienti politici sia in una parte della stessa magistratura, uno “schieramento trasversale conservatore”, che non soltanto ha ostacolato le riforme legislative ma ha anche talora frenato, o non adeguatamente valorizzato, i tentativi dell’organo di governo della magistratura di implementare la Costituzione attraverso “misure amministrative specifiche”; la politica, in tale frangente, ha spesso preferito “dare una cattiva immagine del Consiglio Superiore della Magistratura”, con “luoghi comuni e frasi fatte”[10].
4. La stagione delle riforme Castelli-Mastella
Con riguardo alla stagione delle riforme Castelli-Mastella, l’idea di Pizzorusso è chiara.
Tale stagione è stata accompagnata da un massaggio ingannevole, ovvero quello secondo cui con tali provvedimenti si dava finalmente attuazione, a distanza di quasi sessant’anni, all’art. 108 Cost., a mente della quale “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni altra magistratura sono stabilite con legge”, e alla VII disposizione transitoria e finale, ai sensi della quale, “fino a quando non sia emanata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell’ordinamento vigente”. Del resto, doveva riconoscersi che nessuno dei governi succedutisi dal 1948 al 2005 aveva mai presentato alle Camere neppure un disegno di legge volto ad assolvere tale impegno; l’attesa di una legge generale sull’ordinamento giudiziario si era protratta quindi negli anni e la Costituzione era rimasta, per tutto questo tempo, almeno in parte, disattesa. La legge Castelli, dunque, aveva buon gioco a presentarsi come l’attesa legge organica sull’ordinamento giudiziario.
E tuttavia, come anticipato, Pizzorusso osserva, senza mezzi termini, che “tale modo di presentare la vicenda, fatto proprio dalla maggioranza politica del tempo, presenta aspetti assolutamente paradossali”[11]. L’ordinamento giudiziario del 2005, infatti, come sopra ricordato, era assai diverso da quello ereditato nel 1948 e, nonostante la mancata attuazione della VII disposizione transitoria, esso si era progressivamente trasformato in un modello del tutto inedito e soprattutto assai più conforme ai “nuovi” principi costituzionali.
La legge n. 150 del 2005, dunque, non era affatto la legge da tempo attesa.
Anzi, essa affrontava alcune criticità reali dell’ordinamento giudiziario con soluzioni non allineate con i principi costituzionali, con il chiaro obiettivo di “ripristinare il vecchio ordinamento Grandi del 1941, ossia il modello francese di ordinamento giudiziario”; si trattava pertanto di una legge “irrimediabilmente incostituzionale”, un “tentativo di restaurazione di un passato che rifiutava alla magistratura un’adeguata condizione di indipendenza”[12].
E anche nei confronti delle due successive leggi Mastella (n. 269 del 2006 e n. 111 del 2007) il giudizio non è particolarmente generoso. A tale proposito, Pizzorusso ricorda che nel programma elettorale del centrosinistra si era esplicitamente riconosciuto che la legge Castelli aveva delineato una figura di magistrato “non in linea con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura” e che, per tale ragione, occorreva elaborare una nuova disciplina per “rimuovere gli aspetti del nuovo ordinamento in contrasto con i principi costituzionali”[13].
Per Pizzorusso tale promessa non è stata del tutto mantenuta: egli non nasconde la propria insoddisfazione dinanzi alle leggi Mastella, che valuta come una sorta di “razionalizzazione dell’architettura introdotta” in precedenza, mentre sarebbe stata necessaria l’abrogazione totale della disciplina del 2005 e una riscrittura complessiva della riforma.
5. Il Consiglio superiore della magistratura e la sua “politicizzazione”
Vengo ora ai saggi nei quali si affronta il tema del Consiglio Superiore della Magistratura.
In un contributo del 1984[14], Pizzorusso esamina un disegno di legge volto a modificare il sistema elettorale per il rinnovo dei componenti togati, introdotto nel 1975, al fine dichiarato di superare il sistema proporzionale per liste concorrenti e contrastare l’eccessiva “politicizzazione” dell’organo di governo della magistratura.
Pizzorusso saluta questo tentativo di riforma, che poi non sarà approvato, in modo lapidario: “giorni bui si annunciano”[15].
Egli si domanda quale tipo di politicizzazione intenda in realtà contrastare il progetto e, a tale proposito, osserva: l’obiettivo non è tanto quello del “collegamento di questo o quel magistrato con questo o quel partito”, bensì “l’atteggiamento culturale che la maggioranza dei magistrati italiani ha assunto da quando essi hanno compreso che il ruolo dei giudici indipendenti non deve essere quello di un corpo di funzionari che esprime ad occhi più o meno bendati la volontà degli altri poteri dello Stato, bensì quello di un gruppo di tecnici del diritto capaci non soltanto di leggere e interpretare le disposizioni legislative ma anche di cogliere e perseguire i valori in base ai quali devono essere risolte le alternative proposte dall’impiego delle varie tecniche interpretative e per tradurre risultati di questa elaborazione culturale in decisioni quanto più è possibile appropriate alle particolarità dei fatti sottoposti al loro esame”.
In altre parole, sebbene esistesse, già allora, una politicizzazione da combattere, il timore di Pizzorusso era che la riforma, riducendo il ruolo delle correnti nel C.S.M., si ponesse come vero obiettivo quello di invertire la tendenza rispetto alla “maturazione culturale” che aveva caratterizzato la magistratura negli ultimi anni; ciò che si era potuto realizzare proprio grazie alla vita associativa e alle correnti, che avevano costituito la linfa essenziale della crescita culturale dei magistrati.
Com’è evidente, si tratta di una riflessione drammaticamente attuale.
Certo, Pizzorusso non ha vissuto, per sua fortuna, il declino che hanno conosciuto le correnti negli ultimi anni, trasformatesi in larga parte da motori di pluralismo ideale all’interno della magistratura a centri di interessi particolari e corporativi. E tuttavia, il suo approccio è ancora valido: una cosa è il pluralismo culturale, che è un valore da preservare, altro è la lottizzazione, che è una degenerazione da combattere. Il collegamento tra associazionismo giudiziario e designazione dei componenti togati deve essere preservato perché, ora come allora, trova la sua principale ragione proprio nella garanzia del pluralismo all’interno del collegio, senza contare che tale nesso rileva anche sul piano della responsabilizzazione degli eletti, che si traduce in una forma di pur lato “controllo” (in senso atecnico) del modo con il quale viene esercitata la funzione.
Pizzorusso ritiene che, per tali ragioni, la migliore legge elettorale per il C.S.M. sia quella proporzionale, perché occorre una “rappresentatività quanto più possibile diffusa” e “l’associazionismo deve esercitare un ruolo determinante, anche se vanno eliminati gli inconvenienti”[16].
E ancora, Pizzorusso precisa che “non serve un C.S.M. di notabili ma di rappresentanti”[17].
E il pensiero corre ancora una volta all’attualità e, in particolare, al disegno di legge Bonafede (A.C. 2681), presentato alla Camera il 28 settembre 2020, laddove esso persegue l’idea di un sistema prevalentemente basato su candidature individuali - in continuità con la soluzione già oggi prevista dalla legge n. 44/2002 - e collegi elettorali uninominali molto ristretti. Si tratta, nel dettaglio, di una formula estremamente sofisticata, a tratti quasi fantasiosa; e tuttavia, è evidente che tale sistema, favorendo un legame molto stretto tra eletto e territorio, comporta il rischio dell’insorgenza di rapporti molto ripiegati sul territorio[18]. Tuttavia, come Pizzorusso sottolineava molto tempo fa, il “ritorno al territorio” può determinare un vizio non meno grave di quello rappresentato dallo strapotere delle associazioni: ovvero quello del localismo e, appunto, del notabilato.
6. In conclusione
Concludo questo breve ricordo osservando come Alessandro Pizzorusso si sia trovato molto spesso in anticipo sui tempi e che, per tale ragione, le sue considerazioni sui temi dell’ordinamento giudiziario e della giustizia rimangono oggi di straordinaria forza e attualità.
Lo sottolineo, ancora una volta, pensando alla citata proposta Bonafede; sebbene il principale obiettivo che ha mosso il legislatore sia stato quello, come detto, di modificare la legge elettorale per il rinnovo dei componenti togati del C.S.M., si tratta di una riforma vastissima e delicata, che tocca numerosi aspetti della disciplina dell’ordinamento giudiziario.
Assai utile allora tornare ai lavori di Pizzorusso. A volte, per trovare le chiavi per comprendere la realtà, non c’è nulla da inventare, è sufficiente “rileggere”.
[1] Il contributo costituisce la rielaborazione di un intervento tenuto il 15 dicembre 2020 al seminario organizzato dal Corso di dottorato in Scienze giuridiche dell’Università di Pisa intitolato Ricordando Alessandro Pizzorusso.
Tale ricordo ha preso spunto dalla lettura di due volumi, recentemente pubblicati, A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, Vol. I e II, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, nei quali sono stati riprodotti alcuni dei moltissimi lavori che Pizzorusso ha dedicato a tale settore.
[2] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1982, 5.
[3] A. Pizzorusso, La magistratura nella situazione politica italiana, in Foro it., 1997, V, 113ss. e in L’ordinamento giudiziario, vol. II, Napoli, 2019, 1121ss.
[4] A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Milano. 1994, 131ss e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1102ss.
[5] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), in Questione giustizia, 1993, 757ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1087.
[6] A. Pizzorusso, La magistratura nella situazione politica italiana, cit., 1110ss.
[7] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1092.
[8] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1086ss.
[9] A. Pizzorusso, La magistratura nella situazione politica italiana, cit., 1115s., che cita G. Maranini (a cura di), Magistrati o funzionari? Milano, 1962.
[10] Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1086.
[11] A. Pizzorusso, La riforma con legge ordinaria del Titolo IV della Costituzione, in Foro it., 2006, V, 1ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1121ss.
[12] A. Pizzorusso, La riforma con legge ordinaria del Titolo IV della Costituzione, cit., 1128.
[13] A. Pizzorusso, Non ancora maturi i tempi per un ordinamento giudiziario che attui il Titolo IV della parte seconda della Costituzione, in AA.VV., La riforma dell’ordinamento giudiziario, in Legislazione penale, 2006, 683ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1132.
[14] A. Pizzorusso, Su alcune recenti proposte di riforma del C.S.M., in Legalità e giustizia, 1984, 878ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1058.
[15] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quaderni costituzionali, 1989, 471ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1082.
[16] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., cit., 1080ss.
[17] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1090.
[18] In argomento, volendo, F. Dal Canto, Le prospettive di riforma elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in corso di pubblicazione negli atti del convegno del “Gruppo di Pisa” del 23 ottobre 2020 su Il Consiglio Superiore della Magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma.
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell’Avvocatura in Turchia
Un reportage di Barbara Spinelli
Parte Terza: Ebru e noi
Ebru ci ha lasciato un’eredità impegnativa, interrogarci sul ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti e dello stato di diritto.
Pubblichiamo oggi la terza parte del reportage in ricordo della Giornata Internazionale dedicata all'Avvocatura in pericolo che si celebra il 24 gennaio di ogni anno per commemorare il massacro di Atocha, a Madrid, del 24 gennaio 1977, in cui furono uccisi 5 avvocati esperti di diritto del lavoro, nel periodo di transizione tra la dittatura franchista e la democrazia, e che per due anni è stata dedicata all'avvocatura turca, nel 2010 e nel 2019.
(Alla fine dell'articolo i link della parte prima e della parte seconda del reportage e i pdf della parte terza e dell'intero reportage)
Sommario: 1. La scelta di Ebru e le responsabilità di stato - 2. La lotta per la difesa del giusto processo e delle giuste condizioni detentive - 3. Il nuovo arresto di Aytaç Ünsal - 4. Conclusioni.
1. La scelta di Ebru e le responsabilità di stato
«Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità».
(27 marzo 1958, In Your Hands, Eleanor Roosevelt).
Ebru Timtik ed Aytac Ünsal erano detenuti dal 12 settembre 2018 con l'accusa di appartenenza al Fronte di liberazione popolare rivoluzionario fuorilegge (DHKP-C). Il 20 marzo 2019, la 37a Alta Corte penale di Istanbul aveva condannato Timtik a 13 anni e sei mesi e Ünsal a 10 anni e sei mesi.
Entrambi erano imputati in due maxiprocessi che vedevano coinvolti i membri della loro associazione, il c.d. “processo CHD1”, ed il “processoCHD 2”.
Nel processo ÇHD1 sono imputati 22 avvocati, tutti membri dell'associazione ÇHD (Associazione dei giuristi progressisti). Il 18 gennaio 2013 le loro abitazioni sono state perquisite dalla polizia turca alle 4 di notte, in violazione dell'art. 118 del codice di procedura penale turco. Dapprima sono stati arrestati 22 avvocati, poi altri 7 dopo pochi giorni. Il Presidente dell'associazione è stato in carcere per oltre un anno. Questo processo, come il processo KCK, inizialmente era di competenza di Corti Speciali antiterrorismo, successivamente dichiarate anticostituzionali, in quanto prevedevano restrizioni al diritto di difesa contrarie ai principi CEDU. Molte sono le questioni sollevate dai colleghi nel processo riassunto davanti al Tribunale ordinario: dalla mancata richiesta di autorizzazione al Ministero della Giustizia per le perquisizioni nelle case e negli uffici legali dei colleghi, alle intercettazioni illegittimamente acquisite. Le indagini di polizia sono state caratterizzate da macroscopiche irregolarità. Per fare un esempio: in uno dei capi d’imputazione del processo ÇHD nei confronti degli avvocati, era stata considerata una prova dell'appartenenza dei legali ÇHD all'organizzazione terroristica DHKP/C il fatto che un comunicato stampa rilasciato dagli avvocati in occasione dell'arresto di alcuni membri dell'associazione fosse stato ripreso e pubblicato su un sito internet che, secondo l'imputazione, apparteneva alla struttura organizzativa stessa (!), oppure il fatto che un avvocato avesse incontrato a cena in vacanza uno dei propri assistiti, che avesse partecipato al funerale del proprio assistito (!), oppure il fatto che statisticamente la maggior parte degli arrestati appartenenti al gruppo fosse difeso da avvocati dell'associazione ÇHD. Una delle accuse principali nei confronti degli avvocati imputati è l'aver suggerito ai loro assistiti di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande della polizia mentre erano in stato di arresto, producendo una statistica che dimostrava che il numero di loro assistiti che esercitavano il loro diritto al silenzio era più alto rispetto alla media. Inoltre, secondo l'accusa, gli imputati sono colpevoli di aver istruito i loro assistiti per continuare lo sciopero della fame in carcere e quindi nel perseguimento degli obiettivi del DHKP-C. Non c'era alcuna prova diretta di ciò, ma l'accusa ha cercato di attirare l'attenzione sul fatto che i singoli prigionieri hanno continuato a seguire il digiuno dopo la visita da parte dei loro avvocati, per cui loro durante i colloqui devono aver trasmesso istruzioni ai prigionieri per continuare gli scioperi della fame. Molti anche gli episodi incresciosi avvenuti nel corso delle udienze: dalle violenze della polizia nei confronti dei colleghi mentre chiedevano di parlare con il Pubblico Ministero nel suo ufficio, alla carica di polizia nei confronti dei colleghi dentro e fuori il Tribunale, mentre tenevano la conferenza stampa dopo l'udienza. Il giudice che presiedeva il collegio in più occasioni ha agito in modo aggressivo nei confronti degli imputati e degli avvocati della difesa. In due occasioni il Presidente ha iniziato a urlare contro gli imputati e, contrariato per la risposta degli avvocati, ha sgombrato la stanza del tribunale. Un avvocato difensore ha chiesto le scuse del Presidente per la sua condotta, senza ottenerle. L'imputazione dei colleghi è stata favorita dalla riforma della normativa in materia di terrorismo del 2004, che ampliava le ipotesi di istigazione, propaganda e partecipazione all'associazione terroristica in palese violazione del principio di tassatività.
L’Associazione dei Giuristi Progressisti (Çağdaş Hukukçular Derneği) conta circa 2000 membri (su circa 85000 avvocati in Turchia). In esecuzione del decreto emergenziale del 22 novembre 2016 ÇHD è stata dichiarata illegale ed i suoi uffici sigillati ed i suoi beni confiscati. Da allora la persecuzione nei confronti dei colleghi appartenenti a tale associazione si è intensificata, dando origine anche al processo ÇHD2.
Sia Ebru che Aytac, insieme al Presidente dell’associazione Selçuk KOZAĞAÇLı ed altri 17 avvocati membri di ÇHD, sono accusati nel processo ÇHD2 di appartenenza ad un'organizzazione terroristica (DHKP-C, il Partito / Fronte Rivoluzionario per la Liberazione del Popolo). Alcuni degli avvocati sono anche accusati di essere leader del DHKP-C. Otto di loro sono anche imputati nel processo ÇHD1. Gli avvocati che sono accusati in entrambi i processi sono accusati dello stesso reato, l'appartenenza all'organizzazione terroristica, DHKP-C.
Da novembre 2017 Selçuk KOZAĞAÇLI è detenuto in isolamento nel carcere di Silivri. Sta soffrendo a causa dell'isolamento. Le sue ripetute richieste di contatti occasionali con altri prigionieri sono state respinte. Gli osservatori internazionali nutrono forti riserve circa l'ordine di detenzione preventiva nei confronti di Selçuk KOZAĞAÇLı[1]. Lui e altri 7 imputati sono stati accusati per gli stessi fatti del processo CHD1, in violazione del principio del ne bis in idem, e sono stati posti in custodia cautelare in carcere sebbene per le medesime accuse nel primo procedimento la sua custodia cautelare, 4 anni fa, venne revocata[2].
Al momento della morte di Ebru era pendente il ricorso davanti alla corte di cassazione turca.
Ebru aveva iniziato lo sciopero della fame a pochi giorni di distanza dal collega Aytaç Ünsal, membro della sua stessa associazione, la Çağdaş Hukukçular Derneği, per chiedere un processo equo e condizioni detentive giuste per sé, per gli altri avvocati detenuti e per i propri assistiti in carcere.
Il 5 aprile 2020, giorno che in Turchia è dedicato all’avvocatura, hanno iniziato lo sciopero della fame fino alla morte, privandosi dei nutrienti essenziali alla loro sopravvivenza.
La loro speranza era che, grazie anche alle pressioni internazionali, le autorità cambiassero idea, ed includessero nell’amnistia di prossima approvazione anche i detenuti politici, in particolare quelli gravemente malati[3]. Nelle carceri, incluse quelle dove loro erano reclusi, imperversava il covid, sia tra i detenuti che tra le guardie carcerarie. Le celle erano state igienizzate una tantum, scarseggiavano i dispositivi di protezione. Nelle loro fragili condizioni, la situazione era potenzialmente letale. Tuttavia la loro richiesta è rimasta inascoltata[4].
Il loro sciopero della fame è stato un calvario vissuto collettivamente insieme agli avvocati turchi ed agli avvocati espatriati dalla Turchia, da noi osservatori internazionali, con il compito di coordinare le azioni di informazione e di solidarietà.
Ogni giorno nuove notizie, ogni giorno nuove forme di tortura. La paura del contagio in quel carcere con 88 casi covid positivi acclarati tra polizia penitenziaria e detenuti[5], la speranza sfumata dell’amnistia, il peso in costante calo, e poi le ulcere alla bocca ed alla gola, e l’inizio della fine. Le inutili petizioni alle autorità turche da avvocati di tutto il mondo, l’ennesima delusione nella risposta da parte della Corte EDU[6]. Fino alla fine, con la speranza che quel finale fosse evitabile.
Già prima della pandemia la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva con più sentenze condannato la Turchia per l'incapacità di offrire adeguate cure mediche ai detenuti malati o di rilasciare i malati terminali, in violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti e del diritto alla vita. Anche il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa nei suoi rapporti aveva espresso le medesime preoccupazioni. Nonostante ciò, le voci dal mondo che chiedevano l’estensione dell’amnistia anche ai detenuti vulnerabili ed agli avvocati, sono rimaste inascoltate, così come quelle che chiedevano la liberazione immediata dei due colleghi in sciopero della fame. Il C.N.F. ha chiesto al Presidente Conte ed al Ministro degli Esteri Di Maio di intervenire per l’immediata liberazione dei colleghi, e si sono associati gli Ordini locali di tutta Italia, oltre 70. I Giuristi Democratici hanno coordinato l’associazionismo forense per la mobilitazione in solidarietà ai colleghi turchi, attraverso foto, video, comunicati, dall’Italia e dal mondo. Dagli Ordini di Parigi e Madrid fino alla prestigiosa American Bar Association.
E’ ancora in atto uno sciopero della fame a staffetta promosso dagli avvocati di M.G.A - sindacato nazionale forense.
Oggi c’è chi si interroga se la responsabilità della morte di Ebru sia da rinvenirsi in chi ha tardato a decidere sulla richiesta di scarcerazione per via delle ferie giudiziarie in corso, in chi le ha rifiutato cure mediche di fiducia e l’ha costretta a trascorrere i suoi ultimi giorni in un luogo inidoneo, nel quale le sue condizioni di salute si sono gravemente e velocemente aggravate per via delle luci perennemente accese, dei rumori, del freddo, dell’obbligo di rispondere alle guardie penitenziare ogni ora circa il rifiuto di alimentazione forzata, nonostante le ulcere alla bocca ed alla gola le impedissero di parlare…
Su questo dovrà essere fatta luce.
13 Relatori Speciali dell’ONU, in un comunicato congiunto[7] hanno affermato che hanno la morte di Timtik era "del tutto evitabile" e che "Nessuno dovrebbe morire per ottenere un processo equo; è un diritto umano fondamentale. Questo è un totale spreco di una vita umana, e siamo molto costernati per la morte di questa coraggiosa donna difensore dei diritti umani, così come per le circostanze che hanno portato alla sua morte". Si sono dichiarati dispiaciuti per il fatto che “poco sia stato fatto dalle autorità per evitare questo tragico risultato" ed hanno chiesto un'indagine efficace sulla sua morte.
Aytaç Ünsal ha affermato in un’intervista all’agenzia stampa Bianet che Ebru è stata uccisa dall'indecisione della Corte di Cassazione. In realtà non c'era nessuna indecisione. Ebru Timtik stava per essere giustiziata. La decisione era stata presa a porte chiuse. L'esecuzione è stata fatta per mano di alti organi giudiziari”.
Quello che è certo, è che non è stata sufficiente la sua “esecuzione”. Come nella peggiore delle tradizioni, all’esecuzione è seguita la vendetta sul corpo del nemico ucciso.
Ebru ha perso la vita all'ospedale Dr. Sadi Konuk nel distretto di Bakırköy di Istanbul, dove era tenuta contro la sua volontà. Il suo corpo è stato poi portato all'Istituto di medicina legale (ATK) nel distretto di Yenibosna. La polizia ha sequestrato il suo corpo, rifiutandosi di consegnarlo alla sua famiglia nel timore che le autorità impedissero la sua sepoltura. La polizia ha sigillato l'area intorno all’Istituto e schierato diversi camion di cannoni ad acqua, mentre un elicottero della polizia girava sopra l’area. Ebru è stata portata direttamente dal dipartimento medico legale alla casa culturale Alevi nel quartiere Gazi di Istanbul dalla polizia per impedire agli avvocati della sua associazione di avvocati e agli amici di portarla lì in corteo. La polizia, sostenuta da veicoli blindati, si è scontrata con i sostenitori della Timtik in varie parti di Istanbul, in scene caotiche, mentre un elicottero della polizia si librava sopra la testa, poi ha sparato raffiche di gas lacrimogeni mentre gli amici e i sostenitori della Timtik si avvicinavano al cimitero nella periferia nord di Istanbul dove il suo corpo è stato sepolto. Una folla oceanica cantava slogan di acclamazione per la defunta "Ebru Timtik è immortale" e gridava rabbia per quella morte ingiusta "lo stato assassino sarà chiamato a rispondere", così la polizia anti-sommossa con i caschi e armata di scudi ha minacciato di attaccare la folla se non avesse smesso di cantare, e li ha inseguiti una volta finita la cerimonia.
Alla sorella Barkin Timtik, anche lei in carcere con le medesime imputazioni, è stata negata la partecipazione al funerale, con la scusa della pandemia.
Il Procuratore Capo di Istanbul ha avviato un'indagine contro il presidente dell'Ordine degli avvocati di Istanbul ed i consiglieri, per la gigantografia di Ebru esposta fuori dall’edificio dell’Ordine. Nell’immediatezza dei fatti il ministro degli interni Süleyman Soylu aveva già condannato il gesto come atto di terrorismo, prima ancora che le indagini fossero iniziate: "Condanno fermamente coloro che hanno appeso la fotografia di un membro di un'organizzazione terroristica all'Ordine degli avvocati di Istanbul".
E poi, a pochi mesi dalla morte di Ebru, l’arresto della sua praticante, che era diventata avvocata da solo un anno, Seda Şaraldı, che si stava occupando anche di aiutare Aytaç Ünsal nella sua riabilitazione.
2. La lotta per la difesa del giusto processo e di giuste condizioni detentive
Ebru Timtik è morta dopo 238 giorni di sciopero della fame. Era affamata di giustizia, e voleva cercarla anche dal carcere dove si trovava, dare un significato a quell’esperienza e non subire passivamente la negazione dei diritti nei suoi confronti, nei confronti degli altri colleghi detenuti, dei suoi stessi assistiti detenuti. Voleva condividere lo stesso destino dei suoi assistiti, che avevano scelto anch’essi di lottare per i propri diritti, accettando la morte quale conseguenza estrema della loro negazione.
Prima di lei, avevano già perso la vita nello stesso modo altri suoi assistiti, i membri della band Grup Yorum: Ibrahim Gökçek, di 40 anni, Helin Bölek e Mustafa Koçak, di 28, avevano smesso di mangiare perché per le loro idee politiche dal 2016 gli era stato vietato di fare concerti, e per chiedere un giusto processo e la liberazione nell’attesa del giudizio per l’accusa di terrorismo, fondata esclusivamente sui contenuti della loro attività artistica[8].
Le parole consegnate alla storia da Ebru Timtik in un video su Twitter riprese da un telefono cellulare in maniera amatoriale, urlate in un corridoio del Tribunale Caglayan di Istanbul, il più grande d’Europa, sono lapidarie: «Se un’avvocata muore, domanderà giustizia dalla sua tomba! Romperemo tutte le nostre catene, vogliamo libertà per gli avvocati, libertà di difendere i nostri assistiti, libertà!».
Ebru voleva solo fare l’avvocata. Voleva garantire una difesa ai suoi assistiti. Rivendicava in quanto detenuta, per sé e per gli altri, quei diritti che venivano sistematicamente violati. Cose semplici, come poter leggere un libro. Era affamata di giustizia.
Come ho già scritto per Il Dubbio[9], dopo il colpo di stato, all’indomani della proclamazione dei liberticidi decreti emergenziali e della serie di arresti che ne è conseguita, un collega mi disse che la Turchia si stava trasformando in una prigione a cielo aperto, che comprendeva chi era fisicamente in carcere, chi sapeva che prima o poi, in ragione del proprio lavoro o della banale espressione della propria opinione sui social media, ci sarebbe potuto finire, e chi di fatto aveva già le mani legate, avendo perso il lavoro ed avendo i propri beni congelati dal governo e nessun mezzo giudiziario per difendersi.
Il ruolo degli avvocati è stato essenziale per segnare la via della democrazia, per invocare il giusto processo, per dare una speranza di giustizia. Per le sue parole di denuncia e di pace è stato ucciso l’avvocato Tahir Elçi, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, e sono stati detenuti gli avvocati Taner Kilic, presidente di Amnesty International e Selahattin Demirtaş, leader del partito di opposizione HDP, ancora in carcere sebbene la CEDU ne abbia chiesto per ben due volte la scarcerazione.
Ebru, detenuta all’esito di un ingiusto processo, privata della possibilità di difendere e di difendersi, con lo sciopero della fame ha scelto di fornire al mondo una prova materiale del grado di crudeltà al quale il regime turco può arrivare. Sebbene vulnerabile, ha continuato a lungo ad essere detenuta in un carcere con molti contagiati dal covid.
Le è stato negato il diritto a consultare un medico di fiducia. E’ stata trattenuta in un ospedale militare in condizioni paradetentive incompatibili con il suo stato di salute.
Ha chiesto alla Corte Europea di disporre una misura urgente per preservare la sua salute, di poter continuare la misura cautelare in un ambiente compatibile con le sue condizioni e di poter consultare un medico di fiducia, ma la decisione non è arrivata in tempo, lei è morta prima, consumata dall’indifferenza di un dittatore per le persone che tiene in custodia.
Ebru non ha mai smesso di credere nella possibilità di ottenere giustizia, malgrado tutto.
Ebru voleva vivere, perché la sua vita avrebbe accesso per tutti una fiammella di speranza di giustizia, di necessità di portare avanti la resistenza non violenta al regime, con tutti i mezzi a disposizione, per ripristinare lo stato di diritto, il godimento dei diritti.
Come ha giustamente scritto il suo collega Aytaç Ünsal, ora Ebru «sta nascendo nei cuori e nelle menti delle persone». Non un’estremista che ha scelto il martirio per fanatismo, ma un’avvocata che ha scelto la lotta non violenta al regime, che ha rivendicato il diritto ad avere diritti anche degli ultimi, dei più vulnerabili, degli invisibili dietro le sbarre, dei nemici. Si è seduta dalla parte del torto, ed è morta affinché altre ed altri si sedessero accanto a lei.
All’epoca della morte di Ebru, mi fece molta tenerezza la notizia della chiamata di Nasrin Sotoudeh dal carcere al marito Reza Khandan, nel corso della quale Nasrin aveva espresso rammarico per la morte dell’avvocata Ebru Timtik ed aveva inviato le sue condoglianze alla famiglia. Anche Nasrin, come Ebru, si trovava in precarie condizioni di salute, e continuava a condurre dal carcere la sua battaglia per i diritti umani. Dopo la morte di Ebru, anche Nasrin ha iniziato uno sciopero della fame che ha ulteriormente aggravato le sue condizioni di salute, e solo grazie alle pressioni internazionali ora può godere di alcuni giorni di permesso per cure mediche, che le consentono di fare dentro e fuori dal carcere, mantenersi viva, continuare la sua lotta, riabbracciare la sua famiglia.
A Ebru questa chance non è stata concessa: Ebru ha donato la sua vita per la giustizia, non solo per lei e per gli altri avvocati coimputati, ma per tutte le vittime delle purghe di Erdoğan, dell’ingiusto processo in Turchia, per tutti i detenuti di opinione i cui diritti sono stati violati, per tutti quelli indebitamente esclusi dall’amnistia, per tutti quelli i cui bisogni non sono stati ascoltati. Anche al di fuori dei suoi confini. Sono certa che molto della lotta di Ebru vive ora in Nasrin, che, con il suo gesto, ha raccolto idealmente il testimone dalla sua cella nel Paese confinante.
Il gesto di umanità di Ebru, il suo ultimo atto difensivo come avvocata del popolo, lo sciopero della fame fino alla morte, un’arringa muta, in cui a parlare era il corpo, avendo perso ogni efficacia le parole, si è incarnato nel suo cadavere, trenta chili di pelle ed ossa, che ha messo il mondo davanti alla drammaticità dell’indifferenza del regime turco per il rispetto dei diritti umani fondamentali, molto prima del “me ne frego” di Erdoğan davanti alle sentenze della Corte EDU[10] .
L’effetto farfalla che ha scatenato la morte di Ebru è di una potenza impressionante: l’opinione pubblica internazionale è rimasta basita dal fatto che Erdoğan abbia lasciato morire di fame un’avvocata in carcere, ed abbia apertamente minacciato di rappresaglie tutti gli avvocati che avevano dimostrato solidarietà alla collega defunta; i media ed i politici italiani ed europei improvvisamente hanno aperto gli occhi davanti a tutte quelle gravissime violazioni dei diritti umani che hanno fino ad oggi hanno deliberatamente ignorato quando denunciate dai detenuti vivi o dagli osservatori internazionali. Gli avvocati italiani, che da mesi compatti chiedono al Governo italiano di intervenire per la liberazione dei colleghi turchi, sono rimasti basiti per l’assoluto silenzio del Presidente del Consiglio (anche lui “avvocato del popolo”, un suo collega!) e dei Ministri davanti alla morte di Ebru e per l’assenza di qualsiasi riscontro alle richieste formulate; la comunità dei giuristi europei è indignata per il rigetto della misura urgente richiesta da Unsal alla Corte Europea, e per la contemporanea accettazione da parte del Presidente Robert Ragnar Spano di un’onorificenza da parte della medesima Università di Istanbul che ha illegittimamente licenziato 192 accademici, colpevoli di aver firmato un appello per la pace. E’ pure insorto il dibattito se Ebru si debba definire avvocata, avvocatessa o avvocato (in italiano, come impiegato si declina al femminile in impiegata, avvocato in avvocata, non esistendo un genere neutro. Lei, comunque, avrebbe voluto essere chiamata senza dubbio avvocata).
I relatori speciali ONU, che chiedevano la revisione del processo, sono stati parzialmente accontentati dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione annullava alcune posizioni con rinvio, rilevando il parziale ne bis in idem tra i due processi, di cui il primo ancora pendente. Non sono stati accontentati invece i relatori speciali PACE, che chiedevano alle autorità turche di assicurare libertà professionale agli avvocati turchi, un giusto processo, e l’immediata liberazione per Unsal. Di lì a poco infatti è seguita l’ennesima maxi-retata di avvocati arrestati ed Unsal, liberato con pena sospesa per cure mediche, sulla base di una perizia che indicava in un anno il tempo di cure quotidiane necessario al recupero delle funzioni vitali e ad uscire dal rischio di vita, è stato già nuovamente arrestato, così pochi mesi dopo la sua scarcerazione, con modalità scenografiche e violente, tali da rimettere con il solo arresto nuovamente a rischio la sua salute.
3. Il nuovo arresto di Aytaç Ünsal
Secondo le informazioni fornite dai suoi legali agli osservatori internazionali, il 9 dicembre 2020, Aytaç Ünsal è stato preso in custodia nel centro di Edirne. Dopo la diffusione della notizia, gli avvocati Mükerrem Karakurt e Seda Şaraldı, si sono recati alla Direzione della Sicurezza di Edirne per incontrarlo. Durante l'interrogatorio alla Direzione della Sicurezza di Edirne, hanno visto che Aytaç Ünsal è stato colpito intenzionalmente dalle forze di sicurezza ed è stato gravemente ferito, c'erano ferite aperte vicino ai suoi occhi. Inoltre, sotto custodia, è stato esposto a ulteriori violenze fisiche a causa di un pugno nella regione addominale. Non gli è stato permesso di prendere le sue medicine per la neuropatia che sta soffrendo a causa dei danni provocati dallo sciopero della fame. Aytaç Ünsal è stato tenuto in custodia per 24 ore. È stato trasferito in un istituto sanitario per un controllo medico con le mani ammanettate dietro la schiena. Le sue gambe sono state colpite intenzionalmente alle scale dell'istituto sanitario, con ecchimosi e tubercoli tra le ginocchia e i piedi. È stato nuovamente esposto a violenze fisiche per essere stato costretto ad abbassare la testa mentre saliva sul veicolo della polizia. I farmaci prescritti per le ferite aperte vicino agli occhi dopo la visita medica di base non sono stati somministrati ad Aytaç Ünsal e anche una cura medica così semplice è stata ostacolata dalle forze dell'ordine. Dopo essere stato esposto ad atti di violenza e tortura, è stato trasferito all'istituto penitenziario chiuso di Edirne F Type con la decisione di annullamento della sospensione dell'esecuzione. La decisione è stata adottata illegalmente senza la comparizione di Aytaç Ünsal e dei suoi avvocati davanti ad un tribunale. Dopo il suo trasferimento, a causa del coprifuoco, non ha potuto essere visto dai suoi avvocati. Fino al 14 dicembre 2020, la sua famiglia e i suoi avvocati non potevano fargli visita. Il 14 dicembre 2020 suo padre e sua madre gli hanno fatto visita. Sua madre, che è anche avvocata, lo ha visto in qualità di suo difensore. Anche in questo caso, sua madre è andata a trovarla il giorno successivo. Il 16 dicembre 2020 l'avvocato Seda Şaraldı e l'avvocato Doğa İncesu lo hanno incontrato. Secondo la dichiarazione degli avvocati, ha subito da nudo perquisizione corporale quando è entrato in carcere. Dopo essere stato arrestato, è stato privato delle sue medicine, come Lyrica, che è vitale per la cura della sua malattia neuropatica. Inoltre, anche se il suo test COVID-19 è risultato negativo, è stato tenuto in isolamento. Il trattamento medico di Aytaç Ünsal deve essere stato in corso e non è in grado di accedere alle sue medicine e alle cure mediche adeguate in condizioni carcerarie. Deve rimanere sempre sotto osservazione a causa delle sue condizioni mediche. Il suo trattamento è sempre avvenuto sotto l'osservazione di due persone prima dell'arresto, ma ora rimane da solo. Nermin Ünsal, la madre di Aysal Ünsal si è messa in contatto con lui il 18 dicembre 2020 per dieci minuti al telefono. È stata informata che Aytaç Ünsal è ancora nelle stesse condizioni. È in cella d'isolamento e rimane nell'isolamento. Non può accedere ai medicinali e all'integratore vitaminico necessario (B1) per il suo trattamento, sebbene sia stato fornito dalla madre alla direzione del carcere. Secondo recenti aggiornamenti, Aytaç soffre di dolore e di bruciore alle gambe. Per via del malfunzionamento della circolazione sanguigna, le sue gambe sono congestionate. La congestione è una condizione di pericolo di vita per Aytaç Ünsal a causa del rischio di embolia. Aytaç Ünsal non ha ancora ricevuto i vestiti che erano già stati dati alla gestione del carcere dalla sua famiglia. Dal 9 dicembre (al 21 dicembre, momento della comunicazione) indossa gli stessi vestiti. È stato esposto a violenze fisiche, ha persino colpito il suolo con gli stessi vestiti addosso. Non si tratta quindi solo di umiliazione, ma anche di un rischio per la salute a causa di problemi igienici in condizioni di pandemia. Di conseguenza, Aytaç Ünsal non è in grado di accedere a cure mediche adeguate dopo l'arresto. Ha anche bisogno di una dieta corretta e ben pianificata, controllata da un nutrizionista. Ora è privato della possibilità di consultare il suo nutrizionista e di una corretta alimentazione. Inoltre, è andato regolarmente a farsi visitare dal suo neurologo, ma il suo diritto alla salute è limitato e non gli è più permesso di andare a visitarlo. Il giorno di Natale ha scritto una breve lettera ai colleghi nella quale afferma: “(…) Mi hanno arrestato di nuovo, anche se avevo già rimandato l'esecuzione e le mie condizioni di salute erano pessime. Ognuno fa ciò che si addice alla propria morale. Noi faremo ciò che si addice alla nostra morale. Se solo avessimo ancora la testa, resisteremmo in piazza. Tesseremo la vita, che è una marcia di resistenza, con la nostra lotta per la giustizia. Non sono nella posizione di essere solo, ma sono ancora solo per motivi di quarantena. Volevo scrivere brevemente, nel caso foste curiosi. La mia mente è sempre con voi. Vi voglio bene e continuo a resistere”.
I premi conferiti postumi alla memoria di Ebru non sono riusciti a donare la libertà né alla sua amata sorella e collega Barkin, né al presidente della sua associazione Selcuk Kozagacli, né al suo collega e compagno di sciopero della fame, Aytaç Ünsal, che di nuovo vede la sua vita in pericolo.
4. Conclusioni
Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l'altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l'altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)
Come ho già avuto modo di notare su Left[11], la notizia della morte di Ebru è entrata nella casa di tutte le persone insieme alla notizia delle mire espansionistiche di Erdoğan nel Mediterraneo, ha determinato la presa di coscienza collettiva della morte dello stato di diritto in Turchia e delle reali ambizioni del Sultano. Gli eventi che sono seguiti alla morte di Ebru, ed in particolare la liberazione del suo collega in sciopero della fame da 213 giorni, Aytaç Ünsal, negata dalla Corte Europea ma concessa temporaneamente dalle autorità turche in occasione della controversa visita del Presidente della Corte Europea in Turchia, ha aperto per la comunità giuridica un momento collettivo di riflessione amara sull’efficacia del sistema regionale di tutela dei diritti umani nel proteggere i cittadini dagli abusi del potere e sulla politicizzazione della Corte, sicché, oltre alla presa di coscienza della morte dello stato di diritto in Turchia, si è pure aggiunto il lutto per la constatazione del fallimento del sistema di tutela regionale ed internazionale dei diritti umani, che non è riuscito ad impedire la morte annunciata di Ebru, così come non era riuscita ad impedire le morti annunciate dello scantinato di Cizre, anni prima. Se vogliamo dirla tutta, si è pure aggiunto il lutto per la morte della diplomazia tricolore, considerato che l’avvocatura con una campagna senza precedenti aveva sollecitato l’intervento del Governo italiano più e più volte, senza ottenere risposta alcuna e senza che nemmeno, alla morte della collega, il Presidente del Consiglio o qualcuno dei Ministri spendesse una parola di cordoglio. Al contrario, l’intera avvocatura europea e la società civile si sono uniti al dolore della sua famiglia e dei suoi colleghi, anche mediante la pubblicazione di un necrologio sui quotidiani turchi BirGün e Yeni Yaşam, “onorando il suo lavoro per proteggere i diritti degli altri e promuovere il rispetto dello stato di diritto”, sottoscritto da 139 tra associazioni forensi ed Ordini degli Avvocati, dalle Filippine alla Francia, e tra le quali ben 87 realtà italiane. Non è stato l’ultimo gesto di solidarietà, anzi. Il 7 settembre 2020 in molti tribunali europei è stato osservato un minuto di silenzio per commemorare la morte di Ebru, e l’11 settembre i Giuristi Democratici, l’Osservatorio Avvocati Minacciati delle Camere Penali, AIGA, ASGI, Legal Team, M. G. A., Movimento Forense e Magistratura Democratica, con l’adesione di molte realtà, hanno organizzato una manifestazione a Palazzo Chigi per chiedere a Governo italiano, Unione Europea e Consiglio d’Europa “di levare la voce per denunciare la responsabilità di stato per queste morti, ed intraprendere ogni azione necessaria per garantire il diritto alla vita ed al giusto processo per Aytac e per tutte le avvocate e gli avvocati”, nonché per la liberazione di tutti i difensori dei diritti umani, magistrati, parlamentari, giornalisti, accademici, docenti ingiustamente detenuti nelle carceri turche.
Le strategie difensive portate avanti dagli avvocati imputati in Turchia, esprimono l’identità precisa di chi ha scelto da che parte stare, fino alla fine, durante questa notte della democrazia: l’adempimento senza riserve della funzione difensiva a costo della propria libertà, la rivendicazione dell’indipendenza a costo della criminalizzazione, l’esercizio della propria funzionale costituzionale, a costo della morte.
La morte di Ebru ha toccato i cuori e le menti di tutte e tutti noi, non resta che un sincero augurio: che questo effetto farfalla non si perda con lo spegnimento dei riflettori, che ci aiuti a scongiurare la morte di Aytaç Ünsal e che ci porti in particolare ad aprire una riflessione pubblica sull’efficacia del sistema internazionale e regionale dei diritti umani nel garantire tempestiva ed effettiva protezione agli individui i cui diritti umani vengono gravemente violati da parte di attori statali
Oltre a Ebru Timtik e Tahir Elçi, sono molte altre le figure di colleghi e colleghe, giovani e viventi, che andrebbero ricordate per il loro quotidiano impegno, dentro e fuori dai confini, per la difesa dello stato di diritto e dei diritti umani in Turchia. Non li nomino espressamente solo perché il rischio che gli venga commissionata la stessa fine dei colleghi sopra citati è ancora decisamente troppo alto per azzardarsi a correrlo solo per indulgere in un seppur meritatissimo elogio.
Tuttavia, venire a conoscenza, seppure virtualmente, di esempi di così grande spessore morale dovrebbe porci un problema: noi, in qualità di giuristi, di operatori del diritto, cosa siamo disposti a fare, hic et nunc, per evitare che mai e per nessun motivo avvenga un utilizzo sproporzionato della forza da parte delle autorità nei confronti dei civili?
Un sentimento di sconforto aleggia tra i giuristi europei.
Fin dai tempi dei massacri di civili durante i coprifuoco del 2015, ci si aspettava un intervento incisivo da parte del Consiglio d’Europa e della diplomazia europea.
Come giustamente rilevato da Franco Ippolito “In tanti speravamo che dalle istituzioni dell’Europa (piccola e grande) sarebbe partita una pronta e soprattutto efficace reazione, volta a condannare senza esitazione e a isolare il regime turco, ribadendo l’essenza dei valori europei, incentrati sul rispetto dello Stato costituzionale di diritto e sulla protezione dei diritti umani e dei popoli. Prese di posizione e parole non mancarono, ma si trattò di declamazioni “rituali”, di pura di facciata, che si limitarono a sollecitare cautela all’autocrate turco, di cui ricordarono persino l’elezione popolare, come se la democrazia si potesse ridurre soltanto a investitura di potere dal basso”[12].
La lotta dell’avvocatura per sollecitare l’intervento del governo italiano e delle istituzioni europee è stata tenacissima e compatta, va detto, mai come in questo caso le rappresentanze istituzionali dell’avvocatura nazionale, europea ed internazionale, hanno lavorato fianco a fianco delle ONG forensi attive sul campo (ELDH, Lawyers for Lawyers ecc.) e dell’associazionismo forense per la buona riuscita di azioni di pressione internazionale sulle autorità turche per la liberazione dei colleghi e sulle istituzioni europee e nazionali per una pronta presa di posizione.
Forse anche per questo impegno di lobby fortissimo e costante, la disillusione davanti all’inazione del governo italiano e delle istituzioni europee è stata dolorosissima. Per due motivi.
Il primo: ha segnato il fallimento della Corte EDU nello scopo per il quale è nata, e cioè tutelare i civili dagli abusi da parte degli stati, difendere la vita di persone innocenti dall’utilizzo sproporzionato ed illegittimo della violenza da parte del regime di turno. I morti dello scantinato di Cizre hanno segnato il fallimento della Corte EDU nel raggiungimento di questo scopo, di proteggere normali cittadini dalla barbarie neonazista che là si è consumata in quel periodo storico. Un fallimento che certo passerà alla storia, e non trova sufficiente consolazione nel più tardivo ritrovato coraggio della Corte espresso nel caso Demirtaş c. Turchia.
Per certo, tutte le richieste di misure urgenti provenienti dalle vittime del coprifuoco e delle purghe seguenti al fallito colpo di stato, respinte al mittente dalla Corte EDU affermando l’effettività dei rimedi previsti dal sistema nazionale, così come quel premio ritirato dal Presidente Spanò durante la sua visita in Turchia[13], ad una settimana di distanza dalla morte dell’avvocata Ebru Timtik, hanno irrimediabilmente minato l’autorevolezza della giurisdizione non solo presso le tante vittime del regime turco, ma anche presso la più vasta cerchia di giuristi europea, che ancora vorrebbe vedere i Giudici di Strasburgo ergersi a baluardo inespugnabile della tutela dei diritti umani, specie quando le autorità nazionali violano il diritto alla vita o torturano privati cittadini.
Il secondo: il silenzio dell’esecutivo è risuonato come il De profundis della diplomazia italiana, per l’incapacità di interlocuzione con le parti sociali impegnate nella difesa dei diritti umani, e per l’opinabilissima e disdicevole scelta politica di anteporre il business agli human rights nelle relazioni con quei governi del Mediterraneo che è noto siano in atto di commettere crimini contro l’umanità.
Si dice che un solo gesto di gentilezza metta le radici in tutte le direzioni, e le radici nascano, e facciano nuovi alberi. Sicuramente il martirio di Ebru è stato un gesto di amore per la libertà e per la democrazia nel suo Paese che ha gettato radici ben al di fuori dei confini turchi, segnando un nuovo protagonismo dell’avvocatura nella difesa della democrazia, dello stato di diritto, della separazione tra i poteri, ed alla ricerca di una giustizia effettiva per i cittadini anche sul piano internazionale. Se c’è qualcosa infatti che la morte di Ebru ci ha insegnato, è che oggi più che mai, occorre lottare affinché quel sistema internazionale ed europeo di tutela dei diritti umani, nato dalle ceneri della barbarie nazista, venga protetto dalla volontà dei governi nazionali, ed in particolare dei nuovi regimi, di metterlo in crisi, per poter continuare impuniti a commettere crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei diritti umani, senza che le persone possano trovare tutela superiore da questi abusi commessi dalle autorità nazionali. Se in ciò la diplomazia internazionale ha fallito, lasciando una scia di omicidi impuniti, da Regeni ad Ebru Timtik, e migliaia di detenuti di opinione ancora nelle carceri dei regimi, se sulle sponde del Mediterraneo dall’Egitto alla Turchia sono prevalsi gli accordi economici e bilaterali anche con chi aveva le mani sporche di sangue, non resta che esercitare, come società civile, ONG e come avvocatura, la nostra pressione congiunta, con la grande responsabilità di dover agire per garantire il diritto di tutte e tutti ad un ordine sociale e internazionale in cui i diritti e le libertà per i quali i nostri nonni e nonne partigiani hanno dato la vita, oggi resi legge dai trattati e dalle convenzioni internazionali, possano essere pienamente realizzati per tutti, salvaguardati da chi vorrebbe veder naufragare nel Mediterraneo e colare a picco non solo i barconi di chi scappa dalle grinfie dei dittatori, ma con essi pure il sistema internazionale dei diritti umani[14].
Sempre condividendo il pensiero di Franco Ippolito, “Come avrebbe potuto, del resto, essere diversamente? Una efficace presa di posizione europea di fronte alla reazione spropositata, repressiva e illegittima del regime di Erdoğan al tentato colpo di Stato del 2016 avrebbe dovuto determinare l’adozione di adeguate sanzioni, con sospensione della Turchia da ogni partecipazione a istituzioni e organismi europei. Prima ancora, avrebbe dovuto comportare la cancellazione del patto, vergognoso e scellerato, che il 28 marzo 2016, in cambio di miliardi di euro, ha affidato a Erdoğan il compito di bloccare il flusso di persone in fuga dalla violenza della guerra e della fame, profughi disperati che l’egoismo dei ricchi Paesi europei rifiuta e respinge, mentre piccoli e poveri Paesi come Libano e Cisgiordania danno loro un rifugio, con risorse e mezzi neppure lontanamente comparabili a quelli del vecchio continente”[15].
Allora la domanda che si pone è: quale lezione noi siamo in grado di imparare dall’esperienza turca? Quanto, come giuristi, come avvocati, siamo disposti a metterci in gioco individualmente e collettivamente per estirpare e condannare le pratiche che costituiscono tortura di stato, per difendere il giusto processo, il diritto alla difesa, i difensori dei diritti umani, l’accesso alla giustizia per i più vulnerabili, i diritti dei detenuti, gli equilibri costituzionali, nel nostro Paese? Siamo in grado di interloquire con il governo per rivendicare l’imposizione di clausole di rispetto dei diritti umani nelle relazioni commerciali intercorrenti con quei regimi che palesemente li violano? Sappiamo essere, e ci interessa essere, agenti di pace, almeno nel mare nostrum? Meritiamo, come avvocatura, il ruolo costituzionale che così con forza rivendichiamo?
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell'Avvocatura in Turchia. Un reportage di Barbara Spinelli - Parte Prima: Essere giovani avvocate/i in Turchia
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell'Avvocatura in Turchia. Un reportage di Barbara Spinelli - Parte Seconda: L'avvocatura alla prova dello stato di emergenza
[1] Selçuk KOZAĞAÇLI è membro del comitato esecutivo ELDH, associazione europea di cui ÇHD fa parte. Ha un'ottima reputazione al di fuori della Turchia come avvocato per la difesa dei diritti umani. Nel 2014 gli è stato conferito il premio Hans-Litten dall'associazione di avvocati tedeschi Vereinigung Demokratischer Juristinnen und Juristen e.V. VDJ. La più grande associazione di avvocati tedeschi Deutscher Anwaltsverein DAV ha scritto in occasione del suo arresto nel novembre 2017: "Secondo la DAV, l'arresto di Kozağaçlı esemplifica un numero di casi in cui gli avvocati in Turchia sono stati arrestati per aver difeso i loro clienti".
[2] B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p. 123. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[3] https://www.hrw.org/news/2020/04/17/twenty-four-rights-groups-call-turkey-release-all-those-arbitrarily-detained-now
[4] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2020/04/14/turchia-amnistia-per-90mila-detenuti_d37b4c5f-3810-4db0-91b3-688377f37bf9.html
[5] https://turkeypurge.com/first-inmate-dies-from-covid-19-complications-at-istanbuls-silivri-prison-report ; https://silencedturkey.org/wp-content/uploads/2020/06/THE-CORONAVIRUS-OUTBREAK-IN-TURKEY%E2%80%99S-PRISONS_-ANALYSIS-OF-THE-CASES-FINDINGS-AND-RECOMMENDATIONS.pdf .
[6] https://www.sessizkalma.org/en/ecthr-rejects-application-about-death-fasting-lawyer-aytac-unsal/
[7] https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=26203&LangID=E
[8] https://www.ilpost.it/2020/05/08/morto-gokcek-grup-yorum/
[9] https://www.ildubbio.news/2020/09/04/il-martirio-dellavvocata-ebru-timtik-ha-creato-leffetto-farfalla-sul-regime-di-Erdoğan/
[10] https://www.huffingtonpost.it/entry/il-me-ne-frego-di-Erdoğan-alla-corte-dei-diritti-delluomo-su-Demirtaş_it_5fe4b8edc5b6e1ce8338ec9d ; https://www.aa.com.tr/en/turkey/echr-ruling-on-terrorist-hdp-leader-is-meaningless/2087175 .
[11] https://left.it/2020/09/12/linerzia-intollerabile-del-governo-italiano/
[12] https://www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/738/qg-speciale_2019-1_34.pdf
[13] https://www.ildubbio.news/2020/09/02/giudice-ragnar-spano-la-prego-rifiuti-quel-premio-di-Erdoğan/
[14] https://left.it/2020/09/12/linerzia-intollerabile-del-governo-italiano/
[15] https://www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/738/qg-speciale_2019-1_34.pdf
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