ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Piano voucher” del Governo, accesso a internet e tutela dei diritti costituzionali. (Nota a Tar Lazio sez. III ter, 23 novembre 2020, n. 7239)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Il “piano voucher” per le famiglie meno abbienti. Cenni. 2. L’ordinanza del Tar Lazio. 2.1. La finalità del contributo pubblico. 2.2. Voucher ed emergenza sanitaria. 2.3. L’insussistenza del periculum. 2.4. I riferimenti (impliciti) alla c.d. “neutralità tecnologica”. 3. La garanzia costituzionale del diritto d’accesso alla rete. 3.2. Accesso a internet e “garanzia del mezzo” per l’esercizio di diritti costituzionali. 3.3. Il diritto di accesso a internet negli altri ordinamenti nazionali e nell’ordinamento europeo. Cenni. 3.4. L’accesso alla rete e la “prudenza” della Consulta. 4. Considerazioni di sintesi.
1. Il “piano voucher” per le famiglie meno abbienti. Cenni
Con ordinanza del 23 novembre 2020, il Tar Lazio – sezione III ter si è espresso in sede cautelare sulla legittimità del “Piano voucher per le famiglie a basso reddito” adottato dal Ministro dello Sviluppo economico il 7 agosto 2020.
Si tratta di un intervento volto a sostenere la domanda di servizi di connessione a internet in banda ultralarga da parte delle famiglie con ISEE inferiore ai 20.000 euro (art. 1, comma 2, del decreto del Ministro dello Sviluppo economico, 7 agosto 2020).
La misura, finanziata con 200 milioni di euro, prevede che le famiglie a basso reddito che non dispongano già di una connessione a banda ultralarga possano godere di un contributo massimo di 500 euro quale sconto applicato al prezzo per la fornitura di un tablet o un personal computer e ai canoni per la connessione a internet in banda ultralarga (art. 3, comma 1).
L’attuazione dell’intervento è affidata ad Infratel Italia s.p.a. (art. 1), società in house del Ministero dello Sviluppo economico, già impegnata nell’attuazione dell’ambizioso piano per la infrastrutturazione del Paese con la banda ultralarga.
La peculiarità della misura consiste nell’obbligo di fornitura integrata del servizio di connettività in uno con un dispositivo elettronico (c.d. “bundle”).
Proprio in ragione del necessario abbinamento tra connessione e fornitura del dispositivo (art. 3, comma 6), si prevede che siano gli operatori di servizi di connettività a fornire al consumatore il voucher mediante uno sconto in fattura[1].
Gli operatori di telecomunicazione sono, quindi, “intermediari necessari” per l’erogazione del contributo e proprio su questo profilo si fondano le censure mosse dai ricorrenti.
2. L’ordinanza del Tar Lazio
La pronuncia in commento è stata adottata nell’ambito di un giudizio promosso dalla società titolare di una nota catena di punti vendita di prodotti di elettronica di consumo, nonché da alcune associazioni rappresentative degli interessi di imprese attive nel commercio al dettaglio, all’ingrosso e nel noleggio dei dispositivi informatici necessari per l’accesso a internet.
Le ricorrenti hanno lamentato l’illegittima lesione dei propri interessi in quanto – sebbene il voucher finanzi contemporaneamente e necessariamente non solo l’abbonamento per la connettività, ma anche l’acquisto di un dispositivo elettronico (pc o tablet) – gli atti impugnati prevedono che solo gli operatori di telecomunicazione (e non anche quanti commercializzano dispositivi elettronici) possano svolgere il ruolo di “intermediario necessario” per l’accesso al voucher da parte dei beneficiari.
Il Tar non ha concesso la misura cautelare invocata ritenendo non sussistenti né il fumus, né il periculum.
2.1. La finalità del contributo pubblico
In particolare, il Giudice ha osservato che “la finalità del contributo non è tanto quella di acquistare i dispositivi, ma quella di sostenere la domanda di connessione a internet per le famiglie meno abbienti (…) nel momento di emergenza sanitaria per l’accesso ai servizi educativi e al lavoro”, sicché “la fornitura del solo terminale non realizza l’interesse pubblico perseguito ed è per questo che è stata imposta l’erogazione del contributo tramite l’operatore di rete attraverso la necessaria sottoscrizione di un contratto di connessione a internet”.
Ed invero, nelle premesse del decreto ministeriale si istituisce espressamente il vincolo di “fornitura integrata” di connettività e dispositivo elettronico: “nel contesto di emergenza sanitaria, al fine di garantire l’accesso a internet in banda ultralarga alle famiglie meno abbienti è emersa l’esigenza di garantire loro, oltre ai servizi di connettività ad almeno 30 Mbit/s, anche i dispositivi necessari per fruire di tali servizi, quali tablet o personal computer”.
Emerge un interesse pubblico del tutto peculiare, il cui soddisfacimento sembra che possa essere assicurato solo attraverso una connessione veloce cui si accompagni, obbligatoriamente, la disponibilità di un terminale efficiente.
È evidente che il Ministero avrebbe ben potuto decidere di finanziare l’acquisto di soli dispositivi elettronici (senza occuparsi della connettività) o, al contrario, la sola stipula di contratti di connessione a internet veloce (senza sovvenzionare l’acquisto di pc o tablet).
Tuttavia, la scelta è ricaduta opportunamente su una misura di sostegno della domanda nella quale i due aspetti (connettività ed hardware) sono inscindibilmente collegati.
Si tratta, a ben vedere, di una decisione che appare ragionevole e proporzionata in relazione sia alla peculiare tipologia di destinatari della misura, sia al contesto emergenziale nel quale essa si inserisce.
2.2. Voucher ed emergenza sanitaria
Nel preambolo del decreto si afferma che “nel contesto dell’emergenza sanitaria determinata da COVID-19, i collegamenti internet a banda ultralarga costituiscono il presupposto per l’esercizio di diritti essenziali, costituzionalmente garantiti, quali il diritto allo studio, al lavoro, nonché di assicurare la stessa sopravvivenza delle imprese”.
È l’emergenza sanitaria – che ha determinato più ampie esigenze di connettività per le famiglie, ma anche gravi conseguenze economiche, i cui effetti saranno ancor più evidenti nei prossimi mesi – che contribuisce a fondare la legittimità dell’intervento “immediato” del Governo[2].
Tali profili sono stati posti in rilievo anche dall’AGCM, che ha espresso il proprio apprezzamento per la misura in quanto idonea a consentire, specie nel periodo di emergenza sanitaria, l’accesso alla rete quale strumento di inclusione sociale[3].
La Commissione europea, per altro verso, ha affermato la compatibilità del “piano voucher” con la normativa europea sugli aiuti di Stato ponendone in rilievo la rilevanza sociale in quanto indirizzata a famiglie a basso reddito[4].
In particolare, secondo la Commissione, la misura risponde all’interesse di assicurare che le famiglie con disponibilità economiche limitate abbiano accesso a servizi di connettività a banda ultralarga per continuare ad esercitare, tra gli altri, il diritto all’istruzione, al lavoro, alla propria vita privata in una dimensione di socialità. Si osserva che, in assenza dell’intervento pubblico, i destinatari della sovvenzione – in ragione delle difficoltà economiche aggravate anche dall’emergenza sanitaria in corso – potrebbero decidere di non affrontare i costi per l’acquisto dei beni (dispositivi elettronici) e dei servizi (connessione a banda ultralarga) indispensabili per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti[5].
Proprio la rilevanza sociale dell’intervento pubblico consente alla Commissione di affermarne la legittimità alla luce della disciplina in punto di aiuti di Stato[6] e nonostante esso sia ritenuto effettivamente idoneo a favorire gli operatori di telecomunicazione[7].
Lo stesso Tar Lazio evidenzia che l’interesse ad una celere attuazione dell’intervento governativo giustifica la scelta organizzativa di affidare il ruolo di “intermediario necessario” alle sole imprese di telecomunicazione, senza suddividere il valore del voucher in due distinti importi da spendere in parte per la connettività (in un contratto consumatore-operatore di tlc), in parte per l’acquisto del dispositivo (in un diverso contratto tra consumatore e rivenditore di elettronica). In proposito, il Giudice amministrativo afferma: “la mancata previsione di due passaggi distinti, uno presso il rivenditore di dispositivi elettronici e l’altro presso l’operatore di rete, non appare [recte “appare”] in linea con la natura emergenziale della misura, finalizzata ad assicurare, in modo celere, attraverso una procedura semplificata diritti costituzionalmente garantiti (allo studio e al lavoro) nella fase emergenziale”.
A ben vedere, la duplicazione degli adempimenti burocratici, in uno col necessario coordinamento nella stipula dei due contratti, avrebbe certamente determinato una maggiore complessità del procedimento, con un possibile grave pregiudizio per l’immediata attuazione della misura.
L’obiettivo di un’azione amministrativa effettiva e celere è stato così raggiunto attraverso un peculiare procedimento che – pur se astrattamente idoneo ad incidere sugli interessi dei ricorrenti – pare, secondo criteri di logicità e congruità, adeguato al perseguimento di un interesse generale, pregnante nel periodo di pandemia, posto a fondamento della misura agevolativa.
2.3. L’insussistenza del periculum
Il Giudice amministrativo, ancorché entro i limiti propri della fase cautelare, sembra peraltro non ravvisare in concreto alcun pregiudizio in capo ai ricorrenti laddove afferma che gli operatori di telecomunicazione hanno la possibilità di stipulare accordi commerciali con i rivenditori di elettronica per la fornitura dei dispositivi da abbinare alla “connettività”.
Invero, il c.d. “manuale operativo” pubblicato da Infratel Italia – e recante le regole di dettaglio per l’erogazione del voucher – opportunamente fa salva la facoltà dell’operatore di stipulare accordi con i distributori al dettaglio per la fornitura di pc e tablet.
In relazione al periculum, infine, secondo il Giudice amministrativo, il preteso pregiudizio economico lamentato dai ricorrenti “nell’attuale fase emergenziale (…) appare recessivo a fronte dell’interesse pubblico alla sollecita erogazione del contributo in favore delle fasce economicamente più deboli, in modo da consentire loro l’immediato accesso ai servizi digitali per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti”.
Nell’argomentare del Giudice non assume rilievo la ontologica “non irreparabilità” del pregiudizio patrimoniale dedotto, quanto piuttosto la prevalenza dell’interesse pubblico perseguito attraverso il provvedimento impugnato rispetto a quello fatto valere dai ricorrenti[8].
L’interesse pubblico in questo caso è correlato ad un valore superindividuale, esplicitamente richiamato dal Tar con il riferimento alla strumentalità dei servizi digitali per l’esercizio di diritti di sicura rilevanza costituzionale[9].
2.4. I riferimenti (impliciti) alla c.d. “neutralità tecnologica”
L’ordinanza, nella parte in cui esclude la sussistenza di una “limitazione della libertà del consumatore nella scelta del dispositivo per la fruizione del servizio di accesso a internet”, esclude la violazione del principio di “neutralità tecnologica” richiamato nel d.m. (art. 3, comma 2)[10].
Ai sensi dell’art. 4, comma, 3 lett. h) del Codice delle comunicazioni elettroniche (d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259), il principio di neutralità tecnologica è “inteso come non discriminazione tra particolari tecnologie, non imposizione dell’uso di una particolare tecnologia rispetto alle altre e possibilità di adottare provvedimenti ragionevoli al fine di promuovere taluni servizi indipendentemente dalla tecnologia utilizzata” [11].
Con particolare riguardo alle comunicazioni via internet, al principio di neutralità tecnologica si affianca quello di “neutralità della rete”, secondo il quale ogni comunicazione elettronica veicolata da un operatore dovrebbe essere trattata in modo eguale indipendentemente dalla qualità dei soggetti coinvolti, dal contenuto del servizio, dall’applicazione o dal dispositivo utilizzati[12].
Con il regolamento Ue 2015/2120 l’Unione europea ha introdotto norme comuni per garantire un trattamento equo e non discriminatorio della fornitura dei servizi di accesso a internet e per tutelare i relativi diritti degli utenti finali[13].
In particolare, si enuncia con chiarezza il diritto degli utenti di accedere alla rete per ricevere e diffondere informazioni e contenuti, nonché il diritto di utilizzare applicazioni e servizi mediante terminali di propria scelta[14], indipendentemente dalla sede dell’utente finale e del fornitore o dalla localizzazione, dall’origine o dalla destinazione delle informazioni, dei contenuti, delle applicazioni o del servizio[15].
Tuttavia, il principio di net neutrality nella parte in cui garantisce il diritto degli utenti di accedere alla rete “mediante terminali di propria scelta” si riferisce a quegli apparecchi che consentono ai dispositivi elettronici la connessione alla rete internet via cavo, fibra ottica o via elettromagnetica[16]. Come ha chiarito l’AGCom “i router dotati di modem utilizzati quali apparecchiature intermedie verso i device (dispositivi come ad es. computer, tablet, telefoni, etc.), ovvero utilizzati dagli utenti anche per realizzare una rete privata che si interconnette con la rete pubblica, rientrano nella definizione di apparecchiature terminali”[17].
Considerato che il decreto ministeriale sovvenziona l’acquisto non di modem, bensì di pc o tablet, appare pertinente il richiamo al principio di “neutralità tecnologica” (art. 3, comma 2) in luogo del principio di net neutrality.
Nel “piano voucher” il principio di neutralità tecnologica è declinato nelle regole attuative della misura che si limitano a prevedere le specifiche tecniche che devono avere i dispositivi (pc o tablet) offerti.
Sussiste, dunque, la piena libertà, per gli operatori di telecomunicazione, di strutturare la propria offerta commerciale proponendo qualunque dispositivo conforme a tali specifiche e, simmetricamente, la libertà dei consumatori di aderire alla proposta commerciale che contempli la fornitura del pc o tablet ritenuto più idoneo.
3. La garanzia costituzionale del diritto d’accesso alla rete
Nell’ordinanza in esame, per ben due volte si richiama la strumentalità dell’accesso alla rete internet rispetto all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Tale rapporto, peraltro, è delineato con chiarezza nel decreto ministeriale impugnato.
Piuttosto che ricercare in Costituzione un fondamento diretto – per vero assai incerto, come si dirà nel prosieguo – del diritto di accesso a internet, l’autorità amministrativa ha richiamato diritti di sicura rilevanza costituzionale che trovano oggi nuove declinazioni attraverso la rete.
Invero, l’esperienza vissuta quotidianamente durante l’emergenza sanitaria ha mostrato come non solo la libertà d’informazione, la libertà di corrispondenza, la libertà d’iniziativa economica, la libertà d’associazione, ma anche il diritto alla tutela giurisdizionale, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione possano – o talvolta, necessariamente, “debbano” – essere esercitati on line.
Ciò ha improvvisamente destato, anche nel dibattito pubblico, una rinnovata attenzione generale sul fondamento costituzionale del diritto di accesso a internet[18].
Secondo una prima impostazione, esisterebbe una libertà di accesso alla rete, intesa come diritto a che nulla osti, nel rapporto libertà-autorità[19], all’esercizio delle libertà d’informazione e comunicazione, se non eventuali difficoltà oggettive derivanti dalle caratteristiche del mezzo[20].
Secondo altri autori, l’accesso a internet sarebbe configurabile come diritto sociale, ossia una pretesa soggettiva a prestazioni pubbliche, al pari dell’istruzione, della sanità e della previdenza[21].
Altri studiosi ancora qualificano l’accesso come diritto fondamentale[22] di rango costituzionale o, addirittura, come diritto umano[23].
3.2. Accesso a internet e “garanzia del mezzo” per l’esercizio di diritti costituzionali
I tentativi di introdurre una norma costituzionale ad hoc non sono – almeno sin ora – andati a buon fine[24], sicché l’analisi va condotta alla luce della Costituzione vigente.
In tale prospettiva, ribadendo quanto si è già sostenuto in altri scritti[25], si deve concordare con quanti hanno recentemente osservato che “non esiste tanto un vero e proprio diritto a internet quanto invece un diritto a esercitare le libertà costituzionalmente tutelate anche attraverso internet”[26].
Si osserva, inoltre, che sebbene non sussista un obbligo in tal senso riveniente da norme costituzionali o ordinarie, l’ordinamento amministrativo sembra ormai stabilmente orientato verso un modello organizzativo nel quale l’esercizio di funzioni pubbliche e l’erogazione dei servizi di pubblico interesse dipendono – o potrebbero dipendere abitualmente – dall’interazione in rete fra cittadino ed Amministrazione.
Siamo, dunque, nel mezzo di una graduale transizione verso uno Stato che ammette esclusivamentela modalità telematica per l’esercizio di diritti e l’adempimento di doveri propri del rapporto di cittadinanza.
Quando il rapporto tra Amministrazione e cittadino diviene obbligatoriamente e per scelta del legislatore un rapporto di cittadinanza digitale che coinvolge l’esercizio di diritti e libertà di rilevanza costituzionale, la garanzia costituzionale di questi si estende all’accesso al mezzo.
Si pensi al diritto a godere di alcune provvidenze sociali (che possono essere richieste solo on line), al diritto di difesa nel processo telematico o, come ci ricorda l’ordinanza in commento, al diritto all’istruzione (con la didattica a distanza) ed al diritto al lavoro (con l’esperienza del c.d. “lavoro agile”).
In disparte la chiarissima scelta in atto nell’ordinamento amministrativo verso il “digital first” (art. 1, l. n. 124/2015), ormai è impensabile che anche solo tra privati, rapporti di tipo sociale, economico ed affettivo, possano svolgersi in una dimensione esclusivamente “analogica”.
Anche al di là dei rapporti tra cittadino e Amministrazione, può dirsi che oggi la completa realizzazione della persona e la piena partecipazione alla vita sociale, politica, culturale del Paese dipendono anche dalla possibilità di utilizzare la rete internet e le sue molteplici applicazioni.
Per tale ragione, può affermarsi che il diritto d’accesso a internet gode di una copertura, ancorché indiretta, costituzionale: la Repubblica, in attuazione del principio personalista e del principio di uguaglianza sostanziale, ha il compito di attuare interventi volti a garantire un accesso consapevole e tecnologicamente adeguato alla rete[27].
Nella società interconnessa, infatti, il divario digitale rappresenta oggettivamente un ostacolo di ordine economico e sociale, che, limita “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini” [28].
L’accesso alla rete garantisce (recte dovrebbe garantire in maniera effettiva) il pieno esercizio di libertà e diritti di sicura rilevanza costituzionale sicché la Costituzione contiene già tutti gli elementi per tutelare l’accesso a internet quale “mezzo di libertà”[29] (o, se vogliamo, insieme di “reti di libertà”), senza la necessità di ricorrere ad alcuna riforma[30].
3.3. Il diritto di accesso a internet negli altri ordinamenti nazionali e nell’ordinamento europeo. Cenni
In una riflessione giuridica sulla configurabilità di un diritto d’accesso alla rete, infine, utili spunti possono cogliersi attraverso il richiamo alle esperienze costituzionali[31] ed ai precedenti giurisprudenziali delle Corti supreme di altri Paesi[32], agli atti approvati nell’ambito di organizzazioni internazionali cui il nostro Paese aderisce[33], ai numerosi bill of rights che sono stati adottati negli ultimi anni[34].
Anche dagli atti dell’Unione europea possono trarsi indicazioni in ordine alla sussistenza del diritto in parola.
Il diritto dell’utente finale di accedere a internet è stato garantito sin dal 2002, con l’inclusione di tale prestazione tra gli obblighi di servizio universale relativi alla connessione da postazione fissa ad una rete di comunicazione pubblica.
La direttiva 2002/22/CE (c.d. “servizio universale”), infatti, prevedeva, tra gli obblighi di servizio universale, la fornitura di un “accesso efficace a internet”, all’epoca inteso come accesso mediante connessione dial up, ossia attraverso la linea telefonica[35].
Nella direttiva “servizio universale” solo la desueta (e di fatto inutilizzata) connessione attraverso la linea telefonica dial up rientrava in tale catalogo, mentre la connessione veloce a internet poteva essere imposta dagli Stati membri agli operatori solo come “servizio obbligatorio supplementare”.
Tale assetto normativo non aveva impedito, tuttavia, alla Corte di giustizia di affermare che le tariffe speciali e il meccanismo di finanziamento previsti dalla direttiva n. 2002/22 si potessero applicare ai servizi di abbonamento a internet che richiedessero una connessione in postazione fissa a prescindere dall’ampiezza di banda, dalla linea trasmissiva (ad esempio doppino telefonico o fibra ottica) e dalla modalità di connessione[36].
Secondo tale impostazione, gli Stati membri avrebbero potuto includere negli obblighi di servizio universale anche la connessione alla rete internet da postazione fissa (che prescinda da quella telefonica), imponendo alle imprese limiti tariffari, meccanismi di perequazione geografica o tariffaria, senza che ciò comportasse violazioni del diritto dell’Unione.
E così, in sede europea, mentre il decisore politico tardava a riconoscere formalmente il diritto d’accesso ad “internet veloce” come oggetto di obblighi di servizio universale, in giurisprudenza si era affermata una posizione più avanzata di tutela effettiva del diritto[37].
Il quadro di riferimento è profondamente mutato con l’adozione della direttiva 2018/1972 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018 “che istituisce il Codice europeo delle comunicazioni elettroniche” ed abroga la direttiva 2002/22 e le altre direttive del c.d. “pacchetto telecom” del 2002[38].
La direttiva, che dovrà essere recepita entro il 21 dicembre 2020, ha riconosciuto espressamente l’obbligo per gli Stati membri di adottare misure adeguate “affinché tutti i consumatori nei loro territori abbiano accesso a un prezzo abbordabile, tenuto conto delle specifiche circostanze nazionali, a un adeguato servizio di accesso a internet a banda larga e a servizi di comunicazione vocale” (art. 84, comma 1). Gli Stati, inoltre, sono chiamati a adottare misure per garantire ai consumatori con redditi modesti o con particolari esigenze sociali, l’accesso ad internet a banda larga “a prezzi abbordabili” (art. 85), prevendendo l’applicazione di misure di finanziamento a beneficio degli operatori designati sui quali ricada “un onere eccessivo” per la prestazione del servizio (art. 90).
Anche nel Codice europeo, infine, si individua con chiarezza il nesso tra disponibilità di una connessione a banda larga a prezzi accessibili e piena partecipazione dei cittadini alla vita sociale ed economica[39] e si ammette l’erogazione di contributi economici a sostegno della domanda di connettività per particolari categorie di utenti[40].
Si tratta di interventi che si collocano nel solco tracciato con l’“Agenda digitale europea”[41] che mira a stabilire il ruolo chiave delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per raggiungere entro il 2020 gli obiettivi prefissati.
Tra le azioni da intraprendere per sviluppare un mercato unico digitale che conduca l’Europa verso una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, due paiono di particolare interesse ai nostri fini: la promozione di un accesso a internet veloce e superveloce per tutti e il miglioramento di alfabetizzazione, competenze ed inclusione nel mondo digitale.
In piena coerenza con gli obiettivi della “Agenda digitale” europea, nel 2015 l’Italia si è dotata di una propria “strategia per la banda ultralarga” nell’ambito della quale è stato varato un piano di investimenti che, tra le altre misure, prevede l’erogazione di voucher agli utenti finali[42].
3.4. L’accesso alla rete e la “prudenza” della Consulta
Il tema del diritto di accesso alla rete e della sua eventuale rilevanza costituzionale è stato oggetto anche di vicende giurisdizionali che hanno interessato la nostra Corte costituzionale.
Nella sentenza 21 ottobre 2004, n. 307[43], la Corte era stata chiamata a pronunziarsi sulla pretesa violazione degli artt. 117, commi 4 e 6, 118 e 119 Cost. dedotta dalla Regione Emilia-Romagna in relazione a disposizioni attraverso le quali il Governo intendeva incentivare l’acquisto e l’uso di strumenti informatici da parte degli infrasedicenni e delle famiglie meno abbienti[44]. Ad avviso della ricorrente, lo Stato, nel disciplinare un ambito non rientrante in alcuna delle materie di cui all’art. 117, commi 2 e 3 Cost., avrebbe leso la potestà legislativa e amministrativa delle Regioni.
In giudizio, la difesa erariale, per quanto rileva in questa sede, aveva qualificato l’accesso ai mezzi informativi come “diritto sociale” ed aveva invocato, come parametro di legittimità costituzionale, la riserva di legge dello Stato in relazione alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.)
La Corte, tuttavia, nel dichiarare infondate le questioni di legittimità proposte, seguì un iter logico-argomentativo eccentrico rispetto al tema del riparto di competenze, così evitando di pronunziarsi anche sulla natura giuridica del diritto all’accesso alla rete[45].
In un’altra occasione, la Provincia autonoma di Trento aveva dubitato della legittimità costituzionale della legge 9 gennaio 2004, n. 4 “disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici” – nota come “legge Stanca” dal nome dell’allora Ministro per l’innovazione e le tecnologie – in quanto lesiva delle proprie competenze statutarie[46]. La difesa erariale aveva argomentato la propria tesi osservando: “le disposizioni impugnate, perseguendo la finalità di garantire e rendere effettivo anche per i disabili il diritto di accesso ai servizi informatici e telematici della pubblica amministrazione ed a quelli di pubblica utilità (…) che sono ormai strumenti fondamentali di partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, garantirne la fruibilità ai disabili rientrerebbe nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. In quel caso, la Corte accolse il ricorso con argomenti relativi al riparto di competenze tra Stato e Province autonome, decidendo però espressamente di non valutare la fondatezza della tesi del Governo.
4. Considerazioni di sintesi
L’ordinanza in commento riflette pienamente lo spirito dei tempi, ormai maturi per il riconoscimento di un vero e proprio diritto di accesso alla rete.
Sebbene la decisione – comprensibilmente, considerata la sede cautelare – non affronti il tema del fondamento costituzionale del diritto di accesso a internet, il richiamo a diritti costituzionalmente garantiti, esercitati attraverso il mezzo, rappresenta un sicuro progresso della giurisprudenza ed offre un contributo al dibattito, per lo più dottrinale, sulla crescente incidenza della rete sull’assetto dei rapporti e degli interessi.
L’emergenza sanitaria costituisce, nel decreto impugnato (e forse anche nell’ordinanza), quasi un pretesto per affermare – con maggior forza, in considerazione della straordinarietà della situazione – la sussistenza di un diritto alla rete ormai riconosciuto dall’Unione europea e da rendere effettivo attraverso l’intervento dello Stato che corregga eventuali storture del mercato.
A ben vedere, la transizione verso il mondo digitale è un portato della storia che, ovviamente, finisce per prescindere dalla stessa volontà del legislatore, dell’Amministrazione, della giurisprudenza, chiamati a prenderne atto ed a delineare regole idonee a governare il cambiamento nella cornice di riferimenti costituzionali che paiono già adeguati a garantire diritti e libertà ineludibili.
Potrà, per tal via, scongiurarsi il rischio che vasti settori della popolazione siano ancora costretti ad assistere all’avvento della società dell’informazione passivamente, “al di fuori dei cancelli elettronici” e che “il futuro [recte, il presente] possa essere una terra di meravigliose opportunità solo per l’esigua minoranza dei ricchi, dinamici ed istruiti (…) e nello stesso tempo diventi un oscuro Medioevo digitale per la maggioranza degli uomini: i poveri, i non istruiti, i cosiddetti non necessari”[47].
* * *
[1] L’intervento è strutturato attraverso un rapporto trilaterale tra Infratel Italia s.p.a. (soggetto attuatore), operatori di telecomunicazione e consumatori: gli operatori accreditati stipulano il contratto con il consumatore e ne comunicano gli estremi ad Infratel; questa eroga l’importo del relativo voucher agli operatori che lo “trasferiscono”, infine, ai consumatori sotto forma di sconto in fattura.
[2] A tal proposito, nel preambolo del decreto si richiamano le deliberazioni adottate dal Comitato banda ultralarga (CoBUL) il 5 maggio ed il 24 giugno 2020. Il Comitato è un organo politico istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed è preposto all’attuazione della “Strategia Italiana per la banda ultralarga” approvata dal Consiglio dei ministri in data 3 marzo 2015. Esso, a partire dal d.P.C.M. 15 novembre 2019, è presieduto dal Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione ed è costituito dal Ministro dello Sviluppo economico, dal Ministro per la pubblica Amministrazione, dal Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, dal Ministro per le Politiche agricole, alimentari e forestali, dal Ministro per il Sud e la Coesione territoriale, dal Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome.
Nella riunione del 5 maggio 2020, e quindi in piena emergenza sanitaria, il CoBUL ha approvato il “piano voucher” definito quale “intervento finalizzato a favorire la disponibilità di connessione a internet da parte di famiglie e imprese per supportare, immediatamente, le esigenze di teledidattica (studenti e docenti) e di lavoro agile (lavoratori e imprese)”.
[3] Ai sensi dell’art. 21, l. 10 ottobre 1990, n. 287, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha inviato ai presidenti delle Camere, al Governo, all’AGCom ed all’ANCI la segnalazione n. S3904 del 1° luglio 2020 “relativa allo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazione fissa e mobile a banda ultralarga in un’ottica di promozione degli investimenti e tutela di un necessario gioco concorrenziale”. Secondo l’AGCM “gli strumenti di sostegno alla domanda – tramite l’erogazione di voucher e dispositivi elettronici – per le famiglie poco abbienti che si dotano di connettività a banda ultralarga (intervento di coesione o c.d. fase I), sono apprezzabili nella misura in cui permettono una rapida diffusione delle reti di telecomunicazione, promuovendo al contempo l’inclusione sociale ed evitando che, soprattutto nel periodo di emergenza, tali soggetti vengano esclusi dalla vita sociale ed economica, potendo ricorrere all’insegnamento e al lavoro a distanza. Tale strumento fornisce un aiuto concreto e immediato ai soggetti che risultano maggiormente esclusi dalla vita sociale ed economica non potendo accedere ai servizi di connettività a banda ultralarga” (corsivi aggiunti). La segnalazione è richiamata nel preambolo del d.m. impugnato.
[4] Si tratta della decisione n. C(2020)5269 final, “Broadband vouchers for certain categories of families”, del 4 agosto 2020, richiamata nel preambolo del decreto ministeriale impugnato.
[5] C(2020)5269 final, § 49: “The measure has a social character as it is reserved for low-income families whose financial situation justifies the payment of aid for social reasons. The measure responds to a social necessity to ensure that low-income families have access to suitable broadband services to continue learning, socialising, working and purchasing goods and services. Italy has clarified that as an effect of the economic consequences triggered by the COVID-19 outbreak, it is likely that without the measure the eligible families may face difficulties to bear the costs of acquiring the eligible services which consequently may prevent them from continuing to learn, socialise, work and purchase goods and services. To the extent that the scheme aims at ensuring that low-income families can access services which allow them to exercise essential, constitutionally guaranteed rights, such as the possibility of learning and working, it reflects both short-term and long-term social concerns”.
[6] Come è noto, ai sensi dell’art. 107 § 2, lett. a) del TFUE “sono compatibili con il mercato interno: gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti”. La Commissione, nel caso di specie, ha osservato che: “the aid to the participating eligible telecommunications providers can be deemed compatible with the internal market pursuant to Article 107(2)(a) TFEU” (C(2020)5269 final, § 52).
[7] C(2020)5269 final, § 45: “Commission considers that as the measure is imputable to the State, involves State resources, provides a selective advantage to certain beneficiaries engaged in an economic activity, distorts or threatens to distort competition in the internal market and affects trade between Member States, the notified measure constitutes State aid within the meaning of Article 107(1) of the TFEU”.
[8] Sulla valutazione cautelare dell’interesse pubblico e dell’apprezzamento “bilaterale” del periculum, cfr. M. Lipari, La nuovatutela cautelare degli interessi legittimi: il “rito appalti” e le esigenze imperative di interesse generale, Federalismi.it, n. 5/2017, 13-18.
[9] Come ricorda M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 2010, 1135 “La sospensione di un provvedimento amministrativo può essere infatti strumentale anche all’interesse pubblico generale (quello tutelato dalle norme violate), che non sempre coincide con quello specifico della P.A. che ha emanato l’atto e che magari ha ingiustamente preposto il pubblico interesse particolare di cui essa è affidataria a quello generale (…). La decisione cautelare, come quella di merito, diventa pertanto un delicato problema di bilanciamento dei diversi interessi, legato alla proporzionalità della misura adottata non soltanto tra l’interesse del ricorrente e quello dei suoi legittimi contraddittori, ma anche tra i diversi interessi pubblici coinvolti”.
[10] Cfr. M.T.P. Caputi Jambrenghi, La funzione amministrativa neutrale, Bari, 2017, 314, la quale osserva: “come una corretta regolazione del principio della neutralità tecnologica nel nostro ordinamento giuridico imponga che la norma di legge non possa ‘restare indietro’ rispetto all’evoluzione in continuo divenire del web, sicché alla legge è affidata la funzione di enucleare ed esporre i princìpi che regolano il settore e non anche quella di intervenire con norme tecniche o disposizioni ad oggetto tecnologico; è alla regolazione (anche espressa in decreti ministeriali o presidenziali non aventi contenuto di regolamento governativo) (…) che viene affidata l’acquisizione di nova tecnologici”.
[11] Secondo l’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 259/2003 “il Ministero e l’Autorità nell’esercizio delle funzioni e dei poteri indicati nel Codice perseguono, ove possibile, il principio di neutralità tecnologica, nel rispetto dei principi di garanzia della concorrenza e non discriminazione tra imprese”. L’osservanza del principio di neutralità tecnologica è stata recentemente ribadita dalla direttiva 2018/1972 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018 “che istituisce il Codice europeo delle comunicazioni elettroniche” (art. 3, comma 4, lett.c).
[12] La prima legge esplicitamente dedicata alla neutralità di internet è stata adottata in Cile (Ley n. 20.453 del 26 agosto 2010, “Consagra el principio de neutralidad en la red para los consumidores y usuarios de internet”). Per una definizione di net neutrality nel nostro ordinamento, cfr. AGCom, delibera 3 febbraio 2011, n. 39/11/CONS, Allegato B, § 171. Sulla neutralità della rete, anche per i riferimenti bibliografici, sia consentito il rinvio a P. Otranto, Net neutrality e poteri amministrativi, in Federalismi.it, n. 3/2019.
Come è stato efficacemente osservato da M.T.P. Caputi Jambrenghi, La funzione amministrativa neutrale, cit., 315, “la neutralità della rete impone l’assenza di restrizioni o interferenze, poggiando sulla premessa maggiore -data per presupposta- per la quale tutti hanno diritto ad accedere alla rete per ricevere o trasmettere dati, informazioni, nozioni e idee e per instaurare rapporti lavorativi, economici e sociali”.
[13] Regolamento (Ue) 2015/2120 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015 “che stabilisce misure riguardanti l’accesso a un’internet aperta e che modifica la direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica e il regolamento (Ue) 531/2012 relativo al roaming sulle reti pubbliche di comunicazioni mobili all’interno dell’Unione”. Nella dottrina italiana, v. M. Orofino, La declinazione della net-neutrality nel Regolamento europeo 2015/2120. Un primo passo per garantire un’Internet aperta?, in Federalismi.it ‒ Focus Comunicazione, Media e Nuove Tecnologie, n. 2/2016, 12 ss.; F. Donati, Net neutrality e zero rating nel nuovo assetto delle comunicazioni elettroniche, in T.E. Frosini – O. Pollicino – E. Apa – M. Bassini (a cura di), Diritti e libertà in Internet, Milano, 2017, 189- 192; M. Interlandi, Neutralità della rete, diritti fondamentali e beni comuni digitali, in Giustamm.it, n. 2/2018.
[14] Art. 3, § 1, e considerando 5.
[15] Si veda anche AGCom, Delibera n. 348/18/CONS del 18 luglio 2018, recante “Misure attuative per la corretta applicazione dell’articolo 3, commi 1, 2, 3, del Regolamento (UE) n. 2015/2120 che stabilisce misure riguardanti l’accesso a un’internet aperta, con specifico riferimento alla libertà di scelta delle apparecchiature terminali”.
[16] Art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 2008/63/Ce della Commissione del 20 giugno 2008 “relativa alla concorrenza sui mercati delle apparecchiature terminali di telecomunicazioni”.
[17] AGCom, Delibera n. 348/18/CONS del 18 luglio 2018, cit. Nella giurisprudenza nazionale, cfr. Tar Lazio – sez. III, sentenza 28 gennaio 2020, n. 1200 che ha affermato, ancorché a livello di obiter dictum, la legittimità della suddetta delibera in quanto espressione dei principi enunciati nel regolamento n. 2015/2120. Sempre in materia di net neutrality, si segnala la recente pronuncia con la quale la Corte di giustizia ha affermato l’illegittimità delle pratiche tariffarie c.d. di “zero rating” per violazione del regolamento n. 2015/2120 (Corte di giustizia, grande sezione, 15 settembre 2020 in cause riunite C‑807/18 e C‑39/19). Le tariffe “zero rating” consentono ai consumatori di beneficiare di alcuni servizi internet a costo zero, mentre assoggettano altre applicazioni ed altri servizi a misure di blocco o rallentamento. Nel caso di specie, ad esempio, sono stati considerati contrari ai principi di net neutrality i pacchetti, offerti dall’operatore ungherese Telenor, denominati “my chat” e “my music”. Il primo prevedeva che l’utilizzo di sei applicazioni specifiche di comunicazione online (Facebook, Facebook Messenger, Instagram, Twitter, Viber e Whatsapp) non comportasse alcun consumo del volume di dati acquistato ed inoltre che, una volta esaurito il suddetto volume di dati, i clienti potessero continuare ad utilizzare senza restrizioni tali applicazioni specifiche, mentre altre applicazioni e servizi venivano assoggettati a misure di rallentamento del traffico. Analoga previsione conteneva l’offerta “my music” con riferimento all’uso di applicazioni per la trasmissione di musica (Apple Music, Deezer, Spotify e Tidal).
[18] Si vedano, ad esempio, le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, prof. Giuseppe Conte, il quale in una conferenza stampa del 6 aprile 2020, ha affermato che “la possibilità di collegarsi ad internet dovrebbe essere costituzionalmente tutelata”. Il 14 settembre il Capo dello Stato, evitando ogni riferimento al fondamento costituzionale del relativo diritto, ha sottolineato “l’urgenza e la necessità assoluta di disporre della banda larga ovunque nel nostro Paese”.
[19] L’inversione di prospettiva nell’analisi del rapporto tra autorità e libertà si deve anche alle riflessioni di V. Caputi Jambrenghi, Uffici ed impiegati pubblici dallo Statuto albertino alla Costituzione nei centocinquant’anni di Unità d’Italia (veduta di scorcio), in Giustamm.it, 2011.
Come è stato puntualmente osservato da A. Angiuli - V. Caputi Jambrenghi, A proposito di gradualismo e superamento delle dicotomie: una metafora e un binomio da invertire, in Il diritto dell’economia, n. 3/2019, 22-23, “se ad una dicotomia è necessario ricorrere, quella più conforme all’ordinamento derivato di diritto amministrativo è libertà-autorità; laddove il primo termine riecheggia l’origine del potere amministrativo, l’origine dell’autorità che non può che individuarsi nella volontà profonda – come sottolineano Giuseppe Capograssi e Renato Dell’Andro, autorevoli filosofi del diritto – del vasto gruppo sociale che in democrazia esercita sovranità mediante leggi e regolamenti applicativi aventi ad oggetto la costruzione dommatica e pratica di un’autorità-arbitro, un’autorità economica e per il mercato, un’autorità di garanzia, ecc., tutte destinatarie di poteri commisurati alle necessità di assolvere ai compiti di benessere ed agli obblighi nei confronti di situazioni di diritto soggettivo (…) È, in realtà, soltanto da un fatto di esercizio di libertà che può sorgere ed essere successivamente accolto il provvedimento dell’autorità, il suo intervento nettamente orientato e rivolto verso una realizzazione conforme al principio di libertà (…). Non c’è spazio adeguato, dunque, per l’autorità senza la premessa di un fatto di libertà – produzione del nomos – fin quando, cioè, la libertà abbia compiutamente affermato la sua supremazia di primogenitura”.
[20] In tale prospettiva, allo Stato spetterebbe il compito di non frapporre ostacoli all’accesso e di assicurare il funzionamento della rete mediante il recepimento delle regole tecniche elaborate a livello internazionale dalle organizzazioni preposte a tale fine, valutandone l’adeguatezza e legittimità in relazione ai principi costituzionali, nonché di garantire solo il massimo pluralismo sul piano politico e sociale e la più vasta concorrenza su quello economico. Si veda, ad esempio, P. Costanzo, Miti e realtà dell’accesso ad internet (una prospettiva costituzionalistica), in P. Caretti (a cura di), L’informazione. Il percorso di una libertà, Firenze, 2012, 9 ss. Secondo l’A. “occorre ribadire come l’idea di accesso, costituzionalmente tutelato, a internet, di per se stesso e in se stesso considerato, abbia fragili appigli nel tessuto normativo della carta fondamentale, potendo, al più, valere come «metafora felice» di una serie di situazioni eterogenee e strumentali, queste sì, di valore costituzionale e irrefragabilmente idonee a significare la prosperità del connubio tra Costituzione e internet”.
Per una recente ricostruzione del dibattito dottrinale, cfr. M. Bassini, Internet e libertà d’espressione. Prospettive costituzionali e sovranazionali¸ Roma, 2019, 279 ss.
[21] L. Cuocolo, La qualificazione giuridica dell’accesso a Internet, tra retoriche globali e dimensione sociale, in Pol. dir., 2012, 263 ss., spec. 284; G. De Minico, Uguaglianza e accesso a Internet, in www.forumcostituzionale.it (6 marzo 2013); T.E. Frosini, L’accesso a Internet come diritto fondamentale, in O. Pollicino - E. Bertolini - V. Lubello (a cura di), Internet: regole e tutela dei diritti fondamentali, Roma, 2013, 69 ss. Il diritto sociale di accesso a internet, dunque, si sostanzierebbe nella pretesa dell’utente di vedere garantita, mediante interventi dei pubblici poteri in grado di ridurre i fattori culturali e tecnologici che determinano il digital divide, la possibilità di utilizzare in modo efficace le molteplici applicazioni della rete. Un articolato percorso ricostruttivo volto a radicare nelle norme costituzionali un “nuovo diritto sociale” di accesso a internet, o meglio, di accesso alla conoscenza “tramite internet”, è operato da M.T.P. Caputi Jambrenghi, La funzione amministrativa neutrale, cit., 292-296. Secondo l’A. “il diritto all’informazione mediante la rete delle reti è un nuovo diritto, che, pur essendo innegabilmente connesso all’art. 3, comma 2, Cost., per la sua strumentalità rispetto alla rimozione di ostacoli ad una partecipazione attiva alla vita politica e sociale, può dirsi, tuttavia, connotato dal carattere universalistico” (ivi, 297).
[22] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 112, qualificava l’accesso come “diritto fondamentale della persona”.
[23] F. Borgia, Riflessioni sull’accesso ad Internet come diritto umano, in Comun. intern., 2010, 395 ss. Per un’analisi critica di tale impostazione, cfr. L. Cuocolo, La qualificazione giuridica dell’accesso a Internet, cit., 281.
[24] La proposta formulata durante la XVI legislatura, atto Senato n. 2485 (sen. Di Giovan Paolo e altri) prevedeva l’introduzione di un articolo 21 bis Cost. del seguente tenore: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. Cfr. anche, nella XVII legislatura, due disegni di legge costituzionale: il primo (atto Senato n. 1317 - Sen. Lucidi e altri) proponeva una modifica dell’art. 21 Cost. aggiungendo, dopo il primo comma, un nuovo secondo comma, così formulato: “Tutti hanno il diritto di accedere liberamente alla rete internet. La Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale al fine di rendere effettivo questo diritto. La legge promuove e favorisce le condizioni per lo sviluppo della tecnologia informatica”; il secondo (atto Senato n. 1561 - Sen. Campanella) suggeriva, invece, l’introduzione di un nuovo art. 34-bis a mente del quale: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete internet, in modo neutrale, in condizione di parità e con modalità tecnologicamente adeguate. La Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo l’accesso alla rete internet come luogo ove si svolge la personalità umana, si esercitano i diritti e si adempiono i doveri di solidarietà politica, economica e sociale”.
Nella legislatura in corso (XVIII)è stato proposto un disegno di legge costituzionale avente ad oggetto l’ “introduzione dell'articolo 34-bis della Costituzione, in materia di riconoscimento del diritto sociale di accesso alla rete internet” (atto Camera n. 1136 - deputati D’Ippolito e Liuzzi). Il nuovo articolo 34-bis Cost. dovrebbe essere così formulato: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete internet in condizioni di parità e con modalità tecnologicamente adeguate. La Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo l’accesso alla rete internet come luogo dove si svolge la personalità umana, si esercitano i diritti e si adempiono i doveri di solidarietà politica, economica e sociale. La limitazione di tale diritto può avvenire, con le garanzie stabilite dalla legge, solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria. È riconosciuta la neutralità della rete internet. La legge determina le condizioni affinché i dati trasmessi e ricevuti mediante la rete internet non subiscano trattamenti differenziati se non per fini di utilità sociale e riconosce la possibilità di utilizzare e di fornire apparecchiature, applicativi e servizi di propria scelta”.
Un’ulteriore recentissima proposta, il cui testo non risulta ancora pubblicato, prevede l’introduzione della seguente disposizione all’art. 21 Cost., dopo il comma 6: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate tali da favorire la rimozione di ogni ostacolo di ordine economico e sociale” (XVIII legislatura, atto Camera n. 2769 - deputati Madia e Orlando, “Modifica all’articolo 21 della Costituzione in materia di riconoscimento del diritto d’accesso alla rete internet”).
[25] P. Otranto, Internet nell’organizzazione amministrativa. Reti di libertà, Bari, 2015, passim.
[26] Così M. Bassini, Internet e libertà d’espressione, cit., 92, il quale soggiunge: “Non, dunque, la tutela del mezzo in sé ma la tutela della libertà di ricorrere al mezzo per l’esercizio di diritti sembra la prospettiva più corretta per reagire alla diffusione delle nuove tecnologie e al loro impatto sui diritti fondamentali. Questa osservazione può guadagnare in chiarezza guardando alla molteplicità di campi nei quali Internet può avere impiego: non solo per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, ma anche per godere della libertà di comunicazione; per il diritto alla ricerca e all’istruzione, così come anche per esercitare la libertà di associazione”.
[27] In questa prospettiva, si vedano le condivisibili riflessioni di P. Passaglia, Internet nella Costituzione italiana: considerazioni introduttive, in M. Nisticò – P. Passaglia (a cura di), Internet e Costituzione. Atti del Convegno (Pisa 21-22 novembre 2013), Torino, 2014, 1 ss.; Id., Ancora sul fondamento costituzionale di internet. Con un ripensamento, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in giurcost.it, 26 giugno 2019. Cfr. anche M. Bassini, Internet e libertà di espressione, cit., 289, secondo il quale il “principio di eguaglianza in senso sostanziale può essere utilizzato efficacemente come strumento che impone ai pubblici poteri l’eliminazione di quelle situazioni di discriminazione dovute a ostacoli di natura economica e sociale. Anzi, proprio la sua neutralità rispetto ai fini rappresenta una caratteristica che lo rende particolarmente adatto a fungere da parametro al quale fare affidamento nell’ottica di una garanzia di Internet che sia funzionale all’esercizio dei diritti di cittadinanza. Internet, dunque, in quanto ‘mezzo’ di libertà (non di una, ma di plurime) è senz’altro l’oggetto di un diritto fondamentale, lo è già allo stato, senza alcun bisogno di una costituzionalizzazione esplicita”.
[28] Il divario digitale riguarda sia le infrastrutture, sia le competenze necessarie per un uso consapevole della rete. Come emerge dal Digital Economy and Society Index – che misura i risultati in ambito digitale conseguiti dagli Stati membri dell’Ue – l’Italia è quart’ultima in Europa per le performance digitali e diciassettesima su 28 Paesi europei con riferimento alla connettività. Sul punto, cfr. https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi. Il superamento del divario digitale, peraltro, costituisce un obiettivo anche alla luce degli obblighi derivanti dall’adesione all’Unione europea, ad esempio individuati dalla comunicazione della Commissione del 14 settembre 2016 sulla “Connettività per un mercato unico digitale competitivo: verso una società dei Gigabit europea” richiamata nel decreto impugnato.
[29] M. Bassini, Internet e libertà di espressione, cit., 289.
[30] M. Ainis, Il diritto a Internet che c’è già, sul quotidiano La Repubblica, del 27 novembre 2020, in ordine al rinnovato dibattito sulla necessità di una disposizione della Carta fondamentale che espressamente preveda la tutela dell’accesso a internet, richiama l’art. 21 Cost. come fondamento costituzionale adeguato e soggiunge, efficacemente, “nel blocco di marmo c’è già, in nuce, la figura che verrà scolpita. C’è anche in un angolo della Costituzione, com’è il caso del diritto a Internet. Ma in generale, per vedere l’essenziale occorre distogliere lo sguardo dal superfluo”.
[31] A partire dagli anni Novanta, il diritto di accesso alla rete è stato oggetto di riconoscimento costituzionale in quanto strumentale all’esercizio del diritto di accesso ai dati personali e alle informazioni pubbliche. La Costituzione del Paraguay del 1992 ha introdotto una riserva di legge al fine di assicurare, in condizioni di parità, l’accesso a “los instrumentos electrónicos de acumulación y procesamiento de información pública, sin más límites que los impuestos por las regulaciones internacionales y las normas técnicas” (art. 30, comma 2). La Costituzione venezuelana del 1999 ha affidato allo Stato il compito di garantire l’organizzazione di servizi informatici in rete al fine di consentire l’accesso universale all’informazione (art. 108). Nelle Costituzioni più recenti l’accesso alla rete assume una sua autonoma consistenza. Così la Costituzione greca (riformata nel 2001) prevede il diritto della persona di partecipare alla “società dell’informazione” e il correlato obbligo dello Stato di promuovere l’accesso alle informazioni elettroniche così come la produzione, lo scambio e la diffusione delle stesse (art. 5A, comma 2); la Carta fondamentale dell’Ecuador del 2008 riconosce un diritto universale di accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (art. 16, comma 2).
[32] Cfr., ad esempio, U.S. Supreme Court, 521 U.S. 844 (1997), Reno v. American Civil Liberties Union et. al., del 26 giugno 1997, n. 96-511. La sentenza compare, tradotta in italiano, a cura di V. Zeno-Zencovich in Dir. inf., 1996, 604, con nota di V. Zeno-Zencovich, Manifestazione del pensiero, libertà di comunicazione e la sentenza sul caso “Internet”, ivi, 640 ss. Si veda, altresì, Conseil constitutionnel, sentenza n. 2009-580, 10 giugno 2009, pubblicata in una traduzione italiana in Dir. inf. 2009, 524; Sala constitucional de la Corte suprema de justicia della Costa Rica, sentenza 30 luglio 2010, n. 12790.
[33] Si veda, ad esempio, il documento The promotion, protection and enjoyment of human rights on the Internet, approvato il 27 giugno 2016 dal Consiglio per i diritti umani dell’ONU (A/HRC/32/L.20), nel quale, in particolare si invitano gli Stati ad adottare politiche pubbliche relative a internet volte a garantire l’accesso universale alla rete ed il godimento dei diritti umani on line.
[34] Come è noto, in distinte esperienze nazionali e sovranazionali, esistono numerose iniziative per l’elaborazione di Carte dei diritti e doveri in internet. Per un’aggiornata analisi critica ed ampi riferimenti dottrinali, cfr. M. Bassini, Internet e libertà di espressione, cit., 97 ss. Nell’esperienza italiana si veda la “Dichiarazione dei diritti in internet” del 2015, redatta dalla “Commissione per i diritti e doveri relativi ad internet” istituita su iniziativa della Presidenza della Camera dei deputati e composta da parlamentari e studiosi attivi nel settore di riferimento. Sul punto si vedano i saggi raccolti in M. Bassini - O. Pollicino (a cura di), Verso un Internet bill of rights, Roma, 2015, spec. M. Bellezza, Carta dei diritti di Internet. La complessità del presente e le opportunità del futuro, ivi, 31 ss.
[35] In forza dell’art. 4, § 2, della direttiva 2002/22/CE, la connessione da postazione fissa ad una rete di comunicazione pubblica, oggetto di obblighi di servizio universale, doveva essere “in grado di supportare le comunicazioni vocali, facsimile e dati, a velocità di trasmissione tali da consentire un accesso efficace a internet, tenendo conto delle tecnologie prevalenti usate dalla maggioranza degli abbonati e della fattibilità tecnologica”.
[36] Corte di Giustizia, sentenza Base Company e NV Mobistar NV / Ministerraad, 11 giugno 2015, in causa C-1/14, avente ad oggetto la conformità alla direttiva 2002/22/CE “servizio universale” della legge belga sulle comunicazioni elettroniche, adottata nel 2005 e modificata nel 2012.
[37] Deve segnalarsi che, all’esito di una consultazione pubblica durata un anno, la AGCom con delibera 253/17/CONS del 27 giugno 2017 ‒ esercitando la propria funzione consultiva nei confronti del Ministero dello Sviluppo economico in riferimento alla revisione periodica del contenuto del servizio universale (art. 65 d.lgs. n. 259/2003) ‒ aveva ritenuto che la connessione a internet da postazione fissa a banda larga dovesse rientrare tra gli obblighi di servizio universale. Nell’atto l’Autorità aveva preannunziato di voler esercitare la propria funzione in chiave propositiva, adombrando la possibilità di esser essa stessa promotrice di una segnalazione al Ministero per la modifica del contenuto degli obblighi di servizio universale.
[38] Rientrano nel “pacchetto telecom” 2002 la direttiva 2002/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio “relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime” (direttiva accesso); la direttiva 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio “relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica” (direttiva autorizzazioni); la direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio “che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica” (direttiva quadro); la direttiva 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio “relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica” (direttiva servizio universale).
[39] Considerando 212, 213.
[40] Secondo il considerando 219, “se gli Stati membri stabiliscono che i prezzi al dettaglio per i servizi di accesso adeguato a internet a banda larga e di comunicazione vocale non sono economicamente accessibili ai consumatori a basso reddito o con esigenze sociali particolari, tra cui gli anziani, gli utenti finali con disabilità e i consumatori che vivono in zone rurali o geograficamente isolate, essi dovrebbero adottare misure appropriate. A tal fine, gli Stati membri potrebbero offrire a tali consumatori un sostegno diretto a fini di comunicazione, che potrebbe rientrare nelle indennità sociali o buoni o pagamenti diretti destinati a tali consumatori. Ciò può rappresentare un’alternativa appropriata che tiene conto dell’esigenza di limitare al minimo le distorsioni del mercato. In alternativa o in aggiunta, gli Stati membri potrebbero imporre ai fornitori di tali servizi di offrire opzioni o formule tariffarie di base a tali consumatori”.
[41] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 19 maggio 2010, intitolata Un’agenda digitale europea, COM (2010) 245 def.
[42] Delibera CIPE n. 65 del 6 agosto 2015, recante “Fondo sviluppo e coesione 2014-2020: piano di investimenti per la diffusione della banda ultra larga” e richiamata nel preambolo del d.m. impugnato. All’art. 1 della delibera, il voucher è definito quale “contributo finalizzato all’accensione di servizi su reti a banda larga ultraveloci”.
Tra gli atti adottati dall’Ue, cfr. anche il regolamento (UE) 2017/1953 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2017 recante la “modifica dei regolamenti (UE) 1316/2013 e (UE) 283/2014 sulla promozione della connettività internet nelle comunità locali”; nonché la già ricordata Comunicazione del 14 settembre 2016, “Connettività per un mercato unico digitale competitivo: verso una società dei Gigabit europea”, della Commissione.
[43] In Foro it., 2004, I, 3260, nonché in Giur. cost., 2004, 3214 con commento critico di A. Pace, I progetti “PC ai giovani” e “PC alle famiglie”: esercizio di potestà legislativa esclusiva statale o violazione della potestà regionale residuale?, ivi, 3221 ss. Si veda anche F.G. Pizzetti, Il progetto “PC ai giovani” nel quadro della promozione dell’eguaglianza digitale da parte dello Stato e delle Regioni, in Federalismi.it, n. 12/2008. Per un’analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale sul tema, cfr. P. Passaglia, Corte costituzionale e diritto dell’internet: un rapporto difficile (ed un appuntamento da non mancare), in Giur. cost., 2014, 4837 ss.
[44] Si tratta degli artt. 27, legge 27 dicembre 2002, n. 298 (legge finanziaria 2003) e 4, commi 9 e 10, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004) che prevedevano dotazioni finanziarie per i progetti “PC ai giovani” e “PC alle famiglie”.
[45] Il Giudice delle leggi, infatti, ha individuato la finalità delle disposizioni impugnate nella “diffusione, tra i giovani e nelle famiglie, della cultura informatica (…) che corrisponde a finalità di interesse generale, quale è lo sviluppo della cultura, nella specie attraverso l’uso dello strumento informatico, il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 della Costituzione), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 della Costituzione”.
[46] Il riferimento è a Corte cost., 12 aprile 2005, n. 145 in Foro it., 2005, I, 2620 nonché in Dir. internet, 2005, n. 3, 247 con nota di P. Costanzo, L’accesso a internet in cerca d’autore.
[47] J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano, 2000, 305-306.
La giustizia dialogica di Andrea Giovita
"Molte sono le cose straordinarie, ma nulla esiste di più straordinario dell’uomo […]
e apprese la parola e il vento del pensieroe l’impulso del vivere civile […].
Oltre ogni speranza signoreggia l’intelligenza che escogita risorse". Sofocle, Antigone, 332,355,366
Sommario: 1. La giustizia dia-logica - 2. Diritto e Giustizia - 3. Sul concetto di giustizia dialogica.
1. La giustizia dia-logica
Un giusto processo deve poter articolarsi in un discorso di giustizia intesa come “pensare insieme”. Dove la legge mai possa configurarsi come un dominio chiuso, ma dalla legge promani il desiderio di trascendersi verso una giustizia. I canoni e i precetti della Chiesa dovrebbero essere posti nella linea di una giustizia che non si confonda con essi, che non vada a coincidere con la legge, ma che apre una prospettiva, indichi (Dike)[1] verso dove occorre muoversi, da un senso alla legge, è una istanza fondamentale che da movimento alle leggi, le quali devono muoversi come trascendendosi. Non sono tanto le leggi, ma è il fine che conta[2]. Le leggi devono poter testimoniare di questo movimento, la dinamica, questo è fondamentale. Identificare la legge con la giustizia ha portato a immani tragedie nella storia.
Se questo fine, questa missione si indebolisce, resta solo la legge, come unica istanza che ordina la comunità, certo più nessuno oggi oserebbe indicare o identificare la legge con la giustizia, ma di fatto ci si comporta così, perché non c’è che la legge, non c’è che l’ordinamento, non c’è che la dimensione giuridico amministrativa. Il rischio è che rimangono solo le leggi come controllo esercitato dall’autorità. Per cui dalla legge non emerge più quell’indice quella indicazione che ci volgeva verso una idea di giustizia.
La giustizia cristiana è fondata sul principio aristotelico del fare[3], del volere il bene dell’altro. Il modo di leggere la norma missionis, esemplificazione di quel pensare insieme, dire giustizia, non può essere letta come una norma sovraordinata rispetto alle altre, per andare oltre sé stessa e il proprio tempo, in una prospettiva trascendente, essa dovrebbe essere letta come un movimento, un’anima che ciascuna legge deve avere, altrimenti viene meno la trascendenza. La trascendenza[4] coinvolge anche le persone, un essere che si trascende, che cerca sempre oltre. In questa prospettiva risulta essenziale l’intuizione della norma missionis[5] che va collocata in questa dinamica, anzi come principio di questa dinamica. Norma missionis è quella Dike, indicazione, che leggendo la legge mi indica la via della giustizia.
Il valore del diritto e delle leggi è fondato sulla loro capacità di indicare una prospettiva[6], non sono semplicemente elementi tecnici amministrativi, ma fattori fondamentali dell’essere e ancor più dell’essere cristiano. Il loro valore è tanto più valore quanto sa dare questa indicazione. Tuttavia, tutta la discussione sopra questi problemi sembra perdersi e la conseguenza è che il campo delle leggi è ridotto a una dimensione amministrativa, tecnico amministrativa[7].
Legge intesa come: nomos[8], esercizio di autorità, amministrazione. Ogni potere e articolazione di legge che questo fonda è un fatto, un evento, può essere buono cattivo ecc…, ma resta un fatto. L’idea di giustizia non può ridursi alla fattualità[9], un fatto non può avere un valore universale. Infatti, quel fatto (legge/nomos) nella sua finitezza, nei suoi limiti, consapevoli, riconosciuti, di cui il potere deve essere in grado di riconoscere, tanto più sente questo limite, quanto più cercherà di attribuire alla legge questa tensione verso un’idea di giustizia. Poiché tanto più sono cosciente del mio limite, tanto più cercherò di superarmi[10].
Il nomos è il prodotto storico-finito di un potere finito, questa consapevolezza della finitezza del potere mi deve spingere a vedere nella legge Dike[11], cioè quell’aspetto della giustizia che è un rimando a una giustizia sempre eccedente[12], che si spinge oltre. Questo ci impegna a vedere quale è la nostra idea di giustizia che non può essere iscritta, determinata, definita, racchiusa in una legge.
Il principio della norma missionis inteso come Dike deve essere intrinseco ad ogni canone del Codice di diritto canonico e ancor di più in quei canoni processuali e penali del libro VI. Sembra quasi riduttivo a nostro parere racchiudere o tentar di chiudere tutto in un unico canone col principio di legalità. Nei momenti di crisi questa dimensione delle leggi si indebolisce e diventa sempre meno evidente, più la situazione è difficile, più si tende a chiudersi, a imprigionarci nei limiti della legge a non vedere oltre, vorremmo una legge che serva per difenderci e basta, che preservino i nostri interessi, che stabilisca solo accordi, patti.
La conseguenza di ciò è che tutto diventa diritto privato o peggio ancora con la scusa del principio dei tempi brevi, sfocia nell’amministrativizzazione delle procedure, senza un’autentica partecipazione cooperativa delle parti. Il diritto pubblico ha invece nella sua essenza l’esigenza di indicare un qualcosa che lo trascende. Ma se la legge ha il principale compito di difendere solo i nostri interessi, diventa qualcosa che serve solo ad amministrare le nostre relazioni e i nostri diritti privati.
Diritto è la garanzia di un patto tra ineguali, quindi il diritto deve stabilire/determinare delle leggi per le quali ci si può accordare fermo restando l’ineguaglianza delle parti. Questo ci dice che parlare di giustizia nel campo del diritto e delle leggi è una vuota fantasia o una pura utopia[13]. Questa è la corrente dominante della scienza contemporanea.
Questo concetto sempre plasticamente rappresentato dalla vicenda tragica di Antigone che decide di seppellire comunque il fratello, contro la legge di Creonte, viene giustiziata e con lei muore il fidanzato, figlio di Creonte[14].
Ci troviamo di fronte al grande esempio di una parola che uccide, la parola può essere logos (collegare, leggere) e può essere polemos (violenza distruttiva) la parola è un’arma e nella stessa radice c’è armonia[15]. La parola può essere armonia e arma. La tragedia mette in scena questo dramma di parole che indicano due cose opposte, è questa contraddizione[16].
L’opposizione di Antigone è radicale, non parla a nome di una legge della polis, di un'altra legge, non più a nome di nomos, ma a nome di Dike e Themis[17], di divinità archaiche che sono da prima della polis. Come potrebbe una polis vivere sulla base di una legge di Ade?
Di questa opposizione il coro se ne accorge e dice che questi due parlano due linguaggi diversi, che non possono comprendersi, non possono ascoltarsi, il grande dramma dell’Antigone, non possono ascoltarsi perché manca il Logos, il legame, l’armonia diventa soltanto arma. Antigone non fa un discorso di riforma nei confronti del sistema giuridico di Creonte, ma vi si oppone radicalmente, il dio di Antigone appartiene a una radice che non appartiene nemmeno a Zeus ma lo precede, è l’ordine cosmico, Themis la grande dea Themis ha radice di porre, Dike (giustizia) ha la radice di mostrare, è colei che mostra Themis.
Questo è il dramma che Sofocle guarda con terrore, come si può dirimere questa situazione. Creonte sbaglia cadendo nel peccato di prepotenza (hybris)[18], poiché non riconosce questo Archè, la legge/nomos di Creonte (assumo il potere e distribuisco i compiti) non ha a che fare nulla con il discorso di Antigone, è solo una legge positiva. La legge positiva, legge posta da Creonte non ha alcun rapporto con quel far segno di Antigone (a Dike e Themis). La hybris di Creonte consiste nella convinzione che solo le leggi nella loro positività non sono tutto, che solo la città nella sua immanenza possa salvare[19].
Antigone afferma che le leggi della città per lei non sono nulla. Perché è una questione di sangue, morto un fratello non se ne trova un altro. In questa prospettiva ci giochiamo una vera e seria riforma del diritto canonico e in particolare del diritto processuale anche nella sua declinazione penale. Oggi sembra essere venuto meno il Logos sostituito, oggi come allora, dal Polemos della “tolleranza zero” tanto invocata in questi ultimi tempi anche in ambienti ecclesiastici. Andrebbe recuperato il Logos come vero e proprio Logos Dialogico all’interno del quale posso leggere la legge (nomos) positiva che ha in sé e custodisce la norma missionis (Dike) che mi porta a interpretare e leggere la legge, mai perdendo di vista il fine poiché costantemente indicatomi da Dike, il fine, cioè Themis, nella comunità ecclesiale è da sempre identificato nella salus animarum. Perché come Antigone anche per noi è una questione di legame familiare, di saper prendersi cura dell’altro[20].
Come si fa ad armonizzare le leggi della città diritto positivo, legge necessaria, con Themis e Dike cioè con quelle leggi non scritte più arcaiche, precedenti, delle stesse leggi divine. Questa è la Tragedia che non si risolve se non nella catastrofe, muoiono tutti tranne Creonte che deve sopravvivere alla propria tragedia, non aver saputo comprendere la propria hybris e non aver saputo porre rimedio alla propria prepotenza.
La tragedia avviene perché entrambe le posizioni non hanno misura (dis-misura) non c’è metro che renda comparabili le due dimensioni[21]. La proposta di Sofocle è la richiesta che questa misura venga trovata. Il pensiero greco ci chiede questo di armonizzare, di trovare la misura giusta, tra la positività della legge, senza di cui non c’è Polis con la memoria viva, continua di un ordine che trascende l’immanenza della Polis, chiamiamola giustizia, Dike, norma missionis. Altrimenti il rischio è di fare la fine di Creonte che non è un tiranno cattivo[22], ma pensando che solo la Polis salva, che le sue leggi salvano e le leggi sono poste da chi ci governa, in questo modo si dimentica il rapporto con Dike e Themis, condannando Antigone senza ascoltarla[23]. Una legge è un fatto, riferimento a un evento statico, una lex, sarà sempre qualcosa di contingente, quindi non potrà essere in sé e per sé giusta. Solo nella misura in cui mostra coscienza di aver un riferimento a Dike (norma missionis) e Themis (salus animarum), a questa dimensione. Un evento, un fatto, quindi una legge, non può definirsi giusta se ritiene di essere solo fine a sé stessa[24]. Creonte non si rende conto della illogicità del suo ragionamento, per questo sarà portato alla catastrofe.
Non vogliamo opporre astrattamente Antigone a Creonte come molti autori propongono[25], la posizione di Creonte è di ritenere il nomos che si pone come autonomo, il problema di Antigone è simile altrettanto autonomo di quello di Creonte per questo non si combinano[26], poiché entrambi pretendono che la propria posizione sia “tutto” e non ascolta quella dell’altro, manca il dia-logos[27]. La tragedia finisce senza salvezza, ma semplicemente come tipico delle tragedie greche, termina con il riconoscimento che attraverso questo dolore ho riconosciuto, ho conosciuto che non vi è grandezza senza dolore. Non vi è salvezza, è conoscenza, ma è una conoscenza che aspira alla salvezza.
2. Diritto e giustizia
Necessario è il nomos (la legge), ma se quel nomos si ritiene autonomo a tal punto da violare leggi non scritte, ad esempio le consuetudini, i mores, se la legge pensa di fare per sé, rovinerà la città, non la salverà.
Secondo il pensiero di Aristotele nell’Etica Nicomachea[28]: si legge che la legge può essere giusta solo contingentemente quasi per caso alla legge può capitare di essere giusta, ma non è necessario che la legge sia in sé giusta. Per essere giusta la legge deve riferirsi alla Giustizia. Quindi a questo punto bisogna capire che cosa è la Giustizia[29]. Giustizia è tale solo se si rivolge a un altro, giusto è colui che ha riguardo per un altro. Quando si rivolge all’altro perché vuole, cerca il bene dell’altro ed è contento quando lo ottiene. Una persona è giusta quando opera per il benessere dell’altro, eudaimonia dell’altro. La legge non è giusta di per sé, ma lo è solo nella misura in cui opera o ci fa operare in questo senso. Una legge che non ha riguardo per una dimensione di giustizia è una legge che ritiene il suo mero fatto qualcosa che trascende l’orizzonte dei fatti e si erge a giustizia. Il fatto del nomos se riguarda quest’idea di giustizia è giusto, altrimenti non è giusto e non ha nulla a che fare con questa giustizia.
Il nomos va applicato, per cui i giudici che applicano la legge, interpretando la legge, dando alla legge un senso e un fine, in base al proprio senso di giustizia, il giudice giudicando fa diritto, non lo applica soltanto. Il giudizio è sempre emesso sulla base di un’idea di giustizia che il giudice ha in sé[30].
Non è possibile separare il Diritto dalla Giustizia[31]. Chi promulga una legge deve dare il fine e il senso di quella legge; senza il fine la legge rimane un bruto fatto costretto nella sua contingenza. La legge deve contenere in sé l’indicazione del fine che la trascende e il giudice applicando la legge deve rapportarsi a quel fine, il suo lavoro sarà di interpretare la legge sulla base di quel fine e del suo senso di giustizia rispetto alla legge. Il giudice può far questo nella misura in cui il diritto positivo, la legge, terrà conto del suo grande limite e riguarderà, indicando il suo fine, quella Dike (norma missionis) e quella Themis (salus animarum).
Come afferma G. Capograssi: «noi balbettiamo sempre sulla giustizia, siamo bravi a definire le leggi ad articolarle, ma a un certo punto bisogna affrontare la giustizia. Ma meglio balbettare che tacere, che fingere che diritto positivo e giustizia siano la stessa cosa perché questo porta alla dittatura, alla prepotenza, alla distruzione della comunità».[32]
Nella cristianità giusto è solo il Signore, il non giudicare è declinato con il poter/dover vuol dire cioè parlare, dialogare, ascoltarsi, perché potresti giudicare sulla base solo di un diritto positivo. La legge ha a che fare con la giustizia solo se essendo nell’immanenza del suo essere fatto, quel fatto contiene e indica (Dike) avendo compreso il limite, cerchiamo di approssimarci alla giustizia, quindi non condannerò Antigone perché ho capito che la legge positiva non è la giustizia.
Vivere e sentire la sofferenza di questa contraddizione lottando in tutti i modi, come fa il coro dell’Antigone, per cercare l’accordo, per fare che questa contraddizione non sia solo discorso ma diventi un dialogo.
3. Sul concetto di giustizia dialogica
Per giustizia dia-logica non si vuole qui intendere la sola giustizia riparativa[33]. Identificazione di certo opportuna e logica, ma che rischia di trascurare alcuni aspetti essenziali dell’essere della Giustizia (Dike) cioè come quella istanza che nel dialogo e grazie al dialogo indica nella legge (nomos) la via all’uomo. Per approssimarsi il più possibile alla verità per il raggiungimento del fine (Themis). La giustizia dia-logica non ha come fine principale la sola riparazione del danno, come tipico della giustizia riparativa, ma va oltre verso una ri-generazione delle relazioni.
La giustizia appartiene all’uomo nella sua essenza, irrinunciabilmente legato al suo tempo e alla sua storia, con tutte le sue contraddizioni; allo stesso tempo la giustizia appartiene all’uomo nella sua dimensione trascendente, nella sua dignità trascendente[34], quale costante anelito utopico, che gli consente di andare oltre il reale, al di là delle sue contraddizioni[35].
Proprio per questa caratteristica possiamo parlare di dialogica[36] che possiamo considerare un erede della dialettica, non intendiamo qui riferirci alla dialettica hegeliana che proponeva il superamento delle contraddizioni per mezzo della sintesi. La dialogica è intesa come presenza necessaria e complementare di processi o di istanze antagoniste, contrapposte o contraddittorie[37].
In questa prospettiva dialogica può trovare risposta la tragedia di Antigone e Creonte, può trovare armonia il conflitto di due istanze opposte che si incontrano in un processo, contro ogni proposta relativista o meramente soggettivista, la giustizia è irrinunciabilmente relazionale perché richiede sempre un “tu” per essere argomentata[38]. Per parlare della giustizia occorre parlare dell’uomo; sono due aspetti inscindibili, se non si vuol correre il rischio di cadere nel puro idealismo, per agire con giustizia occorre relazionarsi con l’altro. Perciò in base a come consideriamo la persona, l’altro, tale sarà la considerazione che avremo della giustizia e per la giustizia, dell’ingiustizia e del male[39].
La giustizia entra nel diritto quando il diritto appartiene all’uomo, quando esso ne è sintesi e sviluppo delle sue azioni e delle sue attese di ulteriorità rispetto al chrónos del momento presente rispetto a nomos, sapendo seguire il kairós che ci è indicato accogliendo e non pretendendo di sintetizzare istanze antagoniste che si presentano nella storia e che si proiettano al futuro nella dinamica dialogica del riconoscimento reciproco e della relazionalità. Da parte sua, la filosofia del diritto sembra avere un compito rivoluzionario e cioè quello di dissolvere le certezze dell’esperienza nella problematicità e, quindi, di porre nella coscienza il germe delle più profonde trasformazioni[40].
Affermare Dike nel nomos, affermare la norma missionis nel diritto canonico, la giustizia nel diritto positivo, significa vivere il fenomeno del proprio tempo nel costante richiamo al fondamento, nella prospettiva della persona[41]. Ciò significa comprendere che il diritto ha come sua vocazione, fine ultimo, non il sentenziare ponendo un punto fermo di chiusura, ma argomentare in modo sempre nuovo, nella creatività e nella libertà della persona e ancor più nella realtà della relazione, il fondamento che si narra ed è questo il suo Themis, il fine ultimo: la salus animarum. La sfida è quella di saper guardare all’esperienza giuridica nella prospettiva della continua riforma ma inserita in una continuità ermeneutica, superando i tentativi di esegesi, Dike, la norma missionis si pone quale tensione che indica, prova a far emergere il nuovo, l’oltre, che sempre chiede di essere compreso e attuato. Questo slancio permette di cogliere la proposta ermeneutica di un argomentare per ragioni, attraverso il vincolo della verità[42].
La giustizia indica e alimenta la capacità generatrice e creatrice del diritto, quando esso non è pensato per dominare persone o spazi, ma per favorire processi di inclusione e trasfigurazione del reale, promuovendo nuovi dinamismi nella società; parimenti la missione di annuncio della Chiesa vive lo stesso dinamismo, per questo possiamo parlare di giustizia come norma missionis. In questo senso il diritto è fedele a sé stesso quando si fa prossimo, vicino, perché nessuno resti escluso dall’incontro con l’altro[43], anche dal nemico, dal portatore di male,
«privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici […] si renda madre generatrice di processi».[44]
Agire con giustizia significa rinunciare a ogni rassicurante monito parenetico, per mettere in moto un agire autenticamente performativo[45], vale a dire quella particolare comprensione che è corrispondenza di attesa e scoperta della Verità, tanto che mentre cerchiamo la giustizia già la affermiamo attraverso la nostra ricerca, e questa ne è direttamente e realmente trasformata nelle modalità e nelle attese. Come la giustizia può essere strumento per la ricerca della verità? Non si tratta, infatti, di una forma di conoscenza definibile e circoscritta alla realtà, perché nella giustizia la Verità non è un’entità compiuta, ma originaria e originale interpretazione; e molto alto è il rischio di esposizione a un pensiero relativista e nichilista che non parla della Verità in chiave ermeneutica, ma di una fa molte verità. Porre al centro la persona, libera, razionale, relazionale, dialogicamente proiettata a conoscere le ragioni dell’altro permette di cercare la Verità, già anticipandone la scoperta nel modo attraverso il quale si rende ragione delle interpretazioni, perché la Verità dà sé stessa nell’interpretazione di ciascuno, senza però mai perdere sé stessa, dal momento che la differenza tra i diversi mediatori personali trova sempre sintesi nella sua unità[46].
Scrive Luigi Pareyson: «La verità è accessibile solo mediante un insostituibile rapporto personale e formulabile solo attraverso la personale via d’accesso a essa. Il pensiero che muove da questa solidarietà originaria di persona e verità è, al tempo stesso, ontologico e personale, e quindi insieme rivelativo ed espressivo, cioè esprime la persona nell’atto di rivelare la verità e rivela la verità nella misura in cui esprime la persona, senza che l’uno dei due aspetti prevalga sull’altro».[47]
Il diritto è una esperienza pienamente umana e pienamente relazionale e si caratterizza per un profondo agire performativo, poiché nella ricerca storica della giustizia esso ne argomenta il fondamento che supera il singolo momento[48]. Per questo è necessario anche per la Chiesa, poiché anch’essa possa svolgere al meglio con gli uomini e per gli uomini la sua missione di annuncio.
«L’orizzonte di significato del diritto, il suo logos, è nel suo ricercare il rapporto tra verità e storia e nell’approfondire la manifestazione della verità nella storia e nel dato della relazione coinvolgente tra le persone che, nel riconoscersi reciprocamente, affermano un’irrinunciabile diversità e nel comunicare, manifestano l’esigenza di cercare insieme nella mediazione, quale capacità di partecipare del sapere condiviso proprio della relazione con l’altro. Questa via dialogica non rinuncia alla giustizia e si fa dià-lògos iuris, così che attraverso il discorso essa attua il discernimento, partendo dalla singolarità del vissuto storico della persona e nel suo procedere dice qualcosa a ciascuno sulla qualità della sua relazione con l’altro e con gli altri e, quindi, già argomenta la verità già prima di averla raggiunta».[49]
L’equità[50] vanta un legame privilegiato con la dimensione integrale della giustizia[51], della quale è contemporaneamente parte e manifestazione, e si candida a esserne un principio interpretativo dal quale trarre un modello dell’esperienza giuridica relazionalmente vissuta ed ermeneuticamente orientata[52]. L’equità è stata progressivamente relegata al mondo del pre-giuridico e del meta-giuridico e il processo di codificazione e, più in generale, l’avvento del positivismo giuridico, l’hanno fortemente indebolita, lasciandola come vezzo della ricerca filosofica, romanistica e canonistica, ma comunque sempre estranea al diritto vivente; tuttavia, l’equità appartiene alla storia remota degli ordinamenti giuridici e, nella forma di criterio valutativo, essa è presente nel sistema in maniera più profonda e incisiva di quanto siamo portati a pensare[53].
L’equità è la dimensione più profonda e particolare di Dike e della norma missionis, essa è la giustizia del caso concreto, l’annuncio mi indica, mi dà la spinta per andare verso l’altro e, incontrato l’altro, sarà solo grazie all’equità che avrò gli strumenti opportuni per poter iniziare un dialogo che non sia solo discorso. L’equità è eccedente, è quel motore che spinge ad andare oltre, spinta utopica; essa ha bisogno del noi in relazione, perché ci invita a superare la logica dell’equilibrio e della proporzione indicandoci la via per entrare nella storia e nella vita delle persone. Allo stesso tempo l’equità è pilastro fondamentale della missione e dell’annuncio del vangelo. Essa, dunque, resta a pieno titolo tra i modi di attualizzazione e realizzazione, potremmo dire incarnazione, principali di quella indicazione (Dike) di giustizia della norma missionis che è contenuta nel nomos, ma va esplicitata e applicata, ciò avviene grazie all’equità.
Il ruolo dell’equità è molto più ampio e originale perché si muove quale gradiente performativo dell’intera esperienza giuridica; infatti, il tema dell’equità appartiene all’uomo nella sua costante disposizione ad agire secondo ragione, ovvero nella sua capacità di sintesi tra fenomeno e fondamento, tra la dimensione pratica e quella proiezione speculativa che nel dialogo[54] si fa presente in principi ordinamentali generali e in singole decisioni giudiziarie[55].
Il pensare dialogico inteso come luogo in cui è necessaria e complementare la presenza di processi e di istanze antagoniste, ha assunto un ruolo sempre più di spicco nell’ultimo secolo. Esso confina da un lato con il personalismo e dall’altro lato con il pensiero ermeneutico, inoltre non possiamo dimenticare le connessioni con la metafisica, la fenomenologia e l’analitica[56].
Autori come Zucal[57] inseriscono il pensare dialogico[58] come una vera e propria costellazione all’interno del panorama filosofico. Da ciò emergono due punti focali da un lato il riferimento etico-relazionale come risposta all’idealismo assoluto di matrice hegeliana, dall’altro il riferimento alla trascendenza[59].
Nel dialogo emerge un significato dell’essere da sempre presentito «In ogni tempo si è presentito che l’essenziale relazione reciproca tra due esseri ha il significato di una chance primordiale dell’essere, una chance che fa la sua apparizione per il fatto che c’è l’uomo. E si è anche presentito che proprio entrando nella relazione essenziale l’uomo si manifesta come uomo, che solo con questo e per questo egli raggiunge quella valida partecipazione all’essere che è stata tenuta in serbo per lui, che quindi il dire tu dell’io è all’origine di ogni singolo divenir uomo».[60]
La determinatezza del cristianesimo nel cammino degli uomini, che è cosa diversa dalla finitezza[61], diviene cammino della comunità dei credenti che stanno nella storia, dialogicamente, senza essere estranei, ma senza nemmeno essere ridotti a caratteri puramente e meramente mondani. In questo cammino si esercita una tradizione e una traduzione sempre nuove, che limitano il riferimento rigido ma insieme evitano di ridurre la riflessione a un semplice adattamento nei confronti dell’epoca. In questo cammino che è tradizione e traduzione i diversi linguaggi possono comprendersi. L’apertura filosofica del pensare dialogico si manifesta come apertura che tocca sia la dimensione teologica e non lascia indifferente quella giuridica[62].
Anche l’annuncio di una chiesa in uscita sarà qualcosa di diverso dalla propagazione per costrizione, o per proselitismo, essendo piuttosto la franchezza dell’annuncio cristiano la testimonianza che è a contatto con la vita concreta degli uomini.
Il pensare dialogico rappresenta una sfida epocale per l’allargamento del pensiero, poiché davanti a repentini mutamenti del mondo moderno, questa sfida si propone come risposta esperienziale, non come mera analisi.
Il pensare criticamente e dialogicamente inteso diviene in questo modo uno stile, un camminare assieme dell’uomo con l’uomo sulla via indicata da Dike verso un orizzonte, un oltre eccedente e sempre nuovo. Il dialogo così si rivela come categoria sia storica che categoria dell’essere, perno di un pensiero filosofico, ma anche elemento vivo della fattualità storica. Lo spazio del pensare viene così a configurarsi come spazio del “tra” e spazio dell’”oltre”, luogo in cui si fa il dialogo e la relazione ma anche luogo che oltrepassa sempre di nuovo l’attualità. Lo spazio del dialogo interelazionale è anche il luogo della Rivelazione e insieme del trascendimento di quanto sta al di là dell’umano.
[1] “Dike in-dica. Dike mostra, e mostrando anche dice. Giudica (iu-dex), sentenzia, riferendosi sempre alla madre Themis; Dike esprime Themis affinchè questa si faccia comprensibile ai mortali. Il suo dire non ha auctoritas in sé, ma in quanto proviene da Themis, sacro a Themis e consacrato al suo servizio. […] potremmo dire che Dike sta accanto a Zeus come somma interprete di Themis, necessaria al sovrano perché egli non “deliri” dall’Ordine, custodisca l’armonia del Tutto, proceda diritto e vinca la dis-misura, hybris, che sempre minaccia la sua natura. Il Re ascolta Themis attraverso la voce di Dike”. M. Cacciari- N. Irti, Elogio del diritto, Milano 2019, p.72.
[2] Sul fine della legge cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.90, a.1.
[3] Cfr. M. Cacciari- N. Irti, Elogio del diritto, cit.
[4] Cfr. Papa Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, 25.11.2014, AAS 106 (2014).
[5] P. Gherri, Lezioni di Teologia del Diritto canonico, Città del Vaticano, 2004.
[6] Cfr. A. Iaccarino, Verità e Giustizia, cit.
[7] Cfr. P. Gherri, Introduzione al diritto amministrativo canonico, Milano 2018. Si veda anche M. De Benedetto (a cura di), Il diritto amministrativo tra ordinamenti civili e ordinamento canonico: Prospettive e limiti della comparazione, Milano 2015.
[8] Per una definizione ampia e completa del termine greco Cfr. P. Chantraine, dictionnarie de la langue greque, historie des mots, Paris 1999.
[9] A. Iaccarino, La teoria della giustizia di John Rawls, in «Apollinaris» LXXXIV (2011), pp. 199-243.
[10] Su queste tematiche si veda il concetto di diritto aperto in H.L.A. Hart, il concetto di diritto, Torino 2002.
[11] Per una definizione ampia e completa del termine greco Cfr. P. Chantraine, dictionnarie de la langue greque, historie des mots, Paris 1999. p. 283.
[12] A. Iaccarino, Nessuno resti escluso. La giustizia oltre i confini, Città del Vaticano 2013.
[13] Sul tema dell’utopia si vedano: P. Ricoeur, per un’utopia ecclesiale, Torino 2018; e M. Cacciari – P. Prodi, occidente senza utopie, cit.; A. Iaccarino, il processo quale locus dialogico, cit., pp. 267-278; e R. Mordacci, Ritorno a utopia, Bari 2020.
[14] Sofocle, le tragedie (trad. it. a cura di A. Tonelli), Venezia 2004.
[15] M. Cacciari- N. Irti, elogio del diritto, cit.
[16] Creonte, il re, un re che ha ben meritato la sua città, sconfiggendo l’armata che voleva conquistare Tebe. Non c’è nessuna straordinarietà nella pena che Creonte infligge a Polinice, è la pena più dura, estrema, non è straordinaria rispetto alla colpa del quale è accusato. Creonte: solo la Polis, la città ben organizzata che ha un governo stabile e una legge che viene obbedita, solo questa città salva. Il dio di Creonte è la città che salva. Antigone, figlia di Edipo, non tollera che il fratello resti insepolto. Essa si mette a contestare Creonte, ma non propone un discorso intrinseco alla dimensione del diritto, chiedendo una riforma delle leggi. Semplicemente afferma che le leggi di Creonte per lei non valgono nulla: il mio Zeus per me è un altro, è uno Zeus simile a Ade, lo Zeus eterno perché eterni sono i morti, non lo Zeus dei vivi. Cfr. M. Cartabia – L. Violante, Giustizia e Mito, Bologna 2018; G. Zagrebelsky, la legge e la sua giustizia, Bologna 2008.
[17] Per una definizione ampia e completa del termine greco Cfr. P. Chantraine, dictionnarie de la langue greque, historie des mots, Paris 1999. pp.427-428.
[18] Cfr. M. Cartabia – L. Violante, Giustizia e Mito, cit.
[19] Cfr. M. Cacciari- N. Irti, Elogio del diritto, cit.
[20] Evidenziamo che si tratta di riconoscimento, non di riconoscenza: quest’ultima costituisce ex novo quello che già si sapeva, creando realtà nuove, mentre “il riconoscimento non crea nulla di nuovo ma, con precisione notarile, si limita a ribadire rendendo pubblica, nel senso visibile, una realtà già esistente”. E. Resta, Diritto fraterno, Bari-Roma 2020, p.6.
[21] “Antigone racchiude in sé tanto la regola alternativa a quella che proviene dal pubblico potere quanto l’assoluta opposizione a quest’ultimo” M. Cartabia – L. Violante, Giustizia e Mito, cit., p.88.
[22] Ivi, p.100.
[23] Il discorso del figlio di Creonte che accusa il padre di sbagliare è emblematico, come può sbagliare Creonte riguardo alle leggi, se sono io ad aver fatto la legge. Come può essere in errore rispetto a ciò che ho fatto? È il paradosso a cui si arriva solo se si tiene in considerazione la prospettiva che ha di mira solo, il nomos, il diritto positivo perché il nomos in quanto tale sono dei fatti, storicamente condizionati, come fanno dei fatti ad essere giusti? Su questi interrogativi si veda: M. Cacciari- N. Irti, elogio del diritto, cit.
[24] Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.90, a.2.
[25] Cfr. M. Cartabia – L. Violante, Giustizia e Mito, cit.
[26] Cfr. primo stasimo dell’Antigone in Sofocle, le tragedie (a cura di A. Tonelli), Venezia 2004, pp. 186-187.
[27] Cfr. A. Iaccarino, Verità e Giustizia, cit.
[28] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, (cur. C. Natali), Torino 1999.
[29] Cfr. A. Iaccarino, Nessuno resti escluso, cit.
[30] A. Iaccarino, Discernimento e pluralismo, cit.
[31] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q.58, a.1. per Tommaso è chiaro che il diritto è ciò che fonda la giustizia e quindi il diritto è a pieno titolo l’oggetto proprio della giustizia.
[32] Cfr. G. Capograssi, la vita etica, Milano 2008.
[33] Cfr. F. Reggio, Giustizia dialogica, luci e ombre della restorative justice, Milano 2010.
[34] Cfr. Papa Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, 25.11.2014, AAS 106(2014). Il Papa afferma in proposito: Parlare della dignità trascendente dell’uomo significa dunque fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato; soprattutto significa guardare all’uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale.
[35] Cfr. A. Iaccarino, il principio dell’equità, cit.
[36] L. Sandonà, Dialogica, per un pensare teologico, cit.
[37] E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano 2011.
[38] La presunzione di razionalità che anima ogni comportamento è portatrice di una pretesa di riconoscimento, la quale non è basata su elementi idiosincratici, ma su ragioni che possono, in linea di principio, essere condivise dall’altro, chiunque egli sia. Tale pretesa di riconoscimento si basa dunque su di un principio di argomentazione, in base al quale per ogni nostro comportamento presumiamo di avere ragioni sufficienti da opporre a chiunque ce ne chieda conto. Tutte queste caratteristiche implicano responsabilità, proprio quella responsabilità che la razionalità impersonale estingue. Questa responsabilità comporta un rischio e una sfida. Un rischio poiché ci si espone all’alterità che potrà riconoscere o meno la sufficienza delle ragioni addotte; una sfida poiché, nel reclamare un riconoscimento che validi il proprio comportamento, si provoca l’altro ad una risposta che lo esponga a sua volta. In questa reciproca esposizione dell’uno all’altro, il percorso di validazione della pretesa di riconoscimento della razionalità ha rifiutato la violenza in ogni sua forma, dogmatica o scettica, e ha scelto invece la via del confronto dialogico. La razionalità argomentativa è così una razionalità dialogica, poiché si gioca sempre e comunque in un confronto con gli altri, al contrario della razionalità dimostrativa che è monologica, in quanto il procedimento tecnico di deduzione non chiede alcun consenso, si dà secondo le sue regole e basta. G. Giorgio, La via del comprendere, cit., p. 70.
[39] Cfr. A. Iaccarino, il principio dell’equità, cit.
[40] “Se la filosofia implica, come la scienza, un approccio esterno al proprio oggetto (nel nostro caso, il diritto, che viene perciò considerato oltre il contingente limite della sua validità formale), essa si pone, contrariamente alla scienza, da un punto di vista interno alla vita della coscienza: è il farsi stesso della coscienza. Perciò essa non può che essere problematica come lo è la vita della coscienza che fiorisce entro i limiti della condizione umana. E la sua oggettività consiste proprio nell’esprimere puntualmente questa problematicità. Perciò essa è inesauribile, nei suoi problemi. Se raggiungesse le certezze della scienza spegnerebbe l’opera creatrice della libertà che sostiene la vita della coscienza e, quindi, la stessa inesauribilità dell’umana esperienza”. E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, cit., p. 9.
[41] Cfr. A. Iaccarino, il principio dell’equità, cit.
[42] “Il riferimento alla verità non può essere inteso come definitività del dato prevalentemente oggettivo da accogliere, propria dell’ostentazione della certezza totalizzante della legge, ma quale esperienza interpretativa e argomentativa che riposiziona la verità nella storia, grazie alla valutazione propria della soggettività antropologicamente rilevante, che si struttura come capacità di fare la verità nella storia e di argomentare la giustizia nel diritto, in situazioni concrete e che quindi impegnano la libertà, la partecipazione e la corresponsabilità intersoggettiva degli uomini”. A. Iaccarino, il principio dell’equità, cit.
[43] Cfr. ibid.
[44] Papa Francesco, Discorso in occasione del conferimento del premio Carlo Magno, 6.5.2016, AAS 108 (2016).
[45] Questa espressione appartiene al lessico del Giubileo della Misericordia ed è utilizzata da Papa Francesco, nella Lettera apostolica Misericordia et misera del 20.11.2016, AAS 108 (2016).
[46] Cfr. A. Iaccarino, Nessuno resti escluso, cit.
[47] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano 1973, p.17.
[48] Cfr. A. Iaccarino, il principio dell’equità, cit.
[49] A. Iaccarino, Discernimento e pluralismo, cit., pp. 590-591.
[50] Cfr. A. Iaccarino, L’equità come schema interpretativo dell’esperienza giuridica, cit.
[51] Cfr. F. Calasso, Equità (Premessa storica), in Enciclopedia del Diritto XV, Milano 1966, p. 59; M.J. Falcòn Y Tella, La justicia como mérito, Madrid 2014, p. 148; J. Castàn Tobenas, La idea de equidad y su relación con otras ideas, morales y juridicas, afines, Madrid 1950, pp. 79-82; Id., La formulación judicial del Derecho (jurisprudencia y arbitrio de equidad), Madrid 1953, p. 157.
[52] L’equità si pone in una situazione di mediazione tra la lettera astratta della norma e la realtà stessa, ma non come stampella della legge, come presenza metaforica del legislatore nel caso non previsto dalla lettera della norma; allo stesso tempo, il ricorso all’istituto dell’equità è spesso volto a garantire un’interpretazione benigna della legge o l’opposizione al rigor iuris.
[53] P. Rescigno- S. Patti, La genesi della sentenza, Bologna 2016, p. 60.
[54] Cfr. G. Giorgio, La via del comprendere, cit., in particolare, si veda il capitolo sesto.
[55] Cfr. A. Iaccarino, il principio dell’equità, cit.
[56] Cfr. G. Giorgio, La via del comprendere, cit.
[57] Cfr. S. Zucal, lineamenti di pensiero dialogo, Brescia 2004.
[58] Cfr. L. Sandonà, Dialogica, per un pensare teologico, cit.
[59] Papa Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, 25.11.2014, in AAS 106(2014).
[60] M. Buber, il principio dialogico, cit., p.319.
[61] B. Casper, il pensiero dialogico, Brescia 2009, p. 368.
[62] G. Giorgio, La via del comprendere, cit.
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Regioni, scuola e COVID-19: il Giudice Amministrativo tra diritto allo studio e tutela della salute (Nota Cons. Stato 6453/2020)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. Le Regioni e la gestione del rischio pandemico nel “settore istruzione”. – 2. La Campania: il decreto del Consiglio di Stato e i suoi profili processuali. – 2.1. I profili sostanziali. – 3. La Basilicata. – 4. La Calabria. – 5. La Puglia. – 6. Osservazioni conclusive.
1. Le Regioni e la gestione del rischio pandemico nel “settore istruzione”.
La gestione del rischio pandemico e del contagio interessa, come noto, tutti gli ambiti dell’agire pubblico, con inevitabili ripercussioni sulla vita privata dei cittadini. Uno di questi, oggetto di controversie a causa dei provvedimenti assunti dall’autorità amministrativa competente, è la scuola.
Le Regioni emanano ordinanze in successione in merito al rapporto tra diritto alla salute e diritto all’istruzione: i D.P.C.M. governativi si succedono allentando gradualmente le misure sul territorio nazionale, facendo tuttavia salve le prerogative regionali di introdurre disposizioni più rigide e restrittive, in relazione allo specifico contesto territoriale colpito dal virus.
Per avere un quadro complessivo della situazione, e delle problematiche che essa pone, è opportuno un esame della giurisprudenza che, da ultimo, si è pronunciata su alcune ordinanze regionali che sospendevano la didattica in presenza nelle scuole primarie.
Per l’analisi, da un punto di vista metodologico, si userà un criterio sistematico territoriale, passando al vaglio le pronunce dei Giudici di quelle regioni nelle quali sono nate controversie.
2. La Campania: il decreto del Consiglio di Stato e i suoi profili processuali.
La Regione Campania ha emanato una serie di ordinanze regionali[1] in materia di scuola, poi sfociate nella richiesta di tutela giurisdizionale dinanzi al Giudice di legittimità[2].
Il caso di questa regione è emblematico perché reca con sé due grandi questioni delle quali non può non farsi cenno: una di tenore processuale, concernente il doppio grado di giudizio sui decreti cautelari monocratici; l’altra, di natura sostanziale, riguardante invece la “forza” dei diritti in nome dei quali l’interpretazione delle regole processuali subisce una mutazione.
Il rapporto tra la giurisprudenza e l’emergenza pandemica corre infatti sul crinale di provvedimenti del Giudice amministrativo che sempre più frequentemente si occupano della tutela di diritti fondamentali e ad essa adattano l’interpretazione delle regole processuali[3].
Il provvedimento giurisdizionale ora segnalato[4] è uno dei pochissimi che si collocano in antitesi rispetto all’interpretazione consolidata e granitica del paradigma normativo ex art. 56 c.p.a., secondo la quale – nel silenzio del legislatore[5] – i decreti cautelari monocratici non sono impugnabili[6].
Con esso, infatti, il Presidente della III Sezione del Consiglio di Stato ha pronunciato in secondo grado su un decreto monocratico del TAR Campania, Napoli, con il quale il Giudice territoriale si era espresso in via cautelare in merito all’ordinanza della Regione Campania n. 89 del 5 novembre 2020.
Con quel provvedimento amministrativo, la Regione aveva provveduto alla conferma delle misure – già disposte con ordinanze nn. 86 del 30 ottobre 2020 e 87 del 31 ottobre 2020 – di sospensione delle attività didattiche ed educative nelle scuole primarie, secondarie e dell’infanzia.
Il tema è sensibile. Vengono in rilievo diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali quello degli alunni all’istruzione e quello dei genitori al lavoro: la protezione di questi diritti voga in direzione della riapertura delle scuole e, dunque, dell’annullamento (previa sospensione) dell’ordinanza regionale; viceversa, il diritto alla salute, in piena emergenza sanitaria, reclama la sua tutela inducendo le Amministrazioni territoriali regionali a disporre la chiusura degli istituti e l’erogazione di didattica a distanza.
Questo contrasto tra diritti è peraltro aggravato dalla temperie attuale: la quale, evidentemente, consente di accedere a uno strumento di cui il ricorrente, di regola, non può far uso, giusta l’interpretazione maggioritaria dell’art. 56 c.p.a.. Questo induce il Giudice di seconde cure a valutare positivamente l’ammissibilità dell’appello: nelle sue parole, «ricorre uno dei limitatissimi casi per i quali il Consiglio di Stato, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata del c.p.a., ammette l’istanza in appello, visto il pericolo affermato di irreversibile lesione di interessi che trovano diretto fondamento nella Carta».
2.1. I profili sostanziali.
L’ordinanza n. 89/2020, il cui gravame è giunto fino in Consiglio di Stato già in sede cautelare monocratica, recava misure abbastanza drastiche. In essa si prevedeva infatti la sospensione delle attività didattiche in presenza per le scuole primaria e secondaria, fatte salve situazioni concernenti alunni disabili; nonché la sospensione dell’attività in presenza nelle scuole dell’infanzia.
Questo sulla scorta di un’istruttoria svolta dall’Unità di crisi regionale la quale comunicava, nel suo report periodico, che «Dall’apertura delle scuole (private e pubbliche) si è avuto un progressivo incremento dei casi positivi nelle varie fasce di età interessate, con una correlazione positiva con il numero di casi in età adulta»; che tuttavia la chiusura delle scuole era stata in grado di contrarre i dati epidemiologici; sicché «al fine di continuare ad arginare la diffusione del contagio, appare utile e necessario continuare le attuali misure di contenimento già in essere mediante nuovo provvedimento che proroghi di almeno 7 giorni le precedenti misure».
Nello stesso report, l’Unità di crisi segnalava che «in un’ottica di prevenzione del rischio e non di rincorrere con misure postume il progressivo aumento del contagio, ormai in crescita esponenziale, la proroga delle misure fino ad ora messe in campo appare proporzionale ed indispensabile».
Sicché, la Regione ha provveduto con ordinanza alla proroga delle misure restrittive, ritenute – incorporando le parole del report – proporzionali e indispensabili[7] in un’ottica di prevenzione o, prima ancora, di precauzione[8].
La reazione è stata immediata, sicché il TAR Campania, adito in prime cure, si è pronunciato con un decreto cautelare che ha respinto la domanda dei ricorrenti. I quali hanno poi appellato quel provvedimento – come detto, contrariamente all’orientamento giurisprudenziale consolidato che non lo ammette – dinanzi al Consiglio di Stato.
Il Giudice, nel decreto monocratico qui in commento, si pronuncia anzitutto sui profili di ammissibilità, giustificata – come più sopra accennato – dal fatto che l’oggetto della tutela è costituito da diritti fondamentali, di rilievo costituzionale, in contrasto tra loro: all’istruzione, al lavoro, alla salute e all’incolumità.
Nel merito, poi, due sono i punti che emergono nitidamente al vaglio giurisdizionale:
Quanto al primo aspetto, il Consiglio di Stato esamina le posizioni degli appellanti e della Regione resistente circa l’idoneità del report dell’Unità di crisi regionale a costituire una base scientifica per una scelta tecnico-discrezionale tale da giustificare la prosecuzione delle misure di sospensione della didattica in presenza. L’aggiornamento dei dati – invero sin troppo celere, tanto da indurre le Amministrazioni a provvedere giorno per giorno, adeguando costantemente le misure – è il punctum dolens. Secondo la considerazione del Consiglio di Stato, anche se l’istruttoria è completa, e dunque la decisione amministrativa ragionevole, ciò non esaurisce «il dovere dell’Amministrazione di rendere conoscibili i dati scientifici nella loro interezza, con gli aggiornamenti giornalieri e con le indicazioni scientifiche prognostiche del minor impatto-contagio dovuto alla sospensione “in presenza” dell’attività didattica». Non v’è, tuttavia, un vizio d’istruttoria per il Giudice amministrativo. L’ordinanza della Regione reca tutti i dati a sua disposizione e la relazione dell’Unità di crisi, che ne costituisce la motivazione per relationem, non risulta essere manifestamente illogica, carente o contraddittoria: di conseguenza, nessuno di questi vizi affligge il provvedimento regionale gravato in prime cure.
Quanto, poi, al contemperamento degli interessi, il Giudice rileva che – in difetto di prova dell’illogicità della misura regionale – prevale senza dubbio alcuno la necessità di una più rigorosa prevenzione della salute pubblica nell’ambito territoriale di competenza della Regione: il Presidente ha il potere di provvedervi, e può farlo proprio in virtù del fondamento costituzionale del diritto alla salute che deve tutelare.
Resta il problema della conoscibilità[9] e dell’aggiornamento dei dati tecnico-scientifici a fondamento dell’ordinanza: questione che il Consiglio di Stato scioglie ordinando alla Regione – ai fini del prosieguo della fase cautelare innanzi al TAR – il deposito dei dati e della documentazione scientifica dell’Unità di crisi regionale aggiornati alla data dell’ordinanza e quello dei dati scientifici/medici prognostici sull’effetto positivo della sospensione scolastica “in presenza” ai fini della contrazione dei contagi.
L’appello cautelare è dunque rigettato. Le misure sostanziali sono peraltro confermate dall’ordinanza regionale n. 93/2020, vigente al momento della stesura di questo contributo.
3. La Basilicata.
Diversamente da quanto accaduto in Campania in prime cure – e innanzi al Consiglio di Stato in appello – la Regione Basilicata ha uno scenario che pare tutelare maggiormente il diritto all’istruzione.
Lo testimonia un articolato decreto presidenziale[10] di accoglimento d’istanza cautelare monocratica, pronunciato su un’ordinanza regionale[11] che impone la didattica a distanza nella scuola primaria e secondaria di primo grado.
Quanto al periculum, il ragionamento del Giudice s’impone per la peculiarità dell’interpretazione del lemma «estrema gravità e urgenza» di cui alla norma di riferimento: se – in un contesto ordinario – la impellenza dev’essere «estrema», e dunque deve avere un quid pluris rispetto alla tutela cautelare collegiale ex art. 55 c.p.a. – per invocare la quale è sufficiente paventare il «danno grave e irreparabile» –, è pur vero che la fattispecie concreta impedisce di giungere alla tutela collegiale. Il provvedimento regionale del quale i ricorrenti chiedono la sospensione cautelare ha invero una efficacia che si esaurisce il giorno successivo alla prima udienza collegiale utile. Sicché, il Giudice in veste monocratica, per accogliere la domanda cautelare sotto il profilo del periculum e del fumus, valuta questi elementi non alla stregua dell’art. 56 c.p.a., bensì come se i ricorrenti avessero invocato una tutela cautelare collegiale ex art. 55 c.p.a.: questo è richiesto da una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni processuali al fine di garantire l’effettività della tutela anche in via immediata e cautelare[12].
Quanto invece al danno, il Tribunale lucano sottolinea che deve escludersi la possibilità che il Presidente della Regione di modificare l’assetto organizzativo in via generalizzata dell’attività scolastica, alterando il quadro delle misure calibrate dal governo per effetto di un diverso apprezzamento dei parametri di rischio epidemiologico e delle misure di contenimento necessarie e sufficienti per fronteggiare la situazione quale risulta compendiata nei diversi “scenari” rappresentati e determinati dall’Autorità governativa centrale. La Regione può solo motivatamente derogare, introducendo misure più restrittive a favore della salute dei cittadini[13], ove giudichi queste restrizioni indispensabili in aree infraregionali per specifica situazione locale o per inadeguatezza delle misure di contenimento adottate nelle strutture scolastiche in particolari contesti; ciò, sempreché risulti insufficiente o inefficiente il ricorso a rimedi alternativi in grado di evitare o contenere l’applicazione delle restrizioni nella misura minima compatibile con le esigenze di sanità pubblica.
Sicché il TAR accoglie la istanza cautelare ma non sospende l’ordinanza: utilizza una misura alternativa, imponendo alla Regione un riesame del suo provvedimento per la parte oggetto d’impugnativa, ingiungendole di seguire le indicazioni del decreto cautelare nella ricerca di misure compatibili con il prosieguo delle attività didattiche secondo quanto previsto dal governo.
4. La Calabria.
Anche la Regione Calabria aveva emanato ordinanza con la quale sospendeva sull’intero territorio regionale le attività educative e didattiche in presenza in tutte le scuole di ogni ordine e grado, con ricorso alla didattica a distanza.
Anche questa ordinanza è stata impugnata con correlativa istanza di concessione di misure cautelari ex art. 56 c.p.a.: istanza accolta con decreto presidenziale.
Il Giudice territoriale spende pochissime parole sul periculum, ritenuto sussistente in relazione al «grave pregiudizio educativo, formativo e apprendimentale ricadente sui destinatari ultimi del servizio scolastico».
Sotto il profilo del fumus boni iuris, il TAR ha ritenuto sussistente il contrasto del provvedimento regionale con le misure governative[14], le quali introducono la possibilità di fare attività didattica “in presenza” nella scuola materna, in quella elementare e nella prima media. Rileva, invero, la necessità di assicurare a queste categorie di alunni, più piccoli e dunque in fase di primo sviluppo sociale, attività formative adeguate all’evoluzione della loro personalità non surrogabili da una eventuale – sempre qualora concretamente attivabile con carattere di generalità – didattica a distanza[15].
L’atto regionale sconta un difetto d’istruttoria: una misura generalizzata all’intero territorio regionale[16] di sospensione delle attività didattiche avrebbe dovuto esser basata su una «almeno verosimile indicazione di coefficienti e/o percentuali di contagio riferibili ad alunni e operatori scolastici»; l’ordinanza de qua, invece, fonda sulla mera rappresentazione della «problematica connessa ai numerosi contagi di studenti e operatori scolastici», senza certezza alcuna del nesso di causalità intercorrente fra lo svolgimento in presenza delle attività didattiche nella scuola materna, in quella elementare e media di primo grado (limitatamente al primo anno) e il verificarsi dei contagi. L’istruttoria procedimentale è ritenuta, pertanto, sommaria e carente.
5. La Puglia.
La situazione pugliese è piuttosto peculiare, se non altro perché le ordinanze del Presidente dell’Amministrazione territoriale regionale sono state oggetto di pronunce interinali diametralmente opposte da parte del Tribunale amministrativo barese e della sua sezione distaccata leccese.
L’ordinanza gravata – la n. 407 del 27 ottobre 2020[17] – prescriveva la sospensione delle attività in presenza in tutte le scuole di ogni ordine e grado con contestuale adozione della didattica digitale integrata e riserva delle attività in presenza esclusivamente ai laboratori (ove previsti dai rispettivi ordinamenti dal ciclo didattico) e alla frequenza degli alunni con bisogni educativi speciali.
Ciò sulla scorta del D.P.C.M. 24 ottobre 2020 – a mente del quale «fermo restando che l’attività didattica ed educativa per il primo ciclo di istruzione e per i servizi educativi per l’infanzia continua a svolgersi in presenza, per contrastare la diffusione del contagio […] le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado adottano forme flessibili nell’organizzazione dell’attività didattica […] incrementando il ricorso alla didattica digitale integrata» – nonché dei report di monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), i quali rilevavano un incremento allarmante dei contagi nelle comunità scolastiche, rivelatisi potenziali cluster familiari e comunitari impeditivi del contact tracing territoriale. La Regione Puglia rilevava, dunque, l’insufficienza delle misure adottate con la precedente ordinanza del 25 ottobre 2020.
Il provvedimento regionale ha subìto una vicenda processuale anch’essa peculiare, essendosi pronunciate su di esso in via cautelare entrambe le sezioni dei Tribunali amministrativi della regione Puglia: Bari e Lecce[18]. Una circostanza – indubbiamente atipica e foriera d’incertezze – legata forse anche al diverso impatto che le misure amministrative di prevenzione avevano sulla zona delle province di Bari, BAT, Foggia e su quella – più specificamente salentina – di Lecce, Brindisi e Taranto[19].
Le decisioni monocratiche, praticamente contestuali, come detto, conducono a due orientamenti diametralmente opposti.
Il Giudice barese[20] – in accoglimento dell’istanza cautelare monocratica – rileva che il provvedimento gravato non è coerente con le misure governative frattanto sopravvenute (il D.P.C.M. 3 novembre 2020) e che, pertanto, si rende necessario l’intervento giurisdizionale immediato. Se il livello governativo prevede, infatti, la predisposizione di didattica in presenza, l’ordinanza regionale impugnata si colloca in netto contrasto con quelle disposizioni.
Ciò soprattutto in ragione dell’inadeguatezza del sistema scolastico pugliese ad attivare subito la didattica a distanza: con un effetto dell’ordinanza sostanzialmente interruttivo delle attività didattiche e dei servizi all’utenza scolastica.
Il fumus è poco indagato. Un veloce riferimento – anche qui – a un vizio motivazionale ictu oculi: «dalla motivazione del provvedimento impugnato non emergono ragioni particolari per le quali la Regione Puglia non debba allinearsi alle decisioni nazionali in materia di istruzione».
L’orientamento del Giudice leccese[21] conduce invece al rigetto dell’istanza cautelare monocratica avverso la medesima ordinanza regionale. Una motivazione stringata, essenziale, che fonda sull’importanza dei valori costituzionali contemperati dal provvedimento impugnato e sulla temporaneità delle rigide misure di sospensione dell’attività in presenza, le quali consentono comunque la didattica a distanza, che soddisfa parzialmente l’interesse all’istruzione.
Il bilanciamento degli interessi vede, pertanto, una netta prevalenza di quello alla salute e all’incolumità su quello «organizzativo delle famiglie coinvolte»: il provvedimento regionale non merita d’esser sospeso, dunque.
Il contrasto giurisprudenziale non è stato certo immune da conseguenze: con ordinanza immediatamente successiva[22], la Regione Puglia ha preso atto dei profili rilevati da entrambi i Giudici territoriali. Ha dunque rimodulato le proprie misure in modo da conciliare gli interessi così fortemente confliggenti: «il conflitto tra pronunce dello stesso TAR Puglia (sede di Lecce e sede di Bari) dimostra indiscutibilmente l’incertezza della stessa Magistratura a valutare in modo univoco il bilanciamento tra il diritto alla salute con il diritto allo studio, tanto che il TAR di Bari, accogliendo l’istanza di sospensione, se pur con un decreto cautelare destinato a perdere efficacia a seguito della pronuncia collegiale fissata per il 3 dicembre, ha operato una drammatica scelta tra il diritto alla salute – tutelabile con la didattica digitale integrata – e il diritto allo studio, decidendo di privilegiare quest’ultimo con la didattica in presenza». La Regione, in applicazione dei principi di precauzione, adeguatezza e proporzionalità, ha dunque disposto che il diritto alla salute ha una preminente esigenza di tutela. Ciò non deve condurre, tuttavia, all’interruzione della didattica: stanti le inadeguatezze tecnologiche, il diritto allo studio deve essere tutelato in modo alternativo. Sicché quell’ordinanza della Regione Puglia – confermata da ordinanza successiva[23], oggi vigente – rileva che le scuole devono garantire la didattica a distanza nelle scuole elementari e medie «per le famiglie che ne facciano richiesta».
Lasciando, dunque, ai genitori la facoltà di scegliere se mandare i propri figli a scuola oppure usufruire della didattica a distanza. Una decisione contrastata e che tuttavia parrebbe adeguatamente bilanciata per tentare di contemperare le esigenze del diritto alla salute e del diritto allo studio alla luce del sopravvenuto D.P.C.M. 3 novembre 2020.
6. Osservazioni conclusive.
Quelle che possono farsi in questa sede sono conclusioni parziali e transeunti: non si ha alcuna pretesa d’esaustività.
L’esame dei decreti cautelari impone di soffermarsi su due aspetti.
Quello processuale, anzitutto. Si percepisce dall’intelaiatura delle pronunce qui esaminate un’attenzione specifica del Giudice al ricorrere del periculum, più che del fumus. Vero è che – trattandosi di decreti monocratici – il requisito dell’urgenza dettata da ragioni temporali contingenti assume un rilievo maggiore: questo profilo diventa ancor più spiccato in tempi nei quali l’agire amministrativo segue ritmi così convulsi da modificare il corso degli eventi nell’attesa di pronunce cautelari collegiali, che poi finiscono per dichiarare i ricorsi improcedibili per sopravvenuta carenza d’interesse.
Il versante processuale si arricchisce di uno specifico tema: ne indica i contorni il decreto del Consiglio di Stato analizzato in apertura. Si è fatta strada, pur nelle ipotesi limitatissime dell’urgenza di una tutela di diritti previsti dalla nostra Costituzione, la possibilità del doppio grado di giudizio sul decreto cautelare monocratico. Una conseguenza del diritto dell’emergenza anche sul piano del processo[24]. I punti nevralgici che sorreggono il decreto monocratico del Consiglio di Stato si riferiscono proprio al contrasto tra diritti costituzionalmente tutelati: una rappresentazione di quanto i diritti fondamentali possano giustificare l’adattamento di interpretazioni consolidate delle regole processuali. Non v’è dubbio, però, che la categoria dei diritti fondamentali è di per sé sfuggente: come tale, rischia di diventare nebulosa anche la regola processuale dell’inappellabilità del decreto monocratico. Asserire che si può derogare all’interpretazione consolidata dell’art. 56 c.p.a. perché ci sono in gioco diritti tutelati dalla Costituzione genera dovuti interrogativi: non essendovi un catalogo certo e cristallizzato, non è agevole distinguere tra diritti fondamentali e non, poiché la Costituzione – in realtà – li tutela tutti; gli stessi diritti fondamentali per definizione (la salute, il lavoro, la vita) sono d’incerto e problematico bilanciamento[25], per cui la prevalenza dell’uno sugli altri non è di agevole affermazione. Ne consegue che la regola processuale relativa all’ammissibilità o meno di un appello a decreto cautelare dipende dal diritto fatto valere. Il sistema è così permeabile attraverso un oggetto d’incerta qualificazione e classificazione: rendendo le regole del processo sin troppo ambigue, con inevitabili riflessi sull’effettività della tutela.
Sul versante sostanziale, poi: sempre sui diritti in conflitto. Non è secondario per il Giudice amministrativo il fatto che vengano in rilievo diritti fondamentali (pur con le perplessità che chi scrive ha appena manifestato). Quello alla salute. Quello all’istruzione. Quello al lavoro.
Il bilanciamento si mostra complesso e non v’è un diritto che prevalga nettamente sugli altri: la portata del diritto alla salute viene limitata dall’Amministrazione tramite il principio di proporzionalità e il Giudice ne valuta la legittima applicazione. Serpeggia, infatti, nelle pronunce, non soltanto il diritto allo studio e all’istruzione del singolo: ma il dovere inderogabile della Repubblica di assicurare lo sviluppo della persona. Viene in rilievo, insomma, l’art. 2 Cost.[26]: uno dei pilastri fondativi della nostra Carta costituzionale.
Nessun decreto lo cita. Tuttavia, è evidente che il pericolo delle misure che tutelano (quasi) esclusivamente il diritto alla salute, sospendendo le attività didattiche ed educative in presenza, è quello di privare gli alunni – specie i più piccoli – del primo ambiente sociale esterno alla famiglia nel quale iniziano a sviluppare la propria personalità in relazione agli altri.
Questo richiede una solidità motivazionale e tecnico-scientifica delle ordinanze particolarmente forte. Di ciò il Giudice è perfettamente conscio: l’urgenza delle decisioni e l’affastellarsi di dati epidemiologici niente affatto rassicuranti lo fanno propendere – non escludendosi da questa considerazione nemmeno il decreto del TAR Bari[27] e quello del TAR Basilicata[28] – per una più marcata tutela del diritto alla salute.
Lo dimostra con una certa continuità l’iter motivazionale dei decreti che, pur con le dovute oscillazioni e l’unicità del percorso decisorio di ciascun Giudice territoriale, guardano ai dati scientifici ed epidemiologici a fondamento delle gravate ordinanze regionali: le misure sono drastiche, specie nelle Regioni più colpite, sicché è essenziale vagliarne da subito eventuali vizi d’istruttoria e motivazione.
È ciò che fa il Consiglio di Stato in appello sul TAR Campania; è ciò che fa il Giudice calabrese, rilevando la genericità del riferimento all’incremento dei contagi, di per sé non sufficiente a giustificare l’ordinanza di sospensione delle attività didattiche.
Fanno eccezione a questo iter motivazionale il Giudice amministrativo barese e quello lucano: i quali accolgono l’istanza cautelare senza alcuna contestazione dell’approfondimento istruttorio da parte della Regione. In quei casi le ordinanze sono state sospese monocraticamente perché la loro attuazione non poteva esser garantita dal sistema scolastico regionale, privo delle dovute infrastrutture e dotazioni tecnologiche per garantire la continuità della didattica a distanza. Non perché la sospensione delle attività in presenza fosse illogica o immotivata: il vaglio istruttorio non rileva l’insufficienza dei dati epidemiologici né la loro inconoscibilità o il loro mancato aggiornamento, ma guarda alla logicità del complessivo bilanciamento praticato dall’Amministrazione regionale tra tutela del diritto alla salute e salvaguardia di quello all’istruzione tramite garanzia della continuità didattica, pur a distanza.
È evidente, allora, che la complessità del quadro impone un attento vaglio giurisdizionale, che fa uso dei principi di precauzione e di proporzionalità, perché in gioco ci sono il diritto allo studio, all’istruzione, al lavoro, alla salute e alla vita. La compressione del diritto fondamentale di sviluppare la propria persona nelle formazioni sociali può essere giustificata dalla tutela del concorrente diritto alla salute: nondimeno, essa dev’essere comunque garantita tramite misure alternative, di matrice – inevitabilmente – telematica.
Ancora una volta, non v’è un diritto “tiranno” rispetto agli altri: nemmeno quello alla salute, in nome del quale non possono essere interrotte le attività educative e sociali, poiché le Amministrazioni devono garantirne l’erogazione continuativa e stabile, seppure in modo diverso e innovativo.
[1] Le ordinanze si susseguono a ritmi convulsi. Attualmente è in vigore la n. 93 del 28 novembre 2020, la quale, con decorrenza dal 30 novembre 2020 e fino al 7 dicembre 2020, fatte salve eccezioni ivi previste, restano sospese le attività didattiche in presenza delle classi della scuola primaria diverse dalla prima, quelle della prima classe della scuola secondaria di primo grado nonché quelle concernenti i laboratori. V. in proposito gli aggiornamenti costanti su www.regione.campania.it.
[2] Il TAR Campania annovera più pronunce cautelari sul punto, tutte in forma di decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a.: TAR Campania, Napoli, Pres. V Sez., dec. 19 ottobre 2020, n. 1921 e n. 1922; Id., 9 novembre 2020, n. 2025, n. 2026, n. 2027; Id., 10 novembre 2020, n. 2033.
[3] È emerso invero il problema dell’effettività della tutela cautelare monocratica e del doppio grado di giudizio su di essa. V. in proposito, amplius, M.A. Sandulli, La tutela cautelare, in Dir. proc. amm., n. 4/2010, pp. 1130 ss.
[4] Cons. Stato, Pres. III, dec. 10 novembre 2020, n. 6453.
[5] L’art. 56 c.p.a., come noto, concerne la tutela cautelare monocratica in corso di causa e non si esprime sui rimedi avverso il decreto che si pronuncia sull’istanza del ricorrente volta a invocarla. Nel silenzio del legislatore, il consolidato orientamento giurisprudenziale propende per la inappellabilità dei decreti cautelari monocratici. V. in proposito anche M.A. Sandulli, La tutela, cit.; E. Follieri, Le novità del codice del processo amministrativo sulle misure cautelari, in Dir. e proc. amm., n. 3/2011, pp. 733 ss.
[6] Analizza criticamente le ragioni fondative di quest’orientamento A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in Federalismi.it, n. 1/2020. Sulla capacità conformativa dei poteri giurisdizionali esercitata da parte dell’emergenza sanitaria v. da ultimo R. Dagostino, Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica), in questa Rivista, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1428-emergenza-pandemica-e-tutela-cautelare-monocratica-di-raffaella-dagostino.
[7] Le decisioni amministrative farebbero dunque applicazione del principio di proporzionalità, sul quale v. tra gli innumerevoli autori, A. Sandulli,La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; Id., (voce) Proporzionalità, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. V, Milano, 2006, pp. 4643 ss.; D.-U. Galetta, La proporzionalità quale principio generale dell’ordinamento, Nota a Cons. Stato sez. V 14 aprile 2006, n. 2087, in Gior. dir. amm., n. 10/2006, pp. 1107 ss.; Id., Il principio di proporzionalità fra diritto nazionale e diritto europeo (e con uno sguardo anche al di là dei confini dell’Unione Europea), in www.giustizia-amministrativa.it, 2020; S. Villamena, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa, Milano, 2008; S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; E. Buoso, Proporzionalità, efficienza e accordi nell’attività amministrativa, Padova, 2012.
[8] È noto il discrimen esistente tra prevenzione e precauzione, la prima relazionandosi al pericolo (certo), la seconda invece al rischio (incerto). Lo spiega bene P. Savona, Il principio di precauzione e il suo ruolo nel sindacato giurisdizionale sulle questioni scientifiche controverse, in Federalismi.it, n. 25/2011: «Il pericolo (Gefahr) […] è una situazione in cui, se non si interviene per cambiare il corso degli eventi, ci si può aspettare con ragionevole probabilità che si verificherà un danno a beni giuridici protetti dall’ordinamento. […] il rischio [Risiko, n.d.r.] si riferisce a situazioni in cui non è valutabile la probabilità che certi eventi si verifichino (incertezza in senso ampio) o in cui non sono nemmeno valutabili i possibili sviluppi degli eventi e i loro effetti (incertezza in senso stretto). Detto in altri termini, mentre il pericolo rappresenta un evento dannoso futuro e incerto il cui verificarsi, alla luce dell’esperienza passata, può ritenersi ragionevolmente probabile, il rischio è un evento dannoso futuro e incerto, di cui non è possibile allo stato attuale delle conoscenze valutare in maniera sufficientemente sicura le probabilità (o anche solo le modalità) di avveramento. Il rischio ricorre pertanto in caso di sospetto di pericolo (Gefahrenverdacht), in situazioni di “non ancora pericolo” (noch nicht Gefahr), e può essere definito come il “pericolo della valutazione errata del pericolo” (“Gefahr einer Fehleinschaetzung der Gefahr”)».
V. in proposito anche C.R. Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, 2001, trad. it. Bologna, 2005. Sul tema, v. ovviamente F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Milano, 2005; Id., Il principio di precauzione, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, pp. 413 ss.; v. anche F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in Riv. quad. dir. amb., n. 2/2011, spec. p. 25. L’A. ritiene che la giurisprudenza unionale non abbia offerto una buona delineazione del principio di prevenzione: ne ritiene difficile, pertanto, fissare il confine col contiguo principio di precauzione. All’inizio la dottrina tendeva infatti a sovrapporli – e a considerarli, pertanto, espressivi della stessa necessità di anticipare la tutela di un bene giuridico – a causa della loro comune derivazione dal Vorsorgeprinzip, tanto che il principio di precauzione era ritenuto mera «sub-funzione» del principio di precauzione: «Se si considera, però, che le valutazioni che giustificano l’applicazione del principio di precauzione sono connotate da rischio e incertezza, mentre quelle che consentono l’applicazione del principio di prevenzione risultano connotate da regole meno elastiche e probabilistiche, non si può non rimarcare che i due principi corrispondano ciascuno a presupposti differenziati ovvero che la precauzione costituisca uno sviluppo o una specificazione della prevenzione».
Sul punto, v. da ultimo, R. Ferrara, Il principio di precauzione e il “diritto della scienza incerta”: tra flessibilità e sicurezza, in Riv. giur. urb., n. 1/2020, pp. 14 ss.
[9] La conoscibilità dei dati è estrinsecazione del più generale principio di trasparenza amministrativa, di recente oggetto di riforme che ne hanno accentuato i profili di tutela per il privato. V. in proposito M.A. Sandulli, L. Droghini, La trasparenza amministrativa nel FOIA italiano. Il principio della conoscibilità generalizzata e la sua difficile attuazione, in Federalismi.it, n. 19/2020.
[10] TAR Basilicata, Pres. I Sez., 24 novembre 2020, n. 272.
[11] Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale di Basilicata n. 44 del 15 novembre 2020, reperibile su www.regione.basilicata.it.
[12] TAR Basilicata, n. 272/2020, cit.: «occorre seguire canoni interpretativi costituzionalmente orientati per ricavare il senso di una “estrema gravità ed urgenza” nel caso in cui il provvedimento lesivo abbia un orizzonte temporale che non raggiunge la data della prima camera di consiglio utile;
- in tale ipotesi, in cui è la durata stessa del provvedimento impugnato a “non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, i presupposti per accedere alla tutela cautelare in sede monocratica non possano essere sostanzialmente diversi da quelli usualmente considerati in sede collegiale, sotto il profilo sia del fumus boni iuris, sia del periculum in mora; ciò (sia chiaro) a condizione che la parte ricorrente non abbia adottato comportamenti processuali dilatori, ma abbia anzi attivato senza indugi (come nella specie) gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento».
[13] Sussistendo condizioni e presupposti di cui all’art. 32, l. 23 dicembre 1978, n. 833, nonché condizioni e presupposti di cui alla normativa emergenziale per l’adozione di un’ordinanza recante misure più restrittive.
[14] D.P.C.M. 3 novembre 2020.
[15] Così, TAR Calabria, Catanzaro, Pres. I Sez., 23 novembre 2020, n. 609.
[16] Per il Tribunale amministrativo calabrese, il contrasto avrebbe potuto essere composto «con conseguente legittimo esercizio del potere di ordinanza contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 32 comma 3 della legge n. 833/78 esclusivamente ove ricorrano situazioni sopravvenute o non considerate dal citato DPCM oppure in relazione a specificità locali».
[17] Tutte le ordinanze sono reperibili sul sito www.regione.puglia.it.
[18] La vicenda è singolare perché il TAR leccese, secondo i criteri di competenza inderogabile ex art. 13 c.p.a., non sarebbe stato competente a pronunciarsi. L’accaduto, dunque, non è irrilevante, perché il Tribunale che – in ossequio alle disposizioni – si è pronunciato in violazione di norme sulla competenza, ha creato una duplice conseguenza: ha anzitutto dato vita a un contrasto giurisprudenziale, contrariamente all’obiettivo posto proprio dalle norme sulla competenza inderogabile che vogliono evitare il forum shopping; di conseguenza, quel contrasto giurisprudenziale ha dato la stura a una nuova ordinanza della Regione Puglia, la n. 413/2020, che oggi dispone che siano i genitori a scegliere, per i propri figli, la didattica che preferiscono, se a distanza o in presenza.
[19] La differenziazione è vieppiù necessaria, avendo essa indotto il Presidente della Regione a emanare, poi, nuova ordinanza che modula le misure a seconda delle zone territoriali colpite e della loro curva epidemiologica: cfr. Regione Puglia, ord. 7 dicembre 2020, n. 448, in www.regione.puglia.it.
[20] TAR Puglia, Bari, Pres. III, dec. 6 novembre 2020, n. 680.
[21] TAR Puglia, Lecce, Pres. II, dec. 6 novembre 2020, n. 695.
[22] Regione Puglia, ord. 6 novembre 2020, n. 413, in www.regione.puglia.it.
[23] Emanata alla luce del D.P.C.M. 3 dicembre 2020: Regione Puglia, ord. 4 dicembre 2020, n. 444, in www.regione.puglia.it.
[24] Tra i numerosi e ricchi contributi sulla torsione della tutela cautelare nella temperie dell’emergenza pandemica, v. M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 31 marzo 2020; F. Francario, Il non-processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid-19, in www.giustiziainsieme.it; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell’emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? Come? ma soprattutto, perché?, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 6 aprile 2020. Più in generale, sull’impatto dell’emergenza da Covid-19 sul processo amministrativo e sulle tecniche di tutela predisposte, di fondamentale rilevanza il Webinar di Modanella, Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, svoltosi nei giorni 30 giugno - 1 luglio 2020, su «L’emergenza Covid-19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro».
[25] L’esempio emblematico è dato dalla vicenda ILVA, sulla quale la Corte costituzionale pronunciò una celebre sentenza pilatesca: Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85.
[26] Sul dovere di solidarietà declinato anche come diritto, v. P.L. Portaluri, Lupus lupo non homo. Diritto umano per l’ethos degli animali?, in Dir. econ., n. 3/2018, pp. 17; Id., Spunti su diritto di ricorso e interessi superindividuali: “quid noctis, custos”?, in Riv. giur. ed., n. 5/2019, pp. 401 ss.
[27] Il TAR Bari invero non ha sospeso l’ordinanza regionale per ragioni d’illegittimità nel bilanciamento d’interessi, ma si è limitato a rilevare che strutturalmente la Puglia non riesce a garantire una continuativa ed efficace didattica a distanza. Se ne deduce che, ove la regione ne fosse stata dotata sin d’allora, probabilmente anche il Tribunale barese avrebbe propeso per il rigetto dell’istanza cautelare e, sul piano sostanziale, per la maggior tutela del diritto alla salute.
[28] Anche il TAR Basilicata ha disposto in via cautelare il riesame dell’ordinanza regionale perché la presenza di criticità nel sistema scolastico non consente di garantire la continuità dell’attività didattica a distanza: sicché il bilanciamento è fatto salvo dal punto di vista istruttorio.
La Consulta conferma la legittimità costituzionale della normativa emergenziale in materia penitenziaria (nota alla sentenza della Corte Cost. n. 245/20)
di Stefano Tocci
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina censurata – 3. Le censure – 4. La risposta della Consulta – 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’emergenza pandemica ha messo a dura prova l’intera dimensione esistenziale dei sistemi democratici ed un settore particolarmente sensibile, che ha risentito delle croniche difficoltà endemiche del nostro Paese, è stato quello carcerario.
Gli interventi governativi sul punto, in tutta obiettività, non potevano essere immediatamente risolutivi nella prospettiva di contemperare adeguatamente le esigenze di salute soggettiva e di sanità pubblica con la necessaria effettività della sanzione penale e della tutela di sicurezza sociale, e tanto meno potevano esserlo calandosi in una realtà perennemente in crisi per strutture, sovente turbata da interventi legislativi di carattere emotivo o sollecitati da difficoltà gestionali necessitanti provvedimenti urgenti (ad es.: la criticità del “sovraffollamento carcerario”).
A fronte dell’imperversare dell’epidemia da CONVID 19, da cui certo le strutture penitenziarie non potevano rimanere immuni, il Legislatore è intervenuto per adeguare il sistema normativo ad una situazione del tutto nuova e suscettibile di continue, rapide modificazioni, emanando i decreti-legge nn. 28 e 29 del 2020, poi “confluiti” nella legge di conversione n. 70; tra le tante soluzioni adottate sono state anche introdotte disposizioni finalizzate ad incidere sulla disciplina del differimento della pena ed in particolare della detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 ter O.P. per rendere quanto più possibile approfondite le informazioni necessarie alla decisione, nonché costante e ravvicinata la verifica del persistere delle condizioni legittimanti il momentaneo beneficio.
La normativa emergenziale, infatti, ha introdotto rivalutazioni ravvicinate e stringenti dei provvedimenti applicativi della detenzione domiciliare “in surroga”, del differimento della pena e della sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari. Tale disciplina è stata destinata a operare soltanto a fronte di decisioni specificamente assunte per motivi connessi all’emergenza sanitaria; inoltre, appare anche maggiormente circoscritta la platea dei soggetti coinvolti: il d.l. 29/2020 si riferisce a condannati, internati e imputati per delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis c.p. e 74, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, o per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, oppure commesso con finalità di terrorismo ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., nonché, infine, ai sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis ord. penit.
2. La disciplina censurata
In particolare in caso di applicazione dei benefici de quibus, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna e del Procuratore nazionale antimafia per i soggetti già sottoposti al regime di cui all'art. 41-bis, valuta la permanenza dei motivi legati all'emergenza sanitaria entro il termine di 15 giorni dall'adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile.
La valutazione è invece effettuata immediatamente nel caso in cui il DAP comunichi la disponibilità di istituti penitenziari, o di reparti di medicina protetta, adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell'internato beneficiario della misura alternativa al carcere.
Prima di provvedere l'autorità giudiziaria sente l'autorità sanitaria regionale (Presidente della Giunta regionale) sulla situazione sanitaria locale e acquisisce dal DAP informazioni in merito all'eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il soggetto può riprendere la detenzione o l'internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute.
L'autorità giudiziaria provvede valutando se permangono i motivi che hanno giustificato l'adozione del provvedimento di ammissione al beneficio e la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell'internato. Il provvedimento di revoca della detenzione domiciliare o del differimento della pena è immediatamente esecutivo.
3. Le censure
Tale disciplina è stato oggetto di censure di illegittimità costituzionale, sotto diversi profili, che possono così essere sintetizzate:
- le disposizioni in questione invaderebbero la sfera di competenza dell’autorità giudiziaria e violerebbero il principio di separazione dei poteri, tanto più in quanto applicabili retroattivamente ai provvedimenti già adottati a decorrere dal 23 febbraio 2020. L’imposizione, ad opera della disciplina censurata, di un obbligo di periodica rivalutazione della permanenza delle condizioni che giustificano la misura, prima della scadenza del termine fissato nel relativo provvedimento di concessione, restringerebbe indebitamente la sfera di competenza riservata alla giurisdizione, orientando per di più la decisione nel senso della revoca del provvedimento;
- la disciplina censurata risulterebbe incompatibile con l’art. 3 Cost., in relazione alla sua applicabilità soltanto a specifiche categorie di detenuti, sulla base di una presunzione di pericolosità correlata esclusivamente al titolo del reato e al regime detentivo
- la normativa in esame contrasterebbe con l’art. 24, secondo comma, Cost., in ragione della limitazione che soffrirebbe il diritto di difesa del condannato nel procedimento di rivalutazione imposto dalla norma, nel quale «il contraddittorio viene completamente sacrificato in funzione di una decisione celere il più possibile», e nella quale «la partecipazione della difesa tecnica è limitata alla formulazione dell’istanza iniziale con allegazione di documentazione sanitaria di parte», mentre non sarebbe stato previsto nel d.l. «un diritto dell’interessato di prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo della rivalutazione ed eventualmente controdedurre nel merito delle risultanze istruttorie». Sarebbe altresì violato l’art. 111, secondo comma, Cost., sotto il profilo della garanzia del contraddittorio in condizioni di parità tra la difesa e la parte pubblica;
- il provvedimento di revoca pronunciato in esito alla rivalutazione disciplinata dalla norma censurata è immediatamente esecutivo, con conseguente ripristino della carcerazione e dei rischi alla salute ad essa connessi, in relazione ai quali «la rivalutazione collegiale di eventuale ripristino della misura diversa dalla detenzione potrebbe giungere ormai tardivamente», prefigurando altresì lo scenario di un possibile «alternarsi di reingressi in carcere e ritorni sul territorio che […] appaiono peculiarmente controindicati a fronte di persone affette da gravi condizioni di salute», ciò peraltro mediante un procedimento di rivalutazione, avanti il magistrato di sorveglianza, caratterizzato dall’assenza del coinvolgimento della difesa dell’interessato, posta in condizioni di squilibrio tra il proprio patrimonio conoscitivo e quello della parte pubblica.
4. La risposta della Consulta
La Corte costituzionale, rispondendo con una unica ed articolata sentenza alle perplessità di legittimità costituzionale formulate da più giudici di sorveglianza, ha chiarito l’infondatezza delle questioni semplicemente ripercorrendo i principi cardine della procedura di sorveglianza ed evidenziando come l’intervento legislativo in realtà non danneggia né le prerogative giurisdizionali della magistratura di sorveglianza né tanto meno l’interessato, sia sotto il profilo del diritto di difesa che di tutela della salute.
Quanto al profilo della denunciata “invasione di campo” la Consulta evidenzia che in realtà la disposizione legislativa non prevarica in alcun modo l’ambito decisionale del giudice, anche laddove agisce su provvedimenti già emessi, ma si limita ad imporre una rivalutazione del caso eventualmente più ravvicinata, senza che ciò menomi la sfera discrezionale dell’autorità giudiziaria, “mirando unicamente ad arricchire il suo patrimonio conoscitivo sulla possibilità di opzioni alternative intramurarie o presso i reparti di medicina protetti in grado di tutelare egualmente la salute del condannato, oltre che sulla effettiva pericolosità dello stesso, in modo da consentire al giudice di mantenere sempre aggiornato il delicato bilanciamento sotteso alla misura in essere, alla luce di una situazione epidemiologica in continua evoluzione”.
Il diritto di difesa poi non può intendersi violato alla luce di procedimenti già esistenti nell’ordinamento, proprio in materia penitenziaria (procedimento di revoca ai sensi dell’art. 51 ter comma 2 OP) caratterizzati dal cd. “contraddittorio differito”, in quanto cioè instaurato in epoca successiva all’esecuzione di un provvedimento immediatamente incidente sulla libertà del soggetto, adottato in via d’urgenza secondo i canoni delle misure cautelari esecutive, ai fini della sua conferma. In definitiva, evidenzia la Consulta, un simile assetto normativo “non appare a questa Corte incompatibile con gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., in considerazione del successivo recupero della pienezza delle garanzie difensive e del contraddittorio nel procedimento avanti al tribunale di sorveglianza; procedimento che, oggi, il legislatore – accogliendo un suggerimento emerso in dottrina – ha opportunamente previsto debba concludersi entro il termine perentorio di trenta giorni, nell’ipotesi in cui il magistrato di sorveglianza abbia disposto la revoca della detenzione domiciliare precedentemente concessa ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-quater, ordin. penit.”
In alcun modo appare poi violato il diritto alla salute del condannato, atteso che la scansione temporale di verifica prevista dalla novella, “non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, imposti dall’art. 32 Cost. e dal diritto internazionale dei diritti umani anche nei confronti di condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ordin. penit. (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 25 ottobre 2018, Provenzano contro Italia, paragrafi da 126 a 141 e da 147 a 158)”.
La sussistenza di una differenziazione di trattamento dei detenuti in relazione al tipo di reato consumato (in relazione all’art. 3 Cost.) non appare incoerente all’ordinamento, “non potendo essere giudicata irragionevole la scelta del legislatore di imporre al giudice una frequente e penetrante rivalutazione delle condizioni che hanno giustificato la concessione della misura nei confronti di condannati per gravi reati, tutti connessi alla criminalità organizzata, e a fortiori per quelli giudicati di tanto elevata pericolosità da essere sottoposti al regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ordin. penit.”. La giurisprudenza costituzionale, del resto, non ha mai ritenuto illegittima una differenziazione di regime a seconda della gravità dei reati (si pensi all’art. 4 bis OP) ma solo, di recente, l’applicazione di ostatività secondo criteri “automatici”, problematica che non va evidentemente confusa con una scansione normativamente preordinata dei tempi di verifica dei presupposti della concessione ratione salutis di una misura alternativa.
5. Conclusioni
In sostanza l’attacco portato alla normativa emergenziale sotto il profilo della costituzionalità è risultato privo di concretezza ed efficacia, scontrandosi su un percorso argomentativo, articolato dalla Corte delle Leggi, assolutamente chiaro ed ineccepibile, peraltro fondato su rilievi interpretativi immediatamente attingibili dallo stesso ordinamento vigente. Per una volta l’emotività ha giocato un brutto scherzo non al Legislatore ma a chi, a torto o a ragione, non ne ha condiviso le scelte.
Note sul giudizio di appello penale d’emergenza (l’art. 23 del dl 149 del 2020).
Spunti problematici del primo giudizio di appello penale cartolare
di Carlo Citterio
Il ‘legislatore provvisorio’ si è accorto finalmente del giudizio penale di appello, dopo averlo del tutto ignorato nelle varie edizioni della disciplina emergenziale.
Basti pensare che la previsione che esclude il remoto per le discussioni, dettata per il primo grado, tagliava automaticamente fuori tutto l’appello, che ordinariamente è ‘solo’ discussione e decisione, pervenendo ad una apparentemente non consapevole esclusione proprio per un rito che tutt’altro che infrequentemente vede difensori assenti o richiedenti con frettolosi fax dell’ultimo minuto sostituzioni “d’ufficio ex art. 97 quinto comma” e discussioni fantasma (il solo riportarsi ai motivi con deposito delle note spese). Ergastolo o pena pecuniaria, omicidio volontario e minacce gravi, l’appello sulla responsabilità e quello sulle attenuanti generiche, l’appello dell’imputato condannato e quello della parte civile ad azione penale definita con proscioglimento irrevocabile: casi che si trattano con il medesimo rito, sempre: udienza partecipata. Così mai il giudizio penale d’appello potrà raggiungere la propria finalità: una ponderata (e collegiale: è l’unica legittimazione per mutare l’apprezzamento di merito del primo giudice) rivisitazione dei punti della decisione devoluti da atti di impugnazione seri che enunciano motivi specifici, con decisioni nel merito in tempi ragionevoli, e non in rito, possibilmente solo finché l’azione penale è attiva… Finalmente si prevedono riti diversi e si riconosce alle parti, che la gestiscono con le proprie valutazioni libere informate e discrezionali, la scelta del rito.
Certo non si poteva pretendere troppo, per questa prima volta. Così la prima volta dell’appello penale oggetto di una autonoma norma emergenziale si risolve nel riproporre lo schema strutturale e sistematico già predisposto pure da precedenti decreti per il giudizio di legittimità, con minimi accorgimenti. Peccato che quello è un giudizio di legittimità che si chiude con una sentenza non impugnabile, il giudizio d’appello è invece giudizio di merito che si definisce con deliberazione soggetta ad impugnazione (sicchè, ad esempio, prevedere la ‘comunicazione’ del dispositivo alle parti fisicamente assenti ha certo natura solo informativa nel giudizio di legittimità, ma crea gravi incertezze nel raccordo con la disciplina della decorrenza dei termini assegnati per il deposito della sentenza e quindi per quelli di impugnazione nel giudizio d’appello).
Ma cogliamo l’aspetto positivo. La prima volta di una pluralità di riti nell’appello penale, la cui scelta è lasciata alla responsabilità consapevole e informata delle parti. E allora un’occasione preziosa che sollecita l’approfondimento con due parallele prospettive: capire cosa accade dei processi dal 25 novembre al 31 gennaio e cosa si deve fare per bene fare; cogliere gli snodi e gli aspetti applicativi che un rito d’appello penale cartolare con il consenso o con la richiesta della parte privata porrebbe per un legislatore ordinario motivato. La presenza di una previsione specifica nel disegno di legge 2435 Camera dei Deputati (il cd Progetto Bonafede giunto nelle aule parlamentari: art. 7 lettera G) giustifica e sollecita l’approfondimento.
Sommario: 1. Il primo giudizio di appello penale dell’emergenza – 2. Il rito camerale senza la partecipazione fisica delle parti: la disciplina – 3. I problemi interpretativi: patologie della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica; la comunicazione delle conclusioni delle parti private; l’inadeguata disciplina del carattere ordinatorio dei termini per il deposito informatico delle conclusioni; le repliche – 4. L’udienza camerale – 5. La “comunicazione” del dispositivo alle parti – 6. Il rito in assenza e il concordato sui motivi – 7. Il rito con trattazione orale – 8. La rinnovazione dell’istruzione – 9. La richiesta di trattazione orale – 10. La manifestazione della volontà dell’imputato di comparire – 11. Il rito per i processi già pendenti.
1. Il primo giudizio di appello penale dell’emergenza
L’art. 23 del dl 149, in vigore dal 09/11/2020 stesso giorno della sua pubblicazione sulla GU, detta per la prima volta nella disciplina emergenziale covid19 specifiche disposizioni per “la decisione” dei giudizi penali di appello.
Tale disciplina di eccezione riguarda esclusivamente “gli appelli proposti contro le sentenze di primo grado”.
Sono quindi escluse dalla normativa speciale tutte le altre procedure di competenza della corte di appello: esemplificativamente, tutti i procedimenti partecipati di esecuzione, riparazione ingiusta detenzione, mandati di arresto europei ed estradizioni, revisione, rescissione, prevenzione: in definitiva, tutti i procedimenti per i quali la corte d’appello è unico (salvo per i mae) giudice del merito.
E’ previsto in via generale il rito camerale senza partecipazione fisica delle parti, con tre sole eccezioni che determinano l’operatività del rito ordinario (nelle variabili della pubblica udienza per i procedimenti dibattimentali e del giudizio camerale partecipato fisicamente per i riti abbreviati o ex art. 599, comma 1, cod. proc. pen.); si tratta dei casi in cui: la corte disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (603), quando il difensore delle parti private o il ‘pubblico ministero’ facciano domanda di discussione orale, quando l’imputato manifesti la volontà di comparire (tuttavia formulando la sua richiesta solo a mezzo del difensore: comma 4, seconda parte).
La disciplina non sembrerebbe applicabile all’appello avverso le sentenze penali del giudice di pace, atteso che l’art. 23 fa esplicito ed esclusivo riferimento alla corte d’appello e, trattandosi di disciplina di eccezione, interpretazioni estensive non paiono possibili.
2. Il rito camerale senza la partecipazione fisica delle parti (art.23, commi 1, 2, 3): la disciplina
2.1. Regola generale è che dal 9/11/2020 al 31/01/2021[1] “per la decisione” la corte di appello “procede in camera di consiglio senza l’intervento del ‘pubblico ministero’ e dei difensori” [La norma non fa riferimento espresso all’imputato, ma deve sicuramente ritenersi che neppure l’imputato possa presenziare, in questa tipologia di rito].
Questi i tempi e le modalità della partecipazione delle parti alla decisione:
- entro dieci giorni (non ‘liberi’? [2]) prima dell’udienza il ‘pubblico ministero’ “formula le sue conclusioni” con atto trasmesso alla cancelleria della corte per via telematica [3]
- sempre per via telematica la cancelleria invia “immediatamente” l’atto “ai difensori delle altre parti”
- i difensori delle altre parti “possono” presentare le conclusioni SOLO con atto scritto trasmesso per via telematica alla cancelleria esclusivamente agli indirizzi di posta elettronica certificata dedicati [4]: ciò deve avvenire entro cinque giorni (‘non liberi’?) prima dell’udienza
- non è previsto che la cancelleria inoltri anche le conclusioni di una parte privata alle altre parti.
2.2. La diversità dei termini (“formula”, “possono”) indica inequivocamente che:
mentre la parte pubblica deve formulare le conclusioni per ciascuno dei processi fissati alla singola udienza, i difensori delle parti private possono presentarle ma non sono obbligati.
Così, l’essere stato previsto espressamente l’invio per via telematica alle altre parti (“immediatamente”) solo per le conclusioni del ‘pubblico ministero’ [5] comporta che:
deve escludersi che anche le (eventuali) conclusioni della singola parte privata debbano essere comunicate dalla cancelleria della corte alle altre parti [6].
2.3.1. Quanto alla natura dei termini per il deposito delle conclusioni scritte delle parti, considerando che nella stessa norma (l’art. 23 dl 149) è invece specificato il carattere perentorio del diverso termine per la richiesta di trattazione orale (comma 4), si impone la conclusione che:
i rispettivamente dieci e cinque giorni per la formulazione delle conclusioni sono termini NON perentori.
2.3.2. La non perentorietà dei termini di formulazione delle conclusioni e la previsione della comunicazione delle sole conclusioni del procuratore generale pongono problemi concreti, già presentati dall’esperienza in corso ma ignorati dal ‘legislatore’ e da risolvere in via interpretativa, nell’auspicabile attesa che la legge di conversione (o un nuovo decreto legge, stanti le possibili implicazioni in atto delle diverse soluzioni sulla ritualità del giudizio) possa chiarirli:
3. I problemi interpretativi: patologie della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica; la comunicazione delle conclusioni delle parti private; l’inadeguata disciplina del carattere ordinatorio dei termini per il deposito informatico delle conclusioni; le repliche
3.1. la struttura della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica (con l’espressa previsione del loro invio “immediato” alle altre parti e del loro minor termine per il deposito delle proprie) parrebbe imporre la soluzione del possibile obbligo di rinvio dell’udienza camerale, quando la comunicazione delle conclusioni della parte pubblica al difensore di parte privata sia omessa o comunque avvenga oltre il sesto giorno prima della udienza. Rinvio tuttavia da disporsi solo su esplicita richiesta della parte privata interessata all’eccezione (trattandosi di vizio del contraddittorio disponibile: si tratterebbe di nullità ex art. 178 cod. proc. pen. ma intervenuta prima del giudizio e pertanto ex art. 180 con onere di espressa eccezione entro la deliberazione d’appello: quindi con la presentazione di conclusioni della parte privata ‘tardive’ ma precedenti il giorno dell’udienza);
3.2. tuttavia, se il termine di cinque giorni per le ‘altre’ parti è solo ordinatorio, ciò comporta che le conclusioni delle parti private parrebbero poter essere presentate anche entro i cinque giorni, con ciò, conseguentemente, tendenzialmente non sussistendo una certa, insuperabile e consumata, violazione del diritto di difesa nel caso di comunicazione tardiva delle conclusioni della parte pubblica: la dinamica ordinatoria della successione dei termini da un lato non parrebbe poter fondare un diritto delle parti private al termine utile minimo di cinque giorni dalla “immediata” comunicazione delle conclusioni del procuratore generale, dall’altro consentirebbe comunque il rispetto in ipotesi dei cinque giorni riducendo il secondo termine di cinque giorni che non è a garanzia delle parti ma del sistema (trattandosi di termine a favore della tempestiva conoscenza del giudice). Si tratterebbe in definitiva di una garanzia tendenziale per i vari beneficiari, ché altrimenti il ‘legislatore’ li avrebbe previsti perentori;
in definitiva, pare soluzione sistematicamente corretta quella di ritenere che l’eccezione di violazione del diritto di difesa (da proporsi specificamente con conclusioni ‘tardive’ rispetto ai cinque giorni prima dell’udienza) possa imporre il differimento della camera di consiglio, pur senza presenza fisica delle parti, solo quando in concreto le conclusioni del procuratore generale: a) non siano state inoltrate [7], b) siano state inoltrate a difensore diverso da quello effettivo al momento dell’inoltro, c) siano state inoltrate in tempi tali da non consentire oggettivamente la presentazione di proprie conclusioni ‘informate’ ai difensori delle parti private.
3.3. Sono connessi corollari della natura ordinaria del termine due altri conseguenti problemi:
quale è allora il momento ultimo di presentazione delle conclusioni delle parti private a pena di inefficacia/inammissibilità delle stesse?
Secondo problema/corollario:
sono possibili repliche scritte diverse dall’atto di conclusioni?
(fermo restando che l’atto con le conclusioni scritte, oltre che le eventuali note spese, pure contenenti la voce fase deliberazione, può fisiologicamente contenere argomentazioni a sostegno dell’accoglimento delle stesse che non si risolvano, per l’appellante, in motivi nuovi ex art. 585, a quel punto intempestivi [8]).
3.3.1. Due le soluzioni possibili:
a) il momento di effettivo svolgimento della camera di consiglio, con i magistrati sia in presenza che da remoto, incombente pertanto da tenersi non prima dell’orario originariamente programmato per la trattazione ordinaria in presenza;
b) almeno il giorno precedente quello della udienza.
La soluzione che individua come momento ultimo della presentazione di conclusioni quello di inizio dell’effettivo svolgimento della camera di consiglio dedicata al singolo procedimento, e conclusa con il deposito del dispositivo[9], è certo astrattamente coerente alla natura ordinatoria del termine, in assenza di alcuna indicazione specifica di un momento o termine finale diverso. Essa però non convince perché non pare tener conto di struttura, finalità e disciplina del rito camerale senza partecipazione fisica (modalità di trattazione che obiettivamente non è più correlata al rispetto di una fascia oraria prevista solo per tutelare esigenze assorbite dall’assenza fisica delle parti).
Si tenga in proposito presente che:
- il termine assegnato per il deposito ultimo delle conclusioni è in realtà a beneficio solo del giudice collegiale e delle incombenze di cancelleria [10]. Esso assolve anche all’obbligo di pertinente tempestiva conoscenza da parte del collegio giudicante il quale, per espressa disposizione speciale (art. 23, comma 3, dl 149 che richiama espressamente la disciplina dell’art. 23, comma 9, dl 137), potrebbe appunto riunirsi anche da remoto, quindi senza presenza fisica dei componenti, o di alcuno di essi, nell’ufficio. La precedente esclusione di tale facoltà, prevista dal dl 137 per le deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione, non rileva infatti per i procedimenti camerali con assenza fisica delle parti ex art. 23, comma 2, dl 149, proprio in ragione di tale rinvio esplicito operato da questa norma, che disciplina solo “la ‘decisione’ dei giudizi penali di appello”;
- le ‘conclusioni’ possono essere depositate SOLO per via telematica (art. 23, comma 2, dl 149), a differenza degli altri atti che ‘possono’ essere depositati per via telematica (art. 24, comma 4, dl 137) o con accesso fisico regolamentato alla cancelleria [11];
- manca l’autonoma (necessaria) articolata disciplina espressa del deposito telematico ‘in entrata’ nel penale, come del resto per il deposito fisico [12], con particolare riferimento all’ultimo momento utile della giornata per l’invio efficace che faccia contestualmente corrispondere la eventuale decorrenza di termini per provvedere.
Conseguentemente, se il termine dei cinque giorni è a beneficio ‘dell’Ufficio’, se il deposito può avvenire solo per via telematica, se la fissazione di orari per fasce è finalizzata all’organizzazione ordinata e rispettosa delle udienze trattate in presenza, dovrebbe ritenersi che l’invio ‘utile’ sia quello che perviene alla cancelleria dell’ufficio giudiziario entro il giorno precedente l’udienza ed entro la conclusione del normale orario di lavoro mattutino.
Sembra utile una considerazione finale: se il ‘legislatore’ avesse previsto, o prevedesse, che i cinque giorni (e quindi i dieci) dovessero essere ‘liberi’, più agevole sarebbe stato concludere sul piano sistematico per l’individuazione del giorno precedente l’udienza come momento ultimo del deposito delle conclusioni, a quel punto l’ordinarietà del termine comunque consentendo l’interpretazione della efficacia di un deposito più ravvicinato all’udienza ma non oltre il giorno precedente.
In ogni caso, nel dubbio della certa affidabilità di una sola delle soluzioni rimane l’opportunità prudenziale di depositare i dispositivi dei singoli procedimenti non prima dell’orario originariamente fissato per la trattazione ordinaria.
3.3.2. Quanto alle ‘repliche’, vanno escluse. Si considerino a sostegno dell’assunto: la ristrettezza del termine (cinque giorni ordinatori), la sua disciplina specifica di contenuto palesemente diverso da quelle delle situazioni procedimentali correlabili espressamente disciplinate (611, comma 1, ma con termini molto più ampi) e, con rilievo assorbente, la consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude l’applicabilità dell’istituto della replica (prevista, pur con rigorosi limiti, nella discussione di pubblica udienza ex art. 523) ai procedimenti camerali: per tutte, Sez.4 sent. 12482/2011 e 19200/2016, Sez.6 sent. 45182/2019 e 19810/2009. In altri termini, il diritto di replica sussiste solo quando il legislatore espressamente lo attribuisce alle parti, il che non è avvenuto con il dl 149/2020 [13].
Quindi, nel nostro caso, si comprende così la piena coerenza sistematica (e confermativa degli approdi giurisprudenziali di legittimità) della disciplina che prevede l’inoltro alle altre parti solo delle conclusioni del procuratore generale e non di quelle delle altre parti, nonché i due diversi termini ordinatori. Si conferma pertanto che le conclusioni delle parti private non devono essere comunicate dalla cancelleria alle altre parti, pubblica e private.
3.3.3. E’ doveroso dar conto di come il quadro ricostruttivo e le soluzioni pertinenti, che precedono, potrebbero astrattamente essere poste in crisi dal rilievo che, se a fronte dell’eventuale mancata presentazione delle conclusioni da parte del procuratore generale (vuoi per errore vuoi per altra ragione) si dovesse necessariamente rinviare, si sarebbe attribuito alla parte pubblica e in particolare al deposito delle sue conclusioni l’efficacia di una sorta di condizione di procedibilità. Ciò condurrebbe, paradossalmente e in situazioni patologiche, ad attribuire alla discrezionalità della parte pubblica la stessa possibilità di definire il processo, sicchè ciò che solo rileverebbe è che la parte pubblica sia stata nelle condizioni di presentare le proprie conclusioni.
La suggestività del rilievo (il cui accoglimento ‘sconvolgerebbe’ la ricostruzione che precede, in definitiva prospettando una ricostruzione alternativa per cui le parti, pubblica o private, concludono se vogliono, ciascuna nel termine proprio assegnatogli, 10 e 5 giorni prima dell’udienza) non conduce tuttavia a condividerlo. E’ la consapevole struttura della procedura con tre momenti essenziali e convergenti (l’obbligo di presentazione delle conclusioni solo per la parte pubblica: “formula”/”possono presentare”; la diversità dei termini: dieci, cinque giorni; la necessità di inoltrare solo le conclusioni del procuratore generale alle parti private) che in modo francamente inequivoco assegna alle conclusioni del procuratore generale una funzione obbligatoria indefettibile: del resto, a ben vedere, la patologia immaginata (non l’errore, che è rimediabile con il differimento anche brevissimo, ma il ‘rifiuto’ discrezionale) ben potrebbe verificarsi anche nel caso di conclusioni orali necessarie (rito con udienza pubblica). Ma sono situazioni eccentriche alla disciplina del rito che inevitabilmente innescano meccanismi sostitutivi di genere organizzativo/sanzionatorio.
Neppure risulta appagante il richiamo alla natura camerale del rito. E’ proprio la diversità palese di disciplina tra l’art. 127, comma 3 (il p.m. conclude se compare, altrimenti si procede oltre) e la ‘nostra’ struttura appena esposta ed espressamente prevista dall’art. 23, comma 2, dl 149 (il ‘pubblico ministero’ “formula” le sue conclusioni, i difensori delle altre parti “possono presentare”), che rende conto di una disciplina di eccezione, diversa da quella camerale ordinaria e con un proprio equilibrio interno autonomo.
4. L’udienza camerale
L’udienza camerale può essere svolta dai tre giudici in presenza nell’ufficio giudiziario ovvero da remoto (alcuno dei componenti del collegio o tutti). Nel secondo caso il collegamento deve avvenire con il sistema teams e ai fini formali il luogo da cui si collegano i singoli magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti (il già ricordato art. 23, comma 9, dl 137/2020, richiamato espressamente dall’art. 23, comma 3, dl 149).
All’udienza partecipa anche l’ausiliario del giudice, sempre dall’ufficio giudiziario (art. 23, comma 5, dl 137/2020, da ritenersi applicabile anche nel caso delle udienze camerali ex artt. 23, comma 3, dl 149 e 23, comma 9, dl 137): lo stesso annoterà nel singolo verbale la composizione del collegio e l’orario di inizio e conclusione della camera di consiglio, ricevendo altresì il dispositivo cartaceo nel caso di presenza fisica del collegio, o di un suo componente, nell’ufficio.
E’ indubbio che il collegio dovrà comunque preliminarmente accertare la regolare costituzione delle parti (pur senza qualificare la posizione dell’imputato in termini di assenza o contumacia) e verificare, con l’assistente di udienza, l’avvenuta presentazione delle conclusioni da parte di alcuna o tutte le parti, pubblica e privata, verificandone il contenuto, in particolare nel caso di parziali rinunce ai motivi ovvero di sollecitazione all’esercizio dei poteri d’ufficio previsti dall’art. 597, comma 5, al fine di evitare vizi di omessa motivazione.
5. La “comunicazione” del dispositivo alle parti
5.1 Il dispositivo della “decisione” deve essere comunicato “alle parti” (art. 23, comma 3, seconda parte, dl 149). Lo stesso, sottoscritto dal presidente o da uno dei componenti del collegio, è depositato in cancelleria “il prima possibile”. Nel caso di udienza svolta presso l’ufficio giudiziario il deposito avverrà in esito alla deliberazione.
La previsione della comunicazione del dispositivo riproduce l’analoga disposizione che l’art. 23, comma 8, dl 137 disponeva solo per il giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Tuttavia, aspetto essenziale che pare essere stato dimenticato dal ‘legislatore provvisorio’, mentre le decisioni della Corte di cassazione non sono impugnabili (anche il termine per eventuale richiesta di ricorso straordinario decorre dal deposito della sentenza), sicchè la comunicazione del solo dispositivo ha sicuramente una mera valenza conoscitiva/informativa (come il termine stesso “comunicazione”, in luogo della “notificazione”, sembrerebbe confermare), quelle di appello lo sono.
Diviene pertanto essenziale comprendere il significato sistematico della ‘comunicazione del dispositivo alle parti’ per il giudizio d’appello camerale senza presenza fisica delle stesse, in relazione alla disciplina delle impugnazioni con particolare riferimento agli articoli 544 e 585 cod. proc. pen. ed alla disciplina dell’assenza o della contumacia dell’imputato.
Il punto, molto rilevante anche per le implicazioni sul lavoro di cancelleria, purtroppo non è stato disciplinato e sarebbe auspicabile che già in sede di conversione del decreto legge 149/2020 venisse chiarito: a garanzia innanzitutto delle difese di parte privata, che rischiano di trovarsi dichiarati inammissibili per tardività gli eventuali ricorsi presentati facendo riferimento alla data della comunicazione all’imputato.
Il problema riguarda due aspetti: la decorrenza del termine di deposito della sentenza assegnato nel dispositivo e conseguentemente di quello per impugnarla per il procuratore generale e i difensori della parte privata e quella per l’imputato.
In particolare:
il termine assegnato nel dispositivo per il deposito della sentenza decorredalla data della deliberazione o da quella della comunicazione?
nel primo caso, cosa accade se la comunicazione del dispositivo all’imputato avviene oltre la scadenza del termine assegnato dal dispositivo per il deposito della sentenza e questa è stata effettivamente depositata in quel termine?
Va infatti notato che l’art. 23, comma 3, dl 149 non reitera la disciplina della notificazione solo al difensore di fiducia anche per conto dell’imputato, già presente nella disciplina di prima fase della emergenza covid19 (art. 83, comma 14, dl 18/2020 come convertito nella legge 27/2020: dove comunque rimaneva l’onere di autonoma ‘notifica’ all’imputato assistito da difensore di ufficio che non avesse efficacemente eletto domicilio presso di lui). Conseguentemente la ‘comunicazione’ dovrà essere inviata anche all’imputato (che il mero riferimento alle “parti” deve ritenersi comprendere, in mancanza di diversa specifica esclusione).
Nel caso di valenza solo genericamente informativa della comunicazione (come in concreto è per la Corte di cassazione), il termine per l’eventuale impugnazione decorrerebbe per tutte le parti, pubblica e private, compreso l’imputato, dal giorno della deliberazione tenendo conto dei termini per il deposito della sentenza in essa assegnati.
Se invece la comunicazione avesse una qualche efficacia ‘costitutiva’ della conoscenza, si dovrebbe ritenere che anche il decorso del termine per il deposito della sentenza assegnato nel dispositivo (e produttivo dei correlati diversi termini di cui all’art. 585 per l’impugnazione di tutte le parti) decorrerebbe dalla data di effettiva esecuzione della ‘comunicazione’.
Evidenti le implicazioni della seconda soluzione, specialmente pensando al fatto che la comunicazione all’imputato non eseguibile ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, o al difensore dichiarato domiciliatario, o ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., dovrebbe avvenire per le vie ordinarie con la tutt’altro che imprevedibile dilatazione dei tempi di effettiva, o ritualmente formale, conoscenza. Il che condurrebbe, nella prassi, alla frequente possibilità che la sentenza venga depositata dall’estensore, specialmente se il termine assegnato è quello dei quindici giorni o di un mese, prima ancora che sia compiuta la ‘comunicazione’ del suo solo dispositivo.
Peculiare è poi la situazione nel caso di sentenza redatta con motivazione contestuale, che dovrebbe allora determinare direttamente la ‘comunicazione’ della intera sentenza, con decorso dei quindici giorni per impugnare, quanto all’imputato, dalla sua positiva effettuazione.
5.2. A favore della prima soluzione concorrerebbero una considerazione formale (appunto il termine ‘comunicazione’ in luogo di ‘comunicazione e notificazione’, la prima per il procuratore generale, la seconda per difensori delle parti private e imputato) e due sistematiche: la previsione dell’incombente anche davanti alla Corte di cassazione che, per quanto prima argomentato, ha sicuramente solo una valenza informativa improduttiva di effetti processuali specifici; il fatto che anche il processo d’appello con rito camerale in assenza presuppone la compiuta informazione di difensori e parti della trattazione del processo in una determinata data, eventualmente solo la mancata deliberazione dovendo essere comunicata per il prosieguo (conclusione supportata dall’insegnamento recente di SU sent. 698/2020 per il rito abbreviato). In tal caso dovrebbe pertanto concludersi che in contesto di assenza o contumacia, il termine per il deposito della sentenza nei termini assegnati in dispositivo decorra per tutti (parti pubblica e private e loro difensori) comunque dalla data di deliberazione e non dalla data di (mera) ‘comunicazione’ del dispositivo o della sentenza con motivazione contestuale.
Si tenga infine conto che poiché la trattazione del processo in rito camerale con assenza fisica è esito di una specifica discrezionale scelta di tutte le parti interessate al singolo processo di non trattare oralmente la causa, nessun pregiudizio potrebbe addebitarsi agli effetti del rito in ipotetico danno sia del diritto di difesa, per le parti private, che dell’interesse pubblico ad un eventuale contraddittorio orale.
La delicatezza della questione, in relazione alle sue implicazioni in termini di modalità dell’esercizio dei diritti processuali e organizzativi delle cancellerie delle corti di appello, davvero sollecita un pronto chiarimento ed una eventuale integrazione della disciplina da parte del legislatore.
6. Il rito in assenza e il concordato sui motivi
La prima esperienza applicativa ha segnalato infine incertezze nell’attivazione delle parti, privata e pubblica, per l’eventuale definizione del processo con rito camerale in assenza attraverso il concordato per l’accoglimento dei motivi ex art. 599-bis cod. proc. pen.. Ci si è posti il tema del rapporto tra tale richiesta e la disciplina dei termini (dieci e cinque giorni, pur ordinatori) per il deposito delle conclusioni scritte.
Un’impostazione formale condurrebbe a concludere che l’accordo debba essere presentato dalla difesa (ultima a concludere) con tali conclusioni scritte, che rappresentano il momento di definizione della posizione della parte per la deliberazione. In realtà, ragioni di opportunità, con l’aggancio normativo alla previsione dell’art. 589, comma 4, cod. proc. pen. (che per i riti camerali indica il termine ultimo della rinuncia a “prima dell’udienza”) deve ritenersi che, prescindendo dall’eventuale già avvenuto deposito delle conclusioni scritte, la richiesta di concordato, sottoscritta o fatta comunque propria dalla parte privata e dal procuratore generale, possa essere presentata fino al giorno prima della udienza, comunque prima del suo inizio [14].
Ovviamente, quanto più tempestivo sarà il deposito tanto più possibili saranno eventuali interlocuzioni informali anche della Corte sul contenuto del concordato nella prospettiva del suo accoglimento.
Rimane infatti onere delle parti (obbligo per il procuratore generale, facoltà per il difensore dell’imputato) presentare le conclusioni subordinate, per il caso del mancato accoglimento, non trovando applicazione la disposizione dell’art. 599-bis, comma 3, per la specialità eccezionale del rito emergenziale.
7. Il rito con trattazione orale (art.23, commi 1 e 4)
Sono come detto tre i casi in cui anche nel periodo emergenziale (per ora fino al 31/01/2021) si deve procedere con i riti ordinari, dibattimentali ex art. 602 e camerali ex art. 599, trattati in presenza:
1) quando la corte disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (603)
2) quando il difensore delle parti private o il ‘pubblico ministero’ facciano domanda di discussione orale
3) quando l’imputato manifesti la volontà di comparire.
8. La rinnovazione dell’istruzione
8.1. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale non può che essere disposta, su richiesta dell’appellante o d’ufficio e nei casi disciplinati dagli artt. 603 e 604, comma 6, dalla corte con ordinanza nel corso del giudizio.
Questo significa che fintanto che non è stata disposta la rinnovazione, se non è stata chiesta autonomamente la trattazione orale la corte d’appello procederà con il generale rito camerale in assenza. Se all’esito della camera di consiglio riterrà sussistere le condizioni per disporre la rinnovazione, la disporrà deliberando con ordinanza notificata alle parti, contestualmente fissando successiva udienza con trattazione orale nel rito, dibattimentale o camerale, proprio del caso.
Nessun problema di contraddittorio perché l’appellante deve aver proposto motivo specifico che, pertanto, è suscettibile di confronto nelle conclusioni scritte delle altre parti. A seconda delle peculiarità dei casi la corte d’appello potrà sempre adeguare poi il proprio provvedimento all’esito del confronto dialettico orale nell’udienza di rinvio.
8.2. Non muta la soluzione nel caso di appello della parte pubblica o della pur sola parte civile avverso sentenze di proscioglimento, quando l’appello solleciti la rivisitazione dell’apprezzamento di prove dichiarative decisive. L’obbligatorietà della rinnovazione prevista dall’art. 603, comma 3-bis, anche in tal caso non opera automaticamente, perché la corte in tanto procederà alla rinnovazione in quanto riterrà essenziale per decidere la rivalutazione della prova dichiarativa indicata dall’appellante.
E’ pertanto infondato l’assunto che nel caso di appello avverso sentenze di proscioglimento provenienti dalle parti interessate ad un giudizio di affermazione di responsabilità (penale e/o civile) si debba, per ciò solo, sempre e comunque procedere con rito in presenza.
8.3 Problema particolare è quello in cui la rinnovazione richiesta dalle parti si risolve nella domanda di produzione di documenti.
Va condiviso l’insegnamento di Cass. Sez. 5, sent. 32427/2015, secondo la quale per l’acquisizione di un documento non è indispensabile procedere a formale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Ciò che solo rileva è la possibilità del contraddittorio, che si risolve nella conoscenza tempestiva della richiesta per le altre parti e della loro effettiva concreta possibilità di interloquire sul punto, anche quando poi non esercitino in effetti la facoltà.
Conseguentemente, quando la richiesta di acquisizione documentale sia già contenuta nell’atto di appello, o in tempestivi motivi aggiunti, sarà onere delle altre parti concludere anche sulla stessa, in particolare quando i documenti di cui si chiede l’acquisizione siano stati allegati all’atto di impugnazione, la mancata concreta interlocuzione lasciando libera la corte di deliberare sul punto nella camera di consiglio in assenza fisica delle parti. Stessa soluzione nel caso che sia il procuratore generale a chiedere l’acquisizione di documenti allegandoli alle proprie conclusioni scritte (perché queste vengono inviate alle altre parti).
Quando invece la richiesta di acquisizione del documento provenga da una parte privata e intervenga solo con il deposito delle conclusioni scritte, deve ritenersi che la corte valuterà la natura del documento e la conseguente necessità di una interlocuzione delle altre parti, con apprezzamento estremamente prudenziale, tenendo conto che se si trattasse di documenti il cui contenuto effettivamente possa influire sulla decisione (venendo poi addirittura richiamato nel percorso logico-giuridico argomentativo della deliberazione), l’omessa interlocuzione potrà per sé costituire ragione di annullamento della deliberazione per violazione del contraddittorio.
Anche per i documenti si pone il tema dell’individuazione del momento ultimo della richiesta: in particolare se questa possa intervenire tra il già avvenuto deposito delle proprie conclusioni e fino all’inizio della camera di consiglio per la deliberazione [15].
9. La richiesta di trattazione orale
9.1. La richiesta di discussione orale, insindacabile e non sottoposta ad alcuna condizione, deve essere formulata per iscritto entro il termine PERENTORIO di quindici giorni liberi prima dell’udienza. Essa va trasmessa, sia dal procuratore generale che dai difensori delle parti private, alla cancelleria della corte di appello attraverso la pec dedicata (comma 4, prima parte), indicata dal provvedimento DGSIA richiamato e dal conseguente provvedimento organizzativo dell’Ufficio giudiziario.
Formulata la richiesta di trattazione orale, il processo viene trattato secondo il rito ordinario di udienza pubblica o camerale partecipato, corrispondente al rito del primo grado ed alla disciplina dell’art. 599, comma 1, cod. proc. pen., applicandosi le regole proprie.
È sufficiente la richiesta di una sola delle parti, pubblica o private, per imporre la trattazione orale del processo per le altre.
L’insindacabilità della richiesta attesta l’attenzione a che il regime emergenziale e la rinuncia alla presenza fisica trovi la condivisione di tutte le parti protagoniste del processo, giudicate opportunamente tutte e ciascuna titolari degli apprezzamenti di merito pertinenti all’idoneità del rito alla salvaguardia dei propri interessi e diritti processuali.
9.2. Tre problematiche sulla scelta del rito: se sia ammissibile una richiesta tardiva, ancorché in ipotesi congiunta di tutte le parti interessate; se la richiesta di trattazione orale sia revocabile; se sia ipotizzabile disporre d’ufficio la trattazione orale.
La risposta, sul piano formale, sembra necessariamente negativa per tutte.
Alla natura perentoria del termine (per sé esaustiva a negare una richiesta tardiva) si accompagna la considerazione della natura emergenziale della disciplina e delle sue ragione e finalità. Una volta esercitata o non esercitata la facoltà, appunto pure insindacabile, attribuita, il ‘ripensamento’, pur collettivo, non trova spazio, salve sempre le situazioni oggettive che possano fondare una richiesta di restituzione in termine.
Ciò perché, sul piano sistematico, esercitata la facoltà il rito non è più nella disponibilità della e delle parti.
Il potere di ufficio di disporre la trattazione orale anche quando le parti non lo chiedano va pure escluso per la medesima ragione sistematica. In presenza di un contesto emergenziale il ‘legislatore provvisorio’ ha indicato nel camerale senza presenza fisica il rito ‘ordinario’ e le eccezioni sono tassative e quindi solo quelle indicate.
9.3. Un’ulteriore problematica nasce dall’ennesimo silenzio dell’impianto normativo: l’art. 23, comma 4 non prevede come la richiesta di trattazione orale della prima parte che la propone (così, per quanto ora detto, incardinando il rito ordinario) giunga alle altre. Non è stato in particolare riprodotto l’obbligo della cancelleria, che quella prima richiesta riceve, di inoltrarla alle altre parti.
Esigenze sistematiche di elementare buona organizzazione (principio costituzionale di efficienza della giurisdizione) e ragionevole durata del processo (principio costituzionale che sarebbe posto a rischio nel caso di stallo sul punto, per la mancata attivazione spontanea del richiedente nella comunicazione della propria richiesta alle altre parti del suo processo, tra l’altro potendosi innescare la contemporanea sequela di presentazione di conclusioni scritte per le altre parti, determinando una situazione che comunque alfine dovrebbe essere gestita d’ufficio dalla corte) impongono di ritenere che sia onere della cancelleria, anche solo su provvedimento organizzativo interno, dare ‘immediatamente’ notizia di tale richiesta alle altre parti (mutuando l’attivazione che consegue al deposito delle conclusioni scritte del procuratore generale).
Si avverta che non vi è contraddizione tra sollecitare questa attivazione organizzativa ‘spontanea’ e l’aver negato che la stessa sia doverosa anche nel caso di ricezione delle conclusioni scritte delle parti private nel rito camerale in assenza. Basta rilevare le dinamiche temporali ben diverse (quindici giorni liberi, termine perentorio: termine più che sufficiente per comunicare alle altre parti la richiesta di trattazione orale prima dei dieci giorni per le conclusioni del procuratore generale; solo cinque giorni prima e ordinatori, nel caso delle conclusioni scritte delle parti private) per cogliere l’assenza di alcuna irrazionalità delle diverse soluzioni.
10. La manifestazione della volontà dell’imputato di comparire
10.1. La terza ‘eccezione’ al rito camerale in assenza è rappresentata dalla “manifestazione della volontà di comparire” proveniente dall’imputato (art. 23, comma 1, ultima parte).
Quella dell’imputato non è una tecnicamente formale richiesta di trattazione orale, ma la conseguenza della manifestazione di tale volontà è proprio quella di imporla.
È per questo probabilmente che la disciplina prevede una disposizione saggia: la manifestazione della volontà dell’imputato di comparire impone la trattazione orale ma è ammissibile solo quando pervenga alla cancelleria della corte di appello a mezzo del difensore. Tale disposizione raggiunge due risultati utili: informa il difensore che, quindi, può concordare con l’assistito la linea difensiva anche sul rito e, comunque, è avvisato del rito di trattazione orale con cui si procederà, obbligandolo ad una presenza effettiva, sia pure eventualmente attraverso sostituto fiduciario ex art. 102 cod. proc. pen. [16]
10.2. L’esperienza ha subito posto il tema della richiesta di partecipazione dell’imputato detenuto il quale chieda direttamente, tramite l’ufficio matricola dell’istituto dove si trova, di partecipare all’udienza, nelle due situazioni possibili del prima e dopo il decorso dei perentori quindici giorni, quando il suo difensore non abbia presentato nei termini l’autonoma richiesta di trattazione orale.
Si è ipotizzata la possibilità che i due commi (1 e 4, seconda parte, dell’art. 23) afferissero il primo all’imputato ristretto e il secondo all’imputato libero, così ‘sganciandosi’ l’imputato detenuto da tempi e modalità riservati all’imputato libero. Ma la norma non pare permettere tale conclusione: basti pensare che il comma 1 individua i casi nei quali non si procede con il generale rito camerale in assenza e il comma 4 ne disciplina i modi e i tempi, quindi vi è assoluta congruità e complementarietà dei due momenti della disciplina.
Deve quindi ritenersi che nel caso in cui l’imputato detenuto o agli arresti domiciliari abbia manifestato direttamente, tramite l’ufficio matricola o a mezzo polizia giudiziaria delegata al controllo o personalmente, la volontà di comparire:
- se non sono decorsi i quindici giorni la cancelleria possa inoltrare la richiesta al difensore perché si attivi al contatto con l’assistito o veicoli direttamente lui la richiesta, condividendola;
- se sono decorsi i quindici giorni e il difensore non abbia già autonomamente chiesto la trattazione orale, la richiesta debba essere dichiarata inammissibile (apparendo opportuno comunque dar notizia all’interessato che si procederà in assenza) [17].
10.3. Diverso è il caso in cui la trattazione orale sia stata chiesta dal procuratore generale o dal difensore di parte privata e si debba quindi procedere con gli ordinari riti di pubblica udienza o camerale partecipato.
In tal caso l’imputato parteciperà, salvo rinuncia, con collegamento di videoconferenza o informatico nel caso di rito in pubblica udienza disposto d’ufficio. Avrà l’usuale ordinario onere di richiedere la partecipazione nel caso di giudizio camerale, ferma la partecipazione a distanza (art. 23, comma 4, dl 137/2020, non derogato).
11. Il rito per i processi già pendenti
11.1. Due ultime questioni.
La prima riguarda i processi per cui è fissata udienza nel periodo dal 25 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e provengono da precedenti differimenti da udienze trattate con rito ordinario prima del 9 novembre.
Il quesito è se anche ad essi si applichi la disciplina eccezionale del dl 149.
La risposta pare possa essere differente secondo che il differimento precedente sia avvenuto in via preliminare (accertamento della costituzione delle parti e rinvio per legittimi impedimenti, astensioni, trattative, altre ragioni che abbiano impedito di procedere alla relazione della causa) ovvero dopo la relazione introduttiva.
Nel primo caso la trattazione del processo in definitiva non è iniziata: ne è controprova il fatto che la nuova udienza può essere trattata in composizione collegiale differente (Cass. Sez.3, sent. 47471/2013; Sez.4, sent. 4460/2006). In questo caso dovendo il processo essere trattato ex novo non vi sono ragioni per non applicare la disciplina dell’art. 23 dl 149/2020 nella sua integralità, in applicazione del principio di applicazione del rito previsto per il periodo di trattazione.
Nel secondo caso, la regressione dalla trattazione orale a quella cartolare non pare possibile, in assenza di una disciplina transitoria specifica pertinente. Questo perché nel periodo di emergenza non sono in assoluto precluse le trattazioni in presenza, ma solo diversamente disciplinate, comunque consentite per sola insindacabile scelta di una delle parti.
11.2. La seconda riguarda i casi di processi con detenuto (anche per altra causa) fissati per la trattazione nel periodo divenuto emergenziale, ma con decreto di fissazione dell’udienza già notificato e traduzione (o partecipazione da remoto) già disposta o richiesta di partecipazione già pervenuta prima del 9 novembre. In applicazione di quanto appena argomentato dovrebbe concludersi che quel ‘contatto con il detenuto’, o comunque il ristretto, avvenuto nella fase ‘organizzativa’ dell’udienza non sia per sé idoneo ad imporre la trattazione orale del processo. Sono mutati i presupposti fattuali (l’emergenza sanitaria) e normativi (nel periodo la regola generale è la trattazione camerale in assenza, salvo le tre eccezioni), sicchè deve concludersi che anche la precedente manifestazione di volontà di comparire sia divenuta inefficace e debba essere rinnovata nei tempi e nei modi stabiliti dall’art. 23.
[1] Termine di vigenza dell’emergenza sanitaria, dal rinvio operato dall’art. 23 dl 137/2020 all’art. 1, comma 1, dl 19/2020, senza pure il richiamo ai DPCM applicabili ai sensi del comma 2 [Relazione Massimario 02/11/2020 sulle novità introdotte dal dl 137/2020 nel giudizio penale in Cassazione].
[2] Secondo la stessa relazione (p. 5) anche questi termini sarebbero ‘liberi’ in applicazione della regola generale ex art. 172, comma 4, cod. proc. pen.. L’affermazione tuttavia è palesemente ‘incompleta’ perché non si confronta con il fatto che nello stesso articolo è espressamente specificato che i giorni indicati per la presentazione della richiesta di discussione orale (in Cassazione art. 23, comma 8, quarto periodo, dl 137/2020; per l’appello, art. 23, comma 4, dl 149/2020) sono giorni ‘liberi’. Se nella medesima norma alcuni termini vengono indicati specificamente come ‘liberi’ ed altri no, dovrebbe spiegarsi, ritenendosi anche per i secondi operante la disciplina generale, quale sarebbe la ragione della specificazione solo per i primi.
[3] L’art. 23, comma 2, dl 149 richiama in alternativa sia la generica previsione dei “mezzi telematici” in dotazione alla cancelleria (ex art. 16.4 dl 179/2012 con modifiche) sia i sistemi specificamente resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale DGSIA.
[4] L’art. 23, comma 2, ultima parte, dl 149 richiama l’art. 24, comma 4, dl 137/2020, secondo cui il deposito degli atti è consentito agli indirizzi PEC degli uffici giudiziari specificamente dedicati. Ora la presentazione delle conclusioni nel giudizio penale di appello nella generale procedura senza l’intervento fisico deve avvenire, solo, a mezzo PEC dedicata (gli indirizzi PEC sono stati assegnati ai diversi Uffici giudiziari con provvedimento del DGSIA del 9.11.2020 e con provvedimento organizzativo interno del singolo Ufficio sono stati stabiliti gli abbinamenti tra indirizzi e servizi).
Ai sensi dell’art. 3 del provvedimento del DGSIA risulta che: L'atto del procedimento in forma di documento informatico da depositare attraverso il servizio di posta elettronica certificata deve essere: 1. In formato pdf , 2. ottenuto da una trasformazione di un documento testuale senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, quindi non è ammessa la scansione di immagini, 3. sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata.
I documenti allegati all’atto del procedimento in forma di documento informatico devono rispettare i seguenti requisiti: 1. Essere in formato pdf, 2. le copie per immagine di documenti analogici hanno una risoluzione massima di 200 dpi, 3. le tipologie di firma ammesse sono PAdES e CAdES. Gli atti possono essere firmati digitalmente da più soggetti purché almeno uno sia il depositante, 4. la dimensione massima consentita per ciascuna comunicazione è pari a 30 mega byte.
[5] Si noti che la disciplina, pur dettata specificamente e solo per l’appello penale, non utilizza mai la locuzione ‘procuratore generale’.
[6] Del resto, occorre considerare che l’arretratezza dello stato informatico delle procedure penali (esito di consapevoli scelte del passato privilegianti la compiuta tempestiva informatizzazione del solo settore civile) non prevede alcun automatismo di reinvio delle conclusioni alle parti pur risultanti dal registro sicp, sicchè gli incombenti connessi a tale eventuale invio sarebbero insostenibili per gli attuali organici delle cancellerie penali, oltretutto spessissimo scoperti in percentuale consistente (basti pensare che per ogni singolo processo d’appello con un solo imputato e una sola parte civile le notifiche da curare potrebbero giungere ad almeno quattordici: decreto di fissazione udienza 4, conclusioni pg 2, conclusioni imp 2, conclusioni pc 2, comunicazione dispositivo 4, tutte da eseguire singolarmente con il sistema snt).
[7] La tesi dell’irrilevanza della mancata presentazione delle conclusioni per la parte pubblica non convince: vedi oltre nel testo il par. 3.3.3
[8] Ancorché la differenza tra ‘motivi nuovi’ e ‘argomenti a sostegno delle conclusioni’ risulti più formale che sostanziale, posto che per consolidata giurisprudenza di legittimità i motivi nuovi non possono afferire a punti della decisione diversi da quelli soli devoluti con l’originario atto di impugnazione. Del resto, è l’intera disciplina processuale ordinaria ad essere palesemente insoddisfacente laddove prevede i motivi nuovi ex 585, comma 4, poi le memorie e richieste ex art. 121, che la norma dichiara depositabili in cancelleria in ogni stato e grado del procedimento ma, quanto alle memorie, pure allegabili al verbale di udienza quando presentate in giudizio a sostegno di richieste ma anche delle conclusioni finali (482, comma 1), senza contemporaneamente disciplinare il contraddittorio sul contenuto. Sicché, paradossalmente, affermato il diritto al pertinente contraddittorio, il deposito di memoria articolata con le conclusioni potrebbe imporre la violazione del principio costituzionale della ragionevole durata con il necessario differimento. Sarebbe essenziale estendere la disciplina che invece solo per il rito di cassazione il legislatore ha disciplinato espressamente, e con diverso contenuto, stabilendo termini precisi: art. 611, comma 1, per i procedimenti in camera di consiglio, tuttavia la giurisprudenza di legittimità avendo esteso in via interpretativa estensiva la medesima disciplina anche ai procedimenti con pubblica udienza: per tutte da ultimo, Sez.6 sent. 11630/2020. In realtà la disciplina processuale penale pare da sempre timorosa di stabilire modalità e termini certi e seri per l’esercizio insindacabile di facoltà discrezionali, privilegiando (accettando) l’intempestività dell’esercizio a detrimento della ragionevole organizzazione dei tempi di trattazione, anziché impegnarsi per conseguire un equilibrio efficace tra salvaguardia rigorosa dei diritti delle parti ed efficienza della giurisdizione.
[9] Problema nel problema è, appunto, se in tal caso l’eventuale riferimento al momento dell’udienza debba pure tener conto dell’originario orario di udienza fissato per la originaria prospettiva di trattazione ordinaria in presenza, con fasce orarie determinate solo per limitare i rischi dell’assembramento, in aula ma pure, nel caso di trattazione ‘a porte chiuse’, nei locali esterni per l’attesa. La soluzione proposta nel testo assorbe questo problema peculiare, tuttavia dovendosi osservare che la fissazione dell’orario è strettamente collegata alla celebrazione del processo secondo le forme ordinarie, risultando tendenzialmente, sul piano strutturale, irrilevante, e quindi incompatibile, con la trattazione camerale senza partecipazione fisica delle parti.
[10] Sul presupposto della mancata contestuale previsione di una disciplina di eventuali repliche: vedi par. successivo.
[11] Il punto (deposito solo per via telematica alla pec ‘dedicata’) è importante, perché la prima esperienza applicativa ha presentato più casi di difensori che, non avendo chiesto la trattazione orale e non avendo presentato entro i cinque giorni le conclusioni, accedono all’aula di udienza, comunque all’assistente dell’udienza in corso, prima dell’orario precedentemente fissato per l’originaria trattazione orale, chiedendo allora di depositare fisicamente le conclusioni con eventuali note spese. La conclusione, sul piano formale, dovrebbe essere quella della ‘irricevibilità’ di un tale deposito ‘fisico’, quindi anche il tema dell’orario riguardando allora solo il pervenimento di depositi tramite pec nel giorno di udienza e prima dell’orario di inizio della camera di consiglio.
[12] Il riferimento è all’orario ultimo di efficace/legittimo pervenimento della pec ‘depositante’ rispetto all’orario di ordinario funzionamento delle cancellerie (si veda per tematica sostanzialmente sovrapponibile Cass. Sez. 6, sent. 42710/2011, paragrafo 3.1.2, pertinente l’art. 123 cod. proc. pen.). Si pensi infatti ad un’istanza cautelare che pervenga attraverso pec dedicata alle 18 del venerdi: quando decorrono i cinque giorni per provvedere?
[13] Non convince sul punto la Relazione Massimario 02/11/2020, già richiamata, laddove pur dando atto della mancata previsione delle repliche ritiene per la Cassazione (ma è il principio che rileva) applicabile analogicamente il sistema ex art. 611, tuttavia non affrontando l’aspetto essenziale dei termini ben più ristretti, unici per il deposito delle conclusioni, e degli eventuali modi, tempi e attribuzione dell’onere di comunicazione delle conclusioni delle parti private.
[14] Si ripropone la questione trattata al paragrafo 3.3.1
[15] Ancora una volta il tema trattato al paragrafo 3.3.1
[16] Volutamente non si approfondisce in questa sede il tema, prettamente deontologico, della condotta del difensore che in ipotesi chieda la trattazione orale in proprio, o veicoli la manifestazione di volontà di partecipare dell’assistito, e poi non compaia all’udienza ed eventualmente si limiti a chiedere sostituzione d’ufficio ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc,. pen.
[17] Sembra opportuno sensibilizzare formalmente gli istituti carcerari sulla tematica, perché svolgano la prima attività informativa con i detenuti, per consentire più efficacemente, quando il termine perentorio non è decorso, il contatto con il difensore.
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