Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini
di Pier Luigi Portaluri
Sommario: 1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo - 2. Il giudizio di prime cure - 3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento - 4. Casa Livatino e vincolo testimoniale - 5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori.
1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo
Dopo la barbarie mafiosa del 21 settembre 1990, con un decreto del 2015 l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana dichiara «di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante» la casa dove, a Canicattì, la famiglia di Livatino viveva.
Il padre del «Giudice ragazzino» era scomparso nel 2010, per cui – «in assenza di ulteriori eredi che della famiglia Livatino conservassero il nome»[1] – l’immobile era pervenuto in eredità al soggetto ricorrente: il quale, ricevuto quel decreto di vincolo, lo impugna innanzi al TAR Palermo[2].
Due ordini di censure.
Anzitutto deduce che l’Assessorato non avrebbe preso in considerazione le osservazioni endoprocedimentali della ricorrente.
Ma è col secondo ordine di doglianze che si entra nel vivo della vicenda.
Il ricorrente ritiene infatti che «l’immobile non presenterebbe alcuno dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per la dichiarazione di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante, sia sotto il profilo del valore culturale, sia con riferimento all’assenza di pregio dei beni mobili presenti all’interno dell’immobile»[3]: di qui l’asserita violazione degli artt. 10, comma 3, lett. a) e d) e 13, d.lgs. n. 42/’04.
2. Il giudizio di prime cure
Il Tar Palermo dapprima sospende il decreto impositivo atteso il «mancato esame delle osservazioni presentate dalla ricorrente, alle quali il provvedimento impugnato non fa il minimo cenno»[4]: dispone quindi per il riesercizio del potere.
Ma l’Assessorato non riadotta un nuovo decreto e sceglie invece la strada della difesa meritale del provvedimento.
La strategia è vincente. In sentenza[5] il primo Giudice cambia infatti idea e aderisce espressamente alla tesi sostanzialistica per cui – in caso di omessa considerazione degli apporti difensivi – la violazione delle norme sul contraddittorio non rileva se gli interessati non provano o non forniscono elementi, «ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo; sotto tale angolazione non si richiede che dal provvedimento stesso risultino formalmente esaminate le memorie e i documenti depositati nel corso del procedimento, ma che una tale valutazione sia stata sostanzialmente compiuta».
La censura di diritto procedimentale è dunque superata e il Tar può esaminare le doglianze sostanziali.
Al giudice territoriale bastano pochi passaggi ricostruttivi per accertare la legittimità del decreto regionale e dunque respingere il ricorso: la relazione che accompagna il provvedimento, e che ne è parte integrante, motiva in modo adeguato la scelta vincolistica.
Vediamo il percorso argomentativo.
Un primo profilo è meno convincente. Piuttosto debole. Concerne l’interesse storico-artistico particolarmente importante dell’immobile in sé ex art. 10, comma 3, lett. a), cit.: il giudice territoriale si limita a validare in modo abbastanza cursorio la relazione citata, dove la casa della famiglia Livatino «viene collocata temporalmente e storicamente dal punto di vista architettonico, nella parte in cui la stessa si fa risalire alle fine dell’ottocento senza interventi di ristrutturazione e con la presenza delle finiture originarie».
È vero, precisa subito prima il Tribunale rifacendosi al diritto vivente, che «…il giudizio, che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità». Ma di contro – osserviamo noi – una motivazione così vaga e stereotipa sul punto sarebbe bonne à tout faire.
Tutto questo conta poco, per fortuna. Il cuore della decisione è ovviamente altrove, nel secondo profilo motivazionale: ed è tutto – sottolinea il giudice di prime cure – nel «riferimento all’insieme dei beni complessivamente considerati (immobili e mobili) in quanto la p.a. ha ritenuto detti beni espressione di valori storico-culturali simbolici, e di un valore sociale connesso non tanto ai beni mobili in sé considerati, quanto piuttosto al valore simbolico che gli stessi assumono per le generazioni, anche in funzione di stimolo per la coscienza sociale e culturale di un determinato contesto storico». Valenza culturale, peraltro, che nella ricordata relazione tecnica allegata al decreto è attestata dal fatto che «tale dimora è luogo di incontro di associazioni antimafia […] il che implica l’attualità del collegamento con l’aspetto culturale inteso in senso ampio»[6].
3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento
Il soggetto proprietario appella la sentenza davanti al Consiglio di Giustizia, che tuttavia conferma[7] la pronuncia del TAR.
Il Consiglio di Giustizia scrive una sentenza particolarmente ariosa.
Ci parla in toni vividi di quel mattino tragico, dei quattro sicari che uccisero Livatino ad appena 38 anni per ordine della stidda agrigentina; di come quel delitto avesse avuto anche l’effetto di aiutare il risveglio delle coscienze nell’impegno contro la mafia. Si spinge anche oltre, il giudice. Un tocco polemico: nell’esaltare di Livatino «l’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza», sottolinea che in tal modo esso «assumeva valenze ulteriori a confronto delle deviazioni cui era andato incontro un certo modo di intendere e praticare l’iniziativa contro la mafia nella regione siciliana»[8].
Non manca in sentenza l’accenno al processo di beatificazione, che peraltro si concluderà fra pochissimi giorni, il prossimo 9 maggio 2021: per la Chiesa – ricorda il Consiglio – quel delitto è un martyrium in odium fidei[9].
Poi la descrizione – insistita – della casa di Livatino, degli arredi, delle semplici cose appartenutegli[10].
Infine – sempre tratta dalla relazione di accompagnamento al decreto – la conclusione: «la dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore».
Questo indugiare non è superfluo, nel ductus della decisione. Ne è anzi la base fondativa.
Tralascio qui le doglianze appellatorie di diritto procedimentale: il Consiglio le rigetta muovendosi sostanzialmente nella scia del TAR.
Più interessanti sono invece le considerazioni meritali. Il CGA muove, ancora una volta, dal contenuto dell’atto impugnato, condividendolo (come vedremo): Casa Livatino – aveva sostenuto la relazione assessorile – è un «connubio tra valenza architettonica e preziosa testimonianza di memoria storica e di avvenimenti socio-politici caratterizzanti il territorio di Agrigento e della sua provincia», come tale tutelabile in base all’art. 10, comma 3, lett. a) e d). Per cui – afferma l’Assessorato siciliano – quella dimora è un bene culturale «particolarmente importante».
Per il nostro giudice d’appello si tratta quindi di «calibrare il valore semantico del termine “bene culturale”».
A questo fine, richiamato il concetto di patrimonio culturale introdotto dal Codice e la conseguente bipartizione in beni paesaggistici e culturali, la sentenza afferma che tra i caratteri comuni a tutti i beni culturali quello che rileva nel nostro caso è il carattere dell’immaterialità, intesa come l’attitudine a essere «testimonianza di superiori valori di civiltà». I valori – prosegue la pronuncia – «si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società». E ancora: «il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici»[11].
«Immaterialità». «Significazione altra». «Simbolo»[12]. Concetti sui quali devo ora soffermarmi.
4. Casa Livatino e vincolo testimoniale
Volgiamoci[13] allora alla norma centrale, quella con cui s’apre il capo sui beni culturali: l’art. 10 del codice[14]. Per garantire la tutela dei beni oggetto della nostra vicenda l’Assessorato siciliano ne ha utilizzato sopra tutto il comma 3, lett. d)[15], concernente «le cose immobili e mobili[16], a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose»[17].
Questi beni non devono presentare un interesse storico o artistico in sé. Sono rilevanti per un altro aspetto, per il loro legame con un evento storico o con una specifica epoca della civiltà: condizione sufficiente perché il bene sia vincolato.
I presupposti per l’imposizione del vincolo qui sono, in primo luogo, l’esistenza di un fatto della storia e della cultura collegabile al bene; poi, l’importanza particolare che la cosa assume per effetto del riferimento a quel fatto storico-culturale.
È il c.d. vincolo testimoniale (o storico-relazionale), sintagma molto elegante al quale la giurisprudenza ha attribuito carattere di specificità: «il vincolo appena descritto si distingue tradizionalmente da quello previsto in generale dallo stesso art. 10 a tutela delle cose di ‘interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’. Si afferma infatti, in sintesi estrema, che la cosa di interesse per riferimento con la storia di per sé non rivestirebbe alcun interesse culturale, ma lo assume nel caso concreto, perché collegata ad un qualche evento passato di rilievo: si fa l’esempio di un oggetto di fattura comune e di nessun pregio artistico, che però fosse caro al personaggio celebre che ne era proprietario. In questo senso si esprimono anche, in termini generali, le sentenze della Sezione 22 maggio 2008 n. 2430 e 24 marzo 2003 n. 1496, che si citano perché di rilievo, e riguardano due casi nei quali il vincolo in questione era stato apposto su un bene immobile. […] Nei termini descritti, si osserva che il riferimento con la storia non necessariamente coinvolge fatti di particolare importanza, potendo essere sufficiente anche il ricordo di eventi della storia locale, come appunto la valorizzazione di un quartiere in precedenza disagiato, ovvero della storia minore, cui rimandano le mappe di un tratto di campagna. Si tratta però pur sempre di fatti specifici, bene individuati come tali. Si potrebbe anzi affermare che proprio in questo carattere specifico sta la differenza fra il vincolo in esame e quello storico-artistico, dato che, all’opposto, i valori artistici sono espressione del generico gusto di un’epoca, non necessariamente ricollegabile a fatti determinati»[18].
Il profilo d’importanza storica si colloca al di fuori del bene e prescinde da un requisito di vetustà del bene stesso[19]: il vincolo potrebbe essere applicato – come nel nostro caso – anche a beni di fattura recente, ma che meritano tuttavia di esser comunque tutelati a motivo del loro collegamento con fatti storici specifici.
5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori
Il riferimento alla storia politica, peraltro indipendente – come abbiamo appena visto – da una determinata data di costruzione del manufatto, rende questa norma di notevole rilievo per noi.
In base alla lett. d) in esame, infatti, la dichiarazione ex art. 13 del codice può riguardare un bene privato o pubblico, di realizzazione remota o moderna, pregevole o meno: nulla di tutto ciò rileva, ma solo l’esser protagonista o testimone di un accadimento cui si possa oggettivamente annettere rilievo storico-politico.
La natura puramente relazionale di questa tipologia di vincolo, e la vastità indefinita del parametro di valutazione cui esso appunto si riferisce e quindi ci riconduce (la generica rilevanza politica di un evento), sono strumenti che l’ordinamento offre a tutela di una categoria di beni assai estesa, proprio perché non circoscrivibile per qualità intrinseche.
Il rischio è anzi quello opposto: che ricadano nel perimetro del vincolo beni collocati in una “posizione segnica” troppo distante dall’evento cui dovrebbero riferirsi.
Per utilizzare una figurazione, l’accadimento – l’Ereignis – è generato da una serie virtualmente infinita di antecedenti causali. Può a sua volta immaginarsi come un punto d’impatto su di una superficie che disegna – a mo’ di cerchi concentrici – i segni dei suoi effetti. Non è semplice individuare il momento, a monte e a valle dell’evento, a partire dal quale si possa cominciare a ritenere segnicamente irrilevante la relazione – pur esistente per causa, effetto, vicinanza o somiglianza (come si dirà meglio più avanti) – fra una cosa-testo e l’evento stesso.
Un esempio costruito sul nostro caso. Nell’interminato novero delle cose che esibiscono oggettivamente un legame causale, effettuale (o relazionale in genere) con il tragico accadimento del 21 settembre 1990, quando si deve ritenere che quel legame sia così labile e lontano da non meritare l’apposizione del vincolo sulla res che si trova in una situazione siffatta? Il giudizio è foriero di non poche incertezze, esplicandosi nell’esercizio di un potere comunque discrezionale, sia pur connotato da valutazioni più o meno assise su criteri tecnico-scientifici[20].
Ciò deriva dal fatto che la funzione originaria del bene – la sua utilità[21] concreta – è infatti trascesa del tutto: l’oggetto acquista un nuovo significato, come frase di un testo diverso e più ampio.
Da qui si diparte poi un duplice, progressivo allargamento della prospettiva, ben sottolineato dal Consiglio siciliano.
Anzitutto, l’area semantica del bene vincolato si affranca dal suo riferimento a un oggetto specifico (materiale o meno, inteso dunque come Gegenstand), per assurgere a indicare un intero ambito di riflessione e d’interpretazione della realtà: un angolo visuale di lettura e comprensione dei processi reali.
Inteso come ‘campo’, quel bene induce poi alla costruzione di una teoria affidante intorno al modo con cui uno spazio-macchina[22] produttivo di segni crea un ambiente affatto immaginario, nonché intorno allo scopo ultimo cui esso è funzionale[23].
Sottrazione all’uso[24], protezione, pregio[25] e visibilità sono le caratteristiche evidenti e costanti dell’oggetto vincolato, che trae la sua rilevanza dall’ingresso in quello spazio-macchina, dal quale infatti non può più – regola abbastanza costante pur nell’infinita diversità di tempi, luoghi, modi, circostanze – uscire[26].
Questi beni esibiscono tutti una palese «omologia di funzioni»[27]. A differenza dei beni apportatori di utilità pratica (produzione, consumo, etc.), essi apportano un significato rimandando a ciò che non è immediatamente visibile/sensibile: sono cioè puri semiofori[28].
In sintesi, cose (utili) in opposizione a semiofori (significanti). Tali perché orientati nella direzione della loro funzionalizzazione a esigenze di elevazione culturale, di protezione e trasmissione dei fondamenti della civiltà di un popolo.
Non importa il pregio in sé del bene. Il segno di vita – e di morte – che questi oggetti tracciano come media simbolici è esso stesso momento di valore. Non può essere alterato.
L’oggetto è entrato in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio[29], divenendo «κτῆμα ἐς αἰεί»[30], acquisto perenne: la storia ne ha scolpito quel sembiante esteriore che noi – i sorteggiati a vivere ancora – possiamo oggi contemplare[31].
V’è qualcosa di sacrale. E un invito per il giurista-poeta[32]: queste cose restino sottratte al divenire. Tramandino per sempre il ricordo di un’ora tragica; di un’esistenza breve, piena di Grazia.
[1] Come si legge nella sentenza commentata.
[2] Uno dei più classici casi di dialettica fra interesse pubblico e (legittimo) interesse privato. Cfr. M.L. Torsello, Profili generali del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in giustizia-amministrativa.it: «l’interesse sotteso al bene culturale è intrinsecamente “debole”, nel senso cioè che è esposto più di altri a confliggere con valori diversi delle società contemporanee, quali quelli dell’industria e del profitto. Del resto è questo il senso della collocazione della tutela tra i principi fondamentali della nostra Costituzione».
[3] Anche questo passo è preso dalla sentenza del CGA.
[4] Ord. n. 172/’16.
[5] È la n. 2887/’16.
[6] Si pensi al «Centro Studi Rosario Livatino», che – come si legge nel sito (centrostudilivatino.it) – si occupa di «temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limiti della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale», attivandosi anche per iniziative di mobilitazione culturale.
[7] È la sentenza 15 febbraio 2021, n. 107, pubblicata qui.
[8] Molto bella, e sopra tutto molto autentica, l’intervista di Roberto Conti a Roberto Saieva (oggi Procuratore generale della Repubblica a Catania, il quale lavorò a contatto strettissimo con Livatino), pubblicata in questa rivista per il trentennale della morte del magistrato: Livatino ieri e oggi.
Non è per fortuna uno stucchevole ritratto agiografico da immaginetta sacra, da improbabile santino, quello che vien fuori dalle parole di Saieva: «La sua rigidità nel rispetto delle regole – anche di quelle formali, che rappresentano la necessaria premessa di quelle sostanziali – era non di rado causa di malcontento. I malumori crebbero quando passò alle funzioni giudicanti. Ricordo qualche memoria e qualche gravame avverso provvedimenti da lui redatti dai toni insolitamente aspri». Ancora, per descrivere le reazioni all’omicidio: «Sul momento, com’è ovvio, il sentimento prevalente fu quello della commozione, anche tra coloro – avvocati, altri liberi professionisti, pubblici amministratori, colleghi – che nei suoi confronti non avevano nutrito particolare simpatia. La commozione è un sentimento facile. […] E ricordo pure che nel dicembre di quell’anno 1990, nella cappella maggiore del seminario vescovile di Agrigento fu celebrata una solenne messa in suffragio di Rosario. Naturalmente i magistrati agrigentini furono tutti presenti. La cerimonia era aperta anche agli avvocati, ma soltanto tre di loro vi parteciparono. Uno dei tre era tuo padre».
Come giustamente secca e impietosa è la descrizione del clima ambiguo e opaco cha caratterizzava le istituzioni del tempo, inclusa la magistratura: «noi magistrati impegnati sul fronte antimafia avevamo la sensazione di essere non funzionari dello Stato, ma liberi professionisti; e se non rappresentavamo lo Stato, se facevamo quel che facevamo per una nostra scelta individuale, era normale che subissimo le conseguenze di un impegno che nessuno ci chiedeva. Era una sensazione fondata. E infatti la scia di sangue, come sappiamo, non si sarebbe fermata. Ci sarebbero state ancora le stragi di Capaci e Via D’Amelio, le stragi sul continente». Poi si ebbe finalmente la reazione dello Stato. Ecco il commento tagliente di Saieva: «[…] nell’attività della Magistratura debbano essere distinte due fasi, corrispondenti alle due fasi dell’azione dello Stato che ho in precedenza indicato. La risposta fu, non dico corale, ma diffusa solo nella seconda fase, quando cioè fu chiara la volontà dei pubblici poteri di sgominare le associazioni mafiose, cosa nostra soprattutto, che, per ragioni, ripeto, ancora largamente oscure, aveva scelto la strada dello scontro diretto con le Istituzioni. Insomma, molti magistrati avvertirono che il vento cambiava e furono lesti a conformarsi. Ho visto magistrati passare in pochi anni dalla negazione dell’esistenza della mafia, alla pubblica celebrazione dei secoli di carcere inflitti ai mafiosi».
Sulla figura di Livatino si v. ora il recentissimo volume di A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un Giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Milano, il timone, 2021.
[9] Sia pure nella sua più recente accezione, indiretta e larga. Cfr. K.J. Wojtyla, Il sangue dei due missionari martiri costituisce le fondamenta della Chiesa cinese, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI/1, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, p. 1245: «gli uccisori danno mostra di odiare la fede non solo quando la loro violenza si getta contro l’annuncio esplicito della fede [...], ma anche quando tale violenza si scaglia contro le opere di carità verso il prossimo, opere che obiettivamente e realmente hanno nella fede la loro giustificazione ed il loro motivo. Odiando ciò che sorge dalla fede, mostrano di odiare quella fede che è la sorgente».
[10] «Il vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice), una vecchia radio assieme ad una nutrita videoteca in VHS. Presenti anche la copia della tesi di specializzazione in Diritto regionale nonché alcuni capi di abbigliamento compresa la toga posta sulla bara il giorno dei funerali».
[11] Ho aggiunto io i corsivi che compaiono nelle frasi della sentenza riportate nel testo.
[12] Il CGA insiste sul concetto di simbolo: «il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice. […] A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia».
[13] Si noti: in assenza di altri documenti recanti criteri per l’identificazione di un bene culturale (uso un linguaggio attualizzato), per molto tempo la fonte – pur a maglie comunque assai larghe – cui la prassi amministrativa ha fatto ricorso anche per procedere alla ricognizione dell’esistenza di un interesse pubblico all’apposizione del relativo vincolo è stata la circolare 13 maggio 1974, n. 2718 del Ministero della pubblica istruzione (allora titolare della competenza in materia), in materia di esportazione delle cose di interesse artistico ed archivistico.
Frutto del contributo di personalità come Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Massimo Pallottino, gli indirizzi risentono di una duplice influenza, derivante sia dalla formazione culturale dei loro componenti, di natura prevalentemente storico-artistica, sia dallo Zeitgeist, vicino a una visione marxiana dei rapporti sociali. È infatti percepibile l’abbandono (pur se ancora in itinere) della concezione idealistico-estetica dell’intera materia. Così la circolare: «in sostanza può dirsi che mentre fino a qualche tempo fa le istanze prevalenti nella considerazione delle cose del passato erano quelle estetiche, ora pur conservando i valori estetici tutto il loro peso, se ne sono aggiunti ad essi molti altri che allargano notevolmente la sfera di interessi in cui tali cose possono rientrare». E vi affiorano le prime, ma già abbastanza strutturate teoricamente, consapevolezze circa la necessità di superare l’approccio sino a quel momento domi-nante: si delinea la traiettoria che condurrà poi, come vedremo, al modello – particolarmente interessante per la nostra riflessione – di apertura tendenziale nei confronti della possibilità di ravvisare i caratteri del bene culturale pressoché in ogni «testo» connotato da un particolare effetto di senso o valore.
[14] Di seguito, per comodità di lettura, riporto il testo dell’art. 10 (sul quale v. il commento di G. Morbidelli in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, III ed., Milano, 2019, 133 ss., il quale legge opportunamente il telaio normativo distinguendovi i beni culturali «per ragioni soggettive», «ope legis», «per dichiarazione amministrativa» ed «esemplificati»). «1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. 2. Sono inoltre beni culturali: a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, ad eccezione delle raccolte che assolvono alle funzioni delle biblioteche indicate all’articolo 47, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. 3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13: a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1; b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante; c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale; d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose. Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale; d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione; e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano come complesso un eccezionale interesse.
4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a): a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio; d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio; e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio; f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico; g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico; h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico; i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico; l) le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale.
5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
[15] In questa vicenda il riferimento assessorile alla lett. a) ha – come abbiam visto – un ruolo chiaramente satellitare e di blando rinforzo motivazionale.
[16] Il codice ha opportunamente esteso la tutela anche ai beni mobili, esclusi invece dal previgente art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), secondo cui «sono beni culturali […] le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante».
[17] Così prosegue la lett. d) cit., a seguito della novella recata dall’art. 6, l. 12 ottobre 2017, n. 153 («Disposizioni per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci e Raffaello Sanzio e dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri»): «Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale».
[18] Cons. Stato, VI, 14 giugno 2017, n. 2920: è il caso del cinema ‘America’ di Roma.
V. anche Cons. Stato, VI, 3 settembre 2013, n. 4399, secondo cui «la dichiarazione di particolare interesse storico-artistico di un immobile si deve basare su elementi pregnanti che ne illustrino uno specifico pregio o che ne attestino quantomeno la sua valenza testimoniale di un tipico e ben determinato stile architettonico».
[19] Questo profilo è oggetto di una censura dedotta in primo grado (ma che parrebbe non riproposta in appello). Il Tar Palermo la rigetta così: «non coglie nel segno neppure il riferimento alla circostanza che i beni mobili avrebbero meno di cinquanta anni, atteso che la disposizione normativa di riferimento è contenuta nell’art. 12, co. 1, del d.lgs. 42/2004, il quale – nel porre ope legis il vincolo sulle opere la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili – si riferisce ai soli beni mobili di cui all’art. 10, co. 1, d. 42/2004 e, quindi, ai soli beni pubblici o di enti privati riconosciuti, i quali non vengono in rilievo nel caso di specie».
[20] La sentenza evidenzia chiaramente questo aspetto: «il giudizio circa la sussistenza dei requisiti che legittimano l’emissione del provvedimento impugnato è certamente discrezionale e lo stesso meriterebbe censura solo nelle ipotesi in cui debba ritenersi illogico o irrazionale».
Dobbiamo a G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in AA.VV., Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, un’attenta analisi sulle dinamiche del potere tecnico-discrezionale nelle vicende qui in esame. Premessa in generale l’estraneità di ogni processo ponderativo, dovendosi quel potere muovere – come viaggiando su una monorotaia, dice l’A. – verso la tutela del solo interesse commessogli dalla norma, egli sottolinea che «la particolarità delle “tecniche” da spendere in questo settore – storia, storia dell’arte, architettura, scienze del paesaggio e del territorio, ecc. – è di un marcato carattere di “non-scienza esatta” delle conoscenze specialistiche necessarie alla ricognizione per la dichiarazione di bene culturale o paesaggistico, ovvero alla stima di compatibilità dell’intervento concretamente immaginato». Per la tesi, non priva di qualche arditezza, secondo cui la considerazione e ponderazione di interessi altri «costituirebbe invece un sicuro argine al dilagare della notificazione di rilevante interesse, indice sintomatico di un modo di amministrare che non può essere condiviso» per l’asserito timore che l’eccesso conduca a una sostanziale vanificazione della tutela, v. B. Cavallo, op. cit., 122.
[21] Un «mondo strano da cui l’utilità sembra bandita per sempre»: così, a proposito dei musei e degli oggetti custoditi lì, inizia la sua analisi celebre e densissima, K. Pomian, Collezione, in Enciclopedia Einaudi, vol. III, Torino, 1978, 330 ss., spec. 330; cui adde ovviamente Id., Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, Milano, 2007.
[22] La casa di Livatino, nel caso nostro.
[23] Il riferimento d’obbligo è ai due lavori di Krzysztof Pomian già citati: a essi mi atterrò nel prosieguo.
[24] E dunque al circuito dello scambio economico in base all’utilità sua intrinseca, se e in quanto esistente.
[25] Poiché, pur essendo allo stato non utilizzabile, potrebbe comunque esser considerato un oggetto con valore di scambio, anche se non d’uso.
[26] Come le offerte agli dei nei templi greco-romani, dai quali non potevano essere distolte se non in situazioni estreme, onde ricavarne provviste finanziarie ritenute indispensabili per la salus rei publicae.
[27] K. Pomian, Collezione, cit., 341. Pomian analizza anzitutto i cc.dd. musealia dell’epoca premoderna (suppellettili funebri, offerte votive, tesori reali, etc.), ravvisandovi un tratto comune: consentire la comunicazione biunivoca tra il mondo visibile e quello invisibile (tramandato da miti, leggende, religioni: è il linguaggio a secernere i fantasmi dell’invisibile – osserva Pomian – in un mondo dove si muore e che induce a sperare che il visibile/sensibile sia soltanto una parte dell’essere), donde le quattro già viste loro caratteristiche dell’esser sottratti all’uso comune, protetti, pregiati, visibili. Poiché l’invisibile è di necessità ritenuto superiore al visibile, l’oggetto che col primo intrattiene una relazione di partecipazione, discendenza, vicinanza o somiglianza gode inevitabilmente di uno status privilegiato rispetto alle altre cose.
[28] K. Pomian, Collezione, cit., 350.
[29] «Preservata nel tempo nella sua immobile integrità»: così dice – come abbiam visto – la relazione assessorile a proposito di casa Livatino (e di tutto ciò che vi è conservato).
[30] Tucidide, Historiae, I, 20, 23.
[31] Onde il «vedere poetico» che rimanda a Hölderlin e da lui a Heidegger e Benjamin: «un’identificazione affettiva che consente di superare la distanza fra il mondo in cui sono le cose e il mondo in cui ne pronunciamo i nomi, cogliendo un’intimità con le cose stesse sentite non più come “oggetti opachi e chiusi” ma come intimamente partecipi alla nostra vita, ad un “destino creaturale” dove vita delle cose, vita dell’uomo, della natura sono necessariamente legati»: così A. Quendolo, op. cit., 47.
[32] Per il giurista che conosca e dica il diritto poietico, con M. Nussbaum, Giustizia poetica, Milano-Udine, 2012, su cui ora i profondi pensieri di G. Montedoro, Giustizia poetica, in apertacontrada.it («Un giurista concepito come mero tecnico ha meno chances di comprendere la complessità valoriale dell’ordinamento multilivello, di essere attrezzato per interpretare le diverse culture che ormai confluiscono nel mare magnum dell’esperienza giuridica sovranazionale, ha meno attenzione in definitiva per ogni aspetto dell’umano ed alla fine è meno capace di apprezzarne la concretezza con quel grado di eternità che è in ogni differenza»).