ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump ed il caso di Lisa Montgomery
di Paolo Passaglia*
Sommario: 1. Sei mesi di esecuzioni - 2. Un caso forse più drammatico di altri - 3. «La più politica delle pene» - 4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
1. Sei mesi di esecuzioni
Il turbolento tramonto dell’era Trump, che l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio ha fatto piombare direttamente nella notte fonda, sta portando con sé, insieme con una serie di forzature, tentate e sovente realizzate, alla Costituzione statunitense, anche un rigurgito relativo alla pena di morte. Un rigurgito che, preannunciato da tempo (tutto ebbe inizio con … un tweet presidenziale dell’agosto 2019: https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1158424951503884292?lang=en), ha assunto, come temuto, caratteri preoccupanti, per ampiezza e per crudeltà.
La pena di morte, nel diritto federale statunitense, non è mai stata abolita, tuttavia, per lungo tempo, non è stata applicata (ovviamente per gli ordinamenti degli Stati membri il discorso è ben diverso). Dopo il marzo 1963, per quasi mezzo secolo le esecuzioni si erano infatti fermate, prima che, durante la presidenza di George W. Bush riprendessero, con un bilancio di due condanne eseguite nel giugno 2001 e una nel marzo 2003. Da allora, si era avuto un nuovo accantonamento, fino, appunto, alla presidenza Trump, che negli ultimi sei mesi del 2020 ha condotto ben 10 esecuzioni.
Non si tratta soltanto di numeri, anche se il numero è di per sé allarmante, visto che l’anno appena trascorso, segnato dalle difficoltà che la pandemia ha opposto nei confronti delle esecuzioni, è stato comunque l’anno in cui il potere federale ha eseguito più condanne a morte di civili, almeno a far tempo dall’inizio del Novecento. È stato anche il primo anno nella storia degli Stati Uniti in cui le esecuzioni a livello federale hanno superato la somma delle esecuzioni a livello statale, bloccate, appunto, dalla pandemia, al punto da segnare, con 7, il valore minimo negli ultimi trentasette anni.
Non si tratta soltanto di numeri: la lettura del report annuale del Death Penalty Information Center (The Death Penalty in 2020: Year End Report. Death Penalty Hits Historic Lows Despite Federal Execution Spree, Dec. 16, 2020, https://deathpenaltyinfo.org/facts-and-research/dpic-reports/dpic-year-end-reports/the-death-penalty-in-2020-year-end-report) è, da questo punto di vista, inquietante: «L’ondata di esecuzioni è stata aberrante anche nella selezione dei detenuti da mettere a morte. I condannati hanno incuso il primo nativo americano mai giustiziato dal governo federale per l’omicidio di un membro della sua stessa tribù su terre tribali; le prime esecuzioni federali, in 68 anni, di delinquenti adolescenti ai tempi dei fatti; la prima esecuzione federale, in 57 anni, per un crimine commesso in uno Stato che aveva abolito la pena di morte; le esecuzioni programmate di due detenuti che le prove mediche avevano indicato come affetti disabilità intellettiva; le esecuzioni programmate di due detenuti con gravi malattie mentali, compreso uno che potrebbe essere stato incapace di intendere e di volere al momento della sua esecuzione; le esecuzioni programmate di due detenuti che non avevano ucciso nessuno e di tre condannati meno colpevoli dei coimputati che avevano ricevuto condanne minori; le prime esecuzioni, in oltre un secolo, nell’intervallo tra le elezioni politiche e l’entrata in funzione del nuovo Congresso; esecuzioni poste in essere contro la volontà dei familiari delle vittime, dei procuratori del processo di primo grado o d’appello nei relativi casi e di almeno uno dei giudici che avevano presieduto il processo».
Questa spirale è destinata, auspicabilmente, a interrompersi, stando almeno al programma del presidente eletto, Joe Biden, che si è impegnato a eliminare la pena di morte a livello federale (cfr. The Biden Plan for Strengthening America’s Commitment to Justice, https://joebiden.com/justice/). Il punto è che fino al 20 gennaio le funzioni presidenziali saranno (recte, dovrebbero essere) esercitate da Donald Trump. E se, già oggi, il presidente in carica può (s)fregiarsi del poco onorevole primato di essere stato il presidente che ha autorizzato più esecuzioni della storia degli Stati Uniti durante il periodo di passaggio da un presidente a un altro, è ben possibile che, negli ultimi giorni del suo mandato, cerchi, se ne avrà l’opportunità, di ritoccare le sue macabre statistiche. Sono, infatti, previste due esecuzioni ad opera del potere federale, il 12 e il 14 gennaio (una terza esecuzione, prevista per il 15, è stata per il momento sospesa in ragione di un vizio nel procedimento di notifica della data dell’esecuzione).
2. Un caso forse più drammatico di altri
Sul presupposto dell’intollerabilità di qualunque esecuzione, è quasi fisiologico che alcuni casi attirino più di altri l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra questi casi, evidentemente, rientra quello di Lisa Montgomery, la cui esecuzione, fissata per il 12 gennaio, ha dato luogo a diffuse richieste di clemenza, anche da parte di persone particolarmente qualificate in ambito forense e scientifico. A fondare queste richieste certo non è un fattore di genere: è vero che Lisa Montgomery è l’unica detenuta donna in un braccio della morte federale ed è vero che per trovare l’ultima donna di cui sia stata eseguita la condanna a morte da parte del potere federale si deve risalire al 1953, ma le ragioni che hanno spinto a un impegno contro questa esecuzione sono ben più profonde.
Difficile contestare l’efferatezza del fatto-reato commesso, del 16 dicembre 2004: strangolamento di una donna all’ottavo mese di gravidanza, taglio dell’addome con un coltello da cucina ed estrazione del bambino, sopravvissuto anche al rapimento da parte dell’omicida.
A rendere meno nitida l’esecrabilità della condotta si è fatto appello, in sede processuale, alla vita pregressa dell’imputata, fatta di abusi, anche sessuali, perpetrati dal patrigno e da almeno uno dei due uomini che aveva sposato in rapida successione, a 18 anni, per abbandonare l’abitazione materna; una vita fatta di abuso di alcol, asseritamente indotto dalla ricerca di una astrazione dalla cupezza della realtà; una vita segnata da una sterilizzazione, all’età di 22 anni, dopo aver messo al mondo quattro figli, che, presumibilmente, non doveva essere stata del tutto accettata, viste le ripetute false dichiarazioni di uno stato di gravidanza.
Nel corso del processo, non è stata accolta la linea di difesa basata sulla non imputabilità della Montgomery, che le avrebbe risparmiato la pena di morte in ragione della giurisprudenza della Corte suprema federale (cfr., in part., la sentenza sul caso Atkins v. Virginia, 536 U.S. 304, del 20 giugno 2002, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/536/304, in cui si è dichiarato che l’inflizione della pena di morte a persone affette da ritardo mentale era incompatibile con il divieto di pene crudeli e inusuali di cui all’Ottavo Emendamento alla Costituzione federale). La giuria ha quindi dichiarato colpevole l’imputata, raccomandando la condanna a morte, che il giudice ha pronunciato il 26 ottobre 2007. Solo successivamente si è venuti a conoscenza di ulteriori perizie relative allo stato mentale della Montgomery, che il suo avvocato non aveva ritenuto di produrre e che solo in appello sono stato presentate, peraltro senza successo.
Il caso della Montgomery è stato sottoposto anche alla Corte suprema federale, la quale – in data 19 marzo 2012 – ha tuttavia negato il certiorari, rifiutando discrezionalmente di trattare la causa (ciò che avviene, come noto, per la stragrande maggioranza dei ricorsi presentati alla Corte).
Dopo la condanna definitiva, e durante il suo soggiorno nel braccio della morte, la Montgomery è stata sottoposta a varie perizie psichiatriche richieste dal collegio difensivo, dalle quali sarebbe stata confermata la possibile incapacità al momento della commissione del fatto e dalle quali sarebbero emersi frequenti stati di dissociazione dalla realtà asseritamente derivati da danni cerebrali prodotti dalle percosse subite durante l’adolescenza. Se, dunque, per un verso potevano nutrirsi dubbi sulla legittimità della condanna, per l’altro poteva essere richiamata la giurisprudenza della Corte suprema federale (Ford v. Wainwright, 447 U.S. 399, del 26 giugno 1986, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/477/399; Panetti v. Quarterman, 551 U.S. 930, 28 giugno 2007, https://www.law.cornell.edu/supct/html/06-6407.ZS.html; Madison v. Alabama, 586 U.S., docket n. 17-7505, 27 febbraio 2019, https:// www.law.cornell.edu/supremecourt/text/17-7505) che ha dichiarato incostituzionale l’esecuzione di un condannato divenuto incapace nelle more dell’esecuzione.
Nonostante un insieme non proprio scarno di argomenti in favore di una qualche clemenza, l’esecuzione della Montgomery è stata fissata per l’8 dicembre, e solo la circostanza che i suoi legali avessero contratto il Covid-19 ha potuto portare a un rinvio. Rinvio che è stato, peraltro, piuttosto breve, visto che il 23 novembre è stata notificata alla Montgomery la nuova data del 12 gennaio. La Corte federale di primo grado per il District of Columbia, in data 24 dicembre, ha ritenuto illegittimo il nuovo provvedimento di fissazione, perché adottato quando era ancora in corso la sospensione della precedente esecuzione. La Corte d’appello, con ordinanza del 1° gennaio, ha annullato la decisione di primo grado, ripristinando così la validità della fissazione al 12 gennaio.
3. «La più politica delle pene»
Nel momento in cui queste righe sono scritte (il 7 gennaio) non è ancora certo che l’esecuzione avrà luogo. Non potrebbe essere altrimenti, visto che la storia della pena di morte negli Stati Uniti ha conosciuto sospensioni o atti di clemenza adottati anche a pochi minuti dall’inizio dell’esecuzione. L’ottusità dell’intransigenza dell’amministrazione Trump in materia di esecuzioni parrebbe rendere, nella specie, assai improbabile che potesse verificarsi una eventualità del genere. Una incognita enorme, tuttavia, pesa su qualunque previsione; un’incognita che non riguarda la detenuta, ma chi decide sull’esecuzione.
Dopo la sconvolgente vicenda dell’assalto al Campidoglio, infatti, si vanno moltiplicando, in queste ore, le voci che propugnano l’applicazione del Venticinquesimo Emendamento alla Costituzione, e cioè la rimozione per incapacità del Presidente in carica e la sua sostituzione, per gli ultimi giorni del mandato, con il Vicepresidente, Mike Pence. Qualora a ciò si addivenisse, non potrebbe escludersi che il nuovo presidente facente funzioni volesse evitare di caratterizzare i suoi dieci giorni di mandato con una esecuzione tanto contestata. D’altro canto, neppure può escludersi che, anche qualora a una rimozione non si dia luogo, il caos venutosi a creare e la larga delegittimazione che il Presidente Trump ha subito anche nel campo repubblicano suggeriscano di evitare ulteriori atti forieri di tensione: in quest’ottica, anche le programmate esecuzioni potrebbero essere sospese.
Queste considerazioni, nella loro superficialità e nella loro astrattezza, è probabile che nel volgere di qualche giorno o anche di qualche ora mostrino tutta la loro inattualità. La loro utilità risiede, però (almeno lo si spera), nel dimostrare quanto la pena di morte sia legata a considerazioni di ordine politico. Un bel libro di qualche anno fa la ha giustamente definita «la più politica delle pene» (D. Galliani, La più politica delle pene. La pena di morte, Assisi, Cittadella, 2012): l’utilizzo spregiudicato che ne ha fatto il Presidente Trump nei mesi antecedenti le elezioni sembra che possa leggersi come la ricerca di consenso in alcuni settori dell’elettorato; il ricorso parimenti spregiudicato alle esecuzioni che ha fatto seguito alle elezioni perse si inquadra perfettamente nel clima di crescente tensione e confusione che Trump ha voluto imprimere alla fase di transizione. In entrambe le fasi, i condannati che sono stati giustiziati non hanno avuto, evidentemente, alcun peso nel calcolo politico, potendo assumere tutt’al più il ruolo presto dimenticabile di «danni collaterali».
4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
La nefasta parentesi Trump, domani, dopodomani o, al massimo, il 20 gennaio, avrà termine. Cosa ci si può attendere per il futuro della pena di morte negli Stati Uniti?
Lo scempio degli ultimi mesi, con la risonanza mediatica di alcune esecuzioni che hanno sollevato forti obiezioni e un diffuso senso di ingiustizia in settori della società statunitense più ampi del solito, dovrebbe agevolare il Presidente Biden nel concretizzare l’impegno assunto di abolire la pena di morte relativamente al diritto federale.
Salvo quanto avvenuto nel 2020 (e, forse, nei primi scampoli del 2021), la pena di morte negli Stati Uniti non è però una questione «federale», giacché le condanne e le esecuzioni connotano solitamente gli Stati membri, o meglio alcuni Stati. Negli ultimi decenni si è assistito a una crescita piuttosto significativa del fronte abolizionista, che ha circoscritto la pena capitale a un numero di Stati contenuto, soprattutto se si ha riguardo alle esecuzioni concretamente poste in essere. L’esistenza di un sistema federale, tuttavia, non consente di proporre alcun tipo di automatismo: l’eventuale abolizione della pena a livello federale non avrebbe che una valenza di esempio, forse di modello per i legislatori degli Stati membri retenzionisti.
Il riferimento ai «legislatori» non è casuale, essendo la presa d’atto che la storia statunitense sembra suggerire che l’abolizione della pena di morte debba passare attraverso una decisione dei rappresentati del popolo. Negli Stati Uniti, infatti, quando è stato il potere giudiziario ad abolire la pena di morte, l’effetto che si è avuto è stato quello di un rifiuto nell’opinione pubblica della posizione abolizionista.
Una analisi delle abolizioni giudiziarie negli States non può essere qui ripercorsa (sul tema, sia consentito rinviare a P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Firenze, Olschki, 2021, spec. 142 ss., 161 ss. e 207 ss.); la sentenza più famosa, però, merita almeno una menzione. Era il 1972, l’ultima esecuzione condotta negli Stati Uniti risaliva a cinque anni prima; la Corte suprema federale, con la sentenza sul caso Furman v. Georgia (408 U.S. 238, resa il 29 giugno 1972, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/408/238), dichiarava l’incostituzionalità della disciplina della pena di morte della Georgia, censurando però elementi che si ritrovavano in tutte le legislazioni statali. Tutto sembrava far propendere, dunque, per la fine della pena capitale negli Stati Uniti, in parallelo con quanto era appena avvenuto o stata avvenendo nel Regno Unito o in Canada. E invece, la decisione veniva interpretata come una invasione ad opera del potere giudiziario di sfere di competenza del potere politico. Questo, in una fase storica in cui veniva percepito un tasso di criminalità in aumento, ha prodotto una sorta di «effetto rimbalzo» a beneficio dell’opzione favorevole alla pena di morte, che si è tradotto nella introduzione di nuove discipline in gran parte degli Stati e, a partire dal 1976, nel concreto recupero della pena di morte come sanzione «normale», pur nella sua gravità.
A prescindere dalla attuale composizione della Corte suprema federale, che rende ben poco probabili decisioni abolizioniste, la vicenda degli Anni Settanta è indicativa di quanto la pena capitale si presti a strumentalizzazioni sul piano politico. La sua abolizione, salvo casi relativamente eccezionali (come avvenuto, ad esempio, in alcuni Stati ex-socialisti o nel Sudafrica post-apartheid), deve essere il frutto di una decisione che venga da chi è legittimato democraticamente, perché solo così si ha una immunizzazione (mai completa, peraltro) da rischi di ritorni indietro. L’auspicio è dunque che la banalizzazione sconvolgente con cui la politica di messa a morte è stata condotta in questi ultimi mesi possa almeno dare lo slancio per un nuovo corso dell’abolizionismo statunitense.
*Paolo Passaglia è ordinario di Diritto comparato presso l’Università di Pisa e coordinatore scientifico pro tempore dell’Area di diritto comparato del Servizio Studi della Corte costituzionale.
Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra "verità" e "giustizia"
di Andrea Apollonio
Nessuna figura come quella del magistrato ha, nell'opera di Sciascia, un carattere più equivoco: trasformato in un modello letterario dal significato ambiguo - una trasfigurazione che nell'ideologia sciasciana trova fondamento storico sul fatto inoppugnabile e documentato che la storia della giustizia è in realtà una storia di ingiustizie - il magistrato è stato reso dal grande scrittore, in quarant'anni di intensa attività letteraria, eroe e anti-eroe al tempo stesso: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
La verità è un concetto che percorre tutta l'opera di Sciascia seppur diversamente declinato: che ritroviamo nel suo primo libro - il misconosciuto Favole della dittatura del 1950 - come nell'ultimo - Una storia semplice, pubblicato postumo nel 1989. Nel mezzo, quarant'anni di continua riflessione su di un tema che viene per la prima volta sistematicamente trattato, in maniera quasi escatologica, nel 1963 con Il Consiglio d'Egitto. In questo romanzo la verità sembra disciogliersi nella contingenza storico-politica, quindi nelle cose di ogni giorno: ne prende il posto la menzogna, che diviene caratteristica ontologica di una comunità: “La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell'essere, frondeggia al di là della vita”, dice l'avvocato Di Blasi, il quale appena prima - facendo riferimento alla sua professione, al suo confronto quotidiano con giudici ed inquisitori - si era lasciato andare ad una confidenza: “Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità”. Lui stesso, da lì a poco avrebbe subìto un processo ingiusto, e poi la tortura e la decapitazione; ma nelle forme stabilite dalla legge.
Non esiste altra forma di verità da quella professata da chi è investito di un potere ed ha facoltà di esprimersi sui fatti; ed è il potere giudiziario ad accertare i fatti e a punire gli impostori, o a salvaguardarli per ragioni di convenienza. È così, appunto, nel Consiglio d'Egitto, in 1912+1, ne La strega e il capitano.
Una concezione tragica dell'accertamento dei fatti; in cui la verità esiste ma - essendo le cose del mondo ordinate sulla base di decisioni prese d'imperio e calate dall'alto, conformi alla legge e all'opportunità del momento - la verità non è possibile raggiungere: la si può solo prospettare, teorizzare e persino narrare (è questo lo spirito con cui vengono costruiti La scomparsa di Majorana e l'Affaire Moro). Il mondo sarebbe dunque una fittissima trama di verità impossibili, puntualmente soffocate dalle verità costituite. Quando Sciascia, in una delle sue frasi più celebri e ripetute (tratta appunto dall'Affaire), afferma: <
Ad una verità che sicuramente non coincide con la giustizia, che è un insieme di forme appannaggio dell'autorità e dei poteri costituiti. Ripercorrendo l'opera sciasciana, ci si renderebbe conto che in nessun caso la verità coincide con la giustizia (quella formalmente intesa: che è l'unico modo di intenderla). In alcune storie (A ciascuno il suo, Il giorno della civetta: i "gialli" senza soluzione, dunque senza verità) le risultanze giudiziarie non sono di concreta utilità; in altre (Il contesto, Porte aperte, Una storia semplice) gli organi giudiziari volutamente impediscono un pieno e genuino accertamento dei fatti; in altre ancora l'esercizio della giustizia si traduce in mero arbitrio, in mistificazione della verità (ne è un fulgido esempio Morte dell'Inquisitore). Ed una giustizia che non riesce a tradursi in verità merita di essere sovvertita: ne consegue che gran parte dei suoi romanzi sono apologhi alla sovversione dei poteri costituiti, perché arroganti, prevaricatori, mistificatori, anche se non individuabili perché abilmente nascosti in ogni piega della società: in questo senso poteri mafiosi. E' una sfida impari, quella stessa del protagonista di Todo modo innanzi al potere torbido e informe; quella stessa del Vice, ne Il cavaliere e la morte.
La verità che Sciascia ha in mente è piuttosto il frutto di un processo dettato dalla ragione. Non può tacersi la sua vocazione illuminista, né possiamo mai allontanarlo dal suo pantheon con Voltaire e Diderot, ma con anche i moralisti Montaigne e Pascal, del quale sembra - ma non se ne hanno evidenze bibliografiche - che Sciascia amasse citare la frase: “Non potendosi trovare la giustizia, si è trovata la forza”. La giustizia come brutale esercizio di potenza e prevaricazione; la verità come frutto impossibile della ragione: nel mezzo, l'utopia del diritto, che pure, da settant'anni a questa parte, con l'avvento della Costituzione repubblicana, ha una chiara matrice liberale ed illuminista.
Invero, neppure l'avvento dell'illuminismo giuridico sembra, agli occhi di Sciascia, aver permeato di ragione la procedura giudiziaria, che appare sempre troppo inquisitoria, sempre troppo asservita a logiche di prevaricazione. Egli ripercorre - fonti alla mano - la storia giudiziaria della Sicilia, metafora italiana, che affonda (forse ancora profondamente) le proprie radici nell'Inquisizione, e racconta di giudici e condannati, mistificazioni, imposture e impunità nei romanzi (Sciascia direbbe: "racconti") già citati, con l'aggiunta di tanti altri cammei letterari: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, oppure la Nota a margine della "Storia della colonna infame", del "suo" Alessandro Manzoni, con graffianti accenni all'attualità. Attualità che viene pienamente investita dalla critica sciasciana nelle raccolte Nero su Nero e sopratutto in A futura memoria.”
Nell'ultimo suo libro, Una storia semplice, fatalmente uscito il giorno della sua morte, la frase che fa da esergo è tratta da "Giustizia", di Durrenmatt: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Egli davvero non aveva mai smesso di ricercare la giustizia, in un (impossibile?) accoppiamento alla verità ed alla ragione. Ma è pur sempre - quella a cui lui tendeva - una giustizia che scaturisce dalla ragione: “Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono”. E si torna così, inutilmente, al punto di partenza: alla sconfitta della ragione, una sconfitta che Sciascia ha sempre - personalmente - preventivato. Dichiarava ad un giornale francese: “Anche la mia storia è una storia di sconfitte. O, più dimessamente, di delusioni. Da ciò lo scetticismo; che non è, in effetti, l'accettazione della sconfitta - preventivata e ragionata - ma il margine di sicurezza, di elasticità per cui la sconfitta non diventa definitiva e mortale”.
In pochi sanno che nel piccolo studiolo di casa Sciascia, in contrada Noce, nell'immaginifica Racalmuto, è - ancora - appeso alla parete un quadretto dalla minuscola didascalia: "Muriò la Verdad". È la riproduzione dell'acquaforte di Francisco Goya custodita al Museo del Prado, che raffigura una donna esanime circondata da una moltitudine confusa di persone che la compiangono: riesce appena a cogliersi la figura di un prete che impartisce una impietosa benedizione, un monaco e altri visi occhialuti appartenenti a sagome distinte. Fa una certa impressione l'idea che Leonardo Sciascia abbia avuto alle sue spalle, una volta al tavolo di lavoro, la "Verità è morta".
Attraversare il corpus sciasciano vuol dire allora supporre, con cognizione di causa, che tra gli uomini che fanno da contorno alla donna che incarna la Verità di Goya - tra i quali se ne scorgono alcuni occhialuti e distinti - figurano gli inquisitori e i giudici: i magistrati. Questa immagine è senz'altro armonica nel suo sistema di opere, con l'insieme dei suoi personaggi: in cui il magistrato - narrato in chiave storica o moderno investigatore - è non raramente l'anti-eroe, che fronteggia ed infine soverchia un proprio subordinato: un semplice brigadiere in Una storia semplice, un semplice ispettore ne Il contesto; oppure, anche, un semplice giudice rispetto ad un superiore collega, come nel più intenso dei suoi libri: Porte aperte. Anche nell'alveo della giustizia si replica quindi lo scontro del forte con il debole, di chi ricerca inutilmente la verità (dentro o fuori le forme della giustizia stessa) al cospetto dell'organo di giustizia. Si replica quindi, per dirla sempre con le parole di Sciascia, ”la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”
Rimane la "sicilitudine", ovvero la particolare dimora letteraria di Leonardo Sciascia, ove il modo di sentire, di essere, di vivere dei siciliani si evidenziano. E' la "sicilitudine" il nucleo incandescente della sua opera: “Tutti i miei libri ne fanno uno sulla Sicilia”; come tutti i suoi personaggi emergono dalla "metafora" siciliana. E per tutto quanto si è detto il magistrato siciliano può essere considerato, sotto l'aspetto prettamente letterario, l'eroe e al tempo stesso l'anti-eroe sciasciano: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
Vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione. Note a margine del parere del Comitato Nazionale per la Bioetica
di Marianna Gensabella Furnari*
Sommario: 1.Le vaccinazioni come questione bioetica. 2.I vaccini anti-Covid-19 e l’etica della ricerca 3.Oltre le leggi del mercato: un bene a disposizione di tutti. 4.Le sfide della distribuzione dei vaccini: preparedness e giustizia 5.La campagna vaccinale tra adesione spontanea e obbligatorietà
1.Le vaccinazioni come questione bioetica
La scoperta dei vaccini anti-Covid-19, la loro approvazione e ancor più l’inizio della campagna vaccinale costituiscono, come è stato detto diverse volte, una luce in fondo al tunnel. Ciò di cui disponevamo prima per contenere la diffusione di questo virus, tanto potente quanto sconosciuto, ricordava le misure per combattere le epidemie del passato, una forma di prevenzione primaria: basata sul mutamento degli stili di vita, fatta di distanziamento, mascherine, lavaggi ripetuti delle mani, disinfezioni. Ciò che abbiamo ora è un’arma molto più potente, un balzo in avanti dall’antico al moderno, consentito dalla scienza e dalla tecnica. Un’arma che, a differenza delle prime, può sradicare il virus, come hanno mostrato in un passato non molto lontano alcuni vaccini[1].
Eppure di fronte a questa luce, non poche sono le ombre, le domande, le inquietudini che affiorano in molti di noi. I vaccini appartengono infatti alle misure di prevenzione che, già di per sé, difficilmente riscuotono la piena adesione da parte della popolazione, e in più sono farmaci che vengono iniettati in un corpo sano: per proteggerlo da un eventuale contagio e al tempo stesso per proteggere la comunità, certo, ma, in quanto farmaci, sempre soggetti a provocare effetti collaterali. Il rapporto tra rischi e benefici attesi è per i vaccini convalidati in chiaro saldo positivo. Ma ci fidiamo di ciò che dicono gli scienziati? Non sempre, non tutti. Una comunicazione poco corretta accentua la possibilità di eventi avversi, oscurando la luce che i vaccini gettano su epidemie più o meno virulente, più o meno pericolose. Da qui quell’”esitazione vaccinale”[2] che può giungere anche al rifiuto. Ma possiamo rifiutare di vaccinarci?
Ritagliandosi all’interno del delicato rapporto tra salute individuale e salute pubblica, i vaccini aprono una serie di problematiche che debordano dal piano meramente scientifico, andando ad investire quello etico e giuridico. Ad essere chiamati in causa non sono solo le nostre scelte individuali e le loro ripercussioni sulla collettività, ma anche le scelte sociali e politiche che stanno alla base delle campagne vaccinali, i principi etici, le norme giuridiche che devono regolare le une e le altre. Ponendosi quindi tra scienza, etica e diritto, il tema delle vaccinazioni ricade nell’ambito interdisciplinare della bioetica.
Già nei primi anni del suo operato il Comitato Nazionale per la Bioetica (di seguito CNB) dedica al tema delle vaccinazioni un parere, Le vaccinazioni, del 22 settembre 1995, che, nel metterne in luce l’importanza, evidenzia “il piano bioetico della questione”, non sempre investito correttamente nel dibattito[3]. Sullo stesso piano bioetico, ancora una volta poco frequentato dal dibattito politico e massmediale sui vaccini, richiama l’attenzione il parere I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, del 27 novembre 2020.
Il parere è pubblicato prima dell’inizio della campagna vaccinale, in un momento segnato ancora da grande incertezza sia sulla disponibilità dei vaccini, ancora in corso di approvazione da parte delle Agenzie regolatorie, sia sulle modalità della loro distribuzione. Il CNB propone, quindi, una riflessione etica preliminare, indicando i principi e i criteri generali su tre aspetti giudicati fondamentali (la sperimentazione sui vaccini, il loro costo, la loro distribuzione), nella piena consapevolezza che l’evolversi della situazione porterà ad ulteriori riflessioni sull’applicazione dei principi e criteri etici indicati.
Qual è il senso di questa riflessione preliminare? Sarebbe stato meglio aspettare che i vaccini in fase già avanzata di sperimentazione passassero al vaglio delle Agenzie regolatorie, fossero disponibili e che il piano vaccinazione venisse varato? Il senso del parere è proporre, tenendo fede al mandato istituzionale del Comitato[4], una riflessione bioetica preliminare, che serva da orientamento sia al Governo, sia all’opinione pubblica: una riflessione sui principi etici fondamentali che devono guidare la campagna vaccinale, e che al tempo stesso indichi la via per preparare la popolazione ad un’adesione consapevole e responsabile alla vaccinazione.
Non si tratta di una campagna vaccinale tra le altre, ma della più imponente che la storia ricordi, dal momento che coinvolge, così come il virus, tutti i paesi del mondo. Come accade per altre tematiche, anche qui la pandemia pone in evidenza, agendo come una lente di ingrandimento, i problemi sollevati dalle vaccinazioni.
2. I vaccini anti-Covid-19 e l’etica della ricerca
Il primo problema è rispondere alla domanda che è nella mente di tutti: i vaccini sono sicuri? Una domanda che non riguarda solo i vaccini anti-Covid-19. Già nel primo parere del 1995 il CNB affrontava il problema dei sospetti nei confronti dei vaccini, delle paure di effetti collaterali, che possono determinare un rifiuto dei vaccini stessi. La risposta era semplice e chiara: in realtà i rischi sono presenti, come per ogni farmaco, ma sono ben bilanciati dai benefici, e sicuramente sono minori dei rischi che si corrono non vaccinandosi[5].
Per i vaccini anti-Covid-19 vi è una paura, un’incertezza in più, determinata dai tempi brevi, molto più brevi rispetto agli altri vaccini, trascorsi dall’inizio alla fine presunta della sperimentazione: possiamo considerarli sufficienti? Ed è questo il primo punto su cui il CNB prende posizione: “sebbene sia ovvio che le ricerche per un vaccino scientificamente valido ed efficace debbano avere una corsia preferenziale, al fine di tutelare la salute individuale e pubblica, l’emergenza non deve portare a ridurre i tempi o addirittura ad omettere le fasi della sperimentazione, definite dalla comunità scientifica internazionale requisiti indispensabili sul piano scientifico, bioetico e biogiuridico, per garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia di un farmaco”[6]. L’abbreviamento dei tempi può riguardare solo le procedure per la revisione delle ricerche, incidendo esclusivamente sulla parte amministrativa e burocratica.
L’etica della ricerca deve quindi rimanere rigorosa nell’accertare la validità della sperimentazione, ma anche rispettando il principio della gratuità nel reclutamento dei volontari sani, attuando confronti tra i vaccini approvati, nonché tenendo conto degli ultimi studi sulla genomica[7].
3.Oltre le leggi del mercato: un bene a disposizione di tutti
Altro problema che riguarda la produzione dei vaccini è il loro costo. Dal momento che proteggono un bene prioritario, la salute, agendo contemporaneamente a livello della salute individuale e di quella pubblica, i vaccini hanno, come già affermava il parere del 1995, un “valore sociale”[8]. In tempi di pandemia questo valore appare ancora più importante, un valore essenziale per la difesa della salute, che deve, proprio per questo, essere “messo a disposizione di tutti all’interno di ogni Paese e di tutti i Paesi”[9]. Un’affermazione forte, che si scontra con le leggi di mercato, opponendovi un’etica della solidarietà. È il tema scottante del “costo di un bene comune”: un tema, come il parere ricorda, già all’attenzione dell’Unione europea e al centro del programma globale Covax[10]. Anche qui ritroviamo, messo in luce dalla pandemia, un problema di sempre, doloroso, tragico: il costo di farmaci essenziali per la salute come discrimine tra chi può e chi non può pagare. Il CNB non si limita a raccomandare che il vaccino venga considerato un bene comune e che le istituzioni controllino che produzione e distribuzione non siano regolate unicamente dalle leggi del mercato, ma sottolinea che tale raccomandazione “non deve rimanere un mero auspicio, ma piuttosto un obbligo a cui deve far fronte la politica internazionale degli Stati”[11]. La raccomandazione assume, quindi, i toni forti dell’indicazione di un dovere di solidarietà, di un fermo richiamo non solo agli Stati, ma anche alla responsabilità sociale delle industrie farmaceutiche.
Ma il Comitato va ancora oltre: la pandemia ci pone di fronte ad un’alternativa in realtà illusoria: tra un agire solidale e un difenderci gli uni dagli altri. È l’alternativa di fronte a cui ci pone il vincolo di interdipendenza che da sempre ci unisce e che il virus, con il suo viaggiare tra di noi, ha messo in luce. Un vincolo che ci vede tutti vulnerabili, e insieme tutti capaci di cura, ma con potenzialità diverse di forza e di debolezza. La tentazione è di cercare di farcela da soli, facendo leva ognuno sulla propria forza e ignorando o peggio sfruttando le debolezze degli altri. Una tentazione illogica, irrazionale: il virus lo mostra, superando i confini, tornando a noi da quelle parti del mondo che pensavamo di poter abbandonare al loro destino. In realtà dobbiamo passare dall’interdipendenza alla solidarietà, perché solo la prima opzione, la collaborazione internazionale a livello scientifico ed economico può funzionare, può portarci fuori da questa crisi.
Ed ecco che la lente ingrandita funziona anche come possibile orientamento per azioni future: “Il Comitato auspica che l’attenzione per un’equa distribuzione del vaccino anti-Covid-19 non resti un caso isolato, ma diventi l’occasione per costruire una solidarietà internazionale che ponga fine alle gravi limitazioni nella tutela della salute che ancora permangono in molti Paesi”[12]. Utopia? Forse, ma un’utopia quanto mai necessaria oggi[13], e di cui la pandemia mette in luce, come mai prima, l’esigenza.
4.Le sfide della distribuzione dei vaccini: preparedness e giustizia
Una volta che sia autorizzata la distribuzione dei vaccini, e che questa sia, come si raccomanda, per tutti, altre sfide sono da affrontare. Il parere parla di sfide di “carattere pratico ed economico per non correre il rischio di trovarsi impreparati nella raccolta e distribuzione del vaccino”[14]. Una preoccupazione non da poco, che avvertiamo forte nel momento in cui scriviamo, dato che è questa la fase cruciale che ora stiamo attraversando. Una preoccupazione che, non a caso, ritorna nelle raccomandazioni, dove al punto sulla distribuzione si raccomanda “che venga pianificata in anticipo la realizzazione del programma di vaccinazione per non trovarsi di fronte a carenze strutturali e organizzative, in particolare evitando che le dosi disponibili di vaccino rimangano in stoccaggio per non aver anticipatamente predisposto le misure necessarie a garantire una rapida distribuzione, ed individuando con chiarezza le professionalità necessarie ad eseguire le vaccinazioni”[15]. Ma si tratta solo di sfide di carattere pratico ed economico? Al fondo di tali scelte si tratta di una responsabilità sociale di non poco conto, che impegna a pre-vedere e ad essere pre-parati: la preparadeness, su cui il CNB richiama l’attenzione in altri pareri dedicati al Covid-19[16].
La distribuzione pone però anche un altro problema etico fondamentale: dal momento che si pensa che inizialmente le dosi di vaccino saranno limitate, come stabilire le priorità? Qui il parere non può che limitarsi a ricordare il principio etico che deve guidare le scelte di distribuzione, senza poter individuare i gruppi di persone che avranno la priorità. Questa individuazione è, infatti, connessa ai dati, ancora non disponibili nel momento della stesura del parere, sulle sperimentazioni per ottenere i vaccini, in particolare alla conoscenza dei gruppi di persone su cui sono state effettuate. Il principio però va oltre i dati specifici che potranno consentire l’individuazione dei gruppi da vaccinare per primi: funziona come guida, orientamento per stabilire le priorità. Ed è il principio di giustizia, ripensato nella sua complessità: come principio dell’uguale dignità di ogni essere umano, che obbliga quindi a non discriminare alcuno, e al tempo stesso come “equità”, eguaglianza sostanziale, che tiene conto delle differenze, delle diseguali condizioni di partenza, riparandole attraverso una considerazione delle particolari vulnerabilità[17]. Al richiamo che giustamente il parere fa, all’art. 3 della Costituzione, si può dal punto di vista etico affiancare il richiamo alla teoria della giustizia di Rawls[18], nonché al principio di giustizia così come ripreso nel principialismo di Beauchamp e Childress[19].
Notiamo che il Comitato si preoccupa anche dell’applicazione di questo principio, perché è consapevole della complessità della questione e di come le scelte nell’individuazione delle priorità debbano essere corrette e trasparenti. Auspica quindi che “l’attribuzione specifica dei singoli gruppi nelle diverse fasi sia definita, con i criteri sopra raccomandati, sulla base di competenze multidisciplinari (medici, bioeticisti, giuristi, rappresentanti di pazienti, sociologi, statistici, ecc.) in modo che sia possibile valutare la situazione concreta al momento”[20]. Nulla si dice, e credo appositamente, sull’organizzazione di eventuali commissioni o comitati in cui tali competenze possano interagire, ma è significativo il richiamo alla multidisciplinarità, come momento chiave per un’attribuzione che sia la più giusta possibile.
5.La campagna vaccinale tra adesione spontanea e obbligatorietà
L’ultimo problema trattato nel testo è quello centrale in ogni campagna di vaccinazione: se si debba o no stabilire un obbligo di vaccinarsi. Il problema ci riporta al punto focale della questione bioetica delle vaccinazioni: la loro funzione di tutela della salute del singolo e della comunità a cui appartiene, del “bene del singolo” e del “bene di tutti”. Un’indicazione che è ben lungi dall’essere una “formula magica”, come già notava il parere del CNB del 1995[21]: l’e di congiunzione può essere fonte di tensioni, nel momento in cui il singolo non riconosca nel vaccino un bene per la propria salute. Che fare dunque di fronte al rifiuto della persona di vaccinarsi?
La questione è giuridica e, prima ancora, etica.
Nel parere del 1995 il Comitato aveva già preso posizione in merito, notando la complessità del problema: “Pur tenendo conto dell’obiettiva difficoltà di stabilire una chiara delimitazione tra diritti individuali e diritti collettivi, si ritiene che lo Stato abbia non solo il diritto, ma anche il dovere di promuovere le vaccinazioni considerate essenziali dalla comunità scientifica internazionali non solo attraverso campagne di informazione ed educazione sanitaria, ma anche, se necessario, con altre modalità più incisive”[22]. Quali? Si può giungere all’obbligatorietà? Nel parere si espongono tre diverse posizioni presenti in alcuni stati: misure coercitive indirette, ossia l’obbligo di esibire il certificato di vaccinazione al momento dell’iscrizione all’asilo nido o alla scuola elementare, un atteggiamento più articolato, che considera il rifiuto della vaccinazione illecito, ma non perseguibile penalmente, una coercizione esplicita, sia per la popolazione infantile, che per alcune categorie professionali. Ciascuna di queste posizioni viene considerata dal CNB “ugualmente accettabile, purché raggiunga lo scopo, rappresentato da una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio”[23]
Insomma, l’imposizione è ammessa, come si dirà più avanti, come “eventuale”, in virtù del significato della vaccinazione, che persegue “due scopi pratici inscindibili”, la salvaguardia della salute dell’individuo e la tutela di coloro che gli sono vicini.[24]
Il tema dell’obbligatorietà ritorna nella mozione L’importanza delle vaccinazioni, 24 aprile 2015: una mozione sollecitata dall’allarme per la diminuzione della copertura vaccinale contro il morbillo, per il conseguente aumento dei casi nel 2014 e, più in generale, dalla preoccupazione per la tendenza diffusa a dilazionare o addirittura rifiutare la somministrazione delle vaccinazioni, sia quelle obbligatorie, che quelle raccomandate dalle Autorità sanitarie.
Di fronte a tale tendenza, il Comitato avverte l’esigenza di ribadire il valore delle vaccinazioni, che qui viene indicato non più come “valore sociale”, ma come “valore etico”: “il CNB ribadisce come i vaccini costituiscano una delle misure preventive più efficaci con un rapporto rischi/benefici particolarmente positivo e con un valore non solo sanitario, ma etico intrinseco assai rilevante”[25].
È forte, quindi, il richiamo alla responsabilità personale e sociale nell’assicurare una copertura adeguata, sia per le vaccinazioni obbligatorie, che per quelle raccomandate. Per raggiungere tale obiettivo il CNB indica la promozione di efficaci campagne di informazione, comunicazione ed educazione, che comprendano anche la stigmatizzazione del diffondersi di falsità e pregiudizi. Ma se ciò non bastasse?
“In conclusione, il Comitato ritiene che debbano essere fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere una copertura vaccinale ottimale attraverso programmi di educazione pubblica e degli operatori sanitari, non escludendo l’obbligatorietà in casi di emergenza”[26]. Insomma, l’obbligatorietà non viene per prima, ma è consentita come ultima ratio, là dove se ne ravvisi la necessità.
Questa posizione presa dal CNB nel 2015 è presente anche nel parere sui vaccini anti- Covid-19 che stiamo esaminando. Il Comitato ribadisce all’inizio come sia “sempre auspicabile il rispetto del principio che nessuno subisca un trattamento sanitario contro la sua volontà e, quindi, tendenzialmente la preferenza dell’adesione spontanea rispetto ad un’imposizione autoritativa, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano”[27] . Anche se non esplicitato è chiaro qui il riferimento all’art.32 della Costituzione e alla legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, così come dal punto di vista etico è chiaro il riferimento al rispetto del principio di autonomia. Ma fino a che punto? Qual è il limite?
Subito dopo l’auspicio al rispetto dell’autonomia e la dichiarazione di preferenza per l’adesione spontanea, troviamo un’apertura sull’obbligatorietà, laddove si ravvisi la necessità di raggiungere una copertura vaccinale adeguata: “Tuttavia il Comitato è altresì consapevole che sono riconosciute per legge nel nostro ordinamento ed eticamente legittime forme di obbligatorietà dei trattamenti sanitari, quali appunto il vaccino, in caso di necessità e di pericolo per la salute individuale e collettiva”[28].
Il limite è “il pericolo” per la salute non solo individuale, ma pubblica. Come ricorda il parere del 1995, richiamandosi alla sentenza n. 307 del 1990 della Corte costituzionale, le vaccinazioni obbligatorie sono costituzionalmente legittime solo se dirette contestualmente alla tutela della salute del singolo e della collettività. Ossia l’obbligo vaccinale può essere imposto “solo per quelle malattie che hanno carattere contagioso ed epidemico, ma non allorché è posta in pericolo solo la salute del singolo”[29].
Anche dal punto di vista etico il limite oltre il quale il rispetto dell’autonomia della persona cede è là dove metta in pericolo la salute degli altri. Ma se questo è il limite, occorre fare di tutto prima, per non scavalcarlo. Ancora una volta il richiamo forte del CNB è, come nella mozione, all’informazione e alla formazione. Possiamo leggere questo richiamo come un ulteriore rispetto del principio di autonomia, visto nel suo aspetto non solo negativo, non interferenza, ma anche positivo, come potenziamento della capacità di comprendere e di decidere[30]: l’informazione e, ancor più, la formazione, trasmettendo sapere e rafforzando la consapevolezza, sono infatti forme essenziali di potenziamento dell’autonomia della persona.
Ma quali sono gli ostacoli per tali azioni? In tempi di Covid emerge in modo più evidente la difficoltà di “comunicare” il sapere dagli esperti a chi esperto non è: un problema di sempre, con cui l’applicazione del consenso informato quotidianamente si confronta nella pratica clinica, là dove si voglia prendere sul serio l’autonomia del paziente. Un problema che nell’emergenza pandemica assume dimensioni più evidenti, viste le incertezze che ancora circondano il virus e, di conseguenza, i vaccini. Il richiamo qui non può che essere ai principi base di un’etica della comunicazione: la correttezza, ossia la veridicità, che impone l’attenta vigilanza sulle fonti e il rifiuto delle fake news, il rifiuto di trionfalismi ed enfatizzazioni, l’onestà nel confessare i limiti del proprio sapere, la fedeltà al patto di fiducia implicito con il destinatario. Questa comunicazione affidata agli esperti, anche qui sulla base di competenza multidisciplinari, riuscirà nel suo compito? Potrà condurre all’auspicata adesione spontanea? Sollecitare quel diffondersi della responsabilità individuale che ci faccia rimanere nel pieno rispetto dell’autonomia, onorandone il senso?
Lo speriamo tutti. E forse la cornice etica che dovrebbe accompagnare questa campagna vaccinale sul versante della comunicazione è quella tracciata dal CNB già nelle conclusioni del primo parere sulle vaccinazioni, là dove le vede non solo come un valore in sé, ma anche come “un’importante occasione di approfondimento del problema più generale dell’etica della cura della vita”[31]. I vaccini sono anche questo: non solo una possibilità preziosa per difendere la nostra salute, ma anche una possibilità in più per ripensare la responsabilità che abbiamo nei confronti della salute nostra e di chi ci sta accanto, vedendo quell’e di congiunzione come segno dell’alleanza, della cura reciproca, occasione per vivere l’interdipendenza come vincolo solidale.
Lo sono ancor più i vaccini anti-Covid-19. E per un motivo evidente: il virus con la sua forza dirompente ha messo in luce in modo tragico, con la sofferenza di tanti, la nostra comune vulnerabilità aprendo dinanzi a noi tutti, più o meno provati, i sentieri di un’etica della cura. Sta a noi percorrerli con la ragione e il cuore, persuadendoci l’un l’altro che il bene salute non può che essere un bene comune da perseguire in una solidale alleanza tra le persone e tra i popoli.
* Prof. Ord. di Filosofia Morale, Università di Messina, Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica
[1] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Mozione L’importanza delle vaccinazioni, 24 aprile 2015, Comitato Nazionale per la Bioetica - L'importanza delle vaccinazioni (governo.it), p. 3.
[2] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, p140_2020_vaccini-e-covid19_it.pdf (governo.it), p.14, nota 21.
[3] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, 22 settembre 1995, Comitato Nazionale per la Bioetica - Le vaccinazioni (governo.it), p. 5.
[4] Sul sito del Comitato alla voce presentazione leggiamo: “Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), istituito con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 marzo 1990, svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia funzioni di informazione nei confronti dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti con il progredire delle ricerche e delle applicazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute”( Comitato Nazionale per la Bioetica - La presentazione del CNB (governo.it).
[5] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p.7.
[6] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 6. La stessa raccomandazione il CNB aveva già espresso nel parere La sperimentazione biomedica per la ricerca di nuovi trattamenti terapeutici nell’ambito della pandemia Covid-19: aspetti etici , 22 ottobre 2020, Comitato Nazionale per la Bioetica - La sperimentazione biomedica per la ricerca di nuovi trattamenti terapeutici nell’ambito della pandemia covid-19: aspetti etici (governo.it).
[7]Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., pp. 7-8.
[8] Già il parere del 1995 afferma il “valore sociale” dei vaccini, “in quanto oltre a proteggere la persona vaccinata riducono il rischio del contagio a carico della restante popolazione” (cfr. Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 8).
[9] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 8.
[10] WORLD HEALTH ORGANIZATION, COVAX: Working for global equitable access to COVID-19 vaccines, https://www.who.int/initiatives/act-accelerator/covax
[11] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 9.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, GEDI S.p.A., Roma 2017.
[14] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 10.
[15] Ivi, p.16
[16] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, COVID-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, 8 aprile 2020, pp.7-8; ID., COVID-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale, 28 maggio 2020, http://bioetica.governo.it/italiano/documenti/pareri-e-risposte/covid-19-salute-pubblica-liberta-individuale-solidarieta-sociale/, pp.8-10.
[17] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p.11.Il problema di una giusta distribuzione di risorse scarse era già stato preso in esame nel parere sopra citato dedicato al triage in emergenza pandemica.
[18] Cfr. J. RAWLS, Una teoria della giustizia, tr.it. U. Santini, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1989.
[19] Cfr. T.L. BEAUCHAMP- J.F. CHILDRESS, Princìpi di etica biomedica, tr.it. F. Demartis, Le Lettere, Firenze 1999, pp.321-386.
[20] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 12.
[21] Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 5.
[22] Ivi, p. 8.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. ivi, p. 40.
[25] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Mozione L’importanza delle vaccinazioni, cit., p. 2.
[26] Ivi, p. 4.
[27] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, I vaccini e Covid-19…, cit., p. 13.
[28] Ivi, p.13.
[29] COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Le vaccinazioni, cit., p. 29.
[30] Cfr. T.L. BEAUCHAMP- J.F.CHILDRESS, Princìpi di etica biomedica,pp. 131-134.
[31] “In conclusione, le vaccinazioni vanno viste non solo di per sé, ma anche come un’importante occasione di approfondimento del problema più generale dell’etica della cura della vita” (ivi, p. 42).
Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107)*
di Paolo Biavati
Sommario: 1. Il caso - 2. Il rilievo della questione pregiudiziale europea come elemento del processo - 3. Quale tutela contro la ribellione del giudice nazionale di ultima istanza? - 4. Lo scenario: l’europeismo come campo di battaglia fra le alte corti?
1. Il caso
Una società di capitali ricorre al Tar Piemonte contro un’informativa interdittiva antimafia della prefettura di Torino. Il ricorso viene respinto e la società presenta appello dinanzi al Consiglio di Stato. I giudici di Palazzo Spada rigettano l’impugnazione e, in motivazione, escludono nel caso di specie la sussistenza dei presupposti per sollevare la questione di illegittimità costituzionale della normazione antimafia, ovvero per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Contro la decisione del Consiglio di Stato la società propone ricorso in Cassazione, ai sensi degli artt. 111, comma 8°, cost. e 362, comma 1°, c.p.c., asserendo che il mancato rinvio a Lussemburgo è frutto di un percorso logico errato e – qui sta il punto – che in questo modo la suprema magistratura amministrativa ha violato il limite esterno alla sua giurisdizione, per avere invaso la sfera decisionale attribuita in via esclusiva ai giudici del Kirchberg, in base all’art. 267, comma 3°, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Con l’ordinanza in commento, le Sezioni unite dichiarano inammissibile il ricorso.
2. Il rilievo della questione pregiudiziale europea come elemento del processo
Il cuore della vicenda sta nella natura del rapporto che si instaura fra giudice nazionale di ultima istanza e Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.
La tesi fatta propria dal ricorrente mette in luce con forza il carattere obbligatorio, per il giudice interno contro le cui decisioni non vi sia un ulteriore livello di controllo, di effettuare il rinvio pregiudiziale tutte le volte che, in assenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale di Lussemburgo, sussista una questione di interpretazione del diritto (ovvero di validità di un atto compiuto dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi) dell’Unione, rilevante nel caso concreto. Investire o no la Corte di giustizia significa ammetterla o no ad esercitare la sua funzione giurisdizionale dichiarativa: il giudice interno, quando omette di procedere al rinvio, pur essendovi tenuto, invade abusivamente – nell’ottica di questa prospettiva – la giurisdizione della corte del Plateau Kirchberg. Ne segue che il Consiglio di Stato avrebbe travalicato i limiti della propria giurisdizione, esponendo quindi la relativa sentenza alla ricorribilità in Cassazione, a norma dell’ultimo comma dell’art. 111 cost.
Le Sezioni unite rimarcano, invece, che la decisione sulla necessità o no del rinvio pregiudiziale rientra nel potere giurisdizionale del giudice italiano: la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia – così si esprimono – “costituisce elemento processuale interno al processo, senza che essa risulti suscettibile di divenire oggetto di autonoma valutazione nell’ambito del sindacato di cui all’art. 111, comma 8°, cost.”.
Se l’afflato europeistico della tesi del ricorrente attira simpatia, resta pur vero che, a mio avviso, la pronuncia delle Sezioni unite merita piena adesione.
E’ certo superfluo ricordare che, in base ai trattati e al modo in cui è stato ripartito l’esercizio della giurisdizione, ogni giudice nazionale è applicatore (anzi, è il primo applicatore) del diritto dell’Unione e che solo al giudice nazionale spetta valutare se sussistano le condizioni per investire della questione interpretativa la Corte di giustizia[1].
L’equilibrio politico disegnato dai trattati si fonda sul presupposto della leale cooperazione fra giudici nazionali e Corte di giustizia, mettendo pienamente in conto il rischio che i primi omettano di richiedere l’interpretazione di Lussemburgo, pure quando vi sono tenuti. L’inosservanza dell’obbligo del rinvio non ha una sanzione diretta, almeno con effetti sul singolo caso, e i singoli non possono rivolgersi direttamente al Kirchberg. Tutto questo ha una logica: la supremazia del diritto dell’Unione non si attua mediante la supremazia delle corti europee rispetto ai giudici nazionali, ma solo attraverso la disponibilità ad un dialogo reciproco.
Mi permetto di sottolineare il fattore della reciprocità. Se, da un lato, si assiste a violazioni del dovere di rinvio da parte dei giudici nazionali, si nota, dall’altro lato, la costruzione in via pretoria, da parte della Corte, di un fitto sistema di limiti alla ricevibilità dei quesiti: limiti che non si trovano nei trattati e che, sotto varie forme (dalla mancanza di chiarezza del quesito, alla sua irrilevanza rispetto al caso concreto, alla natura fittizia della controversia) narrano di una politica di selezione dei casi, per cui il Kirchberg decide, senza appello, se e quando e a chi rispondere[2].
Intendo rimarcare che il sistema delinea la netta autonomia delle giurisdizioni e basa il suo funzionamento su di una paritaria relazione di lealtà: relazione che, ripeto, non va vista solo per stigmatizzare i giudici interni che non si rivolgono a Lussemburgo, ma anche per stigmatizzare Lussemburgo quando (specie su materie politicamente delicate) non risponde alle richieste di chiarimento dei giudici nazionali.
Immaginare qualcosa di diverso significa immaginare una struttura dell’Unione europea lontana da quella che è. Il disegno dei trattati, su questo aspetto, non si discosta nell’essenziale dalla primitiva forma delle Comunità: non si è mai voluto forzare la sovranità nazionale fino al punto di sanzionare direttamente il mancato utilizzo dello strumento del rinvio. Un giorno, forse, un supremo giudice europeo potrà rivedere le decisioni nazionali che abbiano violato il diritto dell’Unione: ma oggi non è così.
Rinviare o no a Lussemburgo significa decidere una questione di diritto, nel rispetto delle modalità processuali di ogni singolo Stato membro. Il giudice di ultima istanza può sbagliare: non solo quando non rinvia, laddove dovrebbe, ma anche quando commette un errore in diritto. Nell’uno come nell’altro caso, esercita il suo potere di decidere la controversia, e cioè la sua (ed esclusivamente sua) giurisdizione.
Ancora. Tutte le volte che il giudice a quo è tenuto a sospendere il processo, in attesa che una causa o una questione pregiudiziale sia decisa da un diverso organo giudiziario competente, mantiene sempre la giurisdizione sulla causa pregiudicata. Così avviene per la pregiudiziale penale, per quella costituzionale e, naturalmente, anche per quella europea. Una volta che l’antecedente logico-giuridico abbia avuto soluzione, il giudice riprende (salvo il rispetto dell’impulso di parte) la conduzione del processo pregiudicato, la cui cognizione non è mai passata al giudice della pregiudiziale. Del resto, la giurisdizione rimane in capo al giudice a quo anche se questi (in tesi, sbagliando) non si avveda o comunque non rilevi la situazione di pregiudizialità[3].
Ne segue che il mancato rinvio alla Corte di giustizia nel caso che ci occupa, anche ammesso che costituisse una violazione del diritto dell’Unione, non comportava in alcun modo una sottrazione di giurisdizione a scapito della Corte di giustizia, perché la giurisdizione sulla vicenda dell’interdittiva antimafia spettava dall’origine e rimaneva in capo agli organi della giustizia amministrativa italiana. La sentenza del Consiglio di Stato, dunque, non poteva dunque essere fatta oggetto di un’impugnazione in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. Inammissibile, pertanto, il ricorso e ineccepibile l’ordinanza delle Sezioni unite.
3. Quale tutela contro la ribellione del giudice nazionale di ultima istanza?
Se, dunque, la soluzione offerta al caso deve essere condivisa, resta aperto il tema, di quale tutela accordare al cittadino europeo, che faccia valere in giudizio una situazione soggettiva protetta dal diritto dell’Unione, che la veda disattesa dai tribunali di merito e che, infine, veda sfumare le possibilità di difesa perché la corte di ultima istanza si rifiuta, motivandolo o no, di sottoporre la questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia.
Il punto è molto importante. Come ho più volte sostenuto, la possibilità per la parte di ottenere giustizia suppone la corretta applicazione del diritto dell’Unione. Di fronte alle resistenze dei giudici del proprio ordinamento, la parte può sollecitarli a rivolgersi a Lussemburgo, sapendo che, sia pure a prezzo della trafila delle impugnazioni, potrà giungere dinanzi alla corte di ultima istanza, che dovrà finalmente sottoporre alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale[4]. Il rifiuto del giudice interno di ultima istanza spezza questo percorso ed espone la parte ad una grave privazione di tutela.
Con questa premessa, comunque si voglia guardare al problema, occorre rispondere francamente che una tutela piena e diretta non esiste.
Certo, la giurisprudenza di Lussemburgo insegna che una costante applicazione di norme interne in contrasto con il diritto dell’Unione espone lo Stato membro ad un giudizio di inadempimento ai trattati, seppure l’attività censurata provenga non dagli organi legislativi o amministrativi, ma da quelli giudiziari, che, nello stato di diritto, sono per definizione indipendenti. Prendendo le mosse da questa eventuale condanna, le parti processuali che sono risultate (ingiustamente) soccombenti nei processi interni potranno agire con una domanda risarcitoria a carico dello Stato. In sé, però, quei processi sono e restano persi[5].
Sul piano risarcitorio, si colloca ora (e tanto più dopo la legge n. 18 del 27 febbraio 2015) l’azione proponibile contro lo Stato per la responsabilità del giudice che abbia consapevolmente e palesemente violato il diritto dell’Unione, anche omettendo un rinvio pregiudiziale doveroso. Al netto della difficoltà di individuare un’ipotesi di responsabilità quando la decisione è collegiale, è comunque del tutto evidente che neppure per questa via si perviene ad una tutela equivalente a quella (in ipotesi, illegittimamente) negata.
Se, quindi, il sistema appare inadeguato, sotto il duplice profilo di una più intensa applicazione del diritto dell’Unione e di un’efficace protezione dei diritti individuali, mi pare che si debba prendere atto che questa imperfezione è conseguenza, come dicevo più sopra, dell’altrettanto imperfetto livello di integrazione europea. Né le originarie Comunità, né l’attuale Unione sono uno stato federale e, per il momento, il rispetto di talune sfere di discrezionalità nazionale rappresenta il prezzo politico da pagare per non alterare equilibri, la cui fragilità è sotto gli occhi di tutti.
Detto in altre parole. Ponendo l’obbligo di rinvio a carico dei giudici di ultima istanza, ma non sanzionandone in modo diretto l’inosservanza, i trattati hanno costruito una sorta di test sul grado di assorbimento del diritto europeo all’interno dei sistemi nazionali, accettando che il livello di cooperazione crescesse progressivamente, così come di fatto è accaduto, senza forzare la mano. Certo, in questo modo le sbavature sono inevitabili, ma occorre valutare realisticamente lo stato dell’arte.
4. Lo scenario: l’europeismo come campo di battaglia fra le alte corti?
Occorre, infine, collocare l’ordinanza qui commentata nello scenario, quanto mai attuale, della verifica in sede europea della correttezza della posizione ermeneutica che restringe il controllo impugnatorio della Cassazione nei confronti dei Consiglio di Stato e della Corte dei Conti per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, non includendo nell’ambito applicativo dell’art. 111, comma 8°, cost., anche le ipotesi di manifesta violazione del diritto dell’Unione europea[6].
L’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598 del 18 settembre 2020 è nota ed è stata resa già oggetto di articolati commenti, ai quali rimando[7]. Mi limito ad osservare che l’ordinanza qui esaminata vi fa riferimento, per notare che quella presa di posizione e il relativo rinvio a Lussemburgo non contrasta con la soluzione offerta al caso deciso.
Mi sembra chiaro, però, che in un diverso contesto culturale nessun avveduto difensore avrebbe potuto ipotizzare un ricorso in Cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato, individuando il “motivo attinente alla giurisdizione” nel mancato rinvio di una questione alla Corte di giustizia. Il ricorso, seppure dichiarato inammissibile, è parso plausibile perché il dibattito in corso si estende ad una possibile rivisitazione dell’equilibrio costituzionale fra il giudice ordinario e i giudici speciali, sullo sfondo, se non della giurisdizione unica, quanto meno di un riconoscimento di più ampi poteri alla Corte di Cassazione. La stessa (a mio avviso, criticabile) proposta di legge per l’istituzione del c.d. Tribunale dei conflitti rientra appieno in questa fase di riflessione[8].
Senza uscire dall’ambito del commento all’ordinanza n. 24107 del 2020, qualche osservazione su questo scenario non può mancare.
È interessante notare come la prospettiva, intorno alla quale ruota il dibattito, vede la Corte di Cassazione porsi come supremo garante interno dell’applicazione e, previo rinvio a Lussemburgo, dell’interpretazione del diritto dell’Unione. Ora, l’esigenza di rispettare l’art. 267 Tfue incombe su tutti gli organi giurisdizionali di ultima istanza, allo stesso modo della corretta applicazione del diritto positivo interno. L’eventuale ricollocazione delle scelte sul rinvio pregiudiziale, dal piano del processo a quello dell’esercizio della giurisdizione, non darebbe, di per sé, nessuna maggiore garanzia. La lealtà europeista non dipende dalle competenze astratte di questo o di quell’organo, ma dalla sensibilità dei singoli magistrati che li compongono. Se è vero che negli anni più recenti la Cassazione ha svolto in modo egregio il compito di dialogare con la Corte di giustizia, così non è sempre stato.
Le statistiche della Corte di giustizia ci dicono, a chiari numeri, che dall’inizio dell’avventura comunitaria a tutto il 2019, i giudici italiani hanno proposto 1205 rinvii pregiudiziali. Di questi, 1205 provengono da giudici di merito, 4 dalla Corte costituzionale, 204 dal Consiglio di Stato e “soltanto” 170 dalla Corte di Cassazione. Il mio “soltanto” intende dire che, a volgersi indietro, ci si accorge che Palazzo Spada, almeno quantitativamente, ha dialogato con Lussemburgo più di piazza Cavour.
Se, poi, si guarda alla percentuale di rinvii pregiudiziali effettuati dalle corti di ultima istanza rispetto al totale, risulta (per limitarsi ai paesi di più antica militanza europea) che le alte corti italiane raggiungono il 23,87%, quelle belghe il 25,78%, quelle francesi il 27,56% e quelle tedesche il 32,41%[9].
La dura franchezza dei numeri mi dice che, dietro all’elegante questione giuridica, nulla assicura che assegnare alla Cassazione l’ultima parola sui rinvii pregiudiziali porterebbe un incremento del dialogo con la Corte di giustizia.
Quanto all’equilibrio costituzionale italiano, il mio parere è che, in prospettiva, la giurisdizione unica sia preferibile: è lo stesso impatto del diritto europeo, che non distingue fra diverse tipologie di posizioni soggettive e assegna ai giudici di Lussemburgo il compito di decidere, con le medesime norme processuali, diverse tipologie di controversie, a spingere in questa direzione, rendendo ormai non più razionale la struttura interna. Si tratta, però, di una prospettiva lontana, per la quale i tempi non sembrano ancora maturi[10].
Non vi è dubbio, al contempo, che si assista a una sorta di deriva dei continenti: vi sono segnali che manifestano una qualche insoddisfazione per l’assetto attuale e la vicenda sottostante all’ordinanza qui commentata ne è un esempio.
Ora, è necessario evitare che la valorizzazione del diritto dell’Unione diventi, forse al di là delle intenzioni, non tanto il vero obiettivo di questo confronto, ma piuttosto il terreno su cui si combatte un’altra battaglia, che tende in qualche modo ad attenuare, se non a superare, l’equivalenza costituzionale fra i distinti plessi giurisdizionali.
Per tutte queste ragioni, l’ordinanza n. 24017 del 2020 è più importante di quanto non appaia ad un primo sguardo. Le Sezioni unite, con una serena e lineare motivazione, riconducendo correttamente al profilo processuale la decisione circa l’effettuazione o no del rinvio pregiudiziale, rispettano l’autonomia del Consiglio di Stato, si mantengono all’interno della ripartizione di funzioni voluta dalla Costituzione ed evitano controproducenti fughe in avanti, in un momento in cui occorre essere europeisti, ma con i piedi per terra.
* Ndr sull'argomento su questa Rivista Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione) di Fabio Francario e uida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020. di Maria Alessandra SANDULLI e Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598) Giuseppe Tropea
[1] Si veda l’ampia monografia di RAITI, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003, specie p. 235 ss.
[2] Sulle forme di controllo della Corte di giustizia sulla ricevibilità dei quesiti pregiudiziali, v. D’ALESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, Torino, 2012, p. 101 ss.; RAITI, op. cit., p. 9 ss.; in lingua tedesca, MALFERRARI, Zurückweisung von Vorabentscheidungsersuchen durch den EuGH, Baden-Baden, 2003.
[3] Sul tema della pregiudizialità, v. per tutti ZUCCONI GALLI FONSECA, Pregiudizialità e rinvio (contributo allo studio dei limiti soggettivi dell’accertamento), Bologna, 2011.
[4] Ho utilizzato, in questo senso e con le opportune precisazioni, l’espressione “domanda pregiudiziale”, impiegata peraltro dall’art. 94 del regolamento di procedura della Corte di giustizia. V. in proposito, BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione europea, 5° ed., Milano, 2015, p. 412 ss. La mia impostazione non è condivisa dalla maggior parte della dottrina, che, peraltro, mi pare si limiti ad uno sguardo prettamente formale del fenomeno: v. ad es. D’ALESSANDRO, op. cit., p. 17 ss.
Sull’art. 94 del regolamento della Corte, v. GRASSO, sub art. 94, in AMALFITANO-CONDINANZI-IANNUCCELLI, Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, p. 586 ss.
[5] Si veda la giurisprudenza inaugurata dalla Corte di giustizia con la sentenza Köbler (30settembre 2003, in causa C-224/01), su cui v. fra gli altri SCODITTI, “Francovich” presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale, in Foro it., IV, 2004, c. 4 ss.; RASIA, Il controllo della Commissione europea sull’interpretazione del diritto comunitario da parte delle corti supreme degli Stati membri, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 1025 ss.; adde, si vis, BIAVATI, Inadempimento degli Stati membri al diritto comunitario per fatto del giudice supremo: alla prova la nozione europea di giudicato, in Int’l Lis, 2005, n. 2, p. 62-66.
[6] Il tema dei limiti della ricorribilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato è stato affrontato di recente in numerosi ed ampi contributi. Ne ricordo alcuni: ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007; PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, p. 587 ss.; POLICE-CHIRICO, I “soli motivi inerenti alla giurisdizione” nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il processo, 2019, p. 113 ss.
[7] V. per tutti CARRATTA-COSTANTINO-RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS. UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in www.questionegiustizia.it; M. LIPARI, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia, in www.giustiziainsieme.it.
[8] Su cui v. per tutti TRAVI, Considerazioni sulla proposta di legge per l’istituzione del Tribunale dei conflitti, in www.questionegiustizia.it, 2019.
[9] Le statistiche della Corte di giustizia sono agevolmente consultabili sul sito istituzionale www.curia.europa.eu.
[10] Si veda la recente messa a punto di DEL ROSSO, Unità della giurisdizione e prosecuzione del processo. Contributo allo studio della translatio iudicii, Napoli, 2020. Fra i moltissimi contributi su questo argomento, ricordo quello di VERDE, Giurisdizione e giurisdizioni (un tema caro a Franco Cipriani), in Il giusto proc. civ., 2020, p. 17 ss.
Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione*
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. I fondamenti costituzionali e sovranazionali del diritto alla tutela dei dati personali - 2. La tutela dei dati personali e l’approvazione del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 - 3. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione - 4. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore civile - 5. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore penale - 6. Gli interventi della Corte costituzionale finalizzati a delimitare l’ambito applicativo del principio di tutela della riservatezza individuale con riferimento ai provvedimenti giurisdizionali.
1. I fondamenti costituzionali e sovranazionali del diritto alla tutela dei dati personali
La tutela dei dati personali è un diritto fondamentale della persona, che costituisce una manifestazione del diritto all’intangibilità della sfera privata, riconosciuto da una pluralità di fonti normative nazionali e sovranazionali[1].
Sul piano nazionale, devono essere prese in considerazione le disposizioni degli artt. 15 e 21 Cost., pur dovendosi precisare che non è rinvenibile nella Carta costituzionale alcuna esplicita menzione del diritto alla riservatezza della persona.
Più precisamente, la norma dell’art. 15 Cost. si articola in due commi.
Il primo di tali commi recita: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili»; il secondo di tali commi, invece, stabilisce: «La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge».
Tale disposizione deve essere collegata all’art. 21 Cost., che disciplina la libertà di stampa, di cui ai presenti fini, si ritiene utile il richiamo dei soli primi due commi.
In particolare, nel primo comma dell’art. 21 Cost. si prevede: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»; nel secondo di tali commi, invece, si stabilisce: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Sul piano sovranazionale, invece, si ritiene opportuno richiamare gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Di queste previsioni normative si impone una preliminare ricognizione, costituendo tali disposizioni il punto di riferimento indispensabile per inquadrare, sul piano del diritto internazionale convenzionale, il tema che si sta affrontando.
Occorre, pertanto, prendere le mosse dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, intitolato «Rispetto della vita privata e della vita familiare», che stabilisce: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».
Tale disposizione è strettamente collegata all’art. 8 della stessa Carta, intitolato «Protezione dei dati di carattere personale», che si articola in tre paragrafi, di cui, ai presenti fini, si ritiene utile il richiamo dei soli primi due paragrafi.
In particolare, nel primo paragrafo dell’art. 8, si prevede: «Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano»; nel secondo paragrafo di tale disposizione, invece, si stabilisce: «Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica».
Queste disposizioni normative, a loro volta, devono essere correlate al primo e al secondo paragrafo dell’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Più precisamente, nel primo paragrafo dell’art. 16 del Trattato, si prevede: «Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano»; nel secondo di tali paragrafi, invece, si stabilisce: «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono le norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione, nonché da parte degli Stati membri nell’esercizio di attività che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, e le norme relative alla libera circolazione di tali dati».
Il quadro normativo in esame, infine, deve essere integrato con la previsione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, intitolato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare», che è articolato in due paragrafi. Il richiamo dell’art. 8 è particolarmente utile ai nostri fini, perché in questa disposizione convenzionale si contemperano il diritto alla riservatezza della persona con le ragioni, espressamente indicate nel secondo paragrafo della stessa disposizione, che giustificano la compressione di tale prerogativa individuale.
In particolare, nel primo paragrafo dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, si prevede: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza»; nel secondo paragrafo dell’art. 8, invece, si stabilisce: «Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
Ricostruito, sia pure sinteticamente, il contesto normativo, nazionale e sovranazionale, nel quale devono essere inseriti i temi del diritto alla riservatezza della persona e della tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione, occorre passare a considerare i punti di riferimento normativo dell’ordinamento italiano.
2. La tutela dei dati personali e l’approvazione del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196
Nella cornice normativa che si è descritta nel paragrafo precedente, deve evidenziarsi che nell’ordinamento italiano il punto di partenza di ogni disamina sul tema della tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali è rappresentato dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, recante «Codice in materia di protezione dei dati personali»[2].
Questo testo legislativo, a sua volta, deve essere correlato alle norme del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riferimento al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali, convenzionalmente noto, per la sua denominazione in lingua inglese, come General Data Protection Regulation ovvero con l’acronimo di GDPR.
Questa correlazione normativa si impone in conseguenza del fatto che l’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679, essendo direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, a partire dal 25 maggio 2018, ha reso necessario l’adeguamento del preesistente “Codice in materia di protezione dei dati personali”[3], introdotto nel nostro ordinamento giuridico con il d.lgs. n. 196 del 2003.
Si tratta, a ben vedere, di una vera e propria opera di adeguamento normativo, perché il legislatore italiano non ha abrogato il previgente “Codice in materia di protezione dei dati personali”, provvedendo a una sua complessiva rivisitazione, realizzata mediante l’approvazione del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)». Tale procedimento di rivisitazione del testo normativo preesistente è stato attuato mediante l’abrogazione delle disposizioni previgenti incompatibili con il Regolamento (UE) 2016/679 e il contestuale adeguamento del «Codice in materia di protezione dei dati personali», effettuato attraverso l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle precedentemente vigenti.
All’esito di questo complesso procedimento di rivisitazione sistematica, il legislatore italiano ha articolato la materia della protezione dei dati personali in due distinti piani normativi, rispettivamente riguardanti il trattamento dei dati personali da parte degli organi di giustizia e la divulgazione all’esterno, per finalità di informazione e di informatica giuridica, delle pronunce giurisdizionali.
Al primo di questi piani normativi, riguardante il trattamento dei dati personali da parte degli organi di giustizia, è dedicato l’art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, così come integrato dal d.lgs. n. 101 del 2018.
Questa disposizione, in particolare, stabilisce che, nella materia in esame, i «diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti».
Nel quarto comma dell’art. 2-duodecies, inoltre, si precisa che i trattamenti dei dati personali effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli «correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie», nonché quelli «effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari [...]». Nello stesso contesto normativo, si precisa anche che le “ragioni di giustizia” non ricorrono «per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti».
Al secondo di questi piani normativi, riguardante la divulgazione all’esterno, per finalità di informazione e di informatica giuridica, del contenuto dei provvedimenti giurisdizionali, sono dedicate le norme degli artt. 51 e 52 del d.lgs. n. 196 del 2003, così come integrate dal d.lgs. n. 101 del 2018.
Gli artt. 51 e 52, quindi, costituiscono la piattaforma normativa indispensabile per inquadrare il tema del trattamento dei dati personali in materia di informazione e di informatica giuridica, cui si collega la questione delle limitazioni applicabili alla diffusione, integrale o parziale, delle pronunzie giudiziarie.
Più precisamente, l’art. 51 del «Codice in materia di protezione dei dati personali», che è rimasto immutato a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 101 del 2018, disciplina la diffusione dei provvedimenti giudiziari, prevedendo, nel suo primo comma, che i «dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado sono resi accessibili a chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet». Il secondo comma dell’art. 51, invece, stabilisce che le «sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo».
Le cautele richiamate dal secondo comma dell’art. 51, a sua volta, sono disciplinate dal successivo art. 52, parzialmente modificato dal d.lgs. n. 101 del 2018, che individua i limiti alla diffusione del contenuto, integrale o parziale, delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali. Tali limiti si applicano sia nelle ipotesi di divulgazione per finalità di informazione giuridica su riviste scientifiche o su supporti elettronici, sia in ogni altra ipotesi di riproduzione di pronunce giudiziarie, come nel caso della diffusione di notizie su organi di stampa.
3. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione
Dopo avere ricostruito la cornice normativa nella quale si inseriscono i temi del diritto alla riservatezza e della tutela dei dati personali, occorre passare a considerare le modalità con cui tale protezione viene garantita nei provvedimenti giurisdizionali, civili e penali, della Corte di cassazione.
A tale problematica è dedicato il decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, n. 178, dalla cui ricognizione occorre muovere per inquadrare la materia di cui ci stiamo occupando[4].
Occorre premettere che questo decreto mira ad assicurare la più ampia diffusione dei provvedimenti giurisdizionali, civili e penali, della Corte di cassazione, che però deve essere garantita nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali dei soggetti processuali. A tali obiettivi ci si si riferisce espressamente nel preambolo del decreto presidenziale in esame, in cui si richiama «l’esigenza di assicurare la più ampia informazione in ordine alle decisioni della Corte di cassazione nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali […] relativamente alla riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica»[5].
Allo scopo di assicurare il contemperamento di tali esigenze, nel decreto n. 178 del 2016, innanzitutto, il Primo Presidente della Corte di cassazione sollecita l’attenzione dei collegi giudicanti – e in particolare dei presidenti e degli estensori dei provvedimenti giurisdizionali oggetto di potenziale diffusione esterna – sulla necessità o sull’eventualità di disporre l’oscuramento dei dati identificativi dei soggetti coinvolti in un procedimento di legittimità, civile o penale, con le modalità disciplinate dall’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003[6].
Tale collaborazione, processuale e istituzionale, nella prospettiva auspicata dal decreto presidenziale in esame, si rende indispensabile, attesa «l’impossibilità di prevedere forme di controllo e di “oscuramento” standardizzate, in particolare con riferimento alle specifiche parti da anonimizzare nei singoli provvedimenti e all’individuazione dei procedimenti nei quali sono coinvolti minori non come parti, ma, ad esempio, come testimoni»[7].
In questo contesto, occorre distinguere le ipotesi in cui l’oscuramento dei dati personali di un soggetto processuale deve essere eseguito sulla base delle emergenze del caso concreto, previste dall’art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, dalle ipotesi in cui l’oscuramento dei dati personali deve essere eseguito obbligatoriamente, previste dall’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003.
Rientrano, in particolare, nel primo ambito normativo, connotato da discrezionalità, le ipotesi previste dall’art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, rilevanti «nei procedimenti civili e nei procedimenti penali concernenti “dati sensibili” […]», per i quali l’oscuramento dei dati personali «ha ad oggetto unicamente il nominativo dell’interessato […]»[8].
Rientrano, invece, nel secondo ambito, connotato da obbligatorietà, le ipotesi, previste dall’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, rilevanti «nei procedimenti civili concernenti minori, rapporti di famiglia e stato delle persone, nonché nei procedimenti penali concernenti reati contro la famiglia (artt. da 556 a 574-bis cod. pen.), reati di cui agli artt. 414-bis e 416, settimo comma, cod. pen., reati di cui all’art. 591 cod. pen., reati di cui agli artt. da 600-bis a 600-octies e da 609-bis a 609-undecies cod. pen., reati di cui all’art. 643 cod. pen., reati di cui all’art. 734-bis cod. pen., reati in tema di prostituzione, reati in materia di interruzione volontaria della gravidanza, reati in materia di procreazione medicalmente assistita, e reati commessi da o in danno di minorenni […]»[9]. In queste ipotesi, secondo quanto previsto dal decreto in questione, l’oscuramento «deve riguardare non solo i dati identificativi dell’interessato, ma ogni altro dato, anche relativo a terzi, tramite il quale si possa risalire anche direttamente alla sua identità»[10].
Occorre, infine, evidenziare che, nella prospettiva collaborativa auspicata dal provvedimento presidenziale in esame, l’attività di selezione dei procedimenti oscurabili deve essere svolta dagli organi della Corte di cassazione da cui transita il fascicolo processuale dopo la presentazione del ricorso, costituiti, come vedremo, dalle Cancellerie penali e civili; dagli Uffici per l’esame preliminare dei ricorsi, costituiti presso le sezioni civili e penali; dai collegi giudicanti ai quali il fascicolo è assegnato dopo la fissazione dell’udienza; dal magistrato estensore della sentenza; dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione; dall’Ufficio C.E.D. della Corte di cassazione[11].
4. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore civile
In questa cornice generale, in conformità delle disposizioni contenute nel decreto n. 178 del 2006, occorre distinguere i provvedimenti giurisdizionali della Suprema Corte a seconda che siano adottati da sezione civili o sezioni penali[12].
Prendendo, pertanto, le mosse dai provvedimenti giurisdizionali adottati dalle sezioni civili della Corte di cassazione, deve evidenziarsi che la Cancelleria centrale civile provvede d’ufficio a segnalare i procedimenti per i quali è stata presentata una richiesta di oscuramento dei dati personali e i procedimenti per i quali l’oscuramento è obbligatorio. L’oscuramento obbligatorio, in particolare, è previsto per i procedimenti civili riguardanti le materie dell’adozione; dell’assistenza ai minori; della capacità della persona fisica; della delibazione di sentenze straniere; della famiglia; dell’interruzione di gravidanza; della responsabilità civile; del lavoro privato; dello stato civile delle persone[13].
In queste ipotesi la Cancelleria centrale civile provvede alla possibilità di procedere alla segnalazione dell’oscuramento dei dati personali dei soggetti processuali, mediante «l’apposizione di una stampigliatura sul fascicolo, utilizzando i marcatori predisposti in via automatica»[14].
La medesima annotazione fascicolare, relativa all’oscuramento dei dati personali dei soggetti processuali, deve essere apposta dalla Cancelleria della Sesta Sezione civile sul fascicoletto di spoglio e dalla Cancelleria delle Sezioni unite civili; ipotesi, quest’ultima, statisticamente marginale, riguardando i soli procedimenti trattati dalle Sezioni unite civili, numericamente contenuti.
Un ruolo fondamentale, quindi, viene svolto dai magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi, afferenti al settore civile, che devono verificare preliminarmente se i procedimenti «per i quali sussistono o possono sussistere i presupposti per disporre l’oscuramento di dati personali o identificativi risultino segnalati con le modalità sopra indicate sul relativo fascicolo […]»[15] e, in caso negativo, devono provvedere «a far apporre sul fascicolo e a fare inserire nel registro generale la relativa annotazione»[16].
Analoga verifica deve essere svolta dalle cancellerie dei singoli sezioni civili, che devono provvedere con le stesse modalità prescritte per i magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi, qualora ricevano una richiesta di oscuramento dei dati personali da parte di un soggetto interessato.
Superata questa fase procedimentale preliminare e assegnato il fascicolo a un’udienza civile, i singoli collegi giudicanti, nei casi in cui si debba disporre l’oscuramento dei dati personali di un soggetto processuale, ai sensi dell’art. 52, commi 2 e 5, del d.lgs. n. 196 del 2003[17] ovvero nelle ipotesi di accoglimento della richiesta presentata dall’interessato, devono fare apporre sul ruolo di udienza «un’annotazione con la quale si segnala che prima dell’inserimento del provvedimento nella rete Internet […] debbono essere oscurati i dati in questione […]»[18].
Dopo la decisione del procedimento, l’estensore del provvedimento giurisdizionale civile, in sede di redazione della motivazione della minuta della sentenza, deve indicare alla cancelleria i dati identificativi oggetto di oscuramento, avendo cura di sottolineare «con una linea continua le parole e le indicazioni numeriche non ostensibili direttamente in sede di redazione dello stesso»[19].
Depositato il provvedimento, l’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione, in relazione alle pronunzie giudiziarie sottoposte a scrutinio ai fini della massimazione ovvero dell’inserimento nel “Servizio Novità”, deve segnalare i casi in cui si deve disporre l’oscuramento obbligatorio dei dati identificativi ex art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, laddove «non già indicati nel provvedimento, apponendo una barra sulle parole e sulle indicazioni non ostensibili»[20].
Infine, a completamento della descritta procedura, l’Ufficio del C.E.D. della Corte di cassazione deve eseguire le operazioni di oscuramento dei dati identificativi dei soggetti processuali, nel rispetto delle indicazioni ricevute.
5. La tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione: il settore penale
Occorre, quindi, passare a considerare le disposizioni contenute nel decreto del Primo Presidente n. 178 n. del 2006, relative alla tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Suprema Corte riguardanti il settore penale[21].
Anche, in questo caso, assume un ruolo decisivo e preliminare la Cancelleria centrale penale della Corte di cassazione, che provvede a segnalare «i procedimenti per i quali vi è richiesta di oscuramento dei dati personali, nonché dei procedimenti che abbiano ad oggetto reati contro la famiglia (artt. da 556 a 574-bis cod. pen.), reati di cui agli artt. 414-bis e 416, settimo comma, cod. pen., reati di cui all’artt. 591 cod. pen., reati di cui agli artt. da 600-bis a 600-octies e da 609-bis a 609-undecies cod. pen., reati di cui all’art. 643 cod. pen., reati in tema di prostituzione, reati in materia di interruzione volontaria della gravidanza, reati in materia di procreazione medicalmente assistita, reati cui all’art. 734-bis cod. pen., reati commessi da o in danno di minorenni […]»[22]. In tali ipotesi, la Cancelleria centrale penale, analogamente a quanto si è evidenziato per il settore civile, procede «mediante apposizione di stampigliatura sul fascicolo, utilizzando i marcatori predisposti in via automatica»[23].
In questi casi, i magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi per cassazione, afferenti al settore penale, devono verificare se i procedimenti riguardanti le materie oggetto di oscuramento e comunque quelli per i quali sussistono o possono sussistere i presupposti per disporre l’oscuramento di dati personali o identificativi, risultino «segnalati con le modalità sopra indicate sul relativo fascicolo […]»[24] e, in caso negativo, devono provvedere a fare «apporre sul fascicolo e a fare inserire nel registro generale la relativa annotazione»[25].
Analoga incombenza grava sulle cancellerie delle singole sezioni penali della Suprema Corte, che devono provvedere, con le modalità richiamate, qualora ricevano una richiesta di oscuramento dei dati personali da parte di un soggetto interessato.
Superata questa fase preliminare e assegnato il fascicolo processuale a un’udienza penale, i singoli collegi giudicanti, nelle ipotesi in cui si debba disporre l’oscuramento dei dati personali o comunque identificativi, ai sensi dell’art. 52, commi 2 e 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, ovvero in accoglimento della richiesta presentata dall’interessato, provvedono ad apporre sul ruolo di udienza «un’annotazione con la quale si segnala che, prima dell’inserimento del provvedimento nella rete Internet […] debbono essere oscurati i dati in questione […]»[26].
Dopo la decisione, l’estensore del provvedimento giurisdizionale penale, in sede di redazione della motivazione della minuta della sentenza, provvede a segnalare i dati che devono essere oscurati, provvedendo a sottolineare «con una linea continua le parole e le indicazioni numeriche non ostensibili direttamente in sede di redazione dello stesso»[27].
Depositato il provvedimento, l’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione, in relazione ai provvedimenti giurisdizionali penali sottoposti al suo scrutinio, ai fini della massimazione ovvero dell’inserimento nel “Servizio Novità” della Suprema Corte, deve segnalare i casi in cui si debba disporre l’oscuramento dei dati identificativi d’ufficio, ai sensi dell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 196 del 2003, laddove gli stessi non siano stati indicati nell’atto processuale, apponendo «una barra sulle parole e le indicazioni numeriche non ostensibili»[28].
Infine, a completamento della procedura che si è richiamata, l’Ufficio del C.E.D. della Corte di cassazione provvede a eseguire le operazioni di oscuramento dei dati identificativi, nel rispetto delle indicazioni ricevute.
6. Gli interventi della Corte costituzionale finalizzati a delimitare l’ambito applicativo del principio di tutela della riservatezza individuale con riferimento ai provvedimenti giurisdizionali
Nella parte conclusiva di questa esposizione ci si vuole concentrare sugli interventi della Corte costituzionale maggiormente rappresentativi delle esigenze di tutela dei dati personali che si sono esposte nei paragrafi precedenti[29].
In questa cornice, innanzitutto, occorre evidenziare che la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza 26 marzo 1990, n. 139[30], ha sempre ricondotto il tema della protezione dei dati personali nell’ambito del principio di tutela della riservatezza individuale, così come prefigurato dall’art. 15 Cost.
In particolare, con la sentenza n. 139 del 1990, riguardante la legittimità del d.lgs. 6 settembre 1989 n. 322, recante «Norme sul sistema statistico nazionale e sulla riorganizzazione dell’Istituto nazionale di statistica, ai sensi dell’art. 24 l. 23 agosto 1988 n. 440», la Corte costituzionale evidenziava che le finalità perseguite dal principio di tutela della riservatezza individuale mirano a «prevenire qualsiasi rischio che i dati raccolti siano conosciuti all’esterno nel loro riferimento nominativo o individuale ovvero in modo tale che siffatto riferimento possa esser ricostruito pur in presenza di dati anonimi […]»[31].
La Corte costituzionale, al contempo, evidenziava che lo scopo di «tale principio è duplice, in quanto, senza siffatte garanzie, da un lato, le statistiche potrebbero risultare non veridiche e, dall’altro lato, potrebbero essere messi in pericolo beni individuali strettamente connessi al godimento di libertà costituzionali e, addirittura, di diritti inviolabili […]»[32].
Nella stessa direzione ermeneutica si pone la sentenza 23 giugno 2005, n. 271[33], intervenuta a distanza di un quindicennio dalla sentenza n. 139 del 1990, che si pronunciava sul d.lgs. n. 196 del 2003, affermandone la legittimità, evidenziando che con tale disciplina il legislatore mirava a tutelare il trattamento dei dati personali, introducendo una disciplina – conforme al dettato costituzionale – che, pur riconoscendo tutele differenziate in relazione ai diversi tipi di dati personali e all’eterogeneità dei contesti normativi in cui tali dati vengono utilizzati, si caratterizzava per il riconoscimento di una serie di diritti intangibili delle persone fisiche e giuridiche.
Il terzo e fondamentale arresto della Corte costituzionale, al quale occorre riferirsi, è quello relativo alla sentenza 21 febbraio 2019, n. 20[34].
Con tale pronuncia la Corte costituzionale, nel dichiarare incostituzionale l’obbligo di pubblicare on-line i dati personali sul reddito e sul patrimonio dei dirigenti pubblici diversi da quelli che ricoprono incarichi apicali, tratteggiava in maniera efficace e aderente all’attuale stato del pensiero giuridico il fondamento costituzionale del diritto alla riservatezza dei dati personali, che costituisce un risvolto della manifestazione del diritto fondamentale all’intangibilità della sfera privata[35].
Secondo il Giudice costituzionale, nell’epoca attuale, il diritto alla riservatezza si atteggia principalmente quale diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla persona, che si giova, a sua protezione, dei canoni elaborati in sede sovranazionale per valutare la legittimità della raccolta, del trattamento e della diffusione dei dati personali[36].
La Corte costituzionale, inoltre, tenuto conto dell’affermazione degli strumenti digitali e del progresso tecnologico, che permettono una rapida e indiscriminata diffusione delle informazioni tramite la rete e le comunicazioni telematiche, prefigurava una “nozione dinamica”[37] del diritto alla riservatezza, idonea a consentire all’interessato di controllare la diffusione dei suoi dati e di reagire di fronte a comportamenti illegittimi dei soggetti che intervengono nelle operazioni di trattamento dei dati personali.
Naturalmente, il diritto alla riservatezza può subire deroghe o limitazioni, che, tuttavia, si devono ispirare ai principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, in modo da operare nei limiti indispensabili a consentire di raggiungere obiettivi legittimi, sottesi all’acquisizione e alla diffusione delle informazioni. Diventa, pertanto, indispensabile identificare le misure che incidono in modo limitato sul diritto alla riservatezza dell’individuo, contribuendo al contempo al raggiungimento di legittimi obiettivi informativi.
D’altra parte, secondo la Corte costituzionale, eguale rilievo deve essere riconosciuto ai principi di pubblicità e di trasparenza, rilevanti, non solo, quali corollari del principio democratico di cui all’art. 1 Cost. per tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica, ma, anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., per il buon funzionamento della pubblica amministrazione e per la gestione dei dati che la stessa possiede e controlla.
*Relazione svolta il 19 gennaio 2021, quale coordinatore del Gruppo di lavoro dedicato a “La tutela dei dati personali e l’accesso alle informazioni sensibili nei provvedimenti della Corte di cassazione”, costituito nell’ambito del Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, con formazione da remoto, intitolato “Trattamento dei dati personali in ambito giudiziario”, tenutosi nelle date del 18 e del 19 gennaio 2021.
[1] Sui temi del diritto alla riservatezza individuale e della protezione dei dati personali, si rinvia, senza alcuna pretesa di esaustività, agli interventi di E. Brugiotti, La privacy attraverso le “generazioni dei diritti”. Dalla tutela della riservatezza alla protezione dei dati personali fino alla tutela del corpo elettronico, in www.dirittifondamentali.it, 8 maggio 2013; G. Grasso, Il trattamento dei dati di carattere personale e la riproduzione dei provvedimenti giudiziari, in Foro it., 2018, V, 349; S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, Cedam, Padova, 2006; D. Piccione, Riservatezza (Disciplina amministrativa), voce, in Enciclopedia del Diritto (Annali), Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2015, pp. 722 ss.; S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Giuffrè, Milano 2006.
[2] Sulla rilevanza sistematica e sulla portata applicativa del “Codice in materia di protezione dei dati personali” si rinvia a Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica del 2 dicembre 2010, in www.garanteprivacy.it; per un commento sul “Codice in materia di protezione dei dati personali” si rinvia agli studi di R. Panetta, Circolazione e protezione dei dati personali, tra libertà e regole del mercato. Commentario al Regolamento UE n. 679/2016 e al d.lgs. n. 101/2018, Giuffrè Francis Lefevbre, Milano, 2019; F. Midiri, Il diritto alla protezione dei dati personali. Regolazione e tutela, Editoriale Scientifica, Napoli, Torino, 2017; A. Pisapia, La tutela per il trattamento e la protezione dei dati personali, Giappichelli, Torino, 2018; S. Scagliarini, Il “nuovo” codice in materia di trattamento di dati personali. La normativa italiana dopo il d.lgs. 101/2018, Giappichelli, Torino, 2019.
[3] Sul testo originario del “Codice in materia di protezione dei dati personali”, conseguente all’approvazione del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e sulle complesse questioni ermeneutiche prodotte dalla sua entrata in vigore, si rinvia a Corte di cassazione - Ufficio del Massimario e del Ruolo, Corte di cassazione e tutela della privacy: “l’oscuramento” dei dati identificativi nelle sentenze, Relazione del 5 luglio 2005 redatta a cura di A. Giusti ed E. Calvanese.
[4] Il decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, n. 178 può essere consultato sul sito www.cortedicassazione.it, cui occorre rinviare per la sua lettura integrale.
[5] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, cit.
[6] Vedi supra paragrafo 2.
[7] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2016, cit.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Per la ricognizione del ruolo ordinamentale e delle funzioni assegnate agli organi della Suprema Corte richiamati nel testo si rinvia alle Tabelle di organizzazione della Corte di cassazione per il triennio 2017-2019, attualmente vigenti.
[12] Tali disposizioni sono contenute nelle pagine 2 e 3 del provvedimento in esame e devono essere integrate dalle indicazioni contenute nell’allegato A dello stesso provvedimento relativo ai procedimenti che devono essere segnalati dalle cancellerie delle sezioni civili della Corte di cassazione.
[13] Si tratta, in particolare, dei provvedimenti giurisdizionali compiutamente elencati nell’allegato A del decreto presidenziale in esame.
[14] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2006, cit.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Tali disposizioni sono contenute nelle pagine 3 e 4 del provvedimento in esame e devono essere integrate dalle indicazioni contenute nell’allegato B dello stesso provvedimento relativo ai procedimenti che devono essere segnalati dalle cancellerie delle sezioni penali della Corte di cassazione.
[22] Si veda decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione 14 dicembre 2006, cit.; si tratta, in particolare, dei provvedimenti giurisdizionali compiutamente elencati nell’allegato B del decreto presidenziale in esame.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem.
[29] Si tratta, naturalmente, di un’esposizione che non ha alcuna pretesa di esaustività, mirando soltanto a fornire alcune indicazioni ermeneutiche utili a inquadrare il tema in esame.
[30] Si veda C. cost., 26 marzo 1990, n. 139.
[31] Si veda C. cost., 26 marzo 1990, cit.
[32] Si veda C. cost., 26 marzo 1990, cit.
[33] Si veda C. cost., 23 giugno 2005, n. 271.
[34] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, n. 20.
[35] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, cit.
[36] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, cit.
[37] Si veda C. cost., 21 febbraio 2019, cit.; su tali profili ermeneutici, si veda anche S. Rodotà, La vita e le regole, cit., pp. 47 ss.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.