ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Camminando con il giudice alla rovescia (Sassari, Carlo Delfino Editore, 2020) a cura di Rosa Agostino e Luciana Breggia.
Recensione di Maria Giovanna Ruo
Camminando con il giudice alla rovescia (Sassari, Carlo Delfino Editore, 2020) a cura di Rosa Agostino e Luciana Breggia, è un libro su un libro, quello di L. Breggia, Il giudice alla rovescia (Torino, 2015, Ed. Einaudi ragazzi) e la sua feconda storia suscitatrice di risorse. Costituisce un modo originale e intrigante di affrontare con levità temi importanti e profondi, come l’educazione delle giovani generazioni a legalità e giustizia, attraverso la proposta di una riflessione maieutica sui percorsi del iuris dicere in materie nelle quali è centrale la considerazione della persona quale si è venuta sviluppando per le sue relazioni, la sua storia e la sua sensibilità e per la società in cui vive e ha vissuto. Provoca una riflessione su come educare non solo i bambini ma anche noi stessi a un approccio diverso ai temi della giustizia e della legalità.
L’obiettivo è alto, ed esplicitamente contenuto nel sottotitolo “come mediare i conflitti e costruire insieme le regole della giusta convivenza”. Il libro è rivolto al mondo delle persone di età minore: la curatrice e autrice del precedente volume (L. Breggia) nella premessa avverte che educare i bambini al rispetto della legge è fondamentale, ma occorre stimolarne la capacità di interrogare la propria coscienza anche di fronte alla legge e di porsi di fronte alla regola in modo non formalistico e superficiale. Il che ovviamente vale per tutti.
I bambini non sono solo i destinatari (principali) del volume, ma ne sono anche i protagonisti, dato l’ampio spazio assicurato alle “ricette” di giustizia che hanno fornito persone di età minore nei vari laboratori di cui il testo dà conto. Il libro non è però diretto “solo” a loro, ma anche agli insegnanti, ai genitori, ai protagonisti delle diverse agenzie educative che bambine/i e adolescenti incontrano nel loro percorso di maturazione e che contribuiscono al raggiungimento della loro piena cittadinanza attiva. E ancor di più: è un libro per giuristi non solo operatori del settore, per la società responsabile e solidale e i suoi protagonisti, per un percorso verso la migliore attuazione della giustizia che parta dall’educazione delle giovani generazioni, della cui cura siamo tutti responsabili.
Tale ambizioso obiettivo è raggiunto attraverso un percorso originale, costruito tra testimonianze e resoconto di laboratori vissuti nelle scuole, la narrazione della metodologia seguita per far crescere la consapevolezza di cosa è giustizia e che sprona a sperimentarla in altre scuole e agenzie educative, con e per le persone di età minore e in stretto contatto con loro, riportando anche l’incredibile profondità delle loro osservazioni sui casi concreti, talvolta espressa con modalità e concetti che lasciano stupiti. Alla rovescia anche perché non dalla norma al caso concreto, ma dal caso concreto alla filosofia di sistema.
Il punto di partenza è appunto il libro di Luciana Breggia, Il giudice alla rovescia: il Giudice è quello di Pinocchio, che manda in carcere l’innocente burattino e poi sparisce nel libro di Collodi; ma in realtà (o -più correttamente- nella finzione fiabesca del libro della Breggia) l’uomo evidentemente cambia, ha una sua personale trasformazione, un percorso di consapevolizzazione dei propri ruolo e funzione (art. 4 , II co., Cost. si potrebbe supporre). Questi arriva quindi in un paese dove gli abitanti litigano continuamente e hanno bisogno di lui per dirimere i loro conflitti. Il Giudice analizza vari casi ma non offre le soluzioni più prevedibili sulla base di torti e ragioni: ascolta, prescinde da stereotipi, alla ricerca delle radici del conflitto per superarlo in una visione più ampia. Quando alla fine riparte da quel paese, la giustizia è ormai diventata patrimonio condiviso del piccolo villaggio.
Nella finzione fiabesca il Giudice alla rovescia aiuta a dirimere i conflitti dei cittadini con l’arte appunto della “maieutica”, conducendoli a una riflessione su cosa sia giustizia, attraverso la riacquistata capacità di dialogo, il superamento di pregiudizi dettati dalla paura del diverso o del cambiamento, l’ascolto dell’altro.
Fiaba, paradosso o utopia? Non si sa, ma forse nemmeno importa. Lo snodo è altro: sta nelle vicende narrate e nelle conclusioni niente affatto scontate dei conflitti che ne emergono e che vengono portate, con modalità originali, ai bambini perché se ne facciano giudici nei Laboratori di cui dà conto il libro Camminando con il giudice alla rovescia. Il libro della Breggia viene definito in questo secondo volume un libro da osservare, per la sequenza delle illustrazioni, da ascoltare, da gustare “per l’umanità vera che c’è in ogni storia del libro” (C. Brucoli e C. Mambelli a p. 23 ne Il testo).
Così la storia della piccola ladra Mariza (su cui in particolare si soffermano F. Costagli e poi N. Turco), migrante ladra per fame e necessità di sopravvivenza, e il suo giudice che capovolge gli “ingiusti” canoni di giudizio, condivisi dagli abitanti del paese, nel quale il furto avviene, che partecipano in massa al processo in una prospettiva “colpevolista” e giustizialista. Il giudice alla rovescia finisce per condannare invece proprio quel paese e i suoi abitanti in quanto, non prestando sostegno alla piccola migrante, sono stati determinanti nel sospingerla verso la devianza. Il furto va inquadrato nella situazione di marginalizzazione, povertà, esclusione, diversità in cui Mariza vive nell’indifferenza colpevole del villaggio.
Sembra quasi, vista alla rovescia, di sentir riecheggiare la Corte Europea dei Diritti dell’uomo, nelle condanne ex art. 8 della Convenzione EDU, quando sottolinea la necessità che le Autorità nazionali sostengano le persone fragili con ogni intervento, prima di provvedimenti limitativi o ablativi dei loro legami parentali: l’obbligo positivo dello Stato di sostenere, recuperare, contrastare la fragilità che porta alla diminuita capacità genitoriale, prima di tutto con provvedimenti di aiuto e, solo in caso di fallimento, di resezione delle relazioni familiari.
Ma soprattutto, nel percorso alla rovescia, si sentono evocati gli articoli 2, 3 e 31 della nostra Carta Costituzionale: garantire a tutti i diritti fondamentali, rimuovere gli ostacoli, tutelare le persone di età minore, in quanto fragili e vulnerabili. Tanto più quando la vulnerabilità è multipla: migranti e di età minore, migranti e soli (non accompagnati).
In Camminando con il giudice alla rovescia si presentano una serie di situazioni in cui il Giudice alla rovescia ha potuto essere utilizzato per un percorso di sensibilizzazione ai temi della legalità e della giustizia nelle scuole. Sono i 5 laboratori (ne descrivono i percorsi: C. Brucoli e C. Mambelli, N. Turco, M. Breggia, M. Martinat, L. Galbusera) nei quali le storie sono state portate ai bambini, individuando con loro gli elementi salienti del conflitto e le tecniche di soluzione che ogni storia fa emergere, ascoltandone i protagonisti e con il contributo del magistrato che vi ha partecipato: con varie metodologie anche di coinvolgimento e formazione degli adulti (M. Martinat giunge a ipotizzare di lavorare con gli adulti con gli stessi spunti impiegati per i ragazzi “in un’attività di formazione da svolgersi in vari ambiti di impegno”: p. 56) e di utilizzo di tecniche narrative (flashback, autobiografia, diario) stimolando così anche l’approccio alla scrittura (L. Galbusera, p. 61).
La prospettiva è il movimento, il cammino verso l’effettività della giustizia (così il contributo di Brucoli e Mambelli, p. 25) che non può che essere calata nel caso concreto, e partendo da questo (alla rovescia) il volume suggerisce come declinare nelle particolari circostanze delle diverse situazioni la regola che assicuri giustizia. Toccando storie, immagini concrete, cercando il superamento del conflitto, prima che la sua conflagrazione diventi irreversibile. Costruendo la consapevolezza che la giustizia non è necessariamente connessa con il sistema giudiziario per svilupparlo “anche nelle forme amichevoli della mediazione e della giustizia partecipativa” (così L. Breggia, p. 15 della premessa)
Per chi scrive, che esercita la professione di avvocato nell’area persona, relazioni familiari e minorenni, la lettura è stata anche un’immersione in esperienze e riflessioni vissute, la riproposizione di domande cui era stata data una risposta abbozzata nella fretta dell’agire quotidiano. Un’esperienza di rivisitazione di prospettive in una visione più di sistema e la proposta di una sfida educativa cui non è legittimo sottrarsi.
Essere avvocati della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni, presuppone un approccio alla professione simile a quella del giudice alla rovescia: non cercare il conflitto, non alimentarlo, piuttosto contenere le istanze degli Assistiti che non sono sintoniche con il criterio di the best interest of the child (e di tutti i soggetti vulnerabili coinvolti) che è preminente e determinante nel giudizio nell’area del diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni. Promuovere il cambiamento verso la prospettiva dello sviluppo delle relazioni, perché si decide per il futuro, e non per il passato. Sostenere l’Assistito nel difficilissimo compito di (ri)costruire le relazioni sulla base del cambiamento per dirimere i conflitti nell’interesse di tutti, ma soprattutto dei più vulnerabili che vi sono coinvolti.
Essere operatori del diritto in questi campi vuol dire che la scienza giuridica corre il rischio di rimanere sterile ancorché elegante declinazione di concetti se non viene rivisitata alla stregua di altri saperi, lasciandosi contaminare beneficamente dagli stessi: pedagogia, psicologia, scienze sociali, antropologia, pediatria, psichiatria, neurologia, geriatria etc. La persona umana non può essere segmentata: se alla persona, prima di tutto a quella più vulnerabile, si deve assicurare giustizia, il processo della sua effettiva attuazione certo non può essere declinato asetticamente, ma dentro la sua storia. Vuol dire cercare nell’interpretazione delle norme, coadiuvati da altri saperi -nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco- la soluzione che garantisca prima di tutto i diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili coinvolti, in una dimensione che superi il conflitto garantendo la soluzione giuridicamente migliore possibile che ne attui i diritti fondamentali, primo fra tutti, per la persona di età minore, quello al suo migliore sviluppo psico-fisico.
D’altronde la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di quelle sanzioni penali che, ad es. prevedevano come automatica pena accessoria la decadenza o sospensione dalla responsabilità genitoriale del genitore autore di un reato, ricordando che la valutazione dell’interesse del minore è prioritaria e va considerata dal giudice nella situazione concreta di quel minore coinvolto, caso per caso (ex multis Corte Cost., sent. n. 102/2020). Sempre la Consulta ha affermato (Corte Cost, sent. 172/2017) che il favor veritatis nelle azioni di accertamento di stato personale -e in particolare dell’impugnazione per difetto di veridicità- è recessivo rispetto all’interesse di quel minore la cui identità è in gioco, che va valutato nella sua concretezza di storia, affetti, relazioni che si sono andate costruendo nella sua vita: favor affectionis, appunto, che prevale sul favor veritatis, che a sua volta, nel percorso di approfondimento dei concetti giuridici da applicarsi alle relazioni personali, aveva già inesorabilmente prevalso su quel favor legitimitatis dal sapore obsoleto che, ignorando persona e affetti, relazioni effettive, ha costituito per anni con rigidità il criterio prevalente in materia di azioni di stato personale in ragione della preferenza per la famiglia coniugale. Ancora a titolo esemplificativo la Corte Costituzionale ha affermato (Corte Cost., sent. 308/2008) che l’assegnazione della casa familiare non può “venir meno” automaticamente come previsto dalla norma (all’epoca 155 quater c.c., ora 337 sexies c.c.) se il genitore assegnatario si sposa o vi inizia una nuova convivenza, perché deve essere invece valutato dal giudice l’interesse del minore nella concretezza della sua storia, delle sue relazioni affettive del legame con il luogo degli affetti costituito dalla casa familiare.
Il Comitato ONU, nel suo Commento Generale n. 14 Sul diritto del minorenne a che il proprio superiore interesse sia tenuto in primaria considerazione all’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989, rat, con l. 176/1991) afferma che the best interest of the child è un criterio elastico, che non può prescindere dalla considerazione di come nel concreto le esigenze di quella persona di età minore si atteggino e debbano essere tutelate.
Il tutto dà ragione della specialità dell’area giuridica del diritto delle persone, delle relazioni familiari e dei minorenni, non certo diritto minore, ma diritto che pretende anche altro in chi lo pratica, per non tradirne il senso più profondo, di tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili nella concretezza delle loro persone, storie, relazioni, approcci valoriali nei principi inderogabili di solidarietà e responsabilità sociale.
In questa prospettiva, Camminando con il giudice alla rovescia traccia e propone un percorso educativo per i bambini (del ciclo delle elementari ma non solo) alla consapevolezza di cosa è giustizia rendendoli protagonisti della gestione di conflitti nella concretezza ed evidenziando quali risposte profonde -se messi nella condizione- siano in grado di fornire. L’educazione all’ascolto dell’altro, a tendere l’orecchio alle sue esigenze, essendo giudice del suo conflitto con la società, o con un’altra persona. Il Progetto ha lo scopo di diffondere la consapevolezza, già nel ciclo delle elementari, “dell’idea che le regole abbiano una funzione positiva e protettiva nel vivere in comune al fine di sviluppare il senso civico di cittadinanza consapevole” (A. Sardara, p. 65). L’esperienza di Sassari, presentata da V. Motzo, si è articolata anche nella costruzione di un giornale murale, che raccoglieva l’iter di attività e riflessioni, in scritti formali e non formali sui conflitti, che hanno dato modo di sviluppare le relative abilità di scrittura, giochi di ruolo sulle diverse tipologie di conflitti, peer education che ha visto i bambini della primaria insegnare -a quelli della scuola dell’infanzia ma anche a quelli delle medie- “i loro segreti per risolvere i conflitti”, la rappresentazione teatrale di fine anno. Il risultato ovviamente non è stato che siano spariti i conflitti nelle classi che hanno vissuto il progetto. E’ però cambiato il modo di approccio. Segue l’esperienza di Livorno, per “indicare ai bambini una strada di risoluzione delle liti e dei conflitti autonoma e pacificante” (A. Fodra, p. 102). Anticipatoria l’esperienza di Civitella di Roveto, nata con la diversa finalità di favorire la crescita dello studente-lettore -dalla lettura del Giudice alla rovescia- che ha però anche centrato l’obiettivo di sviluppare nei partecipanti “la capacità di accettare punti di vista diversi dal proprio” (F. Lucidi, p. 105). Infine il report di B. Rossi (p. 108) sulla trasformazione della capacità di gestire i conflitti maturata all’interno della comunità scolastica dopo il percorso formativo. L’ultima parte del libro è dedicata a “frasi celebri e artisti” e termina con la commovente (non solo per i bambini) lettera al Giudice alla rovescia.
Camminando con il giudice alla rovescia suscita, in chi vive quotidianamente queste tematiche, oltre che pensiero, emozioni non superficiali e stimola la prosecuzione di un cammino tutt’altro che scontato.
Ma nel coinvolgimento nell’azione educativa nei confronti delle giovani generazioni può anche avvicinare gli scienziati del diritto all’area del diritto minorile, spesso considerata con sufficienza, quasi che la contaminazione con altri saperi ne svilisca la sostanza giuridica: il diritto delle persone di età minore, non è un diritto minore, ma è piuttosto un diritto che esige anche altro per essere giustizia effettiva, che non guarda (solo) al passato per stabilire torti e ragioni, ma che ha lo sguardo volto al futuro.
L’Accademia brasiliana ricorda Michele Taruffo
Teresa Arruda Alvim, Professoressa di diritto processuale civile nella Pontifícia Universidade Católica di San Paolo (PUCSP)
Paulo Henrique dos Santos Lucon, Presidente dell’Istituto Brasiliano di Diritto Processuale, Professore Associato nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di San Paolo
Daniel Mitidiero, Professore di diritto processuale civile nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federale del Rio Grande do Sul (UFRGS)
Ricordo
di Teresa Arruda Alvim
La mattina del 10 dicembre 2020 il mondo è diventato più povero. È venuto a mancare un giurista davvero speciale, Michele Taruffo. Potrei fare qui un’analisi dettagliata del suo percorso intellettuale, menzionando la sua produzione bibliografica, analizzando alcune delle sue opere ma non credo che ciò sia la cosa prioritaria dato che al giorno d’oggi è estremamente facile accedere a queste informazioni. Credo invece sia più interessante dire qualcosa riguardo la sua forma di vedere il diritto e la vita, e del perché la sua perdita lascerà un vuoto in tutti noi difficilmente colmabile.
Michele Taruffo era un giurista universale. Aveva questa vocazione che si è manifestata precocemente nella sua vita e cioè di raggiungere rapidamente il nocciolo dei temi che lo affascinavano. Il percorso scelto era di investigare le origini di istituti e figure giuridiche oltreché il diritto comparato, perché queste fonti, per lui, ovvero l’origine e la trattazione dello stesso argomento nelle diverse parti del mondo, erano capaci di rivelare l’essenza degli oggetti studiati. Argute riflessioni, irresistibilmente filosofiche sulla storia del diritto e sulle diverse forme per mezzo delle quali popolazioni differenti affrontano lo stesso tema, illuminavano le sue riflessioni, le argomentazioni e le sue lezioni.
Trattava tematiche come se le vivesse con una macchina da presa che poco a poco si stesse allontanando dall’oggetto analizzato, per avere una visione allo stesso tempo completa ed essenziale del tema affrontato. Questo ha fatto di lui un autore “universale”.
Dimostrava un’invidiabile capacità di esporre gli argomenti con chiarezza, in un discorso, scritto o parlato, didattico e seduttore, che poteva essere compreso persino da un cinese, da un tedesco o da un finlandese.
Ovunque incontrava auditori zeppi di studiosi che lo volevano ascoltare, con immenso interesse ed ammirazione. A tal proposito, è impressionante come un giurista italiano possa essere, durante tutta la sua carriera di professore, veramente letto, citato e referenziato in tante nazioni.
Taruffo parlava di “diritto vivente” come quel diritto reale della vita a cui gli individui obbediscono. Forse proprio per questo si è dedicato con tanto interesse alla prova e ai principi fondanti della sentenza, giacché, con estrema lucidità, non ha mai smesso di dichiarare la funzione rilevante della giurisprudenza pacificata nella costruzione del proprio diritto.
Opere del Maestro, che ci lascia oggi orfani, sono state tradotte nelle più disparate lingue, persino in giapponese e in cinese. Ha influenzato processualisti e pensatori del mondo intero. Integrava le più diverse associazioni di studiosi di diritto processuale, anche se è stato molto di più che un processualista tradizionale. Era un vero show-man nei congressi attraverso la sua forma accattivante di esporre. Ha rivestito la funzione di Visiting Scholar in diverse università dell’oriente e dell’occidente, tenendo simposi in nazioni distanti, ai nostri occhi, persino esotiche. Nonostante ciò non era solo un “topo di biblioteca”...amava anche viaggiare in modo tradizionale e più avventuroso come per esempio in Brasile, in Vietnam e in tanti altri luoghi. Infatti ha fatto alcuni viaggi nell’Amazzonia peruviana e aveva una casa nel Nordest del Brasile.
La sua attitudine avventurosa si rifletteva nella sua forma di studiare: l’avventura interdisciplinare era una delle sue caratteristiche, tanto visibile nella sua opera magna sui fondamenti della sentenza. In questo momento aveva abbandonato la dogmatica tradizionale, avendo prodotto un’opera completa sul tema.
Passava dalla psicologia alla semiotica, alla logica, alla nascente teoria dell’argomentazione. Audace, creativo e coraggioso, Taruffo è stato un uomo che ha lasciato una traccia, un intellettuale indimenticabile.
Il Brasile lo amava e lui amava il Brasile. Amava le nostre spiagge, la nostra gente, il calore umano con cui era sempre ben ricevuto da queste parti. Ha sempre frequentato le case dei processualisti brasiliani, dandoci l’allegria di vederlo come un vero amico. Qui in Brasile effettivamente era un vero e proprio idolo.
Lo conobbi quando era ancora giovane in una cena offerta dai miei genitori, anche loro processualisti, alla fine degli anni ’80. Avevo appena terminato di pubblicare il mio primo libro sulla nullità della sentenza e gli detti una copia in omaggio. Lui, nel momento che la ricevette, andò subito a verificare nella bibliografia, per controllare se io avessi citato la sua magnifica opera sui Fondamenti della sentenza civile. Per un istante rimasi gelata, fino a che il Maestro sorrise e mi disse, in tono giocoso: "Ah che bibliografia eccellente!"
Grazie a Dio, ci ha lasciato un’opera vastissima e molti ricordi indimenticabili. Sicuramente non ci sarà un altro Michele Taruffo.
Il giorno 10 di dicembre 2020 il mondo è diventato più povero e molto, molto più triste.
Michele Taruffo
di Paulo Henrique Dos Santos Lucon
Negli ultimi anni, il diritto processuale brasiliano ha perso due dei suoi più importanti esponenti di tutti i tempi: Ada Pellegrini Grinover e José Carlos Barbosa Moreira. L’immenso dolore, che noi brasiliani abbiamo provato a causa della scomparsa di questi due grandi maestri, è tornato ad affliggerci il 10 dicembre 2020, quando abbiamo ricevuto, con grande tristezza, la notizia della morte del Professor Michele Taruffo. Per gli studiosi del diritto processuale, la sofferenza per la perdita di questi amici si aggiunge alla tristezza di non poter più contare, in futuro, sulla profondità delle loro riflessioni, delle loro lezioni, delle loro relazioni ai congressi, degli innumerevoli saggi e libri, che sono stati fondamentali per la formazione di tanti giuristi e che, per tanti e tanti anni, sono stati un faro per tutti coloro che hanno sentito l’esigenza di rifugiarsi in tali opere nei momenti di dubbio, incertezza ed erronea comprensione di spinose questioni giuridiche. Tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscere il Professor Taruffo, sicuramente, hanno di lui un ricordo molto speciale, specialmente del suo carisma e della sua personalità. Pertanto, proprio per rispettare la memoria di ognuno di noi, verranno fatte ulteriori considerazioni in questa sede.
Ciò che si ritiene essere rilevante ora è sottolineare il contributo di Taruffo allo sviluppo del diritto processuale brasiliano.
In questa direzione e nel campo esclusivamente scientifico, non è esagerato affermare che, se venisse effettuata una ricerca specifica sugli autori stranieri più citati in Brasile, tra questi troveremmo sicuramente il nome di Taruffo, vista la profondità dei suoi lavori e data la trasversalità e multidisciplinarietà delle sue opere. Per esempio, un saggio giuridico, pubblicato in Brasile, sul diritto delle prove, sull’argomentazione giuridica e sulla motivazione della sentenza, sul sistema dei precedenti giudiziali e altri argomenti, non sarebbe completo ed esaustivo senza il riferimento alle innumerevoli opere di Taruffo su tali temi.
Dinanzi ad una così ampia influenza e rilevanza delle opere di Taruffo sui giuristi brasiliani, è naturale e prevedibile che le sue idee abbiano superato le barriere accademiche, per andare a ripercuotersi anche sul lavoro del legislatore e dei giudici brasiliani, come viene testimoniato dallo stesso nuovo codice di procedura civile redatto nel 2015. Infatti, nel richiamato codice (il più importante per la regolamentazione della giustizia in Brasile) sono state introdotte disposizioni, la cui elaborazione si deve, senza dubbio, al contributo scientifico di Taruffo.
In questa direzione, per esempio, possiamo citare l’art. 489, § 1º, del codice di procedura civile del 2015, in cui vengono previsti specifici casi di nullità della decisione per vizio di motivazione. Infatti, secondo il diritto brasiliano, è considerata nulla quella decisione che si limita a riprodurre un atto normativo senza spiegare la relazione con i fatti di causa o la questione decisa. Parimenti si considera nulla quella decisione che utilizza concetti indeterminati senza spiegare la sua incidenza e la sua rilevanza nel caso concreto, così come nulla sarà quella decisione che contiene dei motivi che potrebbero essere applicati a qualsiasi altra decisione. Inoltre, viene considerata nulla anche quella decisione che non affronta tutti gli argomenti dedotti dalle parti e quella che non motiva adeguatamente l’applicazione o meno di precedenti giudiziali.
Se il diritto brasiliano si è evoluto ed è riuscito a progredire nel considerare i richiamati casi come motivi di nullità di una decisione, è proprio grazie agli insegnamenti di Taruffo sulla funzione endo-processuale ed extraprocessuale della motivazione e sulla necessità della sua completezza, quale conseguenza della garanzia del contraddittorio; insegnamenti che sono contenuti nell’opera “La motivazione della sentenza civile” e che sono stati accolti e diffusi in Brasile, ove si sono consolidati tra i giuristi. Allo stesso modo, l’introduzione – nel c.p.c. brasiliano del 2015 – di norme previste per la promozione dell’efficacia orizzontale (art. 926) e verticale (art. 927) dei precedenti giudiziali, mediante una adeguata motivazione, si deve all’opera di Taruffo, il quale, a partire dai suoi studi sulla teoria dell’argomentazione e sul diritto comparato, è stato più volte pioniere tra i giuristi di civil law, per dimostrare l’importanza del rispetto dei precedenti, quale forma di promozione della isonomia e della certezza del diritto.
Pertanto, se, purtroppo, il Professor Taruffo non sarà più fisicamente presente tra noi, sicuramente le sue opere e il suo contributo saranno perpetui per i giuristi e per tutti gli operatori del diritto in Brasile, come accadde in precedenza rispetto all’opera del suo conterraneo Enrico Tullio Liebman. A noi, discepoli ed ammiratori delle opere di questi grandi maestri, spetterà sempre il compito di ricordarli ed onorarli come essi meritano, con tutte le forme possibili di riconoscimento e gratitudine.
Un ricordo del Maestro
di Daniel Mitidiero
Il giorno 10 dicembre 2020 è cominciato tramontato – è venuto a mancare il Maestro Michele Taruffo. Come in tutto il mondo, in Brasile il sentimento è di chiusura di una epoca. Sono molto addolorato.
Ho studiato con il Maestro a Pavia nel 2013. Dopo, ho curato l’organizzazione di un libro di suoi saggi [1] e tradotto in portoghese il suo La Motivazione[2]. Ancora, ho tradotto e comparato con il diritto brasiliano il suo La Giustizia in Italia, che il Maestro ha aggiornato fino al 2018[3] e tradotto, aggiornato e comparato con il diritto brasiliano il suo La Giustizia Civile negli Stati Uniti[4]. Ho imparato molto.
Adesso rendo un ricordo del Maestro – un omaggio[5]. Ho scelto di dire qualcosa sul precedente – uno dei temi che ci ha uniti. Ricordo un dialogo con il Maestro sul binding effect del precedente.
I precedenti provengono esclusivamente dalle Corti Supreme[6] e sono sempre obbligatori – ossia, vincolanti. Diversamente, potrebbero essere confusi con semplici esempi[7]. Ciò vale a dire che esiste un forte effetto vincolante dei precedenti (“strong-binding-force”)[8]. Questa autorità del precedente ovviamente non dipende della legge. In realtà, l'autorità del precedente dipende dal fatto che incarna il significato attribuito al diritto dalle Corti Supreme. Vale a dire: l'autorità del precedente è la stessa autorità del diritto interpretato e l'autorità di chi lo interpreta.
La comprensione della teoria dell'interpretazione in una prospettiva logico-argomentativa distoglie l'attenzione esclusivamente dalla legge e la colloca anche nel precedente, di modo che la libertà e l'uguaglianza siano pensate anche a partire dal prodotto dell'interpretazione e la certezza giuridica rispetto ad un quadro che ricomprende tanto l'attività interpretativa come il suo risultato. In questo modo, il precedente, essendo frutto della ricostruzione del significato della legislazione, diventa il massimo garante della libertà, dell'uguaglianza e della certezza giuridica nello Stato Costituzionale. Di conseguenza, il precedente giudiziale costituisce una fonte primaria del Diritto[9], la cui efficacia vincolante non dipende né dal costume giudiziale e dalla dottrina[10], né dalla bontà e dalla congruenza sociale delle ragioni invocate[11] e nemmeno da una norma costituzionale o legale che così stabilisce, ma dalla forza istituzionalizzante dell'interpretazione giurisdizionale[12], cioè, dalla forza istituzionale della giurisdizione come funzione fondamentale dello Stato.
La forza vincolante del precedente giudiziale non dipende, così, da una manifestazione specifica di diritto positivo. È conseguenza di una determinata concezione rispetto a ciò che è il Diritto e del valore che deve essere riconosciuto all'interpretazione. Il vincolo al precedente risulta, di conseguenza, dalla considerazione dell'ordinamento giuridico come un tutt'uno e, in particolare, dal valore che deve essere dato alla libertà, all'uguaglianza e alla certezza giuridica. Ciò significa che il vincolo al precedente non esiste solo nei casi in cui una determinata regola del diritto positivo riconosce efficacia normativa generale alle ragioni che si incontrano alla base di certe decisioni giudiziali. Il precedente, una volta formato, integra l'ordinamento giuridico come fonte primaria del Diritto e deve essere preso in considerazione nel momento dell'identificazione della norma applicabile al determinato caso concreto. Vale a dire: integra l'ambito protetto della certezza giuridica oggettivamente considerata, come elemento indissociabile della conoscibilità.
Essendo parte integrante dell'ordinamento giuridico, il precedente deve essere preso in considerazione come parametro necessario per valutare l'uguaglianza di tutti di fronte all'ordinamento giuridico, per definire lo spazio di libertà di ognuno e per accrescere la certezza giuridica. Questo implica che casi uguali siano trattati in modo uguale da tutti gli organi giurisdizionali a partire dal contenuto dei precedenti e che l'esigenza di conoscibilità relativa alla certezza giuridica tenga conto del processo di interpretazione giudiziale del Diritto e del suo risultato.
Ciò significa che il rifiuto di applicare un precedente giudiziale costituisce rifiuto di vincolarsi al Diritto. É necessario che questo sia detto chiaramente. In una prospettiva logico-argomentativa – e, in fondo, in ogni prospettiva teorica che riconosca la differenza tra testo e norma – è imprescindibile la vigenza della regola dello stare decisis come condizione sine qua non dello Stato Costituzionale. Come osserva la dottrina, “there is a peculiar relationship between the idea of following precedents and the idea that there are rules of law that are established by judicial decisions”[13]. Questa peculiare affermazione è molto chiara: se il Diritto non è definito solo dalla decisione giudiziale, se il testo legale non è veicolo di un unico significato intrinseco che è definito solamente dal Potere Giudiziario, ma è in qualche modo affermato (“established”) dalle decisioni giudiziarie, allora la fedeltà al precedente è il mezzo attraverso il quale l'ordinamento giuridico acquista unità, diventando un ambiente certo, libero e isonomico[14], predicati senza i quali nessun ordinamento giuridico potrebbe essere riconosciuto come legittimo. Queste sono le ragioni per le quali, nel nostro ordinamento giuridico, i precedenti sono vincolanti.
Il nostro Maestro, tuttavia, nega la possibilità di riferirsi propriamente a precedenti vincolanti, preferendo parlare di “forza del precedente per indicare il grado, o l'intensità con cui esso riesce ad influire sulle decisioni successive”[15]. In questa linea, riferisce criticamente la dottrina che “da un lato, non è appropriato dire che il precedente di common law è vincolante, nel senso che ne derivi un vero e proprio obbligo del secondo giudice di attenersi al precedente. È noto che anche nel sistema inglese, che pare essere quello in cui il precedente è dotato di maggiore efficacia, i giudici usano numerose e sofisticate tecniche argomentative, tra cui il distinguishing e l'overruling, al fine di non considerarsi vincolati dal precedente che non intendono seguire. Rimane dunque vero che in quell'ordinamento il precedente è dotato di notevole forza, in quanto ci si aspetta che in linea di massima il giudice successivo lo segua – come infatti solitamente accade –, ma questa forza è sempre defeasible, poiché il secondo giudice può disattendere il precedente quando ritiene opportuno farlo al fine di formulare una soluzione più giusta del caso che deve decidere”[16].
Tuttavia, è necessario tenere presente, da un lato, che distinguishing e overruling sono tecniche che presuppongono la forza vincolante del precedente. La distinzione serve giustamente per mostrare che non c'è analogia possibile tra i casi, di modo che il caso resta fuori dall'ambito del precedente[17]. L'overruling è il superamento totale del precedente ed è un potere attribuito solo agli organi incaricati della sua formulazione attraverso un complesso carico argomentativo, che implica la dimostrazione del logorio del precedente per quanto riguarda la sua congruenza sociale e consistenza sistemica[18]. La distinzione e il superamento, quindi, sono tecniche che, lungi dal negare il vincolo al precedente, lo presuppongono. D'altro canto, in una prospettiva logico-argomentativa dell'interpretazione, la defeasibility è lungi dall'essere una caratteristica limitata al precedente giudiziale. Come osserva la dottrina, il superamento costante delle norme è una caratteristica del Diritto nel suo insieme[19], di modo che un simile argomento non serva anche ad invalidare la forza vincolante del precedente.
Taruffo ha probabilmente ragione in questo dibattito. Questo, però, adesso non importa. Ciò che conta è sottolineare “il privilegio di aver conosciuto la sfida di un maestro autentico”[20]. Grazie, Maestro, per tutto.
[1] Conforme Michele Taruffo, Processo Civil Comparado – Ensaios, apresentação, organização e tradução de Daniel Mitidiero. São Paulo: Marcial Pons, 2013.
[2] Conforme Michele Taruffo, A Motivação da Sentença Civil, tradução de Daniel Mitidiero, Rafael Abreu e Vitor de Paula Ramos. São Paulo: Marcial Pons, 2015.
[3] Conforme Michele Taruffo e Daniel Mitidiero, A Justiça Civil – da Itália ao Brasil, dos Setecentos a Hoje. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2018.
[4] Conforme Geoffrey Hazard Jr., Michele Taruffo e Daniel Mitidiero, A Justiça Civil – dos Estados Unidos ao Brasil. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2021 (in corso di pubblicazione).
[5] Grazie a Roberto Conti, a Federico Penna ed alla Rivista Giustizia Insieme per l’opportunità.
[6] Conforme Michele Taruffo, “Precedente e Giurisprudenza”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile. Milano: Giuffrè, 2007, p. 718. Ampiamente sul precedente nel diritto italiano, Luca Passanante, Il Precedente Impossibile. Torino: Giappichelli, 2018.
[7] Conforme Frederick Schauer, Thinking like a Lawyer. Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 2009, p. 38.
[8] Conforme Pierluigi Chiassoni, “The Philosophy of Precedent: Conceptual Analysis and Rational Reconstruction”, On the Philosophy of Precedent. Stuttgart: Franz Steiner, 2012, p. 32.
[9]Conforme Giuseppe Zaccaria, La Giurisprudenza come Fonte di Diritto – Un´Evoluzione Storica e Teorica. Napoli: Editoriale Scientifica, 2007, pp. 7/21.
[10] Come sosteneva Carl Friedrich von Savigny (1779 – 1861), System des heutigen römischen Rechts. Berlin: Veit und Comp., 1840, pp. 34/38 (Gewohnheitsrecht – costume giuridico) e pp. 45/49 (Wissenschaftliches Recht – diritto scientifico o semplicemente dottrina), tomo I.
[11] Come sosteneva Josef Esser (1910 – 1999), “Richterrecht, Gerichtsgebrauch und Gewohnheitsrecht”. In: Esser, Josef; Thieme, Hans (coords.), Festschrift für Fritz von Hippel zum 70 Geburtstag. Tübingen, Mohr Siebeck, 1967, pp. 95/130.
[12] Conforme Martin Kriele, Theorie der Rechtsgewinnung entwickelt am Problem der Verfassungsinterpretation. Berlin: Duncker & Humblot, 1967, pp. 243 e seguenti; Gino Gorla (1906 – 1992), “L´Uniforme Interpretazione della Legge e i Tribunali Supremi” (1976), Diritto Comparato e Diritto Comune Europeo. Milano: Giuffrè, 1981, pp. 511/540; Giuseppe Zaccaria, La Giurisprudenza come Fonte di Diritto – Un´Evoluzione Storica e Teorica. Napoli: Editoriale Scientifica, 2007, p. 21.
[13] Conforme Theodore Benditt, “The Rule of Precedent”, Precedent in Law. Oxford: Oxford University Press, 1987, p. 94.
[14] Conforme Theodore Benditt, “The Rule of Precedent”, Precedent in Law. Oxford: Oxford University Press, 1987, pp. 89/91.
[15] Conforme Michele Taruffo, “Precedente e Giurisprudenza”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile Milano: Giuffrè, 2007, p. 716, con supporto in Aleksander Peczenik, The Binding Force of Precedent, Interpreting Precedents – A Comparative Study. Aldershot: Ashgate Darthmouth, 1997, pp. 461/479, nonostante quest'ultimo osserva, giustamente, che “no doubt, formal bindingness may be regarded as a non-graded concept, like ‘pregnant’: a precedent is formally binding or not, and it cannot be binding to a degree” (The Binding Force of Precedent, Interpreting Precedents – A Comparative Study. Aldershot: Ashgate Darthmouth, 1997, p. 478).
[16] Conforme Michele Taruffo, “Precedente e Giurisprudenza”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile. Milano: Giuffrè, 2007, p. 716.
[17] Conforme Neil Duxbury, The Nature and Authority of Precedent. Cambridge: Cambridge University Press, 2008, p. 113.
[18] Conforme Melvin Eisenberg, The Nature of the Common Law. Cambridge: Harvard University Press, 1991, pp. 104/105.
[19] Conforme Neil MacCormick, Rhetoric and the Rule of Law. Oxford: Oxford University Press, 2005, pp. 237/253.
[20] Come ha scritto il proprio Taruffo a Denti, “Omaggio al Maestro”, Studi in Onore di Vittorio Denti. Padova: Cedam, 1994, p. X, vol. I.
Giustizia insieme ricorda e celebra la giornata mondiale della pace con due interventi che danno plasticamente il senso dell'impegno che la comunità dei giuristi ha il compito di perseguire con costanza e convinzione, ciascuno nel proprio ambito, al servizio della pace tra i popoli e della tolleranza, anche dopo un anno difficile come quello appena trascorso.
Guido Raimondi, Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell'uomo, si sofferma sul ruolo centrale svolto dalla CEDU e dalla Corte edu nel processo di radicamento e diffusione della pace, quale moderatore di violenza attraverso la garanzia del rispetto degli obblighi internazionali e della protezione dei diritti fondamentali. Diritti, questi ultimi, che, fuori dai confini europei hanno estrema difficoltà ad essere considerati e protetti, come testimoniano le dolorose vicende Regeni e Zaki che hanno polarizzato l'attenzione preoccupata dell'Italia e del mondo intero.
Barbara Spinelli, con il suo splendido reportage - del quale oggi pubblichiamo la prima delle tre parti di cui si compone - sul ruolo dell'avvocatura turca e sulla situazione interna di quel Paese, membro del Consiglio d'Europa e della NATO, ci regala un documento che ha sicuramente valore storico per la ricostruzione delle vicende che muovono dalle persecuzioni nei confronti della popolazione curda, ma che anche dimostra l'importanza dell'impegno delle organizzazioni internazionali, sotto il cui scudo la Spinelli ha potuto operare sul campo, raccogliendo testimonianze preziose di episodi particolarmente toccanti e cruciali per comprendere il contesto turco.
Il reportage della Spinelli rende omaggio alla memoria della sua collega Ebru Timtik, morta a causa dello sciopero della fame intrapreso in carcere per protestare contro la violazione dei diritti fondamentali perpetuata in ambito processuale e conclama la centralità del ruolo dell'avvocatura nel documentare gli eventi che si verificano nel sud-est della Turchia e nel sostenere le vittime delle violazioni dei diritti umani. Una Avvocatura "dispensatrice di protezione" per il popolo turco e per tutte le democrazie occidentali, indispensabile per la prosecuzione del processo di continua cooperazione e collaborazione fra giudici ed avvocati sull'accidentato terreno dei diritti fondamentali che li vedi entrambi protagonisti.
La giornata mondiale della pace alle soglie del 2021[1]
di Guido Raimondi
Molto opportunamente Giustizia Insieme ha voluto raccogliere alcune riflessioni nell’occasione della giornata della pace, e sono molto grato alla Direzione per avermi invitato a contribuirvi.
L’invito mi offre l’opportunità di porre l’accento sul ruolo fondamentale che il sistema europeo di protezione dei diritti umani, del quale la Corte europea dei diritti dell’uomo è in qualche modo la più alta garante, svolge per la pace.
Nel 1975 Papa Paolo VI ricordava come “…l’uomo contemporaneo, che ha dolorosamente sperimentato in questo secolo manifestazioni apocalittiche di violenza tra i popoli, aspiri alla pace, sempre più convinto che l’odio e la distruzione non possono risolvere i problemi fondamentali della umana e civile convivenza.”[2]
Il movimento internazionale per la protezione dei diritti dell’uomo, nella forma in cui lo conosciamo oggi, nasce proprio all’indomani dell’immane tragedia della seconda guerra mondiale. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata a Parigi dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, viene affermato il principio del dovere di ogni Stato di rispettare i diritti fondamentali degli individui, un dovere del quale esso è internazionalmente responsabile. Nel suo Preambolo la Dichiarazione universale ricorda che “ il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali e inalienabili ” costituisce “ il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” e che è “essenziale d’incoraggiare lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni”.
Anche se la Dichiarazione universale, nonostante la sua elevatissima autorità morale, non ha forza vincolante, essa segna una tappa fondamentale nell’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo.
Fino alla seconda guerra mondiale, il diritto internazionale in sostanza non conosceva il dovere degli Stati di tutelare i diritti individuali, questione che era generalmente ricompresa negli “affari interni” di ciascuna nazione, affari nei quali gli altri membri della comunità internazionale avevano il dovere di non ingerirsi. In uno scritto del 1936 di un grande internazionalista italiano, Rolando Quadri, La sudditanza nel diritto internazionale[3], l’omaggio reso alla sovranità statale giungeva al punto di limitare ogni forma di tutela individuale in pratica ai soli casi di protezione dei cittadini stranieri, mentre il rapporto tra lo Stato e i suoi propri cittadini si poteva considerare addirittura assimilabile a quello del proprietario con i suoi beni.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, è il primo strumento internazionale con il quale i diritti enunciati nella Dichiarazione universale sono stati resi vincolanti. All’indomani di un conflitto mondiale caratterizzato dalla barbarie nazista, gli autori della Convenzione hanno voluto esprimere il loro attaccamento a dei valori comuni: la democrazia, il rispetto delle libertà, il primato del diritto. E’ proprio lo Stato di diritto ciò che ci distingue come europei. Si tratta di una conquista della nostra civiltà, un bastione che si erge contro la tirannia e a tutela della pace.
L’aspetto più importante della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è proprio quello della creazione di una giurisdizione internazionale, la Corte di Strasburgo, con il compito di vegliare al rispetto da parte degli Stati degli impegni presi con quest’atto, così istaurando un ordine europeo di protezione dei diritti fondamentali. La Corte europea è così divenuta la garante di uno spazio comune di protezione dei diritti e delle libertà.
Era molto chiaro agli autori della Convenzione il rapporto strettissimo tra la necessità di un controllo a livello internazionale del rispetto dei diritti umani e la pace. Era stato proprio il “lassismo” della comunità internazionale nei confronti delle violazioni dei diritti umani all’interno degli Stati, in omaggio al principio del rispetto della sovranità degli Stati, a creare le condizioni per il conflitto. Di qui l’accettazione, non facile soprattutto per le potenze vincitrici, di un meccanismo di controllo internazionale, dotato di poteri vincolanti, a tutela del rispetto dei diritti dei singoli. Una limitazione di sovranità che era accettata per il suo alto valore di garanzia della pace.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che nel suo Preambolo si riferisce alla Dichiarazione universale, ricorda che “lo scopo del Consiglio d’Europa è di realizzare un’unione più stretta tra i suoi membri”, ciò che implica la pace e la tolleranza tra le nazioni e i popoli. La Convenzione riafferma allo stesso tempo l’attaccamento degli Stati firmatari “alle libertà fondamentali che costituiscono le assise stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento riposa essenzialmente su di un regime politico sinceramente democratico da una parte e, d’altra parte, su di una comune concezione e un comune rispetto dei diritti dell’uomo che essi sostengono.”
Sia lo Statuto del Consiglio d’Europa sia la Convenzione collocano nei loro rispettivi preamboli la nozione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in vista della giustizia e della pace. Il rispetto dei diritti dell’uomo è dunque un elemento essenziale delle politiche dirette ad assicurare la giustizia e la pace sul piano nazionale e su quello internazionale.
La Convenzione si vede, innanzitutto, come uno strumento di concordia tra gli Stati europei intorno a un “patrimonio comune d’ideale e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e di primato del diritto”. Non troviamo nella Convenzione la parola “tolleranza”, ma essa si riferisce più volte alla nozione di “società democratica”, e la tolleranza, come il pluralismo, è uno degli elementi caratteristici della società democratica.
E’ in questo spirito e con lo scopo di salvaguardare questi valori che la Corte di Strasburgo ha, da oltre sessant’anni, elaborato una giurisprudenza che è, io credo, fattore di pace e di tolleranza.
Vorrei darne qualche esempio, in particolare a proposito della lotta contro il terrorismo, della ricerca della pace sociale, della libertà di espressione, del rifiuto del discorso di odio e del negazionismo, al pluralismo e alla laicità.
Tutti questi obiettivi sono stati raggiunti attraverso decisioni relative a Paesi molto differenti tra loro, in circostanze talvolta simili, talvolta totalmente diverse.
La nostra Corte si è occupata in diversi casi della questione del terrorismo, questo flagello che mette in pericolo la pace civile e internazionale, del quale dobbiamo constatare purtroppo ai giorni nostri una terribile recrudescenza.
La lotta al terrorismo è non solo legittima secondo la Convenzione, ma risponde anche a un dovere degli Stati, sui quali incombono le obbligazioni positive di proteggere la vita e l’integrità fisica delle popolazioni. Tuttavia non va dimenticato che preservare i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione a tutti gli individui, anche ai terroristi, permette alle nostre società democratiche di combattere il terrorismo senza negare se stesse. Le misure prese dagli Stati devono rispettare i diritti dell’uomo e il primato del diritto e prescindere da ogni atto arbitrario e da ogni atto discriminatorio o peggio razzista. Tali misure devono essere oggetto di un controllo appropriato. Usare le stesse armi dei terroristi sarebbe fare il loro gioco, abbassando le società democratiche al livello dei fanatici e ricorrendo alla forza sproporzionata contro la violenza illegittima.
Nel 1978 la Corte ha pronunciato, in un caso interstatale, Irlanda c. Regno Unito, una sentenza alla cui origine si trovava la crisi che ai quei tempi attraversava l’Irlanda del Nord. In un contesto che aveva visto centinaia di morti e migliaia di feriti a causa della violenza organizzata da un movimento clandestino, l’esercito repubblicano irlandese (IRA), e nel quale il governo britannico aveva attivato il meccanismo di deroga parziale agli obblighi convenzionali previsto dall’articolo 15 della Convenzione europea, le autorità dell’Irlanda del Nord aveva fatto ricorso a dei poteri speciali che includevano l’arresto, la detenzione e l’internamento senza processo di numerose persone. Il governo irlandese accusava il Regno Unito di aver violato diversi articoli della Convenzione, facendo valere che molte delle persone arrestate avevano subito maltrattamenti, che i poteri speciali non erano compatibili con la Convenzione, e infine che il modo nel quale tali poteri erano stati esercitati costituiva una discriminazione basata sulle opinioni politiche.
La Corte ha sanzionato il Regno Unito per avere, nel quadro delle misure eccezionali prese per mantenere l’ordine, praticato dei trattamenti disumani e degradanti, in violazione del divieto assoluto di questi trattamenti che è previsto dall’articolo 3 della Convenzione. Relativamente all’attivazione del meccanismo derogatorio di cui all’articolo 15, la Corte ha ricordato, al di là dei casi individuali, che spetta a ciascuno Stato contraente, responsabile della vita della nazione, di determinare se un pericolo pubblico la minacci e, se questo è il caso, di stabilire fino a che punto occorre spingersi per contrastarlo. Su questo, la Corte ha detto che in linea di principio le autorità nazionali sono meglio collocate del giudice internazionale per giudicare dell’esistenza di un tale pericolo e sulla natura e l’estensione delle deroghe necessarie per impedirlo. La Corte ha giudicato, tenendo conto del “margine di apprezzamento” lasciato agli Stati dall’articolo 15 che le deroghe all’articolo 5 della Convenzione, che protegge la libertà personale, non avevano superato la stretta misura richiesta dal pericolo pubblico che minacciava la vita della nazione.
C’è un punto importante che vorrei sottolineare: in questo caso uno Stato ha deciso di affidare alla Corte europea dei diritti dell’uomo il compito di dire se un altro Stato aveva o no violato un testo internazionale. Si può facilmente immaginare come nei secoli passati conflitti del genere sarebbero stati risolti. Scegliendo la via giudiziaria invece che quella delle armi, gli Stati dimostrano che effettivamente la Corte europea è ai loro occhi uno strumento di pace.
In questo caso la Corte ha ritenuto le restrizioni al diritto alla libertà personale protetto dall’articolo 5 della Convenzione proporzionate al pericolo corso dalla nazione. Non vorrei dare l’impressione che la Corte, in situazioni speciali di pericolo, rilasci agli Stati una specie di assegno in bianco. In un altro caso, A. c. Regno Unito, deciso nel 2009, nel quale pure erano in gioco misure derogatorie dell’articolo 5 della Convenzione, questa volta prese in seguito alla situazione di pericolo creata dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, la Corte ha ritenuto corretta la dichiarazione di stato di pericolo nonostante gli attentati non si fossero svolti sul territorio britannico, ma ha ritenuto che le misure prese, che permettevano la detenzione senza limiti soltanto degli stranieri, avessero ecceduto la stretta misura richiesta dalla situazione di pericolo.
Un altro affare, che ha permesso alla Corte di prendere posizione sull’articolo 2 della Convenzione, che protegge il diritto alla vita, e che, come il caso del 1978, aveva come tela di fondo la lotta contro l’IRA, è il caso McCann c. Regno Unito, sentenza del 1996. I fatti si erano svolti a Gibilterra e concernevano tre membri dell’IRA, sospettati di preparare un attentato dinamitardo, che furono uccisi da agenti britannici di sicurezza durante il loro arresto. La Corte ha ricordato che l’articolo 2 della Convenzione, che garantisce il diritto alla vita, si colloca tra le disposizioni di più grande importanza della Convenzione e consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. Queste disposizioni devono essere strettamente interpretate. Così, nel caso di specie la Corte si è detta non convinta che la morte dei tre terroristi fosse il risultato di un ricorso alla forza letale reso assolutamente necessario per assicurare la difesa contro la violenza illegale, e ha concluso per la violazione dell’articolo 2. Questa sentenza ha dato luogo a molte discussioni e controversie, ma resta una tappa fondamentale della giurisprudenza della Corte europea.
L'ultimo esempio nella lotta contro il terrorismo che vorrei citare è la sentenza Aksoy c. Turchia, con la quale la Corte ha dichiarato nel 1996 che sottoporre un individuo alla cosiddetta "impiccagione palestinese" era un fatto di natura così grave e crudele da dover essere qualificato come “tortura” ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Sempre nello stesso caso, sul terreno dell’articolo 5, n. 3 della Convenzione, da applicarsi nel quadro del regime derogatorio di cui all’articolo 15 della Convenzione, la Corte, pur riconoscendo che la portata e gli effetti dell'attività terroristica del PKK nella Turchia sud-orientale aveva creato un'emergenza pubblica che minacciava la vita della nazione, ha constatato la violazione della Convenzione per il fatto che la ricorrente non aveva ottenuto garanzie procedurali sufficienti per almeno 14 giorni.
In tutti e quattro i casi la Corte ha quindi ricordato l'equilibrio essenziale tra il dovere degli Stati di utilizzare contro il terrorismo la forza, ma solo la forza legittima, mantenendo le garanzie sostanziali e procedurali dalla Convenzione.
La Corte può anche avere un ruolo molto utile per favorire la pace sociale e il dialogo tra coloro che si affrontano. Penso in particolare alla sentenza nel caso della Chiesa metropolitana di Bessarabia c. Moldova, del 2001. La chiesa ricorrente si era dovuta confrontare con il rifiuto di riconoscimento che ad essa era stata opposta dalle autorità moldave. La Corte ha ritenuto che il governo convenuto, facendo dipendere il riconoscimento dalla volontà di un’autorità ecclesiastica già riconosciuta, cioè la Chiesa metropolitana di Moldova, aveva mancato al suo dovere di neutralità e di imparzialità verso i culti. Qui la Corte ha constatato la violazione dell’articolo 9 della Convenzione, che protegge la libertà di religione. Così facendo, la Corte si è sforzata di preservare la coesistenza di diversi culti. Credo che si possa leggere in questa sentenza un incoraggiamento della Corte diretto alle persone e alle istituzioni perché vivano e coesistano in armonia.
In materia di libertà di espressione, la Corte ha da tempo considerato che la possibilità per ciascuno di esprimersi è una componente essenziale della società democratica. Lo spirito di tolleranza esige che – in tutti i campi – il dibattito sia aperto. Un buon esempio è la sentenza Erdost c. Turchia del 2005. Il ricorrente era l’autore di un’opera che ripercorreva gli avvenimenti sanguinosi che si erano verificati nella città di Sivas, nel sud-est del Paese, dove avevano avuto luogo delle persecuzioni extragiudiziarie contro la minoranza degli Alevi. Ritenendo che il libro contenesse della propaganda separatista contro l’integrità dello Stato, il procuratore della Repubblica competente si era rivolto al giudice, ottenendo la confisca dell’opera e la condanna dell’autore a un anno di prigione e al pagamento di un’ammenda.
La Corte di Strasburgo ha considerato che l’opera non era di natura tale da giustificare la condanna penale dell’interessato alla stregua dell’articolo 10 della Convenzione, che protegge per l’appunto la libertà di espressione. La condanna e la confisca non rispondevano a un bisogno sociale imperioso e dunque non erano “necessari in una società democratica”. La Corte è sempre particolarmente esigente nei casi di restrizione della libertà di espressione, specialmente quando vengono irrogate pene privative della libertà. La libertà di stampa contribuisce alla pace sociale e alla tolleranza.
Certamente, se il pluralismo deve permettere a tutte le opinioni di esprimersi, non va dimenticato che alcune attentano ai fondamenti delle nostre democrazie. La tolleranza è certamente il rifiuto del razzismo e della xenofobia. Vero è che la Corte sceglie talvolta di privilegiare la libertà di espressione dei giornalisti rispetto al diritto degli altri di essere protetti contro la discriminazione razziale, come è accaduto nel caso Jersild c, Danimarca, sentenza del 1994, nella quale la sanzione irrogata ad un giornalista televisivo, che aveva lasciato alcuni invitati ad una sua trasmissione profferire ingiurie gratuite di carattere schiettamente razzistico, è stata ritenuta non conforme alle esigenze dell’articolo 10. In una società aperta e tollerante tutte le idee devono poter essere dibattute. Si tratta in qualche modo di una diga contro il settarismo che impedisce il dibattito. Tuttavia, questo non significa che si debba accettare il cosiddetto discorso d’odio.
In certi casi, la Corte ammette delle ingerenze nella libertà di stampa e di espressione. Nel caso Sûrek c. Turchia, del 1999, la Corte ricorda che l’articolo 10 § 2 della Convenzione non lascia in sostanza spazio a restrizioni alla libertà di espressione nel campo del discorso politico ovvero quando si tratti di questioni d’interesse generale. Quando però si tratta di incitazione alla violenza contro un individuo, di un rappresentante dello Stato o di una parte della popolazione, le autorità nazionali godono di un margine discrezionale (marge d’appréciation) più ampio nel loro esame della necessità dell’ingerenza. Ciò che è sanzionato è il discorso d’odio e l’apologia della violenza. La tolleranza trova così i suoi limiti. In questo caso, la rivista edita dal ricorrente aveva pubblicato articoli contenenti incitazione alla violenza. Il ricorrente era stato sanzionato penalmente con pesanti pene pecuniarie, ritenute dalla Corte compatibili con le esigenze dell’articolo 10 della Convenzione, che quindi non si doveva considerare violato.
Vorrei ancora citare due casi che riguardano la Francia e che entrambi si sono conclusi con una decisione d’inammissibilità.
Il primo caso, Garaudy c. Francia, deciso nel 2003, riguardava Roger Garaudy, filosofo e scrittore, che era stato dichiarato colpevole dei delitti di contestazione di crimini contro l'umanità, cioè negazionismo, di diffamazione pubblica contro un gruppo di persone, cioè la comunità ebraica, e di provocazione alla discriminazione e all’odio razziale.
Il secondo caso, ‘Mbala ‘Mbala c. Francia, deciso nel 2015, riguardava invece un noto intrattenitore, meglio conosciuto come Dieudonné, che era stato sanzionato perché nel corso di uno spettacolo aveva invitato a salire sul palco, per ricevere l’applauso del pubblico, un personaggio, Robert Faurisson, che era stato condannato a diverse riprese in Francia per le sue tesi negazioniste e revisioniste che negavano l’esistenza delle camere a gas omicide nei campi di concentramento nazisti.
In entrambi i casi la Corte si è riferita a un articolo della Convenzione che è raramente applicato, l’articolo 17, che vieta l’abuso di diritto. Questa disposizione ha lo scopo di impedire agli individui di invocare sulla base della Convenzione un diritto che permetta loro di compiere un’attività o un atto diretto a sopprimere i diritti e le libertà previsti dalla Convenzione. In questi casi, quindi, l’articolo 10 della Convenzione non entra proprio in gioco. Si capisce che è una decisione grave, ma la Corte adotta questo approccio solo in casi veramente estremi.
Secondo la Corte, non c’è dubbio che contestare la realtà di fatti storici che sono chiaramente accertati, come l’Olocausto, non è azione inquadrabile in un lavoro di ricerca storica volto a stabilire la verità. Azioni di questo genere hanno infatti come scopo e come oggetto quelli di riabilitare il regime nazista e, per conseguenza, di accusare le vittime stesse della barbarie nazista di aver falsificato la storia. Il negazionismo appare allora come una delle forme più acute di diffamazione razziale contro il popolo ebraico e d’incitazione all’odio nei suoi confronti. La negazione o la revisione dei fatti storici di questo tipo rimettono in causa i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo e sono alla base stessa della Convenzione e possono gravemente turbare l’ordine pubblico. Atti di questo genere sono incompatibili con la democrazia e i diritti dell’uomo, e rientrano nel campo degli obiettivi vietati dall’articolo 17. Accordare a queste odiose manifestazioni la protezione della Convenzione significherebbe sviare l’articolo 10 dalla sua vera funzione, utilizzandolo a fini contrari all’insieme della Convenzione.
Cosa dire ora della libertà politica? Perché ci sia pace sociale, il pluralismo è indispensabile e tutte le opinioni devono potersi liberamente esprimere. E’ una affermazione ricorrente nella giurisprudenza della Corte quella secondo cui “non vi è democrazia senza pluralismo”.
Nel caso Refah Partisi c. Turchia del 2003, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sullo scioglimento di un partito politico pronunciato dalla Corte costituzionale turca. La Corte europea ha ricordato che solo ragioni convincenti e imperative possono giustificare la restrizione alla libertà d’associazione dei partiti politici, protetta dall’articolo 11 della Convenzione, giacché il margine discrezionale (marge d’appréciation) degli Stati in questo campo è ridotto. La Corte ha osservato che il progetto politico del partito disciolto si allontanava notevolmente dai valori della Convenzione, in particolare con riguardo alle regole di diritto penale e di procedura penale, al ruolo e alla posizione delle donne e all’azione di questo partito in tutte le sfere della vita privata e pubblica. Inoltre, il partito disciolto non escludeva il ricorso alla forza al fine di realizzare il proprio progetto e di mantenere al potere il sistema previsto. Questi progetti essendo in contraddizione con il concetto di società democratica, la Corte di Strasburgo ha considerato che la sanzione dello scioglimento rispondeva a un bisogno sociale imperioso e che le ingerenze oggetto del ricorso non si potevano considerare sproporzionate.
Gli stessi principi sono stati affermati dalla Corte, più recentemente, nel caso Batasuna e Herri Batasuna c. Spagna, deciso nel 2009. In questo caso è stato ritenuto conforme all’articolo 11 della Convenzione lo scioglimento di un partito che non solo rifiutava di condannare il terrorismo, ma implicitamente lo sosteneva e ne faceva l’apologia.
In un settore vicino, quello della laicità, vorrei citare il caso Leyla Şahin c. Turchia, del 2005. Questo caso riguardava il divieto di portare il foulard islamico all’università. La Corte, dopo aver considerato che la disposizione interna litigiosa, cioè una circolare che sottoponeva la possibilità di indossare il foulard a delle restrizioni di luogo e di forma nelle università costituiva certamente un’ingerenza nell’esercizio da parte dell’interessata di del diritto di manifestare le sue convinzioni religiose, ha ritenuto che questa ingerenza avesse una base legale in diritto turco e che la signorina Sahin poteva prevedere, fin dal suo ingresso all’università, che la possibilità di indossare il foulard era regolamentata e che, a partire dall’entrata in vigore della stessa disposizione nel 1998, ella rischiava di vedersi rifiutare l’accesso ai corsi e agli esami continuando a indossarlo. Secondo la Corte di Strasburgo, questa ingerenza era fondata in particolare sui principi di laicità e di eguaglianza. Secondo la giurisprudenza costituzionale turca, la laicità si colloca alla confluenza tra libertà e eguaglianza. Questo principio proibisce allo Stato di testimoniare una preferenza per una religione o una credenza precisa, e guida così lo Stato nel suo ruolo di arbitro imparziale e implica necessariamente la libertà di religione e di coscienza. Lo stesso principio tende egualmente a premunire l’individuo non solo contro le ingerenze arbitrarie dello Stato, ma anche contro pressioni esterne provenienti da movimenti estremisti.
Tuttavia non tutti gli Stati sono laici, e la Corte ammette che occorre lasciare un margine di apprezzamento a ciascuno Stato, a proposito dei delicati rapporti tra Stato e Chiesa, come essa ha detto per esempio nel caso Cha’are Shalom c. Francia del 2000. La Corte ha anche detto che l’organizzazione da parte dello Stato dell’esercizio di un culto concorre alla pace religiosa e alla tolleranza.
E’ in questo spirito che s’inscrive la nota sentenza Lautsi c. Italia, del 2011, con la quale la Corte ha ritenuto compatibile con la Convenzione l’esposizione del crocifisso nelle scuole italiane.
* * *
Le sentenze e le decisioni delle quali ho parlato riguardano situazioni molto differenti, ma hanno contribuito a creare una vera e propria giurisprudenza, creativa ed evolutiva.
Questa giurisprudenza s’impone agli Stati in applicazione dell’articolo 46 della Convenzione. Essi sono dunque obbligati ad applicarla sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ciò che fa pesare su di essi la pressione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale.
D’altra parte, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha finito per impregnare, non senza resistenze, la prassi degli Stati e ha contribuito a rafforzare la pace civile. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo vuole essere un incoraggiamento alla tolleranza. A questo proposito, tutto quello che riguarda la libertà di espressione è particolarmente significativo. La Corte ammette le “idee che urtano, sconvolgono o inquietano”, ma trova dei limiti a questa libertà, specialmente per proteggere i diritti dei più deboli o per mantenere la pace sociale.
Sappiamo che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è andata a incontro a critiche contraddittorie. Alcuni lamentano che essa abbia interpretato la Convenzione in maniera eccessivamente creativa. Altri trovano che esse sia stata troppo timida. Certamente, la Corte non può fare tutto. L’Europa non è mai al riparo da un rischio di guerra, né dallo svilupparsi di un clima d’intolleranza. La Convenzione non ha potuto evitare il conflitto nell’ex-Iugoslavia, né quelli più recenti tra Georgia e Russia, tra Russia e Ucraina e tra Azerbaijan e Armenia, né altre situazioni di conflitto alle quali mi sono riferito.
Ma la Corte, per parafrasare quanto si diceva negli anni '60, quando ci si riferiva alle Nazioni Unite come un moderatore di potenza, può essere considerata, come dice il Jean-Paul Costa, ex Presidente della Corte di Strasburgo, un moderatore di violenza, fisica o anche verbale.
Credo che sia un suo grande merito. Si tratta, in ogni caso, di uno dei suoi obbiettivi, cioè porre la protezione dei diritti dell’uomo, che è già un fine in sé, al servizio della tolleranza e della pace.
Abbiamo visto che laddove questo scudo non è presente, le derive son molto facili. Penso al tragico caso Regeni, laddove il “diritto alla verità”, insito nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e che nella nostra parte del mondo tendiamo a dare per scontato, appare di molto difficile realizzazione, e alla drammatica vicenda di Patrick Zaki, che giustamente preoccupa al più alto grado l’opinione pubblica italiana e non solo.
La generazione che ci ha preceduto ha vissuto il dramma della guerra globale. A noi questa tragedia è stato risparmiata. Credo che debba essere nostro fermo impegno ricordare che se questo è stato possibile, il merito va al progetto europeo, del quale il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è parte essenziale.
In un momento nel quale assistiamo a una fragilizzazione dell’idea di Europa e a un ripiegamento su se stessi di alcuni Stati del nostro continente, con forti tensioni intorno alla stessa idea del metodo democratico, credo che l’esempio dei fondatori del progetto europeo, e in particolare dei padri della Convenzione, ci debba rammentare il nostro dovere di lavorare sempre e con entusiasmo per l’Europa. Lo dobbiamo alla loro memoria e anche alle generazioni che ci seguiranno, consapevoli delle nostre responsabilità, in nome dell’universalità dei diritti umani, anche verso quelle parti del mondo che non hanno la fortuna di godere di un sistema di tutela dei diritti umani quale quello che i nostri predecessori hanno avuto la lungimiranza di lasciarci.
[1] Questo scritto rielabora un intervento svolto a Rovereto, alla Fondazione Opera Campana dei caduti, il 20 ottobre 2017, in Questione Giustizia, 2017.
[2] S.S. PAOLO VI, Discorso per la giornata dei caduti di tutte le guerre, 17 settembre 1975, facilmente reperibile in rete.
[3] R. QUADRI, La sudditanza nel diritto internazionale, Padova, CEDAM, 1936.
Io non perdono e non dimentico, ma non odio (L.Segre)
Riflessioni di Giuseppe Savagnone - Odio, perdono, memoria e verità - e Tommaso Manzon - Quale diritto? Quale giustizia? -
Liliana Segre, nel corso di una conversazione con gli studienti - l'ultima, per sua scelta, il 9 ottobre 2020 nella Cittadella della Pace di Arezzo, sede dell’organizzazione internazionale impegnata nella trasformazione creativa dei conflitti - è tornata su argomenti già in passato affrontati, ribadendo che rispetto allo sterminio nazista ha ritenuto di non dovere e potere perdonare il male altrui, in nome di un dovere di ricordare che andava unito al dovere, non meno cogente, di non odiare.
Il tema del perdono rispetto al crimine contro l'umanità più doloroso che il pensiero umano ricordi è risalente e già Primo Levi e Simon Wiesenthal, più volte, non mancarono di offrire una chiave di lettura sostanzialmente simile a quella espressa da Liliana Segre.
Giustizia insieme ha voluto riportare la riflessione su questo punto, riconoscendo che il contenuto di quella presa di posizione stimola in chi vi si accosta nuovi interrogativi. Alcuni immediatamente legati alla prospettiva religiosa che, in un Paese a larga maggioranza cattolica, istintivamente sembra rendere quella posizione distonica rispetto ad uno dei valori portanti del cristianesimo; altri ancora più difficili da sciogliere se si cerca di andare al fondo del significato di quella scelta.
Questi temi, che chiamano in causa questioni di grande complessità - odio, memoria, verità (e post-verità), perdono, ma anche dignità nella sua poliedrica accezione - sono stati proposti a due studiosi, l'uno di formazione evangelica- Tommaso Manzon-, l'altro di estrazione cattolica -Giuseppe Savagnone- che hanno offerto prospettive ed approfondimenti assai stimolanti.
Odio, perdono, memoria e verità
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Perdono e non perdono nella prospettiva ebraica - 2. Odio e perdono - 3. Perdono e memoria - 4. Memoria e verità.
1. Perdono e non perdono nella prospettiva ebraica
Le parole di Liliana Segre - «Io non perdono e non dimentico, ma non odio» - nel suo intervento alla conferenza «Science for peace», organizzata all’Università Bocconi di Milano nel novembre del 2019, poi riproposte nell'incontro del 9 ottobre 2020 nella Cittadella della Pace– possono essere lette da diversi punti di vista.
Sicuramente significativo può essere considerare questa affermazione alla luce della concezione ebraica del perdono, per certi versi affine, per altri diversa rispetto a quella del cristianesimo. Scrive a questo proposito Ariel Di Porto, rabbino capo della comunità ebraica di Torino: «All’interno della concezione del perdono ebraica è possibile individuare tre elementi distintivi, che la differenziano da quella cristiana – secondo la quale non è indispensabile che chi ha offeso si penta e prescinde dalla gravità della colpa – : l’obbligo di perdonare è sottoposto al pentimento e alla richiesta di persona da parte di chi ha compiuto l’offesa; non tutte le colpe possono essere perdonate; non è possibile perdonare a nome di qualcun altro» [1].
La prima condizione è imprescindibile. Il rabbino Riccardo Di Segni, in una intervista su questo tema, sottolinea che, nella prospettiva ebraica, il perdono «si ottiene con la richiesta di perdono da parte della persona che ha arrecato offesa a chi ne è stato vittima: deve esserci un sincero desiderio di riconciliazione, consapevolezza dell’azione fatta e intenzione a non ripeterla più»[2].
Chi ha recato l’offesa, insomma, deve prendere coscienza di ciò che ha fatto e cambiare radicalmente atteggiamento. È la ‘Teshuvà’. Spiega Di Segni: «‘Teshuvà’ rappresenta il ‘ritorno’: è l’impegno che uno fa a non commettere più una certa colpa rendendosi conto della gravità della stessa. Dopo questi atti chi ha recato offesa deve riconciliarsi con l’offeso, chiedendogli il perdono. A sua volta l’offeso deve concedergli il perdono; può rifiutarlo per due volte, alla terza deve cedere; se non lo fa, chi ha offeso non è più tenuto a chiedere scusa»[3].
E’ innegabile che siamo davanti a una condizione del tutto ragionevole. Ma quando Gesù, sulla croce, chiede a Dio di perdonare i suoi aguzzini - «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) - , non sembra subordinare la sua richiesta alla loro conversione. Né vi accenna nell’invito rivolto ai suoi discepoli: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe» (Mc 11,25).
C’è poi la seconda condizione, la gravità della colpa commessa. Alla domanda: «Ci sono colpe che non possono essere perdonate?», Di Segni risponde: « La questione è molto complicata: al limite possono esistere tali colpe, ma molto dipende dall’atteggiamento di chi si è comportato male»[4].
Il riferimento spontaneo è alla tragedia dell’Olocausto: «Nel suo Girasole, Simon Wiesenthal pone una domanda estremamente lacerante: come ci si deve comportare di fronte alla richiesta di perdono di una SS morente? L’autore scrive: “Io avrei dovuto perdonargli? O potuto perdonargli? E gli altri avrebbero dovuto o potuto farlo? (…) So che molti mi comprenderanno e approveranno il mio comportamento verso la SS morente. Ma so pure che altrettanti mi condanneranno per non aver aiutato un assassino pentito a chiudere gli occhi in pace”»[5].
È chiaro che, anche in presenza di un pentimento sincero, come può essere quello di un uomo in punto di morte, per l’ebraismo «ci sono colpe che non possono essere perdonate». E l’Olocausto è evidentemente una di esse: come scrive Di Porto, «la Shoah è un crimine troppo grande per essere perdonato, i cui esecutori hanno superato abbondantemente il limite della “perdonabilità”»[6].
Ancora una volta, la visione cristiana del perdono appare più radicale e, se vogliamo, meno accettabile dal comune buon senso. La colpa per cui, nella sua passione, Gesù invoca la remissione - l’assassinio del Figlio di Dio - è stata, agli occhi dei cristiani la peggiore che mai sia stata commessa,
Si potrà dire che nella storia successiva essi, per molti secoli, non hanno affatto perdonato agli ebrei e li hanno spietatamente perseguitati, accusandoli di “deicidio”. Ma questa è stata una loro vergognosa infedeltà allo spirito allo spirito del vangelo, di cui Giovanni Paolo II, nel 2000, a sua volta ha chiesto pubblicamente perdono e che non rispecchia la dottrina cattolica, secondo la quale «non c’è nessuna colpa, per grave che sia, che non possa essere perdonata dalla santa Chiesa»[7].
Quanto all’ultima condizione, secondo la tradizione ebraica nel perdono «non esistono deleghe (...); ciascuno può perdonare il male arrecatogli a chi glielo ha fatto»[8]. Ora, nel caso della Shoah, «la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime»[9].
In realtà questa condizione non vale, evidentemente, per Liliana Segre, ma certamente bastano le altre due per rendere perfettamente comprensibile la sua posizione di ebrea di fronte alla persecuzione di cui è stata vittima.
2. Odio e perdono
L’affermazione su cui stiamo riflettendo - «Io non perdono e non dimentico, ma non odio» - si presta però ad un altro tipo di lettura che, a prescindere dalle diverse tradizioni religiose, ne metta a fuoco il significato semplicemente umano.
Qui è in primo piano il rapporto tra odio, perdono e memoria. Liliana Segre pone una netta divaricazione tra il primo termine e gli altri due, che invece collega strettamente. Lasciamo per un momento da parte il rapporto tra perdono e memoria, per focalizzare la nostra attenzione piuttosto su quello tra odio e perdono. E’ possibile non odiare, quando ci si rifiuta di perdonare o comunque non si riesce a farlo?
L’odio, di per sé, è un sentimento di rifiuto radicale dell’altro, che porta a desiderare la sua distruzione. Può anche radicarsi e diventare un permanente atteggiamento interiore, anzi perfino un approccio culturale, se ai fattori emotivi si uniscono delle ragioni che giustificano questo atteggiamento, agli occhi di chi lo assume. In quest’ultimo caso, l’odio è spesso un fenomeno che va al di là della sfera puramente individuale e coinvolge dei gruppi più o meno numerosi.
Specialmente come clima culturale collettivo esso non è necessariamente connesso al problema del perdono. C’è un odio che non nasce dall’aver subìto dei torti, ma da una segreta paura dell’implicita minaccia che deriva dalla stessa esistenza dell’altro, per il solo fatto della sua diversità.
Ne è un tipico esempio l’odio che spessissimo, in passato e fino ai giorni nostri, ha contrapposto fra loro persone di nazionalità divise da ataviche inimicizie: ebrei e palestinesi, greci e turchi - per citare solo alcuni casi di cui parlano le cronache - sono divisi da un odio collettivo che prescinde dai rapporti personali tra i membri dei due gruppi e che non esclude che a volte essi, a livello individuale, riescano a superare, anche se con difficoltà, le diffidenze e i pregiudizi reciproci.
Appartiene a questa categoria dell’odio “collettivo” quello razziale, che fa sentire i membri di un’intera categoria di persone – i neri, gli ebrei, i rom – , anche se appartenenti alla propria stessa nazionalità, come un potenziale pericolo, non a causa di atti concreti compiuti dai singoli, ma in base al solo fatto di esistere. Anche in questo caso, i singoli dei rispettivi gruppi possono superare questo atteggiamento culturale e stringere fra loro dei legami di amicizia o sentimentali.
Più arduo è questo superamento quando entrano in gioco gravi torti subìti a livello personale, che richiedono il perdono. Significativo, per quanto riguarda l’odio nazionalista, il racconto di Fred Zinnemann, nel suo film Storia di una monaca (1959), della vicenda di una suora che, proprio perché incapace di perdonare, abbandona la sua vocazione religiosa per entrare nella resistenza francese contro l’occupazione nazista, spinta dall’odio per i tedeschi che le hanno ucciso il padre.
Qui la mancanza di perdono produce l’odio, che si manifesta nel desiderio di vendetta. Si può però negare il perdono a chi ci ha fatto del male, senza per questo nutrire quel sentimento, che spingerebbe a vendicarsi e a distruggere il responsabile.
Sembra questo il caso di Liliana Segre, impegnata a combattere il clima di odio che domina la nostra società a vari livelli e promotrice di uno stile di rispetto reciproco e di dialogo, ma non per questo disposta a considerare superato il male che lei stessa e il suo popolo hanno subìto nell’Olocausto.
3. Perdono e memoria
Questa impossibilità di perdonare sembra, dalle sua parole, strettamente associata al suo rifiuto di dimenticare. Chi perdona accetta che l’altro, il colpevole, venga reintegrato nella sua dignità, lo riconosce nella sua umanità anche dopo ciò che ha compiuto. Liliana Segre - pur rinunziando ad odiare i responsabili della Shoah e i loro tristi epigoni contemporanei - , non ritiene di poter fare questo gesto, perché rifiuta di dimenticare. Non è solo una incapacità: è una scelta, percepita come doverosa verso se stessi, verso le vittime, verso l’intera società.
Non si può non ammirare questa fedeltà alla memoria, specialmente in un tempo come il nostro, dove essa è ormai molto rara. Abbiamo assistito e assistiamo ogni giorno al triste spettacolo di personaggi politici che, all’indomani di una loro presa di posizione chiara e netta, sostengono di “non aver mai detto” quello che hanno detto. Dove ciò che è più grave non è la loro sfacciata menzogna, ma il fatto che questa, invece di essere subito rilevata e contestata con indignazione, venga avallata da un silenzio che è un implicito consenso.
Lo stesso, peraltro, vale per i fatti. E’ come se le cose accadute negli anni – a volte addirittura nei mesi - precedenti non fossero mai accadute. Comportamenti stigmatizzati, allora, dalla coscienza comune, non immunizzano l’opinione pubblica dal fidarsi ciecamente di chi ne è stato responsabile. Al passato nessuno guarda e, se lo fa, è per inventarselo secondo il proprio interesse. Nessuno ricorda nulla.
Questa crisi della memoria è in realtà una crisi dell’essere umano. Noi siamo i nostri ricordi. Spogliate un individuo delle cose che ha esperito, che ha appreso, che conserva come sua storia, e non resterà che una creatura smarrita e incapace di affrontare le sfide della vita.
La memoria, aveva già spiegato Agostino, è il nostro modo di trattenere nell’essere ciò che accade. “L’attimo fuggente” del presente dura un istante e inesorabilmente sprofonda nel nulla. Solo il ricordo di ciò che è stato ne perpetua l’esistenza, almeno dentro di noi. Dimenticare è già un morire. Per questo le malattie che colpiscono la memoria sono forse le più tremende.
Ma se una intera società – la nostra – è colpita da questa incapacità di ricordare e di custodire il suo passato, allora il dramma diventa collettivo. Ne è una manifestazione il negazionismo in quelle sue forme che implicano l’annullamento della storia. Quella che riguarda l’Olocausto è una delle più sconcertanti.
È già triste vedere tanti dimenticare che i vaccini hanno praticamente eliminato – nei Paesi dove sono stati fatti – malattie spaventose, come il vaiolo o la poliomelite. Ma il rifiuto, a dispetto di ogni evidenza, di riconoscere un crimine che ha causato sei milioni di morti, mette in discussione la comune appartenenza a un storia, lacera la comunità umana. E fa temere che, dietro la smemoratezza, si nasconda una segreta connivenza con quel crimine, o, peggio, l’intenzione di giustificarne la ripetizione nel futuro.
Per questo Liliana Segre ha non solo il diritto, ma il dovere – come tutti noi – di non dimenticare. Resta la domanda se davvero da questo debba seguire come conseguenza inevitabile anche la negazione del perdono.
A metterlo in dubbio è la semplice constatazione che per perdonare bisogna avere memoria del male sofferto e della colpa dell’altro. Solo una concezione superficiale del perdono può ridurlo a un impossibile “fare come se nulla fosse accaduto”. Chi perdona ricorda fin troppo bene che cosa è accaduto e le responsabilità dei colpevoli.
Per questo il perdono è una manifestazione di illimitata misericordia che ha inevitabilmente a che fare con una prospettiva religiosa. In fondo, solo Dio può perdonare. Questo vale per ogni perdono, anche se diventa ancora più evidente nel perdono cristiano, con la sua sfida ad ogni elementare criterio di reciprocità e di buon senso umano. Chi perdona lo fa solo a nome di Dio e può farlo perché, grazie a Lui, ha perdonato prima di tutto se stesso.
Da ciò deriva anche il carattere creativo del perdono, che non si limita a esonerare dall’odio verso l’altro, ma vuole restituirgli la sua umanità perduta. Quando il padre della parabola evangelica (cfr Lc, 15,11ss), che non ha certo mai dimenticato la colpa del figlio, lo accoglie nel suo perdono, lo ricostituisce nella sua dignità, facendolo rivestire con il vestito più bello e facendogli mettere al dito l’anello.
Questa gratuità, però, paradossalmente è più esigente di qualunque patto preliminare. Il perdono chiede al colpevole – non come condizione, ma come rinnovamento suscitato dal perdono stesso - un impegno a cambiare. Ancora nel vangelo questo aspetto è messo in luce nell’episodio della donna adultera. Sono significative le parole di Gesù, quando, dopo la sua sfida a scagliare la prima pietra, gli accusatori se ne sono andati ed egli rimane da solo con l’accusata: «“Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più”» (Gv 8,10-11).
Rispettiamo dal profondo la posizione di Liliana Segre. Resta comunque ammirevole la sua capacità di andare al di là dell’odio e dello spirito di vendetta. Ma forse proprio la sua speranza di contribuire a un mondo diverso, in cui non ci siano più carnefici né vittime, può trovare la sua piena giustificazione solo nell’esperienza, misteriosamente creativa, di una memoria che perdona.
4. Memoria e verità
Si può ricordare solo ciò che è realmente accaduto. Sullo sfondo della presa di posizione di Liliana Segre nei confronti dei negazionisti c’è non solo il diritto – anzi il dovere – della memoria, ma la rivendicazione della verità dei terribili eventi della Shoah.
Certo, oggi risuona più attuale che mai la domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). La definizione classica di Aristotele, secondo cui verità è «dire che è quello che è e che non è quello che non è»[10], implicava due elementi, il “dire” (o pensare) da parte del soggetto, e la realtà che questo dire esprime.
Un elegante relativismo tende oggi a mettere tra parentesi il secondo elemento. Da quando gli Oxford Dictionaries hanno indicato come “parola dell’anno”, per il 2016, il termine inglese post-truth (in italiano “post-verità”), sempre più questo concetto si è imposto nella nostra cultura corrente, sui social e sui mezzi di informazione. Per “post-verità” si intende un’«argomentazione, caratterizzata da un forte appello all'emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l'opinione pubblica» [11].
Qui si pretende sia superata la tradizionale contrapposizione tra “vero” e “falso”. La post-verità, infatti, non è “falsa”, anche se non è neppure propriamente “vera”. Viene presentata come un nuovo modello di verità, che fa riferimento a una realtà mutevole e riducibile alle infinite interpretazioni che se ne possono dare, a seconda dei diversi punti di vista individuali e culturali.
Un ruolo importante, per l’affermazione di questo modo di intendere la verità, l’ha avuto l’avvento della “realtà virtuale”, il solo mezzo di rappresentazione della realtà finora inventato dagli uomini che nasconde il suo ruolo di intermediario e pretende di sostituirsi all’oggetto rappresentato. Al punto da farci credere nella sua presenza, anche quando fisicamente non c’è.
È significativa l’affermazione del nuovo genere costituito dal “giornalismo-spettacolo”, in cui si trovano uniti due termini in passato agli antipodi, poiché il primo indica la fedeltà ai fatti, il secondo la libera creazione di apparenze. Ma a questo punto, si ripresenta l’amaro interrogativo di Pilato: «Che cos’è la verità?»
Ma in quest’ottica, che significherebbe ricordare se non “ri-creare”, secondo le proprie esigenze e inclinazioni, un passato che in sé non avrebbe alcuna realtà?
A metterci in guardia nei confronti di questa prospettiva - che elimina l’elemento fondante della definizione di verità, la realtà - è il famoso romanzo di Georges Orwell 1984 (1949), dove si rappresenta una società dominata da un regime totalitario, in cui la memoria del passato è continuamente revisionata e manipolata da un apposito ufficio, che la riadatta di momento in momento alle scelte del “Grande Fratello”, il dittatore in carica.
Quanto questa negazione della memoria sia collegata a quella della verità emerge chiaramente nella vicenda del protagonista, un dissidente che viene crudelmente torturato non perché riveli in nomi dei compagni o dichiari la sua adesione al regime, ma perché ammetta che 2+2 non fa quattro, ma quello che il “Grande Fratello” decide. Dove si evidenzia che proprio la verità è l’ultimo baluardo della dignità e della libertà dell’essere umano, di fronte alla prevaricazione del potere e alla sua pretesa di decidere cosa è reale e cosa no.
La posta in gioco è dunque alta. Se non ci fosse verità, si sarebbe in balìa del più forte. Questo è particolarmente realistico nella vita pubblica del nostro Paese (e non solo di esso), dove – come una triste esperienza ci dimostra – il serio dibattito sulle questioni di comune interesse viene sostituito da uno scontro di macchine propagandistiche contrapposte e si impone chi riesce a sovrastare la voce degli altri. «Se è fin dall’inizio ovvio che di discutere non vale la pena, perché non c’è niente di oggettivo su cui discutere, allora (…) non cercherò di convincerti (…) farò meglio a vincerti» (R. De Monticelli). La realtà non conta più. E questa è la fine di una democrazia degna di questo nome.
Questo non vuol dire che i diversi punti di vista da cui essa viene osservata non debbano essere valorizzati. Anche il primo termine della definizione aristotelica è importante per capire che cosa è la verità. La filosofia ermeneutica ha giustamente sottolineato che il dualismo tra “oggettività” e “soggettività” è illusorio. La conoscenza oggettiva è sempre anche soggettiva, perché a conoscere il mondo è un soggetto, situato in un punto preciso dello spazio e del tempo, con la sua personalità, la sua storia, le sue esperienze. Non esiste “uno sguardo da nessun luogo”.
Perciò nessuno ha il diritto di pretendere che la sua opinione si identifichi con la verità nella sua totalità. Si tratta di una ricerca incessante, che procede per successive approssimazioni, nella consapevolezza della relatività della propria ottica e della necessità di confrontarla con quella degli altri, talora per integrarla, talora per correggerla.
Non bisogna però confondere questa relatività dei punti di vista col relativismo. Una montagna assume contorni molto diversi a seconda che la si guardi da lontano o da vicino, di fronte o di lato, ma è sempre di essa che parlano gli osservatori. Anzi, il fatto che ci si possa trovare talora in disaccordo, garantisce che questi punti di vista convergono su una comune verità. Come ha scritto Hannah Arendt, «solo dove le cose possono esser viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità, così che quelli che sono radunati intorno ad esse sanno di vedere la stessa cosa pur in una totale diversità, la realtà del mondo può apparire certa e sicura».
Per recuperare la memoria perduta – condizione del vero perdono – bisogna dunque tornare a prendere sul serio il concetto di verità, superando la diffidenza che ormai lo circonda nella nostra cultura.
Ad aiutarci in questo recupero può essere la consapevolezza che, se non ci fosse la verità, non ci sarebbero neppure le falsità. Ma da queste siamo ogni giorno, senza alcun dubbio, assediati! Il negazionismo è una di esse. E chi, come Liliana Segre, rifiuta di piegarsi a questa falsificazione della realtà, testimonia, oltre che la propria fedeltà alla memoria, che la verità esiste.
[1] A. Di Porto, La concezione ebraica del perdono, (13 settembre 2018), in «Confronti» 9/2018 (www.confronti.net).
[2] M. C. Strappaveccia, Il perdono per gli ebrei. Intervista a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, (14 aprile 2014), in «L’Indro» (www.lindro.it).
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] A. Di Porto, La concezione ebraica del perdono, cit.
[6] Ivi.
[7] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 982.
[8] Riccardo Di Segni, in M. C Strappaveccia, Il perdono per gli ebrei, cit.
[9] A. Di Porto, La concezione ebraica del perdono, cit.
[10] Aristotele, Metafisica, IV, c. 7, n. 1
[11] Enciclopedia Treccani, voce «Post-verità».
Quale diritto? Quale giustizia?
di Tommaso Manzon
“Voi dunque siate completi, come è completo il Padre vostro celeste” (Matteo 5:48)
“L’unico rapporto fruttuoso con gli uomini […] è l’amore, cioè la volontà di mantenere la comunione con loro. Dio non ha disprezzato gli uomini, ma si è fatto uomo per amor loro” (Dietrich Bonhoeffer[1])
Sommario: 1. Introduzione: quale diritto? Quale giustizia? - 2. La Croce - 3. Il diritto alla verità.
1. Introduzione: quale diritto? Quale giustizia?
Prima di tuffarmi nel tema di questo breve intervento, vorrei fare alcune premesse di metodo che mi sembrano doverose e necessarie. In primo luogo vorrei offrire la considerazione che in un dibattito o in uno studio di qualsiasi tipo non si dovrebbe mai discutere delle parole, bensì delle cose. Le parole sono veicoli di pensieri, concetti, stati d’animo che spesso possono generare offesa, divisione, e che talvolta possono trasformarsi in vere proprie armi. Allo stesso tempo però non bisogna perdere di vista che le parole sono “soltanto” questo, ossia dei veicoli: esse non sono completamente scollegate dalla realtà che significano, ma nemmeno s’identificano con essa. Pertanto se si vuole veramente capire qualcosa non bisogna fermarsi al livello dell’espressione verbale ma addentrarsi nell’ambito della “cosa in sé”. Questo è specialmente vero quando si esprimono punti di vista divergenti in merito allo stesso tema, e pertanto diventa necessario assicurarsi che il linguaggio di tutti sia effettivamente orientato nella stessa direzione. Per dirla in maniera il più semplice possibile, bisogna essere sicuri che stiamo parlando della stessa cosa; su quest’ultima possono benissimo esserci punti di vista differenti – possiamo in altri termini “non vederla tutti allo stesso modo” – ma dobbiamo essere sicuri che, ancora una volta, stiamo tutti parlando della medesima realtà. In secondo luogo e ben più brevemente vorrei specificare che questo contributo vuole proporre una meditazione che si muove all’interno della tradizione cristiana evangelica (o protestante, o riformata, che dir si voglia). Non si chiede al lettore di essere per forza d’accordo con quello che gli passa davanti agli occhi, ma solo di offrire un orecchio generoso.
Il soggetto che ci viene proposto è duplice: da un lato il diritto a non perdonare e a non dimenticare – accompagnati al contempo dal dovere di non odiare – e dall’altro la proposta di tematizzare tali questioni insieme a quella del diritto alla verità. Il punto di partenza per meditare su questi argomenti è “offerto” dalle parole della senatrice a vita Liliana Segre, pronunciate nel novembre del 2019 alla conferenza “Science for peace” presso l’Università Bocconi di Milano: “io non perdono e non dimentico, ma non odio”[2]. Io però vorrei spostarmi in un altro contesto, ovverosia quello dell’ultima apparizione pubblica della senatrice, tenutasi il 9 ottobre scorso a Rondine. In quest’occasione la Segre pronuncia quasi le medesime parole già utilizzate alla Bocconi, calandole però in un contesto che a mio parere ci spiegano meglio qual è per l’appunto “la cosa in sé” a cui vuole fare riferimento. In un primo momento nel discorso di Rondine la senatrice afferma: “non ho perdonato [i nazisti]. Non ho questa forza, io non ho perdonato come non ho dimenticato perché certe cose, io non riesco, non sono riuscita mai a perdonarle”[3]. In seguito, verso la conclusione del suo intervento, ricordando la tentazione avuta di raccogliere una pistola per uccidere uno dei suoi aguzzini, afferma: “io non ero quella che sono oggi, io mi ero nutrita di odio e di vendetta. Lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno ero diventata un’altra, quella che loro volevano che io diventassi. Un essere insensibile che sognava odio e sognava la vendetta. Pensai: adesso raccolgo questa pistola che tanto avevo visto usare e gli sparo […] fu un attimo. Fu un attimo importantissimo e decisivo nella mia vita, perché io capii che mai, per nessun motivo al mondo, io avrei potuto uccidere qualcuno, che io non ero come il mio assassino […] da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”[4]. Questo secondo estratto dell’intervento, mi pare, parafrasa e contestualizza l’affermazione sull’odio fatta dalla Segre alla Bocconi.
Come bene individuato dal Professor Savagnone nel suo intervento, la Segre lega a stretto giro la memoria al perdono: non si perdona perché non si dimentica; allo stesso tempo il carico di odio e di rancore – che nelle parole di Rondine assume i tratti di una vera e propria “possessione demoniaca” che trasforma le vittime in “esseri insensibili” e che non sono capaci di sognare altro che di restituire quanto subito – è passato, anzi, è il passato, memoria morta e non viva, che non diventa più presente ma che è relegata invece ad una fase precedente della propria esistenza e perciò viene messa da parte, impedendole così di avvelenare tutto quanto è avvenuto in seguito. Savagnone coglie a mio parere nel segno anche quando sottolinea come in questa prospettiva perdonare sarebbe – scusate il gioco di parole – imperdonabile, nella misura in cui parrebbe l’equivalente di dare un colpo di spugna a quanto è successo. In altri termini non si può fare con l’Olocausto quello che si fa con il proprio odio: quest’ultimo può e deve diventare morto ma il dolore subito deve rimanere memoria viva, presente, attiva e questo impedisce il perdono, nella misura in cui in quest’ottica perdonare sembrerebbe passare sopra questo dolore, facendo torto alla gravità dell’accaduto e dunque anche alla dignità dell’esperienza di chi ci è stato – e di chi ci è rimasto.
È giusto tutto ciò?
Posto che stia ben rappresentando i pensieri della senatrice – perché in fondo sto solo cercando di darne un’interpretazione plausibile – credo che nessuno di noi vorrebbe e potrebbe dire di no. A un livello della giustizia e del diritto umano, la senatrice ha fatto e la vede in un modo totalmente giustificabile. Anzi, la verità è che molti di noi avrebbero preso quella pistola e avrebbero sparato a quell’ufficiale tedesco senza pensarci troppo sopra. Direi quindi che Liliana Segre ha fatto meglio di tanti, dando dimostrazione di una solidità morale di cui si ha rara traccia. Se non credessi che ci fosse anche un’altra giustizia e un altro diritto di cui dover tenere conto, allora quest’intervento potrebbe benissimo finire qui. Voglio invece spostare momentaneamente il discorso dall’Europa del ’45 e del 2020 ad un altro luogo, per andare ad ascoltare quale sia la giustizia che proviene dal Calvario.
2. La Croce
Abraham Kuyper – noto pastore, filosofo, teologo e uomo di stato olandese vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo – scrive quanto segue all’inizio di uno dei suoi testi più noti: “non è dalla Grecia né da Roma che venne la rigenerazione della vita umana, bensì da Betlemme e dal Golgota”[5]. Da questo punto di vista l’affermazione di Kuyper ben rappresenta non solo una convinzione fondamentale della fede cristiana, ma anche nello specifico una particolare enfasi che caratterizza la famiglia delle chiese nate dalla Riforma. Fu Lutero che per primo pose con estrema chiarezza i termini della questione. Questo avvenne nel contesto della cosiddetta disputa di Heidelberg del 1518, allorquando gli agostiniani si riunirono per ascoltare le posizioni del professore di Wittenberg, diventando questa l’occasione e il luogo per dibattere parte dei temi contenuti in quelle 95 tesi che, travolte dal furore che seguì la loro pubblicazione, non erano poi di fatto mai state discusse[6]. Anche all’epoca venne chiesto a Lutero di formulare delle tesi – 28 tesi teologiche e 12 tesi filosofiche – ciascuna seguita da una breve spiegazione.
Le celeberrime tesi 19-20-21 recitano “colui che guarda alle cose invisibili di Dio come se fosse possibile percepirle nello scorrere degli eventi non merita di essere chiamato teologo [19]. Merita invece di essere chiamato teologo colui che comprende le cose visibili e manifeste di Dio per come esse appaiono attraverso la sofferenza e la croce [20]. Un teologo della gloria chiama ‘bene’ il male e ‘male’ il bene. Un teologo della croce dice le cose come stanno [21]”[7]. Tenendo presente che per Lutero il falso teologo e il teologo della gloria coincidono – mentre quella di “teologia della croce” è proprio la “cifra” con cui viene indicato il pensiero del sassone – nell’argomentazione in favore della 20° tesi egli afferma che è inutile conoscere Dio nella sua gloria e nella sua maestà se non lo si riconosce prima nella sua umiltà e vergogna, questo perché Dio stesso ha desiderato che lo si cercasse e gli si rendesse onore nel mentre il suo splendore era nascosto nel dolore del supplizio. Invertire i termini finirebbe per determinare una falsa idea di Dio, rendendo incomprensibile il contatto tra la sovranità e l’autorità di Dio e il modo del suo esercizio per come esso è incarnato visibilmente nella vita di Gesù di Nazaret. Sicché, conclude Lutero, si può riconoscere la vera identità di Dio e di conseguenza fare della vera teologia – cioè produrre un corretto discorso intorno a Dio – solamente in riferimento, a partire e attraverso la figura di Cristo crocifisso[8].
Le implicazioni della presa di posizione di Lutero sono molteplici e le tesi di Heidelberg, prese nel loro complesso, furono di una tale esplosività che finirono per aggiungere carburante al fuoco che accese la Riforma. Per quanto riguarda gli scopi limitati di questo scritto possiamo limitarci a constatare questo: se la giustizia manifesta la propria natura nel suo esercitarsi o manifestarsi e se Dio in quanto giudice supremo è colui che può esercitare la più alta giustizia e se infine accettiamo – anche solo momentaneamente per ipotesi – che la scena della crocifissione debba essere l’inizio di ogni corretta riflessione su Dio, allora dobbiamo concludere che la giustizia più alta si manifesta a partire dalla deposizione del suo stesso diritto. Dio come magistrato il quale al di sopra non ve ne è nessuno, mostra il proprio carattere a partire dalla rinuncia ad esercitare la funzione che gli è propria per essenza. Non solo: egli accetta di essere maledetto e ucciso dai colpevoli che potrebbe e che dovrebbe punire. Storicamente questo punto è stato manipolato da buona parte della tradizione cristiana e si è voluto incolpare esclusivamente il popolo ebraico di deicidio; ma la verità che emerge dal racconto evangelico è ben più profonda. Gesù di Nazaret viene tradito prima dalla Chiesa – nella persona di Giuda che lo vende e di Pietro che lo rinnega – poi viene tradito dal popolo eletto nella figura dei suoi massimi rappresentanti che lo accusano falsamente e lo consegnano alle autorità romane, infine viene tradito dal potere secolare – e quindi anche dai cosiddetti “gentili” ossia da tutta l’umanità non-ebrea che qui è rappresentata da Roma – allorché Ponzio Pilato, pur sapendolo e riconoscendolo pubblicamente innocente, prima lo fa frustare e poi lo condanna a morte.
Sebbene in ciascuno di questi gruppi vi sia chi si distingue dalla massa – il racconto dei vangeli ne fa menzione, per esempio, nelle donne che accompagnano Gesù alla croce, in Giuseppe di Arimatea e nella moglie di Ponzio Pilato – il messaggio è evidente per chi lo vuole comprendere: il “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” che Gesù leva al cielo in Luca 23:34 è diretto a un’intera umanità che si fa giudice del giudice, ribellandosi e maledicendo il proprio Creatore. E qui avviene il rovesciamento che Dio compie sulla croce: di fronte alla maledizione universale che l’umanità riversa su Dio, Egli non se ne fa travolgere ma la assorbe e la spegne, sicché Gesù dall’alto della croce intercede per i propri assassini nell’ora della sua morte, gli arti stesi non come se fosse inchiodato, ma come se stesse avvolgendo tutto il creato in un abbraccio.
3. Il diritto alla verità
Ma quella che ho chiamato la “giustizia” che viene dal Calvario non si conclude qui. Perché sarà anche vero che ogni discorso su Dio deve cominciare dalla croce, ma questo non significa che essa debba anche essere il suo termine. Se così fosse allora dovremmo arruolarci nella schiera di coloro che, con il barbuto di Treviri, affermano che la religione è l’“oppio dei popoli”. Perché se la morte in croce di Gesù fosse la fine della sua giustizia, quello che ci rimarrebbe sarebbe soltanto il grido di morte di un innocente massacrato – fosse pure di natura divina, questo farebbe ben poca differenza in termini pratici. Certo permarrebbe nella mente il pensiero di un’ingiustizia che chiede di essere controbilanciata dalla giusta punizione di coloro che sono colpevoli di averla commessa, ma ecco che così ci saremmo subito allontanati dal Calvario per marciare risolutamente verso Norimberga e i suoi tribunali. La giustizia che viene dal Calvario trova però il suo proseguimento, e quindi il resto della sua teologia, nella tomba che fu trovata vuota all’alba del terzo giorno.
Qui ci colleghiamo infine alla seconda parte del tema che ci è stato proposto, quello del diritto alla verità. Incamminandoci dal Calvario verso la tomba che era vuota, è stata occupata ed è tornata ad essere vuota, il diritto alla verità significa essere partecipi dell’esistenza della Verità: significa testimoniare di una vita risorta che non è il semplice prolungamento della vita precedente ma che è un nuovo inizio ed è in senso eminente la manifestazione infine visibile, anche al di là del dolore, della Verità che si è fatta uomo. Il dolore qui non è svanito, cancellato dalla storia, perché l’apostolo Tommaso testimonia delle ferite della crocifissione e quindi esse permangono anche nel corpo risorto. Ciò non di meno esse fanno parte delle cose del passato che non sono più, oramai tratti distintivi di un amore che “non tiene conto del male subito” (1Cor 13:5): Cristo infatti non risorge per radunare un esercito e vendicarsi, ma per dire a tutti che una nuova vita è iniziata e che chiunque lo desideri può ricevere anch’egli, gratuitamente, la sua porzione di Verità.
In tempi molto più recenti un altro pastore protestante di nome Martin Lutero – questo però faceva di cognome King e veniva dall’Alabama – scrisse:
“il male è talmente capace di dare forma agli eventi che Cesare vive in un palazzo mentre Cristo viene messo in croce, ma è quello stesso Cristo che ha spaccato la storia in due dividendola in ciò che viene prima e dopo di lui, sicché persino la vita di Cesare viene datata secondo il nome di Gesù. L’arco dell’universo morale è lungo, ma tende inevitabilmente verso la giustizia[.] La verità schiacciata al suolo riuscirà sempre a rialzarsi”[9].
Che le affermazioni del Dr. King possano risuonare ingenue e false sono sicuro che lo avesse messo in conto lui stesso. Esse infatti appaiono evidenti e ben fondate soltanto nella misura in cui questo stesso arco appare agli occhi di chi lo veda, ed il medesimo osservatore divenga inoltre testimone del rialzarsi della Verità. Allora soltanto appare chiaro come Cristo stia sopra Cesare e che una più alta giustizia, di cui è possibile diventare partecipi, avanza inesorabilmente nella storia verso la sua destinazione. Ma questo è possibile solamente a chi guarda all’universo avendo la croce e la tomba vuota come punto prospettico.
Torniamo da dove eravamo partiti, ossia dalla Segre e dalle sue parole. Che cosa dobbiamo dire della giustizia che traspare da quest’ultime e di quell’altra di cui abbiamo voluto rendere conto? Anche dopo tutto quello che abbiamo aggiunto, possiamo ancora dire che sia giusto affermare che la senatrice a vita Liliana Segre goda di un diritto a non perdonare? Sicuramente sì. Perché del resto chi potrebbe permettersi di dire a questa gran donna, che spicca in mezzo alla mediocrità a cui siamo ormai assuefatti, che dovrebbe andare al di là di sé stessa e delle atrocità che ha subito e di cui è stata testimone, per poi infine perdonare i propri aguzzini? Sicuramente chi scrive non può osare tanto, ma aggiungerei nemmeno chiunque altro. Nessuno può chiedere una cosa simile a un proprio pari. Del resto abbiamo già detto più sopra come la Segre abbia mostrato più integrità di quanto ci si sarebbe potuto aspettare e di quanta ne avremmo richiesta da lei se fossimo stati lì presenti, in quel lontano giorno del ’45 in Germania in cui decise di risparmiare il suo aguzzino. Liliana Segre ha così in un certo senso raggiunto il limite della giustizia umana, rifiutando di farsi modellare dal suo nemico e scegliendo invece di trovare forza in sé stessa e nella propria dirittura morale. Speriamo poi che quel tedesco a Norimberga ci sia andato per davvero e non solo figurativamente, e che abbia reso conto delle sue azioni di fronte a un tribunale umano; e grazie a Dio che ci sono state le varie Norimberghe della storia, dove uomini hanno cercato, per quanto i loro limiti consentissero, di fare giustizia dei vari Herman Gӧring e delle loro azioni. E da ciò ne deriva che da un certo punto di vista vi è un innegabile diritto a non dimenticare e alla verità: perché la storia della giustizia e dell’ingiustizia umana va ricordata, preservata, utilizzata onde evitare gli errori del passato – anche se, ahimè, ritengo che se l’arco dell’alta giustizia avanza sempre, lento, tortuoso, ma inarrestabile, quello della giustizia umana si ripete in modo spiralico, allargandosi sempre di più ma al contempo avvolgendosi su sé stesso.
In una prospettiva biblica bisogna dire che anche questa giustizia umana è stabilita da Dio e anch’essa procede dal suo carattere. “Non vi è autorità se non da Dio” scrive Paolo nella sua missiva ai Romani, per poi aggiungere che “il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male” (Romani: 13:1b, 4). Questo non implica porre un cappello “teocratico” sul potere politico e nello specifico su quello giudiziario – del resto Paolo scrive ai romani del primo secolo DC, che vivono in un impero che è ben lungi dal riconoscere il cristianesimo e che anzi ne è ancora quasi del tutto ignaro – bensì affermare che anche la giustizia degli uomini se esiste è perché, quando è ben esercitata, svolge un ruolo essenziale e ordinato da Dio. A questo fine, cioè quello di ben utilizzare la “spada” ed evitare il verificarsi del male, il magistrato e chi in generale si muove nell’ottica della giustizia umana ha diritto a non perdonare, a non dimenticare e a raccontare una verità che mantenga viva il ricordo, l’attenzione e il discernimento degli uomini. Questo però, prendendo esempio dalla Segre, dev’essere fatto senza uno spirito di vendetta e di odio – altrimenti anche chi porta la spada sarebbe meritevole di punizione – bensì per l’appunto con uno spirito di giustizia.
È chiaro che questa giustizia umana può intrecciarsi e anzi nutrirsi con l’altra giustizia di cui abbiamo parlato, la quale non annulla la prima ma la avvolge in una realtà più ampia, di cui del resto quella, essendo stabilita da Dio fa già parte sin dalla sua origine. La differenza è però che questa giustizia non può essere amministrata con la Spada. Ben dice Lutero sempre nelle tesi di Heidelberg, quando nella 28° e ultima tesi afferma che “l’amore di Dio non trova bensì crea ciò che è a esso gradito”[10]. Questo significa che la giustizia divina che inizia con la croce e finisce laddove conduce l’arco morale dell’universo non è una nostra creazione o qualcosa che possiamo reclamare; semmai possiamo semplicemente riceverla da Dio nel momento in cui egli la crea in noi. Per questo essa è una giustizia che non si può né comandare, né chiedere, né ce la si può aspettare – da Liliana Segre o da chiunque altro. Si può solamente testimoniare ed accogliere la testimonianza della croce e della tomba vuota che ne sono la radice e l’origine.
Bibliografia[11]
[1] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa: Lettere e scritti dal carcere, a cura di Eberhard Bethge, edizione italiana a cura di Alberto Gallas (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2015), p. 76.
[2] Liliana Segre, “Milano, Segre cita Levi: “non perdono e non dimentico, ma non odio”, Youtube.
[3] Liliana Segre, “L’ultima testimonianza di Liliana Segre ‘Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”, Youtube, minuto 55:00.
[4] Segre, “L’ultima testimonianza”, 1:11:00.
[5] Abraham Kuyper, Lezioni sul calvinismo (Caltanissetta: Alfa & Omega, 2020). Sulla notevole figura di Kuyper si può anche consultare l’eccellente biografia di James D. Brat, Abraham Kuyper. Calvinista moderno, cristiano democratico (Firenze: BE, 2018).
[6] Cfr. Alister E. McGrath, Luther’s Theology of the Cross: Martin Luther’s Theological Breakthrough, seconda edizione (Oxford: Wiley-Blackwell, 2011).
[7] Le tesi e il loro commento sono prese, tradotte e collazionate da Martin Lutero, Luther’s Works, a cura di Jaroslav Pelikan e Helmut T. Lehmann (Minneapolis: Fortress Press, 1957), pp. 39-58.
[8] Nelle parole di Jürgen Moltmann, un teologo riformato che disse di essere stato “trovato da Cristo” mentre era in un campo di prigionia alleato nonché un grande erede di Lutero, si può quindi affermare che “la teologia cristiana deve essere una teologia della croce, se essa vuole identificarsi attraverso Cristo come una teologia cristiana”. Jürgen Moltmann, The Crucified God (Minneapolis: Fortress Press, 2015), pp. 7, 44.
[9] Martin Luther King Jr., “Out of the Long Night”, in The Gospel Messenger, 08/02/1958, p. 14. Per dovere di precisione, bisogna specificare che l’espressione indicante l’arco dell’universo morale venne utilizzata per la prima volta da Theodore Parker, mentre le parole sulla verità sono indicate esplicitamente da King come una citazione di William Cullen Bryant. Cfr. Theodore Parker, Ten Sermons of Religion (Boston: Nichols and Company, 1853), p. 66.
[10] Si veda nota 6 supra.
[11] Bibliografia: Bonhoeffer, Dietrich, Resistenza e Resa: Lettere e scritti dal carcere, a cura di Eberhard Bethge, edizione italiana a cura di Alberto Gallas (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2015).
Brat, James D., Abraham Kuyper. Calvinista moderno, cristiano democratico (Firenze: BE, 2018).
King, Martin Luther Jr., “Out of the Long Night”, in The Gospel Messenger, 08/02/1958.
Kuyper, Abraham, Lezioni sul calvinismo (Caltanissetta: Alfa & Omega, 2020).
Lutero, Martin, Luther’s Works: Career of the Reformer, a cura di Harold J. Grimm e Helmut T. Lehmann (Minneapolis: Fortress Press, 1957).
McGrath, Alister E., Luther’s Theology of the Cross: Martin Luther’s Theological Breakthrough, seconda edizione (Oxford: Wiley-Blackwell, 2011).
Moltmann, Jürgen, The Crucified God (Minneapolis: Fortress Press, 2015).
Parker, Theodore, Ten Sermons of Religion by Theodore Parker (Boston: Nichols and Company, 1853).
Segre, Liliana, “L’ultima testimonianza di Liliana Segre ‘Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”, www.Youtube.com
Segre, Liliana, “Milano, Segre cita Levi: “non perdono e non dimentico, ma non odio”, www.Youtube.com
La giustizia tributaria tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali: le oscillanti scelte di politica giudiziaria e i motivi della diffidenza verso la giurisdizione ordinaria
di Domenico Pellegrini
Sommario: 1. Premessa. La giustizia tributaria tra giudici speciali e giudici ordinari - 2. Cenni storici sulla giustizia tributaria in Italia - 2.1. Cenni storici: l’esportazione della Rivoluzione Francese in Italia - 2.2. Cenni storici: la Restaurazione e l’esperienza degli Stati preunitari - 2.3. Cenni storici: la prima legislazione dello Stato unitario - 2.4. Cenni storici: la svolta liberale del 1865 con l’ingresso dei principi della Costituzione belga del 1831 - 2.5. Cenni storici: la legislazione fascista - 2.6. Cenni storici: la Costituzione repubblicana - 2.7. Cenni storici: la riforma del 1972 - 3. Il fil rouge che lega le scelte del legislatore dalla Costituzione francese dell’Anno VIII alla riforma del 1972 - 3.1. Il pre-giudizio verso la giurisdizione ordinaria nella legislazione pre-unitaria - 3.2. I limiti alla giurisdizione ordinaria nella legislazione post-unitaria - 3.3. Le ragioni della diffidenza del legislatore verso la giurisdizione ordinaria: insindacabilità dell’atto amministrativo e insufficienza tecnica nel comprendere i fenomeni economici - 3.4. L’emarginazione della giurisdizione ordinaria nella legislazione fascista - 3.5. Costituzione e riforma del 1972: verso la giurisdizionalizzazione dei giudici speciali - 3.6. La riforma del 1992: nascita della giurisdizione universale (speciale) in materia tributaria - 4. Conclusioni.
1. Premessa. La giustizia tributaria tra giudici speciali e giudici ordinari
L’attuale ordinamento della giustizia tributaria è il risultato di scelte di politica giudiziaria che, storicamente, hanno visto l’alternarsi di due opposte visioni del modello di tutela da approntare ai diritti dei contribuenti: da un lato una visione caratterizzata dal prevalere degli interessi fiscali dello Stato-amministrazione, dall’altro una visione più orientata a garantire una effettiva tutela del contribuente.
Il confronto tra le due visioni è avvenuto sul piano del riparto di giurisdizione tra giudici speciali, più o meno integrati nell’amministrazione attiva, e giudici ordinari, almeno formalmente caratterizzati da autonomia e indipendenza.
Storicamente, però, non si è assistito ad un percorso lineare ed evolutivo verso la competenza di una delle due giurisdizioni: piuttosto si è assistito a continue oscillazioni tra i due possibili sistemi (giudici speciali o giudici ordinari), oscillazioni che in realtà, fino alle ultime riforme del 1992, non avevano mai toccato gli estremi in quanto, anche nella prevalenza di uno dei due sistemi permanevano competenze a favore dell’altro.
Il movimento di tale pendolo ha peraltro intersecato le profonde modifiche istituzionali che hanno segnato il passaggio dagli statuti ottocenteschi alla Costituzione repubblicana: con il risultato che, pur oscillando sempre la scelta di come ripartire la giurisdizione tributaria tra giudice speciale e giudice ordinario, sono questi due estremi del percorso del pendolo ad essere mutati, ovverosia è mutato il contesto in cui oscillavano le scelte del legislatore di turno, da un lato per l’emergere della insopprimibile necessità di affrancare comunque il giudice speciale tributario dall’amministrazione attiva e dall’altro per l’affermarsi di principi di indipendenza ed autonomia del giudice ordinario che solo la Carta Costituzionale ha saputo garantire e che hanno profondamente modificato il rapporto tra il potere giudiziario e il potere esecutivo e quello legislativo.
Nonostante il mutamento del contesto in cui il pendolo delle riforme oscillava tra le due soluzioni rimangono costanti alcune ragioni di fondo che evidenziano, possiamo anticiparlo, una sostanziale diffidenza del potere politico verso la giurisdizione ordinaria stante essendo in gioco gli interessi fiscali dello Stato.
Per analizzare tali ragioni è utile ripercorrere, per rapidi cenni, la storia della giustizia tributaria italiana, e di queste continue oscillazioni tra due opposte soluzioni, di cui una non ha mai escluso l’altra almeno fino all’ultima riforma del 1992: ciò perché è il passato che spiega il perché si è pervenuti alle scelte odierne.
2. Cenni storici sulla giustizia tributaria in Italia
La maggior parte delle ricostruzioni storiche distingue quattro periodi caratterizzati, ciascuno, da incisivi interventi legislativi: il periodo che inizia con l’unità d’Italia, il ventennio fascista, il periodo repubblicano del dopoguerra con il lento attuarsi della Costituzione e da ultimo la riforma del 1992 (con i successivi interventi di completamento del nuovo sistema).
Senza pretesa di completezza ed esaustività è però utile ripercorrere i principali passaggi di tale percorso storico partendo ancora più a monte, dal modello pre-unitario che viene adottato in Italia sulla base del modello francese rivoluzionario e post-rivoluzionario e su cui interferisce, a livello di principi, quanto mutuato dal diritto costituzionale belga[1].
2.1. Cenni storici: l’esportazione della Rivoluzione Francese in Italia
Per quanto la Rivoluzione francese avesse eretto a cardine del sistema politico il principio della separazione dei poteri[2] di fatto il modello adottato già nel 1790 in Francia (legge di organizzazione giudiziaria del 16-24 agosto 1790) attribuiva all’amministrazione attiva la gestione del contenzioso tributario con l’eccezione dei tributi indiretti che rimasero di competenza dei tribunali ordinari.
Con la successiva riforma della Costituzione dell’Anno VIII furono istituiti i Consigli di Prefettura, competenti in tema di lavori pubblici, beni del demanio nazionale, viabilità e tributi diretti con possibilità di ricorso in appello al Consiglio di Stato. Ai giudici ordinari rimasero ugualmente i tributi indiretti.
È questo il modello francese che viene introdotto nell’Italia preunitaria con il terzo Statuto costituzionale del 5 giugno 1805 e i decreti 9 maggio e 8 giugno dello stesso anno: vengono istituiti anche nell’Italia preunitaria i Consigli di Prefettura dipartimentali con competenza su “1) le difficoltà che nascono fra i contribuenti per la esecuzione dei regolamenti censuari; 2) le difficoltà che insorgessero fra l’amministrazione e gli appaltatori delle pubbliche opere in fatto di esecuzione dei loro contratti; 3) i ricorsi dei particolari che reclamassero contro i danni che loro venissero dagli appaltatori; 4) le domande e le controversie concernenti l’indennità dovuta ai particolari a motivo dei fondi occupati, o scavati per la costruzione delle strade, canali ed altre pubbliche opere; 5) le domande che sono presentate dai comuni, e dagli stabilimenti di pubblica beneficenza ed istruzione per essere autorizzati a stare in giudizio” (art. 9, decreto 8 giugno 1805). Per l’Appello veniva costituito il Consiglio di Stato.
Nella sostanza, ed in estrema sintesi, il sistema francese, vigente sino al 1815, si fondava sulla distinzione per natura del tributo: ai giudici speciali (che facevano parte dell’amministrazione attiva pur con una embrionale distinzione operata con la creazione dei Consigli di Prefettura) i tributi diretti, ai giudici ordinari i tributi indiretti.
2.2. Cenni storici: la Restaurazione e l’esperienza degli Stati preunitari
Come è stato sottolineato[3] la Restaurazione eliminò in molti casi la struttura importata dall’ordinamento francese ma non “le esigenze e le ideologie di cui era il portato”.
Senza poter qui entrare nel dettaglio della storia dei singoli stati preunitari, risorti dopo il congresso di Vienna, si possono individuare due indirizzi, almeno apparentemente opposti, conseguenti alla Restaurazione: il mantenimento del modello francese, imperniato su una giurisdizione embrionalmente distinta dall’amministrazione attiva, con competenze in materia tributaria più ampie di quelle del giudice ordinario, ovvero il rigetto del modello francese e la sostanziale devoluzione del contenzioso ad una giurisdizione speciale totale espressione della amministrazione attiva, con la quasi integrale esenzione dell’amministrazione finanziaria dalla giurisdizione.
Va però sottolineato che anche negli stati preunitari dove, per scelte politiche, più forte fu il rigetto dell’esperienza francese, si finiva pur sempre con l’approdare ad un identico dualismo tra giudici speciali e giudice ordinario che alla fine ricalcava il modello francese, in quanto si attribuiva ai giudici speciali la competenza in tema di imposte dirette e ai giudici ordinari la competenza in tema di imposte indirette.
Semmai la vera differenza, nella legislazione pre-unitaria, è la scelta se escludere del tutto l’esistenza di una giurisdizione speciale, attribuendo un potere pressoché assoluto all’amministrazione attiva anche quando doveva valutare le doglianze del cittadino, ovvero mantenere ed anche rinforzare quel principio di separazione della giurisdizione speciale tributaria dall’amministrazione finanziaria che il modello francese aveva perseguito con i Consigli di Prefettura.
Significativa in questo contesto è l’evoluzione normativa del Regno di Sardegna. Dopo una prima fase in cui la competenza sulle imposte fu progressivamente devoluta a vari organi amministrativi (soprattutto gli intendenti di finanza, poi in vario modo riformati, in contrapposizione con la Camera dei Conti) fino alla totale esautorazione nel 1847 del giudice ordinario da ogni competenza tributaria, dallo Statuto Albertino in poi, in conseguenza dell’affermarsi di una nuova concezione del contribuente come cittadino e non più come suddito, si affacciano progetti di legge opposti, alcuni destinati a sopprimere tutti i giudici del contenzioso e attribuire le controversie riguardanti i diritti all’autorità giudiziaria, altri più moderati che puntavano a ridurre la competenza dei giudici del contenzioso attribuendo solo alcune materie ai giudici ordinari.
Proprio alla vigilia dell’unificazione italiana del 1861 il Regno di Sardegna creò i nuovi Consigli di governo in primo grado e il Consiglio di stato in appello, ai quali venivano attribuite le controversie relative alle imposte dirette mentre ai tribunali del circondario venivano affidate le controversie relative alla maggior parte dei tributi indiretti. Non passava quindi il disegno più radicale di eliminare i giudici del contenzioso ed affidare tutta la materia tributaria ai giudici ordinari, ma riprendeva vigore di fatto il modello napoleonico del 1799 introdotto in Italia nel 1805 che manteneva le imposte dirette ad una giurisdizione speciale e quella ordinaria ai giudici ordinari.
2.3. Cenni storici: la prima legislazione dello Stato unitario
Lo stato unitario nasce ereditando il modello francese di inizio secolo: ciò del resto è pienamente comprensibile sia perché quel modello era appena stato fatto proprio dal Regno di Sardegna, la cui influenza sulla costruzione del nuovo stato unitario è ben nota, sia perché il contesto politico era caratterizzato dalla vicinanza al sistema politico francese con il cui accordo era stato avviato il processo di unificazione attraverso la seconda guerra di indipendenza.
Le prime leggi dello stato unitario confermano il doppio ordine di tutela giudice ordinario-organi del contenzioso[4] mantenendo ancora una volta all’autorità giudiziaria ordinaria la competenza in materia di imposte indirette (salva la possibilità di ricorrere in via amministrativa prima di proporre l’azione giudiziaria) e riservando agli organi speciali, di natura amministrativa, le imposte dirette.
L’intervento legislativo più rilevante, che sposa tale filosofia, è quello sull’imposta di ricchezza mobile del 14 luglio 1864, n. 1830 che istituisce il doppio ordine di commissioni tributarie. Tali organi, anche se esteriormente assomigliano alle odierne commissioni tributarie, sono indubitabilmente organi amministrativi per di più preposti all’accertamento delle imposte piuttosto che alla risoluzione del contenzioso. E contro i loro provvedimenti non era possibile il ricorso all’autorità giudiziaria (possibilità di ricorso che verrà introdotta un anno dopo, e per la prima volta, solo nella legge sui fabbricati del 26 gennaio 1865, n. 2136).
2.4. Cenni storici: la svolta liberale del 1865 con l’ingresso dei principi della Costituzione belga del 1831
E’ in questo contesto post-unitario che interviene la legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. E la quale introduce una chiara rottura con i principi di tradizione francese recuperando i principi già propri della Costituzione belga del 1831[5].
Tali principi erano stati elaborati in un contesto di rivolta politica contro il sistema che l’occupazione francese durante il periodo napoleonico aveva lasciato in eredità anche dopo la Restaurazione.
Ciò che veniva contestato era il progressivo affermarsi di un sistema di privilegi illiberali che elideva i diritti di liberà del cittadino e non forniva mezzi di tutela contro l’amministrazione. Il risultato di tale rivolta fu, sul piano giudiziario, il netto prevalere del ruolo del giudice ordinario visto come garanzia dei diritti di tutti.
Non è un caso che, quasi 120 anni dopo, in Italia si affermeranno principi simili nell’ambito dei lavori per la redazione della Costituzione italiana: la sfiducia verso i giudici speciali, che nella Costituzione è netta e conclamata, rappresenta la declinazione tecnica della reazione alla dittatura fascista che aveva usato la giustizia come strumento di lotta politica, per cui ai giudici speciali viene opposto un sistema affidato totalmente al giudice ordinario che garantisce una autonomia e indipendenza sia da interessi economici forti (di pochi) che dallo strapotere del potere politico.
La rottura del 1865, operata attraverso una legge ordinaria ancora oggi in vigore, si basa proprio sulla introduzione della giurisdizione unica del giudice ordinario e la abolizione del contenzioso amministrativo ossia dei tribunali speciali del contenzioso. I lavori parlamentari testimoniano che anche per il contenzioso tributario vi era una precisa volontà di attribuire all’autorità giudiziaria la cognizione sulla totalità delle imposte, senza più alcuna distinzione tra imposte dirette ed indirette. L’art. 1 è inequivocabile sul punto: “i tribunali speciali investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo, tanto in materia civile quanto in materia penale, sono aboliti, e le controversie ad essi attribuite dalle diverse leggi in vigore saranno d’ora in poi devolute alla giurisdizione ordinaria, od all’autorità amministrativa, secondo le norme dichiarate dalla presente legge”.
Tale norma è riferibile quindi anche al contenzioso tributario. E il riparto tra giudice ordinario ed autorità amministrative si basa sul criterio sulla situazione giuridica coinvolta (che nella legge viene definito con la distinzione tra diritti civili o politici e affare altro e che la successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale individuerà nella distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi).
Ma già in tale legge i principi declamati all’art. 1 incontrano dei limiti per non dire una sostanziale smentita.
Ed invero l’art. 6[6], oltre ad escludere dalla giurisdizione del giudice ordinario la materia catastale, introduceva un limite per il contribuente (e quindi per la effettività della tutela giurisdizionale) in tema di imposte dirette ribadendo il principio del solve e repete (che solo con pronuncia di illegittimità della Corte Costituzionale nel 1968 verrà abolito).
Ma soprattutto l’art. 12[7], che permetteva il mantenimento delle Commissioni tributarie, appena istituite, finiva di fatto con il ribadire l’esistenza di un doppio ordine di gestione del contenzioso per di più senza alcuna norma che definisse il rapporto tra i due ordini di tutela.
Il percorso del pendolo, apparentemente diretto verso l’affermazione assoluta della giurisdizione unica ordinaria, ben presto si arresta a causa delle varie eccezioni e dei residuati storici che la legge alla fine lascia in vita: di fatto l’ordinamento post-unitario finisce con il mantenere, a dispetto dei principi di unicità della giurisdizione affermati nella legge nr. 2248, un doppio sistema di tutela.
Anzi: con gli interventi legislativi successivi il legislatore favorirà nettamente la competenza delle Commissioni Tributarie rispetto al giudice ordinario, prima creando un doppio binario di tutela con obbligo di preventivo ricorso alle commissioni tributarie[8], e poi ampliando ripetutamente la loro competenza sottraendo tali competenze al giudice ordinario[9].
Decisiva in tale contesto è per l’appunto la legge 3023/1866 che intervenendo sull’imposta di ricchezza mobile (ed introducendo il sistema della quotità al posto di quello del contingente) trasferisce agli agenti di finanza ogni funzione di accertamento del reddito e riformula i compiti delle Commissioni comunali e di quelle provinciali trasformandole in organi del contenzioso ed istituendo la Commissione centrale.
Di fatto l’afflato riformatore e liberale si spegne molto rapidamente con il rafforzarsi dello stato unitario e l’aumentare delle esigenze fiscali: il modello di giudice tributario speciale si afferma, non a caso, con le leggi sulla ricchezza mobile, l’imposta più importante per lo stato. Con gli interventi del 1866, del 1867 e il TU del 1877 il ruolo delle Commissioni tributarie e la posposizione della giurisdizione civile a quella speciale diventa definitivo e inizia una opera di erosione della giurisdizione ordinaria di cui il primo esempio è l’imposta sui fabbricati che nel 1889 diventa di competenza del giudice speciale.
Lo slancio riformatore del 1865 trova una sua ultima espressione con la legge Crispi del 1889 che costituisce la quarta sezione del Consiglio di Stato, propriamente giurisdizionale, alla quale viene affidata la tutela degli affari diversi dai diritti, così completando il quadro di tutela giurisdizionale delineato dalla l. 2248 del 1865.
Ma in materia tributaria già dal 1866 è avvenuta una inversione di tendenza, rispetto ai principi del 1865, dettata dalla sempre maggiore preminenza delle esigenze fiscali, con l’emergere definitivo di un giudice speciale e l’assunzione di un ruolo secondario per il giudice ordinario, che il legislatore fascista porterà solo a compimento.
2.5. Cenni storici: la legislazione fascista
Ed invero il legislatore fascista prosegue e completa l’opera già avviata alla fine dell’Ottocento: dapprima sottrae alla giurisdizione ordinaria l’imposta complementare sul reddito (1925) e le imposte indirette sui trasferimenti di ricchezza (1936), nonché le controversie derivanti dall’applicazione delle imposte di registro, di successione ed in surrogazione, di manomorta ed ipotecarie[10] e poi mette mano al riordino delle Commissioni Tributarie[11] e del processo tributario.
Non si può negare che la riforma del 1936 e 1937 introduca nel processo tributario degli istituti processuali, propri del processo civile, che aumentano la tutela dei diritti delle parti: ma è su un altro piano che si esplicita il controllo dello stato fascista su ogni forma di amministrazione della giustizia.
Ed invero con il riordino delle Commissioni Tributarie l’intero sistema della giustizia amministrativa, che già era poco distinguibile dall’amministrazione attiva, viene attratto prepotentemente nell’orbita dell’amministrazione finanziaria che diventa competente per il reclutamento dei giudici tributari: era infatti l’Intendente di Finanza a scegliere il presidente, il vicepresidente, i membri effettivi e supplenti nelle commissioni distrettuali e il Ministro delle Finanze in quelle provinciali. Senza contare che il rappresentante dell’ufficio tributario poteva assistere alla votazione e alla discussione in camera di consiglio.
In altri termini la svolta operata dal legislatore fascista si concreta, in piena sintonia con analoghe scelte operate nella materia penale, nella legislazione per la persecuzione degli antifascisti e poi nella legislazione razziale, nella creazione di un giudice speciale. Tale giudice speciale applica delle regole procedimentalizzate e quindi fornisce una tutela formalmente maggiore al contribuente: ma è un giudice che in ultima istanza risponde al potere esecutivo secondo un criterio di dipendenza o di controllo che la dittatura fascista esercita su ogni giudice speciale[12]. Ed a tale giudice tributario, che in camera di consiglio decide assieme al rappresentante dell’ufficio finanziario, vengono trasferite la maggior parte delle competenze ancora proprie del giudice ordinario svuotando così tale giurisdizione da quasi ogni competenza in materia fiscale.
2.6. Cenni storici: la Costituzione repubblicana
Sono le Commissioni Tributarie, come emerse dalla riforma del 1936, uno dei vari esempi di giudice speciale che il legislatore costituente ha ben in mente quando vieta, in Costituzione, l’istituzione di nuovi giudici speciali e prevede, con la VI disposizione transitoria, la revisione, entro cinque, delle giurisdizioni speciali esistenti.
E non a caso questo giudice speciale finisce ripetutamente sotto la lente di ingrandimento della Corte Costituzionale.
È noto l’affinamento progressivo che la giurisprudenza costituzionale ha operato in tema di compatibilità con la Costituzione dei giudici speciali preesistenti alla Costituzione stessa. Per ciò che riguarda specificamente le Commissioni Tributarie, la Corte Costituzionale, mutando un iniziale orientamento[13] e ponendosi in contrasto con la Cassazione che ne sosteneva la natura giurisdizionale, ne statuì la natura amministrativa[14], soprattutto in applicazione dell’art. 113 Cost., determinando la necessità di un intervento legislativo di revisione delle Commissioni stesse.
Del resto, la Corte Costituzionale non fa altro che evidenziare quello che la legislazione fascista aveva voluto realizzare: un giudice speciale, di natura amministrativa, soggetto alla potestà completa dell’amministrazione finanziaria, che come tale non può considerarsi avente natura giurisdizionale.
2.7. Cenni storici: la riforma del 1972
È in questo contesto che prende avvio il dibattito legislativo che si conclude con la riforma del 1972, un intervento obbligato a fronte della presa di posizione della Corte Costituzionale.
La riforma del 1972 modifica l’articolazione del processo tributario istituendo tre gradi di giudizio, il terzo dei quali poteva tenersi a Roma, avanti alla Commissione tributaria centrale, oppure di fronte alla Corte d’appello. Viene quindi reintrodotta la competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria seppur in terzo grado: e per rafforzare l’indipendenza dei giudice vengono modificati sia il rito che il sistema di nomina dei giudici che passa ai Presidenti di Tribunale e di Corte di Appello[15].
Di fatto venne varato un sistema misto, in cui la Commissione tributaria assumeva un ruolo centrale anche se non ancora esclusivo in materia di tributi e il giudice ordinario assumeva un ruolo nella fase impugnatoria a cui poteva seguire, all’esito del terzo grado di giudizio, il ricorso in Cassazione ex art. 360 cpc.
In conseguenza di tale riforma la Corte Costituzionale mutò orientamento riconoscendo il carattere giurisdizionale che le Commissioni tributarie avevano assunto dopo la riforma[16].
A tale riconoscimento non era estraneo il rientro in gioco della giurisdizione ordinaria seppur in fase di impugnazione: come non erano estranee le modifiche nella designazione dei giudici e quindi l’avvio di un processo con cui il giudice tributario si rendeva autonomo dall’amministrazione finanziaria.
Anche l’introduzione di un rito tributario autonomo e tendenzialmente applicabile all’intero contenzioso fiscale favorì la qualificazione giurisdizionale della natura di tali commissioni: ed invero da un lato venivano individuate le materie proprie del contenzioso tributario[17] e dall’altro gli atti impugnabili[18], così stabilendo regole più certe nella gestione del procedimento e nel riparto di giurisdizione con l’autorità giudiziaria ordinaria che pure rimaneva competente per numerosi tributi disciplinati da leggi speciali.
Pur con tutti i limiti procedurali evidenziati dalla dottrina[19] e pur considerando la esclusione di molti tributi dalla competenza delle commissioni tributarie in quanto regolati da norme speciali, con questa normativa si pongono le basi per rendere, quello che resta un giudice speciale, autonomo dalla amministrazione attiva.
2.8. Cenni storici: la riforma del 1992
I successivi interventi legislativi[20] hanno ulteriormente ridisegnato la composizione delle commissioni e la disciplina del processo tributario portando a compimento le scelte di politica giudiziaria che la legislazione del 1972 aveva iniziato ad affermare.
Va sottolineato che la riforma del 1992 è caratterizzata da due scelte di fondo che, di fatto, sono anche due rinunce:
a) da un lato si opta per il mantenimento di organi autonomi dalla giurisdizione (così rinunciando alla creazione di sezioni specializzate presso gli organi giudiziari ordinari);
b) dall’altro si conferma la natura onoraria e part-time del giudice tributario, così rinunciando alla creazione di giudici speciali professionali.
In altri termini: leggendo sinotticamente gli interventi legislativi del 1992, del 2001, del 2005 e del 2006 si assiste ad un ampliamento della giurisdizione tributaria a tutti i tributi per cui oggi si può parlare di una giurisdizione “generale” delle Commissioni Tributarie. Ciò però avviene a scapito della giurisdizione ordinaria rinunciando alla possibilità di creare delle sezioni specializzate presso i giudici ordinari.
Proprio tale natura di giurisdizione generale e la rinuncia ad ogni collegamento con la giustizia ordinaria, rende necessaria l’istituzione del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria (CPGT), in grado di garantire l’autonomia di gestione dei nuovi giudici speciali tributari, competente a nominare i membri delle commissioni, ad assegnare gli uffici direttivi, a formare sezioni e collegi giudicanti, ad assegnare i ricorsi alle commissioni. Si spezza così ogni legame con l’amministrazione finanziaria nella nomina dei giudici.
Anche sotto il profilo del rito, e quindi dell’effettività della tutela, si introducono regole che rendono efficace l’azione di tali commissioni tributarie e quindi realistica la tutela dei diritti del contribuente.
Si assiste invero ad una regolamentazione dell’iter giudiziale attraverso una sostanziale semplificazione e modellizzazione del processo sul rito ordinario civile: due gradi di giudizio di merito (il primo presso le commissioni tributarie provinciali ed il secondo presso le commissioni tributarie regionali) con abolizione della Commissione Centrale e ricorribilità in Cassazione per motivi di legittimità.
Vengono poi introdotti istituti già propri del giudizio civile che completano gli strumenti a tutela del contribuente: dall’obbligo di assistenza tecnica dello stesso, al regime delle spese, al procedimento cautelare incidentale al giudizio di ottemperanza.
Ma la scelta di estromettere del tutto la giurisdizione ordinaria da tale sistema conduce a scegliere la strada dei giudici part-time e non specializzati: scelta che a fronte della complessità che la materia tributaria ha via via assunto, risulta essere un prezzo elevato pagato per realizzare comunque un giudice speciale separato da quello ordinario.
Il pendolo della giustizia tributaria oscilla quindi nuovamente, e per ora definitivamente, verso l’esclusione della competenza del giudice ordinario in materia di tributi trasferendo su una giurisdizione (speciale) la competenza generale in materia di tributi ed escludendo il ruolo della Corte di Appello affermato dalla riforma del 1972.
Ma ciò che esce dalla porta, rientra sovente dalla finestra: perché l’incarico di giudice tributario è comunque possibile (e praticato) dai giudici ordinari che quindi partecipano all’attività delle Commissioni Tributarie per così dire “in proprio” e perché la necessità di un giudizio di Cassazione, in una materia che richiede forse più di ogni altra una nomofilachia nazionale, ha finito con il coinvolgere la giurisdizione ordinaria, dal punto di vista quantitativo oltre che qualitativo, forse ben più di quanto si potesse prevedere[21].
3. Il fil rouge che lega le scelte del legislatore dalla Costituzione francese dell’Anno VIII alla riforma del 1972
Come si è visto la materia tributaria è stata sempre oggetto di contesa, fin dalla Costituzione francese dell’Anno VIII, tra gli organi dell’Amministrazione, ora attiva ora contenziosa e quindi evoluti in giudici speciali, e l’Autorità giudiziaria ordinaria.
Ma anche quando il moto oscillatorio che ha caratterizzato le varie decisioni legislative ha spostato il pendolo degli interventi legislativi verso soluzioni più favorevoli ad una devoluzione della materia all’AGO qualcosa ha sempre frenato il legislatore dall’adottare in concreto scelte radicali preparando un movimento in controtendenza realizzato con successivi interventi legislativi.
Esiste un fil rouge che spiega le ragioni di tale “moto continuo” e che lega le diverse soluzioni adottate in quasi due secoli di legislazione: lo ha ben individuato la Corte Costituzionale, nella sentenza 287/1974 nella decisa volontà del legislatore volta a sottrarre alla cognizione della magistratura ordinaria le questioni attinenti alla determinazione quantitativa del reddito imponibile.
3.1. Il pre-giudizio verso la giurisdizione ordinaria nella legislazione pre-unitaria
E’ significativo che di tale “decisa volontà” si trova traccia già nella legislazione rivoluzionaria francese.
Pur partendo dal principio della separazione dei poteri, che ispirava le idee rivoluzionarie, il parlamento rivoluzionario da subito interpretò tale separazione a favore dell’esecutivo, statuendo che i giudici non potevano turbare in alcun modo le operazioni dei corpi amministrativi né citare innanzi a sé gli amministratori per motivi attinenti all’esercizio delle loro funzioni[22].
Va ricordato il contesto storico in cui si collocavano tali affermazioni: l’affermazione dei principi rivoluzionari doveva scontare la presenza, e l’opposizione, delle strutture dell’Ancien Régime di cui i giudici, per lo più di estrazione nobiliare e aristocratica, erano comunque una espressione anche per i privilegi che vantavano assieme al clero. L’intento dei rivoluzionari, nell’impossibilità di operare un rinnovamento delle strutture in breve tempo o di ottenere rapidamente fedeltà al nuovo regime, era quindi quello di limitare il potere della tradizionale giurisdizione ordinaria: fenomeno che si ripeterà in altri contesti rivoluzionari successivi.
Sicché il giudice doveva essere solo os legis, in quanto doveva applicare la volontà del legislatore senza spazi di discrezionalità nell’interpretazione della stessa: e in quanto os legis sicuramente erano preclusi al giudice interventi sugli atti amministrativi (tra cui quelli di natura tributaria) che erano espressione di una discrezionalità amministrativa, ossia del potere esecutivo, che non poteva essere sindacata (e non doveva essere contrastata) dai giudici ordinari.
E’ evidente che tale soluzione, nell’idea dei rivoluzionari, era finalizzata a rinnovare ed ammodernare lo stato e superare i privilegi e che avevano caratterizzato l’Ancien Régime trasformando i sudditi in cittadini ed introducendo una uguaglianza formale degli stessi tra loro. Ma nel far ciò veniva sacrificata l’altra esigenza che pure la Rivoluzione francese esprimeva: quella di garantire i diritti di libertà dei cittadini anche nei confronti dello stesso potere esecutivo.
In realtà tale esigenza si era manifestata innanzitutto sul piano penale nel cui ambito ogni ingerenza del Re e del potere esecutivo era stata superata affermando (principio mai più rimesso in discussione) la competenza esclusiva dei giudici ordinari (limitati solo da alcuni residui della potestà regale quale il potere di grazia).
Viceversa sul piano tributario l’interesse al funzionamento della “nuova” macchina statuale (tra l’altro in un settore così delicato quale quello preposto a reperire, tramite l’imposizione fiscale, le risorse necessarie per il nuovo stato) faceva propendere anche il legislatore rivoluzionario verso una soluzione meno radicale di quella operata nel settore penale: l’esigenza dei cittadini ad avere giustizia anche nei confronti del fisco poteva essere soddisfatta giurisdizionalizzando (diremmo noi oggi) gli organi dell’amministrazione attiva già preposti a gestire il contenzioso.
Insomma: una giustizia domestica che poteva rispondere alle esigenze di giustizia senza per questo danneggiare l’organizzazione della pubblica finanza ed impedirle il conseguimento dei risultati attesi.
E tale modello, dopo un travagliato dibattito, viene adottato nel provvedimento del 6.9.1790 che, scartando sia l’ipotesi della giurisdizione unica dei giudici ordinari che quella della creazione di una giurisdizione speciale amministrativa, promuovendo a giudici i Direttori di distretto e dipartimento che facevano parte dell’amministrazione attiva ed affidandogli, tra le tante competenze, quella sui tributi diretti.
E tale modello di giurisdizione domestica è quello che, come abbiamo visto, si assiste con la Costituzione dell’anno VIII e penetra in Italia con le leggi del 1805 con i Consigli di Prefettura: modello che si colloca a pieno titolo nel neonato impero napoleonico che, per i suoi impegni militari, ha necessità di risorse e quindi di una macchina amministrativa efficiente nel procurarle.
3.2. I limiti alla giurisdizione ordinaria nella legislazione post-unitaria
Circa sessanta anni dopo, in un altro periodo caratterizzato da moti rivoluzionari e indipendentisti, che porterà al formarsi dello stato unitario italiano, si ripropone la stessa decisa volontà del legislatore a sottrarre al giudice ordinario la cognizione di una parte (rilevante) dell’imposizione fiscale. Se negli stati preunitari, pur con differenze, si era assistito ad una tendenziale restaurazione del potere dell’amministrazione attiva, nel Regno di Sardegna, dallo Statuto Albertino in poi, e nel neonato Stato unitario si riafferma sempre il modello francese di inizio secolo: rigetto dell’ipotesi di affidare l’intero contenzioso fiscale ai giudici ordinari, emancipazione, almeno embrionale, dall’amministrazione attiva dei giudici speciali destinati a giudicare di tale contenzioso e ripartizione della competenza con i giudici ordinari in base al tipo di tributo.
In realtà le idee liberali, dallo Statuto Albertino in poi, ispirano vari progetti di legge che, tra il 1850 (progetto di legge Galvagno) e il 1864 (disegno di legge Minghetti del 1861, disegno di legge Peruzzi del 1864) prevedono la costituzione di una “giurisdizione universale” con la soppressione dei giudici del contenzioso e l’attribuzione di tutte le controversie in materia di diritti all’autorità giudiziaria: progetti tutti accomunati dalla concezione di una giurisdizione più attenta ai diritti del contribuente, non più suddito ma elevato al rango di cittadino e quindi titolare di pari diritti (art. 24 dello Statuto Albertino) e dall’intenzione di eliminare “i privilegi del foro” di cui l’Amministrazione finanziaria godeva potendo disporre di un giudice domestico e non indipendente.
Ma nessuno di loro arriva alla meta o quantomeno perviene al risultato di creare una giurisdizione universale ordinaria: la soluzione più avanzata che viene raggiunta è sempre quella di un sistema dualistico in cui alla giurisdizione ordinaria è affidata la cognizione delle imposte indirette. Fondamentale, in tale senso, è da una parte la legge sull’imposta di ricchezza mobile del 14 luglio 1864, n. 1830 – successivamente modificata dalle leggi 28 giugno 1866, n. 3023 e 28 maggio 1867, n. 3719 –, e dall’altra la l. 26 gennaio 1865, n. 2136 concernente l’imposta sui fabbricati che delineano il modello dualistico.
E, come già si è detto, anche la legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. E, che pur proclama principi di chiara rottura con il passato, finisce con il preservare le Commissioni tributarie esistenti.
E quanto le esigenze finanziarie del nuovo stato aumenteranno in conseguenza del graduale ed inesorabile ampliamento delle funzioni dello Stato, l’aumento del fabbisogno finanziario impone
3.3. Le ragioni della diffidenza del legislatore verso la giurisdizione ordinaria: insindacabilità dell’atto amministrativo e insufficienza tecnica nel comprendere i fenomeni economici
In altri termini il confine invalicabile che nessun progetto di abolizione del contenzioso amministrativo è costituito dai tributi diretti: alla bisogna poi anche molti tributi indiretti vengono riservati alla giurisdizione domestica ma sicuramente mai i tributi diretti vengono riservati alla giurisdizione ordinaria.
È importante cogliere tale aspetto al fine di valutare la razionalità delle scelte del 1972 e del 1992.
Ed invero la evidente contraddizione che caratterizza l’operato dei diversi legislatori i quali, sia che partano dal principio della separazione dei poteri quanto da quello della affermazione della formale uguaglianza dei cittadini anche di fronte alla Pubblica Amministrazione, finiscono con il mantenere una giurisdizione domestica in tema di tributi diretti, si fonda su due radicate convinzioni prima culturali e politiche e poi giuridiche:
a) da un lato si ritiene che, implicando le imposte indirette l’interpretazione di atti privati secondo le norme del Codice civile e le dirette di atti amministrativi, solo sulle prime possa essere competente l’autorità giudiziaria ordinaria;
b) dall’altro si ritiene che la giurisdizione ordinaria, non sarebbe idonea, per mentalità e insufficienza di cognizioni tecniche, a penetrare i fenomeni economici, a volte complessi, che presiedono alla formazione del reddito.
I due argomenti in realtà sono due facce della stessa medaglia.
Il primo argomento declina in ambito tributario il già citato e risalente orientamento, derivante da una specifica interpretazione del principio di separazione dei poteri, secondo cui i giudici non potevano turbare in alcun modo le operazioni dei corpi amministrativi né citare innanzi a sé gli amministratori per motivi attinenti all’esercizio delle loro funzioni. E poiché era opinione diffusa che le imposte dirette, diversamente dalle altre, richiedessero, in ogni caso, un’attività di accertamento e riscossione ad opera del fisco ed implicassero pertanto l’applicazione, e la previa interpretazione, di atti amministrativi, il giudice ordinario non poteva prendere cognizione di tali imposte perché avrebbe comunque giudicato di un atto amministrativo ossia avrebbe sindacato la discrezionalità amministrativa.
Viceversa, poiché le modalità di accertamento e riscossione delle imposte dirette non richiedevano, secondo l’opinione dominante, alcuna attività discrezionale ma una diretta applicazione dei criteri di legge, il sindacato sull’applicazione delle stesse poteva essere attribuito al giudice ordinario che, in quanto os legis, si sarebbe comunque dovuto attenere all’esatta applicazione della legge valutando solo l’esistenza dei presupposti di fatto per la loro applicazione. E tra tali fatti presupposti vi sono atti privati che vanno interpretati secondo le norme del diritto civile e che quindi richiedono l’intervento del giudice ordinario[23].
Il secondo argomento si basava sulla considerazione che il calcolo delle imposte dirette, molto più complicato di quello delle imposte indirette, implicava conoscenze tecnico-specialistiche di cui il giudice medio era normalmente sprovvisto per la sua formazione culturale. Tale argomento in realtà completa il primo: gli atti amministrativi in materia tributaria non solo non possono essere sindacati dal giudice ordinario perché gli si dovrebbe attribuire una discrezionalità in materia amministrativa che contraddice il principio di separazione dei poteri, ma non potrebbero comunque essere sindacati da un giudice che non ha le competenze specialistiche per addentrarsi nell’ambito di una discrezionalità che è tecnica.
E’ di tutta evidenza come tale argomento in realtà declina il tema dell’efficienza dell’azione della pubblica amministrazione che sarebbe rallentata dall’intervento nel procedimento di un organo di giustizia che non ha le stesse conoscenze e competenze; e di fatto tale argomento si riallaccia alla tradizionale (e superata) tesi secondo cui il sindacato dell’atto amministrativo deve essere svolto da un giudice speciale che è un giudice del processo amministrativo e non dei rapporti sottostanti. Non a caso, corollario concreto di tale tesi, era la presenza dell’Amministrazione Finanziaria nella Camera di Consiglio delle Commissioni Tributarie (come istituite nello stato unitario e mantenute fino al 1972) che contribuiva a fornire al giudice speciale la necessaria competenza tecnica (oltre, di fatto, a controllarla).
Tali argomenti, in realtà, rivestivano di giuridicità una motivazione molto più politica e forse meno spendibile: il gettito prodotto dalle imposte dirette era, nel nuovo stato unitario, di gran lunga superiore a quello delle altre imposte e su questo reddito l’interesse del potere esecutivo era molto elevato, tanto più quando per la determinazione del reddito si passò dal sistema del contingente al sistema della quotità che rendeva ancora più necessario un penetrante contrasto all’evasione fiscale.
E più in generale, come osservò Salandra nel suo trattato sulla giustizia amministrativa[24], in ordine al principio del solve et repete, “gli Stati moderni, i quali non più dal demanio pubblico, ma dalle imposte desumono la parte di gran lunga maggiore delle loro entrate, non possono ad ogni modo rinunziare all’esecuzione parata in materia fiscale. (…) Possono soltanto rinunziare, entro certi limiti, al privilegio del Foro e consentire che il magistrato ordinario giudichi sopra l’opposizione del contribuente, il quale abbia obbedito già all’ingiunzione di pagare e tuttavia persista nel ritenere di aver pagato indebitamente; ma non possono subordinare all’esito del giudizio l’adempimento dell’obbligo fiscale”.
Correttamente il Nigro ha ricordato come le idee liberali, ispirate dal sistema belga, avessero ben poche possibilità di pervenire “in un ambiente come quello dell’Europa continentale, in cui da una parte mancavano le tradizioni britanniche del common law e dall’altra l’amministrazione era fortemente e autonomamente organizzata”, alla “sottoposizione dell’attività dell’amministrazione o almeno di una parte di essa ad un controllo penetrante”.
E confermano tale giudizio gli stessi limiti posti ai poteri di cognizione e decisione del giudice ordinario dagli artt. 4 e 5 della l. 2248/1865 che permettono al giudice solo di disapplicare l’atto amministrativo nel caso concreto.
3.4. L’emarginazione della giurisdizione ordinaria nella legislazione fascista
E’ fin ovvio poi constatare che, se un regime comunque liberale come quello sorto dal Risorgimento, non era riuscito, nonostante i principi enunciati dalla a ricondurre in toto il contenzioso tributario alla giurisdizione ordinaria, difficilmente ciò poteva avvenire con un regime dittatoriale come quello instauratosi con l’avvento del fascismo. Come già osservato con le riforme del 1936 e 37 le Commissioni Tributarie assumono un ruolo centrale, assorbendo numerose competenze già proprie del giudice ordinario, e diventano a tutti gli effetti organi scelti dall’Amministrazione finanziaria e controllati, anche nel lavoro quotidiano (tramite la partecipazione alla camera di consiglio dei funzionari dell’amministrazione e i poteri di controllo dell’Intendente di Finanza).
Difficile attribuire a tali Commissioni un profilo giurisdizionale se a tale aggettivo si associa il concetto di autonomia e indipendenza della magistratura. Ma il fascismo neppure si pone il problema di nascondere le sue motivazioni che fanno perno in realtà sulla totale diffidenza nei confronti della magistratura ordinaria formatasi in epoca liberale: non a caso, ogniqualvolta il regime ha necessità di utilizzare la giustizia per perseguire un obiettivo politico (lotta agli antifascisti, leggi razziali etc.) crea dei tribunali speciali proprio per esautorare la magistratura ordinaria dal giudicare tali fatti. Di fatto per realizzare le nuove commissioni tributarie non è neppure necessario ricorrere alle motivazioni che avevano caratterizzato il periodo liberale: neppure si pone più un problema di separazione dei poteri e di autonomia del giudice rispetto agli interessi dello Stato.
3.5. Costituzione e riforma del 1972: verso la giurisdizionalizzazione dei giudici speciali
La lentezza nell’attuazione della Costituzione, che di fatto procede solo grazie agli interventi della Corte Costituzionale, connota anche il sistema tributario che fuoriesce immutato dal regime fascista e si trova a fare i conti con l’art. 102 e l’art. 113 della Costituzione. Vent’anni di dibattiti sulla natura giurisdizionale o meno delle commissioni coprono, con fini questioni giuridiche, una evidenza solare che la Corte Costituzionale si fa infine carico di disvelare con le pronunce del 1969. Del resto, lo stesso ruolo della magistratura nella società sta mutando proprio in forza dell’applicazione dei principi costituzionali considerati non più quali semplici norme programmatiche.
Si arriva così alla necessaria riforma del 1972 che incide innanzitutto sugli aspetti più insostenibili del sistema in vigore: la nomina dei giudici e il controllo dell’Intendente di Finanza. E rientra in gioco anche la giurisdizione ordinaria seppur in fase di terzo grado di merito (con la scelta tra ricorso alla Corte di Appello o alla Commissione Tributaria Centrale).
E’ però significativo che l’intervento normativo in questione non si ponga il problema del perché debba esistere un giudice speciale per il contenzioso tributario ma si preoccupi di giurisdizionalizzare tale giudice rendendolo autonomo dalla amministrazione attiva e definendo le materie proprie di tale giudice e gli atti impugnabili.
Nei lavori preparatori non riecheggiano gli argomenti che, agli albori dello Stato Unitario, avevano sostenuto la necessità di un giudice speciale per il contenzioso tributario: non il tema della tecnicità della materia e neppure quello dell’insindacabilità degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario. Tale tema è peraltro sempre sottinteso: l’art. 40 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 riprende di fatto, riprendendo la terminologia dell’art. 53 del t.u. sulla ricchezza mobile 24 agosto 1877, n. 4021, limita i motivi del ricorso alla Corte di appello alla violazione di legge e alle questioni di fatto, escluse quelle relative a valutazione estimativa ed alla misura delle pene pecuniarie.
E’ però un tema che resta sullo sfondo e non è più dirimente, tanto è vero che, con la riforma, la Corte di Appello si trova a giudicare anche di imposte dirette ossia di quelle materie che, nella legislazione del periodo 1861-1889 erano state escluse dalla competenza del giudice ordinario.
Del resto, nessuno mette in dubbio il ruolo della Corte di Cassazione la cui funzione risulta di fatto accresciuta dalla riduzione a tre dei gradi di merito: anche se di ciò ci si accorgerà solo tempo dopo.
E’ piuttosto un’altra l’esigenza che si fa strada e che già nella discussione sulla legge del 1889 sull’imposta sui fabbricati era emersa: la necessità di alleggerire l’attività del giudice ordinario attraverso il ricorso a nuove forme di tutela giurisdizionale.
Tale riforma in realtà è una evidente incompiuta che nasce dall’occasione della complessiva e profonda riforma del diritto tributario sostanziale: l’emergenza è quella di evitare la dichiarazione di incostituzionalità delle Commissioni Tributarie la cui sostituzione avrebbe indubbiamente creato problemi di sistemi. Né il legislatore vuole rinunciare al tasso di tecnicità che la presenza di professionisti specializzati nei vari rami del diritto tributario può fornire a tale giudice.
Ma i problemi sono solo rinviati: non si affronta né il nodo della compresenza di una competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria (molte controversie rimangono assoggettate ad una normativa eterogenea, extra decretum, e in molti casi continuano ad essere affidate all’AGO) né quello della specializzazione vera dei giudici. Ed anche le norme processuali risultano ancora incomplete rispetto ai poteri di tutela dei diritti che il giudice ordinario può esplicare nell’ambito del codice di procedura civile e delle varie leggi speciali.
3.6. La riforma del 1992: nascita della giurisdizione universale (speciale) in materia tributaria
Si arriva così alla riforma del 1992 poi integrata e completata con gli interventi del 2001 e del 2005.
Già in quel momento erano percepibili due fenomeni: le Commissioni tributarie nate dalla riforma del 1972 avevano creato un non indifferente arretrato e la Corte di Cassazione iniziava a veder aumentare il proprio contenzioso.
In questo contesto la scelta del legislatore è di realizzare una giurisdizione generale delle Commissioni Tributarie modellando l’intero sistema su quello della giurisdizione ordinaria: due gradi di giudizio di merito e un grado di legittimità che viene pur sempre assegnato alla Corte di Cassazione. Viene quindi esclusa ogni competenza dell’AGO per dare a giudici onorari, non necessariamente specializzati e impiegati part-time, una competenza che era stata negata alla giurisdizione ordinaria in nome del tecnicismo della materia e dell’insindacabilità degli atti amministrativi da parte dell’AGO.
E’ di tutta evidenza come le motivazioni che avevano sempre escluso la competenza dell’autorità giudiziaria siano diventate anacronistiche: da un lato il tema della (in)sindacabilità dell’atto amministrativo che accerta il valore dell’imposta è divenuto obsoleto nell’ambito del diritto tributario, laddove il credito tributario si fonda oggi sull’adempimento spontaneo del contribuente e l’atto amministrativo quale il ruolo d’imposta rappresenta una modalità solo eventuale e patologica di riscossione del tributo; dall’altro al giudice ordinario vengono sempre più affidati compiti che richiedono cognizioni tecniche adatte a penetrare i fenomeni economici. Si pensi, tra le tante[25], alle nuove competenze previste dal nuovo Codice della Crisi d’impresa.
A fronte di tale evoluzione delle competenze della giurisdizione ordinaria, e si potrebbe dire a fronte del maturare di complesse e multiformi “abilità” nell’ambito della giurisdizione ordinaria, caratterizzata sempre più dalla specializzazione di ruoli e funzioni, il legislatore del 1992 ha trasferito tutta la competenza giurisdizionale in materia tributaria ad un giudice onorario e che si occupa part-time della materia.
Di fatto è la negazione di quelle esigenze di tecnicità e specializzazione che hanno sempre favorito l’attribuzione della materia a giudici prossimi all’amministrazione finanziaria.
Ma, allo stesso tempo, le stesse esigenze di alleggerire l’attività del giudice ordinario non sono state tenute in conto per quel che riguarda la Corte di Cassazione oggi sommersa da una quantità inverosimile di ricorsi (si stima che il 50% della pendenza in materia civile sia da attribuire al solo contenzioso tributario): quantità che trova una sua causa non ultima nello scarso tecnicismo dei gradi inferiori di giudizio.
Il che porta a concludere che, dopo due secoli di confronto sull’opportunità di attribuire all’AGO una competenza generale in materia tributaria, sono state sacrificate in realtà proprio quelle ragioni di efficienza dell’azione amministrativa (e di recupero della pretesa tributaria) che erano sempre state poste a fondamento della scelta di non deferire il contenzioso al giudice ordinario.
4. Conclusioni
L’attuale dibattito sul futuro della giurisdizione tributaria e i progetti di riforma presentati nella precedente legislatura e nell’attuale legislatura, pur nella differenza di soluzioni proposte, hanno preso atto di quello che è il limite principale della riforma del 1992: il non aver previsto la creazione di giudici professionali dediti alla materia tributaria.
Tale scelta poteva orientarsi verso la costituzione (come propongono oggi alcuni disegni di legge) di una quinta giurisdizione: ovvero poteva seguire la strada della creazione di sezioni specializzate presso gli organi giudiziari ordinari (soluzione, tra l’altro, molto più conforme al dettato costituzionale).
E’ però indubbio che la scelta operata non soddisfa nessuna delle esigenze che hanno sempre costituito il cuore del pre-giudizio verso la competenza tributaria dell’AGO: la necessità di una tecnicità particolare che garantisse anche l’efficienza dell’attività dell’amministrazione finanziaria.
L’effettività della tutela dei diritti soggettivi del cittadino, che nel caso del contenzioso tributario sono costituiti, innanzitutto, dal diritto soggettivo di sapere in modo certo se e quale è la pretesa tributaria che l’Amministrazione può vantare nei suoi confronti, richiede che tale contenzioso sia affidato ad un giudice professionale e specializzato.
La complessità del contenzioso tributario del XXI secolo, con le sue implicazioni di diritto comunitario ed internazionale, non può essere gestito solo da una magistratura onoraria (anche quando si tratta di giudici ordinari che ricoprono l’incarico di giudice tributario) a cui per di più viene riconosciuta una indennità irrisoria rispetto all’importanza della materia trattata tanto da potersi definire quasi un “volontariato giudiziario”.
L’autonomia e l’indipendenza del giudice non dipendono, o meglio non dipendono più, solo dalle modalità di selezione e dalla costituzione di organi di autogoverno che limitano le interferenze del potere esecutivo: l’autonomia e l’indipendenza richiedono anche un adeguato grado di professionalità, che si acquisisce con la specializzazione e l’impegno a tempo pieno, condizioni indispensabili per far si che la tutela dei diritti soggettivi sia effettiva.
E la specializzazione e la professionalità sono un elemento indispensabile, anche se non sufficiente, per l’efficienza complessiva del sistema come dimostra, a contrariis, il numero elevato di riforme che oggi la Cassazione pronuncia verso sentenze di giudici non professionali e non specializzati.
Ovviamente la costituzione di un corpo di giudici professionali non esclude, anzi impone, l’affiancamento di una magistratura onoraria che provenga dalle varie professioni oggi già coinvolte nelle Commissioni Tributarie.
Ma tale affiancamento può essere previsto anche nel caso in cui si acceda alla soluzione di creare delle sezioni specializzate presso la giurisdizione ordinaria che già conosce esperienze di proficua sinergia con figure onorarie specializzate[26]. Tale soluzione, del resto, sarebbe l’esplicito riconoscimento di una situazione di fatto che vede comunque i giudici ordinari impegnati, in gran numero, nell’esercizio della giurisdizione tributaria.
Le soluzioni possono essere varie: ma è il momento di abbandonare il pre-giudizio verso la autorità giudiziaria ordinaria che ha orientato due secoli di dibattito politico e giuridico sull’architettura da dare alla giurisdizione tributaria, ed affrontare il tema dell’efficienza e professionalità dell’autorità giudiziaria che oggi, alla luce delle norme sul giusto processo, rappresentano la declinazione dei principi di autonomia e indipendenza del giudice e gli strumenti con cui rendere effettiva la tutela dei diritti soggettivi dei contribuenti.
[1] Per una ricostruzione storica accurata si rinvia ad Andrea Giordano, La giurisdizione tributaria attraverso il prisma della giurisdizione amministrativa. Storia di un’evoluzione parallela, in www.contabilita-pubblica.it
[2] Montesquieu De l’esprit des lois, livre XI, chapitre VI
[3] Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1976 pag. 56
[4] Cfr. l. 21 aprile 1862, n. 585, art. 86 sulle tasse di registro; 21 aprile 1862, n. 586, art. 33 sulle tasse di bollo; 21 aprile 1862, n. 587 in tema di tasse sui redditi dei corpi morali; 21 aprile 1862, n. 588, art. 34 in materia di tasse sulle società industriali e commerciali e sulle assicurazioni; 6 maggio 1862, n. 593 (resa esecutiva dal r.d. 22 maggio 1862, n. 594,. art. 15) sulle tasse ipotecarie; 21 settembre 1862, n. 965 inerente alle tasse di bollo sulle carte da gioco; l. 3 luglio 1864, n. 1827 sul dazio di consumo, 26 luglio 1868, n. 4520, art. 1, in materia di tasse sulle concessioni governative e sugli atti e provvedimenti amministrativi e 8 giugno 1874, n. 1947, art. 30, in tema di tasse sulle assicurazioni e sui contratti vitalizi.
[5] Fanno evidente riferimento alla Costituzione Belga i passaggi della legge 2248/1865 in cui si afferma che “le contestazioni che hanno per oggetto diritti civili sono di esclusiva competenza dei tribunali” e che le controversie che riguardano diritti politici sono anch’esse “di competenza dei tribunali, salvo le eccezioni stabilite dalla legge”.
[6] Recita l’art. 6: sono escluse dalla competenza delle autorità giudiziarie le questioni relative all'estimo catastale ed al riparto di quota e tutte le altre sulle imposte dirette sino a che non abbia avuto luogo la pubblicazione dei ruoli. Tale norma è stata dichiarata incostituzionale con sentenza della Corte costituzionale dell'11 luglio 1968, n. 125 limitatamente alla parte in cui condiziona l'esercizio dell'azione del contribuente dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria alla pubblicazione del ruolo e all'iscrizione a ruolo dell'imposta
[7] Con la presente legge non viene fatta innovazione né alla giurisdizione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato in materia di contabilità e di pensioni, né alle attribuzioni contenziose di altri corpi o collegi derivanti da leggi speciali e diverse da quelle fin qui esercitate dai giudici ordinari del contenzioso amministrativo
[8] Cfr. legge 28 giugno 1866, n. 3023, sull’imposta di ricchezza mobile che ha rivisto l’organizzazione delle Commissioni tributarie in funzione nettamente contenziosa. Cfr. poi la l. 28 maggio 1867, n. 3719 che introdusse la possibilità di adire l’autorità giudiziaria ordinaria una volta esperiti i gradi della giustizia tributaria, norma definitivamente ribadita dal Testo Unico sull’imposta di ricchezza mobile approvato con R. D. 24 agosto 1877, n. 4021
[9] Cfr., le norme che attribuiscono alla Commissione tributaria l’imposta sui fabbricati (1889) cancellando i principi previsti 24 anni prima dalla l. 26 gennaio 1865, n. 2136
[10] Cfr. artt. 28 e ss., r.d.l. n. 1639/1936
[11] Cfr. r.d.l. 7 agosto 1936, n. 1639, nonché r.d. 8 luglio 1937, n. 1516: con tali provvedimenti, le Commissioni tributarie venivano riordinate in “distrettuali”, “provinciali”, “centrali”.
[12] Si pensi ai tribunali speciali in materia penale o allo stesso controllo gerarchico del Procuratore Generale.
[13] Sentenza n. 12 del 16 gennaio 1957 nella quale la Corte qualificò le commissioni tributarie come organi giurisdizionali.
[14] C. Cost., 29 gennaio 1969, n. 6 e C. Cost., 30 gennaio 1969, n. 10
[15] Furono previste commissioni tributarie di primo grado, con sede e competenza territoriale identica a quella dei tribunali, commissioni tributarie di secondo grado, con sede nei capoluoghi di provincia, e una commissione tributaria centrale. Per le modalità di nomina dei componenti fu prevista la competenza del presidente del tribunale per le commissioni di primo grado e al primo presidente della corte d'appello per quelle di secondo grado; metà delle nomine avveniva su designazione dei consigli comunali, per le commissioni di primo grado, e del consiglio provinciale, per quelle di secondo grado; l'altra metà sulla base di elenchi formati dall'amministrazione delle finanze (ma il tribunale e la corte di appello potevano richiedere elenchi alle camere di commercio e agli ordini professionali degli avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ingegneri). Infine, furono modificate le norme di procedura, avvicinandole maggiormente a quelle del processo civile e fu ampliato l'elenco dei tributi su cui erano competenti le commissioni tributarie.
[16] Cfr. C. Cost., 27 dicembre 1974, n. 287, e C. Cost., 15 luglio 1976, n. 215
[17] Le nuove commissioni tributarie erano competenti per le liti fiscali riguardanti l’Irpef, l’Irpeg, l’oro, l’invia, l’iva, l’imposta di registro, quella sulle successioni e donazioni, le imposte ipotecarie e quelle sulle assicurazioni, oltre ad alcune controversie in materia catastale.
[18] Il ricorso poteva essere presentato solo nei confronti di uno degli atti impositivi individuati dal d.p.r. n. 636/1972 ossia l’avviso di accertamento, l’ingiunzione, il ruolo, il provvedimento inflittivo di una sanzione tributaria o quello di rigetto di un’istanza di rimborso.
[19] Tra i tanti si ricordano le critiche alla mancanza di processi cautelari e la impossibilità della condanna alle spese dell’Amministrazione Finanziaria.
[20] Cfr. d.lgs. nn. 545 e 546 del 31/12/1992.
[21] Si rimanda agli altri interventi di questa sessione di lavori per l’analisi dell’impatto che i ricorsi per Cassazione contro i provvedimenti delle Commissioni tributarie stanno avendo sulla Corte di Cassazione.
[22] Cfr. art. 13, tit. II, l. 16-24 août 1790, « les juges ne pourront à peine de forfaiture troubler, de quelque manière que ce soit les opérations des corps administratifs, ni citer devant aux les administrations pour raison des leurs fonctions ».
[23] Cfr. Relazione Rattazzi del 5 maggio 1854 al disegno di legge che puntava a realizzare nel Regno di Sardegna un sistema dualistico e che verranno approvate nel 1859 e che sono poi la base da cui origina la fondamentale legge in tema di ricchezza mobile del 14 luglio 1864, n. 1830.
[24] A. Salandra, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, pag. 396.
[25] La competenza dell’AGO interseca ormai comunemente i fenomeni economici: dalla gestione dei patrimoni confiscati all’applicazione di misure cautelari alle persone giuridiche in sede penale, alla determinazione del reddito nelle procedure di separazione/divorzio, alla gestione dei patrimoni nell’ambito della volontaria giurisdizione fino alla creazione di un sistema per la valutazione del danno biologico e la determinazione del quantum del risarcimento che ha assunto la natura di un sistema para-normativo.
[26] Si pensi ai componenti esperti del Tribunale per i Minorenni ovvero dei Tribunali di Sorveglianza o delle sezioni agrarie.
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