ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi
di Federica Resta*
Sommario: 1. La direttiva 2016/680 - 2. Il recepimento della direttiva - 2.1. I dati personali contenuti in atti giudiziari, le intercettazioni e la tutela dei terzi.
1. La direttiva 2016/680
Una delle componenti più significative (ma, paradossalmente, anche meno conosciute) del nuovo quadro giuridico europeo in materia di protezione dei dati personali è rappresentato dalla direttiva 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, “relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio”.
La direttiva reca la disciplina- speculare a quella del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali, n. 2016/679, “GDPR” – della protezione dei dati personali nell’esercizio dell’attività giudiziaria penale e di polizia, affidandola tuttavia a uno strumento giuridico di armonizzazione (e non di diretta unificazione) delle legislazioni, in ragione delle peculiarità della materia e della diversità dei sistemi processuali tra Stati membri, secondo quella specificità richiesta dalla dichiarazione 21, allegata all'atto finale della Cig che ha approvato il Trattato di Lisbona[1] .
Innovando rispetto alla decisione quadro, che abroga, la direttiva estende la sua sfera applicativa dal solo ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria a quello delle attività (giudiziaria penale e di polizia) svolte in ambito interno.
La distinzione dell’ambito applicativo tra regolamento e direttiva 680 è, dunque, tutta giocata sul duplice elemento soggettivo (svolgimento del trattamento da parte di autorità nazionali competenti nelle materie individuate) e teleologico-funzionale (perseguimento di fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica).
La concorrente applicazione dei due strumenti normativi, Gdpr e direttiva (fondata tanto sull’elemento soggettivo quanto su quello teleologico-funzionale della preordinazione del trattamento a fini preventivi o repressivi) determina, quindi, il singolare effetto di scindere la stessa disciplina dei trattamenti svolti per fini di giustizia in due sotto-sistemi distinti. L’attività giudiziaria (corrispondente all’esercizio di funzioni requirenti e giudicanti, anche in ambito esecutivo o di sorveglianza), in sede penale è soggetta (al pari dell’attività di polizia in senso stretto), per quanto concerne la disciplina di protezione dati, alla direttiva 2016/680
Così anche – come chiarito dal d.lgs. 51 del 2018 - l’attività giurisdizionale connessa all’applicazione di misure di sicurezza e prevenzione, correlata comunque alla prevenzione di reati , è disciplinata, ai fini privacy, dalla direttiva (e, naturalmente, dalle norme nazionali di recepimento: per l’Italia il d.lgs. 51).
Di contro, l’attività giudiziaria svolta da ogni altra giurisdizione (anche dalla stessa autorità giudiziaria, ma in sede civile) è attratta nell’ambito applicativo del Regolamento, con ciò che ne consegue in termini di diversa puntualità ed estensione degli obblighi del titolare, nonché di minore margine di flessibilità per la disciplina nazionale.
Tra le peculiarità della direttiva (che sono state peraltro oggetto di critiche da parte del Working Party 29, precedente organismo di coordinamento delle Autorità di protezione dati), vi sono la limitazione dei diritti dell’interessato nell’ambito di procedimenti penali in base alle norme processuali interne, l’esclusione (necessaria) di competenza dell’Autorità di controllo rispetto ai trattamenti effettuati dalle “autorità giurisdizionali nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali” e quella (facoltativa) rispetto ai trattamenti svolti “da altre autorità giurisdizionali indipendenti nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali” (art. 45, c.2, riferito in parte qua alle Procure, come chiarisce il C 80).
Le medesime autorità possono inoltre essere esentate dall’obbligo di designazione del responsabile della protezione dati (art. 32, c.1), deputato all’osservanza delle norme della direttiva e alla tenuta dei rapporti con l’autorità di controllo. Pur evitando ogni possibile interferenza di organi altri rispetto al giudiziario- la cui indipendenza è tutelata dalla stessa Carta di Nizza in funzione della garanzia del diritto di difesa- tali limitazioni avrebbero forse potuto essere sostituite da un sistema analogo a quello previsto dal previgente Codice privacy (d.lgs. 196 del 2003), in cui il potere di controllo sui trattamenti rimesso all’Autorità aveva incontrato il limite esterno del divieto di interferenza sull’esercizio della giurisdizione (cfr. anche art. 160, c.6), come espressamente rivendicato, tra l’altro, rispetto alle obiezioni sollevate rispetto al provvedimento del Garante del 2013 sulle misure di sicurezza negli uffici giudiziari (cfr. comunicato del Garante 25.9.2013).
Nel complesso, tuttavia, il testo finale della direttiva delinea un bilanciamento apprezzabile tra esigenze investigative e protezione dati, rappresentato ad esempio dalla differenziazione tra i dati “fondati su fatti” e quelli “fondati su valutazioni personali”, dalla tutela rafforzata accordata a “particolari categorie di dati”, nonché dal divieto di profilazione suscettibile di determinare discriminazioni fondate sulle stesse categorie di dati (si pensi al racial profiling). Importante anche il “paniere” di diritti riconosciuti all’interessato, ancorché comprimibili in ragione di particolari esigenze investigative o di sicurezza, purché la limitazione “costituisca una misura necessaria e proporzionata in una società democratica, tenuto debito conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi” dell’interessato, secondo la dizione Cedu.
Importante l’affermazione del diritto dell’interessato al risarcimento del danno derivato da trattamento illecito, nonché alla tutela amministrativa e giurisdizionale effettiva.
2. Il recepimento della direttiva
La direttiva 2016/680 è stata trasposta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 51 del 2018, secondo un criterio di recepimento assai puntuale, anche in ragione dell’assenza, nella legge di delegazione, di principi e criteri direttivi specifici, ulteriori rispetto a quello inerente la cornice edittale per le fattispecie delittuose da introdurre.
Ciononostante, il decreto ha compiuto alcune scelte essenziali, tra le quali:l’introduzione di una specifica fattispecie delittuosa modellata sulla falsariga del trattamento illecito di dati personali (con dolo, specifico, di danno o di profitto e condizione obiettiva di punibilità intrinseca fondata sul nocumento altrui) volta a colpire alcune forme qualificate di abuso del potere di trattamento in danno del cittadino; l’obbligatorietà della nomina del responsabile della protezione dati anche per l’autorità giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni (laddove la direttiva consentiva anche di prescinderne); una tutela forte del terzo coinvolto in procedimenti penali; l’esenzione (doverosa) della competenza del Garante rispetto al controllo sulla legittimità dei trattamenti di dati personali svolti “ dall’autorità giudiziaria nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, nonché di quelle giudiziarie del pubblico ministero” (art. 37, c.6); ambito, questo, in cui conseguentemente si esclude la tutela amministrativa di tipo sanzionatorio. Relativamente a questi trattamenti non è stata indicata un’autorità altra, ma si è rimesso il controllo di legittimità alla stessa sede processuale, con gli strumenti del processo, secondo la soluzione percorsa dal legislatore tedesco.
Vi è certo da dire che, nella direttiva, l’esclusione di competenza dell’autorità di protezione dati rispetto all’attività giudiziaria non equivale ad esclusione assoluta di attribuzione di altri organi di controllo, pur con modalità e garanzie tali da escludere ogni possibile violazione dei requisiti costituzionali di autonomia, soggezione esclusiva alla legge e indipendenza della magistratura da ogni altro potere. Una delle possibili soluzioni, ad esempio, avrebbe potuto essere l’attribuzione della relativa competenza al CSM, eventualmente anche integrandone la composizione (previe opportune modifiche normative) con esperti in materia.
2.1. I dati personali contenuti in atti giudiziari, le intercettazioni e la tutela dei terzi
Una delle innovazioni più importanti introdotte dal legislatore interno[2] concerne, però, l’introduzione, all’art. 14, del diritto di “chiunque vi abbia interesse” (dunque anche del terzo) di “richiedere la rettifica, cancellazione o limitazione dei suoi dati contenuti in atti giudiziari o indagini, anche in sede processuale, con le modalità di cui all’art. 116 c.p.p.”, precisandosi che “il giudice provvede con le forme dell'articolo 130 del codice di procedura penale”[3].
Vista la latitudine interpretativa della nozione di dato personale di cui all’art. 2, c.1, lett.a) d.lgs. 51, la norma è inequivocabilmente applicabile anche ai dati contenuti alle conversazioni intercettate, sia nella forma del file audio che della relativa trascrizione. Depone in tal senso la prassi del Garante, oltre che la giurisprudenza pronunciatasi in anni di vigenza del d.lgs. 196 del 2003, che recava una nozione di dato personale appena più limitativa dell’attuale.
In ragione dell’applicabilità della norma dell’art. 14, c.1 anche ai dati contenuti nelle conversazioni captate, contenute in brogliacci o file audio, essa sancisce in capo non solo alle parti processuali ma anche al terzo, il diritto di ottenere, con le forme particolarmente agili delle procedure di cui agli artt. 116 e 130 c.p.p., la rettifica, cancellazione o limitazione dei dati che lo riguardano.
Tale interpretazione è “suffragata”, oltre che dal C 47 della direttiva 2016/680, anche dalla interpretazione “ufficiale” fornita dal Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, nell’ambito della Relazione indicata, secondo cui “È significativa, ad esempio, la previsione del diritto della persona (a prescindere dalla posizione processuale, includendovi anche il terzo estraneo alle indagini) di richiedere, con una procedura particolarmente agile, la cancellazione o rettifica dei propri dati illegittimamente trattati in ambito giudiziario penale. Norma, questa, che potrebbe risultare particolarmente utile anche rispetto alle conversazioni intercettate”. Analoga posizione è stata rappresentata nell’ambito del Convegno La rivoluzione mancata. A proposito di riforma della disciplina delle intercettazioni, tenutosi alla LUISS il 13 novembre 2018, disponibile su http://www.radioradicale.it/scheda/557504/, in cui si rilevava come la norma coprisse, sostanzialmente, alcune delle lacune derivanti dal differimento (allora vigente) dell’applicabilità dell’art. 2 del d.lgs. 216/2017, quale suo equivalente funzionale[4].
La richiesta va rivolta al titolare del trattamento (cfr. artt. 12-15 direttiva 2016/680, nonché artt. 10, 11 e 12 dello stesso d.lgs. 51, richiamati dall’art. 14) che, secondo la fase processuale, dovrà essere individuato con il regolamento attuativo di cui all’art. 5, c.2, d.lgs. 51. In ogni caso, il giudice (che potrebbe comunque ritenersi competente a decidere, per ragioni di terzietà, anche laddove il titolare per fase processuale sia il Pubblico Ministero) sarà tenuto a osservare le forme della procedura per la correzione degli errori materiali.
Quanto al contenuto delle richieste suscettibili di proposizione in questa sede da parte dell’interessato, la norma menziona anzitutto il diritto di cancellazione, da esercitarsi secondo i criteri generali di cui all’art. 269, c.2, c.p.p. (ove riguardi le intercettazioni) e, dunque, in relazione a dati non necessari a fini probatori o investigativi, dal momento che tale assenza di necessità renderebbe per ciò solo la conservazione di dati personali (a fortiori se di soggetti terzi rispetto alle indagini) illegittima per violazione dei principi di finalità, proporzionalità, non eccedenza di cui all’art. 3 dlgs 51 (salvo volersi riferire la nozione di necessità a procedimenti diversi, nei quali le conversazioni potrebbero rifluire ex art. 270 c.p.p.).
Qualora la cancellazione debba essere rigettata per esigenze di conservazione probatoria, l’interessato può però chiedere la limitazione del trattamento (v. infra), che consiste essenzialmente nel trasferire i dati “ad altro sistema di archiviazione” o nel rendere inaccessibili i dati stessi.
La rettifica concerne la correzione di dati inesatti: “Una persona fisica dovrebbe avere il diritto di ottenere la rettifica di dati personali inesatti che la riguardano, in particolare se relativi a fatti, e il diritto alla cancellazione quando il trattamento di tali dati viola la presente direttiva. Il diritto di rettifica, tuttavia, non dovrebbe avere effetti, ad esempio, sul contenuto di una prova testimoniale”. (cfr. C 47 della direttiva)
La limitazione concerne invece i casi nei quali la legittimità del trattamento del dato sia in discussione, ma non possa accertarsi, almeno nel momento considerato, l’effettiva fondatezza della richiesta o, comunque, quando i dati debbano essere conservati a fini probatori (cfr. C 47 della direttiva).
Il C 47 precisa inoltre che le rettifiche, al pari delle cancellazioni e limitazioni di dati personali “dovrebbero essere comunicate ai destinatari a cui tali dati sono stati comunicati e alle autorità competenti da cui i dati inesatti provengono. I titolari del trattamento dovrebbero inoltre astenersi dal diffondere ulteriormente tali dati”.
La limitazione del trattamento, dunque, potrebbe essere una valida misura (da attuare ad esempio con la custodia nel luogo protetto previsto per le intercettazioni illegali ex art. 240, c.2, c.p.p., ovvero nell’archivio riservato) da attuare rispetto a dati personali contenuti, ad esempio, in conversazioni captate che, almeno in fase d’indagini, il p.m. ritenga di non dover depositare ma che non possa neppure cancellare perché, ad esempio, suscettibili di sviluppi investigativi se si versa in una fase iniziale del procedimento.
Naturalmente, poi, venuta meno la concreta possibilità di un’utilizzazione processuale, le intercettazioni oggetto di limitazione dovrebbero essere cancellate (con le forme dell’art. 269, c.2, cpp) anche d’ufficio, in ottemperanza ai principi di non eccedenza del trattamento che si applicano, appunto, anche agli atti giudiziari ex art. 3 dlgs 51/2018.
Si tratta di una norma che ben potrebbe essere valorizzata a fini di tutela, appunto, dei soggetti a qualunque titolo coinvolti nelle intercettazioni., laddove non abbiano sortito effetto i criteri di “sobrietà contenutistica” e minimizzazione selettiva imposti, in sede di trascrizione, dalla disciplina vigente, come riformata per effetto della successione tra le leggi Orlando e Bonafede.
Al fine di garantire la tutela effettiva dei terzi, tuttavia, sarebbe opportuno prevedere un onere informativo a carico del Pubblico ministero, come era previsto dall’art. 268-sexies c.p.p. di cui il d.d.l. Mastella di riforma delle intercettazioni della XV legislatura, prospettava l’introduzione (AS 1512, art. 10), per evitare che il soggetto apprenda dell’esistenza, in atti processuali, di proprie conversazioni, direttamente dalla stampa, quando ormai l’intervento ablativo sarebbe tardivo.
In alternativa (ove tale onere informativo venisse ritenuto eccessivamente gravoso, soprattutto a fronte di una pluralità di terzi da avvisare), si potrebbe riconoscere al terzo il diritto di chiedere preliminarmente conferma dell’esistenza di intercettazioni che lo coinvolgano e, quindi, previo ascolto delle registrazioni stesse, di attivare la procedura di distruzione di cui all’art. 269 cpp[5] ovvero, in caso di richieste più articolate, di esercitare i propri diritti alla limitazione o (più raramente) rettificazione dei dati.
In tal modo, tramite la connessione procedimentale tra il nuovo diritto di cui all’art. 14 d.lgs. 51 e l’istituto della distruzione di cui all’art. 269 c.p.p. (testualmente rivolto agli «interessati»), ai terzi i cui dati siano occasionalmente captati in sede intercettativa potrebbe essere accordata una tutela effettiva, forse persino più di quanto si sia ipotizzato in, pur ampie e valide, ipotesi di riforma della disciplina delle intercettazioni.
*(le opinioni sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza)
[1] Secondo cui “La conferenza riconosce che potrebbero rivelarsi necessarie, in considerazione della specificità dei settori in questione, norme specifiche sulla protezione dei dati personali e sulla libera circolazione di tali dati nei settori della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia, in base all'articolo 16 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea”.
[2] E tali definite dall’allora Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, nella Relazione 2018
[3] La norma va letta in combinato disposto con il C 40 della direttiva 2016/680 e con il favor lì espresso per l’esercizio dei diritti da parte dell’interessato (“ è opportuno predisporre modalità volte ad agevolare l'esercizio, da parte dell'interessato, dei propri diritti conformemente alle disposizioni adottate a norma della presente direttiva, compresi i meccanismi per richiedere e, se possibile, ottenere, gratuitamente, in particolare, l'accesso ai propri dati personali, la loro rettifica o cancellazione e la limitazione del trattamento.).
[4] V. anche S. SIGNORATO; L’archivio delle intercettazioni. La custodia del materiale e la marcia verso la digitalizzazione delle intercettazioni, in Legislazione penale, 2020, 79 ss; S. RENZETTI, .
[5] S. RENZETTI, Una riforma (radicale?) per tornare allo spirito originario della legge: la nuova disciplina acquisitiva delle intercettazioni tra legalità, diritto vivente e soft law, in Legislazione penale, 2018, 1 ss.
Michele Taruffo, Maestro
di Andrea Giussani
Nell’anno più funesto del secolo, lascia tutti più poveri e soli la scomparsa di Michele Taruffo: come l’umanità nella sua interezza è stata la stella polare della sua avventura intellettuale declinata come riflessione scientifica, così a chiunque era dato attingere facilmente alla sua capacità di esprimere con chiarezza concetti complessi.
Con una produzione scientifica che lo ha visto primeggiare per vastità della visione dalla metà degli anni ’60 (in cui apriva quel dibattito italiano sull’azione di classe che ancora informa le più recenti novità legislative) a tutt’oggi (con la pubblicazione anche quest’anno di una nuova opera, dedicata all’inesauribilità del desiderio di verità e giustizia che si concretizza nell’aspirazione a procedere “Verso la decisione giusta”), e con la diffusione internazionale di questa, assicurata dalla sua infaticabile versatilità, si è reso protagonista di un’esperienza di pensiero volutamente irradiatasi oltre i confini disciplinari, nazionali e generazionali: delle prigioni mentali demoliva le sbarre, per trasformarle in osservatori.
La sua naturale vocazione alla speculazione filosofica, quindi, lungi dall’inaridirsi nell’esplorazione di una materia tecnicamente connotata come il diritto processuale tradizionalmente insegnato, si arricchiva nella concretezza dell’inverarsi, illuminato dalle sue analisi, della giustizia nel giudizio.
Specialmente fortunato, dunque, è chi ha avuto in sorte il destino di poterne essere allievo, poiché la fisica vicinanza massimizzava l’effetto liberatorio del suo confronto proprio incanalandolo nel progetto collettivo: ogni significativa evoluzione del diritto positivo veniva da lui discussa anche attraverso la cura di lavori che soleva rivedere sino alle virgole con rapidità e precisione; ai volumi tempestivamente dedicati alle riforme legislative si accompagnavano le regolari riedizioni del Commentario al codice, da lui guidato insieme a Federico Carpi (nonché inizialmente a Vittorio Colesanti), nei quali ogni novità dottrinale o giurisprudenziale riceveva attenzione critica.
Coerentemente, però, la stessa sua scuola non conosceva rigidi confini: possono infatti ritenersene allievi non soltanto quanti, già suoi studenti a Pavia, hanno più intensamente convissuto con la sua eloquenza, poiché la sua generosità di sé ha reso l’esperienza del confronto personale con la sua brillantezza accessibile a chiunque se ne volesse avvalere.
Questo straordinario talento comunicativo, d’altronde, s’innestava in una passione per l’umanità che ne era l’occulta forza motrice: la sua scienza era battagliera, polemica e intransigente; proprio perché curioso di tutto, combatteva senza ipocrisie né timidezze sotto le insegne del vero, financo assumendo il rischio di inimicarsi quel potere politico da cui pretendeva soggezione alla primazia del bene comune.
Lungo sarebbe l’elenco delle conquiste raggiunte anche grazie al suo impegno (qualche esempio si può ritrovare nel rafforzamento del sistema delle preclusioni, degli oneri di contestazione, della scientificità dell’accertamento del fatto, dell’effettività dei provvedimenti istruttori e di condanna, delle azioni collettive), ma di tutte non mancava mai di rilevare lacune e imperfezioni con energia non inferiore a quella che destinava a temi, come quello della completezza della motivazione, oggetto invece di sviluppi in senso contrario alle implicazioni del suo pensiero.
Compete a chi rimane proseguirne l’impresa con più fatica, ma con non minore dedizione, poiché il suo esempio non permetterà mai più di prescinderne.
La Ciociara: riflessioni sulla rappresentazione cinematografica e giuridica della violenza sessuale
di Antonella Massaro
Sommario: 1. “La Ciociara” di Vittorio De Sica nella cornice del Neorealismo – 2. L’imbarazzo politico di fronte alle “marocchinate” e la rappresentazione della violenza sessuale nel racconto cinematografico – 3. La “reazione” del diritto di fronte alla violenza sessuale: la donna come vittima di reato – 4. La violenza sessuale “di guerra” – 5. La violenza sessuale “semplice” – 5.1. La nozione ampia di atti sessuali – 5.2. L’eccessiva “cautela” della giurisprudenza in materia di stupro – 6. Una riflessione sulla condizione femminile attraverso il diritto penale: limiti e prospettive.
1. “La Ciociara” di Vittorio De Sica nella cornice del Neorealismo
“La Ciociara” di Vittorio De Sica è certamente una pellicola nella quale convergono in maniera mirabile alcuni dei tratti più caratterizzanti del Neorealismo italiano, sebbene il 1960, data di uscita del film, si collochi nella fase discendente di quel “movimento” che nei decenni precedenti aveva conosciuto i suoi fasti più gloriosi.
Anzitutto, si abbandonano i teatri di posa con l’intento di “sorprendere la realtà”, come titolava un articolo di Leo Longanesi del 1936[1]. La natura irrompe nello schermo, ma, lungi dal restare confinata nel ruolo di idilliaco e immobile sfondo della scena, diviene essa stessa personaggio, tratteggiando un rapporto uomo-ambiente fatto di interazioni e scambi reciproci: come osservato da Giuseppe De Santis, il paesaggio assume centralità non in quanto tale, ma per il rapporto uomo-natura in cui si inserisce.
L’immaginario neorealista, poi, è segnato dalle macerie. Se nella cinematografia precedente dominava l’iconografia delle rovine, testimonianza imponente di un passato glorioso, la guerra crea macerie, che sono anche e soprattutto il simbolo di un disfacimento morale da cui il Paese è chiamato a rialzarsi. La “decadenza” di “Germania Anno Zero” di Rossellini, con il disperato vagare di Edmund tra le macerie di Berlino distrutta dai bombardamenti, rappresenta forse l’insuperata traduzione in immagini che il Neorealismo si propone di raccontare o, meglio, di “mostrare”.
Le storie neorealiste parlano del presente, attingendo però spesso alla letteratura del passato. Il rapporto tra “La Ciociara” di Vittorio De Sica e quella di Alberto Moravia è certamente articolato e complesso, ma il fatto che la trasposizione cinematografica sia affidata alla coppia Vittorio De Sica-Cesare Zavattini colloca il film, ancora una volta, nell’Olimpo del cinema italiano impostosi come modello alla scena internazionale.
Sempre restando nel solco arato dai rapporti tra cinema e letteratura, non può fare a meno di osservarsi come la lingua rappresenti un altro dei tratti più caratterizzanti della poetica neorealista: l’italiano “colto” delle istituzioni e del potere lascia il posto al dialetto, la “vera” lingua parlata dai “poveri” personaggi chiamati a sfilare nella galleria neorealista.
Il cinema neorealista non è certo un cinema di evasione, impegnando piuttosto lo spettatore in uno sforzo conoscitivo che non si dissolve nell’esito consolatorio dell’happy ending. Sebbene la storia raccontata da “La Ciociara” sia anzitutto una storia “politica”, l’ideologia resta sullo sfondo: il giudizio sulla guerra è filtrato dall’impatto che la stessa produce sulla vita di Cesira e Rosetta, lontane dalle logiche delle strategie militari e delle alleanze politiche. Il cinema neorealista non intende di-mostrare, ma si limita a mostrare, a prendere atto, a constatare, con uno sguardo descrittivo che, scevro il più possibile da pregiudizi, offre all’occhio dello spettatore la rappresentazione della realtà, quasi si trattasse di un documentario.
2. L’imbarazzo politico di fronte alle “marocchinate” e la rappresentazione della violenza sessuale nel racconto cinematografico
Malgrado la “sintesi neorealista” offerta da “La Ciociara”, la sua consacrazione a livello di critica cinematografica non è stata né immediata né scontata.
L’elemento che più di ogni altro spiega la “cautela” da cui, almeno in qualche occasione, si è trovata avvolta la pellicola di De Sica, è certamente rappresentato dall’imbarazzo storico-politico suscitato dalle “marocchinate”. L’effettiva consistenza dell’atroce scia di violenza che ha segnato l’avanzata dell’esercito della liberazione non è ancora del tutto nota o, almeno, non lo è al “grande pubblico” formatosi sulle pagine racconto storiografico ufficiale. Le migliaia stupri, commessi dai soldati marocchini con impareggiabile ferocia, rappresentano uno dei prezzi più alti che il nostro Paese ha pagato come odioso balzello della liberazione, che solo il 1 aprile 1952, durante una seduta notturna, risuona chiaramente nell’Aula della Camera dei Deputati attraverso la relazione dell’onorevole Maria Maddalena Rossi (PCI)[2]: Pontecorvo, Pastena, San Giorgio a Liri e molti altri centri nei territori tra Frosinone e Cassino rivelano una galleria di violenza, morte e contagi lasciati lungo la strada dai “liberatori”.
Una sintesi efficace è offerta delle parole di Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate.
Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono 20.000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, possiamo quindi affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali, vi furono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni[3].
La decisione di portare quegli orrori sul grande schermo, scegliendo la via della esplicita rappresentazione dello stupro, non era una scelta né semplice né banale. “La Ciociara” è un film del 1960: in quel momento era poco scontata già l’esplicita rappresentazione filmica della sessualità, a fortiori lo era quella della perversione o, peggio, della violenza. È una scelta che, sia pur con le dovute distinzioni, ricorda i tratti della storia del già citato “Germania anno zero”, con Edmund abbandonato in un universo in cui la devastazione materiale si proietta su uno sfondo privo delle minime coordinate morali.
Nella scena dello stupro di Cesira e Rosetta, il film di De Sica lascia poco spazio all’immaginazione: è esplicito, crudo, senza le musiche di Trovajoli che rendano più sopportabile lo strazio, ma con le urla delle due donne che, ancora dopo 60 anni, ammutoliscono lo spettatore messo di fronte all’orrore della “profanazione”. È una visione potente e moderna: sebbene, in più di un passaggio, il film possa risultare più edulcorato rispetto al romanzo di Moravia, nella scena dello stupro non sembra si possa accusare la pellicola di “eccessiva indulgenza”.
Sebbene il paragone potrebbe rivelarsi per molti aspetti azzardato, l’“atmosfera” potrebbe paragonarsi a quella di Irréversible di Gaspar Noé, con quella scena di una violenza sessuale insistita, prolungata, silenziosa e, anche per questo, “disturbante”.
3. La “reazione” del diritto di fronte alla violenza sessuale: la donna come vittima di reato
Passando dal versante della rappresentazione cinematografica dello stupro a quello della sua “rappresentazione giuridica”, la più ampia cornice di riferimento è certamente quella offerta dalla “violenza contro le donne”, a sua volta intesa come specificazione della “violenza di genere”[4]. Sebbene si tratti di concetti che, in maniera sempre più evidente, si stanno radicando nella nostra esperienza giuridica, resta pur sempre il fatto che l’ordinamento italiano conosca solo rare fattispecie di reato “a vittima qualificata”.
La donna compariva come vittima nei delitti contro l’onore, abrogati solo nel 1981, che prevedevano pene attenuate per l’omicidio o le lesioni commessi, per esempio, a causa di una relazione illegittima del coniuge (secondo la lettera della legge, dunque, anche il marito), della figlia o della sorella.
Nel sistema attuale la donna costituisce il soggetto passivo del delitto di mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis c.p.), introdotto nel codice penale nel 2006 e quasi mai applicato dalla giurisprudenza. Non si parla in realtà di “donna”, ma di “organi genitali femminili”: l’attenzione, a livello terminologico, è cioè focalizzata non tanto sul soggetto passivo, quanto piuttosto sull’oggetto materiale del reato.
Anche quando il riferimento al concetto di donna è inevitabile, il legislatore italiano mostra una certa “cautela” da un punto di vista terminologico. È emblematica, per esempio, la formulazione dell’aggravante della c.d. violenza assistita, introdotta all’art. 61, n. 11-quinquies c.p. dalla legge n. 119 del 2013 e poi modificata con la legge n. 69 del 2019: nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale la pena è aggravata se il fatto è stato commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza: “persona”, non “donna” in stato di gravidanza. Se il linguaggio (anche giuridico) è lo specchio della cultura di un popolo, non c’è dubbio che la cultura del popolo italiano provi ancora qualche disagio a fronte della tutela della donna.
Immaginando un metaforico edificio di tutela relativo alla violenza contro le donne, i delitti di violenza sessuale rappresentano indubbiamente le fondamenta di quell’edificio: deve trattarsi dunque di una base solida e robusta, affinché anche il resto della costruzione presenti le stesse caratteristiche.
4. La violenza sessuale “di guerra”
“La Ciociara”, raccontata prima dalle pagine di Moravia e poi dal film di De Sica, porta all’attenzione del grande pubblico lo stupro nell’ambito di un contesto bellico, sia pur in un contesto indubbiamente peculiare, in cui la linea di confine tra alleati e nemici appariva sempre più evanescente.
Quanto alle marocchinate, si tratta di delitti rimasti per lo più senza processi e senza giustizia. I processi successivi alla guerra, spesso, rappresentano uno strumento di disvelamento della violazione dei diritti umani cui pressoché inevitabilmente un conflitto armato conduce, con contestuale presa di coscienza dell’opinione pubblica, chiamata a mettersi in ascolto del monito della storia. Si tratta, però, di processi dei vincitori sui vinti: le marocchinate stavano dalla parte dei “buoni”, e questo ha reso estremamente difficoltosa la loro emersione, tanto a livello politico quanto a livello giudiziario.
Più in generale, tuttavia, una risposta sufficientemente definita del diritto penale internazionale a fronte di condotte di stupro può considerarsi relativamente recente, posto che, sebbene i crimini che comportino, in vario modo, abusi e violenze sessuali possano considerarsi delle vere e proprie costanti dei conflitti armati, la loro “collocazione” ha seguito una parabola piuttosto “faticosa”.
I Tribunali di Norimberga e di Tokyo, per esempio, non attribuirono specifica rilevanza a reati sessuali, mentre la giurisprudenza dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda ha contribuito in maniera decisiva ad una valorizzazione delle condotte di stupro come fattispecie autonome.
La soluzione adottata dallo Statuto della Corte penale internazionale è indubbiamente “complessa”: la definizione delle singole condotte criminose, come noto, è preceduta dal c.d. elemento di contesto, il quale consente non solo di distinguere i crimini internazionali dai reati comuni, ma anche di tracciare una più sicura linea di confine tra le varie ipotesi di crimini internazionali. Una condotta di stupro, quindi, può costituire un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, a seconda che sia commesso in connessione con un conflitto armato o nell’ambito di un attacco esteso e sistematico della popolazione civile[5]. L’art. 7 dello Statuto ICC, prevede, tra i crimini contro l’umanità, lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità (lettera g). L’art. 8 del medesimo Statuto di Roma, dedicato ai crimini di guerra, individua le condotte di chi stupra, riduce in schiavitù sessuale, costringe alla prostituzione o alla gravidanza, impone la sterilizzazione e commette qualsiasi altra forma di violenza sessuale costituente violazione grave delle Convenzioni di Ginevra (comma 2, lettera b, xxii e lettera c, vi). Alla fattispecie di genocidio è poi ricondotto il c.d. genocidio biologico (art. 6, lettera d) Statuto CPI), che potrebbe riferirsi anche a condotte di violenza sessuale, se realizzate allo scopo generare un figlio non appartenente alla etnia della madre[6]. Si tratta, dunque, di un crimine “trasversale”: resta pur sempre da verificare se questo carattere si traduca in un rafforzamento della tutela o, piuttosto, evidenzi la difficoltà della fattispecie di stupro a emergere con sufficienti chiarezza e autonomia.
Una più recente tappa è quella che prende in considerazione la violenza sessuale anche come possibile condotta di tortura, a conferma della diversa qualificazione giuridica che le condotte possono assumere a seconda del contesto (oggettivo e soggettivo) in cui le stesse si trovino inserite[7].
5. La violenza sessuale “semplice”
Anche la violenza sessuale “semplice”, del resto, fatica a trovare un proprio statuto giuridico solido e convincente: l’art. 609-bis c.p., rubricato “violenza sessuale”, risale al 1996 e le pene a dir poco irrisorie introdotte in quella occasione sono state inasprite solo lo scorso anno, nell’ambito delle modifiche apportate con il c.d. codice rosso (legge n. 69 del 2019).
A una riforma organica dei delitti di violenza sessuale, come ampiamente noto, si è giunti solo del 1996, con la legge n. 66[8]. Il cambiamento più evidente riguarda la collocazione dei delitti in questione, che nella versione originaria del codice penale italiano erano classificati come delitti contro la moralità pubblica e il buon costume (artt. 519 e ss. c.p.). Nel 1996, invece, i reati contro la libertà sessuale sono inseriti tra i delitti contro la libertà personale. Da un bene collettivo e impersonale, che non tutelava direttamente la donna, si passa a un bene individuale, più aderente a una concezione della sessualità in linea con i principi costituzionali.
Una svolta davvero radicale, in realtà, avrebbe richiesto l’introduzione di un capo apposito relativo alla libertà sessuale, affinché risultasse chiaro che il bene giuridico tutelato dovesse individuarsi nella libertà di autodeterminazione del soggetto in riferimento alla propria sfera sessuale. Al riguardo si è osservato, in particolare, che le nuove fattispecie non avrebbero dovuto più prevedere quali elementi costitutivi la violenza o la minaccia, ma avrebbero dovuto “accontentarsi” del solo elemento della costrizione: la violenza e la minaccia avrebbero potuto pur sempre operare sul quantum della risposta sanzionatoria, senza condizionarne l’an[9]. La condotta penalmente rilevante descritta dall’art. 609-bis c.p. continua invece a far riferimento agli elementi della violenza e della minaccia come strumenti di coercizione rispetto agli atti sessuali. La tutela della libertà di autodeterminazione della vittima, attorno alla quale la giurisprudenza ante riforma aveva tentato di costruire il fuoco della tutela penale, continua a restare in secondo piano.
Il cuore della nuova disciplina è indubbiamente rappresentato dall’art. 609-bis c.p., rubricato violenza sessuale.
La disciplina precedente, infatti, distingueva tra la fattispecie di violenza carnale (art. 519 c.p.), incentrata sulla congiunzione carnale cui la vittima era costretta con violenza o minaccia, e la fattispecie di atti di libidine violenti (art. 521 c.p.), applicabile a chi commetteva atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale e punito con pene inferiori. Si trattava di una distinzione che, pur complessivamente condivisibile sul piano astratto, comportava ineliminabili distorsioni sul piano processuale e che, anche per queste ragioni, si sceglie di superare con l’introduzione dell’art. 609-bis c.p.
Osservando le applicazioni giurisprudenziali del reato di violenza sessuale nei suoi primi vent’anni di vita, l’impressione è quella per cui il reato in questione abbia sofferto una sorta di “bipolarismo applicativo”. Da un lato si è assistito a un progressivo ampliamento dell’ambito applicativo della nuova fattispecie, evidentemente supportato dall’ampia nozione di “atti sessuali”. Dall’altro lato, però, si sono registrate pronunce relative ai casi di stupro (dunque il nucleo irrinunciabile e indiscutibile della fattispecie in questione) che hanno mostrato qualche cautela troppo, probabilmente alimentate da pregiudizi socio-culturali che non possono dirsi ancora superati.
5.1. La nozione ampia di atti sessuali
Quanto alla prima tendenza cui si è fatto riferimento (l’ampio raggio operativo dell’art. 609-bis c.p.), si è fin da subito lamentata la potenziale indeterminatezza del concetto di “atti sessuali”, suscettibile di comprendere condotte troppo eterogenee tra loro.
In una prima fase la soglia minima di rilevanza degli atti sessuali è stata individuata nella nozione di “atti di libidine violenti”, che compariva nel precedente art. 521 c.p.: il difetto fondamentale della categoria in questione era quello, suggerito dalla stessa lettera della legge, di enfatizzare considerazioni di marca soggettivistica e, in particolare, la concupiscenza del soggetto attivo.
Secondo alcuni, dunque, la soglia minima degli atti sessuali sarebbe stata rappresentata dalle molestie sessuali. Anche la nozione di “molestie sessuali”, tuttavia, risulta scarsamente determinata e secondo alcuni si estenderebbe fino a comprendere condotte che non coinvolgono, neppure indirettamente, il corpo della vittima: esibizionismo, raccontare continuamente barzellette o storie oscene, gesti esplicitamente allusivi. I comportamenti in questione, in effetti, sembrano più chiaramente riconducibili alla contravvenzione di molestia o disturbo alle persone di cui all’art. 660 c.p.
La giurisprudenza prevalente sembra essersi attestata su una nozione “mista” di atti sessuali. Si rende anzitutto necessaria una componente “oggettiva”, che, facendo riferimento a un elemento di “corporeità”, richiede un contatto corporeo che coinvolga zone erogene della vittima. In certi casi si richiede poi un’integrazione di tipo “soggettivo” e, in particolare, che l’atto in questione sia tale da suscitare la concupiscenza sessuale, anche se in modo fugace, pur precisandosi che non assume rilievo determinante la finalità perseguita dall’agente o l’effettivo soddisfacimento del proprio piacere sessuale[10].
È evidente come il requisito in questione, estremamente discutibile e che pare stia subendo un significativo ridimensionamento nella giurisprudenza più recente, possa assumere una qualche rilevanza solo negli atti sessuali diversi dallo stupro, posto che in quest’ultimo caso l’elemento della congiunzione carnale non consensuale sarebbe di per sé sola sufficiente.
Così, a proposito del “bacio rubato”, oggetto di copiosa giurisprudenza relativa all’art. 609-bis c.p., la Corte di cassazione ha più volte precisato che anche il bacio repentino, che riguardi zone erogene di un soggetto non consenziente, può essere qualificato come “atto sessuale”[11].
Determinante risulta, in ogni caso, la valorizzazione del “contesto” in cui si colloca la condotta e, quindi, i rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte e le peculiari condizioni del soggetto passivo, nel tentativo di valorizzare il più possibile la libertà di autodeterminazione della vittima come autentico bene giuridico tutelato dalla fattispecie in questione.
A questo punto, senza scendere nel dettaglio di una casistica quanto mai variegata, viene da chiedersi se la dicotomia proposta dal codice Rocco tra congiunzione carnale e atti di libidine violenti e, soprattutto, le distorsioni che dalla medesima derivavano, possano dirsi davvero superate.
Da questo punto di vista, in effetti, la riforma del 1996 sembra aver superato solo in parte le aporie derivanti dal precedente assetto normativo.
La distinzione, all’interno della categoria unitaria degli atti sessuali, tra la congiunzione carnale e condotte diverse da quest’ultima resta un’operazione necessaria, se non altro ai fini di commisurazione della pena. Uno stupro e un bacio sulle labbra, evidentemente, non possono essere trattati allo stesso modo quando si tratti di individuare la pena concretamente applicabile.
A ciò si aggiunga che l’art. 609-bis c.p., al secondo comma, prevede una circostanza attenuante per i casi di violenza sessuale “di minore gravità”. Quella che a prima lettura suona come un’autentica contraddizione in termini, si spiega proprio con l’esigenza di fornire al giudice uno strumento che consentisse di diversificare la risposta sanzionatoria a fronte delle potenzialità applicative di una fattispecie formulata indubbiamente a maglie molto larghe.
Neppure possono dirsi del tutto superati i rischi di una “vittimizzazione secondaria” derivanti dal processo penale, per esigenze legate strutturalmente all’accertamento di una violenza sessuale. Non solo, infatti, si rende necessario delineare con precisione i contorni degli “atti sessuali” nel caso concreto a fini di commisurazione della pena, ma, anche nel caso di congiunzione carnale, si tratta pur sempre di accertare che la stessa sia avvenuta in assenza di consenso della vittima.
Se le esigenze di garanzia non possono evidentemente subire inaccettabili compromissioni, si può solo auspicare che il pregiudizio e le tare culturali dei professionisti del processo penale diventino sempre meno “ingombranti”.
5.2. L’eccessiva “cautela” della giurisprudenza in materia di stupro
Si tratta a questo punto di esaminare rapidamente il secondo volto della violenza sessuale, che è quello relativo allo stupro vero e proprio. Periodicamente si sono registrati “disorientamenti” giurisprudenziali che sembravano marciare in direzione opposta rispetto al progressivo ampliamento della nozione di atti sessuali, con qualche imbarazzo interpretativo di troppo proprio in materia di stupro, che dovrebbe rappresentare il nucleo irrinunciabile del delitto di violenza sessuale.
Si tratta ovviamente di pronunce che in certi casi sarebbe eccessivo definire veri e propri “orientamenti” e che, sia pur per ragioni diverse, dovrebbero ormai considerarsi superate o in corso di superamento. Nonostante ciò, visto che in una materia come questa è bene non dare mai nulla per scontato, sembra utile una sia pur sommaria disamina di due questioni problematiche.
1) Lo strano caso della vittima in blue jeans
Sulla base di un’interessante riproposizione dell’antico adagio “dimmi come eri vestita e ti dirò se hai subito violenza sessuale” o, meglio, di visioni stereotipate dello stupro modellate sui più radicati luoghi comuni in materia, la Corte di cassazione perviene alla celeberrima affermazione per cui sarebbe un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa[12]. Si precisava poi che sarebbe istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi intenda violentarla e che risulterebbe quindi illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro.
L’idea di fondo, altrimenti detto, è quella per cui non vi sia dissenso senza resistenza o, addirittura, che in capo alla vittima di violenza sessuale sia individuabile un vero e proprio dovere di resistenza[13]. Se possono considerarsi superati i tempi in cui si discuteva della irrilevanza penale della vis grata puellae, quel tanto di forza necessaria a vincere la naturale resistenza della donna, non così scontato è stato il superamento dell’onere di resistenza a carico della donna stessa, una sorta di civilistica inversione dell’onere della prova, tale per cui la vittima di violenza sessuale era chiamata in tribunale a dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.
La giurisprudenza più recente tende a ridimensionare la portata di un dissenso esplicito e/o accompagnato da un’adeguata resistenza da parte della vittima, precisando che non è necessario che il dissenso permanga per l’intera esecuzione del delitto, restando lo stesso configurabile anche nel caso in cui la vittima “si arrenda” al suo aggressore o, specie all’intero di un rapporto di coppia, qualora il soggetto attivo abbia la consapevolezza del rifiuto implicito da parte della vittima in considerazione delle numerose violenze o minacce poste in essere dallo stesso[14].
Si tratta però di questioni sulle quali pare opportuno non “abbassare mai la guardia”, anche perché l’accertamento del dissenso, specie in contesti quali quelli della violenza domestica o della violenza nei confronti di prostitute, resta indubbiamente un aspetto particolarmente delicato e complesso.
2) L’attenuante della minore gravità nei casi di stupro commesso nell’ambito di relazioni stabili.
La previsione di una circostanza attenuante per i casi di violenza sessuale di minore gravità di cui all’art. 609-bis, secondo comma c.p. rispondeva all’evidente intento di assicurare un’adeguata dosimetria sanzionatoria nell’applicazione della nuova fattispecie così ampiamente formulata. Sembrava dunque che i casi di accertato stupro dovessero ritenersi strutturalmente incompatibili con l’attenuante in questione.
La giurisprudenza di legittimità, in anni molto recenti, ha invece smentito questa premessa, ritenendo che un rapporto sessuale completo non consensuale non sia, in quanto tale, incompatibile con l’attenuante della minore gravità ex art. 609-bis, secondo comma c.p., posto che il fatto deve valutarsi nella sua complessità, con particolare riguardo agli effetti psico-fisici che la violenza produce sulla vittima.
La Corte di cassazione, per esempio, ha annullato con rinvio una sentenza in cui i giudici d’appello si erano limitati (sic!) a fare riferimento a “plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di autodeterminazione della donna”, senza analizzare, ai fini dell’applicazione dell’art. 609-bis, secondo comma c.p, gli effetti che i “plurimi rapporti sessuali violenti” avessero prodotto sulla donna[15]. O, ancora, in un caso di violenza sessuale consistita nell’aver costretto la vittima a un rapporto sessuale orale e uno vaginale, con contestuali lesioni tradottesi anche nella rottura di tre costole, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte d’appello non avesse adeguatamente motivato in ordine alla mancata concessione dell’attenuante, anche perché la vittima «per sua fortuna» aveva ormai archiviato il fatto e non dimostrava alcuna volontà di ricordarlo. Questo, in estrema sintesi, il ragionamento della Corte di cassazione: se la vittima non ricorda e non vuole ricordare, verosimilmente il fatto non era così grave. Se, tuttavia, la violenza sessuale è posta a tutela della libertà di determinazione della donna, la sola circostanza oggettiva di aver subito un rapporto sessuale completo contro la sua volontà dovrebbe valere ad escludere una possibile operatività dell’attenuante, a nulla rilevando gli effetti, nel medio-lungo periodo, che quella violenza è in grado di produrre sulla vittima[16].
Le pronunce in questione, sarà un caso, sono state spesso relative a violenze sessuali commesse nell’ambito di un rapporto di coppia.
Originariamente si discuteva se il soggetto attivo del delitto di violenza sessuale potesse essere anche il coniuge, visto che alcuni valorizzavano un preteso diritto alla congiunzione sessuale nell’ambito del matrimonio, quasi come se quest’ultimo funzionasse da consenso anticipato rispetto alle future prestazioni sessuali. Si trattava evidentemente di un’impostazione che non poteva reggere per molto a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione e che, per questo, può considerarsi ormai come testimonianza di vera e propria archeologia giuridica.
Anzi, proprio in considerazione della progressiva emersione del fenomeno della violenza domestica, il legislatore ha introdotto nel 2014 una nuova aggravante al catalogo previsto dall’art. 609-ter c.p., prevedendo al numero 5-quater che le pene di cui all’art. 609-bis c.p. sono aumentate per fatti commessi nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza. Proprio questa disposizione dovrebbe determinare un definitivo superamento di quell’orientamento volto ad ammettere l’attenuante della minore gravità per uno stupro commesso dal partner, pena l’innescarsi di un autentico corto circuito sul piano normativo[17].
6. Una riflessione sulla condizione femminile attraverso il diritto penale: limiti e prospettive
Il film di De Sica, forse più che il romanzo di Moravia, ha obbligato a fare i conti con un passato tanto doloroso quanto scomodo, in cui l’imbarazzo politico si sommava alla immaturità socio-culturale italiana di fronte alla “questione femminile” e al ruolo della donna.
I tempi sono cambiati e i passi in avanti sono notevoli ed evidenti, ma certamente si tratta di un percorso culturale e giuridico che, in riferimento alla violenza contro le donne, è ancora lontano da un approdo che possa considerarsi soddisfacente.
Il diritto, specie quello penale, resta un’arma spuntata se non può contare su un supporto socio-culturale sufficientemente solido e sedimentato. La rilevanza penale delle condotte di violenza sessuale, come precisato, rappresenta la base di un ampio e complesso edificio di tutela, che sta diventando sempre più consistente e strutturato. Senza un adeguato supporto, che passi attraverso una più convinta prosecuzione lungo la strada di quel cambiamento culturale già in atto, il rischio, tuttavia, è quello di trovarsi al cospetto di un gigante dai piedi di argilla: maestoso mentre brandisce lo scudo e la spada del diritto penale, ma destinato a polverizzarsi al primo rigurgito di un magma sessista e retrogrado ancora in pericolosa ebollizione.
[1] L. Longanesi, Sorprendere la realtà, in Cinema, 10 ottobre 1936. Molti dei tratti del Neorealismo cui si fa riferimento nel testo sono tratti da S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, 2014, spec. 61 ss., cui si rinvia per tutte le necessarie indicazioni, anche bibliografiche.
[2] Il testo della relazione è disponibile, tra l’altro, su legislature.camera.it.
[3] Molti e interessanti documenti sono stati raccolti in E. Ciotti, Le “marocchinate”, Youcanprint.
[4] Per tutti, A. Merli, Violenza di genere e femminicidio. Le norme penali di contrasto e la legge n. 119 del 2013 (c.d. legge sul femminicidio), Esi, 2015, 5 ss.; F. Mantovani, La violenza di genere sotto il profilo criminologico e penale, in Criminalia, 2013, 59 ss.
[5] M. Costi, E. Fronza, Il diritto penale internazionale: nascita ed evoluzione, in Introduzione al diritto penale internazionale, Giappichelli, 2016, 2.
[6] S. Massi, Le fattispecie di genocidio nell’esperienza giurisprudenziale internazionale, in Strutture del diritto penale internazionale, cit., 2018, 126.
[7] C. Ferrara, Vittime di tortura durante il conflitto nella ex Jugoslavia: una storica decisione del Comitato ONU contro la tortura sulla responsabilità dello Stato, in Giustizia insieme, 23 giugno 2020.
[8] Le ragioni e le ambiguità della riforma sono efficacemente ricostruite da G. Fiandaca, Violenza sessuale, in Enc. dir., agg. IV, 2000, 1153 ss.
[9] M. Bertolino, M.: Libertà sessuale e blue-jeans, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/1999, 695-696.
[10] Cass., Sez. III pen., 3 ottobre 2017 n. 3648.
[11] Cass., Sez. III pen., 19 gennaio 2018, n. 20712; Cass., Sez. III pen., 9 febbraio 2017, n. 29235; Cass., Sez. III pen., 1 dicembre 2016, n. 43802; Cass., Sez. III pen., 12 febbraio 2014, n. 10248. Sul punto, per tutti, G. Fiandaca, La rilevanza penale del “bacio” tra anatomia e cultura, en Foro it., 1998, II, 505 ss.
[12] Cass., Sez. III pen., 6 novembre 1998, n. 3355, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/1999, con nota di M. Bertolino, Libertà sessuale e blue-jeans e in Foro it., 3/1999, II, 163, con nota de G. Fiandaca, Violenza sessuale su donna “in jeans” e pregiudizi nell’accertamento giudiziario.
[13] Bertolino M., Libertà sessuale e blue-jeans, cit., 701.
[14] Cass., Sez. III pen., 26 settembre 2017, n. 51074; Cass., Sez. III pen., 10 maggio 2017, n. 33049.
[15] Cass., Sez. III pen., 1 luglio 2014, n. 39445.
[16] Cass., Sez. III pen., 14 maggio 2014, n. 23913.
[17] Significativa al riguardo Cass., Sez. III pen., 15 febbraio 2017, n. 7162.
Fratelli tutti. Un’enciclica costituzionale?
di Tania Groppi
Sommario: 1. Costituzionalismo, cristianesimo, Occidente - 2. Le parole del costituzionalismo - 3. Uno sguardo nuovo - 4. Costituzionalismo trasfigurato - 5. Contro la “tirannia del merito” - 6. Farsi prossimo.
1. Costituzionalismo, cristianesimo, Occidente
L’Enciclica “Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale” (3 ottobre 2020), non è soltanto una summa degli interventi di Papa Francesco, nel corso del suo pontificato, sulla convivenza nell’ambito delle società umane. Certo, essa raccoglie discorsi e documenti presentati in sedi internazionali, di fronte al corpo diplomatico, ad associazioni di giuristi, ad organizzazioni della società civile, in incontri interreligiosi (a partire dalla fondamentale dichiarazione sottoscritta ad Abu Dhabi nel febbraio del 2019 congiuntamente al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb), messaggi per la giornata della pace o del migrante e del rifugiato, sistematizzandoli in un testo che si affianca alla precedente Enciclica “Laudato sì, sulla cura della casa comune” (24 maggio 2015), venendo a costituire un dittico sociale profondamente “francescano”.
“Fratelli tutti” è anche, almeno se letta con lo sguardo del costituzionalista, una summa del diritto costituzionale della nostra epoca, dei suoi acquis, delle sue contraddizioni, delle sfide alle quali è sottoposto nel XXI secolo. Con perlomeno due peculiarità. Essa non proviene da un giurista, ma dalla massima autorità spirituale di una religione. Non una religione qualunque, ma il cristianesimo, che è strettamente intessuto con il fondamento stesso di quell’Occidente che è stato la culla del costituzionalismo e ne continua a costituire la “patria” culturale. Proprio in tale tradizione spirituale e nella sua teologia l’Enciclica va alla ricerca degli strumenti per affrontare le sfide attuali, per rispondere alla impellente domanda sul “che fare”. Qui sta anche, almeno secondo me, il suo principale apporto, come cercherò di mostrare in questo breve intervento.
2. Le parole del costituzionalismo
Fin dal primo capitolo, dal significativo titolo “Le ombre di un mondo chiuso”, risuonano, più o meno espressamente, le parole del costituzionalismo. Non tanto di quello delle origini, radicato nelle rivoluzioni della fine del Settecento, benché ad esso sia riconducibile la triade “libertà, eguaglianza e fraternità”, alla quale sono dedicati diversi paragrafi [ad es. 103-105].
Ma, soprattutto, quelle del costituzionalismo del Secondo dopoguerra, che ha cercato di rifondare la convivenza umana dopo gli orrori della prima metà del Novecento, andando di pari passo con il rinnovamento del diritto internazionale, nel nome della pace e della tutela dei diritti umani universali. Fin dalle prime pagine si affacciano le speranze sorte in quel momento storico: “per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione”, specialmente sul continente europeo, dove “si è sviluppato il sogno di un’Europa unita” [10].
Dignità, solidarietà, pace, lavoro, ripudio della guerra. Sono le parole dello Stato democratico-pluralista, il cd. “Post-war paradigm” [Weinrib], declinato come Stato sociale e come Stato costituzionale aperto, in particolare nella sua variante “dignitaria” [Glendon]: ovvero, una forma di organizzazione del potere politico incentrata sulla dignità della persona umana, finalizzata ad assicurare la convivenza pacifica nelle società pluralistiche, attraverso una più equa distribuzione della ricchezza e la limitazione della sovranità esterna degli Stati, della quale sono espressioni paradigmatiche la Costituzione italiana del 1948 e quella tedesca del 1949 [Häberle, Cheli, Zagrebelsky].
Questo costituzionalismo è in crisi, ci dice il Papa. “La storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” [11], riappare la tentazione di alzare muri [27], “i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi” [30], “velocemente dimentichiamo la lezione della storia, ‘maestra di vita’” [35].
Ed è in questa “pars destruens” dell’Enciclica - che prende le mosse nel primo capitolo, per poi svilupparsi anche in quelli successivi - che riecheggiano le parole del costituzionalismo del XXI secolo, in particolare di quegli studiosi che hanno analizzato, utilizzando diverse espressioni (constititutional retrogression, democratic decay, democratic backsliding ecc.), il processo di arretramento della democrazia costituzionale negli ultimi dieci, quindici anni [Tushnet, Ginsburg, Daly].
Ecco così comparire, in prima linea, la “perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica” [172]. È la globalizzazione (“questa” globalizzazione, verrebbe da aggiungere con Stiglitz), una globalizzazione che unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” [12]. Una globalizzazione di impronta neoliberista, basata sulla fede nel mercato, il cui fallimento è ancor più evidente nella pandemia da Covid-19, che ha messo in luce la fragilità dei sistemi mondiali: “la fine della storia non è stata tale” [168].
Ecco Internet e la comunicazione digitale, “nella quale si generano ‘circuiti chiusi’, che ‘facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio’” [45].
Ecco le migrazioni, che mettono in moto paure ancestrali [27], dalle quali derivano intolleranza, chiusura e razzismo [41].
Ecco il populismo, inteso quale populismo “insano” (da tenere distinto dalla capacità di unificare, interpretando il sentire del popolo in modo “aperto”), definito come “l’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità” [159].
3. Uno sguardo nuovo
Le parole del costituzionalismo del Secondo dopoguerra ritornano anche nella pars construens - specialmente nel capitolo terzo “Pensare e generare un mondo aperto”, e nel capitolo quarto, “Un cuore aperto al mondo intero” - laddove si delineano le linee di azione per costruire un mondo che non sia basato su “cerchie di soci” ma sia fondato sulla fraternità tra tutti gli esseri umani.
Ed ecco ricomparire la solidarietà come “virtù morale e atteggiamento sociale” [114], i “diritti sociali e i diritti dei popoli” [126], la cittadinanza come “eguaglianza dei diritti e dei doveri” [131], la “rinuncia all’uso discriminatorio del termine minoranze” [131], la richiesta di un “ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico” [138], la necessità di assicurare “la sovranità del diritto” [173], il rigetto della guerra, della pena di morte e dell’ergastolo [268], la discussione pubblica come metodo di dialogo [203].
Tuttavia, se per qualche verso il costituzionalismo del Secondo dopoguerra è evocato, in diversi passaggi, come una sorta di eden perduto, da recuperare, anche attraverso la memoria storica [13, 36], mi sento di poter dire che il punto qualificante dell’Enciclica consiste nello svelare il “tarlo” che è venuto allo scoperto nel sistema che su tali solenni principi è stato costruito. Infatti, proprio muovendo da questa constatazione si giunge a ribadire - come già in “Laudato sì” riguardo alla “casa comune” - che occorre un radicale cambio di paradigma, questa volta nei rapporti tra le persone e i popoli, rispetto al mondo così com’è.
Il “tarlo” è l’individualismo radicale, che “non ci rende più liberi, più eguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune” [105].
Se la leggiamo in una dimensione puramente “costituzionale”, “Fratelli tutti” lascia aperta la questione sull’origine del “tarlo”, nel senso che non chiarisce se si tratta di una degenerazione del modello venutasi a determinare a seguito dell’affermazione, a partire dagli anni Ottanta, del paradigma neoliberista, oppure se già nel modello originario fossero insite le contraddizioni che hanno aperto la strada a tali deleteri sviluppi.
Si dice infatti che “osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati” [22].
È intorno alla determinazione delle cause dell’individualismo radicale che si colloca, a mio avviso, lo snodo centrale dell’Enciclica, ed è qui che si mostra la necessità di una lettura in chiave teologica, pena la incomprensione e finanche il travisamento dei suoi contenuti.
Infatti essa, pur riprendendo l’impostazione e il lessico del costituzionalismo del Secondo dopoguerra, trova la sua forza e la sua suggestione laddove fa parlare più direttamente la sua sorgente, ovvero quando lascia suonare “la musica del Vangelo”, che consente di “trasfigurare” e in qualche modo “fare nuovo” il retaggio del costituzionalismo: “Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo” [277].
In questa prospettiva, si possono richiamare perlomeno due passaggi cruciali.
Innanzitutto, quello in cui si rintraccia nella concupiscenza il fondamento dell’individualismo: in sostanza, benché questa parola non compaia mai nell’Enciclica, nel peccato. Si afferma che la “critica al paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama ‘concupiscenza’: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio” [166].
Inoltre, laddove si rinviene il fondamento della fraternità nell’essere figli di uno stesso Padre, richiamando l’Enciclica “Caritas in veritate”, di Benedetto XVI. “Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’eguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità»” [272].
Soltanto attingendo a questa dimensione “altra”, che collega la sfera sociale all’annuncio della salvezza, possiamo beneficiare pienamente, tutti, credenti e non credenti, dell’apporto della tradizione spirituale cristiana ed entrare in un’altra logica, che ci dia occhi nuovi e ci renda capaci di “sognare e pensare un’altra umanità” [127]. Riportandoci, come costituzionalisti, alle nostre stesse origini, a quei tempi lunghi dei diritti umani [Bobbio], a quello sguardo profetico verso l’avvenire che ha contrassegnato i nostri costituenti, a quella speranza che continua a nutrire la vita delle costituzioni democratiche.
4. Costituzionalismo trasfigurato
Il punto di partenza per questa trasformazione dello sguardo è la conversione del cuore, che implica una uscita da sé, una vera e propria “estasi”: “Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi una specie di legge di ‘estasi’: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere. Perciò in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso” [88].
Soltanto in tal modo si riesce ad avere uno sguardo che riesca a vedere gli altri, anche gli ultimi, come fratelli: “Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società. Tale sguardo è il nucleo dell’autentico spirito della politica. A partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle di un pragmatismo senz’anima” [187].
A partire da qui sono riletti e vivificati molteplici aspetti chiave del costituzionalismo, cominciando dai principi supremi, quelle “clausolas petreas” o “eternity clauses” che pretendono di sottrarre alle revisioni costituzionali i principi-chiave del vivere comune: “Che cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino di riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile? Affinché una società abbia futuro, è necessario che abbia maturato un sentito rispetto verso la verità della dignità umana, alla quale ci sottomettiamo” [207-209].
La stessa rielaborazione si ha per un altro dei concetti chiave del costituzionalismo contemporaneo, nella sua versione di “transformative constitutionalism”, le norme programmatiche, che divengono direttive per “avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri” [196], in un rapporto con il tempo che abbandoni la tirannia del presente.
Per la stessa nozione di pluralismo, in cui la convivenza pacifica deve essere coltivata attraverso la “carità politica”, chiamata a propiziare l’incontro e il dialogo: “Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo” [190].
Fino ad arrivare alla politica, alla quale sono dedicati molti paragrafi, partendo dalla domanda “può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?” [176]. Una politica che si trasfigura in tenerezza, cioè in una “amore che si fa vicino e concreto” [194], e che “è sempre un amore preferenziale verso gli ultimi” [187].
5. Contro la “tirannia del merito”
Se fin qui ho passato in rassegna alcuni punti trattati esplicitamente nell’Enciclica, mi sembra che lo sguardo nuovo, “trasformato dalla carità”, al quale ci chiama, possa esserci di aiuto anche per affrontare, come costituzionalisti, altri aspetti chiave della nostra epoca, che non sempre riusciamo a vedere, assuefatti come siamo ad un certo senso comune.
È quel che accade col paradigma meritocratico, basato sull’affermazione “a ciascuno secondo il suo merito”. Apparentemente un principio sacrosanto, ma basato su una premessa scivolosa. Che cos’è il merito? Da dove vengono questi supposti “talenti” che andrebbero premiati? Quello che a prima vista consideriamo un “merito” non è invece il frutto di condizioni economico-sociali, proprie o dei propri antenati, che condizionano lo sviluppo psicofisico e culturale della persona umana?
Un paradigma “trasversale”, al punto che si è parlato di una “tirannia del merito”, che non è riconducibile solo all’ideologia neoliberista, a Ronald Reagan o Margaret Thatcher, per intendersi, ma costella i discorsi di Bill Clinton e Barack Obama, che esaltano un sistema nel quale i migliori possono eccellere ed emergere [Sandel]. E che sta avvelenando la convivenza umana, contribuendo ad allontanare le persone l’una dall’altra, riproducendo una divisione in caste (basata sulla “meritevolezza”) che porta in definitiva al mantenimento di una concezione gerarchica della società con al vertice le “élites del merito”, una nuova oligarchia come ebbe a dire a suo tempo Hannah Arendt. L’abbondanza di metafore spaziali di tipo verticale che caratterizza il nostro linguaggio ogni volta che viene in rilievo l’eguaglianza lo testimonia, a partire dalla eguaglianza dei punti di partenza, per proseguire con l’ascensore sociale, la gara della vita, il paracadute sociale. Quante volte si è letta, e non soltanto sulla base dell’“American Dream”, ma anche in Europa, l’eguaglianza come “pari opportunità”, da dare a tutti, in modo tale da premiare, come recita anche la Costituzione italiana, i più “capaci e meritevoli”, mettendo in moto processi “ascensionali” di mobilità sociale.
Senza che ci si renda conto che con tali espressioni si sta inoculando un veleno nella società: si introduce infatti un elemento di giudizio, di disvalore, verso tutti coloro che non ce la fanno, che debbono sì essere aiutati, ma che restano marchiati da uno stigma, o perché non si sono impegnati abbastanza, o non sono stati abbastanza meritevoli, oppure perché non sono abbastanza capaci. Quel che è certo è che manca loro qualcosa, nel senso che sono, in qualche modo, manchevoli e perciò peggiori.
Da lì la sensazione di superiorità di chi sta in alto, che pensa di aver “meritato” la propria posizione, e, invece, quella di inferiorità (e di frustrazione) di chi sta in basso. L’allargarsi della distanza tra le persone sta mettendo in crisi la stessa sopravvivenza della democrazia: come è possibile mantenere un patto di convivenza tra soggetti che sono ormai così lontani al punto da vivere vite separate, in spazi separati, senza incontrarsi mai?
Rispetto a questa nuova forma di divisione, di distanza, invocare la fraternità e l’amicizia sociale, ovvero una “vicinanza”, sostituire alla metafora gerarchica verticale della scala quella orizzontale del poliedro, costituisce un approccio rivoluzionario, che interpella la coscienza di ciascuno di noi, invitandoci a una umiltà che può derivare soltanto dal riconoscerci, tutti, indipendentemente dai propri successi e doti, come creature. Fratelli tutti.
6. Farsi prossimo
Mi pare però che, più di ogni altro aspetto dell’Enciclica, sia la parabola del buon samaritano, narrata nel Vangelo di Luca (Lc 10, 25-37) - alla quale è dedicato, come una apparente parentesi, il capitolo secondo, “Un estraneo sulla strada” - che guida a comprenderne il senso profondo e illumina la prospettiva di azione che essa costantemente sollecita.
Una parabola la cui narrazione “è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza” [69].
Che fare, dunque? Come costituzionalisti e come persone di questa epoca?
Occorre prima di tutto prendere posizione, scegliere da che parte stare: “Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene” [77]. Un richiamo forte, o almeno io lo leggo così, a ricordarci, come giuristi, che il fine del diritto è quello di contrapporsi alla forza, al privilegio, all’ingiustizia, e di contribuire a ridurre il dolore e la sofferenza umani.
E, quindi, farsi parte attiva nella società. “È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano” [78].
Mi tornano in mente qui le parole pronunciate da Eleanor Roosevelt in uno dei suoi ultimi discorsi alle Nazioni Unite, il 27 marzo 1953, messe in evidenza in un bellissimo libro di Mary Ann Glendon, dal suggestivo titolo “Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani”. “Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani? Nei piccoli luoghi vicino casa – così vicini e così piccoli da non potersi individuare su nessuna mappa del mondo. Eppure, essi sono il mondo delle singole persone: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui si lavora”.
In altri termini, siamo chiamati a farci presenti “alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza” [81]. Per i credenti, ma mi sentirei di dire, per ogni persona di buona volontà, risuonano le parole di Gesù a conclusione della parabola: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37).
Opere citate:
H. Arendt, La crisi dell’istruzione (1958) ora in Id., Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 2017
E. Cheli, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale scientifica, Napoli, 2006
T. Ginsburg, A. Z. Huq, How to Save a Constitutional Democracy, The University of Chicago Press, Chicago, 2018
M. A. Glendon, Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani (2001), Liberilibri, Macerata, 2009,
M. A. Graber, S. Levinson, M. Tushnet (eds), Constitutional Democracy in Crisis?, Oxford University Press, Oxford, 2018
P. Häberle, Lo Stato costituzionale, Carocci, Roma, 2005
M. J. Sandel, The Tyranny of Merit: What’s Become of the Common Good?, Allen Lane, London, 2020
J. E. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013
L. Weinrib, The Postwar Paradigm and American Exceptionalism, in S. Choudrhy (ed.) The Migration of Constitutional Ideas: Rights, Constitutionalism and the Limits of Convergence, Cambridge University Press, Cambridge, 2006
G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992
La disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto dell’Unione (nota a TAR Puglia-Lecce, sez. I, 18 novembre 2020 n. 1321)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 1.1 Sulla disciplina delle concessioni 2. La disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con le disposizioni comunitarie - 3. L'atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario. Certezza del diritto - 4. La disapplicazione normativa e il regime giuridico degli atti amministrativi - 5. La disapplicazione nella giurisprudenza comunitaria; 6. Interpretazione autentica e interpretazione abrogante - 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La disapplicazione giurisdizionale degli atti amministrativi invalidi, istituto tradizionale del nostro sistema di giustizia amministrativa [1], nei tempi più recenti ha acquisito rilevanza sempre crescente con riferimento al problema della influenza reciproca fra diritto interno e diritto comunitario.
In questo nuovo contesto merita di essere segnalata la recente pronuncia del TAR Puglia- Lecce, sez. I, del 18/11/2020 n. 1321.
In tale sede il giudice amministrativo è stato chiamato a decidere sul provvedimento comunale con cui è stato disposto l’annullamento d’ufficio dell’addendum all’atto concessorio avente ad oggetto la “proroga ex lege della Concessione Demaniale Marittima n. 3/2010.”
La ricorrente aveva ottenuto dal Comune il rilascio della proroga della concessione in essere per la durata di ulteriori 13 anni ai sensi dell’arti. 1 commi 682 e 683 della Legge 145/2018 e dunque con scadenza in data 31 dicembre 2033. Successivamente l’Amministrazione, dopo aver comunicato l’avvio del procedimento e invitato la ricorrente a produrre eventuali controdeduzioni, emetteva il provvedimento con cui annullava ex officio la proroga.
Tra i diversi motivi di diritto addotti, la ricorrente rileva che il provvedimento annullato d’ufficio risulterebbe supportato dall’erroneo convincimento del ritenere principio ormai consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale “la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto dell’unione europea, a maggior ragione se tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Giustizia UE, costituisce un obbligo per lo stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l’apparato amministrativo e per i suoi funzionari qualora sia chiamato ad applicare una norma interna contrastante con il diritto comunitario”.
Il Collegio adito, nell’accogliere il ricorso e, per l’effetto, annullare il provvedimento impugnato, evidenzia l’illogicità nel ritenere che il potere di disapplicare la legge nazionale, potesse essere riconosciuto sic et simpliciter al dirigente comunale. Invero tale facoltà è conferita esclusivamente al giudice nazionale e sovranazionale, supportata all’uopo dalla specifica attribuzione di poteri ad esso prodromici.
1.1. Sulla disciplina delle concessioni
Occorre, in primis, soffermarsi sulla disciplina delle concessioni demaniali [2] oggetto del contenzioso in commentoche nel corso degli anni ha subito diverse e profonde modifiche necessarie al coordinamento tra normativa nazionale e normativa comunitaria. In tale sede appare opportuno rilevare che il Parlamento Europeo con direttiva 2006/123/CE, ha dichiarato l’incompatibilità dei provvedimenti di proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime in assenza di procedura di selezione tra gli aspiranti. Il legislatore nazionale al fine di evitare l’avvio della procedura di infrazione, con L. 160/2016 ha previsto una sanatoria dei rapporti concessori in essere in via interinale e “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea”.
Invero la novellata disciplina, volta a garantire la compatibilità con l’ordinamento comunitario non si è concretizzata ed avvicinandosi al termine del 31 dicembre 2020, il legislatore con la Legge Finanziaria del 2019 ha disposto un ulteriore proroga delle concessioni demaniali in vigore fino al dicembre 2033, integrando così una manifesta violazione delle prescrizioni contenute nella Direttiva. Tale situazione ha determinato assoluta incertezza per gli operatori e per le pubbliche amministrazioni creando forti dubbi circa la disapplicazione della norma nazionale inficiando così l’uniformità e l’armoniosità dell’applicazione della normativa sul territorio nazionale.
2. La disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con le disposizioni comunitarie
È necessario partire, per avere una visione completa della disapplicazione, dal rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno, che, a seguito dell'adesione dell'Italia al Trattato di Parigi del 1951 e ai Trattati di Roma del 1957 è stato affrontato dalla giurisprudenza costituzionale con il richiamo all'art. 11 della Costituzione, che consente "limitazioni di sovranità" in vista di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni [3]. Tali limitazioni riguardano non soltanto l'attività normativa dello Stato, ma anche l'attività amministrativa e giurisdizionale.
La giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che le limitazioni di sovranità, non trattandosi di cessione, sono ammissibili entro i limiti dei valori fondamentali del nostro ordinamento [4]. I Trattati comunitari, a loro volta, prevedono che le istituzioni comunitarie possano adottare regolamenti o direttive, a seconda dei casi, in determinate materie, con la conseguenza che le limitazioni di sovranità saranno una riserva di competenza a favore delle fonti comunitarie e l’invasione di tale sfera, da parte delle fonti interne, comporterà violazione mediata dell’art. 11 Cost. [5].
L’iniziale orientamento della Corte Costituzionale faceva riferimento ad una ripartizione di competenza desumibile dall’art. 11 Cost. da cui derivano alcune conseguenze sul piano del diritto interno. In primo luogo, gli atti normativi nazionali, che invadono la sfera riservata dai trattati alle fonti comunitarie, violano l’art. 11 Cost.. in secondo luogo, se le fonti comunitarie non disciplinano le materie loro riservate, continueranno a vigere le norme nazionali, in quanto la competenza verrà traferita con il primo atto di esercizio. In terzo luogo, l’emanazione di norme comunitarie nelle materie riservate alle Comunità, implica l’abrogazione di quelle nazionali contrastanti. Infine, la fonte nazionale incompatibile con la disciplina dettata dalla fonte comunitaria competente è illegittima e, competente a giudicare su tale illegittimità, era la stessa Corte Costituzionale. [6]
Tale orientamento non è stato accolto dalla Corte di Giustizia che, nella decisione del 9 marzo 1978, sentenza Simmenthal [7], ha affermato il principio della diretta applicabilità delle norme comunitarie da prevalere sul diritto interno incompatibile. Il giudice nazionale è tenuto a disapplicare [8] (indipendentemente dal filtro di un giudizio costituzionale) le norme statali contrastanti con la normativa comunitaria automaticamente operante. La posizione della Corte costituzionale, che configurava in termini di legittimità costituzionale il contrasto tra il diritto comunitario e le leggi interne successive, vietando al giudice il potere di disapplicare direttamente le leggi nazionali incompatibili, era pertanto in aperto contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia [9].
Successivamente nel 1984 la Consulta, nella sentenza Granital [10], ha escluso l'applicabilità del principio lex posterior derogat priori, ed ha riconosciuto che è dovere del giudice applicare "sempre" il diritto comunitario direttamente applicabile «sia che segua, sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili>>. La decisione, imponendo al giudice di disapplicare le leggi contrastanti con le norme comunitarie, pone una forma di controllo diffuso sulla validità delle leggi. Tale controllo, in base all'art. 234 Trattato CE, che prevede il rinvio al giudice comunitario delle questioni attinenti all'interpretazione alla validità delle norme comunitarie, esalta la funzione della Corte di Giustizia, quale garante della corretta interpretazione ed applicazione del diritto comunitario [11]. Sembra evidente quindi che il principio della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale, imponga che la norma interna contrastante con quella nazionale venga disapplicata. Il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare il diritto comunitario attribuendo al singolo la tutela conferita da tale diritto, con la conseguenza della disapplicazione della norma nazionale confliggente, anteriore o successiva che sia [12].
La giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra, sul punto, non mutare indirizzo. Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza, ha ribadito che << il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante con la legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale>> [13] .
Il Collegio ritiene che, in linea con la consolidata giurisprudenza, qui richiamata, la disapplicazione è una funzione riconosciuta esclusivamente al Giudice che possiede poteri prodromici all’esercizio di tale attività [14]. È il suddetto potere riconosciuto al Giudice a garantire che la disapplicazione non comporti una disomogenea applicazione della norma sull’intero territorio nazionale. Infatti riconoscere tale facoltà all’Amministrazione comporterebbe senza dubbio una incertezza circa l’applicazione della norma in contrasto con il diritto unionale. Il TAR Puglia, in tale sede, infatti, ha rilevato che proprio nella materia dell’odierna discussione, ovvero la concessione della proroga fino al 31 dicembre 2033, alcune amministrazioni hanno disapplicato la norma nazionale, altre sono rimaste inerti, altre ancora hanno in un primo momento concesso la proroga e successivamente hanno annullato d’ufficio il provvedimento- come nel caso in oggetto. Tutto ciò dunque allontanerebbe vistosamente l’obbiettivo di omogeneità e uniformità del diritto all’interno del territorio nazionale andando ad inficiare anche il principio della certezza del diritto.
3. L'atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario. Certezza del diritto
Chiarito il rapporto vigente tra l’ordinamento nazionale e comunitario, pare utile, ora, procedere verso una compiuta definizione del rapporto gerarchico tra le fonti nazionali e comunitarie. In particolare, occorre determinare la collocazione delle direttive all’interno del nostro ordinamento. I Giudici Amministrativi, nella sentenza in oggetto, hanno rilevato, supportati dalla giurisprudenza comunitaria, che le cd. direttive self- executing [15] hanno efficacia immediata nell’ordinamento nazionale limitatamente a quelle statuizioni che risultino compiutamente definite e prive di alcuna condizione. Circa la collocazione nella scala gerarchica delle fonti, le direttive autoesecutive, hanno natura di legge ordinaria rafforzata atteso che esse non possono essere derogate da una legge nazionale. Dunque tali direttive, trovano immediata applicazione con la conseguenza che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la normativa interna con essa confliggente [16].
Più complessa appare invece la determinazione circa le direttive non autoesecutive, che, rappresentano tuttavia, per la dottrina e per la giurisprudenza, un vincolo in rapporto alle autorità deputate a darvi esecuzione, sotto un doppio profilo. Per un verso, infatti, le direttive costituiscono un parametro di legittimità nei confronti dell'attività svolta al momento dell'attuazione; per un altro, le medesime sembrano impedire iniziative amministrative ad esse contrarie, anche precedentemente ed in assenza dell'attenzione. Secondo la Corte di Giustizia, invero, «lo Stato singolo non può opporre ai singoli l'inadempimento da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa» [17]. Si potrebbe quindi dedurre che il contenuto delle direttive influenzi l'esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione. Si presenterebbe pertanto, in caso di loro violazione, il vizio di eccesso di potere e non di violazione di legge.
Similmente, in relazione alle raccomandazioni, pareri e comunicazioni, si ritiene che tali atti «debbano essere presi in attenta considerazione dall'autorità amministrativa nazionale nell'esercizio dei propri poteri discrezionali, non diversamente da quanto accade per i pareri non vincolanti previsti dall'ordinamento nazionale>>. Pertanto <<l'amministrazione in="" sede="" di="" motivazione="" della="" propria="" deliberazione="" dovrà="" indicare="" le="" ragioni="" per="" quali="" si="" sia="" eventualmente="" discostata="" da="" tali="" atti="">>. In difetto, anche in caso di violazione, sembra rilevare il vizio di eccesso di potere e non violazione di legge [18].
Giova inoltre notare che il tema dei rapporti tra provvedimento amministrativo e diritto comunitario, deve essere esaminato con riguardo al potere di autotutela rimesso all'amministrazione nel caso di un atto amministrativo illegittimo perché contrastante con il diritto europeo. Secondo il giudice del Lussemburgo, affinchè sussista l’obbligo di riesame di una decisione amministrativa in contrasto con il diritto comunitario, è necessaria in primo luogo la circostanza secondo cui «il diritto nazionale riconosce all'organo amministrativo la possibilità di ritornare sulla decisione in discussione nella causa principale, divenuta definitiva>>.
In secondo luogo deve sussistere il fatto che «la decisione amministrativa ha acquisito il suo carattere definitivo solo in seguito alla sentenza di un giudice nazionale le cui decisioni non sono suscettibili di un ricorso giurisdizionale>>. Inoltre occorre che la sentenza si fondi su un'interpretazione del diritto comunitario, assunta senza previo rinvio pregiudiziale che risulti successivamente errata. Infine, la parte che ha interesse faccia istanza di riesame <<all'organo amministrativo="" immediatamente="" dopo="" essere="" stato="" informato="" di="" tale="" sentenza="" della="" corte».="" <="" p="">
Solo alla presenza di tali circostanze, sulla base del principio di leale cooperazione (art. 10 CE) ad un organo amministrativo investito di una richiesta in tal senso, è imposto «di riesaminare tale decisione al fine di tener conto dell'interpretazione della disposizione pertinente di diritto comunitario nel frattempo accolta dalla Corte» [19]. Il giudice comunitario, ancora una volta, offre chiare soluzioni alla vicenda processuale rimessa al suo esame.
Il modo puntuale con cui illustra le condizioni, alla presenza delle quali sussiste un obbligo di riesame di un provvedimento amministrativo in contrasto con il diritto comunitario, costituisce il minimo comune denominatore per la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici. Si concorda nel ritenere che, nella fattispecie, la Corte di Giustizia <
In definitiva, un insieme di componenti consentono di individuare l'evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Innanzitutto va ricordato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice nazionale debba rilevare d'ufficio la violazione del diritto comunitario; l'innovativa decisione che ha stabilito il principio della obbligatoria disapplicazione per contrasto con il diritto comunitario del <
Continuano ad emergere nuove regole [20] che, da una parte, qualificano la primazia del diritto comunitario rispetto ad atti normativi nazionali che con esso contrastano; dall'altra, tali regole sembrano favorire una tendenziale armonizzazione ed omogeneizzazione nell'ambito delle discipline giuspubblicistiche [21]. Nel quadro dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, si è constatato come l'atto amministrativo contrastante con il diritto comunitario, non è nullo, né inesistente, né annullabile. Esso deve essere disapplicato al fine di agevolare la massima espansione del diritto comunitario, favorita anche dalla diretta applicabilità dello stesso all'interno degli Stati nazionali.
4. La disapplicazione normativa e il regime giuridico degli atti amministrativi
La problematica in ordine al tema della cd. Illegittimità comunitaria dell’atto amministrativo, sembra provocata dall’influenza sempre più incisiva del diritto comunitario negli ordinamenti nazionali, nonché dall’adempimento delle azioni e dei settori in cui è intervenuta la normativa comunitaria.
Assume quindi rilevanza la qualificazione del regime giuridico del provvedimento amministrativo contrastante con il diritto comunitario. Tale qualificazione, si osserva in dottrina, si collega in modo diretto ed indiretto con la soluzione della più generale questione sui rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario. Da questo problema si possono trarre differenti soluzioni.
A riguardo, un indirizzo prospetta l'appartenenza della normativa comunitaria ad un ordinamento autonomo, seppur connesso con quello interno. Secondo un altro - accolto dal giudice comunitario - le disposizioni comunitarie contribuirebbero, sostanzialmente, a formare un ordinamento giuridico unitario di cui le norme del diritto interno costituiscono parte integrante [22].
Ordunque, volendo accogliere l'indirizzo della disgiunzione tra gli ordinamenti, ne conseguirebbe che le norme comunitarie non si integrano con l'ordinamento interno. Se così fosse, si verificherebbe per un verso che il contrasto tra norme comunitarie e norme di diritto interno non dà luogo d'invalidità di queste ultime, ma solo alla disapplicazione. Per un altro, la stessa norma comunitaria - non appartenendo all'ordinamento - non potrebbe essere ammessa come atto fonte del potere esercitato dall'autorità amministrativa con l'emanazione dell'atto. Ove si accettasse al contrario l'assunto in ordine all' integrazione normativa (ed amministrativa), si perverrebbe agevolmente a conclusioni diverse dalle precedenti, riferibili sia alla sorte della norma di diritto interno, da valutarsi invalida e non solo disapplicabile, sia alla possibilità che la norma comunitaria diventi il parametro di legittimità dell'atto amministrativo emanato in base ad essa. La dottrina ha evidenziato che una rigida applicazione derivante dal presupposto della separazione tra gli ordinamenti, porterebbe a rendere inefficace anche a livello di azione amministrativa, il principio della prevalenza del diritto comunitario [23].
Tale presupposto, secondo la dottrina <>.
Alle norme comunitarie viene, infatti, negata qualsiasi efficacia diretta sull'operato amministrativo, non potendo le stesse costituire né il presupposto normativo fondante la potestà amministrativa di adozione dell'atto, né il parametro alla cui stregua valutare l'eventuale illegittimità». La dottrina e la giurisprudenza hanno pertanto adottato soluzioni diverse, pur discostandosi dalla teoria della autonomia degli ordinamenti, al fine di confermare il principio del primato del diritto comunitario su quello interno.
Sono emersi infatti alcuni orientamenti in parte differenti tra loro. Intanto, si è elaborata la c.d. tesi della annullabilità. Secondo tale tesi, la violazione del diritto comunitario determina effetti simili alla violazione del diritto interno; per tal motivo si è parlato di invalidità/annullabilità. Ciò comporta quindi l'applicabilità dei principi relativi al regime dell'invalidità degli atti amministrativi, non solo in rapporto alla "tipologia" dei vizi, ma anche alle regole di carattere processuale per la caducazione dell'atto viziato.
Si è rilevata, in tal caso, l'esigenza di un immediato ricorso, pena l'inoppugnabilità dell'atto; in secondo luogo la necessità di specifici ricorsi per avversare l’'anticomunitarietà" diversamente non rilevabile d'ufficio dal giudice; infine la presenza di decisioni di annullamento al fine di eliminare dall'atto i suoi effetti giuridici. La dottrina perviene a queste conclusioni, presupponendo che le discordanze tra norme (interna e comunitaria) si debbano dirimere utilizzando i criteri ordinatori del rapporto tra norme appartenenti allo stesso ordinamento. Pertanto ne deriverebbe che «la legge italiana, incompatibile con un regolamento comunitario risulterà abrogata se ad esso anteriore>>.
Al contrario se la legge interna fosse successiva, presenterebbe «un vizio di invalidità (non già di nullità – inesistenza>>, così come accade nel caso di legge costituzionalmente illegittima [24]. Queste premesse consentono di concludere che l'atto amministrativo affetto «da un vizio scaturente dall'inapplicabilità della legge nazionale, presenta una patologia valutabile alla stregua dei comuni canoni della illegittimità - annullabilità, come si reputa avvenga nel caso di applicazione di legge incostituzionale [...]». Successivamente si è formulata la tesi della nullità. La legge nazionale, secondo tale tesi, in contrasto con il diritto comunitario sarebbe nulla. Anche l'atto amministrativo confliggente con il diritto comunitario, quindi, sarebbe nullo o addirittura inesistente per carenza di potere.
Così argomentando, da un lato, l'atto confliggente con il diritto comunitario non sarebbe più inoppugnabile; da un altro, diverrebbe dubbia la giurisdizione del giudice amministrativo, stante l'assenza della relativa degradazione del provvedimento; la questione, pertanto, sarebbe devoluta al giudice ordinario [25]. Un'altra tesi ha operato una distinzione tra il caso in cui la norma interna si limiti a disciplinare le modalità di esercizio del potere, da quello in cui esclusivamente la norma stessa attribuisca il potere che sta alla base dell'atto amministrativo emesso. Orbene, nel primo caso si ravviserebbe una patologia configurabile come annullabilità; nel secondo caso, si avrebbe l'inesistenza dell'atto medesimo poiché adottato in carenza di potere, stante la non applicabilità della norma attributiva del potere stesso [26].
A tal proposito, si richiama in giurisprudenza la decisione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, del 10 gennaio 2003, n. 35. Nel caso di specie, è stato esplicitamente sottolineato che allorquando un atto amministrativo viola una disposizione di natura comunitaria si configura un vizio di illegittimità - annullabilità dell'atto stesso [27]. In particolare il Consesso Amministrativo ha statuito che <primautè del diritto comunitario e con il suo carattere vincolante per i giudici, oltre che per i legislatori e le amministrazioni degli stati membri>>.
Si è a tal proposito osservato in dottrina che sia il Consiglio di Stato che la Corte di Giustizia <
5. La disapplicazione nella giurisprudenza comunitaria
È applicabile dunque il potere della disapplicazione degli atti nazionali in contrasto con il diritto comunitario, anzi, per gli atti amministrativi il principio della disapplicazione presenta un'efficacia ed un'estensione più ampia rispetto agli atti normativi. Successivamente alla disapplicazione - stante il carattere incidentale della pronuncia del giudice - l'atto normativo conserva sostanzialmente intatta la sua generale efficacia per le questioni diverse da quelle sottoposte alla cognizione giudiziale. Come si è osservato in precedenza - relativamente alla disapplicazione nell'ordinamento nazionale - l'atto continua ad estendere i suoi effetti giuridici nei confronti dei soggetti dell'ordinamento. Invece, per quanto attiene agli atti amministrativi, <
Sul punto è bene richiamare la sentenza Ciola [29] della Corte di Giustizia, con cui sembra aver condiviso l'orientamento favorevole ad applicare l'istituto della disapplicazione alla generalità dei casi di contrasto con il diritto comunitario di atti normativi e amministrativi nazionali. Nella fattispecie, il Tribunale superiore amministrativo austriaco poneva al Giudice comunitario il seguente quesito: «se un divieto posto anteriormente all’adesione di uno Stato membro all'unione europea non attraverso una norma generale o astratta, ma attraverso un provvedimento amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo, che sia in contrasto con la libera prestazione dei servizi, vada disapplicato nella valutazione della legittimità di un'ammenda irrogata per inosservanza di tale divieto dopo la data di adesione».
Ebbene, la Corte di Giustizia ha evidenziato, in primo luogo, che «tra le disposizioni di diritto interno in contrasto con la disposizione comunitaria possono figurare disposizioni vuoi legislative, vuoi amministrative>>. In secondo luogo, secondo la Corte «è nella logica di tale giurisprudenza che le disposizioni amministrative di diritto interno ... non includano unicamente norme generali ed astratte, ma anche provvedimenti amministrativi individuali e concreti»[30].
Con tale importante decisione, la Corte ha definitivamente stabilito il principio secondo cui «un divieto emanato all'adesione di uno Stato membro all'unione europea non attraverso una norma generale e astratta, bensì attraverso un provvedimento amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo, che sia in contrasto con la libera prestazione dei servizi, va disapplicato>>[31].
Il giudice comunitario giunge a tale conclusione dirompente ed innovativa riprendendo la sentenza Peterbroeck ove si decideva che <<è compito dei giudici nazionali…garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto. In mancanza di disciplina comunitaria in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto>>.
6. Interpretazione autentica e interpretazione abrogante
Orbene il TAR Puglia pronunciandosi sulla fattispecie posta alla sua attenzione, rileva che il provvedimento amministrativo adottato in conformità alla legge nazionale ma in violazione di direttiva autoesecutiva [32] costituisce atto illegittimo e quindi non atto nullo con la conseguenza che la sua annullabilità potrà essere disposta dal giudice amministrativo. Dunque in caso di conflitto tra norma nazionale e norma comunitaria immediatamente efficace deve ritenersi sussistente l’obbligo di disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria [33].
Sul punto è bene richiamare la sentenza del 16 luglio 2016 che ha fornito interpretazione vincolante dell’art. 12 paragrafi 1 e 2 della direttiva Bolkestein: “l’art. 12, paragrafi 1 e 2. della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come di quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsivoglia procedura di selezione tra i potenziali candidati; l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che preveda una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”.
Essa costituisce quindi l’espressione piena dell’interpretazione vincolante per il giudice nazionale.
Invero non può essere ritenuta vincolante la recente pronuncia della Corte di Giustizia nella quale risulta affermato il principio secondo cui la prevalenza della norma comunitaria su quella interna comporterebbe l’obbligo di disapplicare quella nazionale da parte dello Stato membro “in tutte le sue articolazioni” ovverosia da parte dei giudici nonché dall’amministrazione.
Infatti appare evidente che tale statuizione non possa ritenersi di natura interpretativa di una determinata direttiva o regolamento U.E. e che comunque risulti ultronea e non vincolante.
Per pronuncia interpretativa deve intendersi quella volta a chiarire la ratio della statuizione specifica e non dunque una qualsivoglia affermazione a carattere generale volta a condizionare l’azione decisionale del giudice nazionale o della P.A., funzioni che soggiacciono a norme e a regole processuali inderogabili previste a livello nazionale [34].
Anche i Giudici di Palazzo Spada hanno ribadito che la disapplicazione della norma interna rientri nell’attività di interpretazione, finalizzata “all’individuazione della norma applicabile, riservata al giudice, in applicazione del principio iura novit curia e nel doveroso rispetto dei principi di primizia del diritto comunitario, di certezza del diritto e di leale collaborazione”. [35]
Non appare dunque significativo il riferimento al rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario e di certezza del diritto “che impongono sia alla pubblica amministrazione, sia al giudice di garantire la piena e diretta efficacia nell’ordinamento nazionale e la puntuale osservanza ed attuazione del diritto comunitario. Ne consegue che la disapplicazione della disposizione interna contrastante con l’ordinamento comunitario costituisce un potere- dovere, anzi, un dovere istituzionale per il giudice…”
Tale presa di posizione è già chiara altresì nella sentenza del Consiglio di Stato n. 7874/2019, nella quale viene stabilito che“...il Collegio deve farsi carico di rammentare che la tesi prevalente in giurisprudenza, allo stato, e condivisa dal Collegio, tende ad affermare che il provvedimento amministrativo adottato dall’amministrazione in applicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto eurounitario non va considerato nullo, ai sensi dell’art. 21- septies Legge 241/90 per difetto assoluto di attribuzione di potere in capo all’amministrazione procedente, sebbene alla medesima amministrazione, per quanto si è sopra riferito è fatto carico dell’obbligo di non applicare la norma nazionale contrastante con il diritto euro-unitario, in particolar modo quando tale contrasto sia stato sancito in una sentenza della Corte di Giustizia U.E.. Per effetto di tale prevalente orientamento, quindi, la violazione del diritto euro-unitario implica solo un vizio di illegittimità non diverso da quello che discende dal contrasto dell’atto amministrativo con il diritto interno, sussistendo di conseguenza l’onere di impugnare il provvedimento contrastante con il diritto europeo dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena l’inoppugnabilità del provvedimento medesimo”.
Difatti il Giudice adito ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale relativamente alla configurazione del provvedimento amministrativo conforme alla legge nazionale in contrasto con la norma comunitaria come provvedimento illegittimo e non già come nullo considerando tale attività riservata esclusivamente al giudice [36].
Va rilevato in conclusione che la statuizione della Corte di Giustizia in cui si legge che la norma nazionale deve essere disapplicata dallo stato “in tutte le sue articolazioni” non può essere considerata norma dichiarativa di interpretazione autentica della norma unionale, perché non ha ad oggetto alcuna individuazione della ratio legis di una specifica norma comunitaria ma riguarda invero le generali regole e modalità di applicazione della normativa dell’Unione in generale considerata dovendosi riguardare alla stregua di mero obiter dictum.
La disapplicazione è, dunque, strettamente correlata all’attività di esegesi e di interpretazione della norma, in quanto essa costituisce il risultato effettivo della funzione interpretativa. In particolare la disapplicazione costituisce l’esito dell’attività di interpretazione abrogativa [37].
Tra le diverse interpretazioni quella in oggetto presenta sicuramente aspetti problematici in quanto può condurre ad una violazione di regole, ruoli e competenza attribuiti al Giudice e al Legislatore. L’interpretazione abrogante è esclusivamente consentita in presenza della simultanea coesistenza di due norme in conflitto insanabile tra loro, dunque è necessario che il conflitto non possa essere sanato in una prospettiva di coerenza e completezza dell’ordinamento ovvero facendo ricorso a regole precise e consolidate. Per cui al di fuori di tali ipotesi il ricorso all’interpretazione abrogante non è consentito al Giudice e ne tanto meno alla Pubblica Amministrazione.
7. Considerazioni conclusive
L'evoluzione giurisprudenziale [38], il processo di ibridazione del diritto amministrativo nazionale con il diritto comunitario [39] ed il progressivo ampliamento delle competenze comunitarie, soprattutto a seguito della creazione del Mercato unico europeo e vieppiù della c.d. Costituzione europea, nonché l'abolizione delle restrizioni alla circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali, hanno determinato la preminenza del diritto comunitario su quello interno.
Nel processo di integrazione ed omogeneizzazione delle normative degli stati membri, attraverso il diritto comunitario, le tradizionali categorie della nullità e dell'annullabilità dell'atto amministrativo sembrano svuotarsi di significato, a favore del crescente ambito di operatività dell'istituto della disapplicazione, come strumento teso alla conferma del primato del diritto comunitario.
Sembra crearsi pertanto una forma di invalidità dell'atto amministrativo, che legittima il giudice ad emettere sentenze dichiarative e di accertamento. D'altro canto la giurisprudenza della Corte di Giustizia ribadisce il primato del diritto comunitario, implicando che il giudice debba disapplicare non soltanto le leggi e gli atti normativi (fonti primarie) ma anche i provvedimenti amministrativi con esso contrastanti [40]
La assoluta singolarità dell’istituto della disapplicazione come espressione del moderno stato liberale e come istituto di garanzia dei diritti dei singoli, che vietava al giudice di incidere sul potere pubblico, determinando la disapplicazione dell’atto illegittimo [41], oggi assume un ruolo del tutto nuovo.
La disapplicazione- attesa la sua vis espansiva e per più versi multilivello- sembra costituire una sorta di raccordo tra passato e futuro del diritto sostanziale e processuale, avendo valicato i confini dello Stato nazionale, andando al di là di esso. Pertanto l’interprete deve guardare con cautela al crescere di questo fenomeno che, nelle sue molteplici interpretazioni ed applicazioni sembra costituire, nel complesso, un meccanismo volto alla tutela delle posizioni soggettive dei singoli.
La tutela di queste ultime trova rispondenza nelle norme costituzionali. Essa si attua in particolare nel processo amministrativo, attraverso i suoi istituti secondo una triplice dimensione. La prima definibile legalità-effettività, a seguito della legge n. 205 del 2000, che ha rappresentato un importante punto di svolta per l'effettività dell'intero sistema giurisdizionale amministrativo. Esso trova esplicito riconoscimento nelle norme costituzionali, o meglio in quelle che attengono direttamente a tale principio (artt. 24, 103, 111, 113 Cost.).
La seconda dimensione definibile legalità-uguaglianza, si sviluppa in primo luogo come giustizia nell'amministrazione (art. 100 Cost.), in secondo luogo, nei rapporti tra esercizio del potere, cittadino e giustizia (art. 3 Cost.). Questo rapporto va osservato nel senso dell'incidenza delle decisioni e degli effetti «che esse producono sull'andamento della funzione pubblica che non può non risentire del sindacato giudiziario costituzionalmente garantito ai singoli (art. 24 Cost.) su tutti gli atti di amministrazione (art. 113 Cost.) nell'ambito di un ordinamento ispirato alla effettività dell'uguale partecipazione alla vita socio-economica (art. 3 Cost.) ed alla tutela dei diritti fondamentali (artt. 2, 4, 13, e ss., 36 e ss. 41 e ss. Cost.) nonché rafforzato dal controllo di costituzionalità ad iniziativa dei giudici (art. 134 Cost.)>> [42].
Infine la terza, di più ampia portata, è la dimensione della legalità-equilibrio del sistema di giustizia amministrativa nei confronti dell'intero assetto costituzionale confermato anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, in modo tale che la giustizia amministrativa ritrovi nella Costituzione del 1948 la sua musa ispiratrice. E proprio gli artt. 4 e 5 della legge del 1865 - dalla cui interpretazione si ricava il meccanismo della disapplicazione - si raccordano con l'ordinamento costituzionale, e con l'assetto della pubblica amministrazione, in rapporto alla tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
In definitiva, il TAR Puglia sul piano del diritto interno, ha richiamato quella dottrina che il controverso istituto della disapplicazione diventa strumento delle più disparate esigenze, sul fronte della struttura del processo come su quello dell'ordine delle fonti [43]. È evidente che tale attività debba essere svolta esclusivamente dal giudice poiché sarebbe illogico riconoscere il potere della disapplicazione della legge nazionale all’Amministrazione che non dispone dei poteri specificamente attribuiti invece all’autorità giudiziaria. A livello comunitario, sembra, invece costituire da un lato, un importante elemento finalizzato al consolidamento di una parte delle discipline giuspubblicistiche, dall'altro un tassello centrale teso all'armonizzazione degli strumenti processuali posti a garanzia dei singoli che, di volta in volta, invocano tutela giurisdizionale.
*Il presente elaborato è stato redatto da Renato Rolli, cui sono attribuibili i paragrafi 2, 4, 7 e da Martina Maggiolini cui sono attribuibili i restanti paragrafi.
[1] Sull'istituto generalmente considerato si rinvia per tutti a E. Cannada Bartoli, L'inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, F. Francario, Note minime sul potere di disapplicazione del giudice civile, in Rivista giuridica dell’edilizia, Giuffrè, 2018, R. Di Pace, La disapplicazione nel processo amministrativo, Torino, 2011; R.Rolli, La disapplicazione giurisdizionale dell’atto amministrativo tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, Aracne, 2005.
[2] Già in R. Rolli, Noterelle in tema di rideterminazione dei canoni demaniali, Rivista giuridica dell'edilizia, 2015; Cfr. A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: diritto marittimo e parti, Federalismi.it, n. 22/2016
[3] Cfr. Corte cost. n. 14 del 1964, Costa c. Enel, in Foro.it 1964, I, p. 465, ove si ribadiva il principio vigente in materia di successione delle leggi nel tempo. Di notevole rilievo, le sentenze delia Corte costituzionale n. 183 del 1973, in Giur. cost., 1973, p. 4059, ss, Frontini; cfr. anche Corte cost. del 30 ottobre 1975, n. 232, in Foro.it 1975, I, p. 2661. Secondo tale giurisprudenza, gli ordinamenti, nazionale e comunitario, sono autonomi e distinti; i trattati comunitari rientravano in quella categoria di accordi internazionali ai quali la legge ordinaria deve conformarsi in virtù di una speciale garanzia costituzionale. Ebbene con la sentenza n. 183 del 1973, la Corte riconosceva la prevalenza del diritto comunitario secondo esigenze di eguaglianza e di certezza del diritto; pertanto le norme comunitarie dovevano avere piena efficacia obbligatoria, ed essendo dotate di completezza di contenuto dispositivo, anche di diretta applicazione. Veniva, in sostanza, affermato il principio della separazione tra gli ordinamenti.
[4] Cfr. Corte cost. n. 98 del 1965; Corte cost. n. 183 del 1973. La Corte ha infatti affermato che i due ordinamenti restano autonomi; in caso di contrasto tra una norma comunitaria e una legge interna posteriore, il giudice deve applicare sempre ed immediatamente la norma comunitaria senza dar conto d'ordine temporale in cui intervengono le disposizioni interne contrastanti con la norma comunitaria. Resta fermo il fatto che non si sottraggano «alla sua verifica due ipotesi: quella di un eventuale conflitto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e con i diritti inalienabili della persona umana; e quella di norme che si assumano dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato o il nucleo essenziale dei suoi principi». Così. G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova 2003, pp. 191-192. Cfr. sul tema, ampiamente, L. ALBINO, Il sistema delle fonti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2001, p. 923, ss.
[5] in dottrina, F. Sorrentino, Le fonti del diritto, Genova 2000
[6] R. Murra, Contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria: nullità assoluta degli atti amministrativi di applicazione della norma nazionale?, in Dir. Proc. Amm., 1990
[7] Di rilievo la sentenza del 9 marzo 1978, causa C-106/77, Smmenthal, in Foro.it, 1978
[8] La prevalenza del diritto comunitario su quello interno impone (tra l’altro) che alle norme comunitarie sia data immediata applicazione.
[9] Cfr. L. Condorelli, Il caso Simmenthal ed il primato del diritto comunitario: due Corti a confronto, in Giur. Cost.,1978
[10] Corte cost. sentenza 8 giugno 1984, n. 170, Granital, in Foro.it 1984, I, 2062. Questa decisione ha rappresentato la svolta nella questione tra norma comunitaria e norma interna incompatibile. La Corte di giustizia in definitiva ha ribadito il primato del diritto comunitario da far valere dinanzi al giudice comune abilitato a risolvere la controversia. L'organo interno, posto di fronte ad una antinomia tra fonti, deve disapplicare la norma interna prescindendo dall'annullamento o dalla rimozione della stessa.
[11] Cfr. R. MURRA, Contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria ..., cit., p. 293; F. SORRENTINO, op. cit., p.113. L'art. 177, comma 2, del Trattato CE «non osta a che un giudice nazionale, che abbia disposto la sospensione dell'esecuzione di un atto amministrativo nazionale e abbia deferito in via pregiudiziale alla Corte una questione relativa alla validità dell'atto comunitario sul quale esso è basato, autorizzi la proposizione di un ricorso avverso la sua decisione)). Cfr. Corte di Giustizia, 17 luglio 1997, n. 334, causa Soc. Kruger Gmbh e Co. c° Huptzollant Hamburg Jonas, in Giust. Civ. 1998, I, p.2065. Questo potere è attribuito anche al Consiglio di Stato; tale organo «in qualità di giudice amministrativo d'appello e d'ultimo grado, è tenuto a sollevare questione pregiudiziale di validità di un atto delle Istituzioni dell'unione Europea, ai sensi dell'articolo 164, Trattato CE solo quando vi sia un ragionevole dubbio sulla sua invalidità, ossia quando la questione stessa appaia rilevante in sede di giudizio e non manifestamente infondata, nel qual caso occorre che, per ottenere l'uniforme applicazione del diritto comunitario nel territorio di tutti gli Stati membri, s'investa delia questione la Corte di Giustizia, mentre la mera proposizione di quest'ultima non obbliga il giudice adito a siffatta rimessione*. Cons. Stato, Sez. V, 23 aprile 1998, n. 478, in Foro amm. 1998, p. 1090.
[12] In giurisprudenza, Corte di Giustizia,sentenza 5 marzo 1998, causa C-347/96 Solred, in Racc. I
[13] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 9 settembre 2003, causa C- 198/01, Consorzio Industria Fiammiferi
[14] Sul tema, espressamente, R. GIOVAGNOLI, L'atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario: il regime giuridico e il problema dell'autotutela decisoria, Relazione al Convegno I. G.I. del 29 settembre 2004, in www.giustamm.it.
[15] Cfr. R. GAROFOLI, Annullamento di atto amministrativo contrastante con norme CE self-executing, in Urb. App., 1997
[16] Corte di Giustizia, sentenza del 25 maggio 1993, causa C- 193/1991
[17] Corte di Giustizia, sentenza 5 aprile 1979, in causa 148/78, in Racc., 1979, p. 1642
[18] Cfr., sul punto, F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, tomo 11, Milano 2002, p. 1327; v. anche R. GIOVAGNOLI, L'atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario il regime giuridico e il problema dell'autotutela decisoria, in Giust. amm, 2004
[19] La soluzione della Corte «è chiara, sebbene sia poi piuttosto articolata nella definizione dei limiti e delle condizioni di applicazione della regola enunciata, in particolare nel caso specifico: la circostanza che una decisione amministrativa sia stata assunta in violazione del diritto comunitario non comporta un obbligo di riesame da parte dell'autorità amministrativa nazionale che la aveva assunta)). Così, D. DE PRETIS, 'illegittimità comunitaria" dell'atto amministrativo definitivo, certezza del diritto e potere di riesame, in Giorn. dir. amm. n. 7/2004
[20] Cfr. sul tema, G. Greco, Fonti comunitarie e atti amministrativi nazionali, in Riv. dir. pubbl. comunit., 1991, p. 33 ss. Il principio di effettività e di non discriminazione rappresentano una delle fasi dell'armonizzazione delle discipline anche dal punto di vista processuale. Il diritto al ricorso giurisdizionale «è parte dei principi generali del diritto comunitario, ovvero dei principi che con un rango equiparato alle norme del Trattato, sono parte essenziale della Costituzione comunitaria, e come tali si impongono sul diritto degli stati membri [...l». Cfr. M.P. CHITI, Effettività e Diritto Comunitario, in Dir. proc. amm. 1998; R. Caranta, Tutela giurisdizionale italiana sotto l'infuenza comunitaria, in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M.P. Chiti e G. Greco, Milano 1997. Va notato, tuttavia, che non sempre, nonostante la presenza di tali principi, corrisponde «una diretta azionabilità dei diritti dei cittadini, con la conseguenza che alla impermeabilità del diritto comunitario rispetto ai diritti fondamentali nazionali non ha corrisposto finora la piena vigenza di tali diritti in ambito comunitario)) Ctr. C. Amirante, l processo di integrazione europea tra politica ed economia, in AA.VV., L'integrazione europea fra Economia e democrazia, in Laboratorio costituzionale, n. 1 /2003.
[21] Sul processo di armonizzazione del diritto amministrativo (nazionale con quello comunitario), cfr. S. Cassese, I lineamenti essenziali del diritto amministrativo comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. cornunit., 1991, p. 3, ss.; C. FRANCHINI, Amministrazione italiana e amministrazione comunitaria. La coamministrazione nei settori di interesse comunitario, Padova 2003; E. PICOZZA, Diritto amministrativo e diritto comunitario, Torino 1997; M.P. CHITI, I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia e lo sviluppo del diritto amministrativo europeo, in Riv. Trim. dir. Pubbl. 1991, p. 824 ss.; G. MARCOU, (a cura di) Les mutations du droit de l'administration en Europe, Paris 1995. In particolare, sulle "regole" che influenzano i1 sistema di giustizia amministrativa, cfr. M. CAPPELLETTIA. PIZZORUSSO, (a cura di), L'influenza del diritto europeo sul diritto italiano, Milano 1982; M. CARDUCCI, G. CARUSO, A. CAVALLARI, M.P. CHITI, G. CORAGGIO, G. DE GIORGI CEZZI, S. GIACCHETTI, L. IANNOTTA, C. MODICA DE MAHAC, F.G. SCOCA, Evoluzione della giustizia amministrativa - integrazione europea e prospettive di riforma (atti del convegno, Lecce, 21 - 22 novembre 1997) a cura di E. STICCHI DAMIANI, Milano 1998; E. Picozza, Giustizia amministrativa e diritto comunitario (voce) in Enc. Giur. Roma Vol. XV; ID. L’effettività della tutela nel processo amministrativo alla luce dei principi comunitari, in Jus, 1987; A. BIANCHINI, La tutela del cittadino nel giudizio amministrativo tra istanze di federalismo e principi comunitari, in Riv. amm. 1997, p. 427; G. SPADEA, La terza Sezione del Tar Lombardia apre ad una giustizia cautelare amministrativa più effettiva e più europea nota a Tar Lombardia (ord) 27 ottobre 1997, n. 727, in Foro amm 1998, p. 1160; M.E. SCHINAIA, Evoluzione del processo amministrativo nell'esperienza giurisprudenziale tra garanzie ed effettività, in Cons. Stato 1997, 11, p. 317; A. ADINOLFI, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria e la loro influenza sugli ordinamenti degli stati membri, in Riv. It. Dir. pubbl. cornunit., 1994, p. 521, ss.; M. GNES, Verso la comunitarizzazione del diritto processuale nazionale, in Giorn. dir. amm. 2001, p. 524.
[22] Cfr. L. MUSSELLI, La giustizia amministrativa dell'ordinamento comunitario, Torino 2000, spec. pp. 132-134. Si osserva nella dottrina giusprivatistica che «sia che l'ordinamento comunitario e quello nazionale si considerino autonomi e distinti, sia che si intendano confluiti in un unitario ordinamento, caratterizzato da un ordine giuridico unico, resta pur sempre il problema dell'integrazione reciproca delle discipline nazionali e comunitarie nel sistema giuridico vigente quale prodotto del loro coordinamento secondo la ripartizione di competenze e di gerarchie stabilite e garantite dai trattati istitutivi*. Cfr. P. PERLINGIERI, Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo - comunitario delle fonti, Napoli 1992, pp. 78-79; M. PROTTO, Valutazioni tecniche, giudici nazionali e diritto comunitario, in Giur. It., 1999, 15 1, pp. 834-835.
[23] Cfr. S. Cassese, I lineamenti essenziali del diritto amministrativo comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1991, p. 3, ss.; G. Falcon, Alcune osservazioni sullo sviluppo del diritto amministrativo comunitario, in Riv. trim dir. pubbl., 1993, p. 74, ss.; G. Greco, iI diritto comunitario propulsore del diritto amministrativo europeo, in Riv. Trim. dir. pubbl. , 1993, p. 85 ss.; E. Picozza, Diritto amministrativo e diritto comunitario Torino, 1997; M. Filippi, La giurisprudenza amministrativa a contenuto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1993, p. 1181; A. Massera, Ordinamento comunitario amministrazione, Bologna 1994, spec. p. 569, SS.
[24] Cfr. R. Caranta, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo adottato in forza di norma nazionale contrastante con il diritto comunitario?, in Giur. It., 1989, 111, p.148.
[25] Sul punto, cfr. M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1999, p. 1371
[26] Cfr. C. Cocco, Le "liaisons dangereuses" tra norme comunitarie, norme interne, e atti amministrativi, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1995
[27] Pertanto la diversa forma patologica della nullità (o dell'inesistenza) si configurerebbe nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere nel cui esercizio è stato adottato l'atto, incompatibile con il diritto comunitario. Al di fiori di questa ipotesi, osserva il Consiglio di Stato, l'inosservanza di una disposizione comunitaria direttamente applicabile comporta, da stregua dei canoni relativi ai vizi dell'atto amministrativo, l'annullabilità del provvedimento viziato. Sul piano squisitamente processuale rileva l'onere delia sua impugnazione davanti al giudice amministrativo nel relativo termine decadenziale, pena la sua inoppugnabilità.
[28] M.P. Chiti, L'invalidità degli atti amministrativi per violazione di disposizioni comunitarie e il relativo regime processuale, in Dir. amm., 2003
[29] Corte di Giustizia, 29 aprile 1999, in causa 224/97, Ciola, in Riv. dir. pubbl. comunitario, 1999
[30] Punto 32 della sentenza. La Corte richiama anche la decisione del 7 luglio 1981, causa C-158/80, Rewe, punto 43. Si veda anche la sentenza del 15 settembre 1998, Edis, in causa C- 231/96, in Racc. 1998 I, p. 4951, secondo cui «l'applicazione delle modalità processuali nazionali, di natura sia sostanziale sia formale, non può essere pertanto confusa con una limitazione degli effetti di una sentenza della Corte avente ad oggetto l'interpretazione di una disposizione di diritto comunitario. Infatti, la conseguenza di una limitazione del genere è quella di privare i singoli, che sarebbero normalmente in grado, conformemente alle rispettive norme processuali nazionali, di esercitare i diritti ad essi spettanti in forza della disposizione comunitaria di cui trattasi, della facoltà di avvalersene a sostegno delle loro domande».
[31] Sul tema cfr. M. Squintu, Il diritto comunitario nella giurisprudenza amministrativa italiana, in E. Picozza (a cura di) Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova 2003
[32] M. Cafagno, L'invalidità degli atti amministrativi emessi in forza di legge contraria a direttiva CEE immediatamente applicabile, Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1992
[33] A. ADINOLFI, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria e la loro influenza sugli ordinamenti degli stati membri, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1994.
[34] E. CANNADA BARTOLI, Disapplicazione di atti amministrativi illegittimi e giurisdizione del Consiglio di Stato, in Giur. it., 111, 1994; R. CARANTA, Giustizia amministrativa e diritto comunitario, Napoli 1992.
[35] Cfr. CdS sez. V, sentenza del 28 febbraio 2018, n. 1219
[36] E. Picozza, L'influenza del diritto comunitario nel processo amministrativo, in AA.VV., Processo amministrativo e diritto comunitario, (a cura dello stesso Autore) Padova 2003
[37] M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo. E la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano, 1939
[38] Si veda l'orientamento della Corte costituzionale in materia di applicazione diretta dei regolamenti secondo il quale «poiché il disposto del regolamento comunitario deve essere applicato dal giudice interno indipendentemente dalla circostanza che esso sia seguito o preceduto nel tempo da incompatibili statuizioni della legge interna, la questione di legittimità costituzionale di tale legge è inammissibile)) (Corte cost. 22 febbraio 1985, n. 48). Dal punto di vista comunitario, un giudice nazionale in presenza di un atto amministrativo interno fondato su normativa comunitaria «può sospendere l'esecuzione di un atto amministrativo nazionale basato su un atto comunitario a condizione che: a) tale giudice nutra gravi riserve sulla validità dell'atto comunitario e provveda direttamente ad effettuare il rinvio pregiudiziale, nell'ipotesi in cui alla Corte non sia stata già deferita la questione di validità dell'atto contestato; b) ricorrano gli estremi dell’urgenza nel senso che i provvedimenti provvisori sono necessari per evitare che la parte che li richiede subisca un danno grave e irreparabile; C) il giudice nazionale tenga pienamente conto dell'interesse della Comunità; d) nella valutazione di tutti questi presupposti, il giudice nazionale rispetti le pronunce della Corte o del Tribunale di primo grado in ordine alla legittimità del regolamento o un'ordinanza emessa in sede di procedimento sommario diretta alla concessione, sul piano comunitario, di provvedimenti provvisori analoghi)). Corte di Giustizia, 17 luglio 1997, n. 334.
[39] Cfr. L. Torchia, Diritto amministrativo nazionale e diritto comunitario: sviluppi recenti del processo di ibridazione, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1997
[40] Cfr. AA.VV., il diritto costituzionale comune europeo. Principi e diritti fondamentali, a cura di M. SCUDIERO, Napoli 2002; AA.VV., Costituzione Italiana e diritto comunitario, a cura di S. GAMBINO, Milano 2002
[41] Cfr. R. Iannotta, Le condizioni politiche e sociali coeve alle istituzioni della IV Sezione del Consiglio di Stato, in studi per il centenario della IV Sezione, Roma 1989, Volume I
[42] Cfr. G. Abbamonte, Problemi costituzionali della giustizia amministrativa, Relazione per il Trentennale dei Tribunali Amministrativi. Lo stato delle cose e le istanze di riforma del processo amministrativo formulate a trent'anni dalla istituzione dei TAR dall'organo di autogoverno dei giudici amministrativi, 5 novembre 2004, in www.giustamm.it In merito all'importanza del controllo di costituzionalità sul terreno dei diritti di libertà ed in particolare sull'effettività e sul riconoscimento dei diritti sociali, cfr. C. Amirante, La protezione costituzionale delle libertà e dei diritti fondamentali nella giurisprudenza costituzionale, in Diritti di libertà e diritti sociali. Tra giudice costituzionale e giudice comune, Napoli 1999
[43] F. CINTIOLI, Giurisdizione amministrativa e disapplicazione dell'atto amministrativo, in Dir. amm. n. 1/2003
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