ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
PENSIERI PER IL FUTURO
Cari lettori e lettrici, care amiche e amici,
alla fine di questo difficilissimo e lunghissimo anno noi della redazione di Giustizia Insieme sentiamo il bisogno di ringraziarvi per l’affetto e la costante, a volte inaspettata attenzione con cui ci avete sempre seguito nel nostro percorso. Vogliamo farlo regalandovi le parole di alcune donne e uomini, a ciascuno di noi e in diversi modi care, che nel 2020 ci hanno dolorosamente lasciato.
Vedrete però che non sono parole tristi: sono parole di speranza, di impegno e di ispirazione - e anche di leggerezza! - scelte per accompagnarci prendendoci per mano nella strada che si stende davanti a noi, parole che ci fanno sentire meno soli e che ci spingono a migliorare ancora e a rinnovare, anche noi, il nostro impegno per fare sempre di più
Giustizia Insieme.
Buon 2021 dalla Redazione
Gli effetti del lockdown su bambini e adolescenti
Intervista di Betta Pierazzi a Lino Nobili e a Sara Uccella
Quali sono gli effetti e breve e lungo termine del lockdown sulla costruzione dell’identità, e dell’identità sociale, dei ragazzi? Quanto e come i social media possono aiutare, e quali sono le strade da evitare? Come dovrà cambiare la scuola quando si tornerà, appena possibile, alla normalità?
Dieci risposte di due importanti neuropsichiatri infantili per orientarci nel groviglio di domande, preoccupazioni e incertezze sugli effetti della forzata limitazione dei contatti sociali dovuta alla pandemia.
I possibili rischi per i bambini e gli adolescenti, i segnali da tenere sotto controllo, le migliori strategie personali e familiari e le priorità da seguire come collettività per fare i conti con le conseguenze di quell’incredibile esperimento sociale che, tra le altre cose, è stato il lockdown.
1. Nel giugno scorso il Dipartimento di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Gaslini di Genova da lei diretto, professor Nobili, ha svolto una ampia indagine sull’impatto psicologico e emotivo del lockdown sulle famiglie italiane. Cosa è emerso, quali sono stati e con quale incidenza i disturbi o comunque le conseguenze a breve termine del lockdown e della pandemia in generale per i bambini e gli adolescenti? E ci sono state differenze tra le varie fasce d’età?
L’indagine in realtà, pur essendo stata pubblicata sul sito del Ministero a giugno, è nata agli esordi del confinamento in Italia. Quando l’abbiamo lanciata nel web, il primo intento era cercare di capire che effetto stessero avendo la pandemia ed il confinamento, dettato dalle misure di contenimento del contagio, sulle famiglie. In particolare volevamo vedere se c’erano differenze tra famiglie con o senza minori in casa.
All’indagine hanno risposto in quasi settemila partecipanti adulti, chi con figli chi senza. Nella maggioranza della popolazione (più del 95%) sono stati dichiarati cambiamenti comportamentali, vale a dire maggiore difficoltà a concentrarsi, disturbi del sonno (come risvegli notturni, incubi, difficoltà ad addormentarsi), cambiamenti d’umore, esacerbazioni di malattie croniche o sensazioni corporee inspiegate (che afferiscono all’area delle reazioni che il corpo ha nei confronti di un evento stressante o traumatico). Nella popolazione dei genitori di bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni lo stress è stato in media maggiore, con picchi più elevati nella fascia dei genitori con figli in età prescolare (al di sotto dei 6 anni). Nelle risposte dei genitori poi, i cambiamenti comportamentali nei figli sono stati riportati da più della metà dei figli, con circa il 64% dei figli al di sotto dei sei anni e circa il 72% nei figli nella fascia di età 6-18. Per i più piccoli, i sintomi maggiormente osservati sono stati maggiore irritabilità, difficoltà ad andare a dormire da soli e risvegli notturni. Per la fascia 6-18 invece più frequentemente si sono osservate sensazioni corporee come sensazione di fame d’aria e disturbi del sonno a tipo “ritardo di fase” ovvero difficoltà ad addormentarsi e a svegliarsi la mattina. Il disagio dei figli correlava con il disagio dei genitori (che era maggiore se in casa erano presenti anche persone con più di 65 anni o se il genitore riferiva fragilità psicologiche pregresse).
2. Quali prevedete possano essere le conseguenze a medio e lungo termine?
E’ difficile prevedere le reali conseguenze a lungo temine di questo momento storico. Attualmente ci rendiamo conto, anche nella nostra attività clinica, che questa situazione di isolamento sociale e di paura ha esacerbato (soprattutto nelle famiglie meno fortunate da un punto di vista socioeconomico, dove gravano disagi psichici noti o misconosciuti, o pregresse problematiche relazionali interne) disturbi psicologici e comportamentali anche severi.
3. Quali “strategie di sopravvivenza” domestica si sono rivelate migliori durante il periodo del lockdown? Quali gli elementi di rischio e quali quelli di forza all’interno delle famiglie?
La World Health Organization[1] e l’Unicef[2] (per i bambini) avevano stilato a inizio della pandemia dei suggerimenti per affrontare il confinamento forzato. Sicuramente cercare di stare assieme bene in famiglia, impiegando del tempo per intrattenersi, provando a distogliere l’attenzione da notizie sul virus è la prima cosa da fare. Cercare di scandire i ritmi della giornata, fare esercizio fisico regolarmente, mangiare sano e trovare delle abitudini regolari (anche nell’andare a dormire) sono le regole d’oro per la “sopravvivenza domestica”. Questo, è stato anche quanto emerso dalla nostra indagine, dove chi ha avuto meno tempo per mettere in atto queste strategie, sono stati proprio i genitori dei bambini più piccoli, che hanno dovuto lavorare, gestire i bimbi a casa ed occuparsi dei nonni (categorie a rischio), nello stesso tempo.
4. Pochi mesi dopo la vostra indagine, a novembre, uno studio pubblicato sulla rivista Psychiatry Advisor[3] ha evidenziato che i bambini e gli adolescenti che svolgono più ore di attività nella “vita reale” sono più soddisfatti della propria vita, più ottimisti e in sostanza più felici, mentre quelli che trascorrono più tempo davanti agli schermi hanno livelli superiori di ansia e depressione. Avete rilevato anche voi questa correlazione, anche nel periodo precedente la pandemia?
Abbiamo letto l’articolo non appena uscito, davvero interessante. Dice tante cose che sarebbero dovute essere ribadite anche prima e dovrebbero esserlo ancora di più ora.
Sicuramente, come già hanno mostrato anche studi su animali, l’attività fisica e ludica, svolta insieme ai propri pari, è in grado di far produrre “neurotrasmettitori” benefici per la nostra salute psico-fisica, in modo nettamente maggiore che se eseguita in solitudine.
Il nostro studio non prendeva strettamente in considerazione questi aspetti, anche se fondamentali, perché abbiamo cercato di avere informazioni a largo raggio su adulti e loro figli e non volevamo che il questionario durasse troppo tempo. Sicuramente il confinamento ha messo un freno a mano forzato a quelle attività della “vita reale” che colorano l’esistenza umana e fanno crescere, oltre a rendere più felice. Ci sarà da lavorare in questo senso (nel favorire gli incontri, quelli in carne ed ossa), cercando di rispettare comunque le norme di prevenzione pubblica di contenimento dei contagi.
5. In questo periodo quanto e come la socialità a distanza ha saputo supplire alla assenza della socializzazione in presenza? Ci sono differenze nell’utilizzo dei social da parte dei ragazzi rispetto a prima della pandemia?
Sicuramente le videochiamate via Zoom e Skype, gli eventi in streaming su piattaforma digitale (Facebook, Instragram, Youtube...) possono aver dato un certo grado di beneficio, che è stato osservato anche nel nostro studio. Dall’altro lato, un utilizzo improprio dei socials per restare iperconnessi ha dato l’effetto contrario, anche nel nostro campione (per quanto riguarda i ragazzi e adolescenti tra i 6 ed i 18 anni di cui i genitori hanno descritto i cambiamenti comportamentali nella nostra intervista). Questo è un po’ quello che sta raccontando anche la letteratura di questi mesi: se da una parte potersi connettere agli altri dà un senso di appartenenza, dall’altro può anche generare alienazione; così come l’utilizzo della tecnologia e dell’informazione può avvicinare chiunque alle recenti innovazioni, dall’altro può aumentare sentimenti di frustazione ed impotenza, portando anche a sviluppare sintomi ansioso-depressivi, anche nei più giovani.
6. Il lockdown ha imposto anche agli adolescenti che trascorrevano poco tempo in casa di “rimanere in famiglia”, e tutt’ora la socialità con i gruppi dei pari è fortemente limitata per le restrizioni agli incontri. A me pare che l’isolamento abbia un impatto diverso su un adulto, un bambino e un adolescente, perché le relazioni sociali degli adulti si sono costruite nel tempo e dunque possono meglio resistere ad un momentaneo allentamento dei rapporti; quelle dei bambini sono in fase di sperimentazione, anche se forse sono ancora legate in prevalenza alla famiglia, mentre per gli adolescenti questo è il momento in cui tutto succede. Vi domando, quindi, quali sono per i bambini e gli adolescenti gli effetti di un periodo così lungo di deprivazione sociale?
Riteniamo che lei abbia toccato molti spunti interessanti. Da un lato, è vero che i bambini più piccoli potrebbero avere risentito meno dell’aspetto di deprivazione sociale, ma sicuramente hanno vissuto molto i sentimenti e le emozioni dei loro genitori (mai come in questo periodo i bambini hanno respirato “l’aria che tira” in casa). Pertanto, l’esperienza dei più piccoli è stata fortemente e inevitabilmente correlata con la modalità di reazione familiare al confinamento. Per quanto riguarda invece gli adolescenti, la traiettoria è stata sicuramente diversa. L’adolescenza è il momento di differenziazione di un individuo che, distaccandosi dalle idee di riferimento del gruppo parentale e familiare, intraprende il suo processo di individuazione. Sicuramente i vari socials (Whatsapp, Instagram, e tanti altri che adesso vanno di moda tra i preadolescenti e gli adolescenti e di cui nemmeno conosciamo il nome) possono aver aiutato a supplire una carenza di esperienze ed affettiva. Gli adolescenti infatti sembrano un mondo a parte, in grado di fare coesione e gruppo tra pari. Tuttavia, i ragazzi più isolati o provenienti da contesti familiari più sfavorevoli o che già prima dello scoppio della pandemia presentavano fragilità psicologiche sono stati sicuramente penalizzati da questo momento storico. C’è chi, tra questi ultimi, ha sofferto molto (i ricoveri per urgenze psicologiche nel nostro reparto sono raddoppiati, per non parlare del numero di accessi in pronto soccorso) e chi invece ha mantenuto una apparente condotta di comfort durante questo isolamento sociale. E’ possibile che in quest’ultima situazione abbia svolto un ruolo anche la paura dell’altro e del nuovo. Ne verificheremo gli effetti nel momento di normalizzazione della regolamentazione sociale.
Nel nostro campione, dove è possibile che abbiano riposto i genitori più in difficoltà, i cambiamenti comportamentali nella fascia 6-18 sono stati osservati, come menzionavamo prima, ad ampio raggio.
7. La fortissima pressione sui ragazzi in questo periodo per “restare a casa” e dunque con i genitori può avere avuto un effetto dannoso sulla loro capacità di acquisire e costruire la loro indipendenza? Quali possono essere le conseguenze? E quali spazi di intimità e autonomia è possibile e sano offrire ai bambini e a ai ragazzi anche in questa fase?
Siamo comunque fiduciosi nella forza dell’adolescenza e degli adolescenti. Sarà stato e sarà faticoso, ma pensiamo che i ragazzi sapranno cogliere da questa esperienza forze per il futuro. Certo, tutto ciò dipende anche dalla loro maturità e dall’ambiente familiare, nonchè dal substrato culturale. Anche pur restando in casa è comunque necessario mantenere un giusto compromesso tra indipendenza e osservanza delle regole; questo per tutti, grandi e piccini.
8. Questa domanda sono, in realtà, due domande. I genitori e chi si occupa di bambini e adolescenti si chiedono come ha influito sui ragazzi l’allontanamento dal luogo fisico della scuola e dalla vita comunitaria, e come influirà nel lungo periodo per quelli che ancora devono frequentare le lezioni a distanza. La prima domanda dunque è se ci saranno problemi a medio e lungo termine per l’apprendimento e l’educazione a stare insieme.
Sono consapevole però anche della complessità e varietà delle diverse possibili situazioni. Ad esempio, la stragrande maggioranza dei bambini e dei ragazzi chiede a gran voce di poter tornare in classe, ma una cara amica che insegna in un liceo mi ha raccontato che alcuni studenti, che a scuola rimanevano abitualmente in disparte, nel lockdown hanno inaspettatamente cominciato a partecipare alle lezioni e a interagire con i compagni e gli insegnanti molto vivacemente (lei ha detto che sono “rinati”).
In questo caso, quali sono i meccanismi che possono spiegare il cambiamento?
La mancanza della scuola in questi mesi è sicuramente un costo che stiamo pagando e pagheremo tutti come società. Non è pensabile che un anno tra le mura di casa sia paragonabile a quello che accade tra i banchi di scuola, non solo a livello di apprendimento ma soprattutto per quel che riguarda la quantità di esperienze che la scuola porta con sé (il rapporto con i pari, quello con altri adulti differenti da quelli circolanti attorno al proprio nucleo familiare, la varietà di culture e la crescita stessa delle autonomie individuali). Ora la scuola deve adattarsi a questi tempi e trovare una didattica alternativa, che non sia solo frontale (così come spesso avviene anche in modalità “didattica a distanza”) ma che consenta di sviluppare il più possibile l’interazione, la discussione e che, ancor più di prima, cerchi di infondere nei ragazzi il piacere del sapere, della ricerca, anche autonoma, del sapere. In questo modo, quando potremo ritornare a una situazione “normale”, i nostri ragazzi potranno avere anche forse risorse in più.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, riguardante i ragazzi più “isolati”, questi probabilmente messi in una condizione di comfort come quella delle mura domestiche (dove sono meno giudicati per l’aspetto fisico, il loro modo di essere o di vestire) potrebbero in effetti essere stati avvantaggiati da una didattica a distanza. Si tratta comunque di un risultato, di cui però non bisogna accontentarsi: bisognerà controllare che questi ragazzi restino agganciati all’interno del gruppo, pur mantenendo la propria individualità ed unicità.
9. Secondo voi, ci sono state differenze nell’utilizzo dei social da parte dei ragazzi rispetto a prima della pandemia? E la socialità a distanza ha saputo supplire alla mancata socializzazione in presenza? Lo domando anche perché mi è stato suggerito che forse le maxirisse dei ragazzi delle settimane scorse potrebbero essere in qualche modo correlate con le limitazioni sociali dovute alla pandemia. È possibile che l’assuefazione ad una socialità virtuale renda meno empatici i bambini e gli adolescenti? E in questo caso, quali sarebbero i rischi per i singoli e per la collettività?
Come spiegavamo prima, sicuramente in parte i social hanno supplito. Ma non potrà essere così per sempre. Sicuramente i ragazzi ora sono abituati, si sono organizzati quindi in media potrebbe esserci un utilizzo più consapevole; dall’altro lato però sono anche stanchi e questo ha generato molto più malumore ed apatia, anche nel cercare l’altro a distanza.
Quanto alle vicende di cronaca legate alle maxirisse, crediamo più che altro che le persone non siano abituate a sentire la propria libertà limitata. Siamo tutti figli di una società che non ci ha insegnato il diniego ed il sacrificio e culturalmente siamo abituati, noi occidentali, ad avere un sufficiente margine di scelta. Ciò può aver aumentato i livelli di rabbia ed esplosività in alcuni gruppi di adolescenti. È sottile comunque parlare di assuefazione alla socialità virtuale e di riduzione dell’empatia. Uno studio interessante di Tomova ed altri[4], uscito in parallelo con l’inizio del confinamento, spiegava che l’isolamento porta a dei meccanismi simili alla fame, attivando circuiti molto ancestrali. Senza dilungarci oltre sulla biologia e le neuroscienze di questo tipo di fenomeni, è possibile che questo periodo di isolamento del primo “lockdown” abbia avuto i suoi effetti.
10. Infine, una domanda specifica sui bambini: la rappresentazione della vicinanza fisica come fonte di pericolo dal quale guardarsi, in una fase evolutiva nella quale si sperimenta e si incontra il mondo, rischia di avere delle conseguenze sulla loro capacità di avvicinarsi e fidarsi dell’altro? Quali sono le strategie per evitare che questo accada?
I bambini fanno tendenzialmente quello che i genitori insegnano loro. La rappresentazione della vicinanza fisica come fonte di pericolo è un problema che andrà affrontato, ma crediamo non per tutti. Ci sarà da rinsegnare ad alcuni bambini a non avere paura dell’altro. E come società dovremo essere pronti a questo passo.
Grazie!
Grazie a voi. Speriamo che questo possa essere spunto per nuove strategie di intervento anche ad alti ranghi!
Lino Nobili (professore ordinario di neuropsichiatria infantile presso l'Università di Genova)
Sara Uccella (dottoranda presso l’Università degli Studi di Genova su un progetto di ricerca su sonno, prematurità e sviluppo psichico)
[1] https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/mental-health-considerations.pdf
[2] https://www.unicef.org/serbia/en/how-cope-new-situation-during-COVID-19-epidemic
[3] https://www.psychiatryadvisor.com/home/topics/child-adolescent-psychiatry/real-life-activities-lead-to-happier-teens/
[4] https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.03.25.006643v1
Gli effetti della pandemia su diseguglianza e crescita economica
Intervista di Franco Caroleo a Giuseppe Arbia
Giuseppe Arbia (professore di Statistica economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma) nel 2016 ha scritto un saggio intitolato “Diseguaglianza, redistribuzione e crescita”, in cui ha trattato la questione della diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e il suo rapporto con la crescita economica.
Il tema è tornato di estrema attualità ora che la pandemia sembra aprire nuovi scenari di diseguaglianza economica, tutti ancora da decifrare.
Seguendo un approccio empirico-induttivo, basato il più possibile su dati obiettivi, l’intervista ripercorre gli effetti economici della pandemia e in particolare le sue conseguenze negative sulla diseguaglianza dei redditi e sulla crescita economica.
Quali potrebbero essere le misure da adottare per contenerne gli effetti negativi?
Professore, quali sono gli effetti economici più rilevanti provocati dalla pandemia e dalle misure di contenimento adottate nei diversi paesi? Che tipo di dati abbiamo a disposizione attualmente e come vanno esaminati?
L’esplosione dell’epidemia del virus Sar-Cov-2 ha procurato un immediato danno all’economia e sollevato importanti preoccupazioni relative all’impatto economico nel medio e lungo periodo. Sull’argomento non c’è concordanza di opinioni. A me piace fondare le mie osservazioni su elementi obiettivi e, purtroppo, i dati empirici affidabili sui quali fondare conclusioni rigorose non sono molti. Parlando del nostro paese, tuttavia, è proprio di qualche giorno fa un interessante rapporto dell’Ufficio Studi dell’Unioncamere (https://www.lavoce.info/archives/71202/nuove-imprese-chiuse-dalla-pandemia/), basato sui dati mensili relativi alle iscrizioni e le cancellazioni dal registro delle imprese delle Camere di Commercio, il quale ci può fornire un’idea abbastanza precisa dell’impatto che sta avendo la pandemia sul processo di nascita e morte delle imprese. Dai dati presentati nel rapporto si evince come nel primo trimestre del 2020 (mesi nei quali la pandemia ha iniziato a diffondersi) il numero delle iscrizioni abbia registrato un picco negativo col valore minimo nel mese di Aprile (con un -65,5 % rispetto all’Aprile del 2019). Tale calo persiste anche nel secondo trimestre (quando il tendenziale delle iscrizioni scede a -37,1 % rispetto all’anno precedente), per poi tornare ai livelli degli anni precedenti nel terzo trimestre quando la situazione dell’epidemia sembrava tornata sotto controllo (vedi la Figura 1). Questi dati quantificano un aspetto importante della crescita economica mostrando un indicatore che sembra reagire molto rapidamente agli stimoli negativi. Il valore minimo, invero, corrisponde al mese di Aprile proprio quando si era al picco dell’epidemia (raggiunto il 19 Aprile), ma anche nel lockdown più rigido (che si protrasse fino al 4 Maggio). Resta quindi aperta la questione se queste performances negative debbano essere ascritte interamente all’epidemia in sè, come sostengono alcuni, o se, invece, le misure di lockdown che si sono rese nessarie per fare fronte alla stessa ne abbiamo accentuato le dinamiche come sostengono altri. E su questo che si incentra il dibattito di chi si esprime a sostegno delle misure di contenimento e chi, temendo dure ripercussioni sulle imprese, ne invoca al contrario un alleggerimento.
Fig. 1
Figura 1: “Iscrizioni totali” e “Cessazioni non di ufficio” registrate Dalle Camere di Commercio in Italia da Gennaio 2019 a Ottobre 2020. Fonte: Rinaldi A. (2020) Nuove imprese “chiuse” dalla pandemia, La voce.info, 9 dicembre 2020.
Le chiusure via via disposte in questo periodo possono portare ad un beneficio economico sul lungo periodo? O ha ragione chi sostiene che queste chiusure non fanno che accentuare la crisi in atto?
Questa sua domanda mi permette di chiarire un aspetto ulteriore rispetto a quanto detto precedentemente. A fronte di un evidente calo dell’attività economica, non è facile distinguere in questi mesi drammatici quanto esso sia dovuto all’epidemia in sé ed ai costi economici (oltre che umani!) ad essa connessi, e quanto, invece, vada ad aggiungersi ad essa come effetto di misure di contenimento giudicate da taluni eccessive e non giustificate. Nelle settimane precedenti alla decisione di imporre un nuovo blocco totale durante le feste natalizie, si è in effetti assistito a dure proteste da parte di produttori ed esercenti i quali chiedevano maggiore libertà di azione vedendo in pericolo la propria attività.
Mentre è difficile dare una risposta conclusiva a riguardo, una possibilità è quella di guardare al passato ed esaminare gli effetti economici degli interventi di contenimento durante la grande pandemia influenzale del 1918. In effetti, sotto numerosi aspetti, vi sono evidenti analogie con la situazione attuale: gli interventi restrittivi attuati nel 1918, sebbene meno estensivi, somigliano infatti, alle misure usate per ridurre l’attuale diffusione del COVID-19 (chiusura di scuole, teatri e chiese, divieto di assembramenti, quarantena per i casi sospetti e riduzione delle ore lavorative). Un recente lavoro condotto da studiosi dell’MIT di Boston e della Federal Reserve [1] ha confrontato le performances economiche di due gruppi di città statunitensi sottoposti a due diversi regimi di lockdown negli anni di diffusione della influenza spagnola: molto severo il primo, più lasco il secondo in ragione dei differenti modi di fronteggiare l’epidemia da parte dei diversi governi locali negli Stati Uniti.
Significativo il titolo stesso del lavoro: «Le pandemie deprimono l’economia, non gli interventi di sanità pubblica».
L’esame dei dati empirici dell’epoca mostrano, in effetti, come gli interventi finalizzati a contenere la pandemia non siano stati in contrasto con le esigenze economiche. Nel breve periodo, infatti, i danni alle attività furono simili nelle città con lockdown severo ed in quelle con lockdown meno severo. Le informazioni storiche disponibili relative ai danni subiti dalle aziende indicano che le città che hanno appiattito la curva dei contagi con lockdown drastici non hanno subito maggiori danni nelle attività locali. Ma ancora più sorprendentemente lo studio mostra come nel medio periodo le città con misure di contenimento più severe crebbero addirittura più velocemente delle altre. Mentre è evidente come non si possano estendere tout court questi risultati all’epidemia in corso (data anche la diversa incidenza della influenza spagnola sulle classi di età lavorative) tuttavia i risultati evidenziano come non sia possibile una conclusione scontata sulla relazione tra contenimento della trasmissione e danni all’economia. Limitare maggiormente le attività oggi potrebbe addirittura condurre ad un’uscita più rapida e efficace dall’emergenza limitando innanzitutto le perdite umane e limitando nel tempo i costi connessi con la gestione sanitaria costituendo in tal modo un trampolino di lancio per la successiva ripartenza. E’ in fondo quanto ci ha mostrato in questi mesi, ad esempio, la Cina, la quale, pur avendo imposto restrizioni anche molto dure, sembra essersi già rilanciata dal punto di vista economico.
Si può già scorgere un’incidenza anche in termini di diseguaglianze economiche? Se sì, quali sono i soggetti più colpiti? Si intravede un nuovo divario o si allargano i divari pre-esistenti?
La ripresa ci sarà e sarà ingente, ma purtroppo è facile prevedere che quando essa finalmente arriverà le diseguaglianze economiche nel nostro paese (ed anche tra paesi) si saranno acuite.
Nuovi divari tra le imprese e gli individui si manifesteranno. Infatti, alcune imprese trarranno un immediato beneficio dalla situazione attuale (ad esempio quelle del comparto delle tecnologie della informazione o quelle del mercato delle consegne a domicilio), altre sono già state e ancor più saranno in grado di trasformarsi rapidamente per adattarsi al nuovo scenario economico che va formandosi e quindi capaci di cogliere le nuove opportunità che esso offrirà. Altre, infine, non saranno nella condizione di reinventarsi nel breve periodo e già oggi sono in sofferenza. Il punto è dunque accompagnare con misure adeguate chi è in difficoltà ora, e che potrebbe perdersi lungo la strada, per aiutarlo a farsi trovare pronto alla ripresa.
Va sottolineato come ciò sia non solo necessario per un’ovvia solidarietà verso chi è maggiormente in difficoltà, ma anche per prepararsi al meglio come sistema economico alla fase di ripresa che verrà.
In effetti, la relazione tra diseguaglianza e crescita è molto complessa. Ad essa ho dedicato alcuni anni fa un saggio esaminando varie evidenze empiriche a riguardo [2]. I dati empirici, in effetti, mostrano come elevati livelli di crescita del reddito siano spesso associati ad una diseguaglianza elevata. Questa evidenza empirica porta taluni ad affermare che un’elevata diseguaglianza non sia incompatibile con la crescita economica. Invece, questa interpretazione è errata: non si può pensare che le due grandezze possano convivere a lungo in quanto il meccanismo di causa-effetto è proprio di segno opposto. Un’elevata diseguaglianza tende (per varie ragioni che sarebbe troppo lungo discutere in questa sede) a rallentare la crescita e, in assenza di adeguati interventi redistributivi, può innestare una spirale la quale può condurre all’implosione del sistema economico.
Se l’allargamento delle diseguaglianze costituisce un fattore che frena l’economia, cosa ci aspetta al termine della pandemia? Un percorso di riduzione delle disuguaglianze da dove dovrebbe partire?
Innanzitutto, va premesso che trattando di diseguaglianza economica, come per una malattia, è meglio prevenire che curare. Il nostro paese già da anni sta sperimentando una crescita della diseguaglianza economica il cui indice dal 2000 ad oggi è cresciuto da 29 a 33.4[3]. Occorrerebbe dunque mettere in atto da subito provvedimenti che contrastino tale aumento, il quale inevitabilmente sarà esacerbato dalla pandemia, attraverso sostegni economici alle attività in crisi. Le risorse ad oggi non ci mancano dato il cospicuo contributo fornito dall’Unione Europea. Tali interventi di sostegno dovrebbero essere però mirati a quelle attività economiche che maggiormente stanno soffrendo delle conseguenze negative della pandemia. Al fine di graduare in modo razionale gli interventi, occorrerà quindi trovare numeri ed evidenze oggettive per l’individuazione dei settori economici maggiormente colpiti, quali ad esempio i dati sulle iscrizioni e le cancellazioni dal registro delle imprese delle Camere di Commercio di cui parlavo prima. Tali interventi, per quanto possibile, dovrebbero essere erogati non a fondo perduto, ma, al contrario, essere utilizzati per aiutare la necessaria riconversione delle attività in ragione del nuovo scenario economico che si formerà al termine dell’emergenza. Ciò premesso, le misure per contrastare gli effetti negativi sulla crescita dovuti all’inevitabile accresciuta diseguaglianza economica che osserveremo al termine della pandemia nel nostro paese sono note, purché si sia disposti ad attenderne con pazienza gli effetti. Esse potrebbero riguardare, ad esempio, una maggiore progressività delle imposte (che ad oggi si arrestano alla soglia massima dei 75000 euro) prevedendo ulteriori scaglioni di reddito oltre quelli attuali con aliquote crescenti il cui gettito andrebbe a consentire una contemporanea revisione verso il basso delle aliquote inferiori. Inoltre, si potrebbe introdurre una progressività anche nell’imposta di successione attualmente caratterizzata da aliquote molto basse e non progressivamente legate all’ammontare del patrimonio ereditario come avviene invece in molti paesi come, ad esempio, negli Stati Uniti, in Olanda, in Germania, in Francia, in Spagna e nel Regno Unito per nominarne solo alcuni. Contrariamente all’imposta sul reddito da lavoro e sul reddito da capitale, tra l’altro, l’imposta di successione implicherebbe un incremento del gettito senza rischiare di introdurre effetti negativi né sui consumi né sugli investimenti. Il gettito addizionale derivante dall’introduzione di una maggiore progressività nell’imposta sui redditi e sulle successioni potrebbe essere utilizzato in parte, come detto, per la riduzione delle aliquote dell’imposta sui redditi più bassi, ed in parte per l’incremento dell’investimento pubblico soprattutto in capitale umano e ricerca scientifica i quali, rappresentano i due motori principali della crescita. Tali misure, sarebbero di sicuro beneficio per l’economia, contrastando al tempo stesso l’accresciuta diseguaglianza che ne frenerebbe la crescita. Come abbiamo già detto, non è solo per una solidarietà sociale che tali interventi dovranno essere predisposti al fine di sostenere gli individui ed i settori maggiormente colpiti dalla pandemia, ma anche per un sostegno alla crescita nel medio-lungo periodo della quale beneficerebbero tutti, anche quei settori meno penalizzati dalla attuale emergenza sanitaria.
[1] Sergio Correia, Stephan Luck, and Emil Verner. Pandemics Depress the Economy, Public Health Interventions Do Not: Evidence from the 1918. June 5, 2020
[2] Arbia, G. (2016) Diseguaglianza redistribuzione e crescita, Le Nuove Bussole, Vita e Pensiero
[3] Si fa qui riverimento all’indice di diseguaglianza di Gini. Si veda Arbia, G. (2016) op. cit.
Cashback, moneta elettronica ed evasione fiscale
di Giuseppe Ingrao e Raffaello Lupi
La concessione generalizzata del c.d. cashback di stato per tutti gli usi della moneta elettronica (salvo quelli in rete) lo rende eccessivamente oneroso rispetto ai benefici per le casse erariali; esso viene infatti erogato anche per gli acquisti presso operatori economici di notevoli dimensioni, organizzati in modo pluripersonale, dove la registrazione degli incassi, anche in contanti, è di per sé assicurata dalle logiche di controllo interno aziendale. Peraltro, la possibilità di raggiungere il plafond con i soli acquisti presso la grande distribuzione potrebbe vanificare l’emersione di maggiori imponibili presso piccolo commercio, artigianato e piccole attività, dove si annida la massa dell’evasione da omessa registrazione dei corrispettivi; il cashback darà comunque una spinta psicologica all’utilizzazione della moneta elettronica, che però non necessariamente assicura, per le attività suddette, la fedele registrazione dei corrispettivi, vista la notevole informalità dei meccanismi bancari e finanziari sottostanti.
Cashback, conflitto d’interessi e impatto sulle abitudini dei consumatori
di Giuseppe Ingrao
Sommario: 1. Il successo dell’idea presso la popolazione - 2. I limiti dello strumento: parificazione tra acquisti presso i circuiti di grande distribuzione e acquisti presso le piccole attività commerciali - 3. Passaggio spontaneo alla moneta elettronica e futura soppressione del cashback.
1. Il successo dell’idea presso la popolazione
Giustizia Insieme ha già dato risalto (si veda l’articolo di Carlo Amenta linkato qui –Il Cashback di Stato: evidenze empiriche e inquadramento fiscale - alla nuova misura con cui si vogliono premiare i soggetti che effettuano acquisti utilizzando strumenti tracciabili di pagamento, riconoscendogli un rimborso pari al 10% delle somme spese, fino ad un massimo di € 150. Misura avviata nel mese di dicembre 2020, che verrà riproposta da gennaio del 2021, periodo in cui i cittadini “virtuosi” potranno ottenere un rimborso per le spese regolate appunto con bancomat, carte di credito ed app ([1]) fino ad un massimo di € 150 per semestre.
Anche se il cash back può essere comunicato politicamente come una misura di sostegno dei consumi, a ben vedere si tratta di un strumento finalizzato ad ostacolare l’evasione fiscale conseguente alla omessa registrazione degli incassi da parte di piccoli commercianti e artigiani. Ed infatti, sul piano teorico, il pagamento con moneta elettronica lascia traccia sul conto corrente del beneficiario e quindi lo induce ad emettere la fattura o lo scontrino, sul quale lo Stato incamera l’Iva e le imposte sui redditi. Per le operazioni di importo inferiore a quello fissato per il divieto di uso del contante (in atto € 2.000), si è pensato, quindi, di scoraggiarne l’uso prevedendo la concessione di un “rimborso” a favore del consumatore che sceglie di avvalersi di pagamenti elettronici. Il cashback farebbe così “sistema”, nella prospettiva del contrasto all’evasione, con il provvedimento che vieta l’utilizzo del contante per le operazioni economiche superiori ad un determinato valore.
L’idea ha avuto un notevole successo presso la popolazione, perché da subito si sono registrati milioni di download della app che gestirà il rimborso; vi è stata, quindi, una “corsa” a dotarsi di tutti gli strumenti necessari per accaparrarsi il beneficio (al pari d’altra parte di quanto registratosi di recente in merito al c.d. bonus bici). In effetti la misura di cui ci occupiamo è politicamente molto meno imbarazzante, e tecnicamente più gestibile, rispetto alla proposta di istituire una tassa sul contante, ventilata in passato e non più riproposta (è indubbiamente più accattivante sul piano del consenso elettorale una misura premiale rispetto ad una “punitiva”). Ci sono, così, tutte le premesse per assistere ad una netta impennata del numero di transazioni di modesto importo regolate con carte di credito, bancomat ed app.
2. I limiti dello strumento: parificazione tra acquisti presso i circuiti di grande distribuzione e acquisti presso le piccole attività commerciali
Una compiuta analisi della misura introdotta non può, però, arrestarsi qui. Occorre, infatti, chiedersi se ci sia un vantaggio finanziario per lo Stato in termini di incremento delle entrate tributarie, al netto della spesa erariale per il cashback. Il risultato dipende da una valutazione applicabile anche a misure analoghe ormai in vigore da tempo, come le detrazioni sulle spese per ristrutturazioni, che sono nate anch’esse con la logica di introdurre il c.d. conflitto di interessi, anche se nel tempo hanno assunto l’ulteriore funzione di sostegno del settore dell’edilizia. Nel caso di specie, si realizza un conflitto tra l’esercente, che preferisce il contante per non emettere il documento fiscale, e l’acquirente, che vuole sfruttare il ristoro erariale, peraltro senza che emergano i noti problemi dei c.d. incapienti, cioè di coloro che sono privi imponibili in grado di assorbire la detrazione.
Orbene, la sussistenza o meno di un beneficio per i conti pubblici grazie al cashback dipende dall’emersione incrementale di ricavi rispetto a quelli che sarebbero stati comunque registrati dall’insieme di aziende e professionisti interessati alla misura analizzata. Sotto questo profilo, il bilancio è destinato ad essere negativo in quanto il ristoro di Stato viene concesso per qualsiasi pagamento con moneta elettronica anche presso circuiti di grande distribuzione e dove comunque i corrispettivi incassati sarebbero stati registrati, in quanto diretti a strutture organizzate in modo pluripersonale.
L’eventuale maggior gettito emerso presso piccoli commercianti e artigiani sarà ben poca cosa rispetto all’enorme ammontare di cashback concesso a chi paga con carta di credito presso la grande distribuzione ed altri circuiti dove l’evasione dei corrispettivi era semplicemente impensabile. I condizionamenti di rimborso sul singolo acquisto e complessivo nel semestre rendono palese, per chi è “affezionato” al contante, la facilità di raggiungere l’obiettivo di cashback limitandosi a fare acquisti al supermercato, continuando a pagare in contanti gli acquisti in piccoli negozi a conduzione familiare, e presso artigiani per riparazioni domestiche, su veicoli, servizi alla persona etc. Il prezzo pagato in termini di risorse pubbliche assorbite dal cashback appare, pertanto, un multiplo, rispetto all’emersione di maggiori basi imponibili, anche presso quei soggetti maggiormente a rischio di occultamento dei corrispettivi. Questi ultimi, almeno se svolgono l’attività avvalendosi di una sede fissa, dichiarano già oggi un “minimo sindacale” apprezzabile, parametrato alle dimensioni dell’attività, a prescindere dagli incassi in contanti o con carta. Il cashback, anche su questi soggetti, provocherà un aumento di ricavi registrati solo quando gli incassi con moneta elettronica saranno superiori a quelli stimabili per ordine di grandezza in base alle caratteristiche dell’attività. Fino a quel momento il cashback provocherà solo uno spostamento, all’interno del suddetto “minimo sindacale” da moneta cartacea a moneta elettronica. Anche in questi settori c’è insomma il rischio che siano registrati fiscalmente più pagamenti con pos e meno pagamenti in contanti, fermo restando il totale delle registrazioni.
Quanto sin qui esposto, può considerarsi ragionevole almeno fino a che i pagamenti ricevuti con moneta elettronica non siano così elevati da rendere inverosimile la rappresentazione di attività che, nel senso comune, comportano consistenti incassi in contanti. L’ammontare dei pagamenti elettronici spingerebbe così ad aumentare i ricavi registrati, rispetto a quelli stimati dal contribuente in base alle caratteristiche materiali dell’attività. In questa misura, l’obiettivo di far emergere l’evasione fiscale sarebbe raggiunto, ma ad un costo decisamente sproporzionato per le pubbliche finanze, a causa dell’erogazione del cashback anche per una massa di pagamenti elettronici cui non corrisponde per definizione, in capo al percettore, alcuna mancata registrazione degli incassi.
3. Passaggio spontaneo alla moneta elettronica e futura soppressione del cashback
E’ ipotizzabile, tuttavia, che il cashback determini benefici alla casse erariali solo nella misura in cui accelera un processo spontaneo di passaggio alla moneta elettronica; paradossalmente, in sostanza, il successo del cashback si vedrà quando verrà abolito, essendosi ormai diffusa l’abitudine ad utilizzare sistematicamente bancomat e carte di credito. L’utilizzo di questi sistemi di pagamento tracciati indurrà la massa degli operatori economici ad una maggiore credibilità tributaria, in quanto le possibilità di far coesistere moneta elettronica ed evasione richiedono una certa dose di artificio. Si tratta di sistemi di cui parlerà più avanti Lupi, ma che presuppongono una certa dose di spregiudicatezza, rispetto alla passiva percezione di incassi in contanti, non registrati, nella quale anche i consulenti tributari, che non hanno nulla da guadagnarci, eviteranno di essere coinvolti. Grazie al cashback allora si potrà ridurre la massa di contante in circolazione, in quanto chi viene pagato con moneta elettronica, ed usa conti bancari e carte di credito, sarà sempre meno propenso a prelevare e pagare in contanti. Il denaro contante tenderà quindi a polarizzarsi su coloro che incassano somme sempre in contanti; questi soggetti saranno certamente restii a versare le disponibilità monetarie in banca, esponendosi ad un accertamento fiscale, per pagare poi con il bancomat o la carta di credito, beneficiando magari del cashback. Ed allora, un risultato finanziario deludente nell’immediato per i conti pubblici potrebbe dare frutti psicologici importanti in una prospettiva psicologica.
In conclusione, il successo di pubblico del cashback conferma l’assunto secondo cui lo spirito solidaristico non basta né a spingere all’adempimento tributario proprio, né ad indurre gli altri ad adempiere. Non ci sono quindi gli onesti (non evasori) e i disonesti (evasori), ma ognuno tiene conto della determinabilità dei propri presupposti economici d’imposta, della sua percezione del rischio di controlli e delle proprie necessità di spesa. Su queste premesse non c’è una lotta (all’evasione) da fare, ma un più sistematico intervento valutativo degli Uffici impositori sulla credibilità degli imponibili dichiarati di piccoli commercianti e artigiani rispetto alle caratteristiche dell’attività, e alle altre informazioni, tra cui - in un verosimile futuro - anche gli incassi con moneta elettronica.
Moneta elettronica e illusoria “ragionierizzazione” delle piccole attività al consumo finale
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Le ragioni politiche di un cashback indiscriminato - 2. Spersonalizzazione gestionale come vera ragione della tax compliance, anche in contanti - 3. Nuove possibilità di evasione tramite la moneta elettronica.
1. Le ragioni politiche di un cashback indiscriminato
L’intervento che precede ha messo giustamente in risalto il modo maldestro con cui il cashback è stato esteso a tutti i pagamenti elettronici, rispetto ai quali quelli a rischio di mancata registrazione fiscale sono netta minoranza. E’ come se la politica non avesse avuto il coraggio di dire quello che tutti intuiscono, riflettendo sull’evasione di massa, cioè che essa riguarda in massima parte la mancata registrazione dei corrispettivi da parte di piccole organizzazioni al dettaglio, nonché artigiani e piccoli commercianti. E’ una mancanza di coraggio derivante dall’utilizzazione, nella comunicazione politica, dell’evasione come capro espiatorio per disfunzioni dei pubblici uffici con ragioni ben più complesse; spiegare queste disfunzioni con la mancanza di risorse finanziarie (“mancano i soldi”) a causa dell’evasione, è una comoda scorciatoia per eludere problemi amministrativi molto spinosi. I limiti di questa chiave di lettura si presentano quando, dopo aver dipinto l’evasore come “nemico del popolo”, ci si rende conto che si tratta di milioni di piccoli operatori, la cui criminalizzazione dà un pessimo dividendo politico. Questa è probabilmente la ragione dei diversivi come il mito dei grandi evasori oppure le spiegazioni impersonali del fenomeno, come appunto la circolazione del contante. Quest’ultimo è quindi messo tutto sullo stesso piano dal cashback di stato, come se pagare una bolletta della luce o comprare una torta in pasticceria presentasse gli stessi rischi di mancata registrazione del corrispettivo; l’unica esclusione è stata per gli acquisti online non per difendere il commercio tradizionale, come pure è stato comunicato; il motivo è che solo nel commercio tradizionale è ipotizzabile l’alternativa tra acquisti in contanti e con moneta elettronica, che invece non ha alternative negli acquisti in rete. La sproporzione per eccesso del cashback rispetto all’obiettivo perseguito è stata rilevata anche dalla BCE, con lettera riportata qui https://www.milanofinanza.it/news/ecco-la-lettera-integrale-della-bce-sui-dubbi-per-il-cashback-202012181509216388 la quale avrebbe potuto anche far notare che l’istituto spinge a un frazionamento dei pagamenti, anche se effettuati in unica occasione (ad esempio convengono di più tre pagamenti da 200 euro che uno da 600, anche a costo di ripetere le code al centro commerciale).
2. Spersonalizzazione gestionale come vera ragione della tax compliance, anche in contanti
Distorcere la realtà in nome della comunicazione politica ignorando la diversa determinabilità dei presupposti economici d’imposta finisce per impedire di vederla, facendo travisare le vere ragioni dell’adempimento e quelle dell’evasione. Non è infatti il pagamento in moneta elettronica a trattenere dall’evasione, ma la presenza di un’organizzazione amministrativa pluripersonale, dove chi gestisce gli incassi è diverso dal loro beneficiario finale, titolare dell’attività economica. Quest’ultimo, dovendosi servire di terzi per i propri incassi, mette infatti in piedi controlli interni diretti a scongiurare la sottrazione di risorse, di cui poi si giova anche la determinazione delle imposte; ciò accade anche per gli incassi in contanti, privi di rischi fiscali quando sono conseguiti da grandi organizzazioni amministrative [2] o da circuiti “solidi” come ad esempio quelli gestiti dalle filiere di esercizi pubblici coordinati da società informatiche (ad esempio Sisal, Lottomatica, etc.). Da quest’immagine di affidabilità, per uno strano transfert, si è diffusa nella pubblica opinione l’idea che i consumatori e le banche, variamente messi assieme, possano essere un surrogato dei suddetti uffici amministrativi e dei sostituti di imposta. La realtà ha già mostrato che è un obiettivo illusorio, anche per l’attuale modestissima consapevolezza diffusa sulla determinabilità dei presupposti economici d’imposta, come nucleo essenziale del diritto tributario. Basti pensare che il problema della diversa determinabilità degli imponibili è assente nei più diffusi manuali di diritto tributario. Anche per questo, da decenni, iniziative volte alla rilevabilità contabile dei presupposti di imposta sono svolte senza andare al di là dell’effetto annuncio di una analisi superficiale; ricordo che all’obbligo dei libri contabili bollati non corrispondevano meccanismi per informare gli uffici tributari su quanti fogli avesse bollato ciascun contribuente e lo stesso accadeva per le bolle d’accompagnamento, anch’esse prive di quadratura tra bolle acquistate, utilizzate e rimaste in giacenza. Non c’è tempo di soffermarsi qui su analoghi fenomeni riguardanti ricevute fiscali e scontrini, ma se queste possibilità di aggiramento esistevano per adempimenti di mero diritto amministrativo-tributario, è facile immaginare cosa può accadere per la moneta elettronica, che è un fenomeno globale e di mercato.
3. Nuove possibilità di evasione tramite la moneta elettronica
Nell’ingenuo immaginario di chi porta avanti la “lotta al contante” si pensa a un piccolo commerciante o artigiano che appoggia il c.d. “pos” sul conto riferibile all’impresa, facilmente accessibile dagli uffici tributari. E’ una narrazione idealizzata, conforme ai sensazionalismi che circolano in rete sul “fisco che vede tutto quello che fai”. Come per tutte le leggende metropolitane un po' di vero c’è, nel senso che il fisco, e le pubbliche autorità in genere, possono sapere tutto di uno specifico contribuente. Il passaggio ulteriore, privo di fondamento e sostanzialmente immaginario, è la possibilità di svolgere simili indagini in modo massivo, moltiplicando per i milioni di piccoli commercianti e artigiani quello che si può fare per pochi di essi, in modo da determinare in modo accettabile i presupposti economici d’imposta riferibili a milioni di piccoli commercianti, artigiani e organizzazioni padronali. Anche per questo mi sembrano eccessive le preoccupazioni di utilizzo dell’istituto per una finalità Orwelliana di limitazione della riservatezza personale, avanzate anche da docenti di diritto tributario, come Alessandro Giovannini http://www.opinione.it/editoriali/2020/12/21/alessandro-giovannini_cashback-evasione-economia-sommersa-bce-governo-schedati-italia-mezzi-pagamento/. Il problema è piuttosto quello della determinazione dei presupposti economici d’imposta, e sull’impossibilità di un loro calcolo ragionieristico di massa per questi operatori economici, rinvio ai parr. 4.5, 5.9 e 5.16 del mio “Diritto amministrativo dei tributi” https://didattica.uniroma2.it/files/index/insegnamento/185193-Diritto-Tributario.
La moneta elettronica apre infatti nuove frontiere non solo per la tracciabilità dei pagamenti, z beneficio del fisco, ma anche per l’evasione. Si moltiplicano infatti gli strumenti per trasferire denaro sostanzialmente anonimi, in quanto tracciabili solo a prezzo di indagini troppo impegnative per essere gestite su scala abbastanza vasta da indurre a un adempimento credibile una massa di contribuenti come quella sopra indicata. Dalla ricarica delle carte di credito, alle ricariche telefoniche, ai buoni spesa prepagati, si moltiplicano infatti i mezzi di pagamento privi di qualsiasi controllo amministrativo e aperti alla movimentazione internazionale dei capitali. Basta cercare in rete per accorgersi della facilità di aprire un conto online, appoggiandovi sopra strumenti di pagamento elettronico. Come spiegato in questo video https://www.youtube.com/watch?v=34KcCjqVhcE&t=25s c’è molta improvvisazione ed ingenuità nel contrastare l’evasione con la lotta al contante, come se il POS consentisse di trasformare consumatori e banche in sostituti di imposta di milioni di piccole attività al dettaglio. E’ senza dubbio credibile che l’aumento della moneta elettronica spinga questi contribuenti, come sostiene Ingrao nell’articolo che precede, ad una maggiore credibilità tributaria. Ma la pluralità di POS o l’appoggio dei medesimi su conti di terzi sono possibilità offerte dal mercato e difficili da mettere sotto controllo. Immagino oggi un artigiano che incassa davvero 50 mila euro e ne dichiara 20, abituato a un certo tenore di vita, che si ridurrebbe molto qualora ne dichiarasse il doppio, per non dire la totalità. Le scappatoie sopra indicate, per conciliare evasione e moneta elettronica, diventerebbero strumento di difesa del tenore di vita, più che una perversione di evasori incalliti, secondo la definizione di Ingrao. Altrimenti molte attività diventerebbero non più convenienti, come spiego al termine del paragrafo 1.6 di Diritto amministrativo dei tributi; in tale sede ipotizzo anche un circolo virtuoso di crescita ed efficientamento delle dimensioni delle attività, ma ciò dipende da molte variabili extratributarie, su cui sono impossibili previsioni. E’ però certo che non si tratta di questioni risolvibili col colpo di bacchetta magica dell’eliminazione del contante.
[1] Sono esclusi i pagamenti mediate bonifici bancari, in quanto, nonostante rappresentino strumenti tracciabili, sarebbe tecnicamente complesso agganciare i ristori operati dall’erario a questa modalità di pagamento. Il bonifico si presta ad essere efficacemente utilizzato nei casi in cui il bonus statale venga quantificato autonomamente dal contribuente in dichiarazione annuale mediante il godimento di un credito di imposta, verificabile dagli Uffici impositori in sede di controllo.
[2] ) Si pensi ai supermercati della metà del secolo scorso, in cui fu inventato lo scontrino, rilasciato dal registratore di cassa Sweda, per chi lo ricorda, ben prima che si immaginasse la moneta elettronica.
In copertina Alessandro Tiranno, 12 anni,
Il Natale al tempo del Covid
Il (pranzo di) Natale al tempo del Covid di Giuseppe Savagnone
Sommario: Qual è il vero Natale - 2.La voce del silenzio - 3.Oltre il narcisismo - 4. Imparare ad amarci per amare l’umano che è negli altri.
1.Qual è il vero Natale.
Anche se un antico detto recita «Natale con i tuoi», nessuno poteva immaginare che quest’anno il cenone natalizio si sarebbe svolto nella ristretta cerchia di quelli di casa, con la partecipazione di due soli ospiti, presumibilmente scelti anche loro tra i familiari più stretti. Niente famiglie allargate, niente amici, niente allegre brigate. Bella festa!
La delusione è generale. Sono delusi quelli che speravano, anche quest’anno, in una chiassosa riunione di parenti, intorno a una bella tavola imbandita, mangiando cose buone e bevendo a crepapelle. Delusi quelli che passano le settimane prima del 25 dicembre a fare shopping, acquistando regali costosi che si sarebbero voluti scambiare, ai piedi dell’albero, con figli, nipoti e amici. Delusi quelli che questa nottata erano abituati a trascorrerla giocando. Delusi i gestori di alberghi, ristoranti, pub, che si aspettavano come sempre il pienone di clienti. Insomma, a caratterizzare quest’anno la ricorrenza, un tempo lieta, è la costernazione. Che Natale è?
Se un marziano arrivasse in questi giorni in una delle nostre città e rilevasse questo diffuso disincanto, ne concluderebbe che l’incantesimo del Natale per noi era costituito dalle luci delle vetrine, dagli oggetti, dai cibi e che questa, per la cui dissacrazione siamo a lutto, è la festa nazionale del consumismo. Si farebbe molta fatica a convincerlo che c’è dell’altro, sì, un’antica tradizione religiosa, forse una leggenda, che parla di una nascita – altrimenti perché diamine si chiamerebbe Natale? - , della nascita di un bambino diverso dagli altri…
Probabilmente il marziano obietterebbe, stupito, che di questo non parla nessuno, mentre i rimpianti, le recriminazioni, le proteste, si sono concentrati, piuttosto, sul vuoto determinato dal venir meno di quelle altre cose (luci, oggetti, cibi…). Se poi qualcuno gli spiegasse che la nascita di quel bambino, in realtà, è stata considerata così importante da far dividere in due il tempo della storia umana - inducendo, ancora oggi, buona parte dell’umanità a distribuire gli avvenimenti di questa storia a seconda che si siano verificati prima o dopo di essa, e datandoli in rapporto all’anno in cui è avvenuta - , il suo stupore sarebbe ancora più grande.
E non avrebbe torto. Perché, in effetti, la percezione, diffusa nell’immaginario collettivo, che questo non è un vero Natale, dimostra che i valori intorno a cui ormai da molto tempo ruota questa festa – forse la più significativa dell’anno, sicuramente la più sentita e amata - non hanno più quasi nulla a che fare col suo significato originario. Nella migliore delle ipotesi, questi valori parlano di una generica bontà – a Natale, si dice, siamo tutti più buoni - , di famiglia, di volti di bambini sorridenti per i doni che ricevono. Babbo Natale ha sostituito Cristo.
Forse sono più vicini alla cultura reale quei Paesi del Nord Europa dove ormai anche la tradizionale denominazione di origine cristiana tende ad essere sostituita con quella di “Festa d’inverno”, recuperando la sua coincidenza con la festa pagana del solstizio d’inverno. Un passaggio che da molti è auspicato anche in nome del rispetto per le minoranze religiose, soprattutto quella islamica. Su questa linea del resto si pone la sempre più frequente sostituzione – anche da noi - del presepe con l’albero di Natale, che neutralizza il riferimento alla nascita di Gesù e quindi – si sottolinea – non offende nessuno.
A dire il vero i primi a sorprendersi di questo “atto di delicatezza” sono i musulmani, perché il Corano, nell’unica sura (capitolo) dedicata a una donna, precisamente a Maria, parla esplicitamente dell’annuncio dell’angelo Gabriele alla Madonna e della nascita verginale di Gesù (anche se come grande profeta e non come Figlio di Dio). Ma forse a non avere più il senso di questi eventi non sono i seguaci dell’Islam, bensì gli eredi, formalmente “cristiani”, di una tradizione in cui non si riconoscono più.
2.La voce del silenzio
Se il Natale come solennità di una religione dei consumi e, se mai, di Babbo Natale, ha soppiantato quello di cui parlano i vangeli, è in fondo perché quest’ultimo non sembra aver più nulla da dire agli uomini e alle donne del nostro tempo. Il massimo che ne trae è un vago sentimento di benevolenza e di pace che rientra nei canoni di un certo “buonismo” di cui anche il sistema neocapitalistico ha bisogno, una volta l’anno, per rendere sopportabile la cinica legge dell’efficienza e del profitto negli altri 364 giorni.
Quest’anno, però, le cose stanno andando diversamente dal solito. Venendo a turbare questo quadro consolante, il covid ha messo spietatamente a nudo la sua dipendenza dalle logiche della società opulenta e ci costringe a cercare, dietro di esso, che cosa rimane del Natale quando le luci restano spente e i regali inutilizzati. Nel vuoto che si è aperto, diventa plausibile chiederci se è proprio vero che nel Natale di Gesù Cristo non ci sia nulla che possa interessarci.
Una prima risposta riguarda proprio il vuoto che stiamo sperimentando e che non riguarda solo il mancato cenone, ma l’interruzione o almeno la rarefazione, a causa della pandemia, del ritmo frenetico di attività e di incontri che riempiva la nostra vita e le dava un senso. Anche quando esso in qualche modo si prolunga attraverso lo smart working, rivelandosi anzi, per certi versi, più invadente di prima, un vuoto rimane. Non è più il flusso della vita reale. Lo schermo ci rende inesorabilmente spettatori.
Si può reagire a questo con la depressione, oppure litigando con chi abita con noi, o in mille altre forme che riguardano la sfera psichica. Ma è possibile anche riscoprire una dimensione alternativa, quella spirituale (che non vuol dire necessariamente religiosa), a cui proprio il Natale ci introduce, se prendiamo sul serio il suo originario messaggio. La soglia per entrarvi è quella del silenzio.
«La liturgia natalizia contiene questi due versetti del libro della Sapienza: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte giungeva a metà del suo rapido corso, l’onnipotente tua Parola si lanciò dal cielo, dal tuo trono regale”. Queste parole parlano del mistero dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio (…). Le forze che non fanno strepito sono quelle che realmente valgono».
Questa riflessione di Romano Guardini sul senso del Natale suona oggi assolutamente inattuale. Essa è una sfida alla mentalità e al costume diffusi nella nostra società, in cui quello che conta non è ascoltare - meno che mai il silenzio! - , ma “farsi sentire” e comunque chiacchierare. Del silenzio abbiamo paura e lo sfuggiamo accuratamente. Anche a questo serve il chiasso delle feste”
Eppure percepiamo tutti che le parole – come già aveva avvertito Martin Heidegger – , nell’uso indiscriminato che ne facciamo, perdono il loro significato. Come i vuoti auguri che in questi giorni ci scambiamo, senza bene sapere perché.
Il silenzio notturno del Natale può, allora, aiutarci a riscoprirne uno dentro di noi, che ci renda capaci di fermarci, per ascoltare le voci della realtà, andando anche solo per un momento al di là del rumoroso groviglio delle nostre rabbie e delle nostre nevrosi.
Non è detto che in questo silenzio nasca per noi Gesù, come una piena immedesimazione nel Natale cristiano richiederebbe. Ma forse possiamo ritrovare, e in un certo senso “nascere”, almeno noi stessi. Non nel buonismo sentimentale, che ci può coinvolgere un giorno l’anno, ma nella verità di uno sguardo onesto sulla nostra vita.
3.Oltre il narcisismo
Può darsi, allora, che un altro frammento del mistero natalizio si riveli significativo ai nostri occhi. Esso parla di un Dio che esce dalla sua beata perfezione per condividere la storia degli uomini, soprattutto dei più poveri ed emarginati. Ne è un segno, già la notte di Natale, il fatto che l’annunzio si astato dato per primo ai pastori, una categoria che, nel mondo ebraico di quel tempo, era guardata con profondo disprezzo e assimilata a quella degli animali. Del resto, anche più tardi, nella sua vita pubblica, Gesù si mescolerà volentieri con la feccia della società di allora – pubblicani, prostitute, malati afflitti dalla patologie peggiori - , senza ombra di imbarazzo, anzi compiacendosi di trovare, anche in mezzo a questi rottami umani, dei discepoli.
Quello che caratterizza la cultura in cui siamo immersi fin dalla nascita e da cui siamo plasmati è un individualismo narcisistico e possessivo che porta a considerarci il centro del mondo, guardando gli altri come semplici comparse, nella grande rappresentazione di cui noi siamo i soli veri protagonisti, e il mondo intorno a noi come qualcosa da possedere e sfruttare a nostro uso e consumo.
Nella sua recente enciclica «Fratelli tutti», papa Francesco ha denunziato il paradosso di un mondo globalizzato, in cui tutti siamo in larga misura omologati dalle mode e dagli stili di vita comuni, ma che non ci ha reso fratelli, anzi esaspera la concorrenza e la tendenza dei più forti ad abbandonare i più deboli al loro destino.
Non c’è bisogno della fede per capire che il messaggio del Natale va nella direzione opposta a quella dominante innanzi tutto dentro di noi e, conseguentemente, nelle dinamiche sociali di cui siamo protagonisti. Si tratta di un tacito appello rivolto non soltanto ai credenti, ma ad ogni essere umano ancora capace di vigilanza (come i pastori nella notte) e perciò in grado di prendere coscienza del problema e di fare delle scelte conseguenti.
Questa società ha bisogno di persone che sappiano uscire da sé stesse e guardare in faccia gli altri come persone La cultura dei diritti ha indubbiamente contribuito a liberare gli individui da mille forme di schiavitù, ma rischia di essere unilateralmente enfatizzata e di far dimenticare i doveri. E, ancora al di là dei doveri, c’è la gratuità del supererogatorio che non è neppure dovuto, ma che si offre all’altro in dono. Come Dio ha fatto facendosi uomo.
4.Imparare ad amarci per amare l’umano che è negli altri
Un terzo frammento del Natale perduto riguarda il valore che l’incarnazione di Dio attribuisce all’umano in quanto tale. Non i suoi valori più sublimi. Quando il vangelo di Giovanni, per raccontare la vicenda della nascita di Gesù, la sintetizza nell’espressione solenne «E il Verbo si fece carne» , usa una parola, “carne”, non intende parlare del corpo. Nel linguaggio biblico “carne” indica l’essere umano nella sua interezza, ma sottolineandone la fragilità, la vulnerabilità, la pericolosa inclinazione al male.
È questo che è accaduto, secondo la tradizione cristiana, a Natale: Dio ha voluto far suo il nostro destino, con le sue luci e le sue ombre e con questo ci ha chiesto di accettarci e amarci per quello che siamo. Non è facile amarsi. Georges Bernanos ha messo in bocca ad un suo personaggio un’affermazione tremendamente vera: «Odiarsi è più facile di quanto non sembri».
Il vero problema per la grande maggioranza delle persone è che hanno un pessimo rapporto con sé stesse. Non accettano i loro limiti, non si perdonano i loro errori, non hanno fiducia nelle loro potenzialità. Per questo hanno anche un rapporto sbagliato con gli altri. Non a caso il vangelo ci chiede, per poter amare loro, di cominciare con l’amare noi stessi: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Ma per amarsi bisogna sapersi amati da qualcuno. Da soli non ce la facciamo. Il Natale ci parla di un Dio che ci ama al punto da voler condividere Lui stesso la nostra umanità e ci chiede di accettare e accogliere l’umano negli altri come Lui lo accetta e lo accoglie in noi, con tutto il carico delle sue miserie.
Sono solo frammenti di una festa “superata”, che però forse intercettano ancora la nostra vita, anche quella di chi ha preferito fare l’albero piuttosto che il presepe. Il cenone di Natale quest’anno non servirà a distrarci da questi problemi con la sua chiassosa, ma forse superficiale, allegria. Naturalmente, ciò non vuol dire che saremo costretti ad affrontarli. Invece di riflettere, potremo sempre optare per la rabbia e la depressione. Ma sarebbe un bel regalo di Natale da fare a noi stessi provare a guardare le cose, per una volta, da un punto di vista diverso.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.