ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro di Messina.
di Lisa Taschini
Sommario: 1. Introduzione al tema controverso. – 2. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa. – 3. Il quadro normativo entro cui si inscrive la materia. – 4. Il vaccino come diritto e come onere: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale. – 5. Il vaccino come obbligo: le indicazioni di principio desumibili dal nostro ordinamento. – 6. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le tesi che sono state assunte in dottrina. – 6.1. Le tesi favorevoli. – 6.2. Le tesi contrarie. – 6.3. La posizione del Giudice del lavoro di Messina nell’ordinanza cautelare. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione al tema controverso.
Conclusa la fase iniziale dell’emergenza in cui imprese e lavoratori hanno dovuto fronteggiare il diffondersi del Covid-19 alla ricerca di una nuova razionalità organizzativa degli ambienti di lavoro per resistere ad un nuovo rischio per la salute e la sicurezza[1], si pone ora un problema inedito, reso urgente dalla diffusione del primo vaccino anti SARS-CoV-2, relativo al binomio, già di per sé oscuro e fragile, salute e lavoro.
Il prendere consistenza di un atteggiamento obiettore rispetto al vaccino da parte della popolazione ha condotto all’emersione, nell’arena politica, costituzionale, sindacale e giuslavoristica, di un acceso dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti professionali, e sulle conseguenze, nelle relazioni con il datore di lavoro pubblico e privato, del rifiuto ingiustificato del lavoratore. Le soluzioni prospettate sono state le più varie, desunte tutte dai principi fondamentali dell’ordinamento ed imposte dall’assenza di una puntuale norma positiva.
Per una volta, non si sono delineati due schieramenti nettamente contrapposti, ma si sono affiancate soluzioni diverse e sfumate[2], per la delicatezza e la complessità della materia, che si pone al crocevia di diritti fondamentali e di rango costituzionale, si intreccia di diritti e doveri, di situazioni giuridiche a dimensione privatistica e pubblicistica, individuali e collettive, insieme[3].
La sfida di questo tempo che il giurista è chiamato ad affrontare è fornire risposta e regolamentazione ai drammi economici, sociali e sanitari che si susseguono con una velocità disarmante, senza avere il tempo di porsi le domande giuste, di individuare quale sia l’enigma profondo che si cela dietro alle singole questioni. Nell’attesa dell’auspicabile ed opportuno intervento del legislatore, si cercherà, nelle pagine seguenti, di dipanare questa intricata materia partendo proprio dalle disposizioni esistenti e dagli interrogativi fondamentali per, poi, cercare le risposte che allo stato ha fornito il legislatore e la giurisprudenza costituzionale, interprete privilegiato dell’interpretazione conforme, ed analizzare le varie posizioni che sono già state assunte in dottrina sui riflessi della renitenza alla vaccinazione nell’ambito del rapporto di lavoro.
In relazione al problema dell’obbligo vaccinale, innanzitutto, occorre chiedersi: si può imporre alla popolazione un obbligo generale di vaccinarsi? L’eccezionale stato pandemico in cui ci si trova, giustifica e legittima l’imposizione di un tale obbligo? Se sì, chi è competente a farlo, con quali strumenti e modalità? In alternativa ad una misura imperativa generale, sarebbe prevedibile un obbligo selettivo, relativo ad alcuni settori produttivi e a determinate attività e servizi o limitato a specifici rapporti giuridici connotati da particolari esigenze di tutela e prevenzione? Ovvero ancora, è ammissibile prevedere una sorta di passaporto sanitario ponendo, per l’accesso a determinate attività o servizi, come requisito condizionante l’avvenuta vaccinazione? Se sì, con quali criteri selettivi?[4]
Nell’ambito del rapporto di lavoro, può il datore di lavoro pretendere dai propri dipendenti di vaccinarsi? Quid juris nel caso di rifiuto del trattamento?
2. L’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina: la vicenda contenziosa.
Con l’ordinanza cautelare pronunciata lo scorso 12 dicembre 2020 dal Giudice del Lavoro di Messina[5], il dibattito ha fatto ingresso, per la prima volta, nelle aule di giustizia e la decisione resa ha riconosciuto piena tutela al diritto di autodeterminazione del lavoratore ai trattamenti sanitari, senza, però, al contempo disconoscere la rilevanza della situazione quanto meno sul piano precauzionale e preventivo nei confronti della posizione giuridica di garanzia del datore di lavoro.
Questa la vicenda processuale. Alcuni lavoratori dipendenti dell’Azienda ospedaliera universitaria di Messina ricorrevano al Giudice del lavoro per vedersi riconoscere il loro diritto di non sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, il cui obbligo era stato sancito con due note aziendali adottate in ottemperanza di un decreto assessoriale che aveva rese obbligatorie dette vaccinazioni per quanti prestano attività lavorativa in ambito sanitario. Contestualmente, i ricorrenti proponevano istanza cautelare d’urgenza per la sospensione dell’efficacia degli atti amministrativi presupposti posto che la mancata adesione alla campagna vaccinale predisposta a livello regionale avrebbe comportato conseguenze immediate nel rapporto di lavoro dei ricorrenti. In particolare, il decreto regionale poneva la avvenuta vaccinazione quale requisito per l’idoneità all’espletamento delle mansioni, ai sensi dell’art. 41, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008, e la nota aziendale attuativa prevedeva la trasmissione dell’elenco dei sanitari non aderenti alla campagna di prevenzione al medico competente per l’accertamento dell’inidoneità al lavoro a far data dalla trasmissione stessa e fino alla conclusione del periodo di presumibile intensità del fenomeno influenzale – ovvero, fino a tutto il mese di febbraio 2021 –.
Le contrapposte tesi propugnate in giudizio dai lavoratori e dall’Assessorato regionale siciliano – l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro è rimasta contumace – si sono concentrate sulla legittimità formale della previsione di un tale obbligo vaccinale. Mentre i lavoratori denunciavano il difetto di attribuzione dell’Assessorato regionale, ritenendo che l’individuazione dei trattamenti sanitari obbligatori sia materia coperta da riserva di legge statale ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 32 e 117 Cost., l’ente pubblico regionale rispondeva ritenendo la misura precauzionale adottata giustificata e proporzionata in relazione ad impellenti ragioni di salute pubblica (si richiama, in primo luogo, la necessità di disporre, in alcuni casi la raccomandazione ed in altri, come quello del caso de quo, l’obbligo di vaccinazione, in ragione delle alte probabilità di una concomitante circolazione di virus influenzali e di SARS-CoV-2 e, in secondo luogo, gli effetti positivi della vaccinazione, individuati nella possibilità di rendere più agevole la diagnosi differenziale tra le due patologie infettive e diminuire così la pressione sul servizio sanitario) e legittima, perché consentita dalle previsioni dell'art. 32, comma 3, della legge n. 833/1978 che riconoscono al Presidente della Giunta regionale o al Sindaco il potere di emanare, in materia di sanità pubblica e di polizia veterinaria, ordinanze di carattere contingibile ed urgente nell’ambito territoriale di riferimento ed in linea con le direttive emergenziali di cui al d.l. n. 19/2020, convertito in legge n. 35/2020, che autorizza le Regioni ad introdurre misure più restrittive di quelle statali ai fini del contenimento del contagio da coronavirus.
Il Giudice del lavoro di Messina ha risolto le questioni controverse ritenendo il provvedimento amministrativo impugnato illegittimo per un duplice motivo: sia perché, e in primo luogo, «travalicando i limiti imposti dagli artt. 32 Cost. e 117 Cost., ha reso obbligatorio per gli operatori sanitari, il vaccino anti influenzale che invece, a livello nazionale è raccomandato e non ritenuto obbligatorio», sia perché l’atto assessoriale è stato adottato «in contrasto con i princìpi del riparto dei poteri tra l’apparato amministrativo regionale e l’organo legislativo regionale», come espressi dall’art. 32 della legge n. 833/1978.
3. Il quadro normativo entro cui si inscrive la materia.
Il legislatore dell’emergenza ha dettato prescrizioni obbligatorie per il contenimento della pandemia e la prevenzione della sua diffusione ponendo adempimenti e divieti generalizzati, basati sul principio di solidarietà collettiva, e prevedendo diritti, obblighi e responsabilità in capo a soggetti specifici quali, ai nostri fini, i datori di lavoro, i lavoratori, gli Istituti assicuratori pubblici[6]. Soprattutto nell’ambito del rapporto lavorativo, sorge il delicato problema di individuare l’origine professionale del contagio, la responsabilità per la prevenzione, l’indennizzo o il risarcimento dell’infortunio e, quindi, della difficoltà di individuare l’origine interna o esterna, rispetto alla causa lavorativa, della infezione stessa, visto il suo carattere pandemico.
Date queste caratteristiche peculiari del rischio, le misure di prevenzione previste dal Testo unico della sicurezza sono state integrate da ulteriori misure, poste a carico sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suggerite dalla esperienza e dalla scienza, ai sensi dell’art. 2087 c.c., codificate nei protocolli di sicurezza concordati tra le parti sociali per la prosecuzione e messa in sicurezza dell’attività produttiva, resi obbligatori dal legislatore con i DPCM del 10 e 26 aprile 2020. Il legislatore ha poi disposto, per definire e ragionevolmente limitare la responsabilità del datore, che l’osservanza dei protocolli anzidetti integra l’adempimento delle prescrizioni dell’art. 2087 ai fini della responsabilità civile e penale del datore di lavoro (ex art. 29-bis, d.l. n. 23/2020, come convertito, con modifiche, dalla legge n. 40 del 2020).
Tra le misure obbligatorie prescritte nei protocolli non è compreso il vaccino anti Covid, all’epoca non ancora disponibile. Ora che il trattamento vaccinale è somministrabile alla popolazione, sia pure progressivamente, si pone il problema di individuare il suo ruolo nel rapporto di lavoro – oltre che nei rapporti contrattuali in genere –.
In questa situazione il Governo italiano, diversamente da quanto aveva già deciso in passato, per situazioni meno drammatiche rispetto alla pandemia in corso[7], non ha (ancora) prescritto l’obbligatorietà del vaccino, ma, in conformità al comune sentire tipicamente europeo, riscontrabile nella Risoluzione dell’assemblea del Parlamento n. 2361 del 27 gennaio 2021, ha optato per la via della raccomandazione[8], confidando che la persuasione costituisca il percorso migliore per raggiungere “una diffusione sufficiente alla sua efficacia”, ed attuare per tale via il precetto dell’art. 32 Cost. sulla tutela della salute collettiva[9].
La premessa da cui muovere per svolgere in modo equilibrato e logicamente costruito un ragionamento sulla obbligatorietà del vaccino anti-Covid e sulle conseguenze di un rifiuto a sottoporvisi nel rapporto di lavoro deve necessariamente consistere nella consapevolezza dell’assenza di una normativa generale di rango ordinario sul punto e dell’assoluta opportunità che il Legislatore si preoccupi di questi aspetti e si esprima in modo chiaro, colmando la lacuna. Le ragioni di una tale esigenza sono fin troppo evidenti: la materia chiama in causa l’equilibrio tra le istanze generali di tutela della salute collettiva e la garanzia della libera autodeterminazione ai trattamenti sanitari, tra la posizione giuridica del datore di lavoro, garante della salute e della sicurezza psicofisica dei propri dipendenti oltre che di tutti i terzi che si trovino ad instaurare rapporti e contatti con i suoi preposti e con i locali aziendali, e la libertà del singolo di non sottoporsi a vaccinazioni contro la sua volontà. Il principio di solidarietà generale costituzionale e il principio di prevenzione, su cui è imperniato l’intero sistema di sicurezza sul lavoro, si scontrano con il divieto di sottoposizione obbligatoria ai trattamenti sanitari, con il principio di libertà in materia di salute e con il divieto di discriminazione per motivi personali e di salute nell’ambito lavorativo, sia in sede di assunzione sia nel corso dell’intero rapporto e all’atto della sua cessazione.
Volgendo quindi lo sguardo alle disposizioni esistenti, primaria importanza rivestono, in termini generali, i principi e diritti fondamentali costituzionali di cui agli articoli 2, 3 e 32 della Carta, nonché, e di conseguenza, sul piano del diritto del lavoro, le normative di cui agli articoli 2087 del codice civile, 40 e seguenti e 279 del d.lgs. n. 81/2008, e la disciplina emergenziale dettata per il contrasto alla pandemia da Covid-19, contenuta nell’articolo 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020, e 83 del d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 77/2020 oltre che nel Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu 2021-2023), di cui all’Accordo del 25 gennaio 2021 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano pubblicato nella G.U. Serie Generale, n. 23 del 29 gennaio 2021, nel Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 e nel Piano Nazionale della Prevenzione Vaccinale, del gennaio 2017.
4. Il vaccino come diritto e come onere: le indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale.
In tempi anche recenti, sono pervenute all’attenzione della Corte costituzionale numerose questioni di legittimità, per contrasto alle disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 2, e 32 della Carta, relative alla normativa vaccinale. Dall’analisi di questa giurisprudenza è possibile individuare quali sono i punti fermi che orientano gli operatori del diritto e il decisore politico nell’interpretazione che, di quelle norme, dev’essere seguita.
In particolare, con la sentenza n. 268 del 2017, la Corte ha fornito una serie di indicazioni e raccomandazioni utili anche, oggi, a correttamente inquadrare il tema della vaccinazione anti-Covid e della sua possibile ricostruzione in chiave di obbligatorietà o meno.
La Consulta ha, innanzitutto, precisato come sia la stessa costruzione dell’articolo 32 a rappresentare l’ambivalenza della tutela costituzionale della salute, insieme diritto all’autodeterminazione del singolo e interesse della collettività, diritto a preservare lo stato di salute del singolo e di tutti gli altri, ed è proprio questo ulteriore e generale scopo a giustificare la compressione dell’autodeterminazione individuale quando si rendano obbligatori per legge specifici trattamenti sanitari[10].
Conseguentemente, quali trattamenti sanitari aventi essi stessi quella duplice finalità, le vaccinazioni possono essere imposte come obbligatorie o raccomandate e la tecnica dell’obbligatorietà[11] ovvero della raccomandazione[12] «possono essere sia il frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra individuo e autorità sanitarie pubbliche, sia il risultato di diverse condizioni sanitarie della popolazione di riferimento, opportunamente accertate dalle autorità preposte». Nel primo caso, spiega la Corte, la libera determinazione individuale viene diminuita attraverso la previsione di un obbligo assistito da una sanzione. Questa soluzione è rimessa alla decisione delle autorità sanitarie pubbliche e, quando sia fondata su obiettive e riconosciute esigenze di profilassi, «non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento obbligatorio sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche quello degli altri», per la ratio stessa dell’articolo 32. Nel secondo caso, le autorità sanitarie optano per un appello all’adesione spontanea degli individui a un programma di politica sanitaria vaccinale e preventivo. La tecnica della raccomandazione «esprime maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale (o, nel caso di minori, alla responsabilità dei genitori) e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute, tutelato dal primo comma dell’art. 32 Cost., ma è pur sempre indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo». Qualunque sia la tecnica prescelta dalle autorità sanitarie per promuovere e diffondere un vaccino, ferma la differente impostazione delle due, quel che rileva, nel ragionamento della Corte, per la decisione delle questioni di legittimità costituzionale, è l’obiettivo essenziale che entrambe perseguono nella profilassi delle malattie infettive: ossia il «comune scopo di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale».
Entrando, pertanto, in questa prospettiva, delineata come l’unica legittima attraverso la quale inquadrare correttamente i trattamenti sanitari vaccinali ex art. 32 Cost., ed incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, perde di significato la differenza tra obbligo e raccomandazione: «l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. I diversi attori (autorità pubbliche e individui) finiscono per realizzare l’obiettivo della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia indipendentemente dall’esistenza di una loro specifica volontà di collaborare: “e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito” (sentenza n. 107 del 2012)»[13].
Relativamente, poi, alle vaccinazioni raccomandate, la Corte chiarisce che in presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore dei trattamenti vaccinali, si sviluppa nei destinatari un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie e ciò rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli. Pertanto, e conseguentemente, la Corte ha sempre riconosciuto anche in tali casi il diritto all’indennizzo per gli effetti dannosi eventualmente prodottisi al singolo per aver aderito alla campagna vaccinale, anche se solo raccomandata[14]: la ragione determinante del diritto all’indennizzo deriva non dall’essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale, quanto piuttosto risiede nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell’interesse della collettività.
L’obiettivo cui si mira, nell’ottica del contemperamento dei contrapposti interessi, è la più ampia copertura vaccinale della popolazione, in applicazione dei principi costituzionali di solidarietà – ex art. 2 Cost. –, di tutela della salute anche collettiva – ex art. 32 Cost. – e di ragionevolezza – ex art. 3 Cost. – e in attuazione del “patto di solidarietà” tra individuo e collettività che l’articolo 32 istituisce.
5. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le indicazioni di principio desumibili dal nostro ordinamento.
Chiarito, quindi, che nell’esecuzione del patto di solidarietà costituzionalmente previsto tra individuo e collettività, un obbligo, generalizzato o selettivo, a vaccinarsi può essere autoritativamente imposto, si rivela opportuno valutare quali sono le indicazioni di principio che allo stato sono già state rese quando si voglia porre un tale obbligo.
La prima questione affrontata riguarda la legittimità di un obbligo di sottoposizione a trattamento sanitario e le condizioni in presenza delle quali lo si può ritenere legittimo, ragionevole e proporzionale. Nella già ricordata sentenza n. 268 del 2017, la Corte costituzionale evidenzia come, nella scelta di politica sanitaria, l’opzione per l’obbligo o la calda raccomandazione di un vaccino dipenda, anche, dal contesto e dal grado di pericolo per la salute pubblica cui la renitenza a sottoporvisi esporrebbe.
Ed è questa l’essenza del ragionamento che la stessa Consulta sviluppa nella sentenza n. 5 del 2018 in relazione all’introduzione dell’obbligo di sottoporre a dieci vaccinazioni i figli minori (d.l. n. 73/2017), convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017): proprio partendo dall’analisi del dato contestuale della preoccupante flessione delle coperture vaccinali, alimentata anche dal diffondersi della convinzione (falsa perché «mai suffragata da evidenze scientifiche») che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive, la Corte giustifica il disposto rafforzamento della cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, qualificandolo un intervento «non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche».
In questo contesto, si mette in luce anche come, ciononostante, il legislatore abbia ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per l’autodeterminazione e la costruzione di un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione, laddove ha previsto che, in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, la legge delinea un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione[15]. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste in capo agli esercenti la potestà genitoriale sul minore, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Vi è anche un altro istituto che mitiga la previsione dell’obbligo e lo coordina con le esigenze di tutela della salute individuale e collettiva e di garanzia dell’autodeterminazione individuale: il sistema di monitoraggio periodico ex art. 1, comma 1-ter, del decreto legge n. 73, nella versione definitiva, il quale consente di rivalutare e riconsiderare la scelta attraverso il monitoraggio della dinamica evolutiva dei livelli di copertura e della incidenza delle patologie virali, arrivando fino alla cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini e al ritorno alla raccomandazione.
Gli elementi di flessibilizzazione previsti dalla normativa denotano, a dire della Corte, «che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso», come se l’imposizione dell’obbligo di un trattamento sanitario vada considerata quale extrema ratio, misura necessaria ad aumentare i livelli di tutela della salute individuale e collettiva, senza comprimere in misura assoluta e senza scadenza la libertà di autodeterminazione individuale.
In altri termini, la Corte applica al tema della legittimità dell’obbligo vaccinale il principio di proporzionalità e ne esegue il relativo test di congruità dei mezzi rispetto al fine: nel caso concreto, limitare l’autodeterminazione individuale risponde ad uno scopo legittimo? Sussiste un nesso causale tra la limitazione della libertà e lo scopo (legittimo) che si persegue? La prevista misura rappresenta il mezzo meno invasivo della libertà personale?
L’altro aspetto su cui le indicazioni della Corte appaiono piuttosto chiare e consolidate riguarda l’individuazione del soggetto legittimato dalla Costituzione ad imporre un tale obbligo sanitario.
Con le sentenze n. 5 del 2018 e 137 del 2019[16] è stato infatti spiegato come lo stesso debba necessariamente essere disposto sulla base di una legge o di un atto avente forza di legge statale e come non sia sufficiente una fonte di rango regionale. La materia vaccinale e dei trattamenti sanitari obbligatori, infatti, si rivela essere particolarmente delicata anche perché si pone al crocevia di varie materie sensibili, tutte di competenza statale.
Quanto invece alla possibilità di desumere un obbligo vaccinale nuovo dal sistema legislativo primario già vigente la Corte costituzionale non ha fornito risposta, evitando di trattare specificamente questo punto. Nella stessa sentenza n. 137 del 2019, ampiamente richiamata dal Giudice messinese nell’ordinanza cautelare in commento, nonostante in quella sede si cerchi di farle dire più di quanto abbia in realtà detto, la Corte ha lambito tale questione, limitandosi ad un esame selettivo della normativa regionale impugnata per evidenziare come la disciplina regionale non abbia introdotto nuove regole in materia sanitaria e di tutela della salute, quanto piuttosto abbia dettato istruzioni sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, proprio evitando così di esaminare la questione centrale, ovverosia se un obbligo sanitario possa essere desunto dalle leggi vigenti e da una lettura sistematica e integrata dell’ordinamento[17].
La conclusione cui pare potersi giungere dall’analisi della consolidata giurisprudenza costituzionale è che la Corte chiede al legislatore di basarsi sulla scienza e sulla sua continua evoluzione per stabilire quale mezzo impiegare per promuovere la somministrazione di massa di un trattamento sanitario a tutela della salute individuale e collettiva, insieme, perché sono solo la ricerca scientifica e le sue conquiste ad assicurare il giusto ed quo contemperamento tra libertà e solidarietà, nel rapporto tra libertà ed autorità in attuazione del patto di solidarietà costituzionale. Al contempo, la Corte è altrettanto chiara nel ritenere che sussiste, ed è bene che sussista, un margine di discrezionalità politica nella scelta delle politiche sanitarie e nella valutazione del contesto, sociale ed economico, e del rischio, sulla base della consapevolezza che può esservi discrasia tra la normatività medica e quella giuridica.
6. Il vaccino come obbligo nel rapporto di lavoro: le tesi che sono state assunte in dottrina.
Tutto ciò chiarito su di un piano generale e spostandoci all’interno del rapporto di lavoro, il quesito cui, a questo punto, occorre cercare risposta riguarda la possibilità, per il datore di lavoro, di pretendere che i propri dipendenti si vaccinino contro il Sars-Cov-2.
Sul punto il dibattito è particolarmente caldo e sono intervenuti i maggiori esponenti della dottrina giuslavorista ciascuno su posizioni diverse.
6.1. Le tesi favorevoli.
Per semplificare, la risposta affermativa alla possibile obbligatorietà del vaccino per disposizione del datore di lavoro è sostenuta da molti Autori[18] sulla base del seguente e comune schema normativo: innanzitutto l’art. 2087 c.c., diretta estrinsecazione dell’art. 32 Cost., costituisce una norma aperta che impone al datore di lavoro di aggiornare i propri presidi di sicurezza interni e di adottare tutte quelle misure, anche e soprattutto preventive, che la migliore scienza, tecnica ed esperienza dovessero scoprire e suggerire, in qualunque momento. Così, i protocolli sottoscritti dalle parti sociali nello scorso mese di aprile e resi obbligatori dal legislatore per ridurre il rischio di contagio da Covid nei luoghi di lavoro non possono essere considerati in senso statico, ma sempre soggetti all’obbligo di aggiornamento dinamico previsto proprio dall’art. 2087 c.c., di cui sono attuazione: sperimentato e reso disponibile il vaccino, questo deve rientrare in quella previsione dinamica dell’art. 2087.
Nella stessa direzione depone anche l’art. 279 del Testo unico sulla sicurezza, d.lgs. n. 81 del 2008, il quale fa obbligo al datore di lavoro di mettere «a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente». La norma non richiede che i vaccini siano obbligatori, ma solamente efficaci dal punto di vista medico-sanitario, e quindi può trattarsi anche di vaccini semplicemente raccomandati[19].
Ancora, la direttiva della Commissione europea dello scorso 3 giugno 2020 n. 2020/739, recepita in Italia con l’art. 4, d.l. n. 125 del 2020, convertito dalla legge n. 159 del 2020, ha espressamente incluso il SARS-CoV-2 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche nell’ambiente lavorativo, con ciò superando ogni dubbio ermeneutico sollevato sulla qualificabilità di questo virus come agente biologico presente nelle lavorazioni di qualunque tipo.
Sotto altro aspetto, l’art. 20 del medesimo testo unico istituisce una correlazione tra gli obblighi del datore e quelli del lavoratore disponendo che «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo del lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro», così confermando il principio di collaborazione e prevenzione su cui è costruito l’intero sistema normativo di sicurezza sul lavoro, in attuazione del principio solidaristico di matrice costituzionale già visto.
La stessa normativa d’emergenza, quando ha ribadito per via legislativa la qualificazione della infezione da coronavirus per causa lavorativa come infortunio sul lavoro, secondo la nostra tradizione sistemica, ha esposto il datore di lavoro a tutti gli obblighi di prevenzione ed alle responsabilità previste dalla legislazione sulla sicurezza sul lavoro in relazione al nuovo rischio infettivo pandemico (art. 42, comma 2, d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020).
Il vero punto controverso, su cui si registra una ampia varietà di soluzioni adottate, attiene alle conseguenze giuridiche nell’ambito del rapporto di lavoro del rifiuto a vaccinarsi del dipendente.
Secondo una prima tesi, ed è quella sostenuta da Pietro Ichino, tutta la vicenda deve essere letta in chiave di idoneità o inidoneità ad adempiere correttamente l’obbligazione lavorativa (Ichino parla anche di «prontezza», al proposito). Secondo l’Autore la domanda da porsi è se, durante la pandemia da Covid-19, un luogo di lavoro nel quale tutti siano vaccinati contro il virus realizzi condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiore, rispetto ad altro luogo di lavoro nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata. Se le indicazioni della scienza medica sono univocamente nel senso della risposta positiva, quando il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, con l’assistenza del medico competente, ravvisi nella vaccinazione contro il Covid-19 una misura utile per ridurre apprezzabilmente il rischio specifico di trasmissione dell’infezione a causa del contatto tra le persone in seno all’azienda, «egli ha il potere/dovere contrattuale – e non solo – di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro, salvo il caso di un motivo giustificato che sconsigli a una determinata persona di sottoporvisi»[20]. Perdurante la pandemia, nel caso di rifiuto oggettivamente ingiustificato della vaccinazione da parte del dipendente, l’Autore definisce «sconsigliabile» applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, considerata la possibilità che venga contestata la sussistenza dell’elemento psicologico necessario ai fini della configurabilità della mancanza grave[21], mentre è più ragionevole qualificare il comportamento come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione lavorativa. Anche rispetto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando sarà cessato il relativo divieto congiunturale in vigore, l’Autore indica come soluzione migliore, dove possibile, la sospensione della prestazione fino alla fine della pandemia, salvo ovviamente che siano possibili soluzioni organizzative diverse (lavoro da remoto o disponibilità di posizione di lavoro, anche di contento professionale inferiore, che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti), «anche in considerazione dell’effetto controproducente che potrebbe avere l’adozione di una politica aziendale più minacciosa»[22].
In termini congruenti si esprime anche Arturo Maresca secondo il quale il datore di lavoro può trarre dalla scelta del dipendente di non vaccinarsi tutte le conseguenze che ne derivano sul piano giuridico, «verificando se l’esecuzione della prestazione sia oggettivamente e temporaneamente impossibile con la liberazione dall’obbligo retributivo (art. 1256, co. 2, c.c.). Una verifica da effettuare non in astratto, ma in concreto avendo riguardo alla prevenzione del rischio di contagio e tenendo conto della compresenza con altri lavoratori (vaccinati e non) o di eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere con utenti/clienti. Un giustificato motivo oggettivo di licenziamento sarebbe ipotizzabile soltanto se la perdurante impossibilità di utilizzo del dipendente dovesse impedire il funzionamento dell’attività produttiva»[23].
La posizione illustrata assume una soluzione concreta, pratica e cauta, oltre a rivelarsi pienamente compatibile anche con la recente giurisprudenza di legittimità, protesa a riconoscere al datore di lavoro un grado di responsabilità per non aver garantito la serenità del dipendente rispetto a terzi[24]. E la sospensione – finanche la risoluzione – del contratto di lavoro potrebbe essere una delle soluzioni per non incorrere in questa responsabilità.
Sulla stessa scia si pone anche la tesi sostenuta da Raffaele Guariniello[25], che basa il suo ragionamento su di un dato normativo che ritiene ignorato sia in dottrina che in giurisprudenza, nell’ordinanza cautelare del Tribunale di Messina, qui in commento: la già citata Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, già recepita nell’ordinamento italiano[26], che, nel dichiarato intento di garantire il rigoroso rispetto e l’applicazione delle disposizioni nazionali che recepiscono le norme dell’Unione in materia di salute e sicurezza sul lavoro a tutela di tutti i lavoratori ovunque nell’Unione contro la pandemia di Covid‐19, classifica la SARS-CoV-2 come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 ed estende al Covid-19 le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro e adottate, in Italia, con le diposizioni contenute nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008, prime fra tutte la «individuazione e valutazione dei rischi» (artt. 3 e seguenti), la sorveglianza sanitaria e, nel suo ambito, le vaccinazioni (art. 14). Secondo Guariniello il legislatore europeo e quello italiano hanno collocato l’infezione da Covid-19 tra i rischi che i datori di lavoro sono tenuti a valutare e a prevenire, così smentendo quanti sostengono che il Covid-19 rappresenti una situazione esterna riverberabile sui lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro a seguito di dinamiche esterne, non controllabili dal datore di lavoro. «Basta, a questo punto, lasciarsi condurre per mano dal Titolo X del D.Lgs. n. 81/2008, e, in particolare, dopo aver letto gli artt. 271, comma 4, e 266, comma 1, soffermarsi sull’art. 279, comma 2, dello stesso decreto legislativo, ove si prescrivono la messa a disposizione di vaccini efficaci e l'allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure di quell’art. 42 che - piaccia o no - impone al datore di lavoro di attuare le misure indicate dal medico competente, e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, di adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza». L’Autore evidenzia come: il medico competente non possa esimersi dall’esprimere un giudizio di inidoneità del lavoratore quando il datore di lavoro, proprio su conforme parere dello stesso medico competente, abbia doverosamente messo il vaccino a disposizione di quello specifico lavoratore, ma sia stato da costui rifiutato; sotto altro profilo, il datore di lavoro non possa trascurare i doveri stabiliti nell’art. 18, comma 1, lettere g) e bb), d.lgs. n. 81/2008, di vigilare sul rispetto degli obblighi del medico competente e di adibire i lavoratori alla mansione soltanto se muniti del giudizio di idoneità, e più in generale il dovere imposto dalla lettera c) di quello stesso articolo 18, di tenere conto, nell'affidare i compiti ai lavoratori, «delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza». La conclusione che Guariniello espone, però, si spinge oltre e prevede che, «ove sia provato che l’inosservanza di tali obblighi sia causa di un’infezione da covid-19, può sorgere a carico del datore di lavoro come del medico competente l’addebito di omicidio colposo o lesione personale colposa. Perché la colpa può consistere, non solo nell’omessa adozione delle misure prescritte nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi, emergenziali di cui parla l’ormai celebre art. 29-bis del decreto Liquidità (d.l. n. 23/2020), ma anche e soprattutto nella negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero nella violazione delle specifiche leggi in materia di sicurezza sul lavoro, a cominciare dal d.lgs. n. 81/2008»[27].
Altra tesi autorevolmente sostenuta, invece, immagina come conseguenza del rifiuto ingiustificato a vaccinarsi la irrogabilità di un licenziamento di tipo disciplinare[28] poiché la mancata vaccinazione configurerebbe propriamente e tipicamente un inadempimento contrattuale[29].
Di questo avviso è Roberto Riverso che, ponendo l’accento sulla valenza duplice del principio di solidarietà e su quell’orientamento, già visto, della Corte costituzionale in forza del quale è irrilevante la distinzione tra vaccini meramente raccomandati o imposti dal legislatore ai fini del diritto solidaristico all’indennizzo per le conseguenze pregiudizievoli e permanenti sofferte dall’individuo per essersi sottoposto al trattamento stesso, e strutturando l’argomentazione sulla base delle disposizioni normative già illustrate, qualifica il virus come un fattore di rischio professionale, e definisce il tema del vaccino come un trattamento «di cui il datore di lavoro non può disinteressarsi e di cui lo stesso datore deve prescrivere, per tempo, l’assunzione, quale necessaria misura di prevenzione e protezione per la tutela della salute e per l’accesso nei luoghi di lavoro»[30]. Riverso sottolinea come nel sistema di sicurezza sociale, sulla base del principio di prevenzione su cui è costruito, agli obblighi del datore ne corrispondono altrettanti in capo al lavoratore disciplinati dall’art. 20 del testo unico, il quale prevede proprio quello di contribuire all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro e, per quanto qui rileva, soprattutto quello di prendersi cura della propria salute e di quella dei colleghi e di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni. L’Autore ritiene che nell’ambito del rapporto di lavoro, il dipendente deve essere tutelato, per legge, anche contro la sua volontà e, soprattutto, vanno tutelati i colleghi ed i terzi dai rischi discendenti dalla sua volontà. «In questa diversa prospettiva il nodo che si discute sembrerebbe già risolto dalla legge in una chiave solidaristica: il lavoratore non può, in nome del proprio diritto alla libertà di cura, decidere di mettere a repentaglio l’incolumità altrui (…) In ambito lavorativo, l’ordinamento obbliga il lavoratore a prendersi cura della salute altrui ed a considerare l’effetto potenzialmente nocivo della sua omissione: quando il rischio esista, il vaccino sia disponibile e sia efficace».[31] Da ciò consegue che la mancanza della vaccinazione richiesta dal datore di lavoro, a fronte del rischio, «potrebbe in effetti rilevare in chiave di violazione degli obblighi legali incombenti sul lavoratore in base al rapporto di lavoro», sia nel caso di rischio biologico specifico di cui all’art. 279 del testo unico, sia in ogni altro caso di rischio qualificato o aggravato, legittimando «una reazione disciplinare che può comportare una sanzione di diversa gravità, a seconda della reale situazione di fatto e dei diversi contesti aziendali, in base al principio di proporzionalità». Quanto alla congruità della sanzione massima e non conservativa, l’Autore propende per un’interpretazione «che miri a responsabilizzare al massimo le parti del rapporto, a fronte della drammatica pandemia. Anche perché mi pare elusivo, sul piano sistematico, far scadere il rifiuto di una misura di sicurezza come il vaccino – pregnante questione contrattuale, imputabile alla volontà di una parte – a mera inidoneità professionale: come se il lavoratore fosse malato, o incapace a svolgere le mansioni, mentre è renitente agli obblighi di protezione citati. È una tesi che, a ben vedere, indebolisce anche le tutele, conservative e retributive, modulabili meglio sul piano soggettivo, col principio di proporzionalità, piuttosto che attraverso la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta fondata esclusivamente sulla valutazione del residuo interesse alla prestazione del creditore»[32].
Aldo De Matteis, ricostruendo anch’esso i termini del problema sulla base della nozione di rischio ubiquo, rischio professionale interno ed esterno insieme, atto a mettere in pericolo la salute del dipendente, dei colleghi e di tutti i terzi, si rifà alla scala presuntiva di rischio elaborata dall’Inail specificamente nella circolare 3 aprile 2020 n. 13, posta la qualificazione della infezione da coronavirus in occasione di lavoro come infortunio sul lavoro[33]. Su queste premesse, evidenzia come la dottrina abbia operato un passaggio ulteriore[34]: il lavoro prestato durante la fase pandemica costituisce di per sé solo fattore di aggravamento del rischio di contagio. Nel caso di infezione da coronavirus, l’aggravamento del rischio è costituito dall’aggregazione sociale per ragioni lavorative: aggregazione interna, con altri colleghi, o esterna, per i contatti imposti per ragioni lavorative con una pluralità di soggetti. Ciò posto, la nozione accolta da De Matteis di rischio ubiquo, «ai fini correlati della copertura assicurativa e della responsabilità del datore di lavoro verso i dipendenti e verso i terzi, comporta due conseguenze: da una parte risulta arduo ipotizzare categorie immuni dal rischio di contagio; dall’altra la difficoltà di misure conservative quali la ricollocazione in ambienti protetti da tale rischio, salvo lo smart working»[35].
Una posizione intermedia è poi occupata da chi, da una parte, esclude che il datore di lavoro possa, in linea generale, imporre a un proprio dipendente un trattamento sanitario personale come il vaccino anti-Covid in assenza di una specifica previsione di legge, ma dall’altra, prevede due eccezioni alla regola, sempreché le condizioni di salute del lavoratore consentano la somministrazione del vaccino: «la prima è quando l’obbligo di vaccinarsi può essere ricondotto al codice deontologico del lavoratore (esempio medico o infermiere in situazioni ad elevatissimo rischio di contagio); la seconda quando il vaccino può essere necessario per garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro», e questo perché, nella prima ipotesi «vengono meno i requisiti di idoneità professionale, il lavoratore non è più abilitato a svolgere la propria attività e può essere persino licenziato» e nel secondo caso «molto dipende da quanto è indispensabile il vaccino al fine di garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro. Nell’effettuare questa valutazione rilevanza prioritaria devono avere le condizioni oggettive in cui viene resa la prestazione e la effettiva disponibilità di un vaccino efficace»[36]. Quanto, poi, alle conseguenze per l’ipotesi del rifiuto ingiustificato del dipendente di sottoporsi al vaccino quando questo gli sia obbligatorio, Zoppoli propende, più che per l’opportunità di un intervento del legislatore, per una regolamentazione specifica delle sanzioni nella contrattazione collettiva.
6.2. Le tesi contrarie.
Non mancano anche posizioni – per vero minoritarie – più scettiche sulla possibilità di introdurre un obbligo vaccinale sulla base delle disposizioni già vigenti, se non addirittura contrarie[37], che si fondano sulla convinzione che le disposizioni riportate, singolarmente considerate, non integrano la riserva di legge disposta dall’art. 32 della Costituzione, aderendo ad una interpretazione maggiormente garantista della libertà individuale di autodeterminazione e ritenendo necessaria una legge ad hoc[38].
Inoltre, e più specificamente, vi è chi evidenzia come gli obblighi imposti dalle disposizioni del Testo Unico non possano trovare concreta applicazione nel caso del vaccino anti Covid in quanto il datore di lavoro non si trova nelle condizioni di poter adempiere alle prescrizioni di cui al citato articolo 279 poiché le risorse e la procedura di vaccinazione sono ancora tutte in mano all’autorità sanitaria pubblica e non si può sostenere che siano nella disponibilità del datore[39].
Sul piano, comunque, delle posizioni che escludono la possibilità giuridica dell’irrogabilità del licenziamento, vi è chi sostiene che l’idea di evocare l’istituto del licenziamento in caso di rifiuto da parte del lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione sia una posizione priva di fondamento normativo[40]. Anche nel caso in cui il datore di lavoro fosse obbligato ad integrare il sistema di sicurezza, procurando la possibilità della vaccinazione, si ritiene che non possa in ogni caso ritenersi che sorga un medesimo obbligo per il lavoratore di sottoporsi al trattamento perché il dipendente, in base a fondate prescrizioni mediche, può avere ragioni ostative al vaccino tra cui, secondo questa opinione, anche motivi legati alla paura e alla convinzione personale, arrivando così a giustificare anche un rifiuto da parte dei c.d. no-vax. In ogni caso, si precisa, per giungere a paventare un’ipotesi di licenziamento, il datore di lavoro dovrebbe affrontare un percorso ad ostacoli: in primis, dimostrare che la misura del vaccino sia indispensabile per tutelare la salute anche negli ambienti di lavoro e dei colleghi e che non vi siano misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart working, etc.); inoltre, non va dimenticato che sul datore di lavoro incombe sempre l’onere di provare a ricollocare il dipendente, magari su posizioni organizzative che presentino profili di rischio di contagio minori.
6.3. La posizione del Giudice del lavoro di Messina nell’ordinanza cautelare.
L’ordinanza di Messina in commento risponde al dibattito con argomentazioni di carattere generale pur sfiorando solamente il tema della possibile obbligatorietà del vaccino contro il Covid nell’ambito del rapporto di lavoro, nella misura in cui sono pronunciate in relazione alla vaccinazione anti influenzale comune.
La decisione sviluppa, en passant, il tema dell’intersecazione della disciplina dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro con la condizione della sottoposizione o meno a vaccini antivirali in contesti professionali a rischio qualificato di contagio, per concentrarsi piuttosto «sull’asseribile incidenza del potere amministrativo sul diritto costituzionale alla salute, nell’esplicazione dell’incoercibilità del consenso ai trattamenti sanitari».
Il ragionamento proposto dal Giudice si sviluppa per punti consequenziali partendo dalla constatazione che il provvedimento aziendale dell’Ospedale di Messina che attuava il decreto assessoriale regionale debba essere considerato una scelta quanto mai opportuna, non censurabile e obbligata del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., pena la sua responsabilità per avere colposamente violato una norma precauzionale vigente, sia pure di rango secondario.
Ciò posto il Tribunale ritiene comunque che il provvedimento aziendale, nell’imporre un requisito di idoneità del lavoratore, non possa definirsi ragionevole e proporzionato per l’illegittimità – accertata in un procedimento a trattazione sommaria – della decisione assessoriale.
Nell’ordinanza in commento, pur riconoscendosi che gli operatori sanitari e il personale di laboratorio fanno parte delle categorie maggiormente a rischio, per le quali i piani nazionali vaccinali hanno sempre attestato questo maggiore grado di esposizione a malattie infettive prevenibili con programmi ben impostati di vaccinazione – ritenuti capaci di ridurre in modo sostanziale i rischi sia di acquisire pericolose infezioni occupazionali, sia di trasmettere patogeni ad altri lavoratori e soggetti con cui i lavoratori possono entrare in contatto –; sono stati indicati come destinatari privilegiati di una serie di specifiche vaccinazioni al fine di un adeguato intervento di immunizzazione attiva, ritenuto fondamentale non soltanto per la protezione del singolo operatore, ma soprattutto per la garanzia nei confronti dei pazienti, ai quali l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali; rappresentano una categoria target per la vaccinazione antinfluenzale, ai fini della protezione del singolo, della riduzione della diffusione dell'influenza a gruppi vulnerabili di pazienti e del mantenimento dell’erogazione dei servizi sanitari durante epidemie influenzali; ciononostante si sostiene che l’assenza di una norma di legge statale che renda espressamente obbligatorie specifiche vaccinazioni precluda tout cour la possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo in capo ai dipendenti. A sostegno di ciò vi sarebbero le disposizioni dei piani nazionali vaccinali e delle circolari ministeriali annuali in tema che prevedono solo una forte raccomandazione e la sentenza n. 137 del 2019 della Corte costituzionale, già richiamata, per la quale, sulla base del combinato disposto degli artt. 32 e 117 Cost., la competenza legislativa in materia sanitaria spetta allo Stato, unico legittimato ad imporre trattamenti sanitari.
Un ultimo punto della decisione merita di essere segnalato: il Giudice messinese ritiene che l’attività di controllo svolta dal datore di lavoro per il tramite del medico competente e la prevista trasmissione dell’elenco dei lavoratori che non aderiscono alla campagna vaccinale al medico competente, in accompagnamento alla richiesta di visita per gli accertamenti di cui all’art. 41 d.lgs 81/2008, non sia pregiudizievole del diritto alla privacy dei lavoratori «in quanto è diretta esplicazione del diritto del datore di lavoro, in quanto obbligato all’adozione di misure di prevenzione del rischio professionale, di richiedere al professionista medico l’accertamento dell’idoneità alle mansioni».
Come è chiaro, nella prima occasione in cui la questione dell’obbligatorietà vaccinale è approdata nelle aule di giustizia, la giurisprudenza ha assunto una posizione contraria alla possibilità di ritenere sussistente un tale obbligo sulla base delle disposizioni già vigenti, a massima protezione della libertà di autodeterminazione dell’individuo; una posizione, però, che si presta a qualche riflessione critica.
In primo luogo, l’ordinanza pare essere contraddittoria nella misura in cui esclude l’introduzione di un obbligo a vaccinarsi se non per legge dello Stato, ma, senza prevedere quali strumenti il datore di lavoro possa adoperare e come possa gestire una tale situazione, riconosce a chiare lettere e in più punti la doverosità di considerare, nell’organizzazione del lavoro e nell’attuazione della sua posizione di garanzia verso la salute e la sicurezza dei dipendenti e di tutti i terzi che entrino in contatto con quelli, il fattore vaccinale, ritenendo non irrilevante, ai fini della sua responsabilità, anche colposa, l’accertamento e il controllo sulla renitenza o la sottoposizione a vaccino dei lavoratori. E se ciò viene sostenuto per il vaccino antinfluenzale comune, tanto più vale e non può non valere per il vaccino anti Covid.
In secondo luogo, l’ordinanza si basa su una analisi del quadro normativo parziale, non considerando la direttiva europea n. 739 del 2020, già recepita con legge italiana, né l’intero sistema di sicurezza sul lavoro e, in ultima analisi, vuole far dire alla Corte costituzionale più di quanto abbia in effetti detto, come si è evidenziato supra.
7. Considerazioni conclusive.
In conclusione, il quadro, così ampiamente tracciato, suggerisce di porre in termini il più possibile chiari e schematici qualche considerazione di sintesi per cercare di sciogliere una materia fortemente complessa e intrecciata di libertà individuali, solidarietà collettive, misure di emergenza e stato d’eccezione, che si scontra con la gestione ordinaria e straordinaria dei rapporti di lavoro.
Pare, pertanto, che si possa sostenere che:
a) i vaccini in generale, e il vaccino anti-Covid in particolare, dovrebbero essere correttamente intesi nella società e nelle sedi politiche non solo come trattamenti sanitari, ma anche come beni comuni, tra le misure preventive più efficaci per la realizzazione del patto di solidarietà costituzionale finalizzato alla tutela della salute individuale e collettiva, con un rapporto rischi/benefici particolarmente positivo, riconoscendo loro un valore non solo sanitario, ma anche etico intrinseco di particolare rilevanza[41];
b) il virus SARS-CoV-2 è stato qualificato e classificato, dalla Direttiva (UE) n. 739 del 2020, come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 e al Covid-19 sono state estese le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro e adottate in Italia nel Titolo X del d.lgs. n. 81/2008. La citata direttiva è stata già recepita nell’ordinamento italiano mediante apposite modifiche proprio del Testo unico sulla sicurezza con due decreti legge già convertiti (artt. 4, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, e art. 17, d.l. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art.13-sexiesdecies del d.l. Ristori 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176);
c) un intervento legislativo positivo statale non si è avuto né per rendere obbligatoria la vaccinazione contro il virus SARS-CoV-2 (solo fortemente raccomandata negli atti governativi più recenti), né in senso generale né per determinate categorie di soggetti particolarmente a rischio, né per esplicitare le conseguenze nel rapporto di lavoro, ai fini della responsabilità del datore di lavoro, di quell’aggiornamento degli agenti patogeni cui le attività lavorative sono state ritenute esposte ex lege; d)la Corte costituzionale è chiara nel ribadire la natura ambivalente del vaccino, quale misura atta a proteggere la salute dell’individuo e della collettività, l’obiettivo che la Costituzione intende perseguire con le campagne vaccinali (la massima copertura possibile della popolazione), la necessità di una normativa statale che renda obbligatorio un determinato vaccino e il diritto costituzionalmente necessario all’indennizzo per chiunque si sottoponga ad un vaccino, obbligatorio o raccomandato che sia, per le conseguenze dannose permanenti subite;
e) mentre non è altrettanto chiara nel ritenere necessario, ai fini della corretta attuazione dell’articolo 32 Cost., un intervento normativo ad hoc ovvero nel ritenere possibile anche il desumere la sussistenza di un tale obbligo dalla normativa già vigente: sul punto la Corte non si è espressa. In più occasioni ha, invero, sostenuto come sia necessario, ai fini della decisione sulla legittimità o meno dell’imposizione di determinati trattamenti sanitari, valutare ed evidenziare le circostanze concrete fattuali e contingenti sulla base delle quali giustificare ed adottare le scelte di politica sanitaria;
f) nell’ambito del rapporto di lavoro, il datore è per legge garante della salute e della sicurezza dei propri lavoratori e collaboratori e di tutti coloro che entrano in contatto con questi nei locali aziendali e in occasione di lavoro. La normativa d’emergenza ha riconosciuto la natura professionale del contagio da Covid nei luoghi di lavoro ponendo anche un meccanismo presuntivo per determinate attività lavorative ritenute maggiormente esposte al rischio infettivo;
g) le parti sociali, nell’aprile 2020, hanno stipulato dei protocolli di sicurezza, che la legge ha reso obbligatori e integrativi delle previsioni dell’art. 2087 c.c., per consentire la ripresa in sicurezza delle attività lavorative: in quei protocolli non si fa menzione del vaccino anti covid, necessariamente successivo a quelli, ma le procedure e i dispositivi di protezione anti contagio sono entrati così a far parte dell’obbligo di sicurezza gravante tanto sui datori di lavoro quanto sui lavoratori.
Tutto ciò posto e considerato, mi pare si possa concludere che, allo stato, il datore non può imporre ai propri dipendenti l’obbligo di sottoporsi al vaccino anti Covid, ma deve, in prima battuta, attivamente promuovere la campagna vaccinale e farsi promotore di una adeguata e seria informativa sul trattamento sanitario in discorso per favorire nella misura massimamente possibile una adesione volontaria e consapevole al vaccino e, in secondo luogo, sul piano degli obblighi di sicurezza e prevenzione ex art. 2087 c.c. e dell’intero sistema di sicurezza sul lavoro, specialmente ex art. 279 del testo unico, prevedere un procedimento di controllo e pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non, per poter accettare la loro prestazione o prendere le necessarie cautele[42].
Il comportamento del lavoratore che non si è sottoposto al vaccino e ne rifiuta la somministrazione, infatti, pur non assumendo rilievo disciplinare[43], comporta necessariamente delle conseguenze in termini di valutazione oggettiva della sua idoneità alle mansioni, da accertarsi mediante il procedimento di sorveglianza sanitaria previsto dal Testo unico e con la collaborazione, quale corresponsabile del datore, del medico competente.
Il datore di lavoro pertanto, sulla base della certificata renitenza, ingiustificata da motivi sanitari, alla vaccinazione del dipendente, dovrà valutare attentamente la rilevanza nel caso concreto dell’art. 42, d.lgs. n. 81/2008, sull’inidoneità alla mansione specifica espressa dal medico compente, per verificare con quale strumento gestire il rapporto di lavoro. Il datore, dopo aver controllato l’impossibilità dell’obbligo di repechage, anche eventualmente adibendo il dipendente a mansioni inferiori, se accettate dal lavoratore, potrà sospendere unilateralmente il rapporto, senza retribuzione e senza contribuzione, fintanto che perduri la condizione di inutilizzabilità dello stesso, arrivando in ipotesi anche a disporre un licenziamento per motivo oggettivo quando, per decorso del tempo, la prestazione del lavoratore sia divenuta inutile per la sua organizzazione.
Vero è che il datore di lavoro non può essere costretto ad adeguare la sua organizzazione, anche in termini di organico dei lavoratori dipendenti, per consentire l’esercizio di un diritto, seppure di rilevanza costituzionale, ad un suo dipendente che non intende vaccinarsi, ma l’adozione di una soluzione non conservativa del rapporto appare, allo stato incauta e pericolosa[44].
In conclusione, la esigenza costituzionale prioritaria di garantire la persona, nella sua libertà di autodeterminazione e nella sua salute suggerirebbe l’opportunità di un intervento chiaro ed esplicito in materia del legislatore, opportuno anche per evitare che si dia luogo ad un contenzioso infinito per i mesi successivi e ad una situazione di incertezza nella gestione quotidiana dei rapporti di lavoro, facendo propri gli auspici del Comitato Nazionale per la Bioetica che, in tema di obbligatorietà del vaccino, si augura che «sia rispettato il principio che nessuno dovrebbe subire un trattamento sanitario contro la sua volontà preferendo l’adesione spontanea rispetto all’imposizione autoritativa, ove il diffondersi del senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano», ma che, «nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, non vada esclusa l'obbligatorietà dei vaccini soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus; tale obbligo dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo significativo per la collettività»[45].
[1] Sulla qualificazione del Covid-19 come agente biologico e sulla conseguente necessità per l’Azienda di aggiornare il DVR, si rinvia all’articolata disamina di L. M. Pelusi, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in DSL, 2019, n. 2, 122- 137, reperibile al link https://www.repertoriosalute.it/wp-content/uploads/2020/04/Prof.-Pelusi-su-Corona-Virus.pdf. Per un approfondimento sul tema cfr. anche P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del D.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, n. 1; pp. 117-135; P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL, 2019, n. 2, pp. 98-121; R. Guariniello, La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus, ed. Wolters Kluwer Italia, 2020; G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, WP CSDLE “Massimo D’An- tona”.IT – n. 413/2020; S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in Giustizia Insieme, 22 aprile 2020, n. 1016; V. Filì, Covid-19 e rapporti di lavoro, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiolo- gica, Volume I, ADAPT e-Book, n. 93, 2020.
[2] M. Basilico, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, reperibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[3] R. Riverso, L’obbligo del vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione Giustizia, 2021, consultabile al link https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligo-del-vaccino-anti-covid-nel-rapporto-di-lavoro-tra-principio-di-prevenzione-e-principio-di-solidarieta?idn=26&idx=28230&idlink=3&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=20210123.
[4] In relazione al problema dell’accesso alla vaccinazione, sicuramente attuale vista la carenza e la limitatezza delle dosi disponibili, occorre chiedersi, esiste un diritto ad essere vaccinati? Ad essere vaccinati entro un certo limite temporale? Quali priorità sono riscontrabili, se vi sono, tra la popolazione nell’accesso al vaccino? La Costituzione offre criteri per determinare l’ordine giusto ed equo di vaccinazione?
Ed ancora, in relazione al problema dell’indennizzo, è bene chiedersi, esiste un diritto all’indennizzo per qualunque tipo di vaccinazione? Ne è richiesta l’obbligatorietà o è sufficiente la sua raccomandazione da parte delle forze politiche e dalle autorità sanitarie?
[5] Ordinanza emessa nell’ambito di un giudizio cautelare d’urgenza dal Tribunale di Messina, sezione lavoro, n. 23455 del 12 dicembre 2020.
[6] A. De Matteis, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, in Virus, stato di eccezione e scelte tragiche. Le politiche del lavoro, economiche e sociali e la tutela dei diritti fondamentali nei tempi incerti dell’emergenza sanitaria e della crisi. La costruzione di un nuovo diritto del lavoro. Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021 promosse e coordinate da Vincenzo Antonio Poso, nella collana Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi; il contributo è di prossima pubblicazione ne Il Giuslavorista.
[7] Basti pensare alla legge n. 891/1939 sull’obbligo di vaccino contro la difterite, alle dieci vaccinazioni obbligatorie previste dal d.l. n. 73/2017, conv. in legge n. 119/2017. Significative anche le leggi 5 marzo 1992 n. 292 e 20 marzo 1965 n. 419 sull’obbligo di vaccinazione antitetanica per determinate categorie di lavoratori. In tali situazioni il legislatore italiano ha sancito l’obbligatorietà del vaccino per determinate infezioni e per puntuali categorie di soggetti esposti, imponendo anche l’obbligo di esibire, ove richiesta, la relativa certificazione sanitaria.
[8] La legge di bilancio 2021, legge n. 178/2020, si occupa del piano strategico nazionale dei vaccini con numerose disposizioni, c. 457 ss., dettando misure di carattere amministrativo per la sua attuazione capillare, senza imporre l’obbligo individuale di vaccinazione. Il d.l. n. 1 del 2021, in continuità con la legge n. 219 nel 2017, ribadisce la necessità del consenso per le vaccinazioni non obbligatorie e detta criteri per l’espressione del consenso da parte di persone incapaci ricoverate presso strutture sanitarie assistite a mezzo dei rispettivi tutore, curatore, amministratore di sostegno e, in ultima analisi, direttore sanitario, o, in caso di contrasto, giudice tutelare. Si rinvia a F. Spaccasassi, Ospiti delle RSA e consenso alla vaccinazione anti Covid-19: un percorso ad ostacoli?, e L. Fumagalli, Le vaccinazioni anti Sars-CoV-2 delle persone incapaci «ricoverate presso strutture sanitarie assistite». Prima lettura dell’articolo 5 d.l. n. 1/2021, tutti in Questione giustizia, 27 gennaio 2021.
[9] A. De Matteis, cit.
[10] Si veda l’orientamento granitico espresso dalla Corte in numerose sentenze, tra cui, ex plurimis, n. 107 del 2012, n. 226 del 2000, n. 118 del 1996, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990.
[11] La Corte chiarisce come l’obbligatorietà deve essere prescritta per legge o per ordinanza di un’autorità sanitaria.
[12] La Corte spiega che la raccomandazione di una vaccinazione può emergere da una serie variegata di atti: insistite e ampie campagne anche straordinarie di informazione e raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche nelle loro massime istanze; distribuzione di materiale informativo specifico; informazioni contenute sul sito istituzionale del Ministero della salute; decreti e circolari ministeriali; piani nazionali di prevenzione vaccinale; oppure la stessa legge. Nel caso specifico della vaccinazione antinfluenzale, poi, si mostra particolarmente significativo quanto espresso nei Piani nazionali di prevenzione vaccinale, che, affiancando la vaccinazione antinfluenzale ad altri tipi di vaccinazioni raccomandate e indicando i rispettivi obiettivi di copertura, definiscono la complessiva programmazione vaccinale; le raccomandazioni del Ministero della salute adottate specificamente, per ogni stagione, con riferimento alla vaccinazione antinfluenzale; le campagne informative istituzionali del Ministero della salute, oltre che delle Regioni.
[13] I passaggi riportati tra virgolette nel capoverso sono tutti tratti dalla citata sentenza della Corte costituzionale, n. 268/2017.
[14] Per il riconoscimento del diritto all’indennizzo deve essersi verificata una menomazione permanente conseguente alla somministrazione del vaccino e deve essere giudizialmente accertato il nesso di causalità tra la somministrazione stessa e la menomazione subita.
[15] Si ricorderà come, a tale scopo, l’art. 1, c. 4, d.l. n. 73/2017 ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole.
[16] Quest’ultima ampiamente richiamata anche dall’ordinanza cautelare del Giudice del lavoro messinese.
[17] La normativa regionale pugliese censurata, in quell’occasione, è stata ritenuta compatibile con la riserva di legge di cui all’art. 32 Cost. poiché si sarebbe limitata a dettare «esclusivamente una disciplina sull'organizzazione dei servizi sanitari della Regione, senza discostarsi dai principi fondamentali nella materia “tutela della salute” riservati alla legislazione statale ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost., senza introdurre obblighi vaccinali di nuovo conio e, comunque, senza imporre obbligatoriamente ciò che a livello nazionale è solo suggerito o raccomandato». Nel dettaglio, la normativa regionale si limitava a precisare che il rispetto delle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente (anche PNPV) avrebbe costituito un onere per l’accesso degli operatori sanitari ai reparti individuati con la delibera della Giunta regionale. Così prevedendo, spiega la Corte, «la disposizione impugnata si muove nel solco del PNPV vigente, il quale infatti indica per gli operatori sanitari alcune specifiche vaccinazioni in forma di raccomandazione, sulla base della fondamentale considerazione che un adeguato intervento di immunizzazione degli operatori sanitari non solo protegge gli interessati, ma svolge un ruolo di “garanzia nei confronti dei pazienti ai quali”, date le loro particolari condizioni di vulnerabilità, “l’operatore potrebbe trasmettere l’infezione determinando gravi danni e persino casi mortali”» (così, C. Cost. n. 137/2019).
[18] P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021; R. Riverso, L’obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione giustizia, 18/1/2021; A. De Matteis, cit.; R. Guariniello, Covid- 19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it 28.12.2020; V.A. Poso, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on-line, 27.1.2021.
[19] R. Riverso, cit.
[20] P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in LavoroDirittiEuropa, 1/2021, cit. l’Autore evidenzia come la circostanza della eccezionale brevità dei tempi necessari ad ottenere l’autorizzazione alla somministrazione del vaccino confermi che l’intera comunità scientifica e politica mondiale ritenga urgente la vaccinazione di massa su scala planetaria, sulla base di un confronto tra l’entità e la gravità degli eventuali effetti collaterali dell’inoculazione del vaccino e l’entità e gravità estrema dei danni certi derivanti dalla pandemia in atto. «Se dunque è del tutto ragionevole il rilascio accelerato dell’autorizzazione da parte delle autorità competenti, non può non ritenersi ragionevole anche l’adozione di questa misura da parte del titolare di un’azienda».
[21] Ichino ritiene che la renitenza del dipendente alla vaccinazione sia in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare, ma che l’intensità del dibattito politico in corso negli ultimi anni sull’obbligo delle vaccinazioni in generale, e su quello della vaccinazione contro il Covid-19 in particolare, possa avere un’incidenza sull’elemento psicologico indispensabile per il configurarsi della mancanza disciplinare grave. Per questo, indica come preferibile la qualificazione del rifiuto alla vaccinazione come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione, piuttosto che come mancanza disciplinare.
[22] P. Ichino, cit.
[23] A. Maresca, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[24] Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913. Trattasi di un caso in cui un lavoratore era stato vessato da un altro collega e il datore di lavoro non aveva adottato le giuste misure di precauzione per evitare che si concretizzasse un caso di mobbing.
[25] R. Guariniello, Covid-19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it, 28 dicembre 2020; Id., Sorveglianza sanitaria: vaccino obbligatorio per i lavoratori?, in DPL, 2021, n. 1, pp. 27-34; nonché da ultimo Id., Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!, in www.ipsoa.it, 16 gennaio 2021 (è questa la versione da cui, qui, si cita).
[26] La Direttiva n. 739 del 3 giugno 2020 è stata recepita nel nostro ordinamento con due decreti legge già convertiti (artt. 4, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125 come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, e 17, d.l. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art.13-sexiesdecies del d.l. c.d. ristori 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176).
[27] R. Guariniello, Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!, cit.
[28] Osserva G. Cazzola, Il vaccino anti Covid e il licenziamento del dipendente, in www.startmag.it, 2 gennaio 2021, che «il lavoratore potrebbe avere dei buoni motivi, come tali riconosciuti dalla legge o dai protocolli» per rifiutare la somministrazione del vaccino. «Ma solo quelli. Perché, in caso contrario, il datore potrebbe avvalersi del suo potere disciplinare e, alla fine, risolvere il rapporto».
[29] P. Iervolino, Sul licenziamento del dipendente no-vax: «Ignorantia excusat», in www.paoloiervolino.it, 29 dicembre 2020. L’Autore, tuttavia, osserva che «il lavoratore avrebbe colpa solo se dalle sue azioni, o meglio obiezioni, derivassero effetti sulle altre persone presenti sul luogo di lavoro. Ed un effetto tangibile al momento vi sarebbe solo per gli operatori sanitari, gli unici lavoratori che sappiamo avere la possibilità immediata di vaccinazione. Gli effetti andrebbero invece ad affievolirsi man mano che ci si avvicina alla c.d. immunità di gregge».
[30] R. Riverso, L’obbligo di vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione giustizia, 18/1/2021.
[31] R. Riverso, op. ult. cit.
[32] R. Riverso, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in questa Rivista, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[33] Il sistema di tutela costruito dall’Inail su scala presuntiva basata su di un criterio probabilistico suddivide le attività lavorative individuando il diverso grado, per ciascuna, dell’aggravamento del rischio pandemico per cause lavorative e, così, pone al vertice gli operatori sanitari, indipendentemente dal reparto in cui operano, cui equipara i lavoratori in costante contatto con il pubblico, oltre ad altri lavoratori cui possa applicarsi la stessa presunzione semplice di contagio (quali, a mero titolo esemplificativo, gli operatori delle Residenze sanitarie assistenziali, RSA, i tassisti, gli addetti alla pulizia negli studi medici, e simili). Per queste categorie di lavoratori si applica una presunzione semplice di professionalità del contagio per il solo fatto di svolgere quella data attività lavorativa. Lo stesso strumento presuntivo è stato applicato anche all’infortunio in itenere, considerato che nel mezzo di trasporto pubblico il rischio di contagio è più elevato, trattandosi di ambiente confinato con più persone, con la conseguenza che, da una parte, ai lavoratori che si avvalgano del trasporto pubblico si applica la presunzione di origine professionale, anche se non appartenenti alle categorie professionali esemplificate sopra; dall’altra l’uso del mezzo privato costituisce in questa fase pandemica una ulteriore ipotesi di mezzo necessitato.
[34] S. Giubboni, Covid 19: Obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in WP CSDLE MASSIMO D’ANTONA, maggio 2020; G. Ludovico, Il contagio da Covid 19 come infortunio sul lavoro tra copertura Inail e responsabilità civile, in RDSS, 2020, II, 353.
[35] A. De Matteis, Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, cit. L’Autore conclude con l’auspicio della dottrina e delle parti sociali di un intervento chiarificatore del legislatore, come già avvenuto con l’art. 29-bis legge n. 40/2020, anche nel senso della obbligatorietà, e richiama le dichiarazioni di esponenti governativi che non escludono misure più cogenti nel caso in cui il metodo persuasivo non raggiunga il suo obiettivo, ulteriore dimostrazione della indipendenza della regolazione privatistica rispetto al contingente comando statale.
[36] L. Zoppoli, Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli, in Giustizia insieme, 22 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1508-il-vaccino-anti-covid-scomoda-novita-per-gli-equilibri-del-rapporto-di-lavoro-subordinato.
[37] Sul punto, cfr. Covid: legale Rsa, personale non vaccinato è inidoneo, in www.ansa.it, 29 dicembre 2020.
[38] O. Mazzotta, Vaccino anti-Covid e rapporto di lavoro, in LavoroDirittiEuropa, n. 1/2021; A. Perulli, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on-line, 27.1.2021.
[39] G. Falasca, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in www.open.online.it, 25 dicembre 2020.
[40] F. Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, in www.linke- din.com, 29 dicembre 2020. Propende per negare la possibilità al datore di lavoro di licenziare il dipendente che si rifiuti di vaccinarsi anche G. Pellacani, Vi spiego perché non si può licenziare chi non si vaccina contro Covid-19, in www.startmag.it, 1° gennaio 2021, sebbene con alcune eccezioni. Osserva, infatti, l’Autore che «il primo aspetto da considerare è il contesto nel quale si svolge l’attività lavorativa, perché una soluzione valida per tutti e per tutte le stagioni non è ragionevolmente prospettabile. Occorre in particolare distinguere tra ambienti di lavoro in cui il Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) sia introdotto intenzionalmente nel ciclo produttivo (laboratori) o in cui la presenza dello stesso non possa essere evitata (strutture sanitarie) dagli altri ambienti di lavoro». Nel primo caso, il vaccino risulterebbe una misura da assumere nel rispetto delle previsioni di legge in materia (art. 279 del d.lgs. n. 81/2008), per tutelare la salute dei lavoratori secondo l’esperienza e la tecnica. Nel secondo caso, invece, «in assenza di previsioni legali di portata generale o particolare, la questione si pone invece in termini differenti e con- duce ad escludere la possibilità di configurare, in capo al lavoratore, un obbligo di vaccinazione e la conseguente possibilità, in caso di rifiuto, di spostamento a mansioni di- verse o di licenziamento».
[41] In questo senso, le raccomandazioni del Comitato Nazionale per la Bioetica espresse nel documento I vaccini e covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, del 27 novembre 2020.
[42] In senso conforme, V. A. Poso, cit.
[43] Diverso sarebbe il caso in cui i Protocolli siglati dalle parti sociali venissero aggiornati e venisse lì introdotta una qualche previsione relativa al vaccino anti covid: in quel caso, il contravvenire a quelle regole cautelari si colorerebbe di illiceità, offrendo al datore di lavoro la possibilità di contestare l’addebito al dipendente e, all’esito del procedimento previsto per legge, irrogargli la sanzione ritenuta la più proporzionata rispetto alla gravità del comportamento anti-disciplinare posto in essere.
[44] Si concorda con le preoccupazioni espresse da Ichino nel suo articolo, già ricordate. V., P. Ichino, Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, cit.
[45] Comitato Nazionale per la Bioetica, I vaccini e covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione, 27 novembre 2020, cit.
Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?
di Carlo Citterio
1. All’udienza del 28 gennaio 2021 le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, chiamate a rispondere al quesito “se, in caso di annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna, pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o a quello penale” hanno risposto affermando il principio di diritto che “il rinvio deve essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen., che così dispone con riferimento a tutti i casi di annullamento che abbiano ad oggetto esclusivamente le statuizioni ad effetti civili” [ricorso n. 5219/2020, ordinanza di rimessione n. 30858/2020, ric. Cremonini].
2. Si tratta di una decisione di rilevantissima importanza, per le implicazioni che dovrebbe, o almeno potrebbe, comportare anche su una serie di altre questioni determinate dalla possibilità di protrarre l’esercizio dell’azione civile nel processo penale pur dopo la conclusione dell’esercizio dell’azione penale.
Attendiamo con grande interesse le motivazioni della sentenza, perché dalle stesse si trarranno le indicazioni per comprendere se torneremo, finalmente, a restituire al senso sistematico del principio dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale un’efficacia di sicuro orientamento nelle soluzioni giurisprudenziali di tali questioni ovvero se proseguirà il recente approccio, che pare ancorato all’affermazione di un reciproco diritto di (ex)-imputato e (presunta) persona offesa danneggiata (o presunto mero soggetto danneggiato) di pretendere comunque la deliberazione del giudice penale. Tale ‘pretesa’ comportando poi il rispetto non già delle sole “forme” della procedura (art. 573, comma 1, cod. proc. pen.: L’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale), bensì pure delle peculiari garanzie che la legge processuale penale impone per poter affermare la responsabilità penale, quella che comporta applicazione di sanzioni di natura penale e che, solo come tale, trova anche in sede di normativa e giurisdizione europea specifiche peculiari tutele. Tutele in tale sede per il vero mai estese, in eguale natura dimensione e prospettiva, alla mera azione civile.
3. Valga, per tutte, la questione dell’applicabilità dell’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale nel caso di “appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”, previsto dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen..
La dizione della norma introdotta dalla legge n. 103/2017 è chiarissima: limita l’obbligo al caso dell’appello del pubblico ministero, quindi all’impugnazione che determina prosecuzione dell’esercizio dell’azione penale. E si tratta di norma che segue (e quindi conosce) il diverso approdo delle precedenti sentenze Dasgupta (27620/2016) e Patalano (18620/2017).
Lo hanno riconosciuto le stesse Sezioni Unite nella sentenza n. 14426/2019, ric. Pavan, p. 9: “La norma - avendo evidente natura eccezionale rispetto alle previsioni di cui ai precedenti commi, ed essendo, quindi, di stretta interpretazione - ha sì introdotto una nuova ipotesi di ammissione d'ufficio delle prove (art. 190, comma 2, cod. proc. pen.), ma l'ha disciplinata limitando l'obbligo ("dispone") di rinnovazione dell'istruttoria alle seguenti condizioni: a) che il soggetto impugnante sia il pubblico ministero (non, quindi, la parte civile);”.
La vicenda è davvero emblematica.
Tre appunto gli obiettivi dati di fatto: una giurisprudenza precedente che estende in via interpretativa l’obbligo anche al caso dell’impugnazione della parte civile (strutturalmente diverso per gli interessi sottesi alle azioni penale e civile); una norma successiva (l’art. 603, comma 3-bis) che, consapevole di tale giurisprudenza e della disciplina dell’art. 576, cod. proc. pen. (che anche alla parte civile riconosce il diritto di impugnare le sentenze di proscioglimento), riserva l’obbligo di rinnovazione al solo caso dell’impugnazione, quella della parte pubblica, che determina la prosecuzione dell’azione penale (e quindi la permanenza della qualità di imputato nell’appellato pur assolto in primo grado); una sentenza delle Sezioni Unite successiva (Pavan) che riconosce la inequivoca scelta normativa e l’afferma.
E tuttavia si impone la giurisprudenza estensiva che, bypassando la novità normativa e ignorando la sentenza Pavan, si àncora al precedente Dasgupta, seguito dalla sentenza Patalano. Ma se si ritorna al testo della sentenza Dasgupta (pregevolissima e condivisibile per l’impostazione sul piano penale) si deve constatare che il principio estensivo era nato in termini sostanzialmente assertivi: “8.5. Inoltre, lo stesso è da dire nella ipotesi in cui il rovesciamento della pronuncia di assoluzione di primo grado sia sollecitata nella prospettiva degli interessi civili, a seguito di impugnazione della sola parte civile (in questo ordine di idee, Sez. 6, n. 37592 del 11/06/2013, Manna, Rv. 256332), essendo anche in questo caso in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.”
L’affermazione avrebbe dovuto confrontarsi con il fatto obiettivo che, terminata l’azione penale, l’imputato rimane nel processo solo come “convenuto”, e la parte civile è non più la “persona offesa” (né mai lo è stata se soggetto solo danneggiato) ma l’ “attore”, e che pertanto si è davanti ad un’azione a contenuto solo civile che prosegue, depurata di ogni implicazione sanzionatoria penalistica, e il cui rito mantiene “le forme” del processo penale (573, comma 1), non necessariamente i suoi principi probatori (sicché la reinterpretazione del principio di accessorietà dell’azione civile avrebbe dovuto essere oggetto di specifico esame e pertinente spiegazione; ma, a ben vedere considerando il caso oggetto della sentenza Dasgupta, l’estensione del principio all’impugnazione della parte civile era sostanzialmente un obiter dictum: il pericolo del quale sta proprio nella mancata possibilità dello sviscerare tutte le implicazioni della questione).
Proprio su quest’ultimo passaggio (i principi probatori) attendiamo con interesse vivo la motivazione delle Sezioni Unite Cremonini. Perché la giurisprudenza non occasionale che le Sezioni Unite hanno disatteso nasceva dall’improvviso reciso rifiuto della Terza sezione civile della Corte di cassazione di adeguarsi, nei giudizi di rinvio ex art. 622, cod. proc. pen., ai principi penalistici di valutazione della prova.
4. Rinviamo dunque necessariamente ogni approfondimento alla lettura della motivazione della sentenza Cremonini. Con almeno due aspettative per i giudici penali d’appello.
La prima. Che si aprano strade interpretative sicure per restituirli alla funzione propria pertinente: innanzitutto e specialmente tutti i processi in cui è in atto l’esercizio dell’azione penale, allontanando il rischio inabissante di distogliere le non adeguate risorse per rispondere ad una tipologia di domanda e di incombenze procedurali che, nel processo penale, non trovano giustificazione mentre possono ancora trovare piena efficace e ‘naturale’ tutela nella sede civile propria. Basti pensare, per rendere la concretezza del problema e la gravità delle sue implicazioni, che il disegno di legge del Ministro Bonafede (C.2435, Camera dei Deputati in discussione alla Commissione Giustizia) contiene anche una norma, l’art. 13, che tra l’altro indica quale contenuto della delega: la previsione che le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello (e in cassazione) stabiliti ai sensi dell’art. 12 (due anni per l’appello), dovendo i processi essere definiti ‘entro’ sei mesi dall’istanza di immediata definizione, con (ma questa ormai pare la bacchetta magica per risolvere i problemi a costo zero) possibili conseguenze disciplinari per il dirigente che non ha organizzato per assicurare il rispetto di tali termini e il giudice che non li abbia rispettati. Sia chiaro: con la giurisprudenza prevalente fino al 28 gennaio, vorrebbe dire che il giudice penale d’appello passerebbe il suo tempo a trattare solo i processi con azione penale in corso e parte civile (anche se bagatellari) ovvero le assoluzioni (intervenute dopo pieno contraddittorio e quindi quantomeno con presunzione di infondatezza della pretesa civilistica) con impugnazione delle sole parti civili, in questo secondo caso rinnovando pressoché in tutti i processi l’istruttoria. Con buona pace delle aspirazioni dei cittadini ad avere dalla giustizia penale, per le azioni penali esercitate e in atto, processi giusti e in tempi ragionevoli, con decisioni nel merito e non per prescrizione dei reati.
La seconda. Che si rifletta davvero in termini sistematici sull’attualità o meno di un principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale, per comprendere, così e per esempio, se davvero (come sorprendentemente conclude Sezioni Unite sentenza 28911/2019, ric. Massaria/Papaleo): “Nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l'impugnazione della parte civile ove con la stessa si contesti l'erroneità di detta dichiarazione (In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l'interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare "ex novo" il giudizio civile).
Difficile comprendere perché la legittimazione ad impugnare (576) debba assorbire l’interesse ad impugnare (568, comma 4) e perché, appunto “se” l’azione civile è accessoria, la parte civile abbia interesse ad impugnare una sentenza (erronea dichiarazione di prescrizione in primo grado) che non fa stato nei suoi confronti nel senso che (ex art. 651 ss, cod. proc. pen.) non le impedisce di rivolgersi, con la stessa impregiudicata domanda, al giudice civile, originario referente fisiologico della sua domanda; ed invece il giudice d’appello debba fare (in ipotesi) tutta l’istruttoria non svolta in primo grado per assecondare una scelta preferenziale discrezionale di una parte “accessoria” al processo penale, pure al di fuori di alcun pregiudizio giuridicamente rilevante (che il contingente interesse di fatto per sé mai rileva), mentre i ‘suoi’ processi penali corrono verso la prescrizione.
Ecco. Attendiamo che la motivazione Cremonini ci confermi che nel codice di rito esiste ancora il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale.
Formazione progressiva del giudicato ed esecuzione della pena (nota a SS.UU. 3423/21 del 29/10/20).
di Giuseppe Amara
Il presente rapido lavoro da riscontro alla sentenza n. 3423/21 depositata dalle Sezioni Unite lo scorso 27 gennaio con la quale è stata decisa la controversa questione relativa agli effetti, in punto di esecuzione delle pene principali, del principio della formazione progressiva del giudicato e alla relativa competenza a decidere.
Sommario: 1. Il caso. - 2. Sull’evoluzione giurisprudenziale del giudicato progressivo.- 3. I termini del conflitto.- 4. La decisione delle Sezioni Unite.- 5. Principio di diritto enunciato.
1. Il caso
La vicenda processuale muove dall’impugnazione di un’ordinanza emessa dalla Corte di Appello territoriale che, in parziale accoglimento della richiesta difensiva, dichiarava esecutiva una sentenza (limitatamente alla pena di anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione), trasmettendo gli atti alla Procura Generale per l'emissione dell’ordine di carcerazione. Nel pronunciarsi, la Corte territoriale rilevava che, erroneamente, la Procura Generale aveva emesso un ordine di esecuzione ritenendo che la Corte di Cassazione avesse dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato avverso la sentenza d’appello, con la quale la Corte di Appello territoriale aveva riformulato la pronuncia di primo grado, condannando l’imputato alla pena di anni sette di reclusione per i reati di cui agli artt. 74 (capo 13) e 73 (capo 8), d.P.R. 309/90, con l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante dell'associazione armata contestata al capo 13; diversamente, la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello territoriale, in relazione al reato sub 13, esclusivamente con riguardo alla sussistenza della circostanza aggravante di cui al comma 4 dell'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, e in relazione al capo 8, limitatamente alla qualificazione giuridica ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/90.
Con l’ordinanza impugnata, la Corte di Appello precisava come il principio della formazione progressiva del giudicato (art. 624 c.p.p.) debba trovare applicazione soltanto con riferimento alla pena minima inderogabile prevista per i reati oggetto dei capi della sentenza non sottoposti ad annullamento. Nel caso di specie, in ordine alla contestazione di cui al capo 13, sostanzialmente, l’accertamento della responsabilità era da ritenersi passato in giudicato, rilevando, l’annullamento con rinvio, esclusivamente sulla valutazione della sussistenza della circostanza aggravante di cui al comma 4 dell’art. 74 d.Pr. 309/90 (con assorbimento dei motivi afferenti il bilanciamento con le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p.) e, dunque, in ogni caso, la pena minima, da un computo astratto, non sarebbe potuta essere inferiore ad anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione, così calcolata: pena base determinata in anni dieci di reclusione; operata sulla medesima la massima diminuzione per le circostanze attenuanti generiche — già applicate dalla sentenza di primo grado e ritenute da tale pronuncia equivalenti alla circostanza aggravante dell'associazione armata - e tenuto conto della riduzione di un terzo per il rito abbreviato).
L'ordinanza veniva impugnata dalla difesa per violazione dell'art. 624 c.p.p. che segnalava come, nel caso di specie, l’annullamento con rinvio relativamente alla circostanza aggravante di cui all'art. 74, comma 4, d.P.R. n. 309/90 avrebbe potuto avere una serie di effetti in concreto ostativi ad un’eseguibilità anche parziale; innanzi tutto sarebbe circostanza idonea ad incidere sul quantum della pena, in un’ottica di bilanciamento tra attenuanti generiche, già riconosciute, ma ritenute “soltanto” equivalenti alle aggravanti contestate. Ancora, la rideterminazione della pena potrebbe assumere rilievo, in sede esecutiva, per individuare, ai fini della continuazione, la violazione più grave ed inoltre è circostanza idonea ad incidere in ambito penitenziario (accesso alle misure alternative alla detenzione e fruizione di benefici penitenziari). Infine, veniva rimarcata la dubbia possibilità di ricorrere al giudizio di revisione, non passata in giudicato la sentenza nella sua interezza.
La Prima Sezione penale investiva della questione le Sezioni Unite, rilevando un duplice profilo di conflitto che richiedeva un intervento definitorio. In particolare, veniva ravvisato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sia in ordine al tema della c.d. soglia minima di pena eseguibile, in caso di annullamento con rinvio solo in punto di trattamento sanzionatorio, accertata l’affermazione di responsabilità, che a quello relativo alla competenza funzionale a decidere (giudice dell’esecuzione o Corte di Cassazione).
2. Sull’evoluzione giurisprudenziale del giudicato progressivo
Le Sezioni Unite, nella pronuncia qui riportata, muovono da un ampio excursus sull’evoluzione giurisprudenziale del giudicato progressivo e sui riflessi in tema di eseguibilità della pena. Premessa concettuale da cui muove la Corte è la piena compatibilità del principio della formazione del giudicato progressivo con il sistema processuale, sulla scorta del disposto di cui all’art. 624 comma 1 c.p.p. in base al quale: “se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata».
Dalla lettura della norma, primo dubbio interpretativo è quella relativo al termine “parti”, ovvero se vada inteso come riferito ai “capi”, ovvero anche ai “punti” della sentenza.
Il primo richiamo operato è a Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239 (ripresa anche da Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, Michaeler, Rv. 235700) che, in estrema sintesi, individua quale “capo” della sentenza la decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all’imputato (processo con esercizio di più azioni penali e pluralità di rapporti processuali afferenti ad una singola imputazione, sentenza c.d. plurima o cumulativa). Il “punto” è invece, sostanzialmente, un sottoinsieme del “capo” e può essere ritenuto tale ogni passaggio della decisione che, in un’autonoma valutazione, purché indispensabile per il giudizio sul reato, concorre a formare la statuizione sul “capo” della sentenza. “Punti” della decisione sono, pertanto, l'accertamento del fatto, la responsabilità personale dell'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio.
Le Sezioni Unite Tuzzolino chiariscono, innanzi tutto, la distinzione fra giudicato progressivo e sistema di preclusioni correlate all’effetto devolutivo delle impugnazioni ove, in caso di sentenza di condanna e di mancata impugnazione sulla responsabilità dell’imputato, con devoluzione al giudice dell’impugnazione esclusivamente del punto relativo alla determinazione della pena, pur creandosi la preclusione sul profilo dell’accertamento della responsabilità, il relativo capo non avrà autorità di cosa giudicata che si potrà formare, esclusivamente, quando su tutti i punti vi sia stato pronunciamento, con la conseguenza del positivo rilievo di eventuali cause sopravvenute di estinzione del reato. Tale assunto, chiariscono le Sezioni Unite, non confligge con l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 624 comma 1 c.p.p., in quanto norma speciale applicabile soltanto ai giudizi di annullamento con rinvio, che attribuisce autorità di cosa giudicata sia ai capi che ai singoli punti della decisione, con sequenziale inapplicabilità, da parte del giudice del rinvio investito dei soli punti afferenti la determinazione della pena, delle cause sopravvenute di estinzione del reato (fra cui, in primis, la prescrizione del reato). In tale interpretazione, è evidente dunque come il termine “parti” utilizzato dall’art. 624 c.p.p., deve intendersi come “punto” e non come “capo” della decisione.
Un primo arresto in punto di giudicato progressivo, sul quale poi si è inserita la giurisprudenza successiva è Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, Agnese, Rv. 186164 (conforme Sez. U, n. 6019 del 11/05/1993, Ligresti, Rv. 193418), pronuncia che ha ribadito come l'autorità di cosa giudicata vada riconosciuta anche ai punti non oggetto di annullamento. Il giudicato progressivo può, infatti, riguardare sia in caso di annullamento di uno o più capi d'imputazione, sia nel caso in cui ricada su uno o più punti, questo perché il relativo giudizio si è esaurito e dunque è da intendersi irrevocabile (con sequenziale limite alla rilevanza delle cause estintive del reato sopravvenute all’autorità di cosa giudicata formatasi sull’accertamento della responsabilità non oggetto di annullamento con rinvio). Diverso è invece il profilo dell’eseguibilità della sentenza che presuppone un vero e proprio titolo esecutivo che richiede “la materiale e giuridica possibilità dell’esecuzione della sentenza”. Sez. U, n. 6019 del 11/05/1993, Ligresti, Rv. 193418 ha dunque ulteriormente precisato come l’autorità di cosa giudicata possa formarsi anche su statuizioni della decisione dotati di autonomia giuridica – concettuale.
Sul solco dell’interpretazione dell’art. 624 c.p.p., la Corte, nella pronuncia in oggetto, richiama Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196886 che, muovendo dalla dicotomia tra definitività ed eseguibilità, aggiunge al dibattito, una riflessione sul “rapporto di connessione essenziale” tra pronuncia annullata e pronuncia non annullata che ove esistente impedisce alla parte non annullata di acquisire l’autorità di cosa giudicata è che da intendersi come “necessaria interdipendenza logico-giuridica tra le parti suddette nel senso che l'annullamento di una di esse provochi inevitabilmente il riesame di altra parte della sentenza seppur non annullata, sollecitando su entrambe i poteri di giudizio e, quindi, la decisione del giudice”.
Ancora, di interesse per il tema qui controverso risulta Sez. U, n. 20 del 09/10/1996, Vitale, Rv. 206170 che ammette la possibilità di porre in esecuzione le “statuizioni della sentenza non ulteriormente modificabili e relative alla totalità dei capi di imputazione”, di fatto riferendosi al caso in cui il perimetro del giudizio del rinvio non abbia alcuna concreta possibilità di influenzare il trattamento sanzionatorio del capo integralmente deciso.
Ulteriormente esplorativa del tema risulta essere Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640, che, dopo aver ribadito che il giudicato progressivo sull’affermazione della responsabilità impedisce l’applicazione di cause estintive del reato da parte del giudice del rinvio, afferma, nettamente, come il giudicato non sempre vada di pari passo con l’esecutività della decisione, ben potendo essersi il giudicato – progressivo – formato solo su punti della sentenza e non anche sul capo unitariamente inteso (ad esempio, proprio in punto di determinazione pena) ed infatti l’irrevocabilità potrebbe non coincidere con la definitività della statuizione.
Di interesse, il successivo richiamo della Corte, alla giurisprudenza della Consulta (ord. n. 367 del 1996) che ha riconosciuto la legittimità costituzionale del giudicato progressivo, peraltro rimarcando la necessaria distinzione che deve intercorrere tra giudicato e possibilità di porlo in esecuzione.
3. I termini del conflitto
Secondo un primo orientamento, da ritenersi maggioritario, i capi della sentenza non oggetto di annullamento con rinvio e dunque che abbiano acquisito autorità di cosa giudicata devono essere, obbligatoriamente, posti in esecuzione dalla competente a.g. (Sez. 1, n. 4506 del 10/12/1990, dep. 1991, Teardo, Rv. 186838); invero, sulla base del presupposto per cui l’esecutività non può che riguardare un “capo” nella sua interezza, è stata esclusa la possibilità di mettere in esecuzione la pena, sia pure limitatamente alla parte di essa calcolata tenendo conto della possibile applicazione, nella massima estensione, delle circostanze attenuanti generiche, in caso di annullamento di una sentenza di condanna unicamente sul punto concernente l'applicabilità o meno delle stesse (Sez. 1, n. 575 del 12/02/1993, Fracapane, Rv. 193656). Ancora, “valorizzando la nozione di capo della sentenza quale decisione emessa relativamente a uno dei reati attribuiti all'imputato e il suo connotato di oggetto della singola azione penale e del singolo rapporto processuale confluito nel processo cumulativo”, può essere messa in esecuzione quella decisione dotata di “autonomia giudico-concettuale” su una singola imputazione, non in connessione essenziale con parti annullate della sentenza (Sez. 2, n. 6287 del 15/12/1999, dep. 2000, Piconi, Rv. 217857). Ad esempio, in questo solco, non è eseguibile la sentenza nella parte relativa ad un capo in ipotesi di rinvio di altri capi, avvinti dal vincolo della continuazione, allorquando, potenzialmente uno di questi capi possa essere ritenuto violazione più grave (Sez. 1, n. 32477 del 19/06/2013, Dello Russo, Rv. 257003), limite che invece non rileva in caso di annullamento di reati satellite e, dunque, con un minimo di pena da espiare certo (Sez. 1, n. 6189 del 17/12/2019, dep. 2020, Castiglione, Rv. 278473). Di interesse, fra le pronunce richiamate dalla Corte, Sez. 1, n. 30780 del 05/07/2018, Fiesoli, la quale ha precisato come “il fatto che il risultato finale non potrà consistere in una pena inferiore a quella ora posta in esecuzione non significa che la pena sia stata già definita». Dunque, non si ha connessione essenziale nella misura in cui risulti irrevocabile un capo ed il relativo trattamento sanzionatorio non possa avere riflessi dalla decisione sull’annullamento con rinvio. Ed ancora, se la decisione contiene già l’indicazione della pena minima che deve espiare questa deve essere messa in esecuzione, in quanto l'eventuale rinvio non incide sull'immediata eseguibilità delle statuizioni residue aventi propria autonomia (Sez. 5, n. 2541 del 02/07/2004, dep. 2005, Pipitone, Rv. 230891; conf. Sez. 6, n. 3216 del 20/08/1997, Maddaluno, Rv. 208873). Fuori da tale perimetro, le sentenze sono ineseguibili, con sequenziali riflessi processuali, ad esempio, in tema di termini di durata della misura cautelare che dovranno essere conteggiati, non risultando la detenzione ascrivibile alla fase dell’esecuzione della pena (Sez. 4, n. 10674 del 19/02/2013, Macrì, Rv. 254940; Sez. 6, n. 273 del 05/11/2013, dep. 2014, Elia, Rv. 257769).
La Procura Generale, nel formulare le proprie richieste, sostanzialmente, ha inteso condividere tale primo prevalente orientamento, chiedendo l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata e dell'ordine di esecuzione emesso dalla Procura Generale competente, in particolare segnalando che in caso di annullamento con rinvio per il solo trattamento sanzionatorio, la formazione del giudicato progressivo riguarda esclusivamente l'accertamento del reato e la responsabilità dell'imputato; il favor esecutionis deve infatti assumere una posizione recessiva rispetto al favor libertatis che potrebbe essere compromesso in caso di calcoli ipotetici rimessi agli organi dell'esecuzione, peraltro a mente i riflessi negativi, già segnalati dal ricorrente, rilevanti in ambito penitenziario.
Un secondo orientamento, minoritario, di contrario avviso, accosta, all’autorità di cosa giudicata, l’esecutività della condanna, pur in presenza di un annullamento con rinvio della Suprema Corte su un punto della decisione e, dunque, pur se ancora l’intero capo della sentenza non sia passato in giudicato. Ciò che rileva secondo tale orientamento è la circostanza per cui, in relazione alla parte di sentenza divenuta irrevocabile, possa essere definito con certezza nel quantum il minimo inderogabile di pena irrogata (Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, dep. 2018, Centonze, Rv. 272610, in una fattispecie relativa ad annullamento con rinvio disposto con riguardo alla recidiva; Sez. 1, n. 41941 del 21/09/2012, Pitarà, Rv. 253622, in una fattispecie relativa ad annullamento con rinvio disposto con riguardo a una circostanza aggravante), ovvero la pena minima applicabile alle parti delle statuizioni non oggetto di annullamento (Sez. 1, n. 43824 del 12/04/2018, Milito, Rv. 274639; conf. Sez. 3, n. 253 del 22/11/2019, dep. 2020, Ruggiero, Rv. 278263)”. In linea con questo orientamento – ma portandolo a conseguenze ulteriori – si collocano talune pronunce che fanno riferimento, non già alla necessità che la quantità di pena minima sia stata indicata ma alla circostanza che, di fatto, non vi sia incertezza in relazione al quantitativo di pena minimo da applicare al caso concreto, passibile di modifica sollo un aumento (Sez. 1, n. 33154 del 15/05/2019, Chirico, Rv. 277226). In maniera analoga, (Sez. 1, n. 19644 del 09/04/2019, Gallo, Rv. 275605; conf. Sez. 1, n. 42728 del 20/09/2019, Buonavoglia).
4. La decisione delle Sezioni Unite.
Le Sezioni Unite hanno inteso aderire al primo maggioritario orientamento, con le seguenti puntualizzazioni.
Primo arresto è la cristallizzazione della dicotomia tra autorità di cosa giudicata di una parte della sentenza (rilevando anche singoli punti e non solo interi capi) ed eseguibilità della sentenza che, invece, presuppone la formazione di un vero e proprio titolo esecutivo. Il giudicato progressivo, pur potendo congelare l’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto, non preclude il potere del giudice di rinvio della rideterminazione della pena a lui devoluta. Secondo la Corte, infatti, da una lettura coordinata degli artt. 624-648-650 c.p.p., il titolo esecutivo si ritiene formato solo quando si forma il giudicato sull’accertamento della sussistenza del fatto, della responsabilità personale dell’arrestato e sulla quantificazione della pena. In ogni caso, se il giudicato progressivo ha coperto l’accertamento della sussistenza del reato e della sua attribuzione all’imputato, con superamento della presunzione di innocenza di cui al comma 2 dell’art. 27 Cost. potendo parlarsi di condanna definitiva, il giudice del rinvio ha un limitato ambito cognitivo e decisorio ove non potranno rilevare le cause sopravvente di estinzione del reato, prime fra tutte la prescrizione.
In parte motiva, le Sezioni Unite fanno anche riferimento ai principi consolidati della giurisprudenza sovranazionale. In particolare, la Corte europea dei diritti dell'uomo esclude, di regola, l'applicabilità dell'art. 6, § 2, Cedu al procedimento volto esclusivamente alla commisurazione della sanzione dopo la condanna, in base alla considerazione che la citata norma convenzionale restringe la portata della presunzione di innocenza al mero accertamento legale della colpevolezza (Corte EDU, IV sez., sent. Phillips vs Regno Unito, 05/07/2001, § 3; Corte EDU, III sez., dec. Van Offeren vs Olanda, 05/07/2005; Corte EDU, II sez., dec. Previti vs Italia, 08/12/2009, § 267), a differenza dell'art. 27, secondo comma, Cost., che richiede un accertamento definitivo collegato, almeno, alla proponibilità del ricorso per cassazione per violazione di legge.
Viene inoltre rimarcata la specialità della previsione normativa di cui all’art. 624 c.p.p. che consente, come già precisato in passato, di riconoscere autorità di cosa giudicata sia ai capi che ai punti della sentenza, con il sequenziale limite ai poteri decisori e cognitivi in sede di rinvio. Ne segue, però, che, in tema di continuazione, in caso di giudicato progressivo con rinvio su capi astrattamente qualificabili come più gravi, la sentenza non è eseguibile.
La Corte poi precisa la questione della connessione essenziale tra parti annullate e parti del giudicato progressivo. La connessione essenziale va intesa, secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite Agnese come “necessaria interdipendenza logica e giuridica tra le diverse statuizioni, di guisa che l'annullamento di una di esse rende inevitabile il riesame di quelle parti che, perché non suscettibili di autonoma decisione, impongono un rinnovato giudizio.”
Di converso, il giudicato progressivo, pur nell'autonomia giuridico-concettuale della statuizione relativa a ciascun capo nella sentenza, qualora la statuizione non incida definitivamente anche sulla determinazione della pena, non può però avere tra i suoi effetti anche quello della eseguibilità della decisione che richiede, per l’appunto, anche la definitività della pena (Sez. 2, n. 6287 del 2000, Piconi, cit.), a prescindere dalla circostanza per cui non vi potrà comunque essere una pena inferiore a quella posta in esecuzione. Pertanto, la nozione di pena minima inderogabile su cui fa leva il secondo orientamento non è idonea a integrare un titolo esecutivo relativo a uno o più capi. Perchè via sia eseguibilità, la statuizione sulla pena deve essere irrevocabile, ovvero "completa" (Sez. 2, n. 6287 del 2000, Piconi), non modificabile dal giudice del rinvio, e "certa", ovvero individuabile sulla base delle sentenze rese in sede di cognizione e non ricostruibile attraverso ragionamenti ipotetici (pena da eseguire non inferiore ad una determinata quantità). Non è, invece, necessario per l'esecutività della pena il passaggio in giudicato dell'intera sentenza, con riferimento alle sentenze oggettivamente cumulative.
Tale assunto produce i suoi effetti, come illustrato in precedenza, anche in relazione ai termini di durata delle eventuali misure cautelari in essere. Infatti, in un’interpretazione costituzionalmente orientata, a mente l’ultimo comma dell’art. 13 Cost. (sul punto Corte cost., ord. n. 397 del 2000), l’autorità di cosa giudicata sull’accertamento del fatto e l’ascrivibilità all’imputato, pur ergendo barriere al potere cognitivo e decisorio del giudice del rinvio, non consentono di “riqualificare” la detenzione dell’imputato in termini di esecuzione pena , dovendo invece, ancora, essere assoggettate al regime di custodia cautelare (con relativa decorrenza dei termini di custodia massima).
Ancora, tale impostazione, secondo la Corte, risulta maggiormente coerente con la finalità rieducativa della pena di cui, di recente, ne è stata rimarcata la centralità (Corte cost., sent. n. 149 del 2018), anche in un’ottica di applicazione delle previsioni dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354) che prevedono un percorso di comprensione da parte dell’imputato del fatto criminoso commesso, percorso che risulterebbe incompleto e parziale qualora rapportato ad una statuizione non completa, anche in ragione, ad esempio, della non completa affermazione del fatto in ordine alle circostanze del reato, ovvero alla corretta qualificazione giuridica. Peraltro, la mancata definitività della pena, inevitabilmente, finisce per incidere sull’applicabilità o meno di istituti della fase dell’esecuzione pena, quali la sospensione dell'ordine di esecuzione (art. 656 c.p.p.), le misure alternative come l'affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 ord. pen.).
Aporie sistematiche che, invece, le Sezioni Unite non ravvisano in caso di autorità di cosa giudicata di un intero capo della sentenza che, di converso, acquista i requisiti dell’esecutività, a prescindere da modifiche sul quantum di pena del giudice di rinvio, ad esempio in ordine a reati satellite, sulla scorta dell’autonomia giuridico-concettuale attribuibile a ciascun capo della sentenza.
Statuito in termini generali quanto sopra, le Sezioni unite hanno poi puntualizzato una serie di aspetti, anche sulla scorta dei casi emersi nella prassi. Ad esempio, in tema di annullamenti di capi posti in continuazione con altri divenuti irrevocabili. Viene ribadito, innanzi tutto, che qualora, per effetto dell’annullamento, sia ancora in dubbio l’individuazione del reato più grave, non si può ritenere sussistere l’esecutività del capo che acquisito autorità di cosa giudicata, non potendo ragionare in termini di ipotesi della determinabilità della pena comunque applicabile. Di converso, si può riconoscere l’effetto dell’esecutività in caso di passaggio in giudicato del capo relativo al reato da sicuramente ritenersi più grave, qualora la pena sia “certa” e “completa” (ad esempio non vi sono annullamenti in ordine a circostanze aggravanti).
Ancora, la Corte, nell’individuare altre ipotesi dove all’autorità di cosa giudicata può non seguire l’esecutività della sentenza, fa menzione del caso della richiesta di applicazione della sospensione condizionale della pena la cui verifica non potrà che essere definita soltanto all’esito dell’iter processuale di tutti i reati in continuazione (Sez. 1, n. 45340 del 10/09/2019, Vinciguerra, Rv. 277915). Evidente come, in tale prospettiva, criterio di valutazione primario sarà quello dell’individuazione del legame di connessione essenziale tra parte annullata e parte non annullata.
Altra puntualizzazione della Corte riguarda l’autonomia, anche sulla scorta dell’art. 579 comma 2 c.p.p. che demanda la competenza al giudice di sorveglianza, tra esecutività della pena in caso di giudicato progressivo e definitività della decisione sui punti relativi alle misure di sicurezza ordinate con sentenza. Ai fini dell’esecutività della pena non è richiesta una definitività della decisione in tema di misura di sicurezza.
Analogamente bisognerà ragionare per quanto riguarda le pene accessorie e le confische non aventi natura di misura di sicurezza, qualora la loro definitiva statuizione intervenga successivamente all'irrevocabilità della pena principale.
Alla luce di tutte le considerazioni sopra riportate, ritengono le Sezioni Unite che, “in caso di annullamento parziale da parte della Corte di cassazione (art. 624 cod. proc. pen.), la pena principale - irrogata in relazione a un capo per il quale sia passata in giudicato l'affermazione di responsabilità, anche in relazione alle circostanze del reato – sia suscettibile di esecuzione, qualora abbia acquisito autorità di cosa giudicata, essendo stata determinata in termini di "completezza" e di "certezza". La "completezza" della pena comporta la "insensibilità" rispetto alle statuizioni rimesse al giudice del rinvio, mentre il connotato delle "certezza" rinvia alla precisa definizione - senza necessità di ricorrere a computi ipotetici – del trattamento sanzionatorio, tenuto conto delle statuizioni del giudice della cognizione quali risultanti dalle sentenze emesse e dall'ambito del giudizio di rinvio perimetrato dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione”. Ed ancora, entrando nel dettaglio: “deve, pertanto, qualificarsi esecutiva la pena principale irrogata in relazione a un capo (o a più capi) - non in connessione essenziale con quelli attinti dall'annullamento parziale - per il quale siano passati in giudicato (oltre che, naturalmente, l'inapplicabilità di cause estintive del reato, quali la sospensione condizionale: cfr. Sez. 1, n. 45340 del 2019, Vinciguerra, cit.) tutti i punti, a eccezione di quelli attinenti alle pene accessorie, alle misure di sicurezza ordinate con sentenza e alle confische non aventi natura di misura di sicurezza; restano, inoltre, estranee al tema dell'esecutività della pena principale le questioni attinenti alle statuizioni civili, in quanto afferenti a un capo autonomo.”
In punto di competenza a decidere su chi deve determinare la pena da eseguire in relazione al giudicato parziale, l’A.G. dell’esecuzione, ovvero la Corte di Cassazione, in sede di annullamento con rinvio, pur risultando la questione parzialmente superata da quanto deciso e sopra riportato, le Sezioni Unite, nel dar atto di un duplice orientamento ritengono che l'accertamento circa l'eseguibilità della pena e la sua specifica individuazione competano agli organi dell'esecuzione, secondo i criteri stabiliti in materia. Ciò sulla scorta del tenore letterale dell'art. 624, comma 2 c.p.p. da un lato e, d’altro canto, dell’assenza di diversa previsione normativa che, peraltro, mal si concilierebbe con il ruolo del pubblico ministero quale organo promotore dell’esecuzione penale.
5. Principio di diritto enunciato
Conclusivamente, si riporta il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte: “In caso di annullamento parziale (art. 624 cod. proc. pen.), è eseguibile la pena principale irrogata in relazione a un capo (o a più capi) non in connessione essenziale con quelli attinti dall'annullamento parziale per il quale abbiano acquisito autorità di cosa giudicata l'affermazione di responsabilità, anche in relazione alle circostanze del reato, e la determinazione della pena principale, essendo questa immodificabile nel giudizio di rinvio e individuata alla stregua delle sentenze pronunciate in sede di cognizione. La Corte di cassazione, con la sentenza rescindente o con l'ordinanza di cui all'art. 624, comma 2, cod. proc. pen., può solo dichiarare, quando occorre, quali parti della sentenza parzialmente annullata sono diventate irrevocabili”.
Il caso Catania: un’antimafia possibile
di Ignazio Fonzo*
Le strategie investigative e l’organizzazione giudiziaria, in sinergia con una polizia giudiziaria preparata, possono creare un esempio virtuoso di contrasto al crimine organizzato. Il caso Catania, crocevia negli anni di interessi criminali, economici, politici, grazie alla memoria storica di una Procura particolarmente impegnata, suggerisce riflessioni e considerazioni di ordine sociale di un contesto difficile, dove si rinnovano i fattori criminogeni, coinvolgendo le nuove leve del crimine organizzato.
Le Direzioni Distrettuali Antimafia, frutto di un’originale idea di Giovanni Falcone, furono istituite introducendo il comma 3 bis all’art. 51 cpp con D.L. 20/11/1991 nr 367 convertito nella legge 20/1/1992 nr 8.
La DDA della Procura di Catania, costituita sulla base del c.d. pool di sostituti procuratori che già in precedenza si occupavano di contrasto al crimine organizzato, andò a regime, con pienezza dei suoi componenti, nel biennio 1992/1994.
Nel periodo tra il 1994 ed il 2006, oltre ad impegni soprattutto processuali, ciò che maggiormente segnò l’esperienza di quegli anni fu la sensazione - probabilmente infondata alla luce di quanto si dirà di qui a breve - che il investigativo e processuale potesse portare a risultati decisivi e definitivi nei confronti del crimine organizzato, in particolare per quanto riguarda gli aspetti “militari” dell’agire delle varie consorterie criminali che imperversavano nel territorio etneo ( nella sola Catania, fino alla metà degli anni novanta si viaggiava alla media di 120/130 morti l’anno nelle varie faide mafiose).
Nel giro di alcuni anni, grazie allo sforzo ed alla sinergia tra magistratura e polizia giudiziaria ed alle numerose collaborazioni di appartenenti alle organizzazioni criminali, quanto meno sul piano della violenza quotidiana e del numero dei morti assassinati, la situazione fu ribaltata.
Le esecuzioni si azzerarono; centinaia furono gli ergastoli irrogati, i principali capi delle organizzazioni, cui fu applicato il regime detentivo del 41 bis O.P., furono posti in condizione di non impartire ordini e direttive.
Si raggiunse la convinzione, forse presuntuosamente, che il più fosse stato fatto, che da quel momento in poi si sarebbe trattato di gestire l’ “ordinaria amministrazione “ e soprattutto ci si convinse illusoriamente che le diverse organizzazioni criminali che agivano nel territorio della Sicilia orientale ( profondamente diverse da quelle operanti in Sicilia occidentale, ma questo è discorso troppo lungo per poterlo affrontare in questa sede) avessero perso la capacità di rigenerarsi e ricostituirsi perché maturata la consapevolezza, da parte degli strati sociali ove in genere si reclutavano ( e si reclutano ) nuovi sodali, che il crimine organizzato non fosse prospettiva giusta per chi tutti i giorni doveva e deve fare il conto con le difficoltà del vivere.
In realtà, in primo luogo si è potuto constatare come, malgrado le innumerevoli condanne precedenti, la stragrande maggioranza di coloro che avevano finito di scontare le pene inflitte erano tornati nuovamente, taluni anche in età ormai avanzata, a ricoprire gli stessi identici ruoli ed a commettere le medesime azioni per le quali avevano scontato la pena inflitta; ciò dovrebbe far riflettere, innanzitutto, sulla funzione non solo retributiva ma anche emendatrice della pena.
Non solo: sembra evidente che anni di manifestazioni antimafia e di cultura antimafia non hanno sortito, almeno non del tutto, l’effetto sperato.
Infatti recenti accadimenti ed i conseguenti accertamenti investigativi hanno consentito di verificare che le organizzazioni criminali operanti in territorio urbano di Catania (in particolare il Clan Cappello/Bonaccorsi e quello dei Cursoti Milanesi) hanno mantenuta intatta la capacità di attrarre e reclutare, con la prospettiva di facili ed immediati guadagni, giovani “ millenials” (ossia nati tra la fine del secolo scorso e gli inizi degli anni 2000) affascinati, se non abbagliati, dalla personalità fuorviante e deviante di vecchi “ capi bastone”, taluni anche da decenni in stato di detenzione, che - malgrado le ripetute e pesanti condanne subite - continuano a perseguire la strada dell’illegalità e del crimine.
Dette giovani leve, come si è avuto modo di verificare anche di recente, appartengono a nuclei familiari, residenti in quartieri periferici e degradati delle aree urbane di Catania ( e Siracusa ), che vivono percependo c.d. Reddito di cittadinanza.
Al riguardo si può osservare che le aree urbane marginali (secondo la più nota forma inglese "Distressed Urban Areas") nel contesto territoriale catanese si connotavano e purtroppo si connotano ancora oggi per particolari situazioni di sottosviluppo in contesti sviluppati; secondo la definizione data dall' OCSE queste sono aree che si trovano all'interno delle città nelle quali vi sono notevoli condizioni di arretratezza rispetto alla città stessa e alla media nazionale; in queste parti di città si registrano tuttora criticità che fanno in modo che servizi, livelli di vita e risorse, considerati normali nel resto della cintura del centro urbano, siano qui permanentemente assenti o pesantemente limitati.
E’ indubbio che in dette aree della città metropolitana si registrano standard di vita di gran lunga inferiori alla media nazionale e del centro cittadino, in particolare si evidenzia che :
- in dette zone si ha arretratezza multidimensionale, che comprende cioè vari ambiti della vita sociale (disoccupazione, criminalità, degrado sociale ed ambientale, bassi livelli di alfabetizzazione, analfabetismo di ritorno);
- dette aree sono facilmente riconoscibili, cioè si distinguono a vista d'occhio dal resto della città sia da coloro che vi abitano, sia dai non residenti, trattasi di veri e propri "quartieri ghetto";
- si ha presenza di circoli viziosi che perpetuano queste condizioni di sottosviluppo.
Non è superfluo sottolineare che dette aree sono quasi interamente costituite da fabbricati di edilizia popolare, suddivise in più zone abitative, con diverse caratteristiche costruttive.
Detti quartieri, come noto dopo l’adozione del PRG di Catania (Piccinato), furono costruiti oltre la cerchia della periferia urbana allora in piena espansione, a tutt'oggi risultano essere delle entità separate rispetto alle aree circostanti. I fabbricati si caratterizzano per la loro peculiare struttura architettonica (cosiddette insulae). Alla vastità e all'intensività dell'insediamento di edilizia popolare, si aggiunsero ritardi burocratici e disattenzione politica che portarono a una occupazione non legittima degli alloggi e alla mancata realizzazione di molte fondamentali opere di infrastrutturazione primaria e secondaria: in parte dei quartieri mancano ancor oggi servizi essenziali. A ben poco sono serviti gli insediamenti nei quartieri di strutture sportive ( ad esempio il PalaNesima, palasport costruito nel 1997 in occasione delle Universiadi ) oggetto di ripetute vandalizzazioni.
Detti quartieri sono da sempre afflitti da gravi problemi di degrado architettonico (per la quasi totale assenza di manutenzione sui fabbricati) specchio del degrado sociale, con alti tassi di dispersione scolastica, microcriminalità e infiltrazioni mafiose. Nonostante le varie denunce dei media e l'impegno delle istituzioni scolastiche, religiose e del volontariato, la situazione rimane allarmante con ripercussioni sul controllo effettivo
Queste considerazioni rimangono strettamente attuali ove si consideri la circostanza che giovani provenienti da contesti ambientali come quelli sopra descritti subiscono ancor oggi “il fascino del male” (come fu definito quello esercitato dal noto trafficante di stupefacenti sudamericano Pablo Escobar) e fanno a gara per arruolarsi nelle organizzazioni mafiose; si deve dunque imporre una seria riflessione sull’efficacia general preventiva della attività investigativa e processuale, necessariamente successive alla perpetrazione dei fatti criminosi, che senza un’adeguata politica sociale e culturale – certamente non demandabili all’ autorità di polizia o a quella giudiziaria – determineranno la perdita pressoché definitiva di fasce di popolazione, difficilmente recuperabili al consesso civile, con ciò determinando la sconfitta dei tanti impegnatisi, a partire quanto meno dal 1992, per giungere alla definitiva scomparsa del crimine organizzato, flagello che ha ammorbato, e ammorba tuttora, il Paese.
*Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Catania.
I danni da illegittima misura di contenimento della pandemia: il caso della zona rossa in Lombardia
Roberto Natoli
Sommario: 1. La pandemia e le mobili frontiere della responsabilità civile- 2.Il sistema del “semaforo” e la classificazione delle regioni in zone di diverso colore - 3. L’algoritmo e i dati inseriti per stabilire il livello di rischio di ciascuna regione - 4. Il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia e il giudice competente a conoscere delle azioni risarcitorie - 5. Niente sarà più come prima?
1.La pandemia e le mobili frontiere della responsabilità civile.
Le mobili frontiere della responsabilità civile ([1]) non potevano restare indifferenti alla pandemia. Non stupisce dunque che la divisione del Paese in zone di colore diverso, con limiti e restrizioni alle attività economiche più o meno marcati in ragione dell’indice di contagio tra la popolazione del virus, potesse aprire le porte alle richieste di risarcimento dei danni da parte di chi contestasse la correttezza o la ragionevolezza delle misure di contenimento. La questione è venuta alla ribalta in conseguenza dell’erronea ascrizione della Regione Lombardia tra le regioni caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto ([2]), a quanto pare causata dai dati forniti dalla stessa Regione, che avrebbe conteggiato i guariti tra gli attuali positivi. Tale errore è stato la settimana successiva riconosciuto ed emendato dal Ministro della salute, il quale, “in ragione degli elementi sopravvenuti conseguenti alla rettifica dei dati operata dalla Regione Lombardia ora per allora, come certificati dalla Cabina di regia”, ha annullato l’ordinanza con cui aveva disposto la zona rossa in Lombardia dal 17 al 31 gennaio 2021, inserendola tra le regioni caratterizzate da uno scenario di elevata gravità e da un livello di rischio alto e dunque “promuovendola” ex post in zona arancione ([3]).
Ma procediamo con ordine.
Per riassumere nei suoi termini essenziali una vicenda cui i media nazionali hanno dato ovvio e comprensibile risalto ([4]) occorre premettere che il d.P.C.M. 3/11/2020 ([5]) ha previsto, come misura per contrastare l’epidemia sul territorio nazionale, un sistema di controllo della diffusione del virus su base regionale (o provinciale, per le province autonome di Trento e Bolzano) che prevede limitazioni di varia estensione alle attività economiche e sociali (e, più in generale, alle libertà personali), a seconda della gravità dello scenario di rischio. Nella comunicazione mediatica, originata dalle dichiarazioni alla stampa dello stesso Presidente del Consiglio, questo sistema è stato descritto come un’organizzazione “a semaforo”, che dal giallo (limitazioni meno gravi) transita per l’arancione (limitazioni intermedie) per arrivare poi al rosso (limitazioni gravi).
Sotto questo profilo, il sistema a semaforo rappresenta un’implicita ammissione dell’irragionevolezza del lock down disposto, sull’intero territorio nazionale, dal 10 marzo al 17 maggio 2020, pur in presenza di un indice di contagio clamorosamente diverso tra le regioni (la Lombardia, il Piemonte e il Veneto) o le zone (la bergamasca o il padovano) nelle quali il virus si è diffuso con straordinaria virulenza e quelle che, nei primi mesi del 2020, erano praticamente immuni dal contagio. Per conseguenza, il sistema “a semaforo”, su base regionale, è certamente coerente col rispetto dei principî di adeguatezza e proporzionalità fin da subito evocati per le misure di contenimento: la diffusione del contagio procede infatti diversamente a seconda dei tempi, dei luoghi e delle abitudini di vita dei cittadini.
2. Il sistema del “semaforo” e la classificazione delle regioni in zone di diverso colore.
Nell’ordinamento costituzionale italiano è indubbio che, per fronteggiare l’emergenza sanitaria, il dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale possa giustificare anche la compressione dei diritti di libertà dei cittadini. È altrettanto indubbio che l’utilità sociale giustifichi limiti all’esercizio delle attività economiche e possa spingersi, in situazioni eccezionali (qual è certamente quella pandemica), financo alla compressione totale della libertà di iniziativa economica. Queste limitazioni, però, devono essere ragionevoli: devono, cioè, chiedere al singolo un sacrificio proporzionato al guadagno della collettività. Per valutare questa ragionevolezza occorre però che le limitazioni si basino su dati certi e controllabili. Diversamente, il sacrificio non si giustifica più e la limitazione eccessiva, se dannosa, merita risarcimento.
L’art. 3 del d.P.C.M. 3/11/2020 ha affidato alla c.d. Cabina di regia istituita dal decreto del Ministro della salute del 30/4/2020, sentito il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) sui dati monitorati, il compito di individuare le Regioni che si collocano in uno “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto” ([6]). Ha poi previsto che il Ministro della salute, “con frequenza almeno settimanale”, provveda con ordinanza all’aggiornamento dell’elenco delle regioni in zona rossa, “fermo restando che la permanenza per 14 giorni in un livello di rischio o scenario inferiore a quello che ha determinato le misure restrittive comporta la nuova classificazione”. In altri e più semplici termini, per “uscire” dalla zona rossa occorre che la Regione per almeno due settimane consecutive esibisca dati che le consentano la “promozione” in zona arancione o gialla.
La Cabina di regia istituita presso il Ministero della salute è, dunque, il vigile che comanda il semaforo italiano per contenere la diffusione della pandemia. Le regole adottate per comandare il semaforo sono tuttavia ignote ai più, se non addirittura allo stesso vigile. L’attribuzione del colore rosso dipende, infatti, da un complesso di dati processati da un algoritmo di difficile comprensibilità. L’osservatorio per i conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano diretto dal prof. Carlo Cottarelli ha studiato i 21 indicatori processati dall’algoritmo e ha definito il complessivo sistema “complicato” e basato su una documentazione “dispersiva” ([7]). Ha comunque concluso che tre indicatori sono cruciali. Tra questi, quello di gran lunga più importante è l’Rt, che esprime quante persone in media contagia una persona infetta. A prescindere dagli altri indicatori, con un indice Rt inferiore a 1,25 una regione è automaticamente gialla. L’Rt, insieme all’occupazione dei posti letto in Area Medica e in Terapia Intensiva, è poi decisivo anche per determinare il “rischio”, cioè l’altro aspetto per determinare il colore di una regione.
Sebbene di non immediata comprensibilità ([8]), l’indice Rt è così entrato nelle case degli italiani. Da quest’indice dipende se gli studenti potranno andare a scuola; se le famiglie potranno riunirsi; se saranno consentiti spostamenti tra i comuni e le regioni. Ma dall’indice Rt dipende, soprattutto, se gli imprenditori (e, segnatamente, i commercianti) potranno esercitare le proprie attività economiche; e, se sì, con che limiti.
3. L’algoritmo e i dati inseriti per stabilire il livello di rischio di ciascuna regione
In particolare, l’ascrizione di una regione in zona rossa comporta la sospensione delle attività di commercio al dettaglio ([9]) nonché penetranti restrizioni alle attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità, le quali devono comunque svolgersi in modo da assicurare, “oltre alla distanza interpersonale di almeno un metro, che gli ingressi avvengano in modo dilazionato e che venga impedito di sostare all’interno dei locali più del tempo necessario all’acquisto dei beni” ([10]).
Non serve dilungarsi sulle catastrofiche conseguenze economiche prodotte dalla restrizione e, soprattutto, dalla sospensione delle attività commerciali. Né dovrebbe essere necessario indugiare sull’inefficacia dei c.d. ristori economici per compensare le perdite subite dai soggetti che, per adempiere al proprio dovere costituzionale di solidarietà, hanno ridotto o interrotto la propria attività economica. Si comprende dunque perché eventuali errori di caricamento dei dati necessari a stabilire i 21 indici che il complesso algoritmo utilizzato dalla Cabina di regia processa per stabilire che colore assegnare a ciascuna regione o provincia autonoma possano aprire le porte a domande risarcitorie. Per verificare se tali domande siano fondate, occorre però procedere dalle norme rilevanti e, da lì, fissare un punto fermo.
La prima norma che al riguardo rileva è l’art. 1, comma 16, d.l. 33/2020, secondo cui:
“Per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni monitorano con cadenza giornaliera l'andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. I dati del monitoraggio sono comunicati giornalmente dalle regioni al Ministero della salute, all'Istituto superiore di sanità e al comitato tecnico-scientifico di cui all'ordinanza del Capo del dipartimento della protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630, e successive modificazioni. In relazione all'andamento della situazione epidemiologica sul territorio, accertato secondo i criteri stabiliti con decreto del Ministro della salute 30 aprile 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 2 maggio 2020, e sue eventuali modificazioni, nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, la Regione, informando contestualmente il Ministro della salute, può introdurre misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2, ovvero, nei soli casi e nel rispetto dei criteri previsti dai citati decreti e d'intesa con il Ministro della salute, anche ampliative”.
La seconda norma rilevante è il già richiamato art. 3 del citato d.P.C.M. 3/11/2020, che testualmente prescrive:
“Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19, con ordinanza del Ministro della salute, adottata sentiti i Presidenti delle Regioni interessate, sulla base del monitoraggio dei dati epidemiologici (…) nonché sulla base dei dati elaborati dalla cabina di regia di cui al decreto del ministro della salute 30 aprile 2020, sentito il Comitato tecnico scientifico sui dati monitorati, sono individuate le Regioni che si collocano in uno “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto” di cui al citato documento di Prevenzione”.
4. Il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia e il giudice competente a conoscere delle azioni risarcitorie.
Quanto fin qui osservato consente di fissare un punto fermo.
Sotto il profilo formale, il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia deriva da un atto amministrativo e, segnatamente, da un’ordinanza del Ministro della salute. Dal punto di vista eziologico è infatti tale ordinanza la causa materiale diretta del danno patito da chi lamenti perdite economiche conseguenti a una illegittima sospensione della propria attività commerciale. Pertanto, trattandosi di un danno da attività provvedimentale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 30 c.p.a. il giudice competente sarà il TAR e i ricorrenti, asseritamente danneggiati, avranno l’onere di agire in via risarcitoria nel termine decadenziale di 120 giorni decorrente “dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”. Inoltre, secondo i noti principî elaborati dalla giurisprudenza amministrativa ([11]), l’autonomia della domanda risarcitoria incontra comunque il limite della rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi, sì che è onere del ricorrente che agisca in risarcimento del danno da provvedimento illegittimo dimostrare di aver tenuto la condotta idonea a evitare l’insorgenza o la propagazione del danno: vale a dire, impugnare il provvedimento che quel danno ha causato, nel termine decadenziale di 60 giorni.
Non sembra, però, che la pregiudizialità amministrativa, surrettiziamente reintrodotta dalla giurisprudenza citata per il medio del 3° comma dell’art. 30 c.p.a., possa operare nel caso del provvedimento che erroneamente ha incluso la Lombardia in zona rossa, posto che al momento della conoscenza del vizio da parte dei ricorrenti, il provvedimento produttivo del danno aveva già cessato i suoi effetti in conseguenza dell’annullamento operato dal citato decreto del Ministro della Salute del 23/1/2021, preclusivo dell’attività impugnatoria ([12]).
Si è pertanto chiarito che: a) l’azione risarcitoria va spiegata innanzi al giudice amministrativo ex artt. 7 e 20 c.p.a.; b) a prescindere dal gioco delle rivalse, nel quale sarà inevitabilmente coinvolto chi abbia fornito i dati errati che hanno condotto all’ordinanza illegittima, il danno è direttamente causato dall’ordinanza del Ministro della salute; c) i centoventi giorni per ricorrere decorrono dal momento dell’avvenuta conoscenza del fatto dannoso, che può individuarsi al più tardi nella successiva ordinanza del Ministro, che ne ha fatto emergere l’illegittimità.
Se il ragionamento sviluppato è corretto, resta il dato di fatto, incontestabile, secondo cui nelle more della vigenza del provvedimento illegittimo, successivamente rimosso, l’esercizio di numerosissime attività commerciali lombarde è stato sospeso o ristretto e ciò ha provocato danni economici di intuitiva gravità e capillare diffusione, che non possono ritenersi compensati da eventuali ristori, atteso che questi ultimi sono per definizione (anche nominale) somme di denaro forfettariamente quantificate e irrelate rispetto agli effettivi danni patiti ([13]).
5. Niente sarà più come prima?
Quanto osservato lascia credere che il danno da illegittima misura di contenimento della pandemia possa scuotere il terreno, da sempre in fibrillazione, della responsabilità civile della P.A. Le richieste di danni conseguenti all’erronea classificazione della Regione Lombardia in zona rossa potrebbero evocare il colpo di pistola sparato a Sarajevo nel giugno del 1914, portando a concludere che, anche in questo campo, dopo il virus niente sarà più come prima. È al momento impossibile dire se il sistema reggerà all’urto di una quantità inimmaginabile di pretese risarcitorie o se i suoi confini saranno per l’ennesima volta ridisegnati. È però doveroso osservare che la definizione di quei confini (e dunque la complessiva tenuta del sistema, anche dei conti pubblici) non sarà una questione di giustizia civile, tanto meno declinata nell’improbabile forma della class action (di cui manca ogni presupposto); sarà invece affidata alla giustizia amministrativa e alle sue rigorose regole sostanziali (ad esempio in punto di sindacabilità della discrezionalità tecnica degli atti amministrativi per manifesta illogicità o erroneo apprezzamento di dati di fatto inopinabili) e processuali (ad esempio in punto di stringenti termini decadenziali per agire in via risarcitoria e/o impugnatoria).
[1] Galgano, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contr. impr., 1985, 159 ss.
[2] Ministero della salute, Ordinanza 16/1/2021, “Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per la Regione Lombardia”, in G.U., serie generale, n. 12 del 16/1/2021.
[3] Ministero della salute, Ordinanza 23/1/2021, “Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per la Regione Lombardia”, in G.U., serie generale, n. 18 del 23/1/2021.
[4] Per una chiara descrizione del “caso” e delle ragioni delle reciproche accuse di Ministero della salute e Regione Lombardia v. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2021/01/25/sette-giorni-in-zona-rossa-per-un-errore-no-e-colpa-dellalgoritmo-cronanca-critica-della-diffusione-dei-dati/?refresh_ce=1
[5] “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 maggio 2020, n. 35, recante «Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19», e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, recante «Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19»”, in G.U., serie generale, n. 275 del 4/11/2020, suppl. ord. n. 41.
[6] Come descritto dal documento di “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno invernale”, condiviso dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome l’8/10/2020.
[7] Cottarelli – Gottardo – Olivari, Come fa una regione a finire in zona rossa? Chiariamo i 21 indicatori, https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-come-fa-una-regione-a-finire-in-zona-rossa-chiariamo-i-21-indicatori
[8] Per comprendere cosa sia Rt occorre fare un passo indietro e partire dal “numero di riproduzione di base” (R0) che, nella definizione offerta dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS), «rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente. Questo parametro misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva». Sempre secondo l’ISS, mentre «R0 rappresenta quindi il potenziale di trasmissione, o trasmissibilità, di una malattia infettiva non controllata [ed] è funzione della probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, del numero dei contatti della persona infetta e della durata dell'infettività. La definizione del numero di riproduzione netto (Rt) è equivalente a quella di R0, con la differenza che Rt viene calcolato nel corso del tempo. Rt permette ad esempio di monitorare l’efficacia degli interventi nel corso di un’epidemia»: https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/faq-sul-calcolo-del-rt
[9] Si tratta di una sospensione pressoché completa: resta infatti la teorica possibilità, per i negozianti al dettaglio, di effettuare consegne a domicilio, anche tramite piattaforme on line. Nella realtà, è noto a tutti che il commercio on line sia governato a livello globale da poche multinazionali ed è comunque intuitivo che la predisposizione di una piattaforma di commercio elettronico implica ingenti costi di riconversione dell’attività.
[10] COVID-19 – Domande frequenti sulle misure adottate dal Governo, http://www.governo.it/it/articolo/domande-frequenti-sulle-misure-adottate-dal-governo/15638#zone
[11] A partire da Cons. Stato, Ad. plen., 23/3/2011, n. 3, in https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=17820&content=&content_author=, con nota di M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni.
[12] Al momento in cui si scrive pare che l’errore sia derivato dall’errato conteggio dei guariti tra i positivi e dal conseguente errato calcolo dell’indice Rt, risultato inevitabilmente più alto di quello effettivo. Certo è, però, che l’errore è stato emendato e che la Lombardia, dopo una sola settimana, è stata “promossa” dallo stesso Ministero a zona arancione.
[13] La Confcommercio lombarda ha ad esempio stimato i danni patiti a causa di una settimana del blocco forzato delle attività, avvenuto peraltro nel periodo dei saldi invernali, in 600 milioni di euro: v. la Repubblica, ed. Milano, 24 gennaio 2021, Il pasticcio della zona rossa in Lombardia, il conto dei commercianti: “Danni per 600 milioni”.
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