ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Riforma che verrà. Quale giustizia tributaria?*
di Giovanni Diotallevi
La giustizia tributaria è stata oggetto, nell’ultimo anno e mezzo, di numerose proposte di riforma che evidenziano una serie di caratteristiche comuni sintetizzabili nell’affidamento della sua gestione non più al MEF ma alla Presidenza del Consiglio dei ministri, nella previsione di istituire sostanzialmente una quinta magistratura, dopo quella ordinaria, amministrativa, contabile e militare, attraverso un ruolo autonomo distinto della magistratura tributaria, con progressivo ridimensionamento dei giudici onorari, fino alla composizione del suo organico con magistrati a tempo pieno, assunti per concorso pubblico, per titoli ed esami, anche su base regionale. Le competenze tra i tre gradi di giudizio sarebbero suddivise tra l’istituendo Tribunale tributario, la Corte di appello tributaria, e la sezione tributaria della Corte di cassazione, che dovrebbe trovare una sua collocazione autonoma per legge. Vi è anche la previsione di un giudice monocratico in primo grado, prevalentemente onorario, per controversie non superiori ad un determinato importo; troverebbe poi una sua specifica valorizzazione l’istituto della mediazione[1].
Queste proposte, indicate sommariamente, meritano una attenta riflessione perché, accanto ad alcune soluzioni condivisibili, nella loro struttura portante individuano opzioni che fanno sorgere una serie di perplessità in ordine alla loro effettiva praticabilità.
Credo che una delle peculiarità positive del modello di processo tributario su cui si possa ragionare in maniera condivisa possa essere quello di un modello intrinsecamente flessibile, che non perda di vista la necessità di una sua coerenza rispetto al modello tendenzialmente unitario del “giusto processo”, che, anche in questo caso, trova la sua sintesi nel giudizio di cassazione.
Mi sembra necessario dunque perseguire l’obiettivo di ragionare su una ipotesi di intervento strutturale praticabile, che non si pieghi alla logica della provvisorietà, idoneo a sostituire, almeno in parte, ma in modo significativo, l’attuale struttura ordinamentale della giustizia tributaria con evidenti ricadute anche sulla struttura della fase processuale.
Capace di caratterizzarsi come un modello “costituzionale”, né debole né forte, ma “riconoscibile”, anche in relazione al suo carattere documentale e alla esigenza di rapidità ad esso collegata[2].
E questo sotto tre diversi profili. Per il carattere di terzietà ed imparzialità dei giudici che ne fanno parte. Per le modalità di accesso dei suoi componenti. Per la qualità della giurisdizione che deve esprimere.
Tutti aspetti che richiedono quindi anche una riforma ordinamentale “possibile” della giustizia tributaria.
A tal fine è opportuno ricordare che, con Ordinanza n. 227/2016, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’attuale impianto.
Le questioni di legittimità costituzionale sui D.lgs. n. 545/92 e n. 546/92, sollevate dalla CTP di Reggio Emilia con riferimento alla possibilità che l’ordinamento e l’organizzazione della giustizia tributaria non fossero compatibili con la garanzia di indipendenza del giudice, sono state ritenute inammissibili dalla Corte costituzionale, perché erano stati richiesti plurimi interventi creativi, caratterizzati da un grado di manipolatività tanto elevato da investire non singole disposizioni o il congiunto operare di alcune di esse, ma un intero sistema di norme, e, in generale, il sistema organizzativo delle risorse umane e materiali della giustizia tributaria», «interventi in linea di principio estranei alla giustizia costituzionale, poiché eccedono i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore»[3].
Ma questa ordinanza, al di là della dichiarazione di inammissibilità, ha comunque inteso proporre al legislatore un intervento sul sistema della giustizia tributaria.
E’ vero che la Corte costituzionale ha in più occasioni affermato l’assenza di un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i vari modelli processuali e che tale diversificazione non contrasta con il criterio di ragionevolezza che deve ispirare le scelte legislative, in particolare per la spiccata specialità del processo tributario.
E’ un approccio di carattere funzionale, oggi temperato nella logica del “giusto processo”, legato all’interesse fiscale e sistematico che ricerca piuttosto una sorta di contaminazione tra principi “forti” e principi “deboli” sotto il profilo costituzionale, proprio perché la rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria, giustifica, certo, i penetranti poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, ma non implica assolutamente, né consente che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale[4].
Se questo è, in sintesi, lo scenario di partenza credo che debba escludersi la possibilità che, per i gradi di merito, la giustizia tributaria possa essere incorporata all’interno della giurisdizione ordinaria, sic et simpliciter, perché, allo stato, le carenze strutturali, umane e materiali, non consentirebbero di adeguare la sua azione al principio di buon andamento evocato dall’art. 97 della Costituzione.
Al contrario mi sembra praticabile, e sotto alcuni profili sagace, una proposta che intenda intervenire sulla struttura ordinamentale dei gradi di merito, in particolare sull’appello; con la piena consapevolezza dei limiti che pone l’art. 102 della Cost., proprio perché non è tale da impattare con i serissimi dubbi di costituzionalità che si dovrebbero affrontare invece perseguendo l’idea di realizzare una nuova giurisdizione speciale.
La configurazione di una sezione specializzata della Corte d’appello composta da magistrati ordinari con l’ausilio di giudici onorari con competenze specifiche, prefigura, in quest’ottica, un approccio culturale e professionale alla materia, ragionevolmente idoneo a fornire una risposta complessiva di qualità, potenzialmente capace di incidere sulla necessità di proporre ricorsi per cassazione in ragione di una giurisprudenza dei giudici di merito non pienamente soddisfacente; anche se mi sembra corretto sottolineare il miglioramento della qualità complessiva del prodotto giurisdizionale intervenuto negli ultimi dieci anni; che comunque è suscettibile di ulteriori miglioramenti.
Si tratta allora di costruire un modello, per le Corti di appello, che potrebbe fare riferimento ai collegi del giudizio minorile di merito, con esperti ( magistrati onorari appunto) scelti tramite un concorso per titolo ed esame, una sola prova in materia tributaria, necessariamente a tempo, per rispettare il carattere dell’onorarietà.
In parte si tratta di riproporre anche l’operazione fatta con l'art. 2 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 con cui sono state istituite delle vere e proprie sezioni specializzate in materia di impresa; anche nel nostro caso verrebbe affidata la trattazione di controversie in cui è necessario assicurare la presenza di una peculiare specializzazione del Giudice in ragione dello specifico tasso tecnico richiesto dallo studio della materia.
Si può prevedere un’ulteriore subordinata. Forse potrebbe essere replicabile anche in questo caso, come avviene nelle sezioni specializzate in materia di impresa, in determinate situazioni di carichi non particolarmente gravosi, per i magistrati ordinari, la possibilità di prevedere un impegno part time nella sezione specializzata con la conseguente trattazione di processi differenti, a condizione che tale attribuzione non comporti ritardo nella decisione dei giudizi in materia tributaria. Ovviamente la previsione dovrebbe trovare una compiuta tabellarizzazione nella individuazione dei criteri cui dovrebbero fare riferimento i Presidenti di Corte d’appello.
Un’ultima considerazione riguarda i costi della specializzazione che non si possono evitare: nella formazione, nelle strutture, nell’aggiornamento dei giudici; soprattutto nel consentire loro di dedicarsi, in modo se non esclusivo, assolutamente prevalente, a una sempre più impegnativa ‘specializzazione’, che richiede - a fianco delle tradizionali conoscenze giuridiche - conoscenze in materia di economia, di commercio e prassi internazionali, di linguaggi e ordinamenti diversi dai nostri. Favorisce questa scelta inoltre, la circostanza che anche nelle CTR è ormai stato introdotto il Processo tributario telematico.
Quello che ho descritto è tuttavia uno scenario che in prospettiva non mi sembra che possa interessare esclusivamente le Corti di appello, perché è comunque necessario affrontare il problema, pur mantenendo ferma la situazione esistente per le Commissioni di primo grado, della creazione di canali di collegamento istituzionali tra i gradi di merito e tra questi e la Corte di cassazione.
La creazione delle sezioni specializzate presso le Corti di appello si collega, infatti, alla necessità di apportare comunque miglioramenti nel funzionamento degli organi giurisdizionali di primo grado. Anche se allo stato dovrebbe trovare conferma nella sostanza la sua attuale configurazione. E’ una scelta che appare giustificata dalla natura accidentata del terreno su cui poggia l’intervento riformatore, per cui sembra utile muoversi in una prospettiva prudente; una scelta quasi obbligata, da gestire con la consapevolezza di evitare che le CTP divengano un corpo separato rispetto al grado di appello e di legittimità, soprattutto se dovesse mancare un collegamento organico con i gradi superiori.
Collegamento che però può essere individuato da un lato nel possibile reclutamento dei giudici onorari d’appello anche tra i componenti laici delle CTP, dopo un congruo periodo di servizio, da affiancare ai magistrati onorari assunti direttamente tramite un concorso per titoli ed esame, in materia tributaria, e dei magistrati ordinari con funzioni part time, membri delle CTP, che intendano trasferirsi a domanda nella sezione della Corte d’appello specializzata, questa volta a tempo pieno, salvo eventualmente le diverse previsioni tabellari.
Un altro canale di collegamento, insieme alla necessità di rimodulare tempi e spazio di controllo sulla professionalità tramite il CPGT, potrebbe riguardare la valorizzazione del procedimento conciliativo preprocessuale e la sua caratteristica “compositiva”, magari introducendolo espressamente anche nella fase processuale d’appello, per le controversie nelle quali l’accordo di mediazione non sia stato raggiunto in precedenza.
C’è un infine un risultato di fondo che sembra importante sottolineare: questa scelta di muoversi per raggiungere una omogeneità di base sulla qualità del sistema processuale, intervenendo sulle caratteristiche ordinamentali della giustizia tributaria, pur mantenendo alcune specificità che derivano proprio dalla specialità della materia, come per esempio il rafforzamento dei poteri del CPGT, guardano con maggiore nitore al giusto processo come approdo condiviso, ai cui principi può fare riferimento, a mio parere, anche il processo tributario, fermo restando un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti secondo il quadro delineato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 109 del 2007.
E questa mi sembra non l’ultima delle ragioni per percorrere questa prospettiva di riforma.
*Il contributo fa riferimento all’intervento tenuto nel corso del Webinar “La Riforma che verrà. Quale giustizia tributaria?” organizzato da AREA DG il 27 novembre 2020
[1] Si vedano, ad esempio, le proposte presentate alla Camera dei deputati n. 1521 del 21.01.2019, prima firmataria l’On.le Martinciglio + 8 (M5S) e la proposta n. 1526 del 23.01.2019, primo firmatario l’On.le Centemero + 83 (Lega) e, nella precedente legislatura la proposta di legge C. 3734 presentata l'8 aprile 2016 dall’ on Ermini e dall’on. Ferranti (PD) e nell’attuale legislatura al Senato la proposta n. 243 del 10.04.2018, primo firmatario il Sen. Luigi Vitali (Forza Italia); la proposta n. 714 del 25.07.2018, primo firmatario il Sen. Caliendo (Forza Italia); la proposta n. 759 del 07.08.2018, primo firmatario il Sen. Nannicini (PD); la proposta n. 1243 del 18.04.2019, primo firmatario il Sen. Romeo + 49 (Lega).
[2] v. sent. Corte cost. n. 141/98.
[3] V. Corte cost., Ordinanza n. 227 del 2016.
[4] v. Corte cost., sent. n. 109 del 2007.
Cosa succede all'ANM e perchè ci deve interessare tutti.
di Morena Plazzi, segretaria del Movimento per la Giustizia Articolo 3
Sono trascorse alcune settimane dalle elezioni del Comitato Direttivo Centrale (di seguito CDC) dell’Associazione Nazionale Magistrati, quello che le cronache giornalistiche definiscono “parlamentino” dell’ANM.
Il 18, 19 e 20 ottobre parteciparono al voto telematico 6.101 magistrati pari al 85,92% dell'elettorato attivo, e questo sembrò un buon risultato, un nuovo investimento di fiducia da parte di tantissimi magistrati in un gruppo di colleghi scelti per rappresentarli e per dare concretezza agli scopi dell’associazione contenuti all’art. 2 del suo Statuto.
Dei 36 eletti, 11 sono i magistrati della lista di Area Democratico per la Giustizia, 10 di Magistratura Indipendente, 7 di Unicost, 4 di Autonomia Indipendenza e 4 della Lista 101, la novità di questo turno elettorale.
Il nuovo CDC veniva convocato il 7 novembre con un ordine del giorno molto semplice: la verifica della regolarità dei titoli dei suoi componenti e poi l’elezione delle cariche previste dall’art. 31 co. 2 dello Statuto: il Presidente dell’Associazione, il Vice Presidente, il Segretario Generale, il Vice Segretario Generale, il Direttore del giornale e gli altri componenti della Giunta Esecutiva, nonché la nomina i componenti dell’Ufficio Sindacale, e tra di loro il Coordinatore dell’Ufficio Sindacale, e il Tesoriere.
All’ordine del giorno anche il tema, di pressante attualità, dell’emergenza derivante dalla pandemia e dunque la valutazione degli interventi normativi relativi a misure organizzative e processuali e le iniziative a tutela delle assenze per malattia.
Dal 7 novembre cosa è accaduto?
Si cerca qui di spiegarlo, anche se già a chi scrive sembra faticoso da comprendere e questo anche dop aver seguito in ogni sua fase questa seduta del CDC che, di rinvio in rinvio, si prolunga oramai da un mese, e che finora ha portato solo alla richiesta di un incontro con il Ministro della Giustizia sull’emergenza Covid.
Se si trattasse di un film di Sergio Leone o di Quentin Tarantino diremmo che siamo nel tipico stallo alla messicana: il gruppo che ha riportato il maggior numero di voti e tra questi il maggior numero di preferenze per un candidato, Luca Poniz, Presidente della Giunta uscente, pur essendo indicato dagli altri come il soggetto attore di ogni attesa iniziativa avendo dalla sua un numero più alto di componenti, si trova in realtà ad essere l’oggetto di una serie di chiusure pregiudiziali che impediscono la nascita dell’organo esecutivo dell’Associazione, la Giunta Esecutiva Centrale, e ancor prima l’elezione del Presidente.
E’ una pregiudiziale espressa e dichiarata quella che arriva da Magistratura Indipendente che per discutere qualsiasi ipotesi di Giunta unitaria (cioè con rappresentanti di tutti i gruppi presenti in CDC, come proposto da Area) ha comunicato il proprio veto al nome del magistrato che nelle elezioni aveva riportato il maggior numero di preferenze, un veto motivato in nome di una esigenza di “discontinuità” di questa ANM rispetto all’operato della precedente ed ultima Giunta.
Ma c’è anche una sostanziale condizione di attesa, di osservazione a distanza, diversamente graduata da parte di tutti gli altri rappresentanti eletti: nessuno tra questi si dichiara in grado di formulare proposte di impegno concreto per la formazione di una Giunta, tranne nel caso di un preventivo concorde impegno di Area ed MI.
E così, a conti fatti, c’è un 11 e poi.. il resto del mondo.
Nella ricerca di un punto di contatto tra varie posizioni nel corso dell’ultima riunione, quella del 21/22 novembre, veniva costituito, tra i componenti del CDC, un gruppo di lavoro ristretto per la stesura di un programma comune; vi partecipavano tutti i gruppi, tranne lista 101, e nella serata di sabato 21 sembrava si fosse trovato, con reciproche rinunce e con un dichiarato intento di mediazione, un programma che avrebbe dovuto assicurare, per l’indomani, la più ampia convergenza.
Ma già la mattina dopo Magistratura indipendente e Autonomia & Indipendenza, che pure avevano condiviso e sottoscritto il documento, si astenevano dal votarlo. Ai rispettivi report diffusi via mail le motivazioni di questa decisione.
Non si può che constatare come in questo momento, tra l’esperienza drammatica della pandemia (prima e seconda ondata), le riforme in gestazione in Parlamento, le ricadute ancora tutte da valutare ed affrontare dei fatti emersi dall’esame del telefono di Luca Palamara (prima e seconda ondata) sembra piuttosto bizzarro osservare un arrocco che ha il suo perno su una parola, “discontinuità”, quasi a significare una sorta di rigetto del lavoro svolto dall’ANM da maggio 2019 ad oggi.
Ma che cosa ha fatto la Giunta presieduta da Luca Poniz fino alla fine di ottobre scorso, in che cosa si dovrebbe oggi tracciare un segnale di discontinuità?
Provando a scorrere la pagina web della ANM si legge che la GEC uscente, presieduta da Luca Poniz e formata da Area, Unicost e A&I nel giugno 2019, all’indomani della deflagrazione della vicenda “Palamara-Ferri- CSM” e delle dimissioni del Presidente ANM Pasquale Grasso (MI) nelle sue linee programmatiche (16 giugno 2019) inseriva il proprio impegno per l’introduzione di riforme statutarie in tema di incompatibilità di incarichi, per la revisione del sistema elettorale del CSM, per una diffusa sensibilizzazione culturale per combattere il carrierismo che, dopo la riforma dell'ordinamento giudiziario, sembra interessare settori sempre più ampi della magistratura.
Non erano solo parole: già il 2 luglio 2019 quella GEC proponeva il deferimento ai Probiviri dell’allora Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione; subito dopo si attivava per la promozione di candidature dalle assemblee distrettuali della ANM in occasione delle elezioni suppletive per il CSM, quindi organizzava il congresso nazionale, tenutosi a Genova giusto un anno fa nel corso del quale su più fronti venivano poste al centro della discussione l’analisi dei fatti accaduti e le proposte per un rinnovamento dell’associazione.
La relazione introduttiva del Presidente riportava con chiarezza la centralità della questione morale e l’impegno dichiarato dell’Associazione ad affrontare questa crisi con le scelte più coerenti, anche quando difficili se non laceranti.
Fra queste vi è stata sicuramente quella del deferimento ai Probiviri dei magistrati coinvolti nella vicenda c.d. dell’Hotel Champagne, ed altri a questi fatti collegati, procedura disciplinare conclusa con la fuoriuscita (per dimissioni o condanna) di tutti i deferiti, ad eccezione di una sola posizione con sospensione di cinque anni; e poi la richiesta di conoscenza ed accesso a tutti gli atti del procedimento penale istruito dalla Procura della Repubblica di Perugia, richiesta quest’ultima che solo nello scorso mese di settembre veniva accolta.
Si rimprovera a chi ha guidato la Giunta uscente di aver indirizzato il proprio impegno solo in una direzione, ignorando le responsabilità “collettive” di tutte le correnti.
Eppure è proprio il gruppo che ha ricevuto il maggior numero di voti, AreaDG, a indicare come tema centrale, la precondizione per ogni aggregazione, la questione morale, in continuità con l’impegno profuso dalla Giunta uscente e quindi le riforme e gli interventi, anche sullo Statuto, per prevenire il ripetersi dei gravi fatti nei quali hanno giocato un ruolo pesante il carrierismo associativo, rapporti opachi con la politica e la spinta clientelare che i gruppi associativi hanno troppo spesso esercitato sull’autogoverno. Ed è la GEC uscente che ha concluso il proprio mandato ottenendo l’accesso agli atti di Perugia per poterne valutare i contenuti in relazione al codice deontologico al cui rispetto gli associati, tutti, devono attenersi.
Discontinuità con che cosa, dunque?
Il titolo di questo pezzo è “Cosa succede all'ANM…” ma facilmente ci si rende conto che qualsiasi relazione sullo stato delle cose risulta insoddisfacente, poco chiara e soprattutto riporta una realtà decisamente disallineata rispetto alle domande e alle esigenze di tutta la Magistratura italiana.
Il titolo prosegue “...perchè ci deve interessare tutti" perché si è convinti che sia interesse di tutti far sì che questa situazione trovi una soluzione (ma non un ripiego) in un momento nel quale è assolutamente necessario dotare la Magistratura di una rappresentanza forte ed autorevole, in grado di confrontarsi efficacemente, all’esterno, con il Ministero della Giustizia, con il Parlamento, con il Consiglio Superiore della Magistratura ed al proprio interno con l’impegno richiesto dall’Assemblea Generale degli associati lo scorso 20 settembre per l’avvio di una costituente per il rilancio dell’azione dell’ANM su rinnovate basi etiche e statutarie con il contributo paritario delle diverse sensibilità culturali presenti in magistratura.
E’ questo il momento in cui si devono superare le barriere che si levano a difesa di spazi di azione limitati e settoriali, se non personalistici, per iniziare davvero a lavorare.
Si deve far comprendere quello che accade, ed il perché.
Ma soprattutto dobbiamo impegnarci, e questo vale per tutti, indifferentemente, per far sì che quanto avviene dentro la nostra Associazione ancora ci interessi, perché se per oggi e per qualche tempo ancora vi sarà in molti tra noi l’idea che “... queste cose non si capiscono” tra poco arriverà il momento in cui molti diranno “…che queste cose non ci interessano”.
Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020.
di Maria Alessandra SANDULLI
Sommario: 1. Premessa. 2. Le origini del problema e l’utilità di “fare ordine” sulla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di “eccesso/rifiuto” di giurisdizione rispetto al quadro legislativo prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale. 3. Il percorso delle Sezioni Unite dalle ordinanze gemelle del 2006 alla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017: vera “interpretazione evolutiva” o “self-restraint”? 4. La conferma dell’atteggiamento (eccessivamente) prudenziale delle Sezioni Unite: la negazione, in concreto, di ipotesi di “creazione normativa” non riconducibili al potere generale di interpretazione e la (conseguente) ricerca di giustificare il sindacato sul “rifiuto di giurisdizione” con l’abnormità dell’“errore interpretativo” implicante diniego di tutela in contrasto con il diritto UE. 5. Segue: il percorso delle Sezioni Unite è stato “riduttivo” e non “evolutivo”. 6. La conferma dell’autolimitazione del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale anche nella giurisprudenza più immediatamente prossima alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale e la conseguente possibilità di “ridimensionare” la portata di tale sentenza. 7. Il self-restraint delle Sezioni Unite (anche) nella sentenza 18592 del 9 settembre 2020. 8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. 8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. 9. Verso l’individuazione di alcuni punti fermi. 10. Prime considerazioni sui quesiti proposti alla CGUE.
1. Premessa. L’ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, reagendo alla “rigida” lettura dell’art. 111, comma 8, Cost. propugnata dalla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, ha riaperto lo scontro tra i vertici della magistratura ordinaria e amministrativa, estendendolo al Giudice delle leggi e chiamandone arbitro la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sotto il profilo della compatibilità dei limiti al sindacato della Corte di cassazione sulle pronunce dei giudici amministrativi di ultima istanza con il principio di effettività della tutela giurisdizionale garantito dall’art. 47 della Carta di Nizza.
La pronuncia ha immediatamente scatenato un acceso dibattito, di cui sono stati frutto interessanti contributi scritti[1] e vari webinar, nel primo dei quali[2] io stessa ho svolto alcune prime considerazioni sul tema.
Nel condividere la preoccupazione generale sui rischi del coinvolgimento del Giudice sovranazionale su una questione interpretativa di una nostra disposizione costituzionale, la lettura dell’ordinanza alla luce del contesto in cui essa si inserisce fa a mio avviso sorgere un dubbio di fondo: era davvero necessario adire la Corte di Giustizia o le Sezioni Unite potevano cassare direttamente la sentenza impugnata? Come noto, nel terzo quesito, che traccia poi la rilevanza della questione per il caso controverso, l’ordinanza chiede alla Corte di Lussemburgo di chiarire se sia compatibile con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla stessa Corte di Giustizia (nelle, ormai varie, sentenze sui rapporti tra i motivi di impugnazione delle gare pubbliche), una normativa processuale nazionale (come quella ritenuta applicabile dal Consiglio di Stato) che impedisce al concorrente escluso da una gara con provvedimento di cui il giudice abbia affermato (sia pure in via non ancora definitiva) la legittimità, di vedere, comunque, esaminati anche gli ulteriori motivi di ricorso miranti (attraverso censure sulla legittima composizione della Commissione e sui criteri di valutazione delle offerte) all’annullamento dell’intera gara. Il tema, dunque, era, sotto una diversa angolazione, quello (potremmo dire, ormai, “solito”) della tutelabilità, in astratto, dell’interesse “strumentale” alla ripetizione della gara, che il Consiglio di Stato aveva qualificato di “mero fatto” e che le Sezioni Unite “dubitano” possa rientrare tra quelli che, sia pure con riferimento ai ricorsi incidentali reciprocamente escludenti e ai ricorsi con i quali lo stesso escluso chiedeva anche (con motivi aggiunti) l’esclusione degli altri concorrenti, la Corte di Giustizia ritiene giuridicamente tutelabili secondo il diritto dell’Unione.
Si trattava, pertanto, di una ipotesi “classica” di “diniego di giustizia”, censura che, a partire dalle note pronunce gemelle del 13 giugno 2006 sulla cd pregiudiziale di annullamento della tutela risarcitoria, seguite, a fronte del perdurante orientamento del giudice amministrativa a favore di tale pregiudiziale, dalla – più netta e “severa” – sentenza n. 30254 del 2008, ha “turbato” il “dialogo” tra la Corte di cassazione e i giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), già messo a rischio dall’improvvida estensione della giurisdizione esclusiva su “gruppi di materie”, opportunamente frenata dalla “storica” sentenza n. 204 del 2004, ingenerando la preoccupazione dei secondi di subire la “cassazione” delle proprie sentenze (oltre che per l’invasione dell’ambito delle altre giurisdizioni e della sfera riservata al “merito amministrativo”) anche per il cd “arretramento” dalla propria potestas iudicandi.
Al di là di alcune affermazioni di principio (su cui tornerò nei prossimi paragrafi), l’atteggiamento delle Sezioni Unite sul punto era sempre stato, tuttavia, estremamente prudente.
Il ricordato intervento del 2018 della Corte costituzionale (sulla cui effettiva portata si dirà meglio infra) ha però scatenato una reazione al “rialzo”, spingendo la Corte di cassazione a investire la Corte di Giustizia della ridefinizione del proprio ruolo di giudice ultimo di garanzia del rispetto del diritto dell’Unione da parte degli organi detentori del potere giurisdizionale nel nostro ordinamento.
2. Le origini del problema e l’utilità di “fare ordine” sulla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di “eccesso/rifiuto” di giurisdizione rispetto al quadro legislativo prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale. Per una più consapevole e proficua riflessione sull’ordinanza del 18 settembre, credo sia importante preliminarmente fare ordine sullo “stato dell’arte” della giurisprudenza prima e dopo la sentenza della Corte costituzionale e sulle questioni che la Corte di cassazione ha oggi portato all'esame della Corte di Giustizia, che, mi pare di poter affermare, sono, a ben vedere, diverse e, forse, a seconda dei punti di vista, meno o più eclatanti di quanto possa prima facie apparire.
Il problema dell’ambito del potere di “cassazione” delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti previsto dall’art. 111, comma 8, Cost. non è nuovo e, soprattutto, non è legato ai rapporti con il diritto UE. Mario Nigro, nella sua “Giustizia amministrativa”, negli anni ’70, rappresentava l’esigenza di “precisare l’ambito della verifica che la Cassazione è chiamata a compiere”, riportando le diverse formule usate dal Codice processuale civile e dalla Costituzione, per rilevare che “nessuna di tali disposizioni, come si vede, è idonea a fornire precisazioni circa il detto ambito”. Osservava quindi lo stesso illustre studioso che, per comprendere quale sia una questione di giurisdizione ci si deve rivolgere all’esame della giurisprudenza formatasi sulle norme vigenti: giurisprudenza che, nell’interpretazione dell'articolo 37 cpc, ha dato un significato ampio alla formula “difetto di giurisdizione”, ricomprendendovi, oltre alla figura di improponibilità assoluta della domanda per difetto di potere giurisdizionale, le seguenti figure: a), rifiuto di esercizio della potestà giurisdizionale sull’erroneo presupposto che la materia non possa essere oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale o che non possa essere oggetto della funzione giurisdizionale propria dell'organo investito della domanda; b), invasione dell'altrui giurisdizione, cioè di quella attribuita ad altro giudice (ordinario o speciale) e, c), cosiddetto eccesso di potere giurisdizionale, inteso dalla Suprema Corte come “sconfinamento dell'attività giurisdizionale ordinaria o speciale nel campo dei poteri spettanti ad organi amministrativi o legislativi o costituzionali”. Svolta questa premessa, il Maestro rilevava peraltro che le ipotesi di sconfinamento nel terreno di attività di organi legislativi e costituzionali si possono ritenere meramente teoriche e che lo sconfinamento nel campo legislativo si avrebbe quando il giudice non applica la norma esistente, ma una norma da lui creata e aggiungeva “ma è chiaro che di solito si tratta di mera e legittima attività interpretativa del giudice” (a sostegno dell’affermazione, citava le sentenze delle Sezioni Unite nn. 2543 del 1954 e 304 del 1967 e, in diverso senso, soltanto la sentenza n. 333 del 1946 che aveva annullato per eccesso di potere giurisdizionale una decisione della Commissione per i ricorsi in materia di proprietà intellettuale per avere applicato una norma che, a giudizio della stessa Suprema Corte, era incostituzionale per eccesso di delega[3]). Lo stesso Autore riconduceva poi alla tipologia “sconfinamento in campo riservato ad altro organo costituzionale” l’ipotesi in cui il giudice esamina tanto a fondo una questione di legittimità costituzionale da superare i limiti di valutazione della non manifesta infondatezza, dando però atto della circostanza che la Suprema Corte aveva escluso un tale caso di sconfinamento con la sentenza n. 82 del 1968. Da ultimo, sottolineava che la tendenza a estendere il difetto giurisdizione al di là dei limiti in cui lo colloca l'articolo 37 aveva portato la Cassazione a comprendervi i vizi inerenti alla stessa posizione dell'organo giurisdizionale (organo privo della indipendenza) o alla sua costituzione (collegio composto da un numero di membri diverso da quello fissato dalla legge), nonché “la mancata motivazione” e aggiungeva che, con riferimento all’impugnativa di decisioni dei giudici amministrativi, la Cassazione aveva invece “giustamente negato” che rientrassero fra i motivi attinenti alla giurisdizione le denunce di vizi di extra o ultra petizione, di violazione del giudicato e di “improponibilità del ricorso per carenza di legittimazione ed interesse ad agire (Cass. 3145/1983) o per tardività del ricorso”.
In altri termini, al di là della maggiore o minore rigidità nell’individuazione delle ipotesi effettivamente riconducibili alle tipologie del rifiuto di giurisdizione e all’eccesso di potere giurisdizionale e ferma – evidentemente – la grande difficoltà di distinguere lo straripamento o arretramento rispetto alla potestas iudicandi dal cattivo esercizio di tale potestas, non era in discussione che i “motivi di giurisdizione” che la Costituzione affida al sindacato della Corte di cassazione non si esauriscono nel “riparto” tra i diversi plessi giurisdizionali, ma coprono tutte le ipotesi di violazione, in eccesso o in difetto, dei cd “limiti esterni” alla giurisdizione[4]. La distinzione teorica tra violazione di legge (insindacabile) ed eccesso/rifiuto di giurisdizione (ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.) era stata cioè tradizionalmente fondata, ben prima che si parlasse di obbligo di disapplicazione delle disposizioni di legge in contrasto con il diritto comunitario (ricordo che quest’ultimo tema è emerso alla fine degli anni ’70[5], e che la Corte costituzionale ha accolto la tesi dell’obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con il diritto sovranazionale solo con la sentenza n. 170 del 1984) sulla differenza tra interpretazione (attività tipica del giudice) e (indebita) creazione giurisprudenziale di regole – sostanziali o processuali – nettamente contra legem (eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore) e, analogamente, tra negazione della tutela nel caso concreto per error in procedendo o in iudicando e negazione astratta e aprioristica della potestas iudicandi del proprio plesso giurisdizionale a fronte di situazioni soggettive giuridicamente protette dall’ordinamento.
3. Il percorso delle Sezioni Unite dalle ordinanze gemelle del 2006 alla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017: vera “interpretazione evolutiva” o “self-restraint”? Sui riferiti presupposti, la Cassazione ha cominciato, anche se molto lentamente, ad acquisire maggiore consapevolezza e sicurezza del proprio ruolo, non soltanto dimostrando una minore ritrosia (non parlerei infatti, comunque, visto l’atteggiamento sempre molto “accorto” e “prudente”[6], di maggiore larghezza) nel riconoscimento dello sconfinamento del giudice amministrativo nell'ambito della sfera riservata alla p.A.[7], ma anche – ed è questo evidentemente il tema oggetto di più acceso dibattito – spingendosi, in alcuni, ma pur sempre limitatissimi, casi, a rilevare (ancorché, come si dirà, tendenzialmente con altro nomen iuris) il cosiddetto “rifiuto di giurisdizione”.
In particolare, come ricordato in premessa, le pronunce gemelle del 13 6 2006 (ordd. 13559, 13660 e 13911), facendo peraltro sin da allora leva sul diritto comunitario, che aveva imposto di riconoscere tutela risarcitoria a ogni posizione soggettiva lesa dalla violazione delle direttive in tema di appalti pubblici[8], avevano stigmatizzato come “rifiuto di giurisdizione” l’orientamento dei giudici amministrativi che, prima del c.p.a., subordinava l’ammissibilità dell’azione risarcitoria alla c.d. pregiudiziale di annullamento[9]; e, due anni e mezzo dopo, a fronte della insistenza del giudice amministrativo (anche in sede di Adunanza plenaria) sulla pregiudiziale, la sentenza n. 30254 del 23 dicembre 2008, confermò, sia pure, come sottolineerò subito dopo, con diversa – e più complessa – motivazione, la riconducibilità di tale “diniego di tutela” a un problema di “giurisdizione”, sul quale si riconosceva, in virtù dell’art. 111, comma 8, Cost., il potere/dovere di intervenire. Invece di invocare, sic et simpliciter, il – più classico – e teoricamente acquisito, “rifiuto di giurisdizione” richiamato nel 2006, le Sezioni Unite giustificarono però il loro sindacato proponendo una puntuale esegesi del concetto di “giurisdizione” nella Costituzione. Osservava in particolare la sentenza che, alla luce della “convergenza” degli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 111, primo comma (“che, mediante i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, esprime quello di effettività della tutela giurisdizionale”), il termine “giurisdizione”, per quanto interessava ai fini della questione sottoposta alla Suprema Corte, “è termine che va inteso nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e dunque in un senso che comprende le diverse tutele che l'ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento”. La conseguenza di tale ragionamento era che “Se attiene alla giurisdizione l'interpretazione della norma che l'attribuisce, vi attiene non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall'ordinamento risulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio”. Il sindacato della Corte sul “rifiuto” dei giudici amministrativi di pronunciarsi sulle azioni risarcitorie non precedute dall’annullamento dell’atto illegittimo (o dalla declaratoria di illegittimità del silenzio) è ritenuto, in questo quadro, ammissibile in quanto dipendente “non da determinanti del caso concreto sul piano processuale o sostanziale, ma da un'interpretazione della norma attributiva del potere di condanna al risarcimento del danno, che approda ad una conformazione della giurisdizione da cui ne resta esclusa una possibile forma”, il che “si traduce in menomazione della tutela giurisdizionale spettante al cittadino di fronte all'esercizio illegittimo della funzione amministrativa ed in una perdita di quella effettività, che ne ha giustificato l'attribuzione al giudice amministrativo”. Al pt. 11.1, la sentenza rafforzava peraltro la prospettata ricostruzione, ritornando in certo qual modo allo schema tradizionale, laddove precisava che “Rientra d'altra parte nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l'operazione che consiste nell'interpretare la norma attributiva di tutela, per verificare se il giudice amministrativo non rifiuti lo stesso esercizio della giurisdizione, quando assume della norma un'interpretazione che gli impedisce di erogare la tutela per come essa è strutturata, cioè come tutela risarcitoria autonoma”, in quanto “è pacifico [invero] che possibile oggetto di sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione sia anche la decisione che neghi la giurisdizione del giudice adito”.
Attraverso il complesso iter logico seguito dalla sentenza, in altri termini, in nome della inscindibile coesione tra “giurisdizione” e “tutela giurisdizionale effettiva”, si cercava – condivisibilmente – di “svincolare” il “rifiuto di tutela” dalla problematica del labile confine tra “interpretazione” e “creazione”. Ciò si avverte chiaramente dal principio di diritto enunciato in chiusura, che, premessa la mancanza nel sistema di una norma che avallasse in modo chiaro l’orientamento della giurisprudenza sulla pregiudiziale, stabiliva che “Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”.
Le Sezioni Unite, confermando il loro atteggiamento di estrema cautela[10], avevano però cura di puntualizzare che “pur così ampliato il campo del suo impiego, la regola dei limiti esterni è in grado di servire allo scopo di espungere dall'area dei motivi attinenti alla giurisdizione ogni segmento del giudizio che si rivela estraneo alla ricognizione della portata della norma che attribuisce giurisdizione, ricognizione che costituisce invece l'oggetto su cui al giudizio del giudice amministrativo si può sovrapporre, modificandolo, quello della Corte di cassazione a sezioni unite”.
In altri termini, non si cercava affatto di aprire un varco per estendere il sindacato della Corte di cassazione a qualsiasi erronea “interpretazione di legge”, ma, in termini affatto diversi, si voleva evitare che il labile confine tra “interpretazione” e “creazione” (che aveva e ha di fatto precluso il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale su questioni di diritto sostanziale) potesse costituire un ostacolo – anche – al sindacato sul, sempre teoricamente ammesso, “rifiuto di tutela giurisdizionale” di posizioni giuridicamente protette nella forma (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) riconosciuta loro dall’ordinamento (nella specie della tutela risarcitoria, azione autonoma “senza pregiudiziali”).
Nella medesima linea, con la sentenza n. 3854 del 12 marzo 2012, le Sezioni Unite hanno rilevato l’eccesso di potere giurisdizionale di una sentenza e di due decreti camerali con i quali la Corte dei conti, attraverso un’errata lettura dell’art. 1, commi 232 e 233, della legge finanziaria n. 266 del 2005, avevano ritenuto che il giudice contabile di appello potesse dichiarare l’inammissibilità della domanda di definizione anticipata di una controversia fuori dai limiti entro i quali la legge attributiva gli consente di rifiutare una decisione nel merito.
4. La conferma dell’atteggiamento (eccessivamente) prudenziale delle Sezioni Unite: la negazione, in concreto, di ipotesi di “creazione normativa” non riconducibili al potere generale di interpretazione e la (conseguente) ricerca di giustificare il sindacato sul “rifiuto di giurisdizione” con l’abnormità dell’“errore interpretativo” implicante diniego di tutela in contrasto con il diritto UE. La “prudenza” con cui la Suprema Corte ha sempre affrontato – e continua ad affrontare – il tema del rapporto tra eccesso/rifiuto di giurisdizione e mera violazione di legge trova del resto piena conferma nel fatto che, nonostante l’innegabile tendenza del giudice amministrativo a sostituirsi a un legislatore sempre meno “coerente” e “convincente”[11], non constano, a tutt’oggi, pronunce che, in nome dell’art. 111, comma 8, Cost., abbiano riconosciuto in concreto l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore non traducentisi in un siffatto “rifiuto”[12].
Se è vero infatti che, come visto, a livello teorico, si ammetteva in termini generali che la Corte di cassazione, in quanto deputata dalla Costituzione a giudice supremo dei confini della giurisdizione, avesse il potere/dovere di sindacare e, se del caso, cassare anche le sentenze dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui, esorbitando dall’ambito tipico della potestas iudicandi, avessero coniato una “propria” regula iuris, sostanziale o processuale, le Sezioni Unite hanno, fino a oggi (e già prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale), costantemente e puntualmente dichiarato inammissibili i ricorsi proposti per tale motivo e cassato, peraltro assai raramente e sempre con rinvio al Giudice che le aveva emesse, soltanto le pronunce che, senza il chiaro supporto di fonti normative primarie (nel caso della pregiudiziale di annullamento e della definizione anticipata dell’appello alla Corte dei conti) o in frontale contrasto con il diritto UE (negli altri - comunque soltanto due - casi), avessero escluso, in modo, aprioristico e astratto, l’accesso alla tutela giurisdizionale di situazioni giuridicamente protette (che, proprio per tale “protezione”, tanto che abbiano la consistenza di un diritto soggettivo, quanto che abbiano quella di un interesse legittimo, non possono essere private, in via, appunto “presupposta” e “aprioristica”, di tale tutela; sicché il giudice competente a conoscere delle relative istanze non può, in via autonoma, perimetrarne l’ammissibilità in senso arbitrariamente riduttivo rispetto a quanto stabilito dalle fonti regolatrici dell’accesso alla giurisdizione).
Le stesse Sezioni Unite, del resto, hanno in varie occasioni rilevato la marginalità dell’ipotesi generale dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, osservando che tale ipotesi, presupponendo che il giudice applichi una norma da lui creata in luogo della norma esistente e che quindi eserciti un'attività di produzione normativa in luogo di un attività meramente euristica, non può che avere rilevanza meramente teorica (cfr., sostanzialmente in termini, inter alia, le sentenze 26 marzo 2012 n. 4769 e 28 febbraio 2019 n. 6059[13]). È significativo che anche la sentenza 30 luglio 2018 n. 20169, che menziona una serie di precedenti a sostegno dell’ammissibilità di tali ricorsi (sì che, a prima lettura, sembrerebbe dar conto di varie decisioni cassatorie), indica in realtà sentenze che, nelle specifiche fattispecie, li avevano dichiarati inammissibili, qualificando il vizio denunciato come mero errore interpretativo. La tradizionale e consolidata “ritrosia” della Corte di cassazione a sindacare l’eccesso di potere giurisdizionale “puro” nei confronti del legislatore emerge con evidenza anche dalla sentenza 30 ottobre 2019 n. 27842[14], che, a fronte di un’ipotesi inconfutabile di “creazione” di un “principio di diritto” ignoto all’ordinamento (la normativa transitoria introdotta dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017, a vantaggio dell’amministrazione, in materia di autorizzazioni paesaggistiche), ha brillantemente “evitato” di entrare nel merito della questione e di esprimere in qualche modo un’opinione sul punto, sia pure con un mero obiter dictum, trincerandosi dietro l’argomento che il potere conferitole dall’art. 111, comma 8, Cost. opera solo rispetto alle pronunce che, “definendo il giudizio di appello mediante accoglimento o rigetto dell’impugnazione e dettando la regola del caso concreto, siano per questo in concreto suscettibili di arrecare un vulnus all’integrità delle attribuzioni di altri” (e, dunque, non si estenderebbe alle – mere – regulae iuriscreate, in astratto, dall’Adunanza Plenaria!).
Senonché, per tenere saldamente fermo questo limite (che, verosimilmente, trae origine dal fatto che ogni giudice tende a rafforzare il potere interpretativo della giurisdizione, rifiutando in buona sostanza in radice l’idea della configurabilità di un eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore), ma, al tempo stesso, salvare il sindacato sul cd diniego di giurisdizione, le SS UU, invece di considerarlo, come pare ontologicamente più corretto, una species aggravata dell’eccesso di potere giurisdizionale, che, per la sua particolare gravità, rende meno fragile il confine tra interpretazione e creazione e osta a una lettura estensiva della funzione interpretativa, lo hanno progressivamente ricondotto proprio a tale ultima funzione, coniando l’ibrida figura del “radicale stravolgimento” delle norme di rito, mediante una “interpretazione” manifestamente “abnorme” delle medesime.
È molto chiara in tal senso, tra le tante, la sentenza 20360 del 2016, che, prima della sentenza 6/2018 della Corte costituzionale, ricordava come la Corte di cassazione avesse “precisato che l'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete e non quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico, potendo dare luogo, tale operazione, tutt'al più, ad un error in iudicando, non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (Cass. S.U. 12 dicembre 2012 n. 22784).” E rimarcava che la stessa Corte aveva, “ancora”, “chiarito che la violazione o falsa applicazione di norme processuali può tradursi in eccesso di potere giurisdizionale, denunciabile con ricorso per cassazione, soltanto nei casi in cui l'error in procedendo abbia comportato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia (Cass. S.U. 14 settembre 2012 n. 15428)”[15].
Si ha però l’impressione che proprio questa estrema attenzione e “prudenza” nel contenere le ipotesi di conflitto, che ha portato a qualificare il diniego di giustizia come una forma aggravata di error in procedendo, abbia, a ben vedere, dato il fianco all’intervento riduttivo del Giudice delle leggi.
Per quanto “abnorme” e “radicalmente stravolgente”, il “rifiuto di giurisdizione” è pur sempre (a mio avviso inutilmente) proposto, dalla stessa Corte di cassazione, come un “errore interpretativo”, ovvero come un vizio che, senza una lettura in chiave evolutiva e dinamica dell’art. 111, co. 8, nei termini indicati anche dall’ordinanza di rimessione, tale da affidare alla Corte di cassazione il sindacato ultimo sulla effettività della tutela, non potrebbe farsi rientrare nell’ambito “classico” dei “motivi di giurisdizione”.
5. Segue: il percorso delle Sezioni Unite è stato “riduttivo” e non “evolutivo”. Una prospettiva più distaccata – e meno “difensiva” delle tendenze creative rivelate da certa giurisprudenza amministrativa (penso, ad esempio, oltre al caso affrontato dalla richiamata Adunanza plenaria n. 13 del 2007, all’individuazione di ambiti “privilegiati” di potere sottratti al regime del silenzio assenso[16], all’obbligo di motivazione generalmente e inderogabilmente imposto dal legislatore per gli atti di autotutela[17], o alla configurazione di poteri impliciti con implicazioni sanzionatorie delle Autorità amministrative[18]) – mostra però che, al di là dei termini utilizzati, il riferito percorso della Suprema Corte, ben lungi dall’essere “evolutivo”, è stato in realtà “riduttivo”.
Essendo infatti innegabile che il rifiuto (astratto e aprioristico) di una forma di tutela prevista dall’ordinamento sia una forma particolare di eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore, la Corte ha finito a ben vedere proprio col circoscrivere tale “eccesso” (che ben potrebbe – e dovrebbe – rinvenirsi anche rispetto a norme di diritto sostanziale, ipotesi che però in concreto ha sempre escluso in nome della labilità del confine con l’interpretazione mai rilevato) alle forme più gravi e abnormi di “sconfinamento” nell’ambito legislativo, ovvero quelle attraverso le quali, mediante una indebita usurpazione del potere riservato alle fonti normative primarie, il giudice, con un indebito “arretramento” dal doveroso esercizio della potestas iudicandi conferitagli dalle norme di rito (“norme sulla giurisdizione”), abbia precluso in radice (in modo astratto e aprioristico) l’accesso alla giustizia.
È emblematica in tal senso la sentenza n. 2242 del 6 febbraio 2015, ampiamente citata nell’ordinanza di remissione alla CGUE, di cui, indubbiamente costituisce un’anticipazione.
In tale pronuncia le SSUU hanno cassato la sentenza del Consiglio di Stato a seguito di una sopravvenuta giurisprudenza della CGUE al fine di "impedire, anche nell'interesse pubblico, che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, con grave nocumento per l'ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l'attività di tutti gli organi degli Stati membri deve conformarsi alla normativa comunitaria. In altri termini, la Cassazione, che deve decidere di un motivo di difetto di giurisdizione, applica, nel momento in cui decide, la regola che risulta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e, se riscontra che la regola applicata dal Consiglio di Stato è diversa, cassa la decisione impugnata”. La decisione viene, peraltro, giustificata anche con l’esigenza di evitare la responsabilità risarcitoria dello Stato italiano.
Anche tale sentenza, tuttavia, mantiene un profilo di estrema prudenza. Nel “principio di diritto” specifica infatti che “In tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l'articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea, neppure sotto il profilo dell'osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ex articolo 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea”, ricostruendo il proprio potere come sindacato “eccezionale” sull’interpretazione, giustificato dal riferito contrasto con quella, anche sopravvenuta, data dalla Corte di Giustizia. Si afferma infatti nel successivo periodo, significativamente introdotto da una congiunzione avversativa, che “Tuttavia, è affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo va cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è riscontrata essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso affermato con l'interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.
Lungi dall’allargare l’ambito astrattamente consentito dall’art 111, co 8, quando ha portato al vaglio della Corte costituzionale la questione dell’estensibilità del sindacato sulla giurisdizione al diniego di giustizia rispetto alla giurisprudenza CEDU, la Corte di cassazione lo aveva quindi, nella sostanza, ristretto.
6. La conferma dell’autolimitazione del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale anche nella giurisprudenza più immediatamente prossima alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale e la conseguente possibilità di “ridimensionare” la portata di tale sentenza. Nella stessa linea si poneva anche l’ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016, con cui, poco più di un anno dopo, le Sezioni Unite – adite per “motivi di giurisdizione” avverso una sentenza con la quale il Consiglio di Stato, in applicazione all’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), aveva dichiarato l’inammissibilità delle azioni proposte da alcuni medici dopo il termine decadenziale (15 settembre 2000) previsto dalla suddetta legge, invocando la circostanza che, dopo il deposito di tale decisione, la Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da altri medici che versavano nella medesima condizione giuridica dei ricorrenti, aveva accertato la violazione dell’art. 6 CEDU[19] – avevano ritenuto di potere, in via analogica a quanto fatto nel 2015 per il denunciato contrasto con la giurisprudenza UE, sindacare tale sentenza per “motivi di giurisdizione” e avevano conseguentemente, ritenuto di poter, direttamente, rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità del suddetto art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 “nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.
In tal modo, più o meno consapevolmente[20], la Corte di cassazione ha aperto il varco al Giudice delle leggi per intervenire (attraverso la pregiudiziale decisione sulla rilevanza) sull’ammissibilità della proclamata “estensione” del controllo sulla “giurisdizione” riservatole dall’art. 111, comma 8, Cost. ai casi di “abnorme interpretazione” delle regole processuali in senso riduttivo del diritto alla tutela.
Ed è (soltanto) su questa “estensione” che la Consulta esprime, anche se in modo forse eccessivamente duro, il proprio giudizio negativo.
Ricorda, del resto, il Giudice costituzionale, nella sentenza 6/2018, che l’ordinanzadi rimessione, ricostruendo l’interpretazione consolidata dell’art. 111, comma 8, Cost. (che la sentenza, si badi, non contesta!), aveva sottolineato che “A tale stregua, il rimedio in questione sarebbe esperibile nell’ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale esercitandola nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negandola sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale ovvero nell’ipotesi in cui abbia violato i cosiddetti limiti esterni della giurisdizione, allorquando, cioè, si pronunci su materia attribuita al giudice ordinario o ad altro giudice speciale, oppure neghi la sua giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro giudice”.
La Consulta non ha dunque contestato il potere della Cassazione di sindacare il rifiuto radicale di giurisdizione, il quale, come detto, lungi dal costituire (come riduttivamente ritenuto dalle Sezioni Unite) un “abnorme” errore interpretativo, deve essere più correttamente ricondotto a una forma di eccesso di potere giurisdizionale in forma di arretramento (rispetto al potere/dovere di tutela conferito al giudice dal contesto normativo di riferimento).
Al pt. 15, la sentenza 6 ha anzi, espressamente, affermato che “L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”.
Ciò posto, la Corte costituzionale ha, in termini affatto diversi, escluso - soltanto - che l’art. 111, co 8, possa giustificare la tesi “evolutiva” secondo cui “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri”, ammetterebbe soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, dirette a consentire, in via eccezionale, la censura di sentenze “abnormi” o “anomale” con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti, attraverso uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”, una “interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”. Il sostanziale “arretramento” effettuato dalla Corte di cassazione attraverso l’autoqualificazione di siffatte questioni come “interpretative” (da ultimo, ancora l’ordinanza n. 19084 del 14 settembre 2020!) ha consentito in altri termini al Giudice delle leggi di negarne l’ammissibilità, con la motivazione, ex se difficilmente contestabile, che “attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”.
Per una più completa valutazione della posizione della Corte di cassazione prima della riferita decisione della Consulta merita peraltro soffermarsi anche sulla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017 (immediatamente precedente, dunque, all’arresto della Corte costituzionale), che ha, per la terza e, ad oggi, ultima volta (in un arco di oltre 70 anni) disposto una “cassazione” di una sentenza del Consiglio di Stato per “diniego di giustizia”. Ribadendo la posizione che ho sopra definito “riduttiva”, le Sezioni Unite avevano infatti anche in quella occasione sottolineato che “il sindacato esercitato dalle Sezioni Unite della Cassazione rispetto alle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti ha ad oggetto l'osservanza dei soli limiti esterni della giurisdizione e non anche dei suoi limiti interni (quali, ad es., gli errori in iudicando o in procedendo) pur quando ciò abbia determinato violazioni dei principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. Tale premessa è parimenti valevole con riferimento alle norme del diritto dell'Unione europea, la cui violazione non costituisce, in quanto tale, vizio attinente alla giurisdizione, neppure sotto il profilo della violazione dell'obbligo di rimessione alla Corte di giustizia delle questioni interpretative relative ai trattati e agli atti dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 T.F.U.E.”. E, per ammettere – e accogliere – il ricorso (originato per vero da una situazione di fatto di cui non smetterò mai di denunciare l’estrema gravità), hanno fatto appello a quella che esse stesse hanno qualificato ““ulteriore”interpretazione, c.d. "dinamica" o "funzionale" [dell’art. 111, comma 8] secondo la quale rientra nell'ambito della giurisdizione l'interpretazione della norma che quest'ultima attribuisca, …., pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela che a livello giurisdizionale possono essere impartite a garanzia che la protezione assicurata dall’ordinamentorisulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio”. Richiamando quanto affermato nel lontano 2008 sulla pregiudiziale di annullamento, la sentenza ha poi aggiunto che “Sarà quindi considerata norma attinente alla giurisdizione non solo quella volta a determinare i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che specifica i contenuti del potere specificando le forme di tutela finalizzate all'estrinsecazione del potere stesso”. In termini ancora più chiaramente indicativi di una posizione sostanzialmente “prudenziale”, la pronuncia sottolineava poi che “….resta ferma, anche nella giurisprudenza di legittimità posteriore [alla richiamata sentenza del 2008], l'esclusione da tale categoria delle questioni attinenti alla mera violazione del diritto dell'Unione europea (cfr. Cass. Sez. U. 2403/2014, 23460/2015, 3236/2012, 16886/2013, citt.) e dei principi del giusto processo (Cass. Sez. U. 3688/2009, 12539/2011, 16165/2011, 12607/2012, 12497/2017, citt.)”. E, a chiusura della proposta ricostruzione, osservava che “2.4. L'apertura alla nuova concezione della giurisdizione quale tutela delle situazioni giuridiche soggettive ha successivamente trovato ulteriore specificazione nell'orientamento secondo cui, alla regola della non estensione agli errori in iudicando o in procedendo del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, può derogarsi nei casi eccezionali o estremi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, tale da ridondare in manifesta denegata giustizia (tra le molte, Cass. Sez. Un. 14/09/2012, n. 15428; 30/10/2013, n. 24468; 12/12/2013, n. 27847; 04/02/2014, n. 2403; 06/02/2015, n. 2242; 31/05/2016, n. 11380; 17/01/2107, n. 964; 19/09/2017, n. 21620)”.
Con specifico riferimento allo spazio che, anche in questa ipotesi, spettava alla Corte di cassazione nel caso in cui la denegata giustizia fosse riconducibile al contrasto con il diritto UE, aggiungeva peraltro che “Con riguardo all'impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (attribuito dall'art. 111, ultimo comma, Cost. alla Corte di Cassazione) non ricomprende anche l'operare di una verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto eurounitario” e, nuovamente, circoscriveva il potere cassatorio, per “difetto di giurisdizione”, di una sentenza del Consiglio di Stato all’ipotesi in cui essa “si rilevi fondata su una interpretazione delle norme volta a negare alla parte la possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo; accesso che invece è garantito in base all'interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.
Nella specie, pur accogliendo il ricorso, ritenendo “contrastante con il diritto dell'Unione europea, così come statuito dalla Corte di Giustizia, una norma nazionale che, per quanto concerne ricorsi simmetricamente escludenti relativi a una procedura di appalto pubblico con due soli concorrenti, consenta al giudice di non procedere all'esame nel merito delle censure che un concorrente abbia azionato avverso l'ammissione del secondo concorrente quale conseguenza dell'accoglimento del ricorso di quest'ultimo rispetto all'ammissione del primo”, le Sezioni Unite rinviavano comunque la definizione della controversia al suo “giudice naturale”[21].
7. Il self-restraint delle Sezioni Unite (anche) nella sentenza 18592 del 9 settembre 2020. La posizione di self-restraintdelle Sezioni Unite rispetto alle ipotesi di “sconfinamento” del giudice amministrativo era stata peraltro confermata anche dalla sentenza 18592 del 9 settembre 2020 (già richiamata alle note 4 e 13), pubblicata solo nove giorni prima dell’ordinanza di rinvio alla CGUE, con la quale, avallando la decisione con cui il Consiglio di Stato, esorbitando peraltro dai limiti della domanda, aveva direttamente ordinato al Ministero dell’Università il rilascio di un’Abilitazione nazionale all’esercizio delle funzioni di professore universitario, le Sezioni Unite, pur riconoscendo la natura tecnico discrezionale della valutazione sottesa alla predetta Abilitazione, hanno supportato il Consiglio di Stato in un’operazione che, a parte l’indebita invasione della sfera amministrativa, si è sostanziata nella evidente “creazione” di una norma ampliativa del potere giurisdizionale totalmente eccentrica al sistema. Si legge infatti nella sentenza, in termini che lasciano sinceramente delusi sull’effettivo esercizio della funzione di controllo che la Cassazione sarebbe chiamata a svolgere, che “Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all'Amministrazione di attribuire alla (omissis) l'abilitazione scientifica nazionale (di seguito: "ASN") alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l'interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l'attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell'attività riservata alla Pubblica Amministrazione”, in quanto “la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed "evolutiva" delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall'art. 34, comma 1, lettera e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell'ottemperanza. E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche - e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza - possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all'esigenza di una tutela piena ed effettiva dell'interessato "secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo", cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all'introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto”.
Non è questa la sede per entrare più approfonditamente nel dettaglio della questione, ma non si può non rimarcare che essa non atteneva tanto al potere del giudice di anticipare alla fase di cognizione l’assunzione di misure idonee a dare attuazione al giudicato, bensì al potere del giudice di pretermettere la fase di valutazione tecnico discrezionale (che, anche in ottemperanza, esso è chiamato a effettuare, direttamente o attraverso un commissario appositamente individuato per le sue competenze tecniche), arbitrariamente avocandosi il potere (mai conferitogli dalla legge) di “sanzionare” la reiterata illegittimità dell’operato amministrativo trasformando un’abilitazione (che, a prescindere dal soggetto chiamato a rilasciarla, il legislatore ha costruito come esito di una “valutazione”) in un atto vincolato. E la soluzione accolta è tanto più grave in quanto, come chiaramente si legge nel riportato passaggio della sentenza, essa sarà utilizzata anche per le procedure concorsuali e, dunque, anche a danno di potenziali controinteressati!!
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Il confronto tra questa sentenza e la – immediatamente successiva – ordinanza di rinvio alla CGUE quindi, per un verso, rivela una sostanziale convergenza delle due magistrature supreme nella ricerca di “interpretazioni evolutive” a sostegno di una “estensione” dei propri poteri e nella giustificazione della potenziale lesione arrecata ad altri poteri con il richiamo all’effettività della tutela e ai principi del diritto europeo (che, singolarmente, nella prima sentenza fa “gioco” al Consiglio di Stato e nella seconda gli si ritorce contro), e, per l’altro, conferma una estrema – ed eccessiva – ritrosia della Corte di cassazione nel censurare gli “eccessi” del Consiglio di Stato, che, al di là delle affermazioni di puro principio, disconosce sempre in concreto e stigmatizza solo nel caso in cui si sostanziano in un “arretramento” e, anzi, come detto, attraverso l’indebita assimilazione all’errore interpretativo, in un “abnorme” arretramento, che peraltro, dopo le risalenti pronunce sulla pregiudiziale di annullamento (comunque ricondotte al diritto comunitario) e quella (del 2012) nei confronti della Corte dei conti, ha, fino ad oggi, riconosciuto (una volta nel 2015 e una volta nel 2017!) soltanto nelle ipotesi di “rifiuti” in frontale contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia.
8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. Anche l’ordinanza del 18 settembre, nella prima parte (al punto 26), riconduce a ben vedere il proprio sindacato per denegata giustizia agli “errores in procedendo”, ascrivendo comunque a tale categoria (piuttosto che a quella, a mio avviso, per quanto detto, più propria, dell’eccesso di potere giurisdizionale) “l’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell'Unione europea, direttamente applicabili, secondo l'interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia”.
Qualche spunto per una più corretta chiave di lettura del “rifiuto di giustizia” sembrava forse rinvenibile (solo) nella sentenza n. 771 del 2014, che, nel ribadire, anche in quel caso, l’inammissibilità del ricorso per error in iudicando o in procedendo, osservava come non fosse applicabile alla fattispecie controversa “il principio secondo il quale la questione di giurisdizione si presenta non solo quando sia in discussione la circostanza che essa spetti al giudice cui la parte si è rivolta, in quanto solo al medesimo competa di provvedere, ma anche allorché si debba stabilire se, in base alla norma attributiva della giurisdizione, ricorrano le condizioni alla cui presenza il giudice abbia il dovere di esercitarla (così Cass., sez. un., n. 2065/2011, che ha fatto seguito all'approfondita analisi cui a Cass., sez. un., n. 30254/2008; e cfr. anche, ex multis, Cass., sez. un., nn. 11075/2012 e 15428/2012)”. E ricordava che “E' stato infatti chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 362 cod. proc. civ., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall'affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, che non possa per questo essere da lui conosciuta (così Cass., sez. un., n. 3037/2013), sicché l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. Cass., sez. un., n. 10294/2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori in iudicando o in procedendo che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame”.
Al di là del generico richiamo all’effettività della tutela, la sentenza sembrava dunque (correttamente) distinguere il “rifiuto di giurisdizione” dall’ambito degli errori interpretativi, piuttosto che configurarlo come una tipologia eccezionale di tale categoria.
Più confusa e in parte contraddittoria, la ricostruzione proposta dall’Adunanza Plenaria 9 giugno 2016 n. 11, che comunque si riferisce, ancora una volta, all’ipotesi, più revocatoria che cassatoria, del contrasto con decisione CGUE sopravvenuta. Come rileva la suddetta ordinanza di rinvio, infatti, il Supremo Consesso giurisdizionale amministrativo aveva evidenziato “come sia già (...) presente nel nostro ordinamento il principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario o, più in generale, contrastante con norme di rango sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione”, ricordando testualmente [sempre l’Adunanza Plenaria] che “Come, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno anche recentemente ribadito, l'interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell'Unione europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un "limite esterno" della giurisdizione, rientrando in uno di quei "casi estremi" in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l'esercizio del potere giurisdizionale per "errores in iudicando" o "in procedendo" che danno luogo al superamento del limite esterno (...). In questi "casi estremi" (...) si impone la Cassazione della sentenza amministrativa "indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l'ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l'attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria"”.
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Al di là del nomen utilizzato, ciò che però soprattutto emerge dalla suddetta analisi è che il vero “criterio guida” sul quale, fino all’ordinanza del 18 settembre, la Corte di cassazione ha tracciato il confine tra violazione di legge (insindacabile) e motivo di giurisdizione (sindacabile) non era tanto – né soltanto – il contrasto con il diritto sovranazionale, ma proprio il “diniego di giurisdizione”, che, ma solo occasionalmente (si vedano infatti le sentenze del 2008 e del 2012, che lo hanno rilevato rispetto al diritto interno) tale contrasto ha aggravato (reso più “abnorme”). Si precisa infatti, nella stessa ordinanza di rinvio alla CGUE, che “si è ritenuto ammissibile il sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, per motivi inerenti alla giurisdizione, nei casi di radicale stravolgimento delle norme di rito, tali da implicare un evidente diniego di giustizia e un eccesso di potere giurisdizionale (Cass., Sez. Un., 17 gennaio 2017, n. 964; 12 ottobre 2015, n. 20413; 30 ottobre 2013, n. 24468; 14 settembre 2012, n. 15428)”.
Per parlare, ancora una volta, con la voce della Cassazione, si ricorda che la sentenza n. 956 del 17 gennaio 2017 aveva d’altro canto assai chiaramente precisato che “come già rilevato in casi simili dalle stesse sezioni unite in materia di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione - che l’articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione - non include anche una funzione di verifica della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea (sezioni unite, n. 14043, n. 14042 e n. 10501 del 2016) e l’error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale sol perché venga denunciata la violazione di nome funzionali quali chiarite dalla Corte di giustizia (ex plurimis, sezioni unite, n. 3915 del 2016; n. 2403 del 2014; n. 16886 del 2013)”. E, ancora più nettamente, ha specificato (al pt. 2.4), sgombrando il campo da possibili equivoci, che i “casi estremi” in cui un error in iudicando del Consiglio di Stato per contrarietà ad una pronuncia della Corte di giustizia, ove idoneo a realizzare un “radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, così come interpretate dalla Corte di giustizia” (e cita SS UU, nn. 11380 del 2016, 2242 del 2015 e 15428 del 2012), “si risolve eccezionalmente in un eccesso giurisdizionale tale da consentire il ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione [che] vanno necessariamente identificati [soltanto] in fattispecie in cui la decisione del Consiglio di Stato contraria alla giurisprudenza unionale preclude, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale con conseguente ingiustificato (anche dal punto di vista costituzionale) vuoto di tutela giurisdizionale per l’indicato “indebito rifiuto di erogare” tale tutela “a cagione di una malintesa autolimitazione”, in via generale, dei poteri del giudice speciale” (sezioni unite n. 2403 del 2014) con un “aprioristico diniego di giurisdizione” (sezioni unite n. 771 del 2014)”[22].
9. Verso l’individuazione di alcuni punti fermi. Alla luce delle precedenti considerazioni, mi sembra possibile individuare alcuni, primi, punti fermi.
Il primo.
Il rifiuto radicale di giustizia, sub specie di “arretramento” – aprioristico e astratto – dall’obbligo di fornire tutela giurisdizionale a una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento, adducendo ostacoli in rito manifestamente confliggenti con il sistema normativo primario, è una species, particolarmente grave, del genus “eccesso di potere giudiziario” nei confronti del potere legislativo.
Ricostruito in questi termini – e davvero non si vede come possa non esserlo – il “rifiuto” è, tipicamente, una “questione di giurisdizione” e rientra, come tale, nell’ambito delle garanzie primarie dello Stato democratico che il Costituente ha inteso assicurare, anche, e direi proprio, nei confronti dei giudici amministrativi, che più facilmente, anche per la loro istituzionale vicinanza al potere normativo (come consulenti istituzionali e come componenti degli uffici legislativi), possono propendere allo sconfinamento.
Il secondo.
In questi termini, il problema tocca o dovrebbe toccare solo accidentalmente il diritto eurounitario, ovvero lo tocca soltanto se e in quanto il “rifiuto” si realizza rispetto a una fonte UE, atteso che, per le stesse ragioni, la Corte di cassazione dovrebbe potere, e a mio avviso può e deve, cassare le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui “creino” un radicale e aprioristico vuoto di tutela, in frontale contrasto con il quadro legislativo interno: è quanto, del resto, era stato chiaramente affermato nelle pronunce gemelle del 2006 sulla vexata quaestio della pregiudiziale amministrativa (ed è stato, ancorché con una formula più incerta, affermato dalle richiamate sentenze n. 30254 del 2008 e n. 3854 del 2012).
Quello che vorrei cioè sottolineare è che il legame tra le vicende in cui la Corte di cassazione ha rilevato il diniego di giustizia e il diritto europeo (UE e CEDU) non può essere decisivo e, dunque, non solo giustificare, ma neppure esaurire, il sindacato su tale “rifiuto”.
L’argomento del “radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, così come interpretate dalla Corte di Giustizia” (invocato, ex plurimis, nelle sentenze nn. 11380 del 2016, 2242 del 2015 e 1548 del 2012), è, invero, piuttosto, servito alle Sezioni Unite per rafforzare la gravità (e i rischi) del rilevato diniego e, se mai, per circoscrivere – ulteriormente rispetto all’art. 111, comma 8 – l’ambito delle pronunce cassatorie, che, come visto, al di là delle numerose affermazioni di principio, non sono mai concretamente intervenute sull’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del nostro legislatore e, soltanto in due casi, sono state giustificate dal diniego di giustizia rispetto a una norma interna (ricordo, ancora, che le ordinanze gemelle del 2006 si limitarono a una “ammonizione” e che le sentenze n. 30254 del 2008 e n. 3854 del 2012 utilizzarono peraltro la formula dell’estensione della questione di giurisdizione ai “contenuti” della tutela).
Il terzo.
L’uso, molto accorto, che la Corte di cassazione ha fatto finora dello strumento e i limiti in cui essa stessa lo ha, come visto, dichiaratamente contenuto, negando in buona sostanza la concreta rinvenibilità di ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore in ambito sostanziale e riducendo quelle in ambito processuale all’aprioristico e “abnorme” diniego di giustizia (riconosciuto in un arco di 70 anni solo in quattro occasioni, di cui solo due in riferimento al diritto UE), rendeva molto remoto – e direi, anzi, puramente teorico – il rischio che esso si trasformasse, da garanzia dell’assetto costituzionale dei poteri pubblici, in un eccentrico terzo grado di giudizio amministrativo[23].
Il timore di una progressiva “colonizzazione” del terreno riservato al giudice amministrativo, attraverso un lento e progressivo tentativo delle Sezioni Unite di convergere verso l’unicità della giurisdizione[24], sembrava, quindi, in concreto infondato.
E, significativamente, esso si è palesato soprattutto quando si è temuto che la Suprema Corte, più che attraverso le sue (come visto, rarissime) pronunce cassatorie, nella motivazione sottesa al “rinvio” alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale delle norme in contrasto con le sentenze CEDU sui casi Mottola e Staibano, insistendo sulla portata evolutiva del concetto di giurisdizione e sul proprio potere di sindacare la decisione di inammissibilità assunta, in forza di tali norme, dal Consiglio di Stato (in violazione della Carta EDU), stesse in realtà cercando di legittimare un più ampio sindacato sull’interpretazione, suscettibile di sconfinare nella identificazione con il sindacato generale sulla violazione di legge di cui all’art 111, comma 7, Cost..
È questo, mi pare, anche alla stregua di un’attenta rilettura “a freddo” della sentenza n. 6 del 2018, il problema che ha preoccupato il Giudice delle leggi, che, lungi dal negare valenza alla suddetta costruzione “tradizionale”, ha semplicemente affermato che, fermo restando il sindacato sull’eccesso di potere nei confronti dell’amministrazione e del legislatore, e quello sull’aprioristico e astratto diniego di giustizia, il contrasto con l’interpretazione del diritto UE accolta dalla Corte di Giustizia non è di per sé idoneo a consentire alla Corte di cassazione un sindacato generale sulla – diversa – ipotesi della, pur abnorme, “interpretazione” del quadro normativo da parte del giudice amministrativo, per ciò che detto sindacato sarebbe assimilabile alla violazione di legge.
Per quanto sopra esposto, si tratta però, di un “falso problema”, ché, appunto, il rifiuto aprioristico di tutela di una posizione giuridica nelle forme stabilite dall’ordinamento non è una mera “violazione di legge”, ma è, incontrovertibilmente, una “questione di giurisdizione”.
Il quarto. In questo quadro, il problema della possibilità di rilevare/riconoscere il suddetto “rifiuto” (l’eccesso di potere giurisdizionale sub specie di rifiuto di giustizia) anche rispetto alle forme di tutela stabilite dal diritto dell’Unione e, più in particolare, all’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, presenta alcuni contorni particolari, legati, per un verso, al primato del diritto dell’Unione e al valore di “fonte” super primaria che si riconosce all’interpretazione datane dalla sua Corte e, per l’altro, alla peculiare funzione di quest’ultima, che, come ben rilevato in passato dalle stesse Sezioni Unite, “non opera, nell'esercizio del potere d'interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale” (sent. n. 6605 del 2015, cit.).
Sotto il primo profilo, si potrebbe dunque porre il problema se lo “sconfinamento/arretramento” rispetto alla regola interpretativa data dalla Corte di Giustizia sia davvero equiparabile a quello nei confronti del legislatore. Il secondo profilo rileva invece essenzialmente ai fini della configurabilità dell’omesso rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE come invasione delle competenze di un'altra “giurisdizione”. Un ulteriore profilo investe l’organo competente a risolvere tali questioni e, in particolare, la spettanza dell’ultima parola a un organo sovranazionale.
Si tratta, evidentemente, di interrogativi che non hanno e non avranno un’univoca soluzione.
Una cosa a me pare comunque certa. Il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale rispetto al diritto UE “va necessariamente insieme” a quelli sul “rifiuto” e allo “sconfinamento” rispetto al “quadro” tracciato dal legislatore interno: se si nega, nei fatti, quest’ultimo, perché lo si assimila all’errore interpretativo, non si può, a mio avviso, affermare il sindacato della Corte di cassazione solo per l’arretramento rispetto alla tutela assicurata a una posizione giuridica soggettiva dal diritto UE, perché non si riuscirebbe a ricondurlo a una “questione di giurisdizione”.
L’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia, del resto, è ben consapevole che le due cose “vanno insieme”: lo dimostra al pt. 41, laddove invoca il principio dell’equivalenza, rappresentando al Giudice sovranazionale che, in Italia, la Cassazione può effettuare il sindacato sull’eccesso di potere nei confronti del legislatore e che, in un caso come quello del giudizio a quo, rispetto al diritto nazionale, lo avrebbe effettuato, censurando l’operato del giudice per avere “esercitato poteri giurisdizionali di cui è privo”.
Il rischio del vuoto di tutela paventato dalle Sezioni Unite per giustificare il ricorso ai Giudici di Lussemburgo si percepisce, dunque, piuttosto, all’inverso e in termini più generali, nel fatto che, fino a oggi, il nostro “Giudice garante dei limiti della giurisdizione” abbia invece – tenacemente – disconosciuto la rilevabilità di ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale rispetto al legislatore e, per di più, “dequotato” il diniego di giustizia a mero errore interpretativo, avvertendo poi l’esigenza di ricorrere al radicale stravolgimento delle regole UE per giustificarne la sindacabilità, così, in buona sostanza, teorizzandone il confinamento a tale ipotesi (così peraltro indebolendo, se non radicalmente svilendo, il richiamo all’equivalenza).
Più delicato, indubbiamente, il problema se, spettando al Corte di Giustizia l’interpretazione delle regole unionali e imponendo l’art. 267 del TFUE ai giudici nazionali di ultima istanza di rimettere allo stesso Giudice sovranazionale i loro eventuali “dubbi”, il mancato rispetto di quest’obbligo di rimessione possa essere, ex se, ricondotto a una questione su “motivi di giurisdizione”, soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di cassazione. Per un verso, infatti, si tratta in questo caso, evidentemente, di una “interpretazione”, come tale, per quanto ripetutamente sottolineato dalle stesse Sezioni Unite, insindacabile ai sensi dell’art 111, co 8.
Per l’altro verso, tuttavia, è innegabile che la decisione sulla necessità o meno del rinvio impatta sulla “riserva” di interpretazione della Corte di Giustizia, tanto che il mancato rinvio è causa di responsabilità per gli Stati e, di conseguenza, per gli stessi giudici. Tali circostanze potrebbero indurre a ritenere che il mancato rinvio sia, in effetti, riconducibile ai “motivi di giurisdizione”. Nella linea seguita in questa analisi, non si può in proposito omettere di ricordare che, come visto, fino all’ordinanza del 18 settembre, la Corte di cassazione ha costantemente escluso che anche la propugnata lettura “evolutiva” della nozione di “giurisdizione” possa legittimare l’attrazione al suo sindacato del mancato esercizio di detto obbligo di rinvio (menziono, tra le altre, ancora una volta, la sentenza n. 6605 del 2015, cit., che, confermando la propria linea di estrema cautela, osserva che, dal momento che “la suddetta Corte non opera, nell'esercizio del potere d'interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale (in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale), il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato a detta Corte non configura una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr., tra le altre, s.u. n. 16886 del 2013)”; analogamente, oltre a quelle già richiamate, anche la sentenza n. 14042 del 2016).
Tornando però ai “punti fermi”, rilevo che, quale che sia la soluzione che si ritenga di accogliere in merito a tale profilo, non vi sono, a mio avviso, margini per una distinzione tra omesso rinvio su questioni processuali e omesso rinvio su questioni sostanziali, con conseguente oggettiva difficoltà di evitare un’apertura del varco al sindacato generale della Corte di cassazione su tutte le questioni di rilevanza eurounitaria (fermo restando che essa dovrebbe rimetterne la formulazione del quesito al Giudice amministrativo).
10. Prime considerazioni sui quesiti proposti alla CGUE.
Come si inserisce in questo contesto l’ordinanza del 18 settembre? In modo sicuramente dirompente.
Le Sezioni Unite compiono invero un indubbio révirement rispetto alla precedente giurisprudenza e, cancellando i confini entro i quali, come ricordato al pt. 23 della stessa ordinanza[25], con giurisprudenza consolidata, avevano delimitato il loro potere (abnorme stravolgimento di norme di rito tali da implicare un evidente diniego di giustizia e un eccesso di potere giurisdizionale, precludendo l’accesso alle forme di tutela riconosciute dall’ordinamento, anche attraverso l’interpretazione accoltane dalla Corte di Giustizia, ferma in ogni caso l’insindacabilità delle decisioni del giudice amministrativo per omesso rinvio ex art. 267 TFUE) e, “preoccupate” dall’arretramento annunciato, anche in tali casi, dalla propria giurisprudenza all’esito della richiamata sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale[26], allargano il compasso e, abbandonando (recte, rinnegando) l’atteggiamento riduttivo che riportava il diniego di giustizia a un errore interpretativo per ricondurlo (finalmente, ma, per quanto visto, per la prima volta) alla – inammissibile – “attività di produzione normativa”,
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I quesiti fanno riflettere sotto diversi profili.
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Torno allora sui quesiti.
Una volta preso atto dell’assoluta novità del percorso intrapreso dalle Sezioni Unite – e lasciata da parte la questione della insindacabilità da parte della Corte di Giustizia del nostro sistema di organizzazione dei rapporti tra le giurisdizioni e della scelta, a mio avviso puramente interna (e dunque salvaguardata dall’autonomia procedura degli Stati membri), di affidare o meno a un unico giudice (nella specie, l’organo di vertice della magistratura ordinaria, cui, tra l’altro, si affida la soluzione del conflitto tra le giurisdizioni) ogni ipotesi di sconfinamento/arretramento dalla potestas iudicandi – il primo quesito è davvero così dirompente? Forse anche no.
Mi sembra infatti di poter dire che – se, come si è sempre sostenuto, si identifica come “motivo di giurisdizione” ogni sconfinamento del giudice dalla sua potestas iudicandi e se, come è oggettivamente difficile negare, il giudice, amministrativo o ordinario, non ha il potere di coniare una regola “opposta” a quella stabilita dal diritto UE (che prevale anche sul potere legislativo interno), già chiaramente definita, in riferimento a fattispecie perfettamente sovrapponibili, dal suo interprete istituzionale – nel caso in cui una decisione di un giudice amministrativo di ultima istanza si ponga effettivamente in un siffatto frontale contrasto con una esplicita giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sembra possibile negare che si ponga una “questione di giurisdizione”, sindacabile dalla Corte di cassazione. Ma non per il fatto che essa è la vestale del controllo del rispetto del diritto UE, quanto piuttosto perché, come si è fino ad oggi pacificamente ritenuto (e la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 non ha negato), essa è il giudice ultimo del rispetto dei confini del potere giurisdizionale. E, se una questione di interpretazione del diritto UE è già stata risolta in una determinata direzione dalla sua Corte di Giustizia, non vi è più spazio per “interpretazioni” del nostro giudice: non soltanto per “creazioni”, ma neppure per “interpretazioni”. Non si potrebbe, quindi, invocare il “labile confine” tra le due operazioni che ha finora consentito alle Sezioni Unite di sottrarsi al potere/dovere di sindacare lo sconfinamento nel potere legislativo interno, giustificandone l’atteggiamento di self-restraint per le questioni che non si traducono (addirittura) in un diniego di giustizia. Il ragionamento svolto dalla Corte costituzionale può anzi, in quest’ottica, essere ribaltato: se non è ammissibile una “graduazione” del vizio, non lo è neppure per lo sconfinamento, che è sindacabile, non solo rispetto al diritto UE, ma anche rispetto al diritto interno, anche quando non si traduca in un diniego di giustizia.
Affinché si versi in questa situazione, occorre però che non vi siano margini di dubbio interpretativo: ovvero che la disposizione violata sia netta e inequivocabile o che la Corte di Giustizia si sia già pronunciata su quella specifica questione.
Delimitato in questi termini, lo spazio per il ricorso per “cassazione” di cui si chiede al Giudice sovranazionale di affermare (recte, ribadire) la necessità, sul presupposto (a oggi indiscusso e, per quanto detto, non verificabile dalla CGUE) che la nostra Costituzione affida alle Sezioni Unite il controllo sul rispetto dei limiti della giurisdizione, non sembra a ben vedere maggiore (se il giudice amministrativo resta nell’ambito del suo potere) di quello che il sistema riconosce (e che le Sezioni Unite dovrebbero più ampiamente utilizzare) per lo sconfinamento rispetto al diritto interno. Se poi le parti faranno abuso dello strumento, utilizzandolo in via strumentale al mero scopo di impedire il passaggio in giudicato delle sentenze dei giudici amministrativi, l’ordinamento interno dovrà trovarvi adeguati rimedi, con l’eventuale previsione di filtri e/o con un accorto uso della condanna alle spese.
Resta, tuttavia, un dubbio sulla rilevanza: nel caso rimesso alla Corte di Giustizia, infatti (i) si trattava proprio di un diniego di giustizia, ma (ii) la questione era (almeno parzialmente) diversa da quella (recte, quelle) già risolte dalla sua giurisprudenza. Il ricorrente escluso, infatti, non contestava (come riferito dall’ordinanza nell’ultima parte del terzo quesito[29]) l’ammissibilità delle offerte concorrenti (questione affrontata dalle precedenti pronunce della Corte di Lussemburgo), ma, più in generale, la validità della gara (illegittima composizione della Commissione e indeterminatezza dei criteri).
Il quesito più dirompente è infatti, a ben vedere, proprio il secondo: è parimenti riconducibile a un “motivo di giurisdizione” il mancato rinvio di un “dubbio interpretativo” alla Corte di Giustizia? È questa la questione centrale che viene, a mio avviso, sollevata dall’ordinanza: l’obbligo di rinvio pregiudiziale previsto dall’art. 267 TFUE è sufficiente ad affermare che il giudice nazionale, omettendo di disporlo, potrebbe avere, solo per questo, superato i confini del suo potere, giustificando così il “controllo” del Giudice garante dei confini della giurisdizione?
La risposta richiede alcuni passaggi logici.
Sembra invero difficile disconoscere che, nell’esercizio del potere di interpretazione, che è proprio di ogni giurisdizione, ci sia, evidentemente, anche quello di ritenere che il quadro normativo e giurisprudenziale non dà adito a dubbi. Se così è, l’eventuale errore commesso in tale valutazione (pur nella specie a mio avviso difficilmente disconoscibile) non sembra riconducibile ai “motivi di giurisdizione”, neppure invocando lo sconfinamento nella potestas della Corte di Giustizia, che, non solo non è propriamente “giurisdizione”, ma, soprattutto, è chiamata solo a risolvere i “dubbi”, laddove il giudice del caso concreto ne abbia rilevati. Il fatto che il giudice interno di ultima istanza abbia l’obbligo di rimettere i “dubbi interpretativi” sulla portata delle norme UE al Giudice sovranazionale non sembra invero sufficiente ad affermare che esso non abbia il potere di valutare in autonomia se ricorra o meno un’ipotesi di dubbio, non diversamente da quanto si ritiene per la rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale. Sicché peraltro, ancora una volta, l’effetto dell’allargamento del compasso prospettato dalle Sezioni Unite sarebbe più ampio, aprendo il varco al sindacato della Corte di cassazione anche con riferimento alle mancate rimessioni alla Corte costituzionale.
Non sembra infatti che l’esigenza di evitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, pur indubbiamente importante e potenzialmente utile, sia argomento sufficiente per trasferire l’ultima parola interpretativa sulla configurabilità di dubbi di compatibilità eurounitaria al Giudice delle questioni di giurisdizione, né, qualora gli si riconoscesse tale potere, per fondare il discrimine tra questa “interpretazione” e quella che sta alla base del mancato rinvio alla Corte costituzionale.
Confidando di avere offerto un quadro abbastanza ampio ed esauriente di riflessione per il dibattito, ritengo che la complessità delle problematiche sollevate dall’ordinanza e i rischi degli effetti che potrebbe avere un conflitto tra le Corti – nazionali e sovranazionali – coinvolte imponga di affrontare il problema aperto abbandonando tesi preconcette e ricercando un nuovo punto di equilibrio, che riconosca alla Corte di cassazione il sindacato sui casi di eccesso di potere giurisdizionale anche in forma di diniego di giustizia senza trasmodare nell’ammissione di un terzo grado di giudizio nel merito delle decisioni del giudice amministrativo.
[1] Il presente lavoro riserva deliberatamente ad altra sede il confronto con i suddetti contributi, dei quali comunque, senza pretesa di esaustività, si dà doverosa indicazione per un più completo quadro di riflessione. Ai primissimi commenti di G. TROPEA, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 7 ottobre 2020; A. TRAVI, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020; A. CARRATTA-G. COSTANTINO-G. RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, 19 ottobre 2020, si sono aggiunti quelli di B. CARAVITA, Postilla a S. Barbareschi, L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione «fuori contesto»: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 195982, in federalismi, 4 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustiziainsieme, 11 novembre 2020; Ginevra GRECO, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; B. NASCIMBENE-P. PIVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 24 novembre 2020.
[2] Limiti esterni di giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE (a proposito di Cass. S. U. n. 19598 del 2018), Università Roma Tre, 6 novembre 2020, reperibile on line su giustiziainsieme.it al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1390-motivi-di-giurisdizione-e-pregiudiziale comunitaria-atti-del-convegno-di-romatre-del-6-11-2020? (con Interventi di G. SERGES, G, COSTANTINO, A. CARRATTA, E. CANNIZZARO, F. FRANCARIO, M. LUCIANI, G. RUFFINI, M. A. SANDULLI e A. TRAVI).
[3] Nella Relazione per l’apertura dell’anno giudiziario 1947 del Procuratore generale M. Pilotti presso la Corte di cassazione (L’amministrazione della giustizia e la riforma costituzionale, in Riv. Pen. 1947) si legge al par. 10 che
“In sede di applicazione del R. D. 29 giugno 1939 n. 1127, riguardante i brevetti per invenzioni industriali, ed emanato dal potere esecutivo in forza della delega contenuta nel R. D. L. 24 febhraio 1939 n. 317 (convertito. nella Legge 2 giugno 1939 n. 739), le Sezioni Unite hanno dichiarato incostituzionale la disposizione dell’art. 4 che, contrariamente alla legislazione anteriore, esclude dalla brevettabilità, oltre i medicamenti, anche “i processi per la loro produzione”.
È stata affermata l’incostituzionalità di questa innovazione, perché non consentita dalla legge di delega, che, nell'art. 3, si limitava a conferire al governo il potere di “integrare, di modificare e di sopprimere” le disposizioni da attuare, e non quello di innovarle, mutando l’indirizzo della legislazione preesistente.
L'incostituzionalità della norma, da considerarsi per tal modo arbitraria manifestazione del potere esecutivo, veniva a riflettersi nel campo giurisdizionale. Era infatti impugnata davanti alle Sezioni Unite una decisione della Commissione dei ricorsi (giudice speciale, investito di competenza esclusiva per tutto ciò che riguarda il diritto al conseguimento di una privativa industriale) che aveva ritenuto fondato il rifiuto dell'Ufficio centrale brevetti di brevettare un processo di produzione di acidi, proprio in forza della disposizione proibitiva dell'art. 14 del R. D. 29 giugno 1939 n. 1127.
Si è così profilato un caso originale di eccesso di potere, in cui era incorso il giudice speciale (Commissione dei ricorsi) per aver posto a fondamento della sua pronuncia una invalida disposizione di legge. La Cassazione ha affermato che tale decisione è viziata ai sensi dell'art. 3 L. 31 marzo 1877 n. 3761, perché eccede i limiti delle sue attribuzioni il giudice che le esercita in forza di una legge affetta da illegittimità”.
[4] La bibliografia sul tema, naturalmente, è amplissima: tralasciando gli scritti sulla legge sui conflitti e i commenti alla Costituzione, si ricordano, ex plurimis, senza alcuna pretesa di esaustività, in termini generali – accanto alle pagine di E. CANNADA BARTOLI, Sui «motivi inerenti alla giurisdizione», in Foro Amm., II, 1963, p. 315 e ss. e di M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 1973, cap. VIII - V. CAIANELLO, Il limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Scritti in onore di G. Miele, Il processo amministrativo, Milano, 1979; F. MODUGNO, Eccesso di potere, III, in Encicl. Giuridica, Treccani, Roma, 1989; I.M. MARINO, Corte di Cassazione e Giudici “Speciali” (sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.) in Studi onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1993; B. TONOLETTI, Il sindacato della Cassazione sui limiti esterni della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, in Foro It., 1998, I, p. 1567 ss.. Il tema, analizzato a livello monografico da M.V. FERRONI, Il Ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato, Padova, Cedam, 2005 e I. ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, è stato oggetto di rinnovata attenzione dopo le ordinanze del 2006 sulla pregiudiziale di annullamento (su cui, inter alia, M.A. SANDULLI, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., Sez. Un., 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Riv. giur. ed., 2006 e R. VILLATA, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009) e, soprattutto, nell’ultimo decennio. Cfr., tra altri, gli scritti di M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 2012, IV, p. 1677 ss.; A. CORPACI, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. Pubbl., I, 2013, p. 341 e ss.; R. VILLATA, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., 2015, 632 ss.; P. PATRITO, I “Motivi inerenti alla giurisdizione” nell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Napoli, 2016; R. DE NICTOLIS, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; F. FRANCARIO, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2017; C.E. GALLO, Il controllo della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; M.A. SANDULLI, A proposito del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, Intervento alla Tavola rotonda su “Attualità e prospettive del riparto di giurisdizione”, nell’ambito dell’Incontro di Studi organizzato dalla SSM in collaborazione con l’Ufficio Studi massimario e formazione della giustizia amministrativa su “Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo: i settori controversi e l’esigenza di speditezza del giudizio civile”, svoltosi al TAR del Lazio nei giorni 16 e 17 marzo 2017, ivi, 2017; gli Interventi al Seminario di Studi sul tema “Eccesso di potere giurisdizionale e diniego della giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione”, Roma, Corte di Cassazione, 21 settembre 2017; e, dopo la sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, A. PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudiceamministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., I, 2018; A. CASSATELLA, L’Eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2 del 2018; P. TOMAIUOLI, L’altolà della Corte Costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in Consulta online, I, 2018; A. POLICE-F. CHIRICO, I «soli motivi inerenti alla giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Il Processo, I, 2019, 113 ss..
[5] La Corte di Giustizia affermò l’obbligo dei giudici nazionali di disapplicazione delle leggi in contrasto col diritto comunitario in una sentenza del 9 marzo 1978, ma tale decisione, come sottolineava A.M. SANDULLI nel suo Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, par. 13-ter, non collimava con il contenuto della sentenza n. 163 del 1977 della Corte costituzionale.
[6] Cfr. Sez. Un., 8 marzo 2012 n. 3622, che offre interessanti spunti per l'individuazione del confine tra l'operazione logica inerente al sindacato sulla motivazione e quella, di ben diversa natura, consistente nell’operare valutazioni di merito con il risultato di “doppiare” la decisione amministrativa impugnata. La fattispecie riguardava una pronuncia del Consiglio Superiore della Magistratura per il conferimento dell'incarico di Presidente di una Corte d'appello. Le Sezioni Unite, chiarendo preliminarmente che le decisioni del giudice amministrativo sono sindacabili per motivi di giurisdizione solo quando il giudice, sconfinando nella sfera di merito riservata all'amministrazione, compie una diretta e concreta valutazione di opportunità e convenienza dell’atto (sia pur realizzata attraverso la forma dell'annullamento) afferma al contempo che, al fine di valutare eventuali sintomi di eccesso di potere che possono affliggere il provvedimento impugnato, il giudice non potrà esimersi da prendere in considerazione la congruità e la logicità del modo in cui l'amministrazione abbia motivato l'adozione di quell’atto, senza che tale valutazione possa considerarsi eccedente nei limiti della propria giurisdizione. Più recentemente, con la sentenza n.18592 del 7 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno addirittura negato l’invasione del potere amministrativo in un’ipotesi in cui, andando peraltro ultra petita (perché il ricorrente non aveva ardito formulare una tale domanda!), il Consiglio di Stato, a fronte di reiterate pronunce di illegittimità del diniego di ASN per le funzioni di professore universitario, invocando i nuovi poteri riconosciuti al giudice di cognizione dall’art. 34, comma 1, lett. e, cpa, per assicurare l’attuazione del giudicato (tra cui la nomina del commissario ad acta destinato a subentrare all’amministrazione in caso di inottemperanza), in luogo di nominare un organo tecnico ad acta in sostituzione di quelli ritenuti inadeguati, ha direttamente condannato il Ministero al rilascio dell’abilitazione. In quel caso, la Suprema Corte, pur riconoscendo la natura tecnico discrezionale della valutazione de qua, ha invero a ben vedere affiancato il Consiglio di Stato in un’operazione che, a parte l’invasione della sfera amministrativa, si è sostanziata nella “creazione” di una norma ampliativa del potere giurisdizionale totalmente eccentrica al sistema. Si legge infatti nella sentenza, in termini che lasciano sinceramente delusi sull’effettivo esercizio della funzione di controllo che la Cassazione sarebbe chiamata a svolgere, che “Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all'Amministrazione di attribuire alla La Macchia l'abilitazione scientifica nazionale (di seguito: "ASN") alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l'interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l'attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell'attività riservata alla Pubblica Amministrazione”, in quanto “la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed "evolutiva" delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall'art. 34, comma 1, lettera e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell'ottemperanza. E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche - e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza - possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all'esigenza di una tutela piena ed effettiva dell'interessato "secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo", cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all'introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto”. (Questi principi vanno presumibilmente letti in parallelo a quanto affermato nella sentenza n. 19787 del 2015, citata alla nota successiva).
Il confronto tra questa sentenza e la – pressocché coeva (tra le due date di pubblicazione corrono appena 11 giorni) – ordinanza del 18 settembre rivela quindi, per un verso, una sostanziale convergenza delle due magistrature supreme nella ricerca di “interpretazioni evolutive”, e, per l’altro, una estrema – ed eccessiva – ritrosia della Corte di cassazione nel censurare gli “eccessi” del Consiglio di Stato, che stigmatizza solo in caso di “arretramento”.
[7] Ricordo, per tutti, la sentenza 9 novembre 2011 n. 23302, dichiarativa del difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato per aver disposto, in sede di ottemperanza, la ripetizione “ora per allora” di una procedura selettiva precedentemente annullata (per il conferimento dell’incarico di Procuratore Generale aggiunto presso la Corte di cassazione), nonostante i ricorrenti non potessero più fruirne perché collocati in pensione; nonché le sentenze nn. 2312 e 2313 del 2012, che hanno cassato (con rinvio) due pronunce in cui il Consiglio di Stato aveva annullato provvedimenti di esclusione/annullamento dell’aggiudicazione da gare pubbliche per precedenti risoluzioni adducendo il “dubbio” che il reiterato inadempimento documentato dalla stazione appaltante non fosse la “vera” ragione dell’esclusione/autotutela; e, più recentemente, 15 ottobre 2015 n. 19787, che, nel confermare i principi affermati dalla sentenza n. 23302 del 2011 in tema di limiti al potere del giudice di ottemperanza, ha cassato (sempre con rinvio) una pronuncia con cui il Consiglio di Stato, in sede di cognizione, rilevata l’illegittimità di una delibera del CSM per il conferimento di un incarico giudiziario, aveva sostituito la propria valutazione di merito a quella dell’organo di autogoverno.
[8] Vi si legge infatti testualmente e significativamente che “II sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. I, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzionalità, poi disattese (Corte Cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni). A metterlo in crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o forniture”. Le stesse ordinanze rilevavano peraltro che la previsione della tutela risarcitoria degli interessi legittimi introdotta per gli appalti di lavori pubblici dall’art. 13 della legge comunitaria n. 142 del 1992 (espressamente abrogata dal d.lgs. n. 80 del 1998, che, come noto, all’art. 35, generalizzò la tutela risarcitoria degli interessi legittimi devolvendola alla giurisdizione esclusiva del g.a.) “ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perché la Corte costituzionale fosse indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell' art. 24 della Costituzione” (il riferimento era, evidentemente, alle sentenze nn. 204 del 2004 e 191 del 2006, che, per usare sempre le parole delle ordinanze del 13 giugno lasciano però “impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria”).
[9] Alla luce di un attento excursus del quadro legislativo, le ordinanze avevano ritenuto che “il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento” e (dopo aver comunque negato la possibilità di introdurre “una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo” rendendo detto “termine sostanzialmente eguale a quello cui è soggetta la domanda di annullamento perché ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione”), avevano espressamente affermato che “il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. II giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene”.
[10] Lo stesso A. LAMORGESE, estensore dell’ordinanza di rinvio alla CGUE, alla vigilia della pubblicazione della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, in uno scritto su Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, sulla rivistaFederalismi, si doleva che la Cassazione avesse negli ultimi anni avuto un atteggiamento di self-restraint, svolgendo un sindacato sui “motivi inerenti alla giurisdizione” troppo “cauto” e non abbastanza penetrante. Analogamente, R. DE NICTOLIS, op. cit., p. 32, attribuendo tale cautela ad una (evidente) “consapevolezza che si tratta di un terreno scivoloso in cui, se non si vuole accedere alla tesi del giudice come “bocca della legge”, è innegabile che l’interpretazione della legge ha insito un margine di “creazione” della regola del caso concreto. E se tale “creazione” venisse stigmatizzata come “invasione di campo”, si perderebbe del tutto il confine tra “violazione di legge” e “invasione della competenza legislativa””.
[11] Cfr. le considerazioni critiche svolte in M.A. SANDULLI, “Principi e regole dell’azione amministrativa” riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi, 6 dicembre 2017, e, da ultimo, in Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 3, 2018. Nella Relazione di insediamento e inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, l’allora Presidente del Consiglio di Stato A. PAJNO, osservava del resto significativamente (pag. 7) che “La crisi dell’amministrazione e quella della legislazione chiamano direttamente in causa la giurisdizione, e in particolare la giurisdizione amministrativa. Anche questa si colloca nel contesto della crisi istituzionale, ed è da essa attraversata, contribuendo talora a risolvere i problemi e qualche volta a complicarli”; e l’attuale Presidente, F. PATRONI GRIFFI, nella Relazione introduttiva al Primo congresso nazionale dei Magistrati amministrativi, Palazzo Spada, 7-8 giugno 2019 (Il giudice amministrativo oggi: ruolo, etica, responsabilità, in www.giustizia-amministrativa.it.) sottolineava che “La crisi della legge impone la revisione del principio di legalità come ereditato dal costituzionalismo moderno. Va in crisi il circuito tradizionale del rapporto tra legge amministrazione e giudice. Il percorso lineare “interesse pubblico - norma di attribuzione del potere - provvedimento”, alla base del principio di legalità del secolo scorso, si è da tempo irreversibilmente modificato, evidenziando il farsi diacronico dell’interesse pubblico in concreto”. Sul tema, tra gli altri, L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione giustizia, IV, 2016; nonché i contributi ai Convegni nazionali AIPDA degli anni 2014 e 2015 (su L'incertezza delle regole e Le fonti del diritto amministrativo), in Atti AIPDA, Napoli, 2015 e 2016 e alle Giornate di studio sulla Giustizia amministrativa, svoltesi a Modanella nel 2018 (su “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”), raccolti a cura di F. FRANCARIO - M.A. SANDULLI, Napoli, 2018 e ivi, in particolare i rilievi critici di R. BIN, Il diritto alla sicurezza giuridica come diritto fondamentale, p. 41 (“L’inerzia del legislatore giustifica che lui si avventuri a rispondere alla domanda del privato, per non denegare giustizia: ma il bilanciamento dei diritti non è di sua competenza, spetta al legislatore fissarlo e alla Corte costituzionale controllarne la accettabilità”) e di G. SEVERINI, La sicurezza giuridica e le nuove implicazioni della nomofilachia, e nel 2019 (su “Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo”), raccolti a cura di F. FRANCARIO - M.A. SANDULLI, Napoli, 2019 e ivi in particolare M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, p. 63; e ancora, lo stesso F. PATRONI GRIFFI, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, in Lo Stato, XII, 2019, p. 376 e, da ultimo, G. CORSO, Il principio di legalità, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2020, 43 ss..
[12] Nel 1990 la Corte costituzionale riconobbe invece un caso di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore (costituzionale) commesso proprio dalla Corte di cassazione, in una nota pronuncia in cui la III sezione penale (n. 2734 del 1989) disapplicò una legge regionale (dell’Emilia Romagna) ritenendola non conforme alla Costituzione. In quel caso la Consulta (sent. 14 giugno 1990, n. 285), investita dalla Regione per conflitto di attribuzione, premessa l’ammissibilità del conflitto, perché la Regione aveva denunciato un “errore sui confini stessi della giurisdizione e non sull’esercizio di essa”, affermò che il giudice ordinario, avendo disapplicato la legge regionale, aveva esercitato un potere di giurisdizione che la Costituzione affida solo al giudice costituzionale (in violazione degli artt. 101, 117 e 134 Cost.), testualmente riaffermando che “uno dei principi basilari del nostro sistema costituzionale è quello per cui i giudici sono tenuti ad applicare le leggi, e, ove dubitino della loro legittimità costituzionale, devono adire questa Corte che sola può esercitare tale sindacato, pronunciandosi, ove la questione sia riconosciuta fondata, con sentenze aventi efficacia erga omnes. Questo principio non può soffrire eccezione alcuna”. È noto poi, e non è questa la sede per ricordarlo, il dibattito che, all’inizio di questo millennio, si è acceso sulla cd potere di interpretazione conforme.
É interessante peraltro ai nostri fini segnalare che, in quella occasione, la Corte costituzionale colse l’occasione per “aggiungere che ben altra ipotesi è quella di leggi statali o regionali confliggenti con regolamenti comunitari. In tal caso il potere-dovere del giudice di applicare la norma comunitaria anziché quella nazionale (riconosciuto ai giudici dalla sentenza n. 170 del 1984 di questa Corte e dalle successive che hanno confermato e sviluppato tale giurisprudenza) non si fonda sull'accertamento di una presunta illegittimità di quest'ultima, bensì sul presupposto che l'ordinamento comunitario è autonomo e distinto da quello interno, con la conseguenza che nelle materie previste dal Trattato CEE la normativa regolatrice è quella emanata dalle istituzioni comunitarie secondo le previsioni del Trattato stesso, fermo beninteso il rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili della persona umana: di fronte a tale normativa l'ordinamento interno si ritrae e non è più operante”.
[13] Si legge, infatti, in quest’ultima sentenza, che “Giova ancora ribadire che alla non configurabilità dell’eccesso di potere nelle ipotesi in cui il Giudice speciale od ordinario individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione, anche in via analogica, del quadro delle norme, questa Corte è pervenuta movendo dalla considerazione secondo cui l'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto - dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all'uopo creata - detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un'attività interpretativa; attività quest’ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un'opera creativa della volontà della legge nel caso concreto”.
[14] Cfr. le considerazioni critiche di T. COCCHI, L’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera legislativa. Ancora un’ipotesi meramente teorica? (Note a margine della sentenza Cass., sez. un., 30 ottobre 2019, n. 27842)”, in Osservatorio di giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI e M. LIPARI, in Foro amm., n. 2 del 2020.
[15] Nella richiamata sentenza 18592 del 2020, le medesime SS UU hanno, più recentemente, ribadito che “l’eccesso di potere giurisdizionale - qui denunciato — che costituisce un aspetto dei motivi inerenti alla giurisdizione per i quali le sentenze dei Giudici speciali possono essere impugnate dinanzi a queste Sezioni Unite, in base all'art. 111, ottavo comma Cost., deve essere inteso come esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un diverso organo, sia esso legislativo o amministrativo, e cioè come una usurpazione o indebita assunzione di potestà giurisdizionale. Esso presuppone il superamento dei limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali del giudice speciale e l'esistenza di quei soli vizi attinenti all'essenza della funzione giurisdizionale, con esclusione di ogni sindacato sui modi di esercizio della funzione medesima (fra le tante: Cass. SU 11 novembre 1983, n. 6690; Id. 19 aprile 1984, n. 2566; Id. 9 novembre 1994, n. 9290 e, in continuità: Cass. SU 5 dicembre 2016, n. 24740; Id. 5 giugno 2018, 14438; Id. 6 marzo 2020, n. 6462). Pertanto, il suddetto vizio non è configurabile con riferimento all'attività di interpretazione delle norme effettuata dal Giudice speciale perché tale attività - anche quando la "voluntas legis" sia stata individuata, non in base al tenore letterale delle singole disposizioni, ma alla "ratio" che esprime il loro coordinamento sistematico - rappresenta il "proprium" della funzione giurisdizionale e non può dunque integrare, di per sé sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale ma, eventualmente, dare luogo ad un "error in judicando", estraneo al sindacato di queste Sezioni Unite (indirizzo consolidato, di recente ribadito da Cass. SU 28 febbraio 2020, n. 5589)”.
[16] Cfr. le sentenze con cui il TAR Lazio (sentt. n. 2169 e 7460 del 2019 e 12464 del 2020) e il Consiglio di Stato (sent. n. 2859 del 2018) hanno assimilato all’interesse ambientale (che rientra nell’elenco tassativo delle materie cui, in via assolutamente eccezionale, l’istituto non si applica) quello, meramente economico, al recupero degli incentivi in tesi illegittimamente concessi per le fonti rinnovabili di produzione energetica. Sull’ammissibilità di una lettura estensiva delle deroghe all’applicabilità del silenzio assenso stabilite dall’art. 20 l. n. 241 del 1990, la III Sezione civile della Corte di cassazione ha significativamente chiesto la rimessione alle Sezioni Unite (ord. 6 luglio 2020 n. 1 865)
[17] Il riferimento è all’interesse pubblico “autoevidente” invocato dall’Adunanza plenaria n. 8 del 2017, che pure, correttamente, esclude l’ammissibilità della cd “motivazione in re ipsa” (facendola però, non senza contraddizione, rientrare dalla finestra sub specie di autoevidenza).
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2019, n. 7411 che, riformando la sent. TAR Lazio, Sez. I, n. 11494 del 2018, ha ritenuto che, nonostante il silenzio della legge, l’ANAC avesse un potere di accertamento di sulle ipotesi di inconferibilità ed incompatibilità disciplinate dal d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39 e, in generale, sulla corretta applicazione della suddetta disciplina ai sensi dell’art. 16, comma primo, del medesimo decreto.
[19] Cfr. le note sentenze Mottola e Staibano del 4 febbraio 2014.
[20] E’ significativa – e interessante – a tali fini la lettura degli Interventi al Seminario di Studi organizzato presso la Corte di cassazione il 21 settembre 2017, cit. alla nota 4.
[21]Il ricorrente non ha tuttavia più riassunto il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato. Il rilevato “diniego di giustizia” ha così fatto salvo l’affidamento di una concessione di costruzione e gestione per ben 33 anni di un’opera strategica finanziata con fondi comunitari a un soggetto che non ha mai prodotto (né nel procedimento, né in giudizio) i prescritti certificati penali.
[22] Analogamente, nella sentenza nn. 6605 del 2015 si affermava che “La giurisprudenza di queste sezioni unite 2011 e n. 15428 del 2012) ha infatti ripetutamente chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dalla affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, la quale non possa per questo essere da lui conosciuta (v. s.u. n. 3037 del 2013 e tra le altre v. anche s.u. n. 26583 del 2013, secondo la quale appartiene all'area del sindacabile rifiuto della propria giurisdizione solo quel diniego di tutela da parte del giudice amministrativo che si radichi nella affermazione della esistenza di un ostacolo generale alla conoscibilità della domanda, mentre si sottrae a detto sindacato quel diniego che discenda direttamente ed immediatamente: dalla lettura o dalla applicazione delle norme invocate a sostegno della pretesa e che pertanto di tale lettura costituisca applicazione nel processo), onde l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. su n. 10294 del 2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori in iudicando o in procedendo che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso (cfr. anche su n. 771 del 2014). Deve peraltro aggiungersi che secondo la giurisprudenza di queste sezioni unite è configurabile l'eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un elidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell'interpretazione della legge (v. su n. 24468 del 2013 nonché tra le altre su n. 17933 del 2013 n. 15428 del 2012) ed inoltre che, ove il problema si ponesse eventualmente in relazione alla interpretazione della giurisprudenza comunitaria, anche l'eventuale erroneità della decisione sul punto non la renderebbe perciò solo sindacabile in questa sede (v. tra le altre su n. 2242 del 2015, secondo la quale il controllo del limite esterno della giurisdizione - che l'art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di cassazione - non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori "in iudicando" o "in procedendo" per contrasto con il diritto dell'Unione europea, salva l'ipotesi, "estrema", in cui l'errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l'accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo)”. Analogamente, tra le successive, la sentenza n. 26899 del 2016 e, in riferimento alla giurisprudenza CEDU, la sentenza n. 26992 del 2016.
[23] Appare utile riportare alcuni passaggi principali della sentenza 4 febbraio 2014 n. 2403, chiarissima, in tal senso, in cui le Sezioni Unite hanno dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto ex art. 111, comma 8, Cost. per contestare una decisione del Consiglio di Stato ritenuta ingiustamente applicativa di una norma sostanziale contraria al diritto UE, affermando testualmente che “In questa prospettiva, il ricorso con il quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi inerenti alla giurisdizione soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall'affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, oppure nei casi, estremi, nei quali l'errore si sia tradotto in una decisione anomala o abnorme, frutto di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, non quando si prospettino come omissioni dell'esercizio del potere giurisdizionale meri errori in iudicando o in procedendo (Sez. Un., 26 gennaio 2009, n. 1853; Sez. Un., 12 marzo 2012, n. 3854; Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 3037; Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17933; Sez. Un., 9 settembre 2013, n. 20590; Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 774; Sez. Un., 27 gennaio 2014, n. 1518). L'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111, ultimo comma, Cost., quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia, ma la tutela negata si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori, di giudizio o processuali, che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame (Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 771).
Con particolare riguardo, poi, alla questione se l'esigenza di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione europea e la necessità che le disposizioni di legge vigenti siano conformi ai vincoli derivanti dall'appartenenza all'Unione, ai sensi dell'art. 117 Cost., impongano di ritenere impugnabili per cassazione le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano adottato una interpretazione della norma interna non conforme al diritto eurounitario o abbiano violato l'obbligo di disapplicazione per illegittimità comunitaria, queste Sezioni Unite hanno escluso che la violazione del diritto dell'Unione da parte del giudice amministrativo valga, di per sé, ad integrare un superamento delle attribuzioni del giudice amministrativo. La primazia del diritto dell'Unione europea - si è osservato (Sez. Un. 10 marzo 2012, n. 3236) - "non sovverte gli assetti procedimentali degli ordinamenti nazionali (e la relativa funzione di garantire certezza e stabilità ai rapporti giuridici)": sicché, per un verso, "il mancato accoglimento, da parte del Consiglio di Stato (organo di vertice dell'ordinamento giurisdizionale di appartenenza), di una richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia del Lussemburgo... è determinazione che, essendo espressione della potestas iudicandi devoluta a quel giudice, non esorbita i ‘limiti interni' della sua giurisdizione", e, per l'altro verso, "il ricorso per cassazione, teso ad accertare la ricorrenza, esclusa dal Consiglio di Stato, delle condizioni per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, è inammissibile, giacché si risolve in una impugnativa diretta, non già a prospettare una questione attinente alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma a denunciarne un (supposto) errore di giudizio". In questa prospettiva, si è ribadito (Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013, cit.) che il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato alla Corte di giustizia non configura una questione attinente allo sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, e che - impugnata per cassazione una decisione del giudice amministrativo - non sussistono neppure le condizioni perché la Corte, la cui cognizione è limitata ai motivi attinenti alla giurisdizione, prospetti alla Corte di giustizia "quesiti interpretativi che attengono al merito della vertenza e non al tema della giurisdizione"; non senza ricordare che "l'ordinamento giuridico interno assicura comunque una effettività di tutela rispetto al pregiudizio ipoteticamente subito a fronte della lesione di un diritto riconosciuto dal Trattato europeo, ben potendo il preteso danneggiato ottenere il relativo ristoro in sede risarcitoria" (Sez. Un., 5 luglio 2013, n. 16886).
4. Nella specie il ricorrente non denuncia un rifiuto di giurisdizione: non si duole, cioè, che il giudice amministrativo, al quale si è rivolto, si sia rifiutato di erogare la richiesta tutela per l'affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda proposta. Egli lamenta, piuttosto, che il giudice amministrativo, nell'esaminare la domanda, l'abbia rigettata per un errore interpretativo, non avendo dato all'art. 11 della legge della Regione Siciliana n. 11 del 1988 una lettura conforme a quella risultante da pronunce della Corte di giustizia con riguardo alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio.
Il ricorrente contesta la legittimità del concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali attribuite al giudice amministrativo, e quindi finisce in realtà per sollecitare, al di là della prospettazione formale, un sindacato per violazione di legge. La doglianza non attiene alla corretta individuazione dei limiti esterni della giurisdizione - che, come detto, non sono soltanto quelli che separano i diversi plessi giurisdizionali ma anche quelli che stabiliscono fin dove ciascun giudice è tenuto ad esercitare il potere-dovere di ius dicere - ma investe un vizio del giudizio concernente il singolo e specifico caso.
Sennonché, l'error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale solo perché viene in gioco, nell'interpretazione della norma sostanziale attributiva di diritti, il diritto dell'Unione. Non ogni pretesa deviazione dal corretto esercizio della giurisdizione, sotto il profilo interpretativo ed applicativo del diritto sostanziale, si risolve in un difetto di giurisdizione sindacabile ad opera della Corte di cassazione, a meno che non ci si trovi di fronte ad un indebito rifiuto di erogare la dovuta tutela giurisdizionale a cagione di una male intesa autolimitazione, in via generale, dei poteri del giudice speciale. "Qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell'esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull'esito della decisione, può essere letta - hanno ricordato queste Sezioni Unite (sentenza 17 maggio 2013, n. 12106) - in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente soltanto se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame. Non per questo, però, ogni errore di giudizio... imputabile al giudice è qualificabile come un eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione".
5. Il Collegio ritiene che, nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione che la Costituzione affida alla Corte di cassazione non includa la funzione di finale verifica della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea.
La tesi, prospettata dal ricorrente, di una funzione di nomofilachia della Corte di cassazione estesa fino a comprendere l'esercizio di un sindacato sull'osservanza, da parte del giudice amministrativo, della giurisprudenza della Corte di giustizia o dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, non tiene conto della circostanza che - fermo il compito affidato dalla Costituzione alle Sezioni Unite della Cassazione di verificare il mantenimento delle varie giurisdizioni speciali, compreso il Consiglio di Stato, nei limiti dei loro poteri e delle loro competenze - nel plesso della giurisdizione amministrativa spetta al Consiglio di Stato, alle sue sezioni e all'adunanza plenaria, quale giudice di ultima istanza ai sensi dell'art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex art. 234 TCE), garantire, nello specifico ordinamento di settore, la compatibilità del diritto interno a quello dell'Unione, anche e soprattutto attraverso l'operazione interpretativa del diritto eurounitario, originario e derivato, svolta dalla Corte di giustizia, all'uopo sollecitata, se del caso, mediante il meccanismo della questione pregiudiziale, e così contribuire alla formazione dello jus commune europaeum.
Del resto, la soluzione prospettata dal ricorrente, ad essere conseguenti, dovrebbe valere non solo quando l'azione amministrativa rientri nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione, ma anche quando essa abbia un'origine esclusivamente nazionale: anche in tal caso, infatti, il principio di effettività della tutela richiederebbe, per coerenza, la garanzia dell'uniformità dell'interpretazione delle norme attributive di diritti soggettivi, tanto più quando sono in gioco i diritti fondamentali della persona (di cui sempre più spesso conosce il giudice amministrativo, con un catalogo di materie rientranti nella sua giurisdizione esclusiva che si va facendo via via più fitto ed esteso), e quindi una nuova configurazione dell'eccesso di potere giurisdizionale derivante dall'errore interpretativo. A questo risultato, tuttavia, le Sezioni Unite, sinora, non hanno ritenuto di poter pervenire, pur nella consapevolezza dell'esistenza di profili problematici, perché il principio di eguaglianza postula "l'esigenza della uniforme interpretazione della legge", la quale invece, "stante la non ricorribilità delle sentenze dei giudici amministrativi per violazione di legge", non ha "strumento alcuno per attuarsi a fronte di differenti orientamenti (e di un diverso diritto vivente, quindi) che dovesse (e lo potrebbe) formarsi in ordine a medesime disposizioni... nelle non comunicanti giurisprudenze dei giudici ordinari e amministrativi" (Sez. Un., 30 marzo 2000, n. 72).
Certo, può accadere che la decisione del giudice amministrativo di ultima istanza contenga una violazione del diritto comunitario in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell'Unione.
Ma il principio di effettività della tutela in presenza di danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili al giudice amministrativo di ultima istanza non impone né di riaprire quella controversia ormai definitivamente giudicata negli aspetti di merito né di attribuire alla parte soccombente un nuovo grado di impugnazione dinanzi al giudice regolatore della giurisdizione al fine di rimediare ad un errore che, pur "sufficientemente caratterizzato", non si traduca in uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione devoluta al giudice amministrativo. L'ordinamento conosce infatti, là dove la violazione del diritto comunitario sia grave e manifesta, altri strumenti di tutela, secondo una logica di compensazione solidaristica (cfr. Corte di giustizia, sentenza 30 settembre 2003, nel procedimento C-224/01, Köbler e Repubblica d'Austria; Corte di giustizia, sentenza 13 giugno 2006, nel procedimento C-173/03, Traghetti del Mediterraneo s.p.a., in liquidazione, contro Repubblica italiana; Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)”.
[24] Cfr. M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere, cit..
[25] Vi si legge infatti testualmente (e in coerenza con il menzionato scritto del suo estensore, antecedente alla sentenza della Consulta) che “L'orientamento consolidato delle Sezioni Unite (sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 di cui si dirà) era nel senso che, in sede di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo dei limiti esterni della giurisdizione — che l'articolo 111, ottavo comma, Cost., affida alla vigilanza della Corte di cassazione — non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare meri errori «in iudicando» o «in procedendo», «salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell'Unione) tali da ridondare in denegata giustizia, ed in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore "in procedendo" costituito dall'applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale nell'ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell'Unione europea, direttamente applicabili, secondo l'interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia» (in tal senso Sez. Un., n. 31226 del 2017 citata; in senso conforme, Sez. Un. 18 dicembre 2017, n. 30301; 17 gennaio 2017, n. 953; 8 luglio 2016, n. 14042; 29 febbraio 2016, n. 3915; n. 2242 del 2015 citata)”.
[26] L’ordinanza ha per vero buon gioco nel ricordare, che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 6 del 2018, “riconosce che «specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste», ma osserva che «deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione [quindi, di quella amministrativa per le sentenze dei giudici amministrativi], eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'articolo 395 cod. proc. civ.»”; e nel rappresentare (criticamente) al Giudice sovranazionale che “Tale rimedio, tuttavia, non è previsto dal legislatore nazionale come strumento ordinario per porre rimedio alle violazioni del diritto dell'Unione che siano addebitate agli organi giurisdizionali. La stessa Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93); in altra decisione, ha dichiarato inammissibile una analoga questione sollevata dai giudici amministrativi (Corte cost. 2 febbraio 2018, n. 19)”. Aggiunge peraltro, e correttamente, che “Tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell'istituto della revocazione (sub paragrafo 15, in relazione all'art. 395 cod. proc. civ.) e, specialmente, quando le sentenze delle Corte sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. E' comunque dubbio che esso sia idoneo a paralizzare l'ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione”.
[27] Si ricorda al pt. 42 dell’ordinanza che “Una rilevante declinazione del principio di effettività trova specifico riconoscimento negli articoli 19, par. 1, comma 2, TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, i quali impongono agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione (ad esempio, Corte di giustizia, 4 giugno 2013, C-300/11, ZZ, p. 55, 57, 65). Nell'ordinamento nazionale la «tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» costituisce obiettivo proclamato anche nel codice del processo amministrativo (articolo 1)”.
[28] Rinvio, da ultimo, alle considerazioni svolte in Processo amministrativo, cit. alla nota 4.
[29] Laddove si fa indebito riferimento all’esigenza di ciascun concorrente di “far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell'offerta degli altri”.
Svolgimento delle udienze dibattimentali a seguito dell'entrata in vigore del D.L. n. 149/2020 del 9.11.2020, art. 24.
Dopo l’entrata in vigore del DL n. 137/2020 del 28.10.2020, art. 23, [1], il legislatore è nuovamente intervenuto sulle modalità di svolgimento dei procedimenti penali nel periodo emergenziale con l’art. 24 del D.L. n. 149/2020, che contiene le "Disposizioni sulla sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali...nel periodo di emergenza epidemiologica da C0V1D-19".
Ai sensi di detta norma, a partire dal 9.11.2020 i giudizi penali sono sospesi durante il tempo in cui l'udienza è rinviata per l'assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell'imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova, "quando l'assenza è giustificata dalie restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dalla sottoposizione a isolamento fiduciario" in conseguenza delle misure urgenti in materia di contenimento e gestione della emergenza epidemiologica da COVID-19.
Tale disposizione chiarisce l'inapplicabilità automatica, allo stato attuale, dell'istituto del legittimo impedimento per i casi di provenienza da aree del territorio nazionale caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto (cd. zone rosse), in relazione alle quali ai sensi dell'art. 3 del DPCM 3.11.2020:
"a) è vietato ogni spostamento in entrata e in uscita dai territori di cui al comma 1, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute."
La partecipazione al processo quindi rientra fra i motivi di deroga al divieto di spostamento.
Sono fatte salve ovviamente le valutazioni sul caso singolo da parte del giudice.
Si pubblicano al riguardo le “indicazioni” (è sempre fatta salva infatti l’autonoma valutazione del giudice nel caso specifico) elaborate dalla Sezione penale di Vicenza[2] riguardo alla trattazione dei processi penali in relazione all’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell'imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova.
[1] Commentato da questa Rivista con l’articolo “Decreto legge Ristori, disposizioni emergenziali per l’esercizio della attività giurisdizionale, di Marta Agostini e Michela Petrini.
[2] I giudici che hanno partecipato a questa elaborazione sono Camilla Amedoro, Antonella Crea, Chiara Cuzzi, Deborah De Stefano, Filippo Lagrasta, Luigi Lunardon, Claudia Molinaro, Lorenzo Miazzi, Giulia Poi, Alessia Russo e Veronica Salvadori.
La Corte di assise nell’ordinamento giudiziario e nelle tabelle
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. Tabelle e composizione della Corte di assise - 2. La Corte di assise nell’ordinamento giudiziario e nella legge del 1951 (ancora vigente) - 3. Dalla “nomina” alla “destinazione”: l’intervento del D.p.r. n. 448 e l’inserimento nelle tabelle - 4. La disciplina sulla composizione della Corte di assise - 5. La scelta dei componenti della Corte di assise - 6. Componenti supplenti - 7. I componenti aggiunti dei “collegi bis”.
1. Tabelle e composizione della Corte di assise
Chi cerca, nei più diffusi “codici di procedura penale e leggi complementari”, la voce “Corti di assise”, trova una sola legge, la n. 287 del 1951, con appena l’avvertenza che dove si parla del Pretore ora si intende Tribunale, e con gli ultimi aggiornamenti risalenti al D.L. n. 394 del 1987. Lo stesso accade compulsando Normattiva.
Basta però la lettura di poche righe per capire che c’è qualcosa che non va, soprattutto per la componente togata, la cui nomina si avrebbe all’esito di una procedura piuttosto anomala e si formalizzerebbe con un decreto del Presidente della Repubblica. La lettura complessiva della legge del 1951, poi, rimanda con evidenza a un ordinamento giudiziario che non c’è più, in cui la Corte di assise era un organo autonomo rispetto ai tribunali, istituito e disciplinato secondo regole all’evidenza superate.
Però se, col procedimento opposto e quindi partendo dall’attualità, si cerca la voce Corte di assise nella nuova circolare sulle tabelle[1], confidando che le regole pratiche sulla sua composizione si trovino lì, si rimane parimenti delusi, perché in qualche punto si parla di questo organo, ma solo per dettagli che non consentono di ricostruire il quadro.
E la ricostruzione del quadro non solo non è facile, ma non dà certezza di quale sia oggi il diritto positivo ordinamentale che lo costituisce. Proviamo.
2. La Corte di assise nell’ordinamento giudiziario e nella legge del 1951 (ancora vigente)
Nell’ordinamento giudiziario del 1941 la Corte di assise è un organo autonomo tanto che, come recita l’art. 60, “le altre norme riflettenti l'ordinamento della corte di assise sono dettate da legge speciale”. La Corte di assise ivi prevista ha competenza ordinariamente distrettuale[2], è articolata in sezioni che possono avere sede in più tribunali, ha la durata temporanea di un anno[3].
La sua composizione, anche in primo grado, rivela la sua anomalia: “la corte di assise e' composta: a) da un presidente di sezione di corte di appello che la presiede; b) da un consigliere di corte di appello ovvero da un presidente o presidente di sezione di tribunale; c) da cinque assessori.”
E’ un organo che richiama le itinerant courts anglosassoni: i componenti togati sono nominati ogni anno, sono (tendenzialmente) unici per distretto e girano per le varie Corti, integrandosi con gli “assessori”, cioè i giudici popolari locali.[4]
La Corte di assise descritta dalla legge sull’ordinamento giudiziario è dunque un organo palesemente eccentrico. Perciò la legge n. 287 del 1951 procede al suo riordino, e detta la norma per la sua composizione, che, attraverso una serie di modifiche[5], è tuttora in vigore:
"Art. 3 (Composizione delle corti di assise). - La corte di assise e' composta: a) di un magistrato del distretto scelto, tra quelli aventi funzioni di appello, che la presiede o, in mancanza o per indisponibilita', tra quelli aventi qualifica non inferiore a magistrato di appello; b) di un magistrato del distretto avente le funzioni di magistrato di tribunale; c) di sei giudici popolari".
3. Dalla “nomina” alla “destinazione”: l’intervento del D.p.r. n. 448 e l’inserimento nelle tabelle
La disciplina relativa alla nomina[6] è stato modificata invece dal D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, che ha introdotto nell’ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) gli artt. 7-bis e 7-ter, e dall’art. 1, comma 1, l. 12 gennaio 1991, n. 13.
Per la normativa vigente, quindi, la destinazione (quindi non più la nomina) dei singoli magistrati alle corti di assise è stabilita ogni biennio con decreto ministeriale, in conformità delle deliberazioni del C.S.M. assunte sulle proposte dei presidenti delle corti di appello, sentiti i consigli giudiziari[7].
Dunque, la disciplina tabellare relativa alla “destinazione” dei giudici alla Corte di assise si è interamente sostituita a quella originaria sulla “nomina” dei magistrati; afferma il CSM[8] che l’entrata in vigore del nuovo codice di rito e, soprattutto, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, induce ad un’attenta rimeditazione della questione dell’autonomia giurisdizionale delle Corti di assise “avendo la corte di assise perso le essenziali caratteristiche sulla cui base era stata ritenuta la natura di “organo giurisdizionale autonomo… Ne consegue che le corti di assise sono considerate articolazioni, sia pure con competenze particolari, degli uffici presso i quali sono istituite, cioè del tribunale e della corte di appello”[9].
4. La disciplina sulla composizione della Corte di assise
Il D.p.r. n. 448 non è però intervenuto sulla disciplina relativa alla composizione della Corte di assise, che rimane quindi quella della legge del 1951: essa è quindi composta[10] da “un magistrato … scelto tra quelli … aventi una qualifica non inferiore a magistrato di appello”, che presiede; e da “un magistrato avente le funzioni di magistrato di tribunale”, che siede a latere.
Originariamente, la magistratura era strutturata in funzioni di rango diverso[11]. Richiedendo le funzioni di giudice di tribunale, la ratio delle leggi del 1941 e del 1951 era quella di evitare che andassero a comporre tale organo i pretori (che erano all’epoca magistrati di rango inferiore) e gli uditori giudiziari, anche con funzioni. La richiesta di esperienza si era conservata anche per il periodo successivo: il presidente (che prima doveva avere le funzioni di appello) doveva avere almeno la qualifica di magistrato di appello, che si raggiungeva dopo 11 anni di funzioni di magistrato di tribunale. La nomina a magistrato di tribunale, a sua volta, aveva luogo al compimento di due anni dalla nomina a uditore giudiziario[12]. Quindi, occorrevano 13 anni di esperienza giudiziaria per presiedere una Corte di assise, due per sedere a latere.
Con la legge 160/2006 (modificata dalla l. 111/2007) cambia la normativa, per cui ora i magistrati ordinari si distinguono secondo le funzioni esercitate; le funzioni giudicanti sono: di primo grado, di secondo grado e di legittimità. Vengono introdotte per la progressione le valutazioni di professionalità.
Non viene aggiornata però la normativa sulla Corte di assise. Si deve tradurre allora la nozione di “qualifica non inferiore amagistrato di appello” e di “magistrato di Tribunale” con la nuova disciplina.
La cosa pare più semplice per il Presidente: fra le funzioni giudicanti di secondo grado è compresa quella di Consigliere di appello, che pare agevolmente equiparabile alla “qualifica di magistrato di appello”, e per la quale è richiesto (art. 12 comma 3) il conseguimento almeno della seconda valutazione di professionalità, quindi (solo, ndr.) 8 anni di esercizio delle funzioni giudiziarie.
La questione è più complessa per il giudice a latere.
Infatti (art. 12 comma 2) per il conferimento delle funzioni giudicanti di primo grado è richiesta la sola “delibera di conferimento delle funzioni giurisdizionali al termine del periodo di tirocinio”. Si può quindi sostenere che la qualifica di magistrato di Tribunale, che richiedeva l’esercizio di almeno due anni di funzioni giudiziarie, sia ora attribuibile al “magistrato di primo grado”, cioè al magistrato ordinario in tirocinio che assume le funzioni, senza esperienza giudiziaria. Al contrario, si può sostenere che, dato che la legge richiede un’anzianità di due anni almeno per fare il giudice a latere, la qualifica ora è attribuibile ad un magistrato che abbia la prima valutazione, o quantomeno a un “magistrato di primo grado” che abbia svolto funzioni per almeno due anni.
Sul punto le nuove tabelle non prendono posizione, come anche le precedenti, in vigenza delle quali si erano create due prassi, conformi ai due orientamenti.
Secondo il primo orientamento, la normativa prevedendo che si debba aver conseguito la qualifica di magistrato di tribunale, esclude i MOT che cominciano a svolgere funzioni giurisdizionali nei primi due anni, pari al tempo necessario in precedenza per poter conseguire la qualifica di magistrato di tribunale; anzi, secondo alcuni il riferimento al requisito della qualifica superiore a quella iniziale (cioè “magistrato di tribunale” anziché “uditore con funzioni”) sembra evidenziare chiaramente la necessità che, per comporre la Corte di assise, il neo magistrato di primo grado sia stato sottoposto alla prima valutazione di professionalità con esito positivo. Con la disciplina attuale, come si è detto, la prima valutazione di professionalità necessita del decorso di 4 anni e non più di due.
Un secondo orientamento, invece, afferma che “magistrato di tribunale” oggi equivale a “magistrato di primo grado” in quanto primo grado della “carriera” del giudice; un orientamento che certo è rafforzato dallo “stato di necessità” in cui si trovano alcuni tribunali, specialmente del sud.
A mio avviso trova maggiore supporto normativo il primo orientamento. In particolare, la circolare sulle valutazioni di professionalità sembra equiparare il diritto alla valutazione secondo la previgente qualifica di magistrato di tribunale a quella prima valutazione di professionalità[13]. Ancora più rilevante è la circolare in materia di supplenze e applicazioni, che prevede non possano essere destinati in supplenza i magistrati con qualifica inferiore alla prima valutazione, con ciò evidenziando sia di non poter turbare il percorso formativo del neo magistrato, sia di richiedere la preventiva acquisizione di una qualche professionalità prima di assumere ruoli diversi dal proprio[14].
5. La scelta dei componenti della Corte di assise
Altro punto controverso, su cui la Circolare sulle tabelle non fornisce chiarimenti, riguarda le modalità della nomina. Una vota sciolto il primo dubbio e deciso quali magistrati possono farne parte, come sceglierne i componenti?
Anche in questo caso, le prassi seguite sono diverse. Si va da chi non ritiene esista il problema, inserendo i componenti dell’assise in tabella come quelli di un normale collegio della sezione penale, a chi all’opposto bandisce un vero e proprio concorso per titoli. Non mancano, ovviamente, vie mediane.
E’ quella del concorso separato, a mio avviso, la scelta più aderente al dato normativo. Pur avendo perso la sua originaria autonomia ed essendo un organo tabellare di giurisdizione penale, infatti, la Corte di assise non si identifica con la sezione penale (formata da un Presidente nominato dal CSM e da magistrati “semplici” di ogni anzianità) ma è, per usare le parole del CSM, una articolazione con competenze particolari del Tribunale, dato che la sua composizione è normata con regole speciali dettate dalla legge: un magistrato con qualifica di appello per presiederla, un magistrato con funzioni di tribunale come giudice a latere. Nella sezione ordinaria in mancanza di magistrati più anziani un collegio può essere presieduto da un magistrato di prima valutazione e anche da un ex uditore con funzioni, oggi magistrato di primo grado; a presiedere tabellarmente la Corte di assise in mancanza di un giudice interno alla sezione penale dotato della qualifica necessaria, deve essere chiamato un altro giudice del Tribunale avente la qualifica di appello, anche se per ipotesi proveniente dal civile o dal GIP, o lo stesso Presidente del Tribunale, pena una composizione illegittima.
Se possono farne parte anche giudici esterni alla sezione penale, allora la possibilità di chiedere di entrare nella Corte di assise deve essere riconosciuta anche ad essi, e quindi deve essere emanato un interpello per la destinazione all’organo; e a questo punto la scelta non può che avvenire sulla base dei titoli che dimostrino i requisiti di attitudini, servizio e ruolo (oggi con le nuove tabelle invertiti).
6. Componenti supplenti
La specificità ordinamentale della Corte di assise emerge anche dalla disciplina delle supplenze e applicazioni, del tutto diversa da quella ordinaria.
L’art. 8 l. 10 aprile 1951, n. 287, nel testo introdotto dall’art. 3 d.l. 25 settembre 1987, n. 394, prevede la nomina anche di un presidente ed un magistrato supplente per ogni corte di assise o di assise di appello[15]. Come evidenziato anche dal CSM nel parere 23.10.1996, tale disposizione non può ritenersi implicitamente abrogata (come invece i commi 1 e 3) “atteso che nulla dispone in proposito l’ordinamento giudiziario”.
Premesso quindi che vanno nominati anche i componenti supplenti, l’art. 97 ord. giud., che disciplina le supplenze dei magistrati negli organi giudiziari collegiali, al comma 3 prevede che “il presidente della corte di appello provvede [alla supplenza] per i magistrati che compongono le corti di assise di appello, le corti di assise e i tribunali regionali delle acque pubbliche”.
Non solo: esiste un’altra disposizione concernente la supplenza dei magistrati che trova applicazione anche con riferimento alla corte di assise. Si tratta dell’art. 2 d.lgs. lgt. 3 maggio 1945, n. 232, per il quale “qualora sorga l’improvvisa ed urgente necessità di sostituire magistrati mancanti, assenti o impediti, per assicurare il funzionamento di un ufficio o la composizione di un collegio, i capi delle Corti, secondo le rispettive attribuzioni, possono, in deroga alle vigenti norme in materia, provvedere alla supplenza anche con magistrati del grado inferiore, appartenenti allo stesso o ad altri uffici del distretto...”. Ciò consente di nominare anche magistrati non del Tribunale, ma del distretto.
Tale norma risulta tuttora vigente, in quanto prorogata “fino a nuova disposizione” dall’art. 1 l. 5 marzo 1951, n. 190. L’applicabilità della stessa è stata ritenuta ancora pienamente legittima dal C.S.M.[16] in quanto destinata a far fronte a situazioni di “improvvisa ed urgente necessità”,
In questo complesso quadro normativo, il CSM ritiene che l’art. 97 ord. Giud. (che esplicitamente definisce “frutto probabilmente di un difettoso coordinamento delle nuove norme”) operi non in sede preventiva ma in sede successiva, quando la previsione tabellare risulti non sufficiente a soddisfare le esigenze di funzionamento ed efficienza degli uffici.
Pertanto si può affermare che anche l’indicazione dei componenti supplenti deve avvenire primariamente in sede tabellare, nel rispetto del principio della precostituzione del giudice previsto dagli artt. 7-bis e 7-ter ord. giud..
L’art. 97 ord. giud. prevede invece un potere di supplenza sussidiario, destinato ad operare, nel caso di impedimento del magistrato supplente già indicato nelle tabelle. Tale potere di supplenza, secondo il CSM, “deve essere esercitato in accordo con il principio generale previsto dall’art. 7-ter ord. giud., per il quale la sostituzione del giudice impedito deve avvenire nell’ambito dei criteri stabiliti dal C.S.M., introdotti per ciascun ufficio all’atto di approvazione della proposta tabellare del presidente della corte di appello.”
Quindi, ove le tabelle in vigore già prevedano un sistema automatico e predeterminato di individuazione del magistrato destinato alla supplenza ex art. 97, comma 3, ord. giud., il presidente della corte dovrà emanare un provvedimento che, in attuazione dei criteri indicati, individui il magistrato.
Quanto alla supplenza ex art. 2 .lgs. lgt. 3 maggio 1945, n. 232, che va disposta dal presidente della corte di appello, secondo il CSM l’eccezionalità che la caratterizza induce a ritenere che trattasi di un meccanismo cui può ricorrersi in via ulteriormente subordinata rispetto a quelli, sopra descritti, degli artt. 7 bis, comma 2, e 97, comma 3, ord. giud..
In conclusione: i supplenti di Corte di assise vanno nominati espressamente nelle tabelle, che possono prevedere il magistrato “ulteriormente supplente” ex art. 97 ord.giud.; qualora manchi o sia impedito il magistrato supplente, il Presidente della Corte d'appello nomina il supplente ex art. 97 secondo l’indicazione delle tabelle, o in mancanza secondo i criteri tabellari delle supplenze; in caso di urgenza e di impossibilità di provvedere ex art. 97, effettua la nomina ex art. 2 l. n. 232/1945 anche attingendo a magistrati di altri uffici giudiziari del distretto.
7. I componenti aggiunti dei “collegi bis”
L’art. 10 D.Lvo 28 luglio 1989, n. 273 dispone che “Per i dibattimenti della corte di assise e della corte di assise di appello che si prevedono di durata particolarmente lunga, il presidente della corte di appello ha facolta' di disporre che prestino servizio due magistrati, i quali assistono al dibattimento in qualita' di aggiunti.”
E’ chiaro che si tratta di una funzione distinta da quella dei magistrati supplenti. Anche in questo caso si derogano completamente i criteri ordinari, in quanto i magistrati aggiunti, prosegue la norma, sono prescelti dal Presidente della Corte d'appello (non all’interno del Tribunale presso cui è istituita la Corte di assise, ma) tra quelli in servizio presso la corte di appello o presso i tribunali del circolo in possesso, almeno uno, della qualifica di magistrato di appello e l'altro con qualifica non inferiore a magistrato di tribunale.
Tuttavia la circolare sulle tabelle 2020-2022 detta un disciplina[17] in qualche modo autonoma, disponendo che siano le Tabelle a prevedere i criteri per la costituzione dei “collegi bis” indicando i nominativi di due magistrati da designare come aggiunti o in alternativa i criteri di designazione dei medesimi.
Pare chiaro che si debba seguire la procedura prevista dalle tabelle e solo in mancanza si possa attivare il potere sostitutivo, residuale, del Presidente della Corte d'appello.
Mentre la norma istitutrice prevede come presupposto semplicemente la previsione di una lunga durata dei dibattimenti, la norma tabellare richiede che siano indicati i “criteri generali” che portano a prevedere la costituzione del collegio bis, criteri che certo non si possono ridurre alla previsione della durata, ma devono esporre le ragioni straordinarie di una eccezione così profonda alla regola procedurale.
La legge prescrive anche che i criteri che consigliano l’istituzione del collegio bis siano il punto di riferimento per la formazione del collegio; la norma non è chiarissima, ma certo rafforza la necessità di una motivazione specifica e adeguata. È possibile designare come aggiunto un unico magistrato; anche se l’art. 10 D.Lvo 28 luglio 1989, n. 273 non lo prevede espressamente, appare opportuno che abbia la qualifica di magistrato di appello, potendo in tal caso sostituire il Presidente[18].
Gli aggiunti potrebbero essere teoricamente i supplenti, ma la ratio della loro previsione è molto diversa e sembra sconsigliare tale soluzione. Infatti, se i componenti effettivi sono impegnati in un processo di particolare durata, eventuali altri processi di assise dovrebbero essere tenuti dai supplenti; che però sarebbero a loro volta impediti se fossero “aggiunti” nel collegio bis del processo di lunga durata.
[1] Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti (delibera CSM 23 luglio 2020).
[2] Ma possono essere costituite più Corti di assise: infatti sono decine le leggi istitutive di Corti di assise per singoli tribunali.
[3] Il nome Corte di assise origina dal francese “assises”, che indicava un collegio (un tribunale o un’assemblea) in seduta; a sua volta derivante dal latino “assisa” (seduta).
[4] “I presidenti e gli altri magistrati che compongono le corti di assise sono nominati ogni anno e possono essere destinati a presiedere o a comporre piu' corti di assise comprese nel distretto della corte di appello.”: art. 61 Ord. Giud. del 1941.
[5] L’ultima avviene con la legge n. 479/1987; le successive leggi, comprese quelle sul “nuovo codice di procedura penale”, interverranno su altri aspetti ma non su questi.
[6] Nella legge del 1987 la nomina era prevista dall'art. 8: "Art. 8 (Nomina dei magistrati componenti le Corti di assise e le Corti di assise di appello) La nomina del presidente e degli altri magistrati che compongono le corti di assise e le corti di assise di appello è effettuata con decreto del Presidente della Repubblica in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura e con efficacia per il periodo in esse indicato.."
[7] Art. 7 bis, comma 1, ord. giud.
[8] Che si esprime nel parere del 23 ottobre 1996 sulle modalità di sostituzione dei membri della Corte di assise.
[9] Questi i motivi secondo il Consiglio: “A tal fine risultano di decisiva rilevanza alcune indicazioni normative. In primo luogo, l’art. 33, comma 1, D.P.R. n. 449/88, secondo cui “la corte di assise e la corte di assise di appello tengono quattro sessioni annuali della durata di tre mesi”: la disposizione, ha trasformato le corti di assise da organi non permanenti a organi permanenti, allineandoli così a tutti gli altri organi giurisdizionali, in particolare alle altre articolazioni interne del tribunale e della corte di appello. In secondo luogo, l’art. 7-bis ord. giud., introdotto dal D.P.R. n. 449/88, su cui ci si è già soffermati supra sub § 1, dedicato alle tabelle degli uffici giudiziari. Da tale norma sono ricavabili logicamente le seguenti conclusioni: la destinazione dei magistrati ordinari a presidente e giudice a latere delle corti di assise è disciplinata in modo omogeneo a quella dei singoli magistrati alle varie sezioni dell’ufficio giudiziario (tribunale e corte di appello) presso il quale ciascuno di essi svolge le sue funzioni a seguito di assegnazione o trasferimento da parte del C.S.M., il quale non “assegna o trasferisce” alle corti di assise, bensì al tribunale e alla corte di appello. Ne consegue che le corti di assise sono considerate articolazioni, sia pure con competenze particolari, degli uffici presso i quali sono istituite, cioè del tribunale e della corte di appello…”
[10] Questo escludendo, per incompatibilità con la disciplina tabellare sulla destinazione appena descritta, che il Presidente debba avere le funzioni di appello, come prevedrebbe testualmente la norma.
[11] Art. 118 ord. Giud., mai abrogato peraltro.
[12] Il sistema era così strutturato: l'anzianità necessaria per la nomina alla qualifica di magistrato di tribunale è di due anni a decorrere da quella di uditore con funzioni (cfr. l. 2 aprile 1979, n. 97); dopo undici anni di funzioni, i magistrati di tribunale possono essere nominati alla qualifica di magistrato di corte d'appello (l. 25 luglio 1966, n. 570); l'anzianità richiesta per la dichiarazione di idoneità alla nomina a magistrato di cassazione è di sette anni a decorrere dalla nomina a magistrato di corte d'appello; decorsi ulteriori otto anni i magistrati possono essere dichiarati idonei per la nomina alle funzioni direttive superiori (l. 20 dicembre 1973, n. 831).
[13] Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati, paragrafo XX- disposizioni transitorie, punto 2.1
[14] Pratica num. 336/VV/2011 - Disposizioni in materia di supplenze, assegnazioni, applicazioni e magistrati distrettuali per assicurare il regolare svolgimento della funzione giurisdizionale in presenza di difficoltà organizzative, Delibera Plenum del 20 giugno 2018, srt. 20 comma 2.
[15] Art. 8 comma 2: “Con l'osservanza delle disposizioni di cui al comma precedente [con decreto del Presidente della Repubblica in conformita' delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ndr.] sono nominati un presidente e un magistrato supplenti per ogni corte di assise o corte di assise di appello”.
[16] Nella citata Risposta a quesito del 23 ottobre 1996, p. 2
[17] Articolo 201, Collegi bis per le Corti di assise e per le Corti di assise d’appello:
1. Le proposte tabellari indicano, per le corti di assise e per le corti di assise d'appello, i criteri generali che consigliano la istituzione dei cosiddetti collegi bis, ai sensi dell'articolo 10 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273.
2. La formazione dei collegi bis è specificamente motivata con riferimento ai criteri indicati nel comma che precede, ovvero alle peculiari ed eccezionali ragioni della eventuale deroga.
3. Le proposte tabellari indicano i nominativi di due magistrati da designare per i dibattimenti che si prevedono di durata particolarmente lunga, in qualità di aggiunti a norma dell’articolo 10 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273, precisando i criteri della scelta.
4. In mancanza dell’indicazione dei nominativi, vanno specificati i criteri di designazione dei magistrati che presteranno servizio a norma del citato articolo 10.
5. In linea generale, salvo casi particolari, è possibile designare come aggiunto un unico magistrato.
[18] L’art. 10 prevede solo che il collegio venga presieduto, in caso di impedimento del presidente, dal componente piu' anziano.
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