ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“L’Italia Immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire”.
Maria Alessandra Sandulli intervista Michele Corradino
Michele Corradino è Presidente di Sezione del Consiglio di Stato ed è stato Consigliere dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione. E’ autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto amministrativo, ultima delle quali è “L’Italia immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire”, edito da Chiarelettere nel novembre 2020. Ne illustra i contenuti per i lettori di GiustiziaInsieme nell’intervista curata da Maria Alessandra Sandulli.
(M.A.S) Intento dichiarato è quello di parlare ai cittadini, non solo ai giuristi, per spiegare le “criticità” degli appalti, che sono poi lo specchio del nostro intero sistema amministrativo. Come sottolineato nell’introduzione, il viaggio nel mondo degli appalti è un viaggio nella qualità delle vite di tutti di noi: al di là della rilevanza che gli appalti notoriamente hanno nel nostro sistema economico (si parla di circa 170 miliardi di euro) essi impattano sulla costruzione delle infrastrutture che ci consentono di viaggiare, di trasportare merci e di distribuire beni essenziali come luce, gas, e acqua, sulla realizzazione e manutenzione delle scuole e degli ospedali, sulla fornitura dei nostri dispositivi medici, sul funzionamento dei nostri servizi pubblici. Alla luce della esperienza maturata come Consigliere di Stato e Consigliere ANAC, segnala la necessità di un controllo sociale diffuso sugli appalti pubblici, perché i controlli pubblici non bastano e ogni cittadino deve farsi “sentinella della legalità”. Per poterlo fare, deve però conoscere dove si possono annidare i fenomeni di corruzione e di mala gestio, e il libro ha lo scopo di guidare i cittadini in questo compito, facendo conoscere loro gli appalti dal di dentro e raccontando “come si ruba negli appalti” (pag 5), ma anche di richiamare l'attenzione dei giuristi sui problemi veri della gestione degli appalti. Ecco, sotto questo profilo chiederei innanzi tutto di chiarire i veri e i falsi problemi: è una questione di eccesso di regolazione normativa? i problemi sono creati dal potere di annullamento e sospensione delle gare esercitato dai giudici amministrativi?
(M.C.) La disciplina degli appalti sembra non avere pace. Un recente studio del Sole 24 ha mostrato come il vecchio Codice del 2006 fosse stato modificato ben 223 volte in meno di un decennio e come anche il nuovo Codice dei contratti pubblici non abbia avuto vita facile. Fino a fine 2019, e quindi prima delle modifiche introdotte da questo Governo, cinque diversi provvedimenti normativi vi hanno apportato già ben 130 modifiche. Questa volta ottenendo perfino il primato, non invidiabile, di modificare istituti neppure entrati in vigore.
L’instabilità normativa ha due effetti negativi sullo sviluppo: confonde i funzionari e ostacola gli investimenti.
L’efficacia delle norme, infatti, spesso è affidata ai decreti attuativi, che hanno bisogno di un ulteriore passaggio normativo. Le nuove norme cioè rinviano a nuovi atti secondari, ognuno dei quali deve essere redatto, deliberato, pubblicato e attuato. Spesso poi l’emanazione di questi atti coinvolge diversi ministeri che a vario titolo – proposta, parere, intesa, concerto – sono interessati dalla procedura. In un contesto politico difficile quale quello che ha caratterizzato quest’ultimo decennio è ben possibile che la normativa attuativa si areni e che resti inattuata. Un recente studio dell’Ance censiva più di 800 decreti attuativi non ancora emanati in materia di appalti. Tra i provvedimenti inattuati non può non ricordarsi il DPCM che avrebbe dovuto indicare i criteri per la qualificazione delle stazioni appaltanti e che a oltre cinque anni dall’entrata in vigore del codice non è stato ancora emanato nonostante la riduzione degli oltre trentamila soggetti che bandiscono gare in Italia costituisca un architrave del nuovo diritto degli appalti. Credo per questo che sia da approvare e stabilizzare l’iniziativa recentemente assunta dal Governo di compiere una sistematica attività di monitoraggio dei decreti inattuati e di nudging nei confronti dei Ministeri.
Più in generale, mi sembrerebbe importante una fase di “tregua normativa” che stabilizzi le regole e consenta alle amministrazioni e alle imprese di metabolizzarle. Sarebbe opportuno, poi, e di individuare strategie di azione di lungo periodo. Ogni riforma porta inevitabilmente ad un tempo di latenza determinato non soltanto dalla necessità di emanare la normativa secondaria ma anche da quella, del tutto fisiologica, di amministrazioni e imprese di studiare le nuove regole e adeguare ad esse le loro strutture e le loro strategie. Di queste esigenze di stabilità bisognerà tenere conto nella redazione dei criteri della legge delega che il Parlamento si accinge a varare per modificare ancora una volta il codice dei contratti pubblici.
Quanto all’idea della giustizia amministrativa come freno al sistema economico periodicamente riproposta dai media e dalla stessa politica, credo sia necessario abbandonare un approccio emotivo per guardare ai numeri. Dall’analisi sull’impatto del contenzioso amministrativo in materia d’appalti, periodicamente pubblicato dal Consiglio di Stato sulla base dei dati pubblicati dall’ANAC, emerge che sono impugnati gli atti di meno del due per cento delle gare bandite. Le richieste cautelari di sospensione sono state mediamente accolte dai giudici, tenendo conto dei due gradi, nello 0,5 per cento dei casi. ll blocco riguarda circa una gara su 200 bandite. Quanto ai tempi, occorre mediamente un anno per ottenere una sentenza definitiva in due gradi in materia di appalti e trenta giorni per vedere pronunciata un’ordinanza cautelare. Tutto è certamente migliorabile ma credo vada guardata con cautela la tendenza legislativa alla progressiva estensione delle regole processuali che diminuiscono la garanzia dei diritti a vantaggio della tutela risarcitoria. Se può condividersi che ciò avvenga in una fase emergenziale in cui la priorità è la ricostruzione del sistema economico sulle macerie lasciate dalla pandemia, sarebbe gravissima, sotto il profilo costituzionale e della tutela dei diritti fondamentali, un’estensione a regime di un sistema che comprime la possibilità di reagire di fronte a comportamenti illegittimi della pubblica amministrazione.
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(M.A.S) Rimanendo sull’argomento del legislatore e del giudice. Lei stigmatizza giustamente le “riforme di carta”. Quanta parte di colpa ha nella cattiva gestione degli appalti l'instabilità normativa e, mi consenta, la volontà del legislatore di lasciare spazio alla giurisprudenza? Facciamo un esempio concreto. Ha richiamato nel libro il problema dell'articolo 120 del nostro codice processuale, che lega inaccettabilmente ancora la decorrenza del termine decadenziale di impugnazione degli atti delle procedure di affidamento degli appalti a una comunicazione che non esiste più da oltre cinque anni. Ho provato più volte anche io a sollecitare un intervento del legislatore sul punto. Come spiega che nonostante in questi anni vi siano state diverse riforme della disciplina, anche processuale, degli appalti nonostante le sollecitazioni della stessa Adunanza Plenaria, il problema non sia stato ancora risolto?
(M.C.) Credo che la vicenda dell’art. 120 c.p.a. che, nonostante i numerosi interventi di riforma sul codice degli appalti e sullo stesso codice del processo amministrativo, continua a fare decorrere il termine decadenziale di impugnazione degli atti delle procedure di gara da una comunicazione che non esiste più, sia emblematica di una sorta di incomunicabilità cronica tra il legislatore e gli operatori. Ogni riforma sembra investire i grandi temi del diritto degli appalti mentre ignora le richieste di modifica che provengono dai funzionari della pubblica amministrazione e dalle imprese. L’ostilità mostrata dalle associazioni di categoria degli imprenditori, dai sindacati e dagli amministrativi pubblici che hanno lamentato la mancanza di attenzione nei confronti delle loro richieste ne è la riprova più evidente. Credo bisognerebbe aumentare la capacità di ascolto magari mediante la creazione di tavoli di lavoro cui fare partecipare chi gli appalti li realizza davvero. Le consultazioni svolte dall’ANAC per l’emanazione delle linee guida erano aperte a tutti e molti suggerimenti interessanti provenivano dai RUP che quotidianamente si scontravano con le difficoltà operative create dalla normativa.
(M.A.S) Ancora una domanda sul tema delle fonti, con riferimento al quale Lei pone giustamente l'accento sul problema della difficoltà della loro individuazione. Quale è stata la sua esperienza sulle tanto discusse linee guida ANAC?
(M.C.) Nelle intenzioni del codice le linee guida dovevano essere uno strumento duttile in grado di adeguare rapidamente la normativa che disciplina gli appalti ai mutamenti della struttura del loro mercato dettati, da un lato, dall’evoluzione della tecnologia e, dall’altro, delle esigenze sociali che si riflettono sulla domanda pubblica. Le procedure previste per l’adozione di un regolamento governativo non avrebbero consentito una tale rapidità di azione. Non c’è dubbio però che le linee guida non sono state accolte con favore dalle imprese e dalle pubbliche amministrazioni che vi hanno riconosciuto una scarsa capacità di orientare i loro comportamenti. Credo che questo sostanziale insuccesso sia dovuto a diversi fattori. Il primo, certamente, l’incomprensibile scelta del codice di non fissare un criterio distintivo certo tra le linee guida vincolanti e quelle non vincolanti e di non individuare con chiarezza le conseguenze della violazione delle une e delle altre. In verità il Consiglio di Stato nel suo parere sul codice aveva indicato una soluzione interpretativa semplice e lineare coincidente con l’assetto normativo cui siamo abituati nella trattazione delle fonti ma la successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e la prassi amministrativa hanno seguito strade più tortuose complicando la vita agli operatori.
A questo si aggiunge che la scelta di utilizzare un linguaggio “in prosa” anziché quello tipico della costruzione della norma cui siamo abituati ha disorientato gli operatori, quanto meno nella fase iniziale della loro vigenza. Mancava, si diceva, un adeguato livello di prescrittività. Dai colloqui con gli amministratori e gli imprenditori si era tuttavia percepito che, con il passare del tempo, questo problema sembrava superato.
Credo comunque che il frutto più maturo delle linee guida sia stato quello delle consultazioni. Il Consiglio di Stato aveva in più occasioni affermato che fosse necessario colmare il deficit di rappresentatività che è tipico di un’Autorità amministrativa indipendente con un maggiore livello di partecipazione dei destinatari delle norme alla fase della loro formazione. E l’ANAC aveva preso molto sul serio questa indicazione avviando consultazioni ampie con tutte le categorie interessate in occasione dell’emanazione di tutte le linee guida. In questo modo si è superato il classico modello Top/Down nella formazione delle norme e si è creato uno strumento di dialogo tra amministrazione e soggetti vigilati che ha consentito una maggiore conoscenza della struttura e delle esigenze dei mercati. Basta vedere le versioni iniziali delle linee guida e quelle poi approvate, sono tutte sul sito, per verificare quanto esse risultino modificate a seguito dei colloqui con gli operatori.
Mi sia consentito ricordare, infine, il grande spirito collaborativo che si era creato tra l’ANAC e la Sezione consultiva del Consiglio di Stato allora presieduta da Luigi Carbone. L’ANAC aveva deciso di chiedere il parere del Consiglio per tutte le linee guida e per tutti gli atti normativi pure quando ciò non fosse richiesto dalla legge. Altrettanto avveniva anche per atti di indirizzo o per questioni particolarmente delicate da un punto di vista giuridico. Le prescrizioni del Consiglio, tutte molto attente all’analisi di impatto della regolamentazione, benché spesso non vincolanti nel contenuto, sono state sempre seguite dall’ANAC e questo ha contribuito a creare un assetto normativo stabile e chiaro che infatti ha fin qui retto pienamente sul piano giudiziario. In questo modo si era creato un rapporto sinergico tra Istituzioni dello Stato che ha rafforzato il livello di fiducia degli operatori in un contesto economico particolarmente complesso quale quello che abbiamo vissuto in questi anni.
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(M.A.S) Nel libro si pone l’accento anche sull’esigenza di riqualificazione del personale pubblico con valorizzazione dei tecnici e delle nuove figure di professionisti esperti nei mercati (come il buyer e il controller), ma le pongo una domanda da giurista: secondo Lei, la formazione dei giuristi oggi è adeguata o la tendenza a una eccessiva specializzazione fa perdere di mira quelle basi (la capacità di ricostruzione del quadro delle fonti, la conoscenza approfondita dei principi e delle regole generali) che invece sono fondamentali per affrontare adeguatamente qualsiasi problema e magari per muoversi meglio nel ginepraio normativo?
(M.C.) Credo che la grande sfida della formazione sia proiettare la grande tradizione giuridica nel futuro. Lo studio dei principi e delle regole è fondamentale sia per orientarsi con sicurezza nel labirinto normativo creato dal legislatore in tutti i settori normati sia per mantenere ferma la rotta della tutela incondizionata dei valori costituzionali e dei diritti fondamentali nella creazione e nell’applicazione della legge. Non c’è dubbio, però, che il mondo cambia rapidamente e che il giurista oggi non può rischiare di non andare al passo con l’evoluzione tecnologica. Si pensi all’intelligenza artificiale e ai problemi che essa sta ponendo già alla giurisprudenza sia sotto il profilo della tutela dei diritti sia sotto il profilo della riferibilità della decisione in diritto pubblico. Il rischio è che la mancata comprensione della tecnologia si traduca in un deficit di tutela per il singolo o peggio in una abdicazione della decisione politica o di quella giudiziaria ai detentori del sapere tecnologico. Il rischio della tecnocrazia va arginato allargando gli orizzonti formativi dei giuristi.
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(M.A.S) Rimuovere la paura della firma e tutelare il funzionario in buona fede sono esigenze che vanno senz’altro considerate sul versante del decisore pubblico, come giustamente sottolinea nel suo libro; ma, che ne dice del privato in buona fede che, sempre più spesso, viene chiamato responsabile per errori di diritto equiparati alle false dichiarazioni e subisce esclusioni, revoche, decadenze, ordini di restituzione di benefici e, magari, sanzioni interdittive per gli stessi errori che vengono giustificati ai funzionari pubblici, nonostante questi ultimi dovrebbero in teoria avere le competenze e il ruolo per evitare l’errore? Perché ai privati si imputano responsabilità di tipo oggettivo (la giurisprudenza amministrativa nega la valenza dell’elemento soggettivo) per errori di diritto che, in nome dell’incertezza normativa, giustamente si “affrancano” a chi istituzionalmente dovrebbe averla?
(M.C.) La responsabilizzazione del privato è strettamente legata alla liberalizzazione e alla rinuncia alla necessità del controllo preventivo della pubblica amministrazione per lo svolgimento di numerose attività. Di fronte all’impossibilità per la pubblica amministrazione di rispondere in tempi ragionevoli alle richieste del privato, la tendenza della legislazione è stata quella di ampliare i confini del silenzio assenso. La conseguenza è che attività in grado di incidere sulla salute pubblica, sull’ambiente, perfino sulla sicurezza sono sostanzialmente liberalizzate e l’esistenza in capo ai gestori dei requisiti minimi è rimessa a controlli sporadici e casuali. Il sistema può reggere solo se sono previste sanzioni certe ed interdittive per quanti abbiano fornito dati falsi o svolgano l’attività in assenza dei requisiti minimi. Chi tradisce la fiducia della comunità deve essere immediatamente e definitivamente espulso dal mercato. Ci sono due aspetti che però non vanno sottovalutati. Da una parte c’è l’esigenza di tutelare chi sbaglia in buona fede. In questo caso, credo, c’è anzitutto un problema di chiarezza delle regole e di possibilità di dialogo fluido con la pubblica amministrazione come avviene in altri Paesi. D’altra parte, desta preoccupazione la tendenza legislativa a trasferire la responsabilità dal pubblico al privato: ne è testimonianza il nuovo comma 2 bis dell’art. 20 della l. 241/1990, introdotto dal d.l. 71/21, che prima lega il silenzio assenso ad un’attestazione del decorso dei termini “e dell’intervenuto accoglimento della domanda” del privato da parte della pubblica amministrazione e poi, in ipotesi di mancato rilascio di tale documento, prevede inspiegabilmente che essa sia sostituita da una dichiarazione dell’interessato resa ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 445/2000 che, com’è noto, è penalmente sanzionata in caso di falsità.
Dietro l’alibi dell’accelerazione sembra annidarsi un trasferimento del costo e soprattutto del rischio dell’inefficienza della pubblica amministrazione sul soggetto privato richiedente.
(M.A.S) Torniamo a qualche profilo più prettamente tecnico della disciplina degli appalti. Personalmente, ho molto apprezzato la Sua proposta di istituire un albo dei commissari dal quale attingere mediante sorteggio per garantire trasparenza e imparzialità delle decisioni. Che ne pensa dei nuovi Collegi Consultivi tecnici con funzioni di assistenza, consulenza e di eventuale risoluzione delle controversie nella fase esecuzione dei lavori che il decreto semplificazioni del 2020 impone alle stazioni appaltanti di costituire per ogni opera? Per evitare che si crei una cerchia ristretta di decisori arbitrali non sarebbe, almeno, opportuno prevedere anche per questi un albo con un sistema di sorteggio e un sistema di rotazione accompagnato da regole che impediscano tanto ai membri di parte pubblica quanto agli studi professionali associati o caratterizzati da rapporti di collaborazione stabile tra più professionisti di vanificare tali principi?
(M.C.) Considerata la delicatezza delle funzioni svolte dal Collegio mi sembra indispensabile una disciplina che assicuri il rigoroso controllo dell’imparzialità e della professionalità dei suoi membri. Quanto accaduto in passato con i collegi arbitrali dovrebbe spingere a grande cautela nell’individuazione dei componenti di questi collegi.
(M.A.S) Il decreto-legge governance alza le soglie oltre le quali non può procedersi agli affidamenti diretti. Lei però ha segnalato il tema dei finti affidamenti diretti degli appalti sotto soglia. Come vede quindi l'innalzamento delle soglie?
(M.C.) Il progressivo innalzamento delle soglie in ogni legge di riforma degli appalti credo sia lo specchio della lacerazione della politica tra voglia di semplificare - togliendo ogni regola - e amara consapevolezza che l’assenza di regole è fonte di spreco e malaffare. Di aumento in aumento, però, stiamo rapidamente arrivando alle soglie comunitarie e quindi il problema della scelta temo non si porrà più.
(M.A.S) Il libro è di massima attualità in questo momento in cui l’Italia deve riprendersi dalla crisi e, per non perdere la straordinaria e irripetibile occasione offerta dai fondi europei, deve poter contare su appalti celeri ed efficaci. Il libro è stato però scritto prima della pandemia, e quindi non si parla né di PNRR né più in generale delle misure messe in campo per uscire dall’emergenza sanitaria ed economica creata dalla pandemia. Se potesse aggiungere a “L’Italia immobile” un capitolo su questo, cosa ci scriverebbe?
(M.C.) Scriverei di un Paese che è riuscito a reagire all’emergenza, di un Paese che nei momenti più gravi riesce a dare il meglio di sé, di un Paese che sta provando giorno per giorno a ricostruire e che sta dimostrando che, pure di fronte alla crisi più grave e inaspettata, è possibile coniugare legalità e sviluppo non rinunciando alle regole. Sì, credo aggiungerei un capitolo dedicato al futuro e alla speranza.
Conversazione d’agosto con Armando Spataro
Intervista di Laura Reale e Michela Petrini
L’intervista che segue è una conversazione con Armando Spataro sui temi dell’essere magistrato oggi, del senso della partecipazione alla vita associativa, del ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura in questo difficile momento storico.
Armando Spataro è entrato in magistratura nel 1975 e ha svolto funzioni di Pubblico Ministero per tutto l’arco della sua carriera, ad eccezione del quadriennio luglio 1998/luglio 2002, in cui è stato collocato fuori ruolo come componente eletto del CSM. Ha rivestito funzioni di Sostituto e di Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, poi di Procuratore della Repubblica a Torino fino al 16 dicembre 2018, allorchè ha cessato l’esercizio delle funzioni di magistrato per raggiunti limiti di età. E’ stato dirigente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Attualmente è docente a contratto, presso la Università Statale di Milano, in “Politiche della Sicurezza e dell’Intelligence”. Le pagine che seguono contengono anche riferimenti a valutazioni già da lui espresse nel suo libro “Ne valeva la pena, storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza 2010), nonché in vari suoi interventi in altri libri, in riviste e quotidiani, in corsi di formazione ed eventi vari.
Abbiamo dunque voluto offrire i contenuti di questo dialogo con Armando Spataro senza alcuna revisione o ridimensionamento apprezzando la genuinità del racconto che, come il lettore si accorgerà, attinge a piene mani dalla sua intensa e lunga esperienza in magistratura. Ne emerge, a nostro avviso, un magistrato ed un cittadino con lo sguardo costantemente rivolto al senso più profondo dell’essere magistrati e dell’essere cittadini ovvero quello di rendere un servizio al “cittadino qualunque” e di partecipare attivamente alla costruzione di una società più giusta.
1) L’analisi, ancora in corso, delle chat del telefono di Palamara ha messo in luce un uso distorto o meglio strumentalizzato dell’appartenenza alle correnti che, da luoghi di elaborazione e confronto, sono state vissute da molti quale “trampolino di lancio” per fini personali legati esclusivamente alla carriera. Ciò ha reso palese l’esigenza di una profonda autocritica volta a rivedere ed analizzare le cause che hanno determinato una simile degenerazione rispetto alla quale il “caso Palamara” ha avuto il merito di squarciare il velo d’ignoranza per affrontare finalmente, con maggiore franchezza, la “questione morale”. E tuttavia, la “questione morale”, di sicuro rilievo, non è di per sé un programma politico ma, piuttosto, il presupposto di ogni visione di sistema; essa dovrebbe unire tutte le anime della magistratura e dovrebbe costituire la base sulla quale innestare proposte ed idee, anche tra loro differenti.
Qual è, secondo il tuo punto di vista, nel lungo periodo, il modo per uscire da questo “impasse”?
Premessa telegrafica: periodicamente torna di attualità il tema delle tanto vituperate correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati e questo mi spinge subito a guardarmi indietro ed a voler ricordare e raccontare.
In particolare, voglio ricordare ad eventuali giovani lettori che nell’aprile del 1988 nacque nell’ambito dell’Associazione magistrati il Movimento per la Giustizia e che tra i fondatori vi furono Giovanni Falcone, Vladimiro Zagrebelsky, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo e molti altri ancora, tra i quali io stesso. Quella del gruppo fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa fino a renderla vuota di contenuti. L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti depositavano i propri deliberati interni. E il fatto che «ci si contava» veniva scambiato per esercizio di democrazia.
Vorrei essere chiaro: non sono tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Non vedo perché dovrebbe essere vietato o criticabile che anche i magistrati riconoscano le proprie affinità con taluni colleghi e a costoro preferiscano far riferimento per elaborazioni culturali o per designarli – attraverso il voto – a compiti di rappresentanza o direzione nell’Associazione o a funzioni istituzionali in seno al Csm. E’ chiaro che questi sono i meccanismi della democrazia rappresentativa e non si vede perché dovrebbero valere solo per i partiti e per le elezioni politiche. E’ tuttavia vero che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere i dirigenti degli uffici in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. Meccanismi perversi, dunque, ai quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm (avvocati e professori universitari eletti dal Parlamento in seduta comune), che spesso non celano vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come candidati a quella carica.
Tra i magistrati circolano spesso sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che, ad es., le note conversazioni e gli incontri di cui si è parlato negli ultimi tempi costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali.
Immediati e prevedibili sono stati i conseguenti attacchi alla Associazione Nazionale Magistrati ed alle sue “correnti” descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche. Si invoca, per porvi rimedio, la trasparenza piena delle motivazioni di ogni scelta consiliare pur se a tal fine non basta certo la pubblicità delle sedute delle Commissioni consiliari, inidonea a far emergere possibili influenze esterne.
È giunto il momento, allora, di essere chiari per uscire dal guado, anche perchè in certe situazioni non sono ammesse difese corporative di alcun tipo: i valori della indipendenza assoluta, dell’indifferenza alle aspettative della politica, della professionalità, dell’attenzione al pubblico interesse ed ai diritti di tutti vanno oggi posti nuovamente in primo piano, vincendo sulle aspirazioni personali e sulle rivendicazioni economico-sindacali della magistratura. Persino l’uso della definizione di «sindacato delle toghe», a mio avviso, è un modo per intaccare l’autorevolezza dell’ANM.
Ma deve essere chiaro che non esistono bacchette magiche per rigenerare le correnti e l’impegno associativo e che è profondamente errato farsi condizionare dal populismo dominante, come a mio avviso accade quando si auspicano automatismi nelle nomine ad incarichi direttivi e semidirettivi o la penalizzazione di chi ha svolto attività fuori ruolo, quasi che ciò comportasse un marchio eterno di inaffidabilità.
In realtà, queste posizioni sembrano ispirarsi alla logica della rassegnazione, mentre deve affermarsi quella della reazione virtuosa.
La “questione morale” non cesserà mai di esistere, così come sarà sempre impossibile eliminare una quota di discrezionalità nelle scelte consiliari. Le correnti, allora, tornino ad essere luoghi di discussione ideale e culturale come erano e come possono esserlo ancora, a partire da un impegno civile che, ovviamente collegato a questioni giuridiche, le spinga a schierarsi innanzitutto a tutela dei diritti fondamentali delle persone ed a difesa dei principi costituzionali su cui si regge ogni democrazia.
Si tratta di un’affermazione retorica e scontata? Basterà ad emarginare i frutti marci dell’associazionismo? Alla prima domanda rispondo “forse sì!”, ma tutto dipende da come si intende farla vivere nel quotidiano, evitando di privilegiare le pur importanti questioni manageriali nella gestione degli uffici quali parametri della autorevolezza dell’amministrazione della giustizia. Alla seconda rispondo con certezza: “no!”, ma nessuno possiede la soluzione magica per eliminare o marginalizzare soggetti indegni da qualsiasi comunità, sociale o politica. E’ per questo che occorre conoscere la realtà in cui si vive e si opera ed orientarsi conseguentemente nelle scelte di rappresentanza. Ma per le correnti deve valere – e non solo in occasione delle scadenze elettorali - più la coerenza dell’agire in relazione ai principi cui si ispirano ed alla propria identità culturale, piuttosto che la ricerca del consenso o la politica dei “passi felpati” e degli accordi ad ogni costo. Questa è almeno l’idea delle correnti in cui ho sempre creduto e di quella che ho contribuito a fondare.
2) Ad oggi pare che la destabilizzazione interna sia il principale nemico della magistratura e, come la storia insegna, in questi momenti di fragilità, ritornano nel dibattito politico temi quali quello della separazione delle carriere o sul sistema elettorale del CSM. Quest’ultimo, in particolare, viene considerato una delle cause del malcostume interno. In realtà, un minimo di analisi storica delle riforme del sistema elettorale che si sono succedute negli ultimi vent’anni, consente di verificare come l’obiettivo dichiarato da tutte sia stato quello di ridurre il potere delle correnti, viste come il male assoluto. Persino l’ultima riforma, di modifica del previgente sistema - che prevede quattro collegi unici nazionali con maggioritario puro eliminando la previsione di liste e prevedendo candidature dei singoli - aveva questo obiettivo ed ha avuto esattamente il risultato opposto.
Qual è, secondo la tua esperienza e la tua opinione, il modello elettorale che meglio può realizzare la formazione del CSM di cui alla Carta costituzionale e, ancora, ciò premesso, la riforma del sistema elettorale può davvero costituire la panacea di tutti i mali?
Come è noto, le ultime proposte di modifica della legge elettorale sono nate per evitare – si dice - che i 16 magistrati eletti dai loro colleghi quali componenti del CSM siano semplici esecutori delle direttive dei gruppi di rispettiva appartenenza. Negli ultimi decenni, peraltro, vi sono già state modifiche di tale legge, la più importante delle quali ha comportato l’abolizione del sistema elettorale proporzionale fondato su liste contrapposte in favore del maggioritario puro, una soluzione che ha però generato altre criticità.
Ho già detto che ritengo profondamente errato disconoscere il valore culturale e la funzione democratica delle correnti. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto aprire la formazione professionale alle esperienze esterne alla magistratura? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore voglia conoscere le opinioni dei candidati che, a loro volta, non possono che aggregarsi per omogeneità di vedute e di programmi, con o senza sigla. Lo ripeto : sto parlando di elementari regole della democrazia. Ecco perché, come ho detto, le correnti devono essere luoghi di condivisioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma la deriva corporativa.
La soluzione dei problemi emersi sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm, nell’Associazione e nel suo lavoro quotidiano – nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza.
Si deve però chiedere a politici, a studiosi ed a chi osserva la realtà che ci circonda di evitare ingiustificate generalizzazioni e strumentalizzazioni delle criticità nel tempo emerse. Ad esempio, trovo che la più comica delle riforme immaginabili (di cui si continua a parlare), sia quella del sorteggio – immagino ad opera di una dea bendata che infili la mano libera nell’urna - per designare non i dirigenti di una bocciofila di quartiere ma i componenti del CSM . Una proposta assolutamente incostituzionale ma anche illogica e di segno qualunquistico .
L’art. 104 della Costituzione, infatti, prevede che, al di là dei tre membri di diritto, due terzi dei componenti siano eletti dai magistrati ordinari ed un terzo dal Parlamento in seduta comune tra accademici ed avvocati con almeno 15 anni di servizio alle spalle. Per introdurre il sorteggio, dunque, bisognerebbe modificare la Costituzione. Ma ecco che, di fronte a questo rilievo, si propone il ricorso ad indegne furberie, proponendo due fasi distinte: nella prima sarebbero sorteggiati i magistrati disponibili ad essere i candidati tra cui i loro colleghi, nella seconda, sceglierebbero con il voto i componenti del CSM. In tal modo sarebbe assicurato il rispetto delle regole della Costituzione. Qualcuno, a dire il vero, ha anche proposto fasi inverse: prima il voto e poi il sorteggio.
Se fosse accolta, la proposta del sorteggio comunque paludata – già bocciata da molti autorevoli costituzionalisti - porterebbe ad annullare la rappresentatività della magistratura che i padri costituenti vollero per il CSM, in quanto organo di autogoverno, finendo con l’umiliare proprio l’elettore e la sua dignità. Ed aprirebbe la strada alle più ardite provocazioni istituzionali: se fosse approvata, qualcuno potrebbe proporre l’ipotesi di sorteggio anche per i membri del Parlamento, considerata la gravità delle deviazioni corruttive e deontologiche che la storia dei partiti ci ha fatto conoscere.
Non nascondo che ciò che mi lascia senza parole, però, non è tanto l’atteggiamento di parte del ceto politico o di certi pseudo intellettuali-accademici favorevoli al sorteggio, ma quello dei non pochi magistrati che il sorteggio sostengono.
Non vale la pena di nominarli o di ricordare gli schieramenti cui eventualmente appartengono: semplicemente non meritano risposta.
Altrettanto inaccettabile, ovviamente, è la proposta populista di abolire le correnti dei magistrati, non si comprende se con legge o con atto interno dell’ANM.: ancora una volta, ci si deve chiedere se chi formula tali ipotesi conosca la Costituzione, in particolare il principio di libertà di associazione previsto nell’art. 18.
E, tornando al precedente accostamento, perché non sciogliere i partiti visto che nella vicenda di cui tanto si parla sono coinvolti anche esponenti politici? Come non vedere che per tale via si collocano le istituzioni repubblicane e la vita democratica su un pericoloso piano inclinato?
“Il rimedio è la separazione delle carriere e la conseguente creazione di separati CSM!” dicono allora altri! L’argomento è complesso e richiederebbe analisi articolate e profonde. Ma è certo che si tratterebbe di una riforma assolutamente inutile foriera di seri pericoli per l’autonomia della magistratura italiana, abbandonando un modello istituzionale – quello che consente, a certe condizioni, di passare dal ruolo di p.m. a quello di giudice e viceversa – che anche il Consiglio d’Europa, sin dal 2000, considera un obiettivo verso cui tutti gli altri ordinamenti giudiziari europei dovrebbero tendere.
Ovviamente, potranno intervenire provvedimenti correttivi delle norme in vigore in tema di elezione del CSM. Ad es., io credo che il sistema migliore sia quello proporzionale a liste contrapposte, sostituendo però il collegio unico nazionale con più collegi territoriali, così da valorizzare la conoscenza diretta e la stima professionale dei candidati da parte degli elettori. Le liste, però, dovrebbero essere costituite da un numero minimo di candidati per ogni ruolo così da evitare sgradevoli accordi come quello che, nell’ultima elezione, ha visto le quattro correnti proporre ciascuna un solo candidato PM in modo da farli tutti eleggere nei quattro posti in gioco. Davvero incredibile e criticabilissima scelta…e mi spiace che sia stata condivisa anche da AREA !
Si può pensare anche ad altro, purchè si usino freddezza e distacco dalle passioni e dalle fazioni nell’analisi della situazione attuale e dei possibili rimedi, recuperando il rispetto tra le istituzioni ed il concetto stesso di rappresentanza del CSM.
E chi governa, in particolare, eviti di agire “a furor di popolo”, espressione che costituisce il titolo di un recente testo del prof. Ennio Amodio in cui sono efficacemente criticati contenuti e ragioni di recenti riforme (dalla legittima difesa ai decreti sicurezza) ispirate soprattutto dalla ricerca di facili consensi.
Il pericolo, insomma, è che le conseguenze di quanto è sotto i nostri occhi diano nuovamente fiato a chi vuol umiliare la magistratura riducendola al rango di un ordine sottoposto agli altri due poteri, teoria costituzionale “innovativa” rispetto ai rudimenti della educazione civica, ma in epoca berlusconiana cara persino a due ministri della Giustizia.
L’irrinunciabile pre-requisito di ogni riforma – che da sé non potrà mai essere la panacea di tutti i mali - riguarda comunque i magistrati elettori per i quali, ai fini di un voto libero, consapevole e motivato va invocata, così come per i cittadini nelle elezioni politiche, una più approfondita conoscenza dei programmi e dei profili dei candidati. Lo ripeterò fino alla noia.
3) Questa è una fase di transizione storica per la magistratura italiana e probabilmente le scelte dell’organo di autogoverno di oggi condizioneranno gli anni futuri della magistratura e del modo di essere magistrati. Le degenerazioni correntizie messe a nudo negli ultimi due anni hanno, da un lato, posto in primo piano la questione morale, dall’altro, accentuato la fuga dalle correnti e dalla vita associativa, nella convinzione che da certi meccanismi di “gestione del potere” sia meglio rimanere fuori per occuparsi, in via esclusiva, dell’esercizio della giurisdizione, senza alcun condizionamento. In tale contesto ambizione e potere sono termini che hanno assunto una connotazione esclusivamente negativa ma, allo stesso tempo, a ben vedere, il potere è responsabilità e l’ambizione, se sana, è quel motore immobile che serve a garantire impegno, studio, applicazione.
Qual è allora oggi, in questo momento di grande tensione, il compito del Consiglio Superiore della magistratura e come va contemperata l’esigenza di recupero di un rigore morale troppo spesso dato per scontato con il pericolo di alimentare una cultura del sospetto o ingiustamente punitiva?
La domanda include due termini – potere ed ambizione - con riferimento, credo, al significato che possono assumere per il lavoro del magistrato. Voglio partire proprio da questa riflessione, ricordando che da magistrato ho sempre fatto il pm, senza avere mai trascurato – credo e spero – il significato di quelle parole. Parlo, dunque, sulla base di tale personale esperienza, e non mi interessa in questa sede riferirmi al potere politico, a quello economico o mediatico etc...
Il termine “potere”, per quanto ci riguarda, rimanda spesso ad espressioni che alcuni pubblici ministeri (sorretti da criticabili commentatori) usano per magnificare le proprie indagini quando parlano di “poteri forti” e “poteri occulti” che le hanno ostacolate: rifuggo da queste orride modalità comunicative! Per i magistrati che operano nel penale esistono indagati e imputati, noti o ignoti, e solo di questi si dovrebbe sobriamente parlare senza rimandi ad affascinanti “backstage”. Il potere dei magistrati è indubbiamente notevole, seppur costituzionalmente e processualmente garantito: basti pensare a quello di privazione della libertà altrui, di motivata violazione della privacy dei cittadini, della possibilità di irrogare condanne e pene, di dirigere la polizia giudiziaria .
Ma sono quasi sempre le Procure ed i Pubblici Ministeri ad essere additati come titolari di un potere illimitato ed incontrollato che utilizzerebbero per finalità non commendevoli.
Ed è al potere del P.M. che anche io voglio qui riferirmi, ricordando, in particolare, che i magistrati inquirenti devono condurre le indagini su ogni tipo di reato, spinti da una sola determinazione, quella di voler capire e conoscere fino in fondo i fatti, basandosi su prove affidabili da valutare con la cultura del giudice e non secondo la logica del «non si può escludere che…», su cui si fonda, purtroppo, il lavoro in Italia di non pochi pubblici ministeri. In proposito, cito un passaggio di un libro di Dick Marty (“Una certa idea di Giustizia” – 2020), amico ed importante giurista elvetico che richiama la necessità di essere «prudenti nel giudicare e attenti nel non lasciarsi trascinare dal pensiero dominante, che tende a interpretare i fatti come un conflitto ineluttabile tra bene e male, tra buoni e cattivi». Io aggiungo che è proprio questa auspicabile prospettiva che valorizza l’esercizio corretto del potere istituzionale del magistrato e del P.M. in particolare.
A ciò si lega anche l’attenzione dovuta ai rapporti con l’Avvocatura o alle modalità di conduzione degli interrogatori degli imputati: non servono atteggiamenti autoritari, ma obiettività, rispetto dei diritti, e uno sforzo per “scavare” nella personalità degli imputati, nelle ragioni dei reati da loro commessi e per valutare gli argomenti dei difensori. Ciò può determinare la costruzione di rapporti positivi anche con i peggiori criminali e consentire loro di passare da una sponda all’altra della vita.
Esiste poi – altrettanto indiscutibilmente - il “potere” specifico dei dirigenti degli Uffici Giudiziari, cioè Procuratori della Repubblica, Presidenti di Tribunali e Corti. Orbene, anche nell’esercizio di questo tipo di potere occorre innanzitutto rispetto della dignità di ogni interlocutore, perché si tratta di un potere organizzativo e non certo – almeno nella mia visione – di tipo gerarchico.
Consentitemi poche parole ancora, però, per illustrare la mia concezione del ruolo di Procuratore della Repubblica, quella cui ho cercato di ispirare la mia guida della Procura di Torino per i quattro anni e mezzo in cui vi ho lavorato, sperando di non essere incorso mai – anche solo per disattenzione – in comportamenti incoerenti. Si tratta di convinzioni che ho espresso in occasioni di incontri di studio del CSM e poi nei progetti organizzativi che ho redatto in occasione di domande per il conferimento di incarichi direttivi, incluso quello ho rivestito fino al giorno del pensionamento.
Un piccolo episodio può servire ad introdurre con un po’ di leggerezza questo delicato tema: per tutto il 2012 ho retto, come facente funzione di Procuratore, la Procura della Repubblica di Lodi ove mancavano, per vuoti d’organico, il Procuratore e quattro sostituti su cinque in organico. Ebbene rammento la mia scelta di modificare personalmente, grazie alla apposizione di un post-it adesivo, la targhetta che figurava all’ingresso del mio nuovo ufficio: vi era scritto “Procuratore Capo della Repubblica”, ma cancellai, coprendola, la parola “Capo”.
Perché non accettavo e non accetto la definizione di “Procuratore Capo della Repubblica”? Perché, indipendentemente dalle dimensioni dell’ufficio, un Procuratore della Repubblica non può, a mio avviso, ispirarsi ad una concezione gerarchica dell’esercizio delle sue funzioni: egli deve operare in piena armonia con tutti i componenti dell’ufficio stesso, non solo con i Procuratori Aggiunti, di cui va valorizzato appieno il ruolo co-organizzativo, ma anche con i Sostituti, rispettandone autonomia, professionalità e dignità. E l’obbligo di esercitare l’azione penale previsto nell’articolo 112 della Costituzione deve intendersi al Pubblico Ministero come ufficio! Con tale principio devono armonizzarsi l’interpretazione e l’applicazione del nuovo testo dell’art. 2 del D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 (come modificato dall’art. 1 L. 24.10.2006 n. 269) secondo cui “Il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio”.
Ciò significa che si deve praticare una sorta di gerarchia di tipo organizzativo, che sia soprattutto capace di esprimere un potere di indirizzo circa l’adozione, da parte degli aggiunti e dei sostituti, di criteri omogenei ai fini delle determinazioni inerenti il promovimento dell’azione penale e circa l’utilizzo delle risorse disponibili: un problema reale, presente in ogni Procura, che va affrontato “facendo squadra” .
Si tratta di un modello che evoca sinergie positive e l’immagine degli “Effetti del Buon Governo” di Ambrogio Lorenzetti, cioè il “buon governo” organizzativo di un ufficio. Di conseguenza, il “corretto, puntuale ed uniforme” esercizio dell’azione penale, che deve essere la prima preoccupazione di un Procuratore, rimanda ad un cammino che tutti i componenti dell’ufficio devono insieme progettare e costruire, facendosi poi carico della sua manutenzione, cioè dell’aggiornamento e della ulteriore messa a punto delle scelte, anche per effetto del diluvio di leggi, convenzioni e sentenze che ci piovono addosso intensamente, persino da terre lontane!
Insomma, i “procuratori-mandarini” sono esistiti in passato e rischiano di rivivere in futuro se dovesse prevalere una visione gerarchica dei poteri dei procuratori.
Trovo peraltro insopportabile l’eccesso di retorica e di autoreferenzialità che spesso è possibile individuare negli atteggiamenti e nelle parole di alcuni colleghi, pur se lodevolmente impegnati in indagini difficili e pericolose e per questo meritevoli della gratitudine di tutti. Lo affermo senza supponenza alcuna, ma da tempo non apprezzo quanti si propongono (o accettano che altri li propongano) come eroi solitari e isolati, unici custodi e ricercatori della verità, sicché chiunque osi esprimere critica e dissenso rispetto al loro operato viene solo per questo collocato nello schieramento dei nemici del bene e della verità.
A mio avviso, dobbiamo evitare di incorrere, sia pure in buona fede, in simili atteggiamenti espressione di una errata concezione del potere e dei doveri che la legge attribuisce ai magistrati. Ciò rischia, peraltro, di indurre in errore la pubblica opinione, facendole credere che la giustizia sia terreno riservato ad una eroica élite di magistrati ed investigatori: il nostro, invece, è un lavoro normale come tanti altri e la Giustizia è un “bene comune” che può affermarsi solo con l’impegno quotidiano di una collettività sensibile, qualunque sia il lavoro ed il sistema di vita di quanti la compongono.
A tal proposito, voglio ricordare una persona amica che non c’è più da quasi nove anni, Pierluigi Vigna, che è stato Procuratore Nazionale Antimafia e Procuratore a Firenze. L’ho sempre considerato un mio maestro, pur se non sempre, specie nell’ultimo periodo della sua vita, ci siamo trovati in sintonia nel valutare e commentare i tanti progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario che si sono rincorsi in questi anni. Spiego ora perché lo voglio qui citare. Nella gremitissima basilica fiorentina di S. Miniato al Monte, l’1 ottobre del 2012, presenziai alla cerimonia funebre per Pier Luigi Vigna, scomparso il 28 settembre. Tantissimi erano i cittadini "comuni" ed i magistrati presenti, venuti da ogni parte d'Italia. Ma, alla fine della funzione, furono le parole del giovane figlio di Vigna a commuovere tutti e suscitare un lungo applauso dei presenti. Il figlio raccontò che, pochi giorni prima della sua morte, il padre, immaginando la futura cerimonia, lo aveva pregato di ringraziare le tante persone che vi avrebbero presenziato, ma di ringraziare in particolare due suoi amici: uno di nome "cittadino" e l'altro di nome "nessuno". Mi ritrovo emozionato ogni volta che penso a quello che Piero Vigna ci ha voluto dire con quelle parole affidate al figlio: sono i cittadini, specie quelli sconosciuti e senza nome (i "nessuno"), coloro ai quali i magistrati devono rendere conto del proprio lavoro, che non è esercizio di puro potere..
Ritengo pertanto che sia compito del CSM intervenire con fermezza, sanzionando, anche con il mancato rinnovo quadriennale degli incarichi, Procuratori e Presidenti che a tale concezione non si attengano.
Ma nello stesso senso deve essere respinta anche l’idea, che rischia di diventare dominante, secondo cui il Dirigente di un ufficio dovrebbe essere soprattutto (o esclusivamente) un “manager”, così ampliando oltre misura il significato del necessario possesso di capacità organizzative: gli uffici giudiziari, infatti, non sono imprese o società private ed il loro funzionamento è legato innanzitutto al pieno rispetto delle leggi e dei diritti di tutti, il che può anche comportare una capacità di “lavoro in perdita”.
Passando ora al termine “ambizione”, dico subito che si tratta di un termine che non può avere per i magistrati alcun significato positivo in quanto può indicare solo desiderio di “potere” (ma nel senso inaccettabile di questa parola), di visibilità e di vanità smisurata. Una sola precisazione, però, me la permetto: il termine “ambizione”, anche nel quadro del dibattito in corso sulle riforme ordinamentali, viene spesso usato come sinonimo di “carrierismo” con cui si intende identificare, ogni possibile desiderio dei magistrati di progredire in carriera, al di là delle ordinarie valutazioni di professionalità, ottenendo incarichi direttivi o semidirettivi.
Orbene, non sono d’accordo con la condanna di questo tipo di ambizioni che sono criticabili e scorrette quando comportano la disponibilità a sacrificare i principi in nome dei quali abbiamo giurato ed iniziato la professione o quella a sposare le logiche spartitorie e correntizie di cui abbiamo già parlato. Non trovo nulla di male, invece, nel desiderio di un magistrato, che abbia per anni lavorato positivamente e correttamente, di mettere a disposizione dei colleghi l’esperienza maturata, rivestendo funzioni direttive o semidirettive. Non credo, a tal proposito, negli automatismi e nelle rotazioni cieche, così come non condivido l’ipotesi secondo cui il CSM dovrebbe raccogliere i pareri dei componenti di un ufficio ai fini delle designazioni dei loro vertici. E di quale ufficio poi? Dell’ufficio da cui proviene l’aspirante dirigente o di quello diverso in cui aspira a lavorare? Innumerevoli le immaginabili controindicazioni in entrambi i casi.
Né credo che, in nome di un presunto rigore morale, sia corretto penalizzare l’aspirazione a ricoprire funzioni direttive di magistrati che provengono da incarichi svolti fuori ruolo, senza neppure distinguerne la natura. C’è chi sostiene che dovrebbero essere previsti periodi di decantazione o quarantena per loro, quasi fossero degli appestati, servi della politica. Ma scherziamo? E’ in questo modo che si alimenta una cultura del sospetto ingiustamente punitiva.
Tocca al CSM, dunque, semplicemente bocciare le ambizioni di carriera fondate sul poco o sul niente valorizzando esperienze e professionalità positive, anche se riguardanti incarichi fuori ruolo ministeriali, in ordine ai quali è pur sempre possibile valutare il grado di indipendenza dimostrato da chi li ha rivestiti.
Compito nient’affatto semplice tanto che ogni CSM tende ad emettere nuove circolari per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, allo scopo di rendere le nomine più semplici (mentre spesso avviene il contrario) e di eliminare ogni possibile discrezionalità, proposito – quest’ultimo - assolutamente surreale visto che per tali nomine non si potrà mai procedere premendo uno o più tasti per ottenere un valore matematicamente incontestabile e una conseguente graduatoria di meritevoli.
4) “La libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber in “La libertà”; essa impone impegno, studio, conoscenza e prese di posizione. Tale principio, traslato nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, consente di guardare all’autonomia e all’indipendenza prima di tutto come ad un onere del magistrato, che bisogna guadagnarsi ogni giorno esercitando con rigore, morale e tecnico, la propria funzione; in tal senso i principi costituzionali non sono solo uno scudo da potenziali intrusioni di altri poteri ma il formante ideale che deve permeare la concezione stessa dell’esercizio delle funzioni. Forse, una delle ragioni che stanno alla base degli ultimi accadimenti “interni” è stata proprio la mancanza di partecipazione attiva da parte di molti di noi, troppo abituati a concepire gli aspetti inerenti il “contesto” del proprio lavoro come tempo “sottratto ai fascicoli”. Ciò è in parte comprensibile, specie in uffici dove le carenze di organico, concernenti tanto la magistratura che, ancor più, il personale amministrativo, rendono il lavoro molto più gravoso e non consentono al magistrato di sollevare la testa dalle carte per ragionare, insieme con gli altri, anche sul “contesto”; penso esempio ai colleghi che lavorano in contesti assai difficili del sud-Italia e che, talvolta alla prima esperienza, si trovano a dover affrontare processi complicatissimi. Sotto un altro aspetto, la disaffezione alla vita associativa fa parte di un’impostazione culturale coeva dei tempi, in cui un individualismo spinto all’eccesso non consente di concepire, invece, il proprio lavoro come parte di un sistema più complesso, specie laddove esso concerne, come nel nostro caso, l’esercizio della giurisdizione.
Qual è allora, secondo il tuo modo di vedere, il modello di magistrato per il prossimo futuro. E come si pone, rispetto a questo tema, la partecipazione alla vita associativa?
La domanda è complessa ed interessantissima e preciso subito che credo fortemente nell’impegno civile del magistrato, sia pure all’interno dei confini tracciati dalla Costituzione.
Cerco di spiegarmi, ancora una volta, sulla base della mia esperienza, fortunatamente comune a molti altri colleghi, indipendentemente dalla correnti di eventuale appartenenza o vicinanza. Raccontare ciò che mi è capitato di fare potrà servire a far capire come ho maturato certe convinzioni.
Dalla fine degli anni ’70 e fino a circa dieci anni dopo ho conosciuto una sola forma di impegno civile, quello che fu concordato tra i magistrati che si occupavano del contrasto del terrorismo negli anni di piombo e che consisteva nel racconto pubblico della verità.
Quei magistrati, cioè, proprio nella temperie degli anni di piombo, sentirono il dovere di uscire dai loro palazzi per discutere di legalità in scuole e università, in circoli di quartiere e nelle fabbriche, in sedi di associazioni culturali e ovunque fosse possibile, allo scopo di diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica e così contrastare con fermezza il verbo di chi teorizzava la neutralità («né con lo Stato, né con le Brigate Rosse»).
Negli anni seguenti, un identico impegno è stato doveroso contro la logica mafiosa, la corruzione, nonchè a difesa dei principi costituzionali e del principio di solidarietà. Ed è così ancora oggi.
Quanto ai rapporti tra società e mafia, in particolare, voglio citare l’esperienza maturata in ““Società Civile”, un circolo nato grazie alla spinta senza eguali di Nando dalla Chiesa: Nando non era allora un politico e, anzi, era una spina nel fianco di molti politici. La sua idea era quella di dare voce e presenza nella società, attraverso un’aggregazione trasversale aperta, a chiunque fosse disposto a battersi, in nome dell’etica, contro ogni tipo di degradazione morale e culturale, innanzitutto contro mafia e corruzione. Accettai con entusiasmo di partecipare a quell’avventura. Mi piaceva la trasversalità della iniziativa, un po’ simile a quella che, sia pur nel ristretto ambito dei magistrati, fu poi alla base della nascita – nel 1988– del Movimento per la Giustizia. Ho sempre pensato, infatti, che sui principi, sull’etica, sui valori della Costituzione ci si possa trovare agevolmente insieme: progressisti e conservatori, così come laici e credenti. Fui allora socio fondatore di “Società Civile”, nel dicembre del 1985, ed al fianco di Nando si schierarono tante belle persone, con alcune delle quali ho passato gli anni più ricchi di speranze del mio impegno extraprofessionale. Rammento che nel suo statuto si stabiliva che al circolo “Società Civile” potessero aderire tutti i cittadini, tranne quelli che avevano incarichi politici e di partito. Un’esclusione che suonò scandalosa, nel pieno degli anni Ottanta, momento di massima invadenza dei partiti in tutte le espressioni della vita istituzionale, sociale, economica. I partiti avevano letteralmente occupato le istituzioni democratiche, se ne servivano invece che servirle. Le reazioni furono durissime e molti, a destra e a sinistra, partirono all’attacco di quello strano circolo milanese che escludeva i politici. Tutti a difendere i partiti dai nuovi «qualunquisti», «moralisti», «sfascisti», «giacobini», «salottieri». Bollati come «comunisti» dalla destra, «anticomunisti» dalla sinistra. Per entrambi eravamo «manichei»: sostenitori dell’opposizione netta tra «politica cattiva» e «società civile buona». Non era vero. Sapevamo (e scrivevamo) che la politica non è sempre «cattiva» e che la società civile non è tutta «buona». Semplicemente, volevamo offrire ai cittadini uno spazio autonomo fuori dai partiti per poter dire con libertà cose che non si riescono a dire, se si è costretti a seguire le regole dello scambio politico e della ragion di Stato. “Società civile” fu anche la denominazione con cui, da quel momento in poi, venne definita quella parte della società italiana che voleva far sentire la sua voce al di fuori dei partiti, ma non necessariamente contro di essi. Il circolo “Società Civile” diede vita in quegli anni a innumerevoli iniziative: non solo dibattiti su ogni tema d’interesse pubblico, tra cui etica, politica, corruzione e presenza della mafia in Lombardia (un’eresia per quei tempi), ma anche la fondazione di un periodico in cui si formarono alcuni giovani giornalisti d’inchiesta. Tutto quello che riuscimmo a fare fu autofinanziato e del tutto immune da ogni influenza o contiguità politica.
A quell’impegno altri ne seguirono. Tra la fine del 2002 e la primavera del 2006 sono state numerose le iniziative cui ho preso parte come dirigente del Movimento per la Giustizia e dell’Associazione nazionale magistrati. Il 14 settembre del 2002, ad es., ancora nel limbo postconsiliare e in attesa di tornare alla Procura di Milano, partecipai alla indimenticabile manifestazione di Roma, dinanzi alla basilica di San Giovanni in Laterano. Centinaia di migliaia di persone erano arrivate da ogni parte d’Italia sia per manifestare contro quelle che ormai venivano definite, anche da accademici, le «leggi vergogna», sia – soprattutto – per esternare le loro preoccupazioni per le sorti della democrazia in Italia. C’erano anche numerosi magistrati e questo scatenò le reazioni di molti politici della maggioranza: nonostante io e Juanito Patrone, all’epoca segretario di Magistratura democratica, al cui fianco partecipai alla manifestazione, avessimo tentato di spiegare a qualche importante quotidiano le ragioni della nostra presenza e la sua piena compatibilità con l’esercizio imparziale della nostra funzione, si sprecarono le affermazioni di chi riteneva quella partecipazione la prova della degenerazione della magistratura italiana.
Tra il 2004 e la primavera del 2006, partecipai ad iniziative tese a contrastare la pessima riforma costituzionale messa in cantiere e poi approvata dalla maggioranza di centrodestra che governava il paese in quegli anni. Anche in questo caso, lo feci insieme a moltissimi colleghi, oltre a varie associazioni e confederazioni sindacali, all’Anpi ed a chiunque altro fosse sensibile al tema. Il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica aderirono anche formalmente al Comitato per la difesa della Costituzione di cui fu nominato presidente Oscar Luigi Scalfaro. A qualche collega e a consistenti spezzoni della Associazione magistrati pareva improprio, se non addirittura inaccettabile, che i magistrati potessero impegnarsi – e impegnandosi, esporsi – nella campagna per spingere i cittadini a votare «No» nel referendum confermativo di quella riforma approvata che si sarebbe tenuto nel giugno del 2006. Tentammo di spiegare come, invece, quell’impegno appariva doveroso, continuando comunque ad informare i cittadini più giovani e gli studenti, nelle scuole, nelle università, nei centri sociali e nei quartieri, anche attraverso gli strumenti informatici e le moderne tecnologie.
Ma a difesa della Costituzione, con altri colleghi del Movimento per la Giustizia e con le associazioni Articolo 21 e Libertà e Giustizia, avevamo organizzato nel 2004 a Milano un convegno pluritematico su Controriforme e diritti dei cittadini, preceduto dalla diffusione di documenti in cui venivano affrontati i problemi che riforme e progetti di riforme in quel periodo stavano determinavano nei settori pubblici dell’istruzione e della ricerca, della informazione, della sanità e del lavoro. Nella sala affollatissima della Provincia, in via Corridoni a Milano con centinaia di persone impossibilitate ad entrarvi, furono molte le voci autorevoli che intervennero sulle sofferenze del settore pubblico: Carlo Bernardini sulla crisi della ricerca, Rosy Bindi sulla sanità, Giuseppe Casadio sul mondo del lavoro, Tullio De Mauro su quello dell’istruzione pubblica, Paolo Ferrua sulla giustizia, Alessandro Pizzorusso sui progetti di riforma della Costituzione, Sergio Zavoli sull’attacco a stampa ed informazione televisiva. Paolo Flores d’Arcais intervenne su «Passione civile, storia e verità di Stato». La manifestazione registrò, soprattutto, un grande intervento di Oscar Luigi Scalfaro, capace anche quella sera di sintetizzare le ragioni della perdurante modernità della nostra Carta Costituzionale.
Fu per le stesse ragioni che a gennaio del 2005, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, tutti i magistrati italiani vi parteciparono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione quale forma di protesta contro le riforme messe in cantiere dal governo. Ancora non sapevamo che allo stesso modo e per le stesse ragioni ci saremmo comportati a gennaio del 2010 in occasione della stessa cerimonia e che, anzi, indossando la toga, avremmo abbandonato l’aula magna al momento del discorso del rappresentante del ministero della Giustizia.
Devo anche confessare che, nonostante le accuse di politicizzazione che ci piovevano addosso, partecipai ad un’altra manifestazione di piazza: il 25 aprile del 2005, infatti, ero nel corteo che partì alle 16 da piazza Oberdan a Milano e si concluse in piazza Duomo. Il corteo celebrava il 60° anniversario della liberazione dal fascismo ma tutti i partecipanti lo interpretarono dichiaratamente come un’altra manifestazione a difesa della Costituzione. E fino al giugno del 2006 fu per me tutto un susseguirsi frenetico di manifestazioni, convegni, dibattiti e interventi organizzati sempre per lo stesso fine : il «No» vinse con il 61,3% : riforma bocciata !
Facendo un salto temporale in avanti, aggiungo che sono stato impegnato nei Comitati per il “NO” anche in altre due campagne referendarie: quella vinta del 2016 e quella persa del 2020. La prima era una campagna contro la pessima riforma costituzionale definita “renziana” e messa in campo da uno schieramento politico di orientamento apparentemente opposto rispetto al 2006; la seconda, nel 2020, era contro la riforma costituzionale di stampo pentastellato, che prevedeva innanzitutto la riduzione dei componenti della Camera e del Senato.
Potrei continuare ad elencare altre importanti occasioni di impegno civile, ma, avendo probabilmente già esagerato, mi limito a dire che non mi pento di alcun mio intervento pubblico (inclusi miei articoli ovunque pubblicati o interviste a giornali, radio e tv) e che rifarei tutto quello che ho raccontato, passo per passo, e tutto ridirei ancora, parola per parola, con la sobrietà e la misura cui credo di essermi attenuto in ogni tipo di modalità informativa. Ciò anche quando ho scritto un libro o contributi a libri altrui, o quando, prima e dopo il pensionamento di fine 2018, sono sceso in campo, con molti magistrati, sui temi dell’immigrazione che hanno partorito i pessimi pacchetti sicurezza del 2008 e 2009 e, dieci anni dopo, gli altrettanto criticabili decreti sicurezza del 2018 e del 2019. Nel 2019, sia pure dopo qualche iniziale perplessità sulle future modalità operative, sono stato anche tra i soci fondatori di ResQ Onlus, nata per mettere in mare una nave per soccorrere i naufraghi nel Mediterraneo Centrale. Gherardo Colombo ne è presidente onorario Con tanti contributi di cittadini (tra cui vari magistrati) ed associazioni, è stata acquistata una nave (denominata ResQ People) che proprio nell’agosto di quest’anno ha operato il primo salvataggio : 166 persone soccorse in mare, in fuga da guerra ed orrori..
Spero che ciò che ho sin qui raccontato possa servire a rispondere a tutti coloro che accusano i magistrati impegnati fuori dai palazzi di giustizia di parlare e scrivere al di là di quanto sarebbe loro esclusivamente concesso, cioè solo con sentenze ed atti giudiziari. E ciò farebbero – si dice – per ragioni legate alle personali convinzioni politiche, finendo con il compromettere l’autorevolezza e l’immagine di terzietà della magistratura. Di fronte a tali accuse vorrei chiedere a chi le formula di evitare ingiustificate generalizzazioni poiché l’impegno per la difesa dei diritti fondamentali non è certo dettato da convinzioni politiche ma dai doveri su cui si fondano le democrazie costituzionali: la Costituzione, cioè, non prevede solo principi e diritti astratti, ma impone anche doveri per i cittadini che vi si riconoscono.
È questo il modello di magistrato che auspico per il futuro, caratterizzato cioè da un impegno civile perfettamente compatibile con la professione e con la vita associativa, ed anzi capace di “purificare” l’Associazione stessa.
Può bastare come risposta?
5) Spesso si sente dire che i giovani non sono più, come un tempo, animati da spirito di sacrificio e di servizio e che, anche per questo, non partecipano alla vita associativa e non sono particolarmente interessati ai temi inerenti l’amministrazione della giustizia. Tuttavia, se guardiamo all’attuale composizione della magistratura osserviamo che oggi il 30% circa della forza lavoro è costituita da giovani magistrati con, al massimo, la seconda valutazione; di questi la maggioranza sono donne. Anche l’età media dei vincitori di concorso si è innalzata, essendo ormai il concorso in magistratura un concorso di secondo grado; pertanto, molti di questi giovani magistrati non sono propriamente giudici ragazzini – l’età media oggi del tirocinante è di circa 30 anni - e spesso hanno esperienze lavorative diverse alle spalle; inoltre, molti di loro, anche in ragione dell’età, sono madri e padri con tutte le difficoltà che ne conseguono nel dover contemperare la vita familiare con quella lavorativa, specie in una situazione in cui, lontano dalla famiglia di origine, non si può contare su aiuti familiari. La magistratura di oggi ha dunque un volto nuovo e diverso rispetto a quella degli anni ’70 / ’80 eppure, l’impressione, da giovani magistrate, è che la società, ed anche la magistratura, non sia cambiata nel senso che non vi sono in Italia misure idonee a supportare la genitorialità.
Quanto secondo te questo aspetto organizzativo, relativo alla difficoltà di coniugare famiglia e lavoro, influisce sulle nuove leve con riferimento, ad esempio, alla scelta della sede, alla scelta se trasferirsi o meno in sedi disagiate, alla fattiva partecipazione alla vita associativa in generale?
Mi spiacerebbe, rispondendo a questa domanda, apparire persona poco attenta ai problemi di varia natura che le condizioni personali di vita possono determinare per i giovani magistrati, ma sono convinto che la situazione generale in cui essi oggi operano, pur con gli inevitabili mutamenti storico-sociali che ogni Paese conosce ad intervalli più o meno brevi, non deve considerarsi diversa da quelle in cui hanno operato, sin dall’inizio della loro professione altre generazioni di magistrati.
Certo oggi le magistrate non sono più una minoranza, anzi costituiscono maggioranza rispetto ai loro colleghi uomini, ed è pure vero che oggi si entra più tardi in magistratura per le ragioni giustamente ricordate.
Ma è altrettanto vero che ormai da tempo, al di là di risposte a specifici quesiti nel 2013 e 2014, le Circolari del CSM sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi delle Procure si fanno carico dei problemi in questione. Mi riferisco all’art. 46 (Norme di rinvio) della Circolare del 16.12.2020 del CSM sull’Organizzazione delle Procure che, come già previsto dall’art. 24 della precedente analoga Circolare del 16.11.2017, prevede che “Agli uffici requirenti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti (adottata con delibera del 23 luglio 2020) in tema di esoneri (art. 3), tutela della genitorialità, delle esigenze familiari e dei doveri di assistenza (art. 4)…, tutela della genitorialità (art, 262), magistrati in maternità o che provvedano alla cura di figli minori (art. 263), tutela della genitorialità e della malattia (art. 264), divieto di assegnazione di affari nel periodo di congedo (art. 268), benessere organizzativo, tutela della genitorialità e della salute (artt. 256/270, escluso l’art. 260).
Pertanto, credo che il contenuto ed i principi affermati nel Decreto Legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della L. 8 marzo 2000 n.53) siano stati ben messi a punto nelle delibere consiliari che si sono succedute e che riguardano sia il settore giudicante che quello requirente, sia quello penale che quello civile.
È chiaro, ovviamente, che tocca poi ai dirigenti degli uffici adottare le misure organizzative conseguenti, curando il coinvolgimento dei magistrati che ne fanno parte ed ispirandosi a criteri caratterizzati da una certa flessibilità nella loro applicazione.
È importante sottolineare che l’intervenuta estensione agli uffici requirenti delle norme sul benessere organizzativo previste nelle circolari sulle tabelle di quelli giudicanti si colloca nell’ambito di una concezione unitaria delle condizioni di lavoro dei magistrati. Rammento con soddisfazione e gratitudine, comunque, che quando ebbi a redigere nel 2018 il piano organizzativo della Procura di Torino, tutti i sostituti che dovevano beneficiare dei vari esoneri previsti fornirono il loro assenso ad una quota delle esenzioni previste in misura minore rispetto a quella che poteva loro spettare per effetto delle delibere e circolari vigenti: ciò in considerazione dei carichi di lavoro gravanti sull’ufficio
Tornando alla domanda, dunque, sono ben consapevole delle difficoltà, non solo per le nuove leve della magistratura, di coniugare famiglia e lavoro, ma, fermo restando che è ben comprensibile come tali problemi possano determinare scelte di vita e di lavoro, non credo – grazie alle misure previste per farvi fronte - che ciò influisca in misura maggiore rispetto al passato sulle scelte dei magistrati più giovani della sede ove iniziare a lavorare, “disagiate” o meno.
E non credo neppure che i problemi citati influiscano sulla fattiva loro partecipazione alla vita associativa, o almeno me lo auguro.
Le ragioni di disaffezione risiedono piuttosto altrove: innanzitutto, nel tremendo periodo che la magistratura sta vivendo, a partire dall’esplodere del caso Palamara, e nella connessa disinformazione, spesso dolosamente finalizzata a ledere il principio di indipendenza della magistratura ed il senso stesso dell’associativismo, accusando indiscriminatamente tutti i giudici ed i pubblici ministeri di sistematiche violazioni dei loro doveri. Ma certamente giocano altri fattori, a partire da un eccesso di burocratizzazione del lavoro dei magistrati che spesso induce anche i migliori tra loro a rinchiudersi nel proprio ufficio (sempre che ne abbiano uno), prestando attenzione solo ai procedimenti loro assegnati, ai carichi medi di lavoro ed alle ragioni di positive valutazioni della loro professionalità.
Ovviamente è giusto che la corretta e rapida trattazione di indagini e procedimenti, nel settore civile e penale, sia la stella polare del lavoro dei magistrati, ma altre luci devono illuminarlo ed una di queste è la storia e la ragione d’essere dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, nella quale - mi auguro – devono essere soprattutto i giovani giudici e pubblici ministeri ad impegnarsi per ridarle piena credibilità. Ma su questo mi sono già espresso rispondendo ad altre precedenti domande.
6) La formazione del magistrato è strettamente connessa al modus con il quale si esercita la giurisdizione. Il magistrato non può lavorare senza avere contezza del contesto sociale e culturale in cui vive e, spesso, le interpretazioni del diritto sono non solo il frutto di risoluzioni di questioni tecniche, ma anche espressione di determinate sensibilità culturali. All’interno della magistratura, troppo spesso, il dibattito si è incentrato esclusivamente sui contenuti e sui modelli della formazione inziale e permanente e si è tralasciato di aprire una più ampia riflessione sull’esigenza di un approccio multiculturale, da intendersi non solo come modello di offerta formativa della Scuola Superiore, quanto, piuttosto, come un’ambizione da perseguire nell’agire quotidiano.
Quanto l’arte, la letteratura, la musica, il cinema, le scienze sociali possono contribuire ad arricchire un magistrato non tanto nella sua dimensione individuale, quanto nell’esercizio della propria funzione? Quali consigli ti sentiresti di dare ai giovani colleghi all’inizio del loro percorso formativo?
Premetto che, pur avendo svolto ruolo di relatore nella materia penale ed in quella ordinamentale in numerosi corsi di formazione sia per uditori giudiziari e poi m.o.t., sia per magistrati con ampia esperienza professionale, non ho mai fatto parte di organi responsabili della “strategia” formativa. E me ne dispiace.
Detto questo, voglio subito aggiungere di ritenere, da un lato, che la formazione dei magistrati debba innanzitutto essere caratterizzata da una prevalente attenzione agli aspetti pratici del loro lavoro e, dall’altro, che, proprio per questa ragione, sia fondamentale l’esigenza di un approccio multiculturale.
In un suo recente libro (“Giustizia, per una riforma che guarda all’Europa” – Vita e pensiero 2021), scritto con Francesca Fiecconi, Giovanni Canzio parla della necessità che i magistrati siano portatori di una “cultura larga” che consenta loro di meglio conoscere e capire il mondo in cui operano: come è possibile amministrare giustizia se non si conoscono le tante ragioni della ingiustizia, quella sociale, politica, economica ed altre ancora? I due autori si riferivano anche alla straordinaria e ricca esperienza di “Law and Literature” avviata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dal prof. Gabrio Forti che, in un articolo di presentazione del convegno, pubblicato sull’Osservatore Romano del 14 gennaio 2011, così spiegava le ragioni dell’iniziativa: “Sono i testi che devono essere studiati e che devono parlare. Essi fanno venire alla luce i fermenti elettivi”. “E quindi – aggiungeva – non chiudiamoci nei recinti del tecnicismo giudiziario”. Gianni Canzio è intervenuto in quel convegno con un contributo sulla Dike dell’antica Grecia ed io stesso, sempre nel 2011, ebbi modo di intervenire proprio sul rapporto tra giustizia e letteratura, affrontandolo grazie alle parole di un premio Nobel della Letteratura: non Garcia Marquez, né Josè Saramago, non Orhan Pamuk, né Mario Vargas Llosa, ma Bob Dylan. La mia relazione si chiamava “La giustizia nella parole di Bob Dylan”. Dylan è la mia stella polare musicale, ma anche per molti temi di rilievo sociale, sicchè discutere dei suoi testi e delle sue visioni produce possibilità di riflettere su molti temi attraverso inusuali modalità di confronto. Quella “giornata di studio” alla Cattolica fu per me entusiasmante anche perchè arricchita dalle parole e dalle riflessioni di Alessandro Carrera e di Adolfo Ceretti, entrambi profondi conoscitori di Dylan e rispettivamente professori di letteratura italiana all’Università di Houston e di criminologia a quella di Milano – Bicocca.
L’idea di Gabrio Forti, che da anni persegue in sede accademica la necessità di accostare lo studio della giustizia alla letteratura, al cinema ed alla musica, non doveva essere evidentemente velleitaria se pochi giorni dopo, a New York, la Fordham University realizzava un convegno esattamente sullo stesso tema, spiegando nei suoi comunicati stampa che in quell’occasione, per la prima volta al mondo, la giustizia sarebbe stata analizzata attraverso le parole di Bob Dylan. Ma gli organizzatori si sbagliavano: era la seconda. Protagonista della iniziativa alla Fordham University di New York (“Bob Dylan e la legge”) fu anche Alex Long, Università del Tennessee, professore di legge : sostiene che testi delle canzoni di Bob Dylan sono utilizzati più di qualsiasi altro scrittore in tribunale e racconta l'influenza dell'artista sulla comunità giuridica di oggi. Dalle sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti ai corsi della scuola di diritto, le parole di Dylan sono utilizzati per trasmettere “messaggi” relativi alla legge, al suo rapporto con i fatti, con le tesi delle parti, o alla interpretazione che ne danno i tribunali. Il professore Alex Long ha arricchito i dati raccolti, ricordando le sentenze che citano Dylan, tra cui quella di una Corte d’appello della California in cui, per affermare che il perito non serve per convalidare l’ovvio, si affermava: “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (“Non hai bisogno di un metereologo per sapere in che direzione soffia il vento”), parole tratte da “Subterraneam Homesick Blues”. Ma la stessa citazione ed altre ancora (unitamente agli estremi dei pezzi e degli album in cui erano contenute) sono state usate in varie ulteriori sentenze (ad es. in un procedimento penale del Massachusetts, ad opera di un procuratore distrettuale, nonché in più sentenze della Corte Suprema e di Corti di altri Stati).
Ma anche in Italia abbiamo registrato analoghe “citazioni istituzionali”. Alla fine di novembre del 2014, a Torino, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della difesa, lanciò un messaggio (non un “ordine”) agli ufficiali appena usciti dall’Accademia di Modena e, citando le parole di un brano di Bob Dylan (“Forever Young” del ’74), ricordò loro la necessità di impegnarsi per gli altri, anche in divisa. I riferimenti citati dall’ammiraglio mi colpirono al punto che, scrivendo un articolo su La Stampa (2.12.2014), auspicai che anche magistrati e avvocati studiassero i testi di Dylan, che parlano anche di mafia, di vittime di processi ingiusti (“The lonesome death of Hattie Carrol” e la famosa “Hurricane”, che contribuì alla liberazione del pugile Rubin Carter, condannato per omicidio) e di quella parte del potere politico che vuole la sconfitta degli altri e l’impunità per sé (“Political world”). In un pezzo molto conosciuto (“Absolutely sweet Mary”, 1966), poi, compare poi una frase sibillina: “Per vivere fuori dalla legge bisogna essere onesti”. Secondo alcuni un’esaltazione del codice d’onore dei malviventi, ma forse, più correttamente, solo un’amara constatazione: le regole sembrano rispettate più dai disperati e dai fuorilegge che da coloro che normalmente definiamo “onesti”.
Sono tanti, poi, i testi di Dylan che parlano di umanità sofferente e della disperazione degli immigrati
Nel settembre 2009, nel cortile del carcere di Lodi affollato da detenuti e cittadini, raccontai la storia del latitante Billy the Kid e del suo amico sceriffo Pat Garrett che lo uccise nel luglio del 1981, chiedendo poi alla madre di seppellire la pistola con cui aveva sparato (questo, almeno, racconta Dylan nella mia canzone preferita, Knockin’ on heaven’ door): non è la storia di un killer spietato, come molti pensano, ma di un giovane che, nel 1880 e dintorni, periodo di grandi migrazioni dall’est all’ovest degli Stati Uniti, sognava una vita nuova in terre lontane finendo con il ritrovarsi vittima della guerra economica tra allevatori e coltivatori forse tutti fedeli al motto “prima gli americani dell’Ovest… rispediamo gli altri a casa loro”.
Ma quella che giudico la mia più bella e forse più apprezzata relazione giuridica fu quella, accompagnata dall’ascolto – per un minuto circa ciascuno – di parti dei brani che citavo, sempre sulla visione della giustizia di mr. Robert Zimmermann (il vero nome di Dylan, il menestrello di Duluth), tenuta nell’Aula Magna Fulvio Croce del Palazzo di Giustizia di Torino nell’ambito di un corso di formazione organizzato dal locale Ordine degli Avvocati nell’aprile del 2017,.
Ho già ricordato la rilevanza mondiale del tema dell’immigrazione che, secondo me, deve essere oggetto di un particolare impegno di magistrati e giuristi, non solo a causa dell’aumento dei drammatici episodi cui assistiamo quotidianamente e del numero dei morti in mare (a proposito chi vorrà contribuire all’attività della nave ResQ People mi contatti in qualsiasi modo!). Crescono infatti odio razziale e ricerca di consenso elettorale alimentata da una bieca strumentalizzazione di un’innegabile situazione di disagio sociale. Discussioni politiche, giuridiche e sociali si incrociano e finalmente sembra che anche dall’Italia si guardi all’Europa con dignità e buon senso, anziché con insulti e protervia. Vedremo cosa accadrà.
Ed è proprio sul dovere di accoglienza nei confronti degli immigrati (imposto da Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, dalla Costituzione italiana e da tante convenzioni internazionali) che si manifesta anche l’impegno di cantanti e gruppi rock, di quelli – però – che riempiono stadi e spazi aperti con centinaia di migliaia di persone e che invece rifiuterebbero di salire su palchi in stile Papeete.
Ne ho parlato in molti convegni e molti articoli, citando gli orrendi muri voluti da Trump per respingere i disperati che lasciano le loro patrie, ma ricordando anche l’unico muro che amo, “The Wall”, dei Pink Floyd che non divide, ma crollando progressivamente sul palco, come si vede in un noto docufilm, finisce con l’unire spettatori e musicisti: facile la metafora, inutile la sua spiegazione. Nel 2018 ho visto un concerto a Milano di Roger Waters: spettacolare il grande maiale rosa che “galleggiava” nel “cielo” del Palasport di Assago, con impresse le foto di vari leaders politici europei sovranisti, tra cui - naturalmente – un noto italiano. E durante un un altro concerto milanese, degli U2 nel 2018, l’immagine finale proiettata su uno schermo gigante fu quella di un corteo di manifestanti che sfilava preceduto da un eloquente striscione: “Refugees Welcome ! Nessuno di noi è uguale fin quando non saremo tutti uguali”.
Mi accorgo che sto parlando troppo di musica sicchè è impossibile citare tanti altri autori impegnati sul terreno della solidarietà se non attraverso nomi e titoli dei loro brani: mi limito a ricordare, ad esempio, Graham Nash (Immigration Man), i Coldplay (Aliens), i Genesis (Illegal Alien), Chris Rea (Immigration Blues), Bruce Springsteen (Matamoros Banks), Neil Young (Southern man).
Ma non voglio sembrare un appassionato di musica che trascura sia la modernità che gli autori italiani. Tra le stars più amate dai giovani, allora, come non ricordare Manu Chao con il suo “Clandestino” ? “Vado da solo con la mia disgrazia..da sola va la mia condanna..perso nel cuore della grande Babilonia, mi dicono «il clandestino» perché non ho il visto; sono andato a lavorare, la mia vita la lasciai tra Ceuta e Gibilterra, la mia vita è vietata dice la giustizia, correre è il mio destino perché non ho il visto, mano nera, clandestina; messicano clandestino, marijuana illegale, boliviano clandestino, peruviano clandestino, albanese clandestino, grazie grazie.”
Chiudo quasi sempre i miei interventi, però, citando l’amato Franco Battiato e le parole di “Up Patriots to arms”, un brano il cui solo titolo invita tutti all’impegno sociale:“engagez vous..alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena e non è colpa mia se esistono carnefici, se esiste l’imbecillità, se le panchine sono piene di gente che sta male”.
La speranza è quella di far riflettere sulle parole delle canzoni che si ricordano spesso più di quelle dei libri e delle poesie, così da suscitare impegno per le battaglie civili e diffondere “controcomunicazione”
Mi piace ricordare, per chiudere sul rapporto tra musica e giustizia, che nel dicembre del 2018, pochi giorni prima del mio pensionamento, organizzai il saluto a tutti i magistrati, al personale della Sezione di P.G. ed al personale amministrativo della Procura di Torino, regalando a ciascuno due CD, in formato MP3, contenenti 160 pezzi : era il racconto della mia vita attraverso brani amati, scelti tra quelli che più mi ricordavano pezzi della mia vita, soprattutto professionale .
Chiusi il saluto ai presenti invitandoli ad ascoltare ogni giorno, per qualche anno di seguito, Up & Up dei Coldplay (2015), assicurando che l’umore di tutti e la voglia di scendere in pista ne avrebbero tratto giovamento e forza.
Naturalmente sono state numerose anche le occasioni in cui mi è capitato di essere relatore in convegni sulla giustizia che partivano dalla proiezione di un film (ricordo due bei convegni a Milano, nel 2014 dopo la visione di “La Mafia uccide solo d’estate” e nel 2019 di “Il verdetto – The children Act”) o dalla riflessione su un libro, come lo stupendo ed affollato evento torinese del 2011, nel corso della Biennale della Democrazia, dedicato a Stèphane Hessel – che colpì tutti con il suo eloquio tutt’altro che da 94enne - ed al suo libro “Indignatevi”. Voglio chiudere, però, parlando di quello che un avvocato scrittore mi ha consentito: mi riferisco a Jacques Vergès, soprannominato l’avvocato del diavolo o l’avvocato delle cause perse, morto nel 2013 a 88 anni, amico di Pol Pot. Vergès difese khmer rossi e terroristi palestinesi, ma anche Ilitich Ramirez Sanchez, detto Carlos, il nazista Klaus Barbie (il boia di Lione), Tarek Aziz, ministro degli esteri nell’Iraq di Saddam Hussein e tanti altri noti personaggi. Vergès diceva che il processo è teatro, “un duello drammatico tra accusa e difesa durante il quale il difensore ed il pubblico ministero raccontano due storie non vere, ma verosimili” aggiungendo che il processo è sempre specchio della società dalla quale è prodotto. Quando in una nota intervista gli chiesero se avrebbe difeso anche Hitler, lui rispose dicendo “Sì, certo, io difenderei anche Bush! Difenderei chiunque ma solo se fosse d’accordo nel dichiararsi colpevole”. Ha scritto vari libri tra cui ricordo Strategia del processo politico (1969) e, per Liberilibri, Gli errori giudiziari (2011), Quant’erano belle le mie guerra (2012) e Giustizia e Letteratura (2012). Il 17.5.2015, la Camera Penale di Milano organizzò un bellissimo ed affollato convegno sulla vita di Jacques Vergès, una splendida occasione – per me – di parlare del ruolo dell’avvocato (una professione che ho svolto prima di entrare in magistratura e mentre studiavo per il concorso) e di esprimere le mie motivate critiche verso i magistrati che quel ruolo non rispettano, spesso ignorando che il processo penale non si celebra per “scrivere verità storiche”– quella di cui essi sono convinti - o “moralizzare la società”, ma solo per accertare responsabilità individuali con riferimento a specifici reati, confrontandosi con ogni alternativa possibilità.
La storia infatti ci insegna che coloro che credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, senza confrontarsi con ciò che li circonda e con la verità degli altri, spesso sbagliano, qualunque sia il campo in cui operano (la politica o la giustizia).
Fui particolarmente felice, quasi commosso, nel vedere tra i presenti nell’Aula Magna mio figlio Andrea: lui orgoglioso del suo lavoro di avvocato, io del modo scrupoloso in cui lo faceva.
Sconsiglio soltanto, a questo punto, la lettura di testi che celebrano, attraverso ipotesi affascinanti e senza prove, i falsi misteri della storia del nostro Paese: il caso Moro docet! Il mestiere del giurista e quello dello storico impongono imparzialità e ricerca della oggettività. So che molti criticheranno (come già avvenuto) queste affermazioni, ricordando quanto sia importante conoscere le interpretazioni che di tanti fenomeni, soprattutto criminali provengono dalla società e dal mondo della cultura, ma il magistrato non deve certo farsi orientare da quello che ho già definito – citando Dick Marty - il “pensiero dominante”.
Vorrei concludere questa lunga risposta ricordando che la “cultura larga” di cui parla Canzio non serve solo ai giuristi, ma anche a coloro che producono e sono protagonisti della cultura extragiuridica. L’ho constatato personalmente in varie occasioni, ad es. quando il compianto Antonio Tabucchi volle a lungo confrontarsi con me per meglio conoscere la storia della risposta istituzionale al terrorismo negli anni di piombo: gli serviva per un lungo articolo che scrisse su Le Monde rispondendo duramente agli “intellò” francesi che sostenevano l’innocenza di Cesare Battisti, affermando - come purtroppo in quegli anni avevano fatto alcuni magistrati, due dei quali, Pretori del lavoro, furono disciplinarmente condannati nel 1984 a seguito di mia segnalazione - che il sistema italiano non aveva rispettato i diritti dei terroristi imputati. Lo ringraziai e decidemmo di scrivere un libro insieme proprio sul necessario confronto delle nostre rispettive culture, ma purtroppo non ne abbiamo avuto il tempo. Rammento infine, tra i tanti incontri, in pubblici ed interessanti convegni, con scrittori ed intellettuali anche stranieri, le discussioni con Luciano Canfora, sui falsi misteri d’Italia prima citati e sul rapporto tra politica e giustizia. Fu bellissimo, nel 2014 a Torino, il “Processo al Liceo Classico”: io presiedevo la Corte, Luciano fu testimone a difesa, numerosi i prestigiosi protagonisti – tra cui Umberto Eco ed alcuni economisti di peso - di quel processo che vide il Liceo assolto con decisione unanime.
Dunque, andiamo avanti tutti con forza, incrementiamo la “cultura larga” e parliamo di giustizia con tutti, a partire dagli studenti nelle scuole: questo mi sento di consigliare, senza presunzione alcuna ed anzi consapevole dei miei limiti, ai giovani magistrati. Insomma, “Up and UP” !
La Corte Costituzionale, l’aggio e l’urgente ed indifferibile riforma del sistema di riscossione
di Alessio Persiani
Sommario: 1. Premessa – 2. La questione di costituzionalità e la pronuncia della Corte – 3. Le censure della Corte in punto di ragionevolezza della disciplina dell’aggio – 4. La declaratoria di inammissibilità della questione e l’urgente riforma della riscossione tributaria – 5. Considerazioni conclusive e prospettive future.
1. Premessa
Con la sentenza n. 120 del 10 giugno scorso la Corte Costituzionale entra per la prima volta nel merito della legittimità costituzionale dell’aggio di riscossione e, sia pur dichiarando inammissibile la questione sollevata, chiede al legislatore di procedere ad un’urgente ed indifferibile riforma sia delle norme relative all’aggio, sia, e più in generale, del sistema di riscossione coattiva, al fine di renderlo coerente con i principȋ di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità sanciti a livello costituzionale.
I tentativi di sottoporre le norme sull’aggio di riscossione al vaglio della Corte Costituzionale non erano mancati, anche negli anni recenti. La Corte, tuttavia, non era sinora mai entrata nel merito delle questioni prospettate dalle diverse Commissioni tributarie, facendo leva ora sull’omessa o insufficiente descrizione della fattispecie, ora sul difetto di motivazione da parte dei giudici a quibus in punto di rilevanza della questione, avendo riguardo agli altri motivi dedotti in ricorso che avrebbero potuto condurre all’accoglimento di quest’ultimo e della cui infondatezza la Commissione rimettente non aveva dato il dovuto conto ([1]).
Né, sempre in anni recenti, sono mancati rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia che dubitavano della coerenza delle previsioni sull’aggio con la normativa sugli aiuti di Stato ([2]) o sentenze delle Commissioni di merito che, al di fuori della sottoposizione di questioni di costituzionalità, hanno assunto posizioni fortemente critiche sull’aggio, dichiarandolo non dovuto poiché l’agente della riscossione non aveva offerto la prova delle attività svolte e compensate con l’aggio stesso ([3]).
Prendendo forse atto dei crescenti rilievi critici mossi all’aggio di riscossione, l’ordinanza in commento della Corte Costituzionale entra in medias res e ammonisce il legislatore a procedere quanto prima ad una riforma del complessivo sistema della riscossione coattiva, ivi compresa la disciplina dell’aggio. La fermezza della posizione della Corte unita alla puntualità dei rilievi critici sul sistema di riscossione fanno quasi passare in secondo piano il dispositivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale motivata dal margine di discrezionalità riservato al legislatore nel porre rimedio alle incoerenze del sistema rispetto ai principȋ costituzionali.
2. La questione di costituzionalità e la pronuncia della Corte
La questione rimessa dalla Commissione tributaria provinciale di Venezia ([4]) traeva origine da un contenzioso in cui il ricorrente aveva impugnato la cartella di pagamento notificatagli a seguito di sentenza sfavorevole emessa dalla Corte di Cassazione con esclusivo riferimento all’aggio di riscossione. Data la riferibilità dell’impugnazione al solo versante dell’aggio, nessun dubbio poteva porsi sulla rilevanza della questione di costituzionalità rispetto alla decisione del giudizio a quo ([5]).
Con riferimento al dettato normativo oggetto delle censure, vale ricordare che in base all’art. 17, d.lgs. n. 112 del 1999 – nella versione precedente a quella risultante a seguito delle modifiche di cui all’art. 9, d.lgs. n. 159 del 2015 ([6]) e rilevante ratione temporis – il contribuente era tenuto al versamento dell’aggio di riscossione in tutti i casi, sia che versasse le somme dovute entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella, sia che il versamento avvenisse oltre il predetto termine. L’unica differenza era di carattere quantitativo: nel primo caso era a carico del contribuente un onere pari al 51% dell’aggio di riscossione, mentre nel secondo caso l’aggio era interamente a carico del contribuente.
La Commissione veneziana ha censurato tale disciplina in relazione a diversi parametri costituzionali.
Anzitutto, le norme sull’aggio sono state ritenute in contrasto con i principȋ di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. in ragione del mancato legame e del conseguente difetto di proporzione tra ammontare dell’aggio dovuto e costi sopportati dall’agente della riscossione, tenuto anche conto dell’assenza di un limite minimo e massimo di carattere assoluto all’ammontare dell’aggio dovuto ([7]). A ciò si aggiungano – precisa la Commissione – che le modalità di calcolo dell’aggio si presentano ad un tempo irragionevoli e discriminatorie: irragionevoli in quanto la base di calcolo dell’aggio comprende anche gli interessi dovuti all’ente impositore – sicché l’ente impositore finisce per percepire “un sovrappiù a titolo di interessi su somme da quest’ultimo non anticipate né tantomeno sborsate” – e discriminatorie in quanto, a parità di servizio reso, diversi contribuenti sarebbero tenuti al pagamento di un aggio in misura diversa unicamente in funzione della somma oggetto di riscossione.
Se ciò è vero, allora la disciplina dell’aggio deve reputarsi altresì in contrasto con il principio di capacità contributiva: il venir meno del carattere di controprestazione proprio dell’aggio fa sì che esso divenga una vera e propria prestazione tributaria, come tale illegittima perché disancorata dalla capacità contributiva del cittadino e neppure in linea con il criterio di progressività del sistema tributario sancito dal secondo comma dell’art. 53 Cost.
I giudici veneziani ritengono, poi, che le norme sull’aggio violino i principȋ costituzionali sulla riserva di legge applicabile alle prestazioni imposte e sul diritto di difesa. Vi sarebbe lesione della riserva di legge in quanto mancherebbe una previsione di legge che determini la misura del costo dell’esecuzione coattiva o che, comunque, fissi un tetto minimo e massimo di tale costo in modo da limitare la discrezionalità dell’imposizione da parte dell’agente di riscossione. La lesione dell’art. 24 Cost sarebbe ravvisabile, poi, nella mancata previsione a carico dell’agente di riscossione di indicare dettagliatamente all’interno della cartella di pagamento gli atti esecutivi compiuti nel caso specifico, con la conseguenza che il contribuente sarebbe chiamato al pagamento di costi riferiti ad attività non conosciute, né conoscibili e, in ipotesi, neppure poste in essere.
Infine, il mancato collegamento della misura dell’aggio ai costi di riscossione darebbe luogo sia ad un eccesso di delega in violazione dell’art. 76 Cost. ([8]), sia ad un contrasto con i principȋ di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost., dovendo considerarsi i criteri di trasparenza, correlazione con l’attività richiesta e congruità con i costi medi di gestione del servizio quali corollari dei principȋ sanciti dalla Carta costituzionale.
La Corte Costituzionale condivide i dubbi in punto di ragionevolezza della disciplina dell’aggio, ma – come diremo nel successivo par. 3 del presente lavoro – sulla scorta di un percorso argomentativo diverso da quello della Commissione veneziana e che, anziché soffermarsi sul piano particolare dell’aggio addebitato nel caso di specie, si situa su un piano più generale. Ciò non toglie che, come anticipato in premessa, i giudici costituzionali giungano ad una dichiarazione di inammissibilità della questione prospettata, motivata dal margine di discrezionalità che deve essere lasciato al legislatore in sede di revisione delle norme sull’aggio e, in senso più ampio, della disciplina della riscossione coattiva. Ci occuperemo della declaratoria di inammissibilità della questione nel par. 4 del lavoro, esponendo le ragioni in base alle quali la conclusione raggiunta dalla Corte deve ritenersi, a nostro avviso, condivisibile.
3. Le censure della Corte in punto di ragionevolezza della disciplina dell’aggio
Le censure sulla ragionevolezza della disciplina dell’aggio si fondano su un iter logico-argomentativo imperniato su due cardini essenziali.
Anzitutto, i giudici costituzionali affrontano il tema della natura dell’aggio di riscossione. Con particolare riferimento all’ipotesi in cui il contribuente versi il dovuto entro i sessanta giorni dalla notifica della cartella – ciò che, quindi, esaurisce l’attività dell’agente della riscossione – taluni avevano ravvisato nell’aggio di riscossione i caratteri di una sanzione impropria ([9]), altri l’avevano ricondotto tra gli oneri tributari o paratributari, in quanto i costi della struttura deputata alla riscossione dei tributi vengono addossati ad alcuni contribuenti – vale a dire i contribuenti morosi, per essi intendendosi anche coloro che ricevano una cartella di pagamento e adempiano entro sessanta giorni ([10]) – in proporzione all’entità del debito tributario posto in riscossione ([11]), altri ancora avevano ravvisato nell’aggio una natura retributiva, costituendo esso il compenso per l’attività esattiva svolta ([12]); tesi, quest’ultima, condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità ([13]).
La Corte Costituzionale richiama la posizione della Corte di Cassazione e sembra aderire, almeno parzialmente, ad essa. Da un lato, infatti, in alcun modo adombra la possibilità di qualificare l’aggio come prestazione tributaria o paratributaria (né sottopone la relativa disciplina al vaglio ex art. 53 Cost.), dall’altro lato, la Corte, sebbene precisi che l’aggio è rivolto “non tanto a remunerare le singole attività compiute dal soggetto incaricato della riscossione, ma a coprire i costi complessivi del servizio”, comunque richiede che il suo ammontare resti “coerente con la sua funzione” e non si traduca in un addebito arbitrario nei confronti dei contribuenti.
Proprio questo è il passaggio argomentativo alla base dell’ulteriore sviluppo del ragionamento della Corte. La disciplina dell’aggio viene censurata sul piano costituzionale avendo riguardo non già al rapporto con i costi sostenuti dall’agente della riscossione per lo svolgimento delle attività richieste dalla specifica procedura esecutiva, quanto sul piano della sua idoneità a coprire i costi del servizio di riscossione globalmente considerato restando coerente con i principî di ragionevolezza e non arbitrarietà.
È proprio per tale ragione che i giudici costituzionali, discostandosi dagli argomenti della Commissione veneziana, hanno ravvisato la violazione non tanto del principio di eguaglianza – sub specie del divieto di discriminazione tra contribuenti che, pur ricevendo un servizio analogo da parte dell’agente della riscossione, siano debitori di somme diverse e siano quindi tenuti a versare aggi in misura diversa ([14]) – quanto del principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà delle scelte del legislatore tributario, atteso che sulla limitata platea dei contribuenti cc.dd. solventi ([15]) finiscono per essere addebitati i costi dell’intero servizio di riscossione e, in particolare, i costi dell’“abnorme dimensione delle esecuzioni infruttuose”. In altri termini, i giudici costituzionali si astraggono dalla quantificazione dei compensi dovuti per le attività svolte dall’agente della riscossione nel caso specifico e indirizzano le proprie riflessioni sul piano generale e complessivo del sistema di riscossione, in cui la violazione del principio di ragionevolezza viene riscontrata nell’arbitrarietà dell’addebito ai contribuenti solventi dei costi del c.d. «non riscosso».
Ed è proprio nell’ottica del complessivo sistema della riscossione tributaria che trovano spiegazione i riferimenti della Corte Costituzionale sia alle analisi della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato per l’anno 2019 e da cui emerge un indice di riscossione del 13,3, per cento sul volume delle riscossioni relativo al periodo 2000-2019, sia alle affermazioni di tenore analogo del Direttore dell’Agenzia delle entrate nell’audizione dinanzi alla VI Commissione Finanze della Camera dei Deputati. Dati che, peraltro, risultano confermati anche dal più recente rapporto 2021 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica, da cui emerge non solo un indice di riscossione (13,1%) a distanza di venti anni dall’iscrizione a ruolo sostanzialmente in linea con quello dell’analisi dell’anno precedente, ma anche come tale indice non superi il 15% a distanza di un decennio dall’iscrizione a ruolo ([16]).
Ancora, il riferimento al sistema di riscossione tributaria inteso nel suo complesso ed al carattere arbitrario dei costi sopportati dai contribuenti solventi offre alla Corte l’opportunità di collegare la lesione del principio di ragionevolezza a quelli di solidarietà – che costituisce il fondamento del dovere tributario previsto dal successivo art. 53 Cost. – e, soprattutto, di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. È bensì vero che, in conformità alla giurisprudenza della Corte, tale ultimo principio non costituisce parametro autonomo di giudizio, ma, al più, elemento della più ampia valutazione di ragionevolezza della disciplina ([17]). Ciononostante, il richiamo all’eguaglianza sostanziale si rivela importante in quanto consente alla Corte di precisare che essa si riferisce non solo alla «tradizionale» area dei diritti sociali, ma anche a quella dei diritti civili: come da tempo messo in luce da un’autorevole dottrina costituzionalistica anche l’effettivo esercizio dei diritti di libertà (e dei diritti politici) richiede “un intervento sociale che ne istituzionalizzi la protezione, senza la quale [essi] resterebbero pretese astratte, di mero fatto, o prive di qualunque garanzia” ([18]).
4. La declaratoria di inammissibilità della questione e l’urgente riforma della riscossione tributaria
Il citato riferimento al sistema della riscossione tributaria nel suo complesso è altresì alla base della declaratoria di inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dalla Commissione veneziana e dell’ulteriore sviluppo del percorso argomentativo della Corte in relazione alla modifica della disciplina dell’aggio.
Il giudice a quo aveva richiesto alla Corte l’adozione di una sentenza interpretativa di accoglimento che integrasse la disciplina dell’aggio in base a quanto statuito dalla stessa Corte nella risalente (ma tuttora rilevante) pronuncia n. 480 del 1993 relativa ai compensi spettanti al concessionario della riscossione per la Regione Sicilia. In particolare, i giudici veneziani chiedevano alla Corte la fissazione di limiti minimi e massimi di carattere assoluto all’ammontare dell’aggio dovuto, nonché di un rapporto di proporzionalità inversa tra l’aggio stesso e la somma da riscuotere.
La Corte rigetta tale richiesta sottolineando che all’irragionevolezza della disciplina può porsi rimedio con modalità diverse e che la scelta tra esse resta rimessa alla libera determinazione del legislatore.
Si tratta, a nostro avviso, di una soluzione condivisibile per motivi legati sia alle peculiarità delle sentenze interpretative di accoglimento, sia alle ragioni di politica fiscale sottese al ragionamento della Corte.
Quanto alle sentenze interpretative di accoglimento, occorre ricordare che l’accettazione di pronunce che dichiarino l’illegittimità costituzionale dell’omessa previsione di una norma passa per la desumibilità della norma omessa da altre norme e principȋ contenuti nel sistema normativo, interpretato anche in via analogica ([19]). Se così è, deve allora condividersi l’osservazione della Corte laddove mette in luce la riferibilità delle norme oggetto di analisi con la sentenza n. 480 del 1993 ad un sistema normativo ormai non più attuale, sol che si pensi che la previsione del rapporto di proporzionalità inversa tra aggio dovuto e somme da riscuotere era animata da una finalità di perequazione del carico affidato in riscossione ai diversi concessionari locali e che tale obiettivo non può più ritenersi attuale in presenza di un sistema di riscossione sostanzialmente accentrato a livello nazionale ([20]).
Nel prospettare le linee di intervento della Corte, si sarebbe forse potuto fare riferimento al recente intervento nel settore della riscossione dei tributi locali, ove il legislatore ha stabilito limiti di carattere assoluto all’ammontare dell’aggio dovuto ([21]). La conclusione della Corte probabilmente non sarebbe cambiata – i giudici costituzionali avrebbero comunque potuto far leva sulle diversità tra la riscossione dei tributi locali e quella dei tributi erariali – ma, quantomeno, si sarebbero forniti alla Corte riferimenti e principȋ contenuti in un sistema normativo di recente introduzione e tuttora applicabile.
Quanto alle ragioni di politica fiscale, non può trascurarsi che la Corte, per il tramite del riferimento al sistema della riscossione tributaria complessivamente considerato, sembra propendere per una revisione della disciplina dell’aggio radicalmente diversa da quella prospettata dal giudice a quo. La previsione di limiti assoluti all’ammontare dell’aggio dovuto, infatti, costituirebbe un correttivo teso a salvaguardare la posizione dei contribuenti, ma non muterebbe le caratteristiche fondamentali del sistema: in ogni caso i costi della riscossione (e, in particolare, delle esecuzioni infruttuose) resterebbero a carico dei contribuenti solventi, sia pur in misura attenuata. Con la conseguenza che la quota di tali costi non addebitabile ai contribuenti solventi non potrebbe che gravare sulla fiscalità generale.
È in quest’ottica, allora, che trova ragione il riferimento, neppure tanto velato, dei giudici costituzionali al venir meno della ragion d’essere dell’istituto dell’aggio, che è “divenuto anacronistico e costituisce una delle cause di inefficienza del sistema”, dovendo il legislatore prendere in seria considerazione l’ipotesi di porre i costi del sistema di riscossione integralmente a carico della fiscalità generale, sulla scia di quanto accade da tempo nei principali Stati dell’Unione europea ([22]). Ciò che deve avvenire – sottolinea la Corte – nell’ambito di un’urgente ed indifferibile riforma del sistema di riscossione inteso nel suo complesso, che sia ispirata ad una maggiore efficacia dell’esazione dei crediti tributari, soprattutto se di minore entità ([23]).
Appare del tutto evidente, poi, che ad una tale riforma non possa procedere la Corte per via di sentenza, ma che essa debba costituire il risultato di una meditata e profonda revisione da parte del legislatore dell’impianto normativo della riscossione. Di qui, dunque, il monito al legislatore ad attivarsi in tal senso e la declaratoria di inammissibilità della questione posta dalla Commissione tributaria veneziana.
5. Considerazioni conclusive e prospettive future
Dopo molti e vani tentativi di rinvio, la Corte Costituzionale ha finalmente ritenuto di dover mettere in luce i profili di irragionevolezza ed arbitrarietà della disciplina dell’aggio di riscossione, ammonendo il legislatore a procedere quanto prima ad una complessiva riforma del sistema di esazione dei tributi. In tale ottica di sistema trova fondamento anche la declaratoria di inammissibilità della questione posta dal giudice a quo: anziché limitarsi alla correzione – peraltro tecnicamente difficile, nelle circostanze – di singoli profili della disciplina mediante una sentenza additiva, la Corte invoca una revisione dell’intero sistema di riscossione, tesa a renderlo più efficiente e tempestivo, ciò che andrebbe a beneficio non solo degli enti impositori ([24]), ma anche della generalità dei contribuenti, sub specie della piena attuazione di quel dovere generale di solidarietà su cui si fonda anche il dovere tributario. Come sottolinea la Corte dei Conti nel suo più recente rapporto sul rendiconto generale dello Stato ([25]), “la riscossione coattiva delle somme ancora dovute costituisce complemento imprescindibile” del più generale sistema di attuazione dei tributi fondato sull’adempimento spontaneo da parte dei contribuenti.
L’auspicio, allora, è che nell’ambito della riforma fiscale di cui si sta attualmente discutendo a livello governativo possa trovare posto anche la complessiva revisione della disciplina della riscossione tributaria, secondo i principȋ ed i criteri chiaramente indicati dalla Corte Costituzionale ([26]). Un segnale in tal senso si rinviene nel recente documento delle Commissioni parlamentari redatto a conclusione dell’indagine conoscitiva sulla riforma dell’IRPEF ove si afferma che “la riscossione deve andare incontro ad una vera e propria ‘rivoluzione manageriale’, in grado di superare l’approccio meramente formale e virare verso una gestione del processo produttivo interamente concentrata su efficienza ed efficacia” ([27]).
Le intenzioni sembrano buone, non resta che attendere i fatti.
([1]) Limitandoci all’ultimo decennio, si vedano le ordinanze della C.T.P. di Roma n. 271 del 23 settembre 2010, della C.T.P. di Torino n. 147 del 18 dicembre 2012 e della C.T.P. di Latina n. 40 del 29 gennaio 2013. Per alcune riflessioni sulle ordinanze si vedano E. DE MITA, La riscossione servizio già pagato. L’aggio è un extra, in Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2013, p. 23; S. CANNIZZARO, Alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’«aggio» di riscossione, in Corriere tributario, 2013, p. 1283-1288. Le questioni sollevate dalla prima ordinanza sono state dichiarate manifestamente inammissibili con l’ordinanza n. 158 del 21 giugno del 2013; mentre l’inammissibilità delle questioni sollevate dalla C.T.P. di Torino e dalla C.T.P. di Latina è stata dichiarata con l’ordinanza n. 147 del 9 luglio 2015. Poi, con l’ordinanza n. 129 del 26 maggio 2017 è stata dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate dall’ordinanza della C.T.P. di Cagliari n. 43 del 29 maggio 2014; dall’ordinanza della C.T.P. di Roma n. 71 del 7 luglio 2014 e dall’ordinanza della C.T.P. di Milano n. 81 del 23 novembre 2015. Da ultimo, anche la C.T.R. Lombardia aveva sottoposto una questione di costituzionalità della disciplina dell’aggio di riscossione con l’ordinanza n. 264 dell’8 giugno 2016, anch’essa ritenuta inammissibile dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 65 del 29 marzo 2018. Per un commento sull’ordinanza della C.T.R. Lombardia si veda G. GLENDI, Ritorna alla Corte Costituzionale la questione della legittimità costituzionale dell’”aggio”, in Diritto e pratica tributaria, 2018, p. 406-419.
([2]) Si veda la questione pregiudiziale sollevata dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE dalla C.T.P. di Latina con ordinanza n. 41 del 29 gennaio 2013 relativa al possibile contrasto tra la disciplina dell’aggio di riscossione e la normativa unionale in materia di aiuti di Stato. Per un commento dell’ordinanza si veda S. CANNIZZARO, Rinvio alla Corte di giustizia UE sulla natura di aiuto di Stato dell’aggio di riscossione, in Corriere tributario, 2013, p. 1596-1602. Con l’ordinanza del 27 febbraio 2014, C-181/13, Acanfora, la Corte di giustizia ha ritenuto la questione sollevata (con riferimento alla possibile violazione delle norme sugli aiuti di Stato) manifestamente irricevibile in quanto il giudice a quo non aveva fornito ai giudici unionali elementi sufficienti per una risposta utile sulla questione.
([3]) Il riferimento è alla pronuncia della C.T.P. di Treviso, sez. VIII, 25 settembre 2012, n. 84, che, dopo aver evidenziato che all’aggio di riscossione può riconoscersi, alternativamente, natura sanzionatoria ovvero retributiva rispetto all’attività svolta dall’agente della riscossione, sottolinea come nel primo caso l’illegittimità deriverebbe dall’assenza di inadempimenti ad opera del debitore e dall’estraneità dell’irrogazione dello stesso aggio rispetto alla disciplina delle sanzioni tributarie e, nel secondo caso, discenderebbe, almeno nel caso di specie, dalla mancata prova ad opera dello stesso agente dell’attività svolta in grado di giustificare la richiesta delle somme addebitate. A nostro avviso, si tratta di posizione non condivisibile, in quanto giunge alla disapplicazione nel caso di specie di una norma di legge, vale a dire l’art. 17 del d.lgs. n. 112 del 1999, ciò che non rientra tra i poteri del giudice tributario il quale, se del caso, può sollevare una questione di costituzionalità della norma stessa, come dimostrano, del resto, le ordinanze citate nella precedente nota n. 1. Sul tema si veda anche A. RENDA, Illegittimo l’aggio di riscossione senza le prove della effettiva attività svolta per il recupero delle imposte, in Corriere tributario, 2012, p. 3499-3504.
([4]) C.T.P. Venezia, sez. I, ordinanza n. 85 del 5 giugno 2019.
([5]) Diversamente da quanto accaduto, per esempio, per la questione sollevata dall’ordinanza della C.T.P. di Roma n. 271 del 23 settembre 2010, dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale per non aver offerto adeguata motivazione “sulla rilevanza della questione sollevata, dal momento che il giudice rimettente non ha in alcun modo illustrato, anche solo sommariamente, le ragioni di infondatezza degli altri motivi di ricorso, pure spiegati in via principale nel giudizio a quo ed aventi «priorità logica»”.
([6]) L’ordinanza della C.T.P. Venezia ricorda, peraltro, che l’attuale formulazione dell’art. 17, comma 1, d.lgs. n. 112 del 1999 non risulta attuata in ragione della mancata emanazione del decreto ministeriale che avrebbe dovuto individuare i criteri ed i parametri per la determinazione dei costi di funzionamento del servizio di riscossione, anche nell’ottica di una possibile diminuzione delle misure attualmente fissate dell’aggio di riscossione.
([7]) A questo proposito l’ordinanza della Commissione veneziana richiamava uno dei rari casi in cui la Corte Costituzionale si è occupata nel merito della determinazione dell’aggio di riscossione: il riferimento è alla sentenza della Corte Costituzionale n. 480 del 1993 in cui i giudici costituzionali – con riferimento ai compensi spettanti ai concessionari del servizio di riscossione delle imposte operanti in Sicilia – avevano ritenuto che un sistema di determinazione dei compensi basato su una misura di carattere percentuale con la fissazione di un limite minimo e di un limite massimo del compenso dovuto realizzasse “un opportuno ed effettivo ancoraggio della remunerazione al costo del servizio, contemporaneamente impedendo, per un verso, che […] la misura percentuale del compenso scenda al di sotto del livello minimo di remuneratività del servizio e, per converso, che […] il compenso stesso salga notevolmente al di sopra della predetta soglia di copertura del costo della procedura”.
([8]) Il riferimento è al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 1, lett. e), legge 28 settembre 1998, n. 337 che, nell’ambito di un complessivo riordino della disciplina della riscossione tributaria, delegava il Governo a prevedere un “sistema di compensi collegati alle somme iscritte a ruolo effettivamente riscosse, alla tempestività della riscossione e ai costi della riscossione, normalizzati secondo criteri individuati dal Ministero delle finanze, nonché alla situazione socio-economica degli ambiti territoriali con il rimborso delle spese effettivamente sostenute per la riscossione di somme successivamente sgravate, o dovute da soggetti sottoposti a procedure concorsuali”.
([9]) G. CASTELLANI – A. FIORILLI, Perché pagare l’aggio di riscossione su somme che potrebbero essere versate spontaneamente?, in Dialoghi tributari, 2009, p. 455-457 parlano di “funzione pseudo-sanzionatoria” ravvisabile in tutti i casi in cui l’aggio non remuneri “alcuna attività di riscossione di crediti proprio a motivo dell’ampia disponibilità del debitore diligente di effettuare tempestivamente i versamenti obbligatori per legge”.
([10]) Per la ricomprensione anche di tali soggetti tra i contribuenti morosi si vedano le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, sintetizzate al par. 2.2. delle considerazioni in fatto della sentenza in commento.
([11]) In questo senso G. INGRAO, Gli interessi moratori e l’aggio di riscossione nella nuova dinamica della riscossione dei tributi, in Dialoghi tributari, 2011, p. 651-653. Si veda anche P. COPPOLA, La concentrazione della riscossione nell’accertamento: una riforma dagli incerti profili di ragionevolezza e coerenza interna, in Rassegna tributaria, p. 1421 e ss. che argomenta sull’incostituzionalità delle norme sull’aggio ritenendolo un “accessorio di un tributo”.
([12]) A favore della qualificazione dell’aggio come “controprestazione economica per l’attività esplicata a beneficio dell’ente” e che, come tale, “forma il contenuto di un’obbligazione che deriva direttamente dalla legge” si era espressa già una risalente pronuncia della Corte dei Conti del 19 gennaio 1937 citata da A. RENDA, Illegittimo l’aggio di riscossione senza le prove della effettiva attività svolta per il recupero delle imposte, cit., p. 3499-3504.
([13]) Si veda Cass., sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3416 secondo cui “l’aggio di riscossione ha natura retributiva, trattandosi del compenso per l’attività esattoriale, e questa natura non muta in base al soggetto – contribuente, ente impositore od entrambi pro quota – a carico del quale è posto il pagamento nelle varie circostanze”. In senso analogo si vedano anche Cass., sez. V., 11 maggio 2020, n. 8714; Cass., sez. V, 28 febbraio 2017, n. 5154; Cass., sez. V, 23 dicembre 2015, n. 25932 nonché Cass., sez. V, 3 aprile 2014, n. 7868.
([14]) Nella sua ordinanza di rimessione la commissione veneziana aveva rilevato la violazione del principio di eguaglianza in quanto, tra l’altro, la disciplina dell’aggio “prevedendo una percentuale fissa applicabile a ogni importo, crea una disparità di trattamento tra i contribuenti soggetti al servizio, in quanto, a parità di servizio reso (compilazione della cartella), il compenso varia in relazione al mero dato della somma oggetto di riscossione, senza riguardo alcuno alle attività che l’inadempimento rende necessarie ai fini dell’esazione dell’importo”.
([15]) Vale a dire di quei contribuenti destinatari di una cartella di pagamento e che adempiano nel termine di sessanta giorni.
([16]) Si veda Corte dei Conti, Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, p. 139.
([17]) Precisa F. SORRENTINO, Dell’eguaglianza, Modena, 2014, p. 50-51 che il principio di eguaglianza sostanziale, in ragione della sua struttura, “raramente perviene all’attenzione del giudice delle leggi come parametro di giudizio, è però vero che esso entra comunque nella sua considerazione, sia ai fini del giudizio di ragionevolezza alla stregua del primo comma dell’art. 3, sia nel quadro di un bilanciamento, sempre difficile, tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, che, a seconda dei diritti che vengono di volta in volta in considerazione, vede la prevalenza ora dell’uno ora dell’altro”.
([18]) M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in Democrazia e diritto, 4/1994 -1/1995, p. 565, che adduce, a titolo esemplificativo, il caso del diritto di difesa che, richiedendo l’apprestamento di mezzi concreti per il suo esercizio (giudici, aule, strutture amministrative), si risolve, a ben vedere, anche in un diritto a prestazione. Sul tema si veda anche il noto saggio di S. HOLMES – C.R. SUNSTEIN, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Bologna, 2000.
([19]) Già molti anni fa l’illustre V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano. La Corte Costituzionale, Padova, 1984, II, 2, p. 404 precisava che “la dichiarazione di incostituzionalità della omissione ha, allora, l’effetto di introdurre indirettamente quella disciplina che faceva difetto: traendola, ovviamente, non dalla fantasia della Corte, ma, per analogia, da altre norme e principȋ contenuti nel sistema (o addirittura dalla stessa norma costituzionale alla stregua della quale si è svolto il giudizio)”.
([20]) A questo riguardo si tenga conto che l’art. 76, decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73 ha previsto che il prossimo 30 settembre avvenga lo scioglimento anche di Riscossione Sicilia S.p.A., vale a dire dell’agente della riscossione per la Regione Sicilia, e che le relative funzioni siano affidate ad Agenzia delle entrate – Riscossione.
([21]) Il riferimento è all’art. 1, comma 803, legge 27 dicembre 2019, n. 160 ove si prevede che la quota degli oneri di riscossione a carico del debitore sia “pari al 3 per cento delle somme dovute in caso di pagamento entro il sessantesimo giorno dalla data di esecutività dell’atto di cui al comma 792, fino ad un massimo di 300 euro, ovvero pari al 6 per cento delle somme dovute in caso di pagamento oltre detto termine, fino a un massimo di 600 euro”. È ben vero che tali previsioni sono state introdotte successivamente alla pubblicazione dell’ordinanza della Commissione veneziana, ma si sarebbe potuto far riferimento ad esse nel contraddittorio tra le parti costituite dinanzi alla Corte (ciò che, almeno in base a quanto riportato nella premessa in fatto della sentenza, non sembra essere avvenuto).
([22]) Sul tema si vedano i risultati della ricerca della FONDAZIONE BRUNO VISENTINI, La riscossione in Italia, Germania, Spagna, Francia e Regno Unito: un’analisi comparata, Viterbo, 2015 da cui emerge che, tra gli Stati considerati, l’Italia è l’unico Paese in cui la remunerazione dell’attività di riscossione è posta a carico dei contribuenti inadempienti o morosi.
([23]) Sul punto si veda anche quanto afferma la Corte Costituzionale nella sentenza 15 marzo 2019, n. 51: “resta fermo che una riscossione ordinata e tempestivamente controllabile delle entrate è elemento indefettibile di una corretta elaborazione e gestione del bilancio, inteso come ‘bene pubblico’ funzionale ‘alla valorizzazione della democrazia rappresentativa’, mentre meccanismi comportanti una ‘lunghissima dilazione temporale’ (sentenza n. 18 del 2019) sono difficilmente compatibili con la sua fisiologica dinamica. In tale prospettiva deve essere sottolineata l’esigenza che per i crediti di minore dimensione il legislatore predisponga sistemi di riscossione più efficaci, proporzionati e tempestivi di quelli fin qui adottati”.
([24]) Anche per mettere fine alla vicenda dei residui attivi presenti in molti dei bilanci pubblici, che – come sottolinea la Corte – ne minano la trasparenza e l’affidabilità.
([25]) Si veda Corte dei Conti, Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, p. 140.
([26]) Come icasticamente sottolinea E. DE MITA, Nella riscossione va cancellata l’ingiustizia dell’aggio, in Il Sole 24 Ore, p. 33-35 “la sentenza 120/2021 potrebbe già essere la relazione illustrativa della riforma che la Corte sollecita come indifferibile”.
([27]) Si veda il documento delle Commissioni riunite VI Commissione (Finanze) della Camera dei Deputati e 6° Commissione (Finanze e Tesoro) del Senato della Repubblica, Indagine conoscitiva sulla Riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario, 30 giugno 2021, p. 84.
Relazione del Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia sulle iniziative di riforma in materia di giustizia
1.L’esperienza che si sta facendo suggerisce infatti di esser pronti a intervenire con celerità e con immediatezza, perché il cantiere delle riforme è ricco di temi e i tempi spesso sono molto rapidi.
Siamo chiamati in questo frangente ad un più intenso impegno nello studio di tanti progetti di riforma, anche in termini propositivi.
E ciò al fine di disporre negli spazi di discussione pubblica, angusti o meno angusti che siano, degli argomenti per una tempestiva considerazione critica di quanto viene proposto o emendato.
E per essere in grado, ove occorra, di suggerire soluzioni alternative, strade diverse, più efficaci e comunque funzionali all’obiettivo rispetto al quale non ci diversifichiamo dai proclami politici, ossia il miglioramento dell’efficienza e della qualità della risposta di giustizia.
2. Come si è sperimentato in occasione della vicenda degli emendamenti al disegno di legge AC 2435 “di delega al Governo per l'efficienza del processo penale ecc. ecc. ", i tempi dell’azione riformatrice possono subire delle forti accelerazioni.
Gli emendamenti sono stati approvati dal Governo senza che trapelasse prima una bozza di lavoro.
Sino alla seduta del Consiglio dei Ministri in cui sono stati varati si conoscevano soltanto i risultati dei lavori della Commissione ministeriale di esperti, la Commissione presieduta dal presidente Lattanzi.
La sostanziosa rivisitazione del disegno di legge presentato dal precedente Ministro è stata quindi compiutamente conosciuta soltanto qualche giorno dopo la seduta del Consiglio dei ministri.
3. Peraltro, il Governo si è determinato, per una parte centrale di quell’impianto riformatore – prescrizione del reato e tempi del processo –, in modo difficilmente pronosticabile.
Ha infatti finito col recepire una opzione “discussa anche se non accolta come proposta della Commissione” – utilizzo le testuali espressioni della Relazione consegnata dalla Commissione Lattanzi –.
Per tale ragione ci si è dovuti misurare con una proposta emendativa inaspettata, anche per la eccentricità della soluzione adottata.
4. La Gec ha però saputo agire con la dovuta tempestività.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato gli emendamenti nella seduta serale dell’8 luglio; le notizie sui contenuti degli emendamenti si sono avute, in termini di sufficiente certezza, dopo qualche giorno.
La Gec ha allora elaborato una netta posizione di critica, resa nota con un comunicato dal titolo “Il principio di realtà e la proposta del Governo sulla prescrizione processuale” – del 14 luglio –, e ciò lo stesso giorno della presentazione alla Camera degli emendamenti.
Contestualmente ha richiesto di poter essere ascoltata dalla Commissione giustizia della Camera ed è stata ascoltata nella giornata del 16 luglio, consegnando un documento di osservazioni e rilievi sulla soluzione dell’improcedibilità e su qualche altro aspetto di quel disegno riformatore.
5. Il seguito è assai noto.
Anche grazie alle argomentate, ragionate, critiche che in quella sede sono state illustrate, il Governo e la sua maggioranza hanno modificato l’iniziale proposta sulla improcedibilità, hanno attenuato i vistosi difetti di quell’impianto, che però resta insoddisfacente perché legato ad una opzione in favore di una soluzione sistematicamente inaccettabile.
Oggi avremo modo di approfondire il disegno di legge grazie al pregevole lavoro della Commissione di studio, che ci ha consegnato un esame attento, puntuale e completo dell’intero impianto.
E vedremo nei prossimi giorni se, come sembra facile preconizzare, l’esigenza governativa di rispettare un calendario delle riforme a tappe sostanzialmente forzate prevarrà sul bisogno avvertito anche da buona parte dell’Accademia di rimediare alla irrazionalità di quella scelta.
6. Tempi parlamentari meno stringenti hanno interessato, almeno all’inizio, la trattazione degli emendamenti al disegno di legge di riforma del processo civile, AS n. 1662 di delega al Governo per l’efficienza del processo civile ecc. ecc., presentati nel giugno scorso.
Qui il Governo si era mosso indicando la necessità di un intervento articolato su più e diversi piani per il raggiungimento di un obiettivo particolarmente ambizioso.
In gioco è la riduzione, per esigenze di rispetto delle previsioni del PNRR, della eccessiva durata del processo civile.
Occorre abbattere i tempi dei processi del 40% e, come sappiamo e come spesso viene ricordato, l’attuazione delle riforme della giustizia è condizione dell’intero piano di finanziamento europeo.
Nella predisposizione degli emendamenti il Governo aveva inteso coniugare riforme del rito, miglioramento dell’organizzazione e rafforzamento delle ADR, nella consapevolezza, credo da condividere, che la riduzione dei tempi, senza scadimento della qualità della risposta e indebolimento delle garanzie, non possa che essere il risultato di una pluralità di azioni coordinate.
7. È però notizia giornalistica di questi giorni che le critiche dell’avvocatura alle soluzioni messe in campo in tema di riforma del rito hanno indotto il Governo, e per esso il Ministero della Giustizia, a rivedere le scelte compiute in tema di prima udienza e di correlate preclusioni e decadenze.
Da quel che si apprende dalla lettura dei giornali, è stata ultimata una bozza di modifica concertata dal Ministero con i capigruppo di maggioranza in Commissione giustizia al Senato e con le relatrici del disegno di legge, calendarizzato per l’esame in Aula al prossimo 14 settembre.
Non entro ora nel merito della fondatezza delle proteste degli avvocati e quindi della accettabilità, e della congruità al fine della riduzione dei tempi, delle soluzioni per le quali, a pena di decadenza, nell’atto di citazione e nella correlata comparsa di risposta devono essere indicati specificamente i mezzi di prova e i documenti offerti in comunicazione e devono essere svolte tutte le difese in modo da evitare lungaggini di successive udienze per la modifica delle domande, delle difese e per l’articolazione dei mezzi di prova.
E non prendo posizione sulla utilità, sempre ai fini dell’abbattimento dei tempi dei processi, di una previsione che colleghi alla contumacia la non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda, ove essa abbia ad oggetto la materia dei diritti disponibili.
Credo però che a questo punto sia urgente e doveroso interrogarsi, partendo dalle già ricordate premesse dell’azione riformatrice del Governo, se il non marginale aggiustamento delle proposte sul rito possa far dire che l’impianto di riforma è ancora adeguato al raggiungimento dell’ambizioso obiettivo.
O se, invece, l’attenuazione della portata innovatrice di quelle soluzioni debba essere compensata da altri accorgimenti che non facciano gravare soltanto sugli altri due pilastri il peso e la responsabilità di assicurare tempi di definizione dei processi sensibilmente più brevi.
8. Non mi pare realistico sperare che si possano abbreviare del 40% i tempi dei processi contando soltanto sul potenziamento delle ADR, per il vero non così significativo, e sulle misure di riorganizzazione degli uffici giudiziari, e quindi sulla nuova strutturazione dell’ufficio per il processo.
Il timore è che riversando l’intero carico di attese e di speranze di un così robusto efficientamento della giustizia civile soltanto su questi due capitoli della riforma, e in particolare sulla nuova fisionomia dell’ufficio per il processo, li si consegni a un futuro assai incerto, in qualche modo ponendo le condizioni per registrarne in beve tempo il sostanziale fallimento.
Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle riforme, che sono per la gran parte necessitate dall’urgenza di venir fuori da una crisi di portata eccezionale, e che ci si debba predisporre costruttivamente, rifuggendo da atteggiamenti di preconcetta chiusura alle innovazioni.
Personalmente penso anche che occorra coltivare un cauto e razionale ottimismo, per tenere a bada le pur comprensibili tendenze al disincanto.
Ma l’ottimismo non può essere ingenuo, va sostenuto con il necessario realismo, perché solo in tal modo si impedisce che l’entusiasmo riformatore si faccia in breve tempo pericolosa illusione.
La Magistratura dovrà fare la sua parte affinché gli strumenti messi a disposizione possano essere utilizzati nel miglior modo possibile.
In termini di ampliamento delle risorse, il reclutamento di oltre 8.000 addetti da destinare all’ufficio per il processo non è poca cosa, e occorrerà nel breve tempo ragionare sulla allocazione migliore all’interno degli uffici, per sfruttare nella massima misura le potenzialità della nuova organizzazione.
E però l’ufficio per il processo deve essere una delle plurime soluzioni da dare all’annoso problema dei tempi della giustizia civile, perché non è, purtroppo, una formula magica.
9. Una riforma che invece sembra segnare il passo, e spero vivamente di essere sul punto in errore, è quella dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm.
La Commissione ministeriale di esperti presieduta dal prof. Luciani ha concluso i lavori il 31 maggio scorso ma ancora non si ha notizia della predisposizione di emendamenti governativi al disegno di legge che giace da tempo alla Camera – AC 2681 –, presentato il 28 settembre 2020.
Sappiamo che la Ministra della giustizia ha espresso più volte la convinzione dell’urgenza della riforma, sottolineando che “qualcosa si è rotto nel rapporto tra magistratura e popolo” e che pertanto “occorre urgentemente ricostruirlo”.
E allora una riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm è improcrastinabile.
L’attuale legge elettorale, varata circa venti anni fa col dichiarato intento di scardinare le correnti, ha finito col rafforzare e favorire il correntismo.
È una legge che ha dato cattiva prova, che ha concorso a non pochi guasti.
Occorre “voltare pagina”, secondo l’autorevole monito del Capo dello Stato, e ciò si fa anche, non solo, ma anche con le riforme necessarie.
Il tempo c’è ancora, ma non è infinito perché l’attuale consiliatura si accinge ad entrare nell’ultimo anno della sua esperienza.
10. Credo allora che possa e debba chiedersi al Ministro, al Governo e alla Politica di fare in fretta, dicendo con chiarezza che non si può andare al rinnovo del Csm senza aver provveduto a eliminare i fattori di rischio di una ulteriore delegittimazione dell’organo consiliare.
La Commissione ministeriale ha fatto una scelta: proprio oggi discuteremo di quelle proposte e di altre ancora.
E però, superando la questione dei contenuti, non è un azzardo dire che, siccome l’attuale legge ha prodotto frutti avvelenati, il tema di quale debba essere il modello elettorale da privilegiare in sostituzione di essa rischia di essere secondario di fronte all’urgenza di una riforma pur che sia, alla condizione, ovviamente, della compatibilità costituzionale.
È un paradosso, ma rende efficacemente l’idea, che a me pare dovrebbe trovarci tutti d’accordo, di una necessità non eludibile, di una necessità rafforzata di riforma.
11. Due altri versanti dell’impegno riformatore non devono essere trascurati. La magistratura onoraria e la giustizia tributaria.
11.1. Giorno per giorno cresce il malessere tra i magistrati onorari in servizio per una riforma della cd. legge Orlando nella parte che attiene alle disposizioni sul loro trattamento, e che tarda ad essere compiutamente varata.
La Commissione ministeriale di studio presieduta dal Claudio Castelli ha concluso con rapidità i lavori, consegnando un articolato nella seduta conclusiva del 20 luglio.
L’auspicio, ancora una volta fondato sulle dichiarazioni programmatiche della Ministra della giustizia, è che si dia rapidamente una soddisfacente risposta, in termini di riconoscimento di diritti e tutele lavorative adeguate e dignitose, alle attese dei magistrati onorari, che sono in servizio precario da molti anni e che costituiscono un importante supporto per gli uffici giudiziari.
Di pari importanza è che si stabilizzi un quadro normativo chiaro per la magistratura onoraria, che merita di essere valorizzata per il ruolo che la Costituzione le assegna, non di magistratura di complemento e di supplenza ma autonoma nel suo specifico statuto.
11.2. Un capitolo ancora non esaminato con la necessaria compiutezza è quello della giustizia tributaria.
La istituita commissione interministeriale di esperti, presieduta dal prof. della Cananea, ha concluso i lavori, specificamente il 30 giugno scorso, ma non so dire ora quale sia lo stato della riflessione e dell’elaborazione del Governo su quel ricco materiale di proposte.
L’obiettivo del PNRR per la giustizia tributaria consiste nella riduzione del numero di ricorsi dinnanzi alla Corte di cassazione e in una loro più rapida trattazione.
Secondo gli intendimenti del Governo dovrebbe giungersi all’approvazione di una legge delega entro l’anno in corso, ma mi sembra a questo punto programma velleitario, e al varo dei decreti delegati nel corso dell’anno prossimo.
Nonostante il riferimento del PNRR sembri limitato alla necessità di intervento sulle criticità del giudizio tributario di legittimità, il mandato conferito alla Commissione di esperti dal Ministro dell’Economia e dal Ministero della Giustizia è stato più ampio e ha riguardato il complessivo assetto della giurisdizione tributaria.
Le conclusioni raggiunte da questa Commissione sono ricche e articolate, e occorre approfondirle non solo perché la materia del contenzioso tributario è strategica per il miglioramento complessivo della risposta di giustizia; ma anche per le implicazioni di sistema che potrebbero avere sull’assetto dell’ordinamento giudiziario.
Si legge in quella Relazione anche della proposta, al fine di rafforzare la specializzazione dei giudici tributari, di istituzione di una magistratura speciale che tenga luogo dell’attuale magistratura tributaria a connotato di onorarietà.
È testuale l’indicazione per l’istituzione di un giudice speciale – i tribunali tributari e le corti d’appello tributarie –, con reclutamento fondato su un pubblico concorso, ma ovviamente diverso da quello di cu all’art. 106 Cost. per l’accesso alla magistratura ordinaria.
E ciò, si afferma, al fine di incrementare la specializzazione dei giudici tributari, oggi onorari e quindi asseritamente poco specializzati.
La questione è di particolare rilievo, come è facilmente intuibile, perché sappiamo bene che la Costituzione pone espressamente e chiaramente il divieto di istituzione di giudici speciali; ma sappiamo anche che la giustizia tributaria è in sofferenza, e che la sofferenza maggiore si registra nel contenzioso dinnanzi alla Corte di cassazione, che deve fronteggiare un carico considerevole di arretrato.
Si tratta di un altro segmento delle riforme annunciate che merita la nostra attenta considerazione, nella consapevolezza della duplice esigenza di migliorare la resa del servizio giustizia e di rispettare i vincoli costituzionali.
12. Credo di poter affermare che, quale che sia il settore di volta in volta interessato da un progetto di riforma della giustizia, il nostro apporto critico debba sempre indirizzarsi a valutare, dal punto di vista di chi le norme è chiamato ad applicarle, l’utilità possibile in termini di miglioramento di tempi e qualità delle decisioni e la compatibilità necessaria con l’assetto costituzionale.
Tra i due aspetti non può esserci tensione o addirittura conflitto, perché non v’è spazio per una buona riforma fuori della cornice costituzionale, a meno, appunto, che non si ponga mano ad una modifica della Costituzione.
Sembra ovvio ma nel pubblico dibattito sui temi della giustizia così a volte non è.
Sta a noi allora spiegarlo, perché gli argomenti, i buoni argomenti non mancano.
Aspettando le Sezioni Unite sull’apertura di borse senza autorizzazione del P.M. in ambito fiscale
Intervista di Enrico Manzon ad Alberto Marcheselli e Francesco Pistolesi
Con l’ordinanza interlocutoria n. 10664 del 22 aprile 2021 la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ne interroga le Sezioni Unite su di una questione, molto delicata, inerente ai diritti del contribuente in fase di istruttoria amministrativa ed alla relativa disciplina di principio costituzionale, unionale e convenzionale. Nel caso di specie risultano in particolare implicati gli obblighi informativi dell'agenzia fiscale in ordine a tali diritti, l'efficacia del consenso del contribuente e le conseguenze giuridiche di eventuali vizi del consenso stesso causati dalla violazione di detti obblighi.
In vista della pronuncia del Supremo Collegio, anche in un’ottica di servizio, la Rivista, che già si è occupata dell’argomento – cfr. G.Iacobelli, Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente? La questione al vaglio delle Sezioni unite - ha interpellato due autorevoli tributaristi accademici, il prof. Alberto Marcheselli ed il prof. Francesco Pistolesi, i cui apprezzati interventi abbiamo già avuto modo di ospitare.
Specificamente, seguendo la traccia della pronuncia in commento, a loro è stato chiesto di analizzare i punti seguenti: Il rilievo giuridico del consenso del contribuente, anche in forma di contegno passivo, nel caso di illegittima compressione di un suo diritto di matrice costituzionale, unionale e convenzionale verificatosi in sede di verifica fiscale; gli oneri informativi facenti carico all’Amministrazione finanziaria affinché il comportamento collaborativo del soggetto verificato sia valido: determinazione del concetto giuridico di "consenso libero e informato"; la sorte delle prove acquisite illegittimamente e la possibilità di discriminarle in ragione del diverso livello di lesività dei diritti del contribuente ravvisabile nell’azione svolta dall’Amministrazione finanziaria.
Queste le loro interessanti risposte.
§§§
Prof.Alberto Marcheselli
Ordinario diritto tributario Università di Genova
Le conseguenze delle violazioni istruttorie tributarie e gli effetti della condotta del contribuente durante la verifica fiscale, tra buona fede, proporzionalità e diritti fondamentali
Sommario: 1. La natura e l’interesse tutelato dalle norme sulle indagini tributarie. - 2. Il consenso del contribuente: funzione, limiti, caratteristiche ed efficacia. Il consenso libero e informato - 3. Atteggiamento passivo, silenzio e condotta inerte: quale spazio per un consenso tacito? I doveri informativi della PA e gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia del contribuente e del suo difensore - 4.Una diversa prospettiva per la condotta inerte del contribuente durante la verifica: sono possibili effetti probatori o sulla attribuzione della successive spese processuali?
1. La natura e l’interesse tutelato dalle norme sulle indagini tributarie
La premessa che la violazione delle regole sulle indagini tributarie possa determinare la caducazione dell’avviso di accertamento tributario può essere data per solida e robusta (in tal senso convergono, nel loro dialogo, le varie giurisdizioni: ex plurimis Cass. SS.UU. 16424/02, CGUE, 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C‑419/14, EU:C:2015:832, punto 89).
Sul piano più teoretico che pratico si può, in effetti, discutere se la conseguenza sia una invalidità derivata o, come a me pare più corretto, una inutilizzabilità del risultato della indagine illegittima, ma la scelta che si fa quanto a questa opzione non appare praticamente rilevante quanto al tema da affrontare. Per convenzione terminologica, allora, di qui in poi mi riferirò indifferentemente a inutilizzabilità o illegittimità, come se fossero sinonimi, nulla mutando in pratica.
Ciò posto, appare altrettanto pacifico che non tutte le violazioni sono suscettibili di produrre tale effetto. In termini generali, è intuitivo che anche la “sanzione” per la violazione istruttoria deve essere giustificata da e proporzionata alla violazione.
Tale giustificazione e proporzione non sussiste quando o si tratti di violazioni di norme che non riguardano la proiezione esterna dell’attività amministrativa (norme di organizzazione interna) o, comunque, di violazione di insufficiente gravità.
In termini generali e a questi fini, le norme sull’istruttoria possono allora distinguersi, tenendo presente una premessa: appaiono poter inficiare l’accertamento o le violazioni di norme che esprimano la congruità della procedura seguita al suo scopo (accertare con sufficiente precisione e plausibilità l’entità del presupposto), ovvero le norme che segnino i limiti esterni del potere della Amministrazione Finanziaria e dello Stato rispetto ad interessi altrui. Tra gli interessi con cui l’accertamento tributario può venire in conflitto non pare infatti che il contribuente possa pretendere di azionare quelli spettanti al soggetto pubblico.
Alla luce di ciò, le norme sull’istruttoria sembrano così potersi classificare: a) norme interne di organizzazione dell’attività degli uffici; b) norme finalizzate a garantire l’accuratezza dell’accertamento; c) norme di garanzia di diritti e interessi privati, del contribuente e di terzi; d) norme di garanzia di interessi pubblici diversi da quelli relativi all’attuazione dei tributi.
Tenendo ferma la premessa posta poco sopra, la violazione di norme dei tipi sub a) e d) non pare allora poter determinare l’illegittimità dell’accertamento. Si tratta di norme che non servono a garantire la realizzazione della funzione (un accertamento che misuri con ragionevole plausibilità la ricchezza) e/o tutelano interessi dello Stato (e quindi non possono configurare limiti esterni del potere).
L’illegittimità sembra invece poter colpire le violazioni delle norme degli altri due generi, sempre che si tratti di violazione di sufficiente gravità.
A questo proposito, ben può essere un criterio di supporto la ricerca di un valore costituzionale sottostante.
Come criterio interpretativo, laddove manchi una prescrizione espressa di nullità/inutilizzabilità, può certamente essere utile interrogarsi sul fatto se la regola intenda presidiare valori costituzionali che entrino in tensione rispetto agli atti di indagine. In tali casi, in effetti, la norma esprime, effettivamente e certamente, un limite del potere, e il criterio del valore costituzionale risulta congruente con il criterio appena enunciato.
Naturalmente, la decisività di tale criterio non può neppure eccessivamente enfatizzarsi, in un duplice senso. Da un lato, molte delle iniziative di indagine impattano con libertà costituzionali (ed è quindi sostenibile che le relative regole li ponderino e tutelino, per cui il criterio non è particolarmente selettivo, se applicato in senso proprio), dall’altro, il criterio della individuazione del valore costituzionale sottostante può valere solo come criterio interpretativo di selezione dei casi rilevanti (cioè: determinano sicuramente inutilizzabilità le regole legislative che tutelino tali valori), non come possibilità di sostituzione, alla valutazione e disciplina legislativa, di un controllo diffuso di costituzionalità.
Detto più chiaramente: a fronte di una regola sull’istruttoria e in mancanza di una sanzione espressa di inutilizzabilità, in caso di violazione della regola, è corretto chiedersi se quella norma limitasse il potere di indagine (ed è corretto affermare che lo fa sempre e sicuramente quando pondera tra valori costituzionali).
Ma non sarebbe corretto invertire il ragionamento e confondere tra condizione sufficiente e condizione necessaria: se una regola limita il potere non è che questa possa essere ritenuta irrilevante, quanto alla inutilizzabilità, rifacendosi e sostituendosi, tout court e sempre, da parte del giudice la verifica sulla correttezza della ponderazione legislativa. Salvi gli spazi di interpretazioni costituzionalmente orientate, ove si ritenesse che la regola che limita il potere non fosse assisa su una proporzionata ponderazione dei valori costituzionali, la via sarebbe o quella di elevarne questione di legittimità costituzionale o, nelle materie armonizzate, porsi un delicato problema di disapplicazione, per contrasto con il principio di proporzionalità.
Ne consegue che determina la inutilizzabilità dei dati probatori acquisiti solo: i) la violazione di norme che disciplinano il potere di acquisizione, sufficientemente gravi e corrispondenti a un interesse privato, del contribuente o di terzi; ii) la violazione di norme che definiscono gli standard di affidabilità del materiale probatorio (categoria fondamentale di norme di questo ultimo tipo è dato da quelle sul contraddittorio procedimentale come strumento di adeguamento dell’accertamento fondato su dati standard alla realtà del contribuente - Cass., sez. un., 26635/2009 o più in generale come complemento istruttorio).
2. Il consenso del contribuente: funzione, limiti, caratteristiche ed efficacia. Il consenso libero e informato
Il secondo profilo rilevante è quello del consenso.
In senso proprio, si tratta del problema della efficacia delle manifestazioni di volontà del contribuente, che accetti che si verifichino nei suoi confronti determinate conseguenze giuridiche. In senso lato, si tratta dell’espressa accettazione del compimento da parte degli operanti di determinate attività.
Un primo ostacolo di ordine generale sembrerebbe opporsi al ritenere che tale consenso possa avere degli effetti in materia tributaria, e si tratta della – pacifica – indisponibilità del diritto tributario. Sul punto però occorre fare subito una precisazione, che appare sostanzialmente svuotare di rilevanza l’argomento. Che il diritto tributario sia materia indisponibile significa solo una cosa: che la fonte degli obblighi tributari non è volontaristica e, pertanto, essi non possono essere modificati per effetto della volontà: non ci si può obbligare né liberare volontariamente, né i debiti possono essere in tutto o in parte rimessi.
Ma ciò non significa affatto che, per quanto attiene la attuazione del tributo, le scelte delle parti non possano essere prive di effetti. Per esempio, l’imputato nel processo penale …non può decidere di andare in prigione, perché la libertà personale non è disponibile, ma può ammettere il reato, non contestare le accuse del pubblico ministero, non appellare le sentenze, non chiedere la sospensione dell’ordine di esecuzione, ecc. Simmetricamente, nello stesso processo, il P.M., ancorché il diritto penale sia l’apoteosi della materia indisponibile, può certamente, effettuare tutte le scelte procedimentali. È appena il caso di notare che, persino la negligenza nella gestione del procedimento non sarebbe rimediabile per un intervento sostitutivo del giudice: se l’imputato o il Pubblico Ministero non presentano appello nei termini, non ostante la delicatezza estrema della materia, non vi è alcun correttivo.
Ma vi è di più.
Quando si tratta della materia delle indagini, tale conclusione esce confermata e rafforzata dal fatto che il consenso della cui ammissibilità ed efficacia si discute non ha affatto ad oggetto l’obbligo di pagare, ma consentire deroghe al sacrificio di posizioni giuridiche diverse. Si tratta, ad esempio, di discutere se il contribuente possa validamente rinunciare alle regole previste, ad esempio, a tutela della sua vita privata, e simili.
La distinzione tra diritti economici oggetto della pretesa tributaria e diritti fondamentali intersecantisi con le indagini tributarie, è perfettamente colta in sede eurounitaria (si vedano ad esempio le Conclusioni dell’Avvocato generale Kokott del 2 luglio 2020, procedimenti riuniti C-245/2019 e C-246/2019, caso État luxemburgeois, in particolare al § 71), mentre stenta a farsi strada nel diritto interno.
La soluzione, per la verità, appare molto semplice e lineare: il consenso è valido se esprime un atto di disposizione di diritti suscettibili di gestione e disposizione (e nei limiti in cui lo siano): si tratta di concetti puramente civilistici che nulla hanno a che vedere con la materia tributaria, che è solo l’occasione in cui la frizione con il diritto personale avviene. Così come il soggetto non può fare, se non entro certi limiti, validi atti di gestione della propria integrità fisica, ma può ad esempio, far entrare nel proprio domicilio chi vuole (e la cosa coerentemente esclude anche il delitto di violazione di domicilio), non si vede perché non potrebbe consentire a iniziative di indagine tributaria anche al di fuori dei limiti della legge tributaria, se si rimane nei limiti del consentito esercizio civilistico del diritto.
Le regole tributarie stabiliscono il punto di equilibrio tra potere pubblico tributario e diritti individuali: si può dire che strutturalmente presuppongano il dissenso e la necessità di costrizione. Ove il dissenso non vi sia, vi è solo l’ostacolo della indisponibilità (o superamento dei limiti di disponibilità), che non dipende affatto dalle regole tributarie, ma da quelle civilistiche. Tale indisponibilità, attese le posizioni coinvolte nella istruttoria tributaria (domicilio, riservatezza e simili) risulta di non probabile configurazione. Le ipotesi di indisponibilità concernono diritti rinunciare ai quali, sostanzialmente, sarebbe contrario al buon costume e all’ordine pubblico (integrità fisica, personalità, libertà morale, ecc.), ma non si tratta di norma di diritti su cui la indagine tributaria possa incidere. Una possibile eccezione, tuttavia, vi è, ed è quella della protezione dei dati personali, se la si intende, come pare si debba, non quale proiezione di un diritto individuale, ma interesse della collettività, correlato con la libertà e democrazia collettiva (ex multis, A. Mantelero, Personal data for decisional purposes in the age of analytics: from an individual perspective to a collective dimension of data protection, in Computer Law & Security Review, 2016, 238 ss.).
Insomma, il consenso vale come fatto che, escludendo costrizione, implica il venir meno delle necessarie cautele previste per l’esercizio di poteri.
Da tale premessa derivano alcuni corollari.
Innanzitutto, il fatto che il consenso ha un ruolo solo rispetto alle situazioni e alle regole che concernano l’esercizio di poteri o l’attivazione di obblighi. Il consenso è irrilevante (non è né richiesto, né sanante) per attività di indagine che non implichino soggezione o costrizione.
E, soprattutto, il fatto che il consenso rilevante è solo quello che significhi che il soggetto al potere accetta il sacrificio del suo interesse compresso dall’indagine, senza che sia necessario attivare alcun potere o costrizione: detto in altre parole, il consenso deve essere libero e informato.
Libero significa che non deve sussistere alcuna costrizione, né diretta né indiretta. Diretta sarebbe ove il consenso fosse ottenuto attraverso la prospettazione di conseguenze sfavorevoli: non sarebbe libero il consenso ottenuto prospettando sanzioni, proprie o improprie, specifiche o vaghe, sia che tali conseguenze esistano, sia che siano soltanto minacciate, o anche solo oggetto di vaga allusione (in formule sibilline quali “con le conseguenze di legge”).
Anzi, considerato che l’attività degli operanti l’indagine è naturalmente e normalmente autoritativa, l’unica soluzione idonea a sgombrare il campo da equivoci è l’espressa informazione del fatto che dalla scelta del soggetto all’indagine non potranno scaturire conseguenze sanzionatorie, in senso lato (ovviamente restano escluse le valutazioni strategiche di convenienza). Tale ultimo aspetto transita già nel concetto di consenso informato: il consenso efficace è solo quello che viene manifestato sapendo di poterlo adottare senza conseguenze sanzionatorie, da un lato, e nella consapevolezza del suo effetto giuridico: rendere non necessarie garanzie che altrimenti paralizzerebbero le indagini.
Il consenso non riguarda solo lo svolgimento materiale delle operazioni (il non opporsi, come purtroppo spesso in maniera non sufficientemente avvertita si ritiene) ma anche – necessariamente - il fatto che, in tal modo, non sono più necessarie le garanzie procedimentali. Ciò comporta che gli operanti che vogliano valersi del consenso devono giocare a carte scoperte: informare del fatto che il consenso è libero e che, in sua assenza non sarebbe possibile procedere.
In difetto, non si vede come possa, in rigorosi termini giuridici, ipotizzare un consenso efficace.
3. Atteggiamento passivo, silenzio e condotta inerte: quale spazio per un consenso tacito? I doveri informativi della PA e gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia del contribuente e del suo difensore
Il terzo problema è se il consenso debba essere espresso o possa essere tacito, manifestato con la inerzia o attraverso comportamenti concludenti.
La soluzione del problema deve essere espressa in modo articolato, sia perché vengono in gioco diversi aspetti, sia perché le fattispecie ipotizzabili solo alquanto diverse.
Una prima ipotesi, coerentemente a quanto fin qui espresso, è quella in cui gli operanti informino l’interessato in modo trasparente del fatto che nella fattispecie è necessario il consenso, che questo è libero e domandino se egli lo esprima. In questo caso il problema del silenzio è sostanzialmente di scuola, in termini pratici. Viene difficile ipotizzare in concreto che il contribuente, sollecitato, rimanga inerte come una Sfinge. Ove si dia questo – invero bislacco – caso, non sembra, di per sé, espresso un consenso, diventando semmai rilevante la somma di silenzio e comportamento successivo. Sempre ragionando in termini puramente astratti non sarebbe sproporzionato, sempre in questa ipotesi fantasiosa, ritenere che al contribuente non costerebbe alcun sacrificio esprimere un sì e un no, ma resta comunque il fatto che, se anche il silenzio si potesse interpretare come assenso, dovrebbe valutarsi la condotta successiva: il contribuente collabora (per esempio: apre la porta? Si scansa e fa entrare gli operanti?). In questo caso, un silenzio successivo a una trasparente informazione, seguito da una condotta collaborativa potrebbe effettivamente esprimere per fatti concludenti un assenso: pretendere successivamente di qualificarlo come opposizione appare contrario a buona fede.
Ma fuori da questa ipotesi, di fantasia, la costruzione di un valido consenso sembra normalmente da escludere.
In particolare, tutte le volte che il contribuente non venga informato (o non vi sia certezza che sia a conoscenza altrimenti) del carattere decisivo del consenso (cioè del fatto che manca la necessaria autorizzazione) non si vede come il silenzio e il comportamento del contribuente potrebbero valere come valida rinuncia alle garanzie procedurali.
Non è sostenibile, perché non è proporzionato e conforme a buona fede né ipotizzare che il contribuente dovrebbe …sapere da solo se l’autorizzazione esiste, né che sia egli a dover chiedere e pretendere di sapere se l’autorizzazione esiste: non si vede perché, in base ai principi di buona fede e proporzionalità, la Pubblica Amministrazione potrebbe agire in modo non trasparente e contrario a buona fede senza andare incontro a conseguenze, se non quando il contribuente solleciti il rispetto del suo diritto, quasi che le regole siano da applicarsi a richiesta.
Tale soluzione è particolarmente abnorme perché il comportamento trasparente della P.A., oltre che doveroso, è anche di semplice adempimento: si tratta semplicemente di rispettare la legge e adempiere semplicissimi oneri (o premunendosi di autorizzazione, che si può ottenere anche in forme semplificate e urgenti, o, in difetto di questo primo adempimento dovuto, almeno informare il contribuente). Sanare l’inadempimento, grave, di due semplici doveri ribaltando l’onere sul contribuente appare particolarmente sbilanciato e ingiustificato (oltre che incentivante di condotte negligenti).
Idem, di regola, quando la condotta non sia libera.
Va, in effetti, tenuto presente che quando degli esponenti della pubblica autorità si presentano in modo ufficiale e non viene esplicitato che l’attività di indagine non può esperirsi in modo autoritativo, risulta pressoché impossibile ipotizzare che il contribuente sia consapevole del fatto di potersi legittimamente opporre. Anche senza evocare il metus rispetto alla autorità, è evidente che l’Autorità agisce in modo … naturalmente e ordinariamente autoritativo. Lo spazio per ritenere un implicito consenso nelle situazioni ambigue appare pertanto assai ristretto, salvo quanto si dirà subito oltre.
Residua un solo profilo, nuovamente sostanzialmente di scuola.
Quello in cui gli operanti informino trasparentemente della mancanza di autorizzazione, ma tacciano sul fatto che un libero consenso potrebbe essere sanante.
In questa ipotesi, e solo in questa ipotesi, ci si può effettivamente domandare se non si possa fare qualche distinzione soggettiva, considerando le qualità del soggetto che subisce materialmente l’indagine. È diverso, per esemplificare, il caso dell’accesso presso un pensionato delle poste, o presso un commercialista che eserciti professionalmente l’assistenza tributaria. Ovvero, appare diversa la condizione del soggetto ad indagine che sia assistito da un professionista da quello che non lo sia assistito. Un professionista, ragionevolmente, sa che senza l’autorizzazione che manca nella fattispecie la sua collaborazione è decisiva, e in questo caso, e solo in questo caso, il silenzio unito a una condotta collaborativa potrebbe essere significativo di un consenso implicito.
Non così, però, nel caso in cui manchi l’informazione degli operanti, perché nel bilanciamento tra una pubblica amministrazione che agisca in modo non trasparente e doppiamente negligente resta comunque sproporzionato ritenere che sia il soggetto passivo della indagine, anche se tecnicamente preparato, a chiedere di verificare la legittimità del potere. La legge va rispettata nei confronti di tutti, non solo di chi non la conosca.
Si potrebbe, inoltre, ritenere che, se il contribuente, che è stato informato della illegittimità istruttoria, non è assistito da un professionista dopo essere stato avvertito della possibilità di farsi assistere, la sua situazione equivalga a quella di chi fruisce di assistenza: tutto sommato egli, per sua scelta, affronta l’indagine senza curarsi di integrare la sua difesa con le necessarie competenze tecniche, così rispondendo degli effetti della sua negligenza e imprudenza. Nel particolare caso in cui invece egli non sia assistito ma non fosse neanche stato informato, ai sensi dell’art. 12, del diritto di assistenza del difensore, la situazione si ribalterebbe: il contribuente aveva il diritto di essere informato della sua facoltà di assistenza tecnica: mancando questa doverosa informazione può ritenersi che egli non sia stato né negligente né imprudente e torna pertanto esclusa la possibilità di un implicito consenso sanante, nei limitati casi in cui questo potrebbe sussistere. In tal senso si potrebbe sciogliere il nodo evidenziato da Cass. ord. 10664/2021, nella rimessione alle SS.UU.
Tale consenso resta tuttavia radicalmente precluso, salvo questo caso di scuola, a nostro avviso, se chi subisce l’indagine non è almeno informato sul presupposto che rende il consenso decisivo (manca l’autorizzazione) o non è libero. Se colui che subisce l’indagine non sa che essa non potrebbe essere legalmente svolta, come può il suo non opporsi equivalere ad accettarla anche se non può essere legalmente svolta? Mancherebbe il presupposto decisivo del consenso sanante.
4. Una diversa prospettiva per la condotta inerte del contribuente durante la verifica: sono possibili effetti probatori o sulla attribuzione della successive spese processuali?
Da ultimo, va considerato se il silenzio e l’inerzia del contribuente durante le indagini non possano avere, comunque, effetti giuridici diversi, e congrui con il principio di buona fede e proporzionalità.
Un primo aspetto concerne il versante probatorio e in particolare se non contestare dei rilievi non implichi comunque una condotta di ammissione, ovvero una non contestazione tale da ingenerare effetti giuridici.
Come noto, ammissione e non contestazione operano a due livelli diversi. Il primo è se la condotta possa essere una prova del fatto affermato dall’Agenzia. La non contestazione invece avrebbe l’effetto di esonerare l’Agenzia dell’onere della prova, secondo il principio di cui, per il processo civile, all’art. 115, comma 1. Nel primo caso dal comportamento del soggetto si trarrebbe una prova contro di lui, nel secondo, dal suo comportamento deriverebbe l’esonero dall’onere della prova dell’Agenzia.
Entrambe le configurazioni sono a nostro avviso deboli, salvo che nel senso che si dirà. Sul piano, per così dire, semantico il silenzio è sicuramente del tutto ambiguo: il tacere può tranquillamente equivalere al riservarsi le contestazioni ad altra sede, magari per meglio articolarle e specificarle. Sul piano giuridico, dovrebbe individuarsi la fonte, per un dovere di contestare.
Essa non si trova nelle norme espresse (che prevedono il dovere di rispondere alle domande ma non di contestare le affermazioni), e può porsi il dubbio se non derivi dal dovere di buona fede.
La questione è delicata: da un lato il prendere posizione sui fatti affermati dalla controparte, limitandosi a negarli, può apparire un onere di modesta incisività, dall’altro va detto che l’onere di contestazione è previsto dalla legge nel processo e ciò potrebbe parere tutt’altro che casuale: in quel caso ci si trova davanti a un soggetto terzo e imparziale e si sta giocando la partita nell’area protetta dalla presenza di un arbitro. Ritenere che, per effetto di un atteggiamento passivo durante le indagini, il soggetto si veda privato della possibilità di provare la propria ragione successivamente davanti al giudice appare decisamente sproporzionato. Più ponderato appare invece ritenere che tale condotta debba essere valutata insieme a tutto il materiale probatorio, quale argomento di prova (art. 116 c.p.c. applicato analogicamente), senza derivarne automatismi e regole rigide.
In effetti, il silenzio durante le indagini può essere indicativo di cose diverse ed opposte (da un estremo all’altro: timore riverenziale, difficoltà temporanea a organizzare la difesa, scelta strategica attendista, malizioso silenzio nel tentativo di predisporre prove false nelle more, ecc.…).
In sintesi, il silenzio è un elemento da valutare, ma sulla base di un giudizio di fatto caso per caso, non suscettibile di ipostatizzazioni in regole (o massime giurisprudenziali) rigide.
Per altro verso, sembra di dover ritenere che l’unico silenzio rilevante sia quello che si protrae fino a dopo la conclusione delle indagini ed è mantenuto anche dopo il rilascio del processo verbale e l’offerta di un termine per le osservazioni (non potendosi valorizzare in assenza di tale possibilità). Ritenere che sia rilevante anche il mero tacere “in diretta” durante le indagini è palesemente sproporzionato e creerebbe una notevole impasse anche alla stessa attività di indagine. Il discorso dovrebbe infatti simmetricamente rovesciarsi. Ove il contribuente si opponesse sollevando eccezioni, qualora i verificatori non le contrastassero immediatamente ne deriverebbe un pregiudizio ad una successiva contro-argomentazione da parte degli enti impositori. Ne conseguirebbe una rigidità per le attività di indagine che non ha alcuna proporzionata giustificazione, da un lato, e si presterebbe ad abusi e strumentalizzazioni assai gravi, da entrambe le parti.
Infine, non sembrano esservi ostacoli a valutare il silenzio e la sua corrispondenza alla buona fede nel momento della determinazione e attribuzione delle spese dell’eventuale successivo giudizio. La tendenza della giurisprudenza sembra, infatti, espansiva nel riconoscere sempre maggiore spazio, accanto alla regola della soccombenza, alla regola della valorizzazione della “responsabilità” per aver determinato l’insorgenza di una lite che sarebbe stata evitabile. Si tende sempre più a valorizzare la condotta delle parti anche prima del processo, verificando quale di esse non abbia fatto quanto di ragionevole per evitare la lite, anche in adempimento dei doveri di buona fede. Così si afferma che paga le spese, tra l’altro, la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi [Cass. 13.1.2015, n. 373]. Lungo questa via potrebbero allora valorizzarsi non solo condotte procedimentali quali l’omessa partecipazione al contraddittorio ma più in generale sottrarsi alla dialettica procedimentale e si tratterebbe probabilmente di una conclusione ragionevole e proporzionata, attuativa, in modo ponderato, del principio di buona fede.
Prof. Francesco Pistolesi
Università degli Studi di Siena
Le Sezioni Unite chiamate a pronunciarsi sul rilievo del consenso del contribuente a fronte di attività istruttorie fiscali che ne ledano diritti fondamentali
Sommario: 1. La rilevanza del consenso del contribuente - 2. Il consenso libero e informato - 3. La sorte dei mezzi istruttori acquisiti illegittimamente - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza del consenso del contribuente
Con l’ordinanza interlocutoria n. 10664 del 22 aprile 2021, la Sezione V della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della decisione su tre importanti questioni:
- se, in caso di apertura di una valigetta reperita nel corso di un accesso presso il luogo di svolgimento dell’attività del contribuente, la mancanza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina, prevista dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972[1], possa essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza ivi presumibilmente contenuta;
- se, qualora si dia una risposta positiva alla questione che precede, il consenso possa considerarsi “libero e informato” anche qualora l’Amministrazione finanziaria non abbia reso edotto il titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza della facoltà, contemplata dall’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria[2];
- se, infine, l’eventuale inosservanza di detto obbligo di informazione e il conseguente vizio del consenso del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza comporti la non utilizzabilità della documentazione acquisita in mancanza della prescritta autorizzazione.
Il primo profilo è quello, forse, più agevole da affrontare.
La mancanza di autorizzazione ex art. 52, comma 3, cit. può essere sopperita dal consenso dell’interessato all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Infatti, non è frutto del caso che la norma in esame si riferisca all’apertura “coattiva”, ossia eseguita senza la condivisione (o, quanto meno, “non opposizione”) del titolare del diritto tutelato dallo stesso precetto.
Se il soggetto garantito acconsente – o non esprime dissenso – all’apertura, viene meno la “coattività” e con essa l’esigenza dell’autorizzazione, richiesta dall’art. 52, comma 3 cit., quest’ultima occorrendo solo quando faccia difetto la disponibilità dell’interessato a che l’Amministrazione finanziaria entri in possesso del contenuto “di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
La natura del diritto tutelato giustifica la soluzione esposta. Si tratta del diritto alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, qualificato come inviolabile dall’art. 15, comma 1, Cost., e soggetto a “limitazione” solo “per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”, stando al successivo comma 2. Ossia un diritto che, in difetto dell’opposizione del titolare, è ritenuto dal legislatore – con valutazione discrezionale che non appare irragionevole – suscettibile di “limitazione” pur in difetto dell’autorizzazione dell’Autorità competente. A quest’ultima è dato ricorrere soltanto quando tale titolare neghi l’apprensione di quanto trovasi nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Diversamente, per l’accesso nel domicilio e per la perquisizione personale[3], è – a mio avviso – meritevole di condivisione l’indirizzo interpretativo della Cassazione, ricordato dall’ordinanza n. 10664/2021, per cui il consenso – o il mancato dissenso – non sopperisce alla mancanza dell’autorizzazione.
Difatti, in tali evenienze, la “coattività” dell’attività istruttoria, e quindi il consenso – o l’omessa opposizione – non rileva. In ogni caso, è indispensabile l’autorizzazione, in quanto i valori tutelati – l’inviolabilità del domicilio, dall’art. 14 Cost., e della libertà personale, dall’art. 13 Cost. – sono talmente essenziali da postulare sempre il preventivo vaglio del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria, oltre alla sussistenza – nel caso dell’accesso in locali adibiti a esclusivo uso abitativo – di “gravi indizi” di violazioni delle norme tributarie, come stabilito dall’art. 52, comma 2, cit.
In conclusione, dell’autorizzazione non può mai prescindersi per le indagini fiscali consistenti nell’accesso nel domicilio e nella perquisizione personale, mentre per quelle volte ad acquisire il contenuto di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli” il consenso – o la mancata manifestazione del dissenso – del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza elide la necessità di detta autorizzazione, essa rendendosi necessaria solo qualora l’Organo procedente ricorra all’apertura “coattiva”[4]. Ciò poiché tale diritto alla segretezza ha natura “disponibile”, volendo riprendere l’espressione impiegata nell’ordinanza di cui trattasi[5].
Poi, nell’ordinanza in esame il consenso espresso viene accomunato alla “mancata manifestazione di un dissenso del contribuente o di terzi rispetto all’esercizio di una attività ispettiva eseguita al di fuori delle garanzie predisposte dal legislatore”[6].
In particolare, tale equiparazione viene in rilievo allorché la Cassazione illustra le proprie precedenti prese di posizione in ordine all’inefficacia sanante del consenso e, appunto, del mancato dissenso in presenza di accesso domiciliare non autorizzato.
Nell’argomentare siffatta inefficacia, la Corte Suprema ha anche evidenziato che “l’eventuale consenso o dissenso dello stesso contribuente all’accesso, legittimo od illegittimo che sia, è del tutto privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge”[7].
Questa corretta osservazione riveste duplice interesse ai nostri fini.
Per un verso, conferma quanto osservato poc’anzi sulla rilevanza sanante del consenso quando l’autorizzazione sia richiesta per l’apertura “coattiva” di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”. Non solo, la “coattività” non può che sottendere, oltre alla mancanza del consenso, anche il contegno passivo del contribuente o la “mancata manifestazione di un dissenso”, per usare l’espressione impiegata dall’ordinanza n. 10664/2021. Quindi, se l’interessato acconsente esplicitamente o comunque non si oppone – non dissentendo, appunto – a siffatta apertura, non ci si trova al cospetto di un’attività contrassegnata dalla “coattività”, di modo che si può fare a meno dell’autorizzazione.
Per l’altro verso, laddove tale “coattività” non viene in giuoco poiché il legislatore – nei ricordati casi dell’accesso domiciliare e della perquisizione personale – non ne fa menzione, il consenso o il contegno inerte del soggetto investito dall’attività istruttoria è irrilevante e, dunque, non vale a sollevare l’Amministrazione finanziaria dalla necessità di munirsi della prescritta autorizzazione.
Ciò, oltretutto, trova conforto anche in un’altra considerazione, fondata sul buon senso. Se il consenso rileva, è fondato attribuire la stessa valenza pure all’atteggiamento passivo o al non dissenso, che dir si voglia. Ove invece il consenso sia privo di incidenza, lo stesso deve dirsi per la “mancata manifestazione di un dissenso”.
2. Il consenso libero e informato
Nell’ordinanza n. 10664/2021 si legge che il consenso preventivo e informato del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza rappresenta il “necessario bilanciamento tra i valori costituzionali che entrano in gioco nella vicenda”, ossia l’interesse pubblico – che trova il proprio fondamento nell’art. 53 Cost. – alla corretta acquisizione dei tributi (indispensabili per far fronte alle esigenze della collettività), da un lato, e, dall’altro, la tutela della riservatezza delle comunicazioni personali[8].
Trattasi di affermazione del tutto condivisibile, cui può aggiungersi la considerazione che, insieme al rispetto del diritto alla segretezza della corrispondenza, viene in rilievo pure l’interesse pubblico al corretto svolgimento dell’azione amministrativa volta a verificare gli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Parimenti apprezzabile è l’ulteriore convincimento enunciato dalla Suprema Corte in tale ordinanza, secondo cui “solo il consenso validamente prestato, cioè espresso dal soggetto titolare del diritto di libertà oggetto di compressione ed effettivo, possa consentire di ritenere che siano venute meno le esigenze di garanzia poste a tutela dei valori costituzionalmente tutelati della libertà della persona, al cui presidio è prevista dal legislatore la necessità della previa autorizzazione”[9].
Quindi, se il diritto alla segretezza della corrispondenza è – come credo – “disponibile”, ossia suscettibile di limitazione con la condivisione – o la non opposizione – dell’avente diritto, il consenso deve risultare “validamente espresso, il che comporta che sia stato adeguatamente informato, cioè che sia reso in piena libertà di giudizio”, come sempre correttamente evidenzia l’ordinanza oggetto di attenzione[10].
Detto consenso libero e informato dev’essere enunciato dal titolare del diritto tutelato, che può non coincidere con il contribuente interessato dall’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria. Per intendersi, può accadere che, nel corso – per esempio – di un accesso presso la sede di una società di capitali, sia chiesto di aprire una borsa a un dipendente, a un amministratore o a un collaboratore esterno, ossia a un soggetto diverso dal contribuente destinatario della verifica fiscale. È tale soggetto “diverso” che deve acconsentire all’apertura e che deve, perciò, essere adeguatamente informato del fatto che quanto reperito all’interno della borsa potrebbe essere utilizzato come elemento di prova per avanzare una pretesa impositiva e/o sanzionatoria nei suoi riguardi, oltre che del contribuente per cui è stata avviata l’indagine fiscale.
Pertanto, perché l’acquisizione istruttoria sia legittima, è necessario che il titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza acconsenta espressamente – o comunque non si opponga – all’apertura della borsa, avendo piena e preventiva consapevolezza che quanto ivi contenuto potrà essere impiegato dall’Ente impositore per muovere un addebito nei suoi confronti e/o del distinto soggetto investito dall’azione istruttoria.
Sono convinto che tale consapevolezza difetti quando il contribuente su cui si appunta la verifica non sia stato informato della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, secondo quanto previsto dall’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, come avvenuto nel caso affrontato dall’ordinanza n. 10664/2021.
L’omissione di tale informazione impedisce la presenza di un professionista avente la capacità di verificare la correttezza dello svolgimento dell’indagine fiscale e di rappresentare al contribuente o al “diverso” soggetto titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza le conseguenze discendenti dall’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Tuttavia, anche qualora tale informazione sia stata resa e il contribuente non abbia ritenuto di farsi assistere da un professionista nel corso della verifica fiscale, l’Organo procedente non potrà sottrarsi dal rappresentare al contribuente o al terzo gli effetti derivanti dalla prestazione del consenso – o dalla “mancata manifestazione di un dissenso” – all’apertura della borsa. E ciò dovrà risultare da apposita verbalizzazione, atta a dimostrare che il consenso eventualmente reso – o il dissenso non enunciato – è stato, appunto, libero e informato.
In altri termini, le conseguenze derivanti dal rinvenimento della corrispondenza possono essere talmente significative e pregiudizievoli per il soggetto avente la disponibilità della borsa, per restare all’esempio fatto, che l’Amministrazione finanziaria non può esimersi dal segnalarle quando il soggetto verificato non sia assistito da un professionista.
In tal senso depone, oltre che il rispetto dei valori costituzionali del diritto alla segretezza della corrispondenza e del diritto di difesa, quanto sancito dall’art. 10, comma 1, della L. n. 212/2000, in forza del quale i rapporti fra i contribuenti e l’Ente impositore sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
Non solo, la necessità che il consenso sia libero e informato per poter evitare il ricorso all’autorizzazione, in caso di acquisizione del contenuto di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”, trova conferma nei principi del diritto europeo e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Da un canto, l’art. 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e l’art. 8 della CEDU, affermando il diritto di ogni individuo al rispetto delle proprie comunicazioni, elevano il diritto alla segretezza della corrispondenza a principio fondamentale del diritto europeo e convenzionale.
Dall’altro canto, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[11] – facendo leva sul principio del “giusto processo”, sancito dall’art. 6 della CEDU – afferma da tempo il “diritto al silenzio”, inteso come diritto di non cooperare alla propria incolpazione nel contesto di un procedimento amministrativo che potrebbe sfociare nell’irrogazione di sanzioni con carattere punitivo. Non solo, analogo diritto può desumersi dagli artt. 47 e 48 della CDFUE, secondo l’interpretazione offertane dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[12].
Non v’è dubbio che tale “diritto al silenzio” presuppone che la disponibilità a condividere con l’Amministrazione finanziaria elementi di prova emergenti dalla propria corrispondenza sia frutto di una determinazione pienamente consapevole e scevra da condizionamenti.
In sostanza, se il contribuente ha il diritto a non cooperare con l’Organo amministrativo che svolge l’istruttoria, vi può abdicare soltanto esprimendo un consenso libero e informato. Diversamente, solo grazie all’autorizzazione rilasciata dalla competente Autorità giudiziaria, l’Organo suddetto potrà acquisire i dati istruttori contenuti nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Da ultimo, queste considerazioni sono significativamente confortate dalla Corte Costituzionale, che – con la sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 – ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale.
In particolare, dalla pronuncia della Consulta, che richiama i rammentati principi e la giurisprudenza sovranazionali, si può trarre un’indicazione valevole pure nella materia tributaria: se è indebita ogni forma di pressione sul contribuente o sul terzo volta ad acquisire prove potenzialmente a loro sfavore, la collaborazione da tali soggetti eventualmente prestata non può che essere frutto di un consenso libero e informato.
3. La sorte dei mezzi istruttori acquisiti illegittimamente
Se difetta l’informazione ex art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, i mezzi istruttori acquisiti all’interno di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli” in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 non possono essere utilizzati. Ciò non esclude, peraltro, che l’atto impositivo, sulla scorta di altre prove legittimamente reperite, possa comunque risultare idoneo a perseguire efficacemente l’illecito fiscale eventualmente commesso dal privato.
Questa conclusione si impone avendo riguardo al valore, costituzionalmente garantito, del diritto alla segretezza della corrispondenza.
Vero è che si tratta di un diritto “disponibile”, come evidenziato in precedenza, ossia suscettibile di compressione in presenza del consenso libero e informato. Ma è altrettanto indiscutibile che, se detto consenso difetta, non può ammettersi l’impiego delle prove reperite violando un principio, al pari dell’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, sancito e tutelato dalla Costituzione.
Detto altrimenti, ammettere l’uso degli elementi istruttori ottenuti in spregio del diritto alla segretezza della corrispondenza ne comporterebbe una lesione intollerabile. Lesione che, nel bilanciamento di valori che necessariamente si impone, non può giustificarsi adducendo l’esigenza di assicurare il corretto prelievo impositivo.
Ciò in ragione del fatto che, se l’Organo procedente si fosse premurato di ottenere un effettivo consenso del titolare del diritto al riserbo delle comunicazioni personali, il diritto alla segretezza della corrispondenza ben avrebbe potuto retrocedere dinanzi alla ricordata necessità di acquisire i tributi ex lege dovuti.
Si deve pervenire allo stesso esito anche quando l’informazione di cui all’art. 12, comma 2, cit. sia stata resa ma il contribuente non si sia avvalso della facoltà disciplinata da tale norma e l’Amministrazione finanziaria non abbia rappresentato al titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza le conseguenze della sua disponibilità a consentire l’apertura della borsa. L’assenza di un professionista unitamente all’omessa verbalizzazione degli effetti discendenti dalla prestazione del consenso rende inefficace il consenso – o la non opposizione – di detto titolare e, quindi, cagiona l’illiceità dell’acquisizione dei mezzi istruttori, determinandone, per l’effetto, la relativa non utilizzabilità.
Per terminare, occorre chiedersi se la mancanza dell’informazione ex art. 12, comma 2, cit. infici l’impiego di ulteriori prove reperite durante l’attività di controllo fiscale.
Il consenso libero e informato occorre ogni qual volta il privato è coinvolto in operazioni istruttorie che postulano la sua attiva partecipazione e che possono consentire il reperimento di elementi di prova adducibili contro di esso. Mi riferisco, essenzialmente, al caso (assai frequente nella prassi) in cui vengano richieste informazioni al contribuente o ai suoi dipendenti, collaboratori, clienti, fornitori e via discorrendo. Tutti costoro, prima di rendere tali informazioni, devono essere pienamente consapevoli che esse potranno poi essere utilizzate come elementi di prova[13] a loro carico. Cosicché l’omissione dell’informazione ex art. 12, comma 2, cit. può seriamente pregiudicare questi soggetti.
Viceversa, il difetto della ricordata informazione è irrilevante per l’acquisizione di quei dati istruttori in ordine ai quali la menzionata attiva partecipazione del contribuente o dei terzi risulta priva di rilievo. Si pensi, ad esempio, all’acquisizione e all’esame di documenti contabili ed extracontabili liberamente accessibili e disponibili o al controllo di beni e strumenti posti nei locali ove si svolge l’accesso.
Insomma, l’omissione dell’indicazione contemplata dall’art. 12, comma 2, cit. non inficia l’atto finale del procedimento amministrativo volto a contestare l’illecito fiscale. Sarebbe una conseguenza eccessiva, contraria al principio di proporzionalità, del mancato rispetto della regola procedimentale dettata dalla norma in discussione[14]. Detta mancanza, però e come evidenziato, si riverbera – pur in difetto di una previsione normativa ad hoc – sulle prove reperite in sede di accesso per le quali è indispensabile la partecipazione attiva e consapevole del contribuente e di eventuali soggetti terzi, rendendole non utilizzabili. Tali prove, difatti, risultano acquisite in violazione di primari valori costituzionali, quali il diritto alla segretezza della corrispondenza, nel caso affrontato dall’ordinanza oggetto di attenzione, o il diritto di difesa, sancito dall’art. 24 Cost., qualora siano acquisite informazioni impiegabili a conforto di pretese impositive e sanzionatorie azionabili nei riguardi di coloro che le rendono.
Infatti, non occorre alcuna puntuale sanzione ex lege per affermare – come, del resto, in più occasioni ha fatto la giurisprudenza ricordata nell’ordinanza n. 10664/2021 – che un mezzo istruttorio non è suscettibile di impiego laddove sia stato acquisito in spregio a fondamentali principi costituzionali.
4. Conclusioni
Tirando le fila dei rilievi svolti, sui temi sollevati dall’ordinanza varie volte rammentata possono enunciarsi, secondo chi scrive, le seguenti conclusioni:
- la mancanza di autorizzazione della competente Autorità giudiziaria all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli” può essere sanata dal consenso o dalla “mancata manifestazione di un dissenso” del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza: in sostanza, l’autorizzazione è indispensabile solo per l’apertura “coattiva”;
- tuttavia, detto consenso o difetto di dissenso dev’essere “libero e informato” e, per essere tale, occorre che l’Amministrazione finanziaria abbia avvertito il contribuente verificato della facoltà di farsi assistere da un professionista; in ogni caso, laddove detto contribuente non si sia avvalso di tale diritto, l’Organo procedente deve rappresentare all’interessato le conseguenze derivanti dal consenso o dalla “mancata manifestazione di un dissenso”;
- l’inosservanza di siffatti obblighi informativi rende non utilizzabili le prove reperite nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli” in carenza di autorizzazione e quelle ottenute chiedendo dati e notizie al contribuente o al terzo.
[1] Per i controlli in materia di imposte dirette, l’art. 33, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973 rinvia all’art. 52 cit. Sul tema, v. A. Viotto, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002.
[2] Sull’argomento, v. S. Muleo, Il consenso nell’attività di indagine amministrativa, in AA. VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2007, p. 99 ss.; G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2012; M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2013.
[3] Nell’ordinanza in esame la perquisizione personale viene equiparata all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli”. In realtà, come evidenziato nel testo, pare corretto riferire il carattere della “coattività” solo alla menzionata apertura e non alla perquisizione personale, di modo che per quest’ultima il consenso risulta, in ogni caso, privo di rilievo.
[4] In questi termini, v. G. Iacobelli, Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente? La questione al vaglio delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 27 maggio 2021.
[5] Cfr. paragrafo 5.4.1.
[6] Cfr. paragrafo 5.1.
[7] Cfr. Cass., sez. V, 6 giugno 2018, n. 14701.
[8] Cfr. paragrafo 5.4.1.
[9] Cfr., di nuovo, paragrafo 5.4.1.
[10] Cfr. sempre paragrafo 5.4.1.
[11] V. sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] Cfr. sentenza “D.B. contro CONSOB” del 2 febbraio 2021, C-481/19.
[13] Le dichiarazioni di terzi, secondo la giurisprudenza (v., per esempio, Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903), hanno solo valenza indiziaria. Le dichiarazioni del contribuente, alla stregua di una confessione stragiudiziale, possono invece rappresentare prove dirette dei fatti controversi. Su questi temi, per ulteriori ragguagli, mi permetto di richiamare F. Pistolesi, Il processo tributario, Torino, 2021, pp. 127 ss.
[14] Sull’argomento sia consentito rinviare a F. Pistolesi, La “invalidità” degli atti impositivi in difetto di previsione normativa, in Riv. dir. trib., 2012, I, pp. 1135 ss. Cfr. altresì S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Padova, 2012; A. Comelli, Poteri e atti nell’imposizione tributaria. Contributo allo studio degli schemi giuridici dell’accertamento, Padova, 2012; F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2015.
Bibliografia:
R. Schiavolin, sub Art. 70, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II. Accertamento e sanzioni, a cura di F. Moschetti, 2011;
S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, pp. 113 ss.;
I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993, 217 e ss.;
G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, p. 299 e ss.
G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2012
S. La Rosa, Scritti scelti, vol. II, Torino 2011, pp. 697 ss.
R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, 2013
A. Marcheselli, L’accertamento tributario, poteri e diritti nei procedimenti fiscali, in corso di pubblicazione, Giuffré 2021
A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano 2018
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