ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti.13) Chi aiuterà il giudice a dialogare col minore nel nuovo processo di famiglia? L’esperto come San Cristoforo
di David Cerri
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Oggi più che mai il ruolo del consulente nel processo civile può e deve essere valorizzato, in particolar modo per le funzioni conciliative che possono essergli affidate, e nell’ambito specifico del diritto di famiglia, dove non è sufficiente per la tutela dell’interesse del minore affidarsi a magistrati ed avvocati autodidatti.
San Cristoforo
Narra Iacopo da Varazze, nella sua Legenda Aurea (seconda metà del ‘200) che a Reprobo (diranno i CTU cui questo contributo è dedicato: si comincia male…), robustissimo traghettatore cananeo, una mattina si presentò un bambino per attraversare il fiume. Se lo caricò sulle spalle ed entrò col suo bastone in acqua: ma il peso del piccolo si rivelò insospettabilmente smisurato; alla fine ce la fece, a stento, a finire la traversata, ma se ne lamentò subito. Al che il bambino gli rispose di non meravigliarsi, perché in realtà lui aveva trasportato su di sé non solum totum mundum, ma anche chi lo aveva creato. Da questa rivelazione il nuovo nome del buon (in precedenza non troppo) uomo, Cristoforo.
Consapevole di “averla presa larga”, il riferimento mi è sembrato opportuno per inquadrare immediatamente il ruolo del consulente dell’ufficio, come - più che un "pontiere" da Genio militare - appunto un San Cristoforo che traghetta le parti dal loro nebbioso porto di partenza a quello giudiziale d'arrivo, con la grande responsabilità di tradurre al meglio le posizioni delle parti attraverso l’accertamento dei fatti che vengono da loro allegati e portati in giudizio, e la loro trasformazione da significanti a significati (non è questa la sede per ricordare le distinzioni tra consulenza deducente e percipiente ecc.); un peso davvero smisurato, e con la consapevolezza del rischio di mutarsi da Santo in Caronte (almeno per una delle parti). Giusto mi è parso, allora, trattarne la figura in questa serie di contributi dedicati a ponti e muri, ma con l’avviso al lettore che ne parlerò solo in riferimento al processo civile.
Inizierò allora a sottolineare che se mai c’è stato un tempo nel quale la definizione di traghettatore o costruttore di ponti meglio si attagli al CTU, è questo, il nostro; perché è il legislatore ad aver dato una chiara indicazione in tal senso. Mi riferisco naturalmente alla condizione di procedibilità introdotta dalla cosiddetta legge Gelli-Bianco del 2017 a proposito delle azioni di risarcimento del danno per responsabilità sanitaria. Il necessario richiamo all'articolo 696 bis c.p.c. (e, pare ancora non per molto, all’alternativa della mediazione, già statisticamente irrilevante nella prassi) ha infatti introdotto tra le capacità di cui i consulenti devono dotarsi quella di sapersi destreggiare nelle tecniche di composizione della lite; che poi, di fatto, tali requisiti siano rispettati è una domanda alla quale purtroppo si potrà dare una soddisfacente risposta solo dopo che nelle categorie professionali interessate si sarà offerta e praticata una formazione adeguata anche sotto quel profilo, come si è iniziato a fare quantomeno in alcune Scuole di specializzazione in medicina legale; del resto, dobbiamo anche dirci francamente che l'attenzione sul tema non è eccessiva neppure in quei documenti - come il Protocollo CSM - CNF - FNOMCEO dell’aprile 2018, ed anche nelle relative, precedenti delibere dell’organo di autogoverno della magistratura – che hanno messo a punto linee guide operative per i nuovi Albi dei consulenti.
La consulenza su famiglie e minori
Se c’è però un campo nel quale è necessaria, oltre ad una capacità tecnica, anche una sensibilità particolare – proprio in funzione del dialogo che qui ci interessa - è certamente quello delle consulenze in materia di famiglia; e qui la riflessione si fa ancora più attuale, in vista della riforma del codice di rito civile di cui alla legge delega di recente approvata (AC 3289, ora L.206 del 26.11.2021). Le (talvolta relative) novità affidate ai futuri decreti legislativi che più ci interessano sono:
A. La predisposizione di autonoma regolamentazione della consulenza tecnica psicologica
B. L'individuazione dell'esperto per determinati interventi
C. Il piano genitoriale
e le tratterò brevemente di seguito, con una appendice a proposito dell'ascolto dei minori che costituirà anche una sorta di riepilogo delle mie opinioni.
A. La futura nuova regolamentazione della CTU psicologica (lett.dd) c.23 dell’art.1 L.206/2021) comporta in primo luogo l’adeguamento degli albi dei consulenti tenuti dai tribunali con l'inserimento della specifica categoria dei neuropsichiatri infantili, degli psicologi delle dell'età evolutiva e degli psicologi giuridici o forensi; tutte categorie che gli esperti del settore ben conoscono ma che (in particolare per l'ultima) non godevano di un riconoscimento normativo apposito. il comma 34 del medesimo articolo introduce da subito un nuovo n.7) nel terzo comma dell'art.13 delle disposizioni di attuazione del codice, e soprattutto inserisce un nuovo comma all'art.15, riguardante i requisiti della “speciale competenza tecnica”.
I requisiti indicati sono - alternativamente o congiuntamente - i seguenti:
- al n.1 si richiede una comprovata esperienza professionale in materia di violenza domestica e nei confronti di minori
- al n.2 si indica il possesso di adeguati titoli di specializzazione o di approfondimento post universitari nelle categorie indicate, con la richiesta di almeno 5 anni di anzianità negli albi professionali
- al n.3 si chiede lo svolgimento per almeno 5 anni di attività clinica con minori presso strutture pubbliche o private.
Si tratta certamente di indicazioni che si inseriscono in un quadro già delineato in diverse sedi, ma credo utile un confronto con i principali elementi di valutazione della “speciale competenza”, ai fini dell’inserimento negli Albi dei consulenti, che si leggono nel cit. Protocollo CSM - CNF - FNOMCEO e che consistono:
a) nell’esercizio della professione nella disciplina interessata per un periodo minimo, successivo alla specializzazione, orientativamente non inferiore a 5 anni;
b) in un adeguato curriculum formativo post-universitario, indicante sia i corsi di livello universitario o assimilato, sia i corsi di aggiornamento rilevanti ai soli fini del circuito ECM, nonché le eventuali attività di docenza;
c) in un adeguato curriculum professionale, indicante le posizioni ricoperte e le attività svolte nella carriera professionale (“a titolo esemplificativo: ruoli svolti, datori di lavoro, strutture ove si è prestato servizio, tipi e aree di attività praticate, attività di consulenza professionale svolta presso imprese ecc.”);
d) nell’eventuale possesso di un curriculum scientifico, indicante attività di ricerca e pubblicazioni, oltre all’iscrizione a società scientifiche;
e) nell’eventuale possesso di riconoscimenti accademici o professionali o di altri elementi che possono connotare l’elevata qualificazione del professionista.
Credo che il legislatore delegato possa tenere fruttuosamente conto di tali ulteriori indicazioni, valutando in particolare quello del concreto esperimento di attività professionale per un congruo periodo, che a mio parere sarebbe stato opportuno abbinare, e non prevedere in forma alternativa, al possesso di idonei titoli di studio.
Salta all'occhio che non c'è un riferimento espresso alle capacità in tema di conciliazione; e mi chiedo – ed in realtà vorrei suggerire…- se i decreti attuativi non possano individuare in modo esplicito quantomeno l’opportunità di possederle allorquando, magari anche in forma solo esemplificativa, potranno individuare più nel dettaglio i “titoli di specializzazione o di approfondimento post universitari”, specialmente se sì considera che tali titoli dovrebbero essere “adeguati“.
Non mi pare, invece e purtroppo, che si potrà pretendere che venga richiesto anche lo svolgimento di un tirocinio pratico sotto quel profilo, requisito che sarebbe in realtà essenziale e che come tale è previsto dalla normativa generale in materia; si deve dedurre che il legislatore della delega abbia supposto che l'anzianità di iscrizione negli albi professionali, o quella lavorativa, di per sé consentano l'acquisizione di quelle skills, ciò che effettivamente potrebbe avvenire in buona parte dei casi, giustificando però in questo modo un sotteso riferimento alla mera “competenza per esperienza”, che non può essere sufficiente: tornerò sul punto.
A me pare, a questo ed altri propositi, che il consulente tecnico in operazioni concernenti famiglie e minori non possa limitarsi ad un'indagine esclusivamente clinica, non solo trascurando - atteggiamento temo diffuso - atti e fatti allegati in causa, ma anche ponendo in sottordine i conflitti esistenti tra i genitori, spesso apparentemente insanabili, ovvero e più probabilmente valutandoli in vitro senza affrontarli, con l'unica conseguenza del suggerimento di successivi percorsi terapeutici individuali o di coppia, oggetto di eventuali monitoraggi. Mi rendo conto che considerare in modo adeguato tali profili possa significare un ampliamento degli obiettivi di una consulenza tecnica che può apparire indebito, sconfinando in indicazioni di tipo terapeutico; ma credo che in realtà una precisa formulazione dei quesiti che tenga conto anche di tale necessità sia uno degli strumenti migliori per consentire la tutela di quel preminente interesse del minore di cui tutti ci riempiamo la bocca. Giusto per fare un esempio, se leggo la proposta di quesito contenuta nelle Indicazioni operative per la CTU su famiglie e minori del Tribunale di Milano dello scorso ottobre, constato che al §2 si chiede al consulente di valutare quali siano le competenze genitoriali, “con particolare riguardo alle funzioni di cura protezione ed educazione, funzione riflessiva… empatica/affettiva e organizzativa, capacità di garantire l'accesso all’altro genitore e di salvaguardarne la figura agli occhi dei figli, assunzione attiva di responsabilità ivi incluse quelle indispensabili ad un esercizio condiviso della genitorialità”. Ebbene, confesso di dubitare che il mero possesso di titoli di istruzione, o la mera anzianità operativa, e neppure una consolidata esperienza di consulenze, consentano autonomamente all’esperto di fornire al giudice quelle indicazioni pratiche - si pensi soltanto al regime dei rapporti e contatti tra i genitori ed i figli - che giustamente le parti si attendono, e che costituiscono le modalità materiali per assicurare l'interesse del minore, se quell’esperto non ha saputo in primo luogo far dialogare tra loro i genitori per un semplice difetto di preparazione. Mi si dirà: ma non è possibile che uno psicologo, un neuropsichiatra infantile, ecc., non annoveri nel suo curriculum teorico e pratico anche tali specifiche capacità… meglio, risponderò, allora proprio niente impedirebbe che esse fossero esplicitamente richieste e valutate ai fini del conferimento degli incarichi. Bisogna dare al costruttore mattoni e putrelle, malta e bulloni per erigere il ponte: che male c’è a controllare la bolla di consegna dei materiali ?
B. L'esperto per determinati interventi: la previsione di cui alla lett.ee) dell’art.1 L.206, della facoltà per il giudice di nominare un professionista, anche al di fuori dell’albo dei consulenti tecnici, “dotato di specifiche competenze in grado di coadiuvare il giudice per determinati interventi sul nucleo familiare, per superare conflitti tra le parti, per fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra genitori e figli”, è subordinata alla richiesta concorde di entrambe le parti (requisito necessario anche per la nomina fuori dall'albo). Ora, a me pare che simile presupposto costituisca un notevole limite alla operatività dell'istituto; ed anche che la giustificazione datane nei lavori della commissione Luiso (sub lett.ff) art.15 ter progetto) sia la spia del fallimento della tutela dei diritti nel nostro sistema. Mi riferisco alla considerazione, che vi si legge, che il primo motivo per tale concorde richiesta sia quello dei costi, che saranno a carico delle parti. Sarò un inguaribile ingenuo, ma credo che quantomeno per ciò che coinvolga i minori non si valuti a sufficienza e sistematicamente il conflitto di interessi coi genitori, anche se solo potenziale; e lo dico senza infingimenti in modo strumentale, per indicare la possibilità dell'accesso al gratuito patrocinio, soprattutto oggi che nella delega viene valorizzata la figura del curatore speciale. Credo che l'alternativa che viene inevitabilmente suggerita, vale a dire il ricorso agli ordinari strumenti di ausilio (come i servizi sociali) sia deludente e non tanto (o meglio, non soltanto) per una possibile differenza qualitativa tra l’apporto dell'esperto e quello delle strutture indicate (v. pro futuro la lett.ff) del c.23) ma per la constatazione, che è sotto gli occhi di tutti, dei limitati poteri di intervento di queste ultime, in primo luogo per difetto di risorse materiali ed umane.
Il secondo motivo che giustificherebbe la richiesta congiunta è più interessante: la particolarità degli interventi da attuare necessiterebbe della collaborazione delle parti, ovviamente impossibile se ci fosse un contrasto sulla stessa decisione di ricorrere a questo tipo di esperto. Che dire ? che è vero, ma anche che si torna al punto di partenza: non si può far altro che prendere atto del diniego di una parte, o piuttosto si potrebbe affidare preliminarmente all'esperto il compito di mediare (se lo sa fare) giusto allo scopo di ottenere quel consenso ? un simile risultato, se ottenuto, costituirebbe probabilmente un buon viatico per la migliore definizione delle questioni indicate dal giudice e dalle parti, ovvero per l'attuazione degli interventi opportuni.
In questa ottica, tornando sul profilo dei costi, trovo che a livello territoriale non dovrebbe essere impossibile la stipula di convenzioni con gli ordini professionali interessati per la redazione di tariffe “calmierate” relative a prestazioni dall'ambito ridotto come questa qui suggerita: tornerò sull'argomento tra poco a proposito dell'ascolto.
C. In più luoghi della riforma appaiono espliciti riferimenti al piano genitoriale, che assume un rilievo specifico negli atti introduttivi (v. lett.f c.23) e nei provvedimenti provvisori ed urgenti (lett.r). Senza entrare nel dettaglio di una possibile definizione (mi accontento di quella di un accordo dei genitori per la tutela dei figli nella nuova condizione creata dalla rottura del rapporto personale tra i primi) o dei contenuti (dove me la cavo rimandando ad alcuni modelli che circolano già da alcun tempo, come quelli del Tribunale di Civitavecchia), mi limito a sottolineare per quel che qui interessa l'indispensabilità del contributo di un consulente, tanto per l'attività delle parti (per la quale saranno i difensori a doversi munire di una simile collaborazione tecnica) quanto per quella del giudice (che non vedo come possa contare esclusivamente sulla propria competenza, anche nel caso che abbia alle spalle una adeguata esperienza). E proprio quest'ultima nota mi consente di andare alla conclusione con un cenno all'ascolto del minore.
L’ascolto, uno dei temi più dibattuti in materia, da tempo e per fortuna, vede nella riforma diversi accenni (v. lett.s) e t) c.23) ed in particolare un più ampio impegno al riordino “anche alla luce della normativa sovranazionale di riferimento” (lett.dd), richiamo che nei lavori della Commissione Luiso è reso esplicito con la menzione del Regolamento UE 2019/1111 (si tratta in particolare del Considerando 39 e degli artt.21 e 26) relativo “alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, e alla sottrazione internazionale di minori”, destinato a sostituire dall'agosto 2022 il Regolamento 2003/2201.
Ciò significa dare al minore (Considerando 39) “una possibilità concreta ed effettiva di esprimere la propria opinione e garantire che tale opinione sia presa debitamente in considerazione ai fini della valutazione dell’interesse superiore del minore”. La nota più rilevante della riforma sul punto è l’espressa previsione che l’ascolto non sia delegabile (lett.t) c.23), così ponendo fine a prassi di vario tipo. L’indicazione è del tutto condivisibile, tuttavia vi vedo un rischio: che si legittimi (tra le righe: non c’è affatto scritto) un ascolto da parte del solo giudice, non tanto per la tralaticia definizione di quest’ultimo come peritus peritorum, quanto per l’assolutizzazione della sua “competenza per esperienza”, profilo che ho già più volte negativamente ricordato.
È invece proprio qui che il ruolo del consulente come facilitatore del rapporto con il giudice ai fini dell’accertamento della reale condizione del minore vede la sua esaltazione: chi se non l’esperto può davvero rendere concreta ed effettiva la comprensione dell’espressione della opinione del minore, che non può non essere il presupposto della valutazione di quell’interesse superiore ? Ho scritto espressione dell’opinione, e non solo opinione, proprio per sottolineare il lavoro di “traduzione” compito specifico del consulente.
Il legislatore del precedente tentativo di disegno di legge delega (AS 2284) tra i principi direttivi per l’istituzione dei tribunali della famiglia (art.1, lett.b), n.13.2.2) aveva pensato di menzionare espressamente “l'assistenza di un ausiliario specializzato in psicologia o psichiatria ove il giudice lo ritenga opportuno”, che corrisponde poi alla realtà normativa che già conosciamo (art.336 bis c.c.: “anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari”) ed a quella or ora modificata a proposito delle misure di protezione, laddove nei comma aggiunti all’art.403 c.c. si conferma che il giudice relatore “procede inoltre all'ascolto del minore direttamente e, ove ritenuto necessario, con l'ausilio di un esperto”. Nel veloce percorso dell’AC 3289 era poi destinato a soccombere alla fiducia un emendamento tra i tanti (1.95 Bellucci ed a.) secondo il quale l’ascolto del minore avrebbe dovuto essere condotto “in presenza di uno psicologo infantile”. Ed in ambito penale più volte si ricorre (art.351, 362 c.p.p.) o si può ricorrere (art.498) all’ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria infantile. Mi pare strano che lo si possa fare quanto il minore è un teste, e non quando è nel suo interesse…
È presto per dire se l’ufficio del processo, con la presenza dei giudici onorari al suo interno, potrà costituire – come auspico - lo strumento utile a facilitare quella comprensione del “messaggio” lanciato dal minore al suo giudice (v. al c.24, lett.i), tra le altre, le funzioni di conciliazione e di ausilio all’ascolto), considerato comunque anche che nei nuovi tribunali per le persone già i magistrati dovranno essere scelti tra quelli dotati di specifiche competenze nelle materie de quibus; ma non è facile capire quanto sia voluto l’omesso riferimento alla presenza dell’esperto. Se, volendo esser maliziosi, tra le ragioni inespresse ci fosse ancora quella relativa ai costi, analogamente a quanto sopra già osservato una risposta potrebbe esser data da accordi almeno su base territoriale con gli ordini professionali, dei quali potrebbero farsi promotrici, oltre agli stessi tribunali, le associazioni forensi specialistiche.
Una volta di più, per gettare ponti tra le parti e tra queste e il giudice (ed un vero e proprio salvagente al minore), occorre una competenza specifica che, oltre a costituire un dovere deontologico, deve essere oggetto di un percorso formativo verificato; soprattutto, si impone al magistrato ed all’avvocato che operano in questi ambiti un esame di coscienza che, ove condotto con umiltà, possa quando opportuno spingerli a chiedere aiuto a chi ne sa più di loro.
La Corte costituzionale salva i dpcm e la gestione della pandemia. Riflessioni e interrogativi a margine della sent. n. 198/2021
di Alberto Arcuri*
Sommario: 1. Inquadramento generale della pronuncia - 2. Due interrogativi su due scelte di percorso verso un esito condivisibile - 2.1. Il primo: sui criteri utilizzati per ricondurre i dpcm nell’alveo della discrezionalità amministrativa (può davvero bastare la tipizzazione e la natura esecutiva del potere?) - 2.2. Il secondo: sull’utilizzo della categoria degli “atti necessitati” (era necessario ed è corretto qualificare in questo modo in dpcm “del covid”?) - 3. Nota a margine: ancora sulla non riconducibilità dei dpcm del covid-19 al potere d’ordinanza (di protezione civile).
1. Un inquadramento generale della pronuncia
Con la sentenza n. 198 del 2021 la Corte costituzionale si è pronunciata su una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il meccanismo di gestione della crisi pandemica sollevata in via incidentale dal giudice di pace di Frosinone[1], che si era trovato, a sua volta, a decidere sull’opposizione contro una sanzione di 400 euro inflitta ad un cittadino per aver disatteso il divieto - imposto da uno dei dpcm “del covid-19” - di uscire dalla propria abitazione senza giustificato motivo. Secondo il giudice rimettente la sanzione inflitta avrebbe rappresentato il prodotto finale di una catena viziata a monte da una delega sostanziale di funzione legislativa, realizzata ad opera di un decreto-legge in favore di «meri atti amministrativi» del Governo. Questa interlocuzione tra decreto-legge e dpcm avrebbe violato, sempre secondo la convinzione del giudice a quo, il principio di tipicità delle fonti primarie del diritto (posto che l’esercizio della funzione legislativa può essere delegata al Governo solo per mezzo di una legge-delega e che deve essere esercitata attraverso decreti legislativi) «al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante, quella dello stato di guerra». Questo dubbio è confluito in una denuncia di incostituzionalità per violazione degli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione, da parte, in particolare: [1] degli articoli 1, 2 e 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 e [2] degli articoli 1, 2 e 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n.19.
La questione ha dunque rappresentato per la Corte costituzionale la seconda occasione per occuparsi della gestione della pandemia, dopo che sette mesi prima (con la sentenza n. 37 del 2021) aveva già avuto modo di risolvere una questione concernente i rapporti, e il riparto di competenze, fra Stato e Regioni, riportando le misure adottate con dpcm alla materia di esclusiva competenza statale della «profilassi internazionale» (art. 117, co. 2 lett. q). A dire il vero, già in quell’occasione la Corte costituzionale lasciò tra le righe della propria decisione almeno due indicazioni che in qualche modo proiettano un ponte ideale con la sentenza che ora si sta commentando: (1) da un lato il tema della legittimità delle misure adottate, seppur non era oggetto di quella questione, fu comunque sfiorato[2]; (2) dall’altro, la stessa riconduzione delle misure adottate alla materia della “profilassi internazionale” produsse l’effetto di vanificare una delle principali conseguenze applicative del problema della natura (normativa o amministrativa) dei dpcm, che invece si sarebbe posto quale interrogativo ineludibile nel caso di riconduzione alla “tutela della salute” (art. 117 co. 3) che, in quanto materia di competenza concorrente, avrebbe comportato l’attivazione dell’art. 117 co. 6, ai sensi del quale: «la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia».
In ogni caso, l’ordinanza di remissione del giudice di pace di Frosinone, seppur (come vedremo) sollevando molte perplessità sul suo contenuto, ha avuto senz’altro il merito (per certi versi storico) di portare la Corte costituzionale ad esporsi e a far luce sulla natura giuridica, prima e in funzione di un giudizio sulla sua legittimità, di un atto (il dpcm) che in questi due anni ha attratto e intersecato l’interesse accademico e quello popolare in un modo che, per certi versi, non ha precedenti. La questione da cui sorge la sentenza n. 198 del 2021 rappresenta infatti il momento in cui alla Corte è stato chiesto direttamente di esporsi sulla legittimità del meccanismo di gestione della pandemia in base alla natura degli strumenti utilizzati (e in particolare della filiera decreti-legge e dpcm).
Il quesito che ha interrogato la Corte ha, dunque, una struttura diretta unitariamente alla natura del potere attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri, che si rivolge, però, ad un oggetto duplice: (1) il decreto-legge n. 6 del 2020 e (2) il decreto-legge n. 19 del 2020. Per questo motivo duplice è stato anche il dispositivo della decisione. Quanto al primo segmento (decreto-legge n. 6 del 2020) la Corte si è espressa con una dichiarazione di inammissibilità per difetto di rilevanza, accogliendo quanto era stato eccepito dell’Avvocatura generale dello Stato, e cioè che, poiché il fatto da cui era scaturito il giudizio a quo era stato commesso il 20 aprile 2020, esso non doveva ritenersi soggetto al dpcm del 22 marzo 2020, ma al dpcm del 10 aprile 2020, e dunque - per quanto importa l’oggetto del giudizio di costituzionalità - che non era soggetta alla sfera applicativa del decreto-legge n. 6 del 2020 ma a quella del decreto-legge n. 19 del 2020 (a cui il dpcm del 10 aprile ha dato espressamente attuazione). Ad essere rimasta in piedi oltre la soglia dell’ammissibilità, pertanto, è stata unicamente la seconda parte della questione, ossia quella che ha riguardato il decreto-legge n. 19 – che d’altra parte ha rappresentato il fondamento del modello che è stato detto standard[3] di gestione della crisi.
Questa seconda parte della questione è stata giudicata dalla Corte infondata, in esito ad un’argomentazione costruita tutto attorno ad un perno: la tassatività delle misure di contenimento menzionate dal decreto-legge n. 19 del 2020 che, secondo la Corte, tipizzando il contenuto dei provvedimenti attuativi, avrebbe conformato in senso amministrativo la discrezionalità attribuita al Presidente del Consiglio. In questo la pronuncia ha trovato un supporto comparativo molto utile – seppur celato per lo più nel non detto della decisione - nelle misure contenute dal suo predecessore (decreto-legge n. 6 del 2020) nei cui riguardi, per converso, sembra potersi ricavare un implicito (e non così pacifico[4]) giudizio di incostituzionalità.
L’elemento centrale del ragionamento della Corte è, comunque, la tassatività degli interventi. E’ attraverso di essa infatti che la Corte definisce la natura giuridica dei dpcm escludendo (implicitamente) la natura normativa del potere attribuito e (esplicitamente) la riconducibilità dello stesso alla categoria del potere d’ordinanza, smentendo in questo non solo la tesi dell’Avvocatura dello Stato (come vedremo) ma anche un’interpretazione che, soprattutto in un prima fase, era stata prevalente in dottrina[5]. La tipizzazione delle misure non risolve però interamente la cassetta degli attrezzi usati dalla Corte costituzionale per salvare la normativa denunciata. Sono altre le garanzie introdotte dal decreto-legge n.19 del 2020 che, ponendosi a corredo di un contenuto più stringente, la Corte ha preso in considerazione: un’interlocuzione più frequente e strutturata con il Parlamento, l’introduzione dei requisiti di «adeguatezza e proporzionalità» quali criteri di esercizio della discrezionalità attribuita al Presidente del Consiglio, il coinvolgimento del Comitato tecnico-scientifico e la vigenza per «periodi predeterminati» dei dpcm.
In estrema sintesi, si può dire che la sentenza n. 198 del 2021 ha risolto la questione con una soluzione (duplice) che ci pare nel complesso condivisibile e che, nondimeno, lascia spazio a taluni interrogativi. Sono due, soprattutto, le scelte compiute dalla Corte su cui può valere la pena riflettere: (1) la scelta di assumere la tipizzazione delle misure e la natura esecutiva della funzione attribuita quali criteri sufficienti a qualificare come amministrativi i dpcm “del covid-19”; e (2) la scelta di ricondurre i dpcm “del covid” alla nozione di “atto amministrativo necessitato”.
2. Due interrogativi su due scelte di percorso (verso un esito condivisibile)
2.1. Il primo: sui criteri utilizzati per ricondurre i dpcm nell’alveo della discrezionalità amministrativa (può davvero bastare la tipizzazione e la natura esecutiva del potere?)
La prima scelta che ci interroga è stata quella di enfatizzare (in senso quasi risolutivo) gli elementi (a) della tipizzazione delle misure e (b) della funzione esecutiva del dpcm, nella riconduzione nell’alveo della discrezionalità amministrativa del potere attribuito al Presidente del Consiglio dal decreto-legge oggetto del giudizio. Questo secondo interrogativo assume evidentemente due presupposti: (1) che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo il dpcm non è «pacificamente mero atto amministrativo», ma può essere tranquillamente (e peraltro è stato di frequente ed è sempre più spesso) la forma di esercizio di un potere normativo di tipo regolamentare[6]; e (2) che astrattamente potrebbe essere questo il caso, posto che - come noto - mentre il catalogo delle fonti di rango primario è considerato chiuso, nel senso che le fonti primarie sono tutte tassativamente previste in Costituzione (numerus clausus), quelle di rango secondario sono invece tradizionalmente ricondotte ad un sistema aperto e il loro riconoscimento passa anche per l’utilizzo – di volta in volta - di indici di natura sostanziale[7].
Su questi due punti preliminari vale la pena di soffermarsi un attimo.
Quanto al punto n. 1: un atto che porta la denominazione di dpcm non è necessariamente [tanto meno «pacificamente»] un atto [«meramente»] amministrativo. La formula di “decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” non è nient’altro che la denominazione con cui si manifesta all’esterno la volontà del Presidente del Consiglio. E’, cioè, un “guscio neutro”: un contenitore che astrattamente può contenere e veicolare contenuti estremamente diversi. E infatti dpcm può essere un atto amministrativo o di alta amministrazione (auto-organizzazione della Presidenza del Consiglio, nomina o delega di poteri) ma, soprattutto, può essere anche un vero e proprio atto a contenuto normativo, estrinsecazione di un “atipico” (perché non menzionato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988) potere regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri. Ora, se è vero che questa varietà sostanziale è stata tradizionalmente ricondotta ad una certa unità definitoria e funzionale (coerente con le attribuzioni di cui all’art. 5 della l. n. 400 del 1988 e, ancora prima, con il dettato dell’art. 95 Cost.) coincidente con la rilevanza interna delle funzioni, e quindi degli atti (organizzazione, direzione e coordinamento dell’attività del Governo e autorganizzazione della Presidenza del Consiglio) è vero anche che, a partire da questo, l’evoluzione sia proseguita nel segno di un forte consolidamento (quantitativo e qualitativo) del potere regolamentare del Presidente del Consiglio e, pertanto, del dpcm quale vero e proprio atto normativo secondario[8].
Quanto al punto n. 2: tra la disciplina costituzionale delle fonti primarie e quella delle fonti secondarie ci sono due importanti differenze che determinano la necessità di indagare il contenuto di un atto per escluderlo in tutti i sensi dalla categoria delle fonti secondarie. La prima è che la Costituzione contiene una disciplina organica degli atti “legislativi” e dei loro procedimenti di adozione (che determina, appunto, la “chiusura” della categoria). La seconda è che, mentre per gli atti con forza di legge del Governo, la legge n. 400 del 1988 ha imposto, con una scelta che è parsa risolutiva[9], la corrispondenza espressa tra nomen iuris e formula di pubblicazione dell’atto, per gli atti secondari è stata percorsa un’opzione diversa, perché è stata mantenuta la formula di pubblicazione generica di “decreto” (del Presidente della Repubblica, Ministeriale o del Presidente del Consiglio dei Ministri) ed è stato stabilito che il riferimento al nomen di Regolamento debba essere solo incorporato nel titolo dell’atto (co. 4 dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988). Ne deriva che, a differenza di quanto avviene per le fonti primarie, l’aspetto esteriore non è risolutivo per il riconoscimento dell’atto. Tanto è vero che tanto la Corte quanto il Consiglio di Stato hanno (anche se implicitamente e con atteggiamento evasivo la prima[10] e, seppur esplicitamente, in modo ondivago il secondo[11]) ammesso l’astratta possibilità del controllo sulla forma dell’atto alla luce del suo contenuto.
Nella sentenza n. 198 del 2021, la Corte costituzionale ha svolto esattamente questa operazione, escludendo però che i dpcm “del covid” siano atti normativi di rango secondario (non lo dice, ma lo si ricava agevolmente dalla loro qualificazione quali provvedimenti amministrativi) e lo ha fatto con una spiegazione che ruota tutto attorno alla tipizzazione delle misure e alla natura “esecutiva” del potere esercitato tramite i dpcm. Al fatto cioè, che il decreto-legge si limita ad autorizzarlo a dare esecuzione ad una serie di misure nominate e tipizzate nel contenuto (punto 6.3 del considerato in diritto). Il punto però è questo: non avvertendo l’esigenza di approfondire il percorso che ha condotto da questi due elementi alla natura amministrativa della discrezionalità esercitata, la Corte sembra aver sfumato in modo davvero eccessivo (secondo qualcuno perfino escluso[12]) la distinguibilità tra norme e atti amministrativi, posto che è assolutamente comune (anche se non inevitabile[13]) che il potere regolamentare sia funzionalmente predisposto all’attuazione e all’esecuzione di rinvii contenuti in fonti primarie. Certo, rimane l’elemento della tipizzazione, ma fondare solo sul quantum di questa variazione la natura dell’atto è davvero estremamente problematico, posto che la tipizzazione del contenuto e la conseguente riduzione dello spazio normativo attribuito alla fonte secondaria è connotato tipico della sua posizione esecutiva (così è, infatti, per i c.d. regolamenti di esecuzione e, ancora più chiaramente, per quelli definiti di “stretta” esecuzione). A voler insistere su questa strada si dovrebbe pertanto poter individuare un criterio-soglia comprensibile e replicabile nella realtà multiforme e complessa che si incontra quando se ne vorrà fare un qualche altro uso pratico.
L’interrogativo nasce, dunque, non tanto della decisione in sè di ricondurre il potere esercitato dal Presidente del Consiglio al paradigma del “provvedere”, quanto piuttosto da quella di lasciare quasi interamente nel non detto i passaggi del percorso argomentativo che ha portato la Corte a questa convinzione, così da demandaare all’interprete il compito di capire se, effettivamente, gli elementi della tipizzazione e della natura esecutiva abbiano risolto interamente la riconduzione teorica dell’atto alla categoria o se invece abbiano rappresentato solo l’ultimo segmento di un percorso più ampio. Pur non essendo stati quasi mai menzionati nella pronuncia, quella svolta dalla Corte è infatti senza dubbio un’indagine a cui sono applicabili i tradizionali criteri di riconoscimento sostanziale della normatività: l’innovatività, la generalità e l’astrattezza. Criteri che in effetti parrebbero essere stati utilizzati (anche se solo ad adiuvandum) dalla Corte, posto che in un passaggio della sentenza (6.2 del considerato in diritto) ha avvertito l’esigenza di precisare che la discrezionalità attribuita dal decreto-legge sarebbe stata di tipo amministrativo, «ancorché ad efficacia generale». Non ci sono molti dubbi, in effetti, che i dpcm in questione siano atti generali (i cui precetti sono cioè riferibili ad un numero indeterminabile di destinatari). Notoriamente però, la generalità del precetto non è un elemento risolutivo. Nonostante quello della specialità sia tradizionalmente predicato quale carattere tipico dell’atto che provvede in concreto, infatti, si è nel tempo progressivamente formata, e ormai consolidata, la nozione di atto amministrativo generale, che ha tolto all’atto normativo “l’esclusiva” sul carattere della generalità[14].
Se, come sembra verosimile, la riconduzione è stata effettivamente condotta alla luce di queste categorie, essa non può che essere passata per gli altri due caratteri: l’astrattezza e l’innovatività. Quanto al primo: l’astrattezza è la caratteristica dell’oggetto della prescrizione, sta ad indicare la ripetibilità del precetto in un numero indeterminabile di casi, e dunque in riferimento ad un numero indeterminato di comportamenti. Una disposizione è astratta, in altre parole, quando si rivolge ad un tipo (inteso come classe indeterminata) di comportamenti. Quanto ai dpcm del covid-19, un elemento di impedimento per l’attribuzione di questo connotato potrebbe essere rappresentato dalla temporaneità delle misure previste, ma a rigore va detto che, affinché siano inquadrate come astrattamente ripetibili, le misure introdotte non devono essere necessariamente stabili. E in ogni caso, che la misura oggetto del giudizio a quo e (forse ancora di più) le altre demandate dal decreto-legge n. 19 del 2020 all’attuazione dei dpcm, non siano l’oggetto di prescrizioni applicabili ad un numero indeterminato di comportamenti non è affatto scontato. Si pensi, soprattutto, alla «limitazione o sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni altra forma di riunione o di assembramento in luogo pubblico o privato» (lett. g), alla «limitazione o sospensione dei servizi di apertura al pubblico o chiusura dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura» (lett. n), alla «limitazione o sospensione delle attività commerciali di vendita al dettaglio o all'ingrosso» (lett. u), alla «limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti» (lett. v) o alla «limitazione o sospensione di altre attività d'impresa o professionali» (lett. z).
Veniamo allora all’altro carattere: quello dell’innovatività, inteso come capacità di produrre un effetto prescrittivo nuovo. Il punto in cui è più convincente che il carattere dell’innovatività potrebbe essere escluso è, evidentemente, la tipizzazione puntuale delle misure da parte dell’atto primario, che potrebbe (non necessariamente a torto) far pensare che l’introduzione delle stesse sia riferibile ad esso. Anche su questo punto però, potrebbero essere astrattamente sollevate alcune perplessità, posto che se la novità è da intendersi come introduzione di un effetto prescrittivo nuovo allora essa va intesa non solo in relazione all’atto introduttivo delle misure, ma anche quello produttivo dei loro effetti. Ed è noto, infatti, come la dottrina gradualistica del diritto, che non considera l’innovatività caratteristica esclusiva della norma giuridica, ha fatto emergere come un certo grado di novità, seppur progressivamente graduato dal restringersi dello spazio di decisione che si ricava dall’atto sovraordinato, sia in astratto propria di tutti gli atti che producono effetti (e quindi anche di quelli amministrativi e giurisdizionali).
2.2. Il secondo: sull’utilizzo della categoria degli “atti necessitati” (era necessario ed è corretto qualificare in questo modo in dpcm “del covid”?)
Con la qualificazione in senso amministrativo della potestà attribuita al Presidente del Consiglio dal decreto-legge oggetto della questione, il dubbio sollevato dall’ordinanza di rimessione parrebbe aver trovato piena e definitiva soddisfazione. L’ultimissima parte del quesito infatti - quella per cui la delega di potestà legislativa sarebbe avvenuta «al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante dello stato di guerra» - dovrebbe, a rigor di logica, essere ritenuta interamente assorbita dalla rimozione del suo presupposto (l’avvenuta delega sostanziale di funzione legislativa)[15]. Nonostante questo, però, la Corte costituzionale ha ritenuto di aggiungere un pezzo in più (il punto n. 8 del Considerato in diritto) interrogandosi sulla riferibilità dei dpcm “del covid-19” alla nozione di atto (in senso lato, come vedremo) necessitato.
A questo punto occorre fare un piccolo passo indietro e introdurre nel discorso, seppur in modo essenziale, la nozione attorno a cui quest’ultima parte della pronuncia ruota. La nozione di “atto necessitato” nasce nella teoria generale del diritto ed è stata elaborata usando l’attributo “necessitato” nel senso letterale di accadimento che, dato un altro accadimento, non può non essere. Da questo significato originario se ne è tratto (soprattutto per merito della riflessione di Massimo Severo Giannini[16]), in ambito amministrativo, uno ulteriore, meno rigoroso e «più enfatico», con cui si indica un atto che «trova come presupposto una situazione di necessità che impedisce di seguire quella che altrimenti sarebbe la strada normale»[17]. L’elemento caratterizzante degli atti amministrativi necessitati rispetto a tutti gli altri “non necessitati” non è dunque la sua struttura bensì il suo presupposto: ossia il fatto di incorporare la necessità quale elemento di fatto che ne integra il fondamento giuridico[18]. L’atto necessitato si caratterizza, in altre parole, perchè incorpora la necessità quale fatto giuridicamente rilevante nel presupposto. Questo come detto (e come vedremo) non intacca la struttura dell’atto, che è del tutto assimilabile a quella tipica dei “normali” provvedimenti amministrativi, ma proietta sullo stesso una certa conformazione funzionale: negli atti necessitati, cioè, il legislatore si sostituisce all’autorità amministrativa a cui basta accertare in fatto l’esistenza di una situazione di necessità.
Per comprendere in termini più concreti il significato della nozione e dei suoi elementi caratterizzanti può essere utile menzionare alcuni esempi proposti. Massimo Severo Giannini ad esempio, indicava quale caso tipico di “atto necessitato” l’art. 71 della legge sulle espropriazioni (n. 2359 del 25 giugno 1865)[19], il quale disponeva che «nei casi di rottura di argini, di rovesciamenti di ponti per impeto delle acque, e negli altri casi di forza maggiore o di assoluta urgenza, i Prefetti ed i Sottoprefetti [...] possono ordinare la occupazione temporanea dei beni immobili che occorressero alla esecuzione delle opere all'uopo necessarie» e che «se poi l'urgenza fosse tale da non consentire nemmeno l'indugio richiesto per fare avvertire il Prefetto ed il Sottoprefetto ed attenderne il provvedimento, il sindaco può autorizzare la occupazione temporanea dei beni indispensabili per l'esecuzione dei lavori [...]». Altri casi più recentemente citati sono nel Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), e in particolare: l’art. 63, che disciplina l’aggiudicazione di appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara quando, «per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati» e l’art. 163 che dispone l’immediata esecuzione di lavori da parte del responsabile del procedimento e del tecnico dell'amministrazione competente «al ricorrere di circostanze di somma urgenza»[20] e nel t.u. espropriazioni (d.P.R. 8.6.2001, n. 327) e, in particolare, l’art. 22-bis, che regola l’occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione «quando l'avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza, tale da non consentire, in relazione alla particolare natura delle opere, l'applicazione del procedimento ordinario»[21].
La nozione di atto necessitato è stata poi accettata e ripresa anche dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 4 del 1977 (relatore Crisafulli) la utilizzò per operare una cesura tra il potere attribuito al prefetto dall’art. 20 del t.u. della legge comunale e provinciale 3 marzo 1934, n. 383 e la categoria delle ordinanze necessitate (in quel caso rappresentate dalle ordinanze ex art. 2 tulps). Il criterio distintivo tra “atti” necessitati e “ordinanze” necessitate - aventi entrambi come presupposto l’urgente necessità del provvedere – era già stato diffusamente chiarito dalla dottrina[22], e la Corte, nel farne applicazione, si è limitata (nel 1977 come nella sentenza che si sta commentando) a richiamarli in quella forma, dicendo che i primi, sono «emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto», mentre le altre «nell’esplicazione di poteri soltanto genericamente prefigurati dalle norme che li attribuiscono e perciò suscettibili di assumere vario contenuto, per adeguarsi duttilmente alle mutevoli situazioni» (sentenza n. 4 del 1977).
Dopo la sentenza del 1977 la nozione di “atto necessitato” venne poi ripresa da altri studi, e in particolare da Aldo Maria Sandulli nel 1989[23] e Roberto Cavallo Perin nel 1990[24], che, a quasi mezzo secolo dalla prima elaborazione ritennero maturi i tempi per perfezionare la classificazione attraverso un’ulteriore sistemazione lessicale. Essi ritenevano infatti che il nome “atti necessitati” fosse stato originariamente scelto da Giannini perché al tempo la locuzione "provvedimenti di necessità e urgenza" era ancora di frequente utilizzata per designare le ordinanze di necessità e urgenza. Superata questa esigenza, ritenevano possibile e più opportuno riferirsi a quelli che Giannini aveva chiamato “atti necessitati” con il nome di “provvedimenti necessitati”, e di usare la locuzione “atti necessitati” per indicare il genus degli atti che hanno a presupposto legittimante l’urgente necessità del provvedere, al cui interno sarebbe pertanto pertanto possibile distinguere le species dei (a1) provvedimenti necessitati (quelli che Giannini chiamava “atti necessitati”), definiti come provvedimenti che, pur avendo anch'essi a presupposto una situazione di necessità, «trovano il contenuto della loro imposizione già predeterminato dalla legge»[25], e delle (a2) ordinanze necessitate, definiti come provvedimenti della pubblica amministrazione che hanno a presupposto una situazione d'eccezione e il cui contenuto è soltanto genericamente predeterminato dalle norme istitutive.
L’appartenenza al medesimo genus e il fatto che la nozione di atto necessitato sia stata usata per lo più per distinguere alcuni atti dalla categoria delle ordinanze necessitate, però, non deve indurre nell’equivoco di ritenere che la prima sia tratta “per derivazione” dalla seconda. L’identità comune del genus, infatti, vale prima di tutto a distinguere entrambe le categorie dagli atti amministrativi “non necessitati”. E infatti gli studi sull’atto amministrativo necessitato si preoccupano prima di tutto di distinguerlo dai provvedimenti amministrativi non necessitati e, solo dopo, di recidere il nesso che astrattamente potrebbe legarli alle ordinanze necessitate.
Nella sentenza in esame, invece, la Corte costituzionale qualifica i dpcm “del covid” quali atti necessitati curandosi per lo più di rilevare l’elemento distintivo della species rispetto a quella delle ordinanze necessitate (la tipizzazione) ma senza dar conto dell’esistenza di quelli che caratterizzano, a monte, il genus. E allora viene da pensare che possa essere questa la ragione per cui la stessa Corte ha lasciato nel testo una riserva che segnala l’esistenza di qualche dubbio su questa riconducibilità - accostando tali atti a quelli necessitati «solo per certi versi» (senza dire, però, per quali). Il dubbio della Corte infatti non può stare, verosimilmente, nella scelta tra la dicotomia atti-ordinanze necessitate, posto che in questo poteva fare un affidamento piuttosto solido nella tipizzazione puntuale operata dal decreto-legge n. 19 del 2020[26]. Se un punto fragile nella riconduzione esiste, esso non può che stare nell’individuazione dei criteri distintivi del genus. E la Corte, in effetti, nulla dice circa l’esistenza dei due elementi che lo caratterizzano: il presupposto e la conformazione funzionale. E la cosa sorprende, perché non sembra affatto scontato né (il presupposto) che per i dpcm del covid la necessità sia riconoscibile quale parte - di fatto - integrante il presupposto legittimante - di diritto - della loro adozione, né (la conformazione funzionale) che si tratta di provvedimenti la cui adozione è automatica conseguenza del riconoscimento in fatto di una situazione di necessità.
Quanto al primo punto (l’esistenza del presupposto tipico dell’atto necessitato), verrebbe da chiedersi che cosa distingua la catena di decreti-legge e dpcm dai meccanismi di interlocuzione “ordinaria” (in questo caso nella forma dell’esecuzione) tra fonti primarie e fonti secondarie o atti amministrativi. In questo senso, il presupposto legale dei dpcm sembra infatti prescindere totalmente da elementi di fatto e, in particolare, dall’esistenza di una situazione emergenziale: la loro base legale è costituita in modo autosufficiente dai vari decreti-legge emanati (lo stesso dpcm 10 aprile 2020, definisce le proprie disposizioni «attuative» del d.l. n. 19 del 2020). L’an della loro adozione non dipende dal riconoscimento in fatto di una situazione di necessità (tutt’al più essa è già stata riconosciuta a monte dall’atto primario) ma trova piena soddisfazione nel fondamento fornito dal decreto-legge. L’elemento fattuale interagisce certamente con il contenuto dell’atto, ma come elemento esterno, e in particolare come elemento di fatto che orienta la discrezionalità e, quindi, integra il parametro di giudizio, attraverso i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità. Riguarda, in altre parole, non il suo presupposto ma il suo contenuto, e in particolare il quantum delle misure introdotte dai dpcm che, ai sensi dell’art. 1 co. 2 del decreto-legge n. 19 del 2021, devono essere «adottate secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente».
Quanto al secondo punto (la conformazione funzionale dell’atto): l’indice della difficoltà di sostenere che i dpcm del covid siano provvedimenti la cui adozione è automatica conseguenza del riconoscimento in fatto di una situazione di necessità è rappresentato plasticamente dall’art. 2 co. 1 del decreto-legge n. 19 del 2021 che, secondo una formulazione introdotta in sede di conversione dispone che «il Presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti da adottare ai sensi del presente comma, al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati». Si tratta di una norma che dimostra una certa discrezionalità nella decisione demandata al dpcm, posto che la possibilità per le Camere di formulare indirizzi rispetto alla adozione degli stessi (ferma restando la disposizione primaria attuata), segna l’esistenza di un certo spazio di agibilità politica, in cui – a ragione - lo stesso legislatore ha ritenuto fosse cosa buona coinvolgere il Parlamento. Spazio di agibilità politica che sarebbe incompatibile con una lettura che vorrebbe costringere la discrezionalità del presidente del Consiglio al mero accertamento delle condizioni di fatto che ne impongono l’adozione.
3. Nota a margine: ancora sulla non riconducibilità dei dpcm del covid-19 al potere d’ordinanza (di protezione civile)
Dicendo che questi dpcm si distaccano concettualmente dal modello delle ordinanze contingibili e urgenti, la Corte ha contraddetto una posizione ripetutamente sostenuta in dottrina, fino ad essere condivisa dalla stessa Avvocatura dello Stato che, nel contestare la fondatezza della questione ha sostenuto che non vi sarebbe stata un’assunzione di poteri emergenziali in violazione dell’art. 78 Cost., proprio perché il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe «esercitato il potere di ordinanza conferitogli dall’art. 5 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), previa deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale, adottata in conformità all’art. 24 del medesimo decreto legislativo».
La posizione della Corte ci pare assolutamente condivisibile. I dpcm del “covid-19”, infatti, sono atti che non hanno né l’aspetto esteriore del sotto-tipo particolare e positivo (le ordinanze disciplinate dal Codice di Protezione), mancandone tutti gli elementi essenziali: il nomen, l’indicazione delle norme a cui si intende derogare e la motivazione (che a rigor di codice dovrebbe pure essere esaustiva), ne tanto meno hanno – ed è questo il punto davvero importante – la natura e la sostanza del tipo generale (ordinanze contingibili e urgenti), essendo atti (normativi o meno) che attuano fonti primarie senza derogare ad alcuna norma di legge. E il richiamo alla dichiarazione dello stato d’emergenza nel preambolo dei vari dpcm è apparso fin da subito sembrato un mero richiamo motivazionale ad adiuvandum e nonvla menzione del proprio fondamento[27]. Sono, d’altra parte, gli stessi dpcm a chiarire il proprio fondamento, dicendo espressamente che le proprie disposizioni sono «attuative» dei vari decreti-legge. Ma il punto che può essere interessante far emergere non è tanto la condivisibilità in astratto della posizione della Corte, quanto piuttosto l’assoluta comprensibilità in concreto del fatto che la gestione dell’emergenza non sia stata realizzata attraverso il sistema di protezione civile ma (anche e soprattutto) attraverso un meccanismo diverso e alternativo. A scanso di equivoci, sappiamo bene che il sistema di protezione civile non ha mai smesso di funzionare e che il Capo del Dipartimento di protezione civile ha continuato ad emanare ordinanze, ma ad un certo punto – molto vicino all’origine – dell’emergenza il sistema di gestione è stato articolato in questi termini: sul sistema di protezione civile è stata scaricata la funzione (dalla natura marcatamente tecnica e amministrativa) del coordinamento tecnico, mentre le decisioni politiche sono state adottate nell’ambito di un’architettura nuova: la filiera decreti-legge-decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri[28].
La “deviazione” dal sistema di protezione civile non deve stupire: quel sistema, e dunque anche il potere d’ordinanza di protezione civile (che ne è un segmento) non è stato pensato per aderire indistintamente ad ogni fatto materiale possibile. La cosa, di per sé, non è troppo strana: tutti i modelli prescrittivi scontano un margine di inadeguatezza rispetto ai fatti imprevedibili, e d’altra parte è proprio dalla componente di eccezionalità insita nei fatti emergenziali che può scaturire l’imprevedibilità che non consente l’aderenza del dettato prescrittivo al fatto. Detto brutalmente: posso dire oggi come mi comporterò domani fintanto che domani accadono eventi che oggi posso prevedere. È normale, insomma, che quando un fatto imprevedibile sposta il piano su cui il diritto vorrebbe agire impedendo l’incastellatura concettuale e quella prescrittiva, al diritto si impone la necessità di conformarsi al fatto imprevisto, con soluzioni adeguate alla sua fisionomia.
Il presupposto di questa lettura è, ovviamente, che esiste un tipo di fatto emergenziale attorno a cui il sistema di protezione civile è stato pensato, la cui fisionomia può essere verificata nell’identità dei fatti a partire da cui si è sviluppata (prima) la riflessione teorica e (poi) la prassi applicativa: i terremoti, ovviamente, ma anche eventi meteorologici d’altro genere, come alluvioni, frane, ed emergenze provocate da attività umane come il crollo di edifici e infrastrutture. Tutti questi fatti hanno un’identità materiale comune: sono eventi, accadimenti che spezzano il tempo in un prima e dopo sufficientemente chiaro e netto da permettere l’operabilità di un meccanismo pensato affinché fino a quando il fatto non si realizza, si prevedano e si prevengano i rischi del suo verificarsi e poi, quando il fatto si è già realizzato, vengano gestiti gli effetti che ha prodotto. Questa potrebbe sembrare una divagazione teorica ma non lo è affatto: è esattamente questo che fa sì che il sistema di protezione civile (e le ordinanze quale sua parte) non possa funzionare quando si tratta di assumere decisioni volte alla gestione (dunque politica) dell’emergenza in medias res. Che il potere d’ordinanza di protezione civile è stato pensato per (o almeno a partire da) questi fatti non solo emerge dalla comprensione complessiva della sua natura, ma è scritto, e in almeno due punti del Codice. Il primo è l’art. 2 che, nello scandire l’attività di protezione civile ripercorre esattamente questa scansione temporale: prima che l’evento si verifichi l’attività è volta alla previsione, cioè all’identificazione del rischio (art. 2, co. 2 del Codice) e alla prevenzione, cioè ad evitare che in conseguenza dell’evento si verifichino danni o danni ulteriori (art. 2 co. 3 del Codice), e poi, una volta che l’evento si è verificato la gestione dell’emergenza è preordinata al soccorso e all'assistenza alle popolazioni colpite (art. 2 co. 6 del Codice). Il secondo è l’art. 25, che determina - al co. 2, lett. a)-f) - l’ambito di applicazione del potere d’ordinanza pensandolo esattamente in funzione del ripristino e della gestione tecnico-amministrativa degli effetti prodotti da un evento accaduto ed (in questo senso) esaurito[29].
Se così è, allora la filiera di decreti-legge e dpcm può essere compresa come un adattamento fisiologico alla conformazione materiale del fatto emergenziale. E a ben vedere non sarebbe un caso che questo sistema sia apparso, di fatto oscurando quello di protezione civile, non appena la realtà materiale ha cominciato a delinearsi secondo quella che poi sarebbe stata la propria conformazione. L’osservazione delle date restituisce, in effetti, un quadro piuttosto indicativo: il 31 gennaio 2020 è stato attivato – con deliberazione del Consiglio dei Ministri - il sistema di protezione civile, dopo che il giorno precedente si era registrata la notizia dei primi casi “importati”, e dunque localizzati e controllabili (si tratta di due turisti in Italia), di contagio. Tutto resta fermo fino al 23 febbraio - quando la filiera decreti-legge-dpcm è stata inaugurata – meno di 48 ore dopo aver registrato i primi casi interni di contagio. E’ proprio la presenza “incontrollata” del virus sul territorio ad aver rappresentato il momento in cui si è compiuto lo stravolgimento, anche qualitativo, dell’emergenza in un senso inedito, eliminando la dimensione territoriale (perché la prevenzione non è più stata legata al contenimento del virus in luoghi circoscritti) ma soprattutto modificando la struttura temporale dell’evento che, se fino a quel momento rendeva in qualche modo possibile (e replicabile) l’astratta distinzione tra prevenzione - intesa come attività di gestione ex ante volta ad evitare la realizzazione dell’evento - e gestione – intesa come intervento ex post sugli effetti prodotti dall’evento - di li in avanti prevenzione e gestione si sono confuse in un tutt’uno. Ma non è tutto: a guardar bene non stupisce nemmeno che il sistema normativo di gestione dell’emergenza si sia sviluppato proprio attraverso l’emersione del dpcm e l’esaltazione (lato sensu) “normativa” della figura del Primo ministro. La vicenda Covid-19, in questo senso, non ha fatto altro che portare ad un compimento esemplare una parabola che era già in atto da qualche tempo. Diversi commentatori (supportati peraltro da un rapporto del servizio studi della Camera[30]) hanno segnalato come la figura del dpcm sia uscita dal recinto funzionale della direzione e del coordinamento della politica generale del Governo, rivelandosi sempre più frequentemente la forma dell’esercizio di un vero potere di decisione amministrativa e normativa[31]. In un primo momento questo percorso si è realizzato attraverso una sorta di attrazione della figura del Presidente del Consiglio verso il modello ministeriale e in particolare il fenomeno dell’espansione degli ambiti di intervento attivo e della dilatazione del suo apparato burocratico (editoria, sicurezza, funzione pubblica, protezione civile ecc.)[32]. Successivamente, però, la valorizzazione del ruolo “decisorio” del Presidente del Consiglio ha assunto una conformazione più propriamente “normativa” (questa necessità di qualificare i dpcm come atti normativa deriva da un pregiudizio: che la discrezionalità politica, e la funzione di governo, passi sempre e comunque da un atto normativo) ed è passata per scelte politiche contingenti, attraverso leggi che - di volta in volta, ma finendo poi per sedimentarsi intorno ad alcune ricorrenze materiali e funzionali - hanno scelto di demandare la loro attuazione non al potere regolamentare del Governo, né a quello dei Ministri - singolarmente o nella forma inter-ministeriale - ma a quello del Presidente del Consiglio dei Ministri.
* Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Scuola Superiore Sant’Anna (alberto.arcuri@santannapisa.it)
[1] Con l’ordinanza di rimessione n. 27 del 23 dicembre 2020.
[2] Riconoscendo la possibilità che l’esecutivo potesse intervenire anche con «nuove risposte normative e provvedimentali».
[3] M. Rubechi, I d.P.C.m della pandemia: considerazioni attorno ad un atto da regolare, federalismi.it, n. 27/2021, p. 183.
[4] Rimandiamo a quanto espresso in A. Arcuri, Cose vecchie e cose nuove sui d.p.c.m. dal fronte (…dell’emergenza coronavirus), federalismi.it, n. 28/2020, p.251 ss.
[5] In questo senso E. C. Raffiotta, I poteri emergenziali del Governo nella pandemia: tra fatto e diritto un moto perpetuo nel sistema delle fonti, in Rivista AIC, n. 2, 2021, p. 64 ss.; e M. Cavino, Comitato per la legislazione e dPCM: il diavolo si cela nei dettagli, in Quaderni Costituzionali., n.2, 2021, p. 401ss.
[6] Lo rileva diffusamente, commentando proprio la sentenza n. 198 del 2021, M. Rubechi, cit., p. 191ss. Più in generale sul punto cfr. V. Di Porto, La carica dei DPCM, Osservatorio sulle fonti., 2/201 D. De Lungo in Nihil est in intellectu quod Prius non fuerit in sensu: considerazioni empiriche su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’esperienza recente, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019; M. Giannelli, I decreti “di natura non regolamentare”. Un’analisi a partire dalla prassi della XVI e XVII legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it F. Biondi Dal Monte, Dopo la legge, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; D. Piccione, Il Comitato per la legislazione e la cangiante natura dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Federalismi.it.
[7] Tra i tanti abbiamo già richiamato F. Sorrentino, Le fonti del diritto Italiano, Cedam, Padova, 2009, pp. 55-57.
[8] Lo rilevava già M. C. Grisolia, Osservazioni in tema di decreti del presidente del Consiglio a contenuto regolamentare, in Il potere regolamentare nell'amministrazione centrale, U. De Siervo (a cura di), Bologna, 1992, 155-184.
[9] Fino all'entrata in vigore della legge n. 400 del 1988, i decreti legislativi erano adottati nella generica forma di d.P.R. Problemi del tutto simili a quelli che oggi si pongono circa l’appartenenza (o meno) al sistema delle fonti di atti che si presentano con il medesimo nome (dm o dpcm), si sono posti fino al 1988 in merito alla riconducibilità ai diversi gradi del sistema delle fonti (primarie o secondarie) degli atti normativi del Governo emanati con la medesima formula di d.P.R. Peraltro l’autoqualificazione è accompagnata da ulteriori prescrizioni: ad esempio, per quanto riguarda i decreti legislativi, l’art. 14 della legge n. 400 del 1988 stabilisce che si debbano indicare, nel preambolo dell’atto, la legge di delegazione, la deliberazione del Consiglio dei Ministri e gli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione. In questo senso, la legge n. 400 del 1988 completa un percorso iniziato con il d.P.R. n. 1092 del 1985, sulla pubblicazione degli atti normativi.
[10] L’apertura più esplicita è quella contenuta nella sentenza n. 116 del 2006, in cui ha denunciato apertamente l’“indefinibile natura giuridica” di un rinvio operato da una fonte primaria ad “un decreto avente natura non regolamentare”, ma ha poi finito comunque per fondare l’illegittimità costituzionale della fonte primaria che vi rinviava sulla base del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.
[11] La decisione più importante sul punto è l’Adunanza Plenaria n. 9 del 2012, su cui si veda N. Lupo, Il Consiglio di Stato individua un criterio per distinguere tra atti normativi e atti non normativi, Giornale di diritto amministrativo, 12/ 2012.
[12] Si veda il commento di G. Guzzetta su Adkronos del 22 ottobre 2021: Covid, Guzzetta: "Motivazioni Consulta eliminano distinzione tra norme e atti amministrativi", consultabile in https://www.adnkronos.com/covid-guzzetta-motivazioni-consulta-eliminano-distinzione-tra-norme-e-atti-amministrativi_6UkuR89pKuGARz1XqxIam8.
[13] Il riferimento è alle categorie dei regolamenti indipendenti e attuativi e integrativi (lettere b e c dell’art. 17 co. 1 della legge n. 400 del 1988).
[14] Tra gli altri si veda M. Ramajoli-B. Tonoletto, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, Dir. Amm. 1-2/2013, pp. 53-62.
[15] Secondo M. Cavino, cit., in federalismi.it, n. 25/2021, p. 82, ad esempio, quest’eccedenza argomentativa sarebbe indice sintomatico del fatto che «parametro del giudizio della Corte sono state in sostanza le norme che assistono i diritti di libertà e non quelle direttamente connesse ai rapporti tra le fonti, posto che la distinzione tra ordinanze e atti necessitati rileva essenzialmente per le materie coperte da riserva assoluta di legge (corsivo nostro)».
[16] A partire dallo scritto del 1948 Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1948.
[17] M.S. Giannini, Atti necessitati e ordinanze di necessità in materia sanitaria, ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 915 ss.
[18]M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 949 e ss., ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 945 ss.
[19] M.S. Giannini, Atti necessitati e ordinanze di necessità in materia sanitaria, ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 915 ss.
[20] S. Palumbo, Le ordinanze in materia di protezione civile, tra potere di urgenza e urgenza di potere, P.A. Persona e Amministrazione n. 2/2020, p. 375 ss.
[21] F. Migliarese, Ordinanze di necessità, in Enc. Giur. Treccani, XXII, Roma, 1990.
[22] Da M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 949 e ss., ora in AA. VV. Scritti, vol. IV (1955-1962), Giuffrè, Milano, 2004, p. 945 ss..
[23] A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, XV ed., 1989, 74-75.
[24] R. Cavallo Perin, Potere di Ordinanza e Principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità e urgenza, Milano, Giuffrè, 1990.
[25] R. Cavallo Perin, cit., Milano, Giuffrè, 1990, p. 4.
[26] E infatti prima della decisione della Corte aveva già svolto questa riconduzione G. Trombetta, L’ordinanza prefettizia ex art. 2 TULPS. Una lettura “realista” dentro i principi costituzionali, federalismi.it n. 22/2021.
[27] Così già F. Sorrentino, Riflessioni minime sull’emergenza Coronavirus, inCostituzionalismo.it, n. 1/2020.
[28] In questo senso già C. Caruso , Cooperare per unire. I raccordi tra Stato e Regioni come metafora del regionalismo incompiuto, in Rivista del Gruppo di Pisa, n. 1/2021.
[29] Art. 25 co. 2, (…) con le ordinanze di protezione civile si dispone, nel limite delle risorse disponibili, in ordine: a) all'organizzazione ed all'effettuazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dall’evento; b) al ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche, alle attività di gestione dei rifiuti, delle macerie, del materiale vegetale o alluvionale o delle terre e rocce da scavo prodotti dagli eventi e alle misure volte a garantire la continuità amministrativa nei comuni e territori interessati, anche mediante interventi di natura temporanea; c) all'attivazione di prime misure economiche di immediato sostegno al tessuto economico e sociale nei confronti della popolazione e delle attività economiche e produttive direttamente interessate dall'evento, per fronteggiare le più urgenti necessità; d) alla realizzazione di interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, strettamente connesso all'evento e finalizzati prioritariamente alla tutela della pubblica e privata incolumità, in coerenza con gli strumenti di programmazione e pianificazione esistenti; e) alla ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture, pubbliche e private, danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni.
[30] «Appunti del Comitato per la legislazione “La produzione normativa nella XVII Legislatura”. Aggiornamento al 15 giugno 2016 n. 9 – Focus».
[31] V. Di Porto, La carica dei DPCM, Osservatorio sulle fonti., 2/201 D. De Lungo in Nihil est in intellectu quod Prius non fuerit in sensu: considerazioni empiriche su decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’esperienza recente, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019; M. Giannelli, I decreti “di natura non regolamentare”. Un’analisi a partire dalla prassi della XVI e XVII legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it F. Biondi Dal Monte, Dopo la legge, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; D. Piccione, Il Comitato per la legislazione e la cangiante natura dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Federalismi.it.
[32] A. Sandulli, Il problema della Presidenza del Consiglio, ora in Scritti giuridici, Vol. I, Diritto costituzionale, Jovene, Editore, Napoli, 1990.
Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee?
In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
di Enzo Cannizzaro
Sommario: 1. Premesse - 2. Sugli effetti diretti dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein - 3. Effetti diretti in malam partem? - 4. Effetti diretti e controllo di costituzionalità delle leggi - 5. La contestualizzazione della sentenza Promoimpresa - 6. I limiti del giudicato in relazione al diritto europeo.*
1. Premesse
Ben difficilmente il dibattito aperto dalle due pronunce del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021, rese dalla Adunanza plenaria, si sopirà in tempi brevi. Alla discussione accademica, relativa alla linea argomentativa e alle soluzioni adottate dalle due sentenze “gemelle”, si aggiungeranno verosimilmente implicazioni di ampia portata sia sul piano della vicenda amministrativa che su quello concernente i rapporti fra le istituzioni politiche e le istituzioni giudiziarie.
Non tutte queste implicazioni saranno discusse in questo breve scritto, teso prevalentemente a verificare la coerenza fra gli argomenti utilizzati dal Consiglio di Stato e il diritto dell’Unione europea. Proprio il diritto europeo, infatti, ha fornito la base giuridica per molte delle soluzioni riversate nel principio di diritto formulato dall’Adunanza plenaria. E, tuttavia, alla sostanziale correttezza della identificazione e della ricostruzione della normativa sostanziale del diritto europeo operata dalla Adunanza plenaria, taluni dei profili applicativi di essi appaiono controversi.
Come ormai noto, l’Adunanza plenaria ha accertato l’esistenza di un contrasto fra la normativa nazionale, anche di rango primario, la quale ha disposto una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e il diritto europeo.
Tale conflitto è stato riferito sia all’art. 49 TFEU che all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno, nota con il nome di direttiva Bolkenstein e, dunque, sia alla normativa di rango primario che a quella di rango secondario. Del tutto correttamente, l’Adunanza plenaria ha ritenuto, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia, e in particolare della sentenza Promoimpresa, che queste disposizioni formulino un divieto agli Stati membri di disporre proroghe automatiche e generalizzate di concessioni su aree demaniali al fine di offrire servizi turistico-ricreativi. Altrettanto correttamente, e sempre sulla base della sentenza Promoimpresa, il Consiglio di Stato ha ritenuto di poter trarre dalle due disposizioni effetti diretti, invocabili, quindi, in un giudizio interno.
Da tali premesse, il Consiglio ha tratto conseguenze radicali. In virtù degli effetti diretti del diritto europeo, tali disposizioni imporrebbero al giudice e alla pubblica amministrazione di disapplicare qualsiasi regola nazionale che abbia disposto una proroga delle concessioni per servizi turistico-balneari, con conseguente decadenza dei diritti creati in capo ai concessionari. L’Adunanza plenaria ha altresì indicato che tali diritti verrebbero meno pur se accertati giudizialmente e pur se, su tale accertamento, si sia formato un giudicato, esistente o anche futuro. Né, su tale fenomeno, prodotto direttamente dalla normativa europea, potrebbe incidere il consolidamento di atti amministrativi.
Peraltro, in considerazione delle conseguenze “socio-economiche” di tale accertamento, il Consiglio di Stato ha ritenuto di poter precisare l’effetto temporale del proprio accertamento, e consentire la produzione di effetti da parte delle norme nazionali di proroga, fino al 31 dicembre 2023.
Valutate nel loro insieme, tali conseguenze sembrano tese a porre rimedio a una situazione di insostenibile divergenza dell’ordinamento nazionale rispetto agli obblighi europei; una situazione creata non già da comportamenti omissivi da parte del legislatore, quanto, piuttosto, da comportamenti attivi, e cioè da leggi e atti amministrativi adottati al fine di impedire la corretta applicazione del diritto europeo da parte delle amministrazioni e dei giudici nazionali.
Da un punto di vista formale, tale divergenza, volutamente creata con il consapevole consenso delle istituzioni politiche nazionali, integra la nozione di conflitto strutturale fra ordinamento strutturale e ordinamento europeo, evocata nell’ultimo paragrafo della sentenza Granital (Corte costituzionale, sentenza n. 170 del 1984). Sarebbe però improprio utilizzare tale nozione, elaborata verosimilmente per conflitto fra i valori e i principi fondamentali dei due ordinamenti, per una divergenza normativa indotta verosimilmente da esigenze molto meno nobili.
Proprio tale constatazione potrebbe spiegare il carattere radicale dell’argomentazione utilizzata e delle soluzioni adottate dalle due sentenze dell’Adunanza plenaria, e l’indiscutibile senso di sollievo che la loro lettura suscita rispetto ad una vicenda che avrebbe dovuta da tempo essere risolta attraverso percorsi politici e istituzionali. E, tuttavia, proprio tale carattere esige altresì una rigorosa indagine giuridica sulla loro coerenza con il sistema del diritto europeo, come sviluppato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. A tale analisi si attenderà, sia pur in maniera sintetica, nei prossimi paragrafi.
2. Sugli effetti diretti dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein
Appare indiscutibile, innanzi tutto, che l’art. 12 della Direttiva Bolkenstein abbia, nel suo contenuto negativo, effetti diretti. Tale disposizione, da un lato, impone agli Stati l’obbligo della selezione del contraente attraverso una procedura competitiva, e, per questo aspetto, assicura agli Stati membri un certo margine di discrezionalità; dall’altro proibisce, invece, proroghe automatiche e generalizzate. In altri termini, per lo meno in relazione all’obbligo negativo che esso impone agli Stati, e cioè quello di non disporre proroghe automatiche e generalizzate, l’art. 12 ha indubbiamente effetti diretti.
Utili elementi in questo senso possono essere tratti altresì dalla sentenza della Corte di giustizia Promoimpresa (14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15). Ancorché la Corte non qualifichi l’art. 12 come disposizione produttiva di effetti diretti, essa può essere ragionevolmente interpretata in questo senso. In particolare, al par. 50, la sentenza indica che “una normativa nazionale … che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123”.
In questo sintetico passaggio, la Corte ha indicato che l’art. 12, par. 2, prevede implicitamente un divieto di rinnovo automatico delle concessioni che rientrino nel suo ambito di applicazione. Or bene, un tale divieto integra un obbligo di non fare il quale, secondo una giurisprudenza risalente addirittura alla celebre sentenza Van Gend en Loos (5 febbraio 1963, causa 26/62), costituisce il paradigma stesso degli effetti diretti.
Ne consegue che il giudice nazionale, anche di ultima istanza, avrebbe potuto autonomamente risolvere la questione interpretativa circa la capacità di produrre effetti diretti da parte dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein senza soggiacere all’obbligo di rinvio pregiudiziale imposto dall’art. 267 TFEU.
3. Effetti diretti in malam partem?
È meno certo, tuttavia, che l’art. 49 TFEU produca a sua volta effetti diretti nella particolare fattispecie presente di fronte al Consiglio di Stato.
Se il divieto di disporre proroghe automatiche e generalizzate trova fondamento nell’art. 12 della Direttiva Bolkenstein, i suoi effetti diretti saranno limitati a quelli che una direttiva può produrre. Come è noto, sulla base di una giurisprudenza consolidata, gli effetti diretti di una direttiva si producono solo nei rapporti verticali, vale a dire nell’ambito di un rapporto giuridico fra individui e Stato. Tale limitazione deriva dall’osservazione che le direttive europee, ai sensi dell’art. 288 TFUE, stabiliscono obblighi di attuazione a carico degli Stati. Di conseguenza, sulla base di un ragionamento logico-formale sviluppato dalla Corte di giustizia per la prima volta nella sentenza Ratti (5 aprile 1979, causa 148/78) uno Stato non potrà opporre il proprio inadempimento ad un individuo che invochi diritti derivanti da una direttiva non attuata.
Sulla base di tale ragionamento, la Corte di giustizia ha non solo escluso gli effetti orizzontali di una direttiva. Essa ha, altresì, limitato l’invocabilità degli effetti diretti di una direttiva nei rapporti giuridici fra Stati e individui. Questi ultimi potranno trarre dalla direttiva posizioni soggettive compiute per opporsi all’applicazione di una legislazione nazionale difforme. Di converso, lo Stato, il quale avrebbe dovuto attuare la direttiva e non lo ha fatto, non potrà invocare la direttiva contro soggetti non tenuti alla sua applicazione.
Ne consegue che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein ben potrebbe essere invocato, sia di fronte alla pubblica amministrazione che di fronte al giudice nazionale, da un operatore economico il quale intendesse imporre l’assegnazione una concessione demaniale di servizi attraverso una procedura di selezione competitiva. In risposta all’invocazione della direttiva il giudice avrebbe avuto il dovere di disapplicare le norme italiane le quali, invece di attuare la direttiva e consentire a tale operatore di concorrere all’assegnazione della concessione, hanno disposto una proroga automatica e generalizzata a favore dei concessionari uscenti. Tale costruzione si fonda sull’argomento, sempre ripetuto nella giurisprudenza della Corte, che lo Stato che venga meno al proprio obbligo di attuare una direttiva, non possa trarne vantaggio (giuridico) dal proprio inadempimento. A più forte ragione, tale argomento dovrebbe valere nei confronti di uno Stato che non solo non adempie, ma, al contrario, adotta una legislazione manifestamente difforme rispetto ai propri obblighi.
Di converso, la disapplicazione delle leggi italiane in un giudizio nel quale un operatore invochi la legge interna per opporsi alla pretesa dell’amministrazione statale di mettere a bando una concessione soggetta a proroga farebbe ricadere sui concessionari le conseguenze pregiudizievoli della mancata attuazione della direttiva da parte dello Stato italiano.
Né tale situazione può essere rovesciata alla luce della qualificazione dei concessionari come gestori di poteri pubblici ai sensi della dottrina Foster (sentenza 12 luglio 1990, causa C-188/89). Tale dottrina, precisata recentemente (sentenza Farrell, 10 ottobre 2017, causa C-413/15), è tesa ad evitare che gli Stati, attraverso il trasferimento di funzioni latamente pubbliche a favore di organismi privati, possano sottrarsi all’invocazione degli effetti diretti di una direttiva da parte di individui. Essa, di conseguenza, opera solo allorché un individuo invochi gli effetti diretti di una direttiva nei confronti di un organismo gestore di pubblici poteri e non consente a uno Stato, unico abilitato all’attuazione della direttiva, di invocare una direttiva inattuata nei confronti di tali organismi.
Conviene ora chiedersi se questa conclusione possa mutare se, invece di riferire gli effetti diretti del divieto di proroga alla direttiva Bolkenstein, essi venissero riferiti all’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. In effetti, si potrebbe pensare che la direttiva, la quale ha proprio lo scopo di attuare la norma primaria del trattato, ne possa mutuare gli effetti. Come è noto le norme dei trattati, qualora dotati di chiarezza e precisione, non incontrano il limite della verticalità e unidirezionalità proprio degli effetti diretti delle direttive.
Tale effetto di mutuazione non appare però del tutto certo. Anzi, proprio nella sentenza Promoimpresa la Corte ha indicato, richiamando consolidati principi giurisprudenziali, come la conformità di una normativa nazionale al diritto europeo in un settore completamente armonizzato debba essere valutata unicamente alla luce della normativa di armonizzazione e non può essere riferita direttamente alla normativa primaria. Dato che, come indicato dalla Corte nei paragrafi 61 e 62, gli articoli da 9 a 13 della direttiva Bolkenstein dispongono una armonizzazione completa, l’invocazione dell’art. 49 TFEU sarebbe consentita solo in riferimento a concessioni che non rientrano nell’ambito dell’art. 12. Né appare incongruo che l’adozione di una direttiva di armonizzazione attragga in via esclusiva il giudizio di conformità rispetto al diritto europeo. Il riferimento esclusivo alla normativa secondaria è fondato sulla constatazione che l’armonizzazione costituisce, grazie al grado di dettaglio delle sue disposizioni, la migliore tecnica normativa per la regolamentazione del mercato interno e, quindi, risulti preferibile per l’attuazione degli obiettivi dei Trattati rispetto al principio del mutuo riconoscimento, il quale riserva un ampio margine di discrezionalità alle autorità amministrative e giudiziarie degli Stati membri. Difatti, la sentenza Promoimpresa conclude che l’art. 49 TFUE può essere utilizzato dal giudice nazionale solo al di fuori dell’ambito di applicazione della Direttiva Bolkenstein.
In una linea argomentativa non considerata dalla Corte, si potrebbe bensì ritenere che l’effetto attrattivo della normativa di armonizzazione si produca solo rispetto agli obblighi più specifici formulati dalla direttiva di armonizzazione rispetto a quelli scaturenti dai trattati e non già rispetto ad obblighi negativi già formulati dai Trattati e semplicemente riaffermati dalla direttiva di armonizzazione. In tale prospettiva, l’art. 49 potrebbe essere invocato al fine di valutare la conformità di una legislazione nazionale la quale non solo non si adegui agli obblighi ulteriori della direttiva Bolkenstein, ma violi l’obbligo di non fare, il quale è fondato direttamente su tale disposizione. Nella giurisprudenza recente, tali obblighi sono stati qualificati come obblighi “di risultato precisi e incondizionati”, un ossimoro difficilmente accettabile a meno che non sia limitato, appunto, agli obblighi di non fare. Peraltro, se questa fosse stata la strada prescelta dal Consiglio di Stato, tale organo avrebbe avuto l’onere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia, la quale non si è mai espressa su tale punto con la chiarezza necessaria per sollevare i giudici nazionali di ultima istanza dall’obbligo di rinvio formulato dall’art. 267 TFUE.
4. Effetti diretti e controllo di costituzionalità delle leggi
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, un giudice nazionale che accerti l’esistenza di un irrimediabile conflitto fra una legge italiana e una direttiva non avente effetti diretti non potrà procedere alla disapplicazione della direttiva ma dovrà deferire la questione incidentale di costituzionalità alla stessa Corte. Tale principio è stato affermato nella storica sentenza Granital (n. 170 del 1984) e più volte ribadito dalla Corte costituzionale. È verosimile ritenere che tale soluzione sia stata adottata dalla Corte costituzionale sulla base del paradigma classico di una direttiva non avente effetti diretti; vale a dire una direttiva le cui disposizione non abbiano chiarezza o precisione, ma lascino un certo margine di discrezionalità agli Stati membri. In questo caso, l’ordinamento italiano sembra predisporre uno strumento di garanzia del diritto europeo che va oltre le esigenze da questo formulato.
È difficile sostenere che tale meccanismo, se pure non imposto dal diritto europeo, sia ad esso contrario. Nella situazione paradigmatica di un individuo che invochi una direttiva per opporsi a una legge nazionale confliggente, esso realizza in maniera anche più forte il principio ispiratore della intera giurisprudenza della Corte di giustizia sugli effetti diretti di una direttiva; vale a dire la piena efficacia del diritto europeo.
Questo meccanismo, tuttavia, potrebbe risultare contrario al diritto europeo in una situazione diversa, nella quale gli individui fondino le proprie posizioni soggettive in una legge nazionale contraria al diritto europeo. In tal caso, esso altererebbe il principio che consente solo agli individui, e non agli organi statali, di invocare gli effetti diretti della direttiva al fine di far valere le posizioni giuridiche di vantaggio da essa prevista. Come indica la sentenza Popławski (24 giugno 2019, Causa C-573/17) “se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un singolo”. Un eguale principio dovrebbe valere anche qualora il giudice, invece di disapplicare la direttiva, promuova la dichiarazione di incostituzionalità della legge ad essa contraria.
5. La contestualizzazione della sentenza Promoimpresa
Come spiegare, allora, alla luce di tali considerazioni, le conclusioni della sentenza Promoimpresa, la quale ha chiaramente indicato che l’art. 12 della direttiva 2006/123 “osta” a un regime di proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniale per fini turistico-ricreative?
La spiegazione più ovvia è quella che fa leva sulla osservazione che la Corte di giustizia ha semplicemente accertato l’esistenza di un conflitto normativo fra i due regimi, senza però indicarne le conseguenze giuridiche, non richieste dal giudice a quo. Al di là di tale risposta, formale ma corretta, conviene aggiungere che la disapplicazione di leggi confliggenti con norme europee aventi effetti diretti costituisce solo una delle possibili conseguenze, ancorché quella forse più vistosa, del conflitto fra leggi e direttive europee. La conseguenza maggiormente rilevante nei rapporti istituzionali è, infatti, l’obbligo dello Stato di abrogare la normativa nazionale contraria ad una direttiva, e produrre certezza giuridica per i cittadini. La Corte di giustizia ha chiarito che tale obbligo permane indipendentemente dagli eventuali effetti diretti di una direttiva. Esso permane, e anzi si rafforza, pur qualora la normativa nazionale sia disapplicata dai giudici nazionali ovvero dalla pubblica amministrazione. Ciò in quanto la presenza di una legge contraria alla direttiva costituisce un ostacolo alla uniforme applicazione della direttiva nell’ordinamento nazionale interessato. A più forte ragione, tale obbligo permane qualora la direttiva non possa produrre effetti diretti.
Di conseguenza, appare ragionevole interpretare la sentenza Promoimpresa alla luce della pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia nel senso, cioè, che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein osti, evidentemente, a una legislazione nazionale che disponga una proroga automatica e generalizzata di concessioni di servizi, ma che il compito di attuare la direttiva, eliminando la legislazione ad essa contraria, spetti agli organi centrali dello Stato, i soli sui quali incombe tale obbligo. L’inadempimento di tale obbligo potrà, di conseguenza, essere sanzionato attraverso una procedura di carattere sistemico, quale la procedura di infrazione, la quale correttamente farà ricadere sullo Stato le conseguenze della propria azione e non già sugli individui non tenuti ad attuare la direttiva.
6. I limiti del giudicato in relazione al diritto europeo
Nella seconda parte delle due sentenze, nonché nel principio di diritto, l’Adunanza plenaria indica che la disapplicazione della legge nazionale confliggente con l’art. 12 della direttiva Bolkenstein non possa trovare ostacoli nell’esistenza di un giudicato che abbia, in ipotesi, consolidato la situazione giuridica dei concessionari.
Tali conclusioni sono enunciate con molta rapidità, per modo che non è agevole identificare con esattezza il fondamento. Le due sentenze sembrano indicare che il carattere relativo dei giudicati che abbiano accertato il diritto dei concessionari si fondi su una sopravvenienza normativa data dalla sentenza Promoimpresa. Tale pronuncia avrebbe chiarito il contenuto e gli effetti del diritto europeo e, per tanto, essa costituirebbe un fatto idoneo a relativizzare l’effetto di un giudicato pronunciato in un rapporto di durata e fondato sull’equilibrio normativo preesistente.
Se tale ricostruzione fosse esatta, occorrerebbe interrogarsi sulla sua compatibilità con i principi e le regole dell’ordinamento europeo. Vengono in rilievo, in particolare, due ordini di obiezioni.
Il primo è dato dalla qualificazione di una sentenza interpretativa della Corte di giustizia come una sopravvenienza normativa. In una giurisprudenza meno recente, la Corte di giustizia ha, invero, accolto l’idea che talune conseguenze giuridiche possano essere prodotte nell’ordinamento europeo ad opera di una propria sentenza interpretativa. Ad esempio, nella sentenza Roquette frères (28 settembre 2000, causa C-88/99), la Corte ha indicato, precisando la giurisprudenza Emmott (21 luglio 1991, causa C-208/90), che il legislatore nazionale non può far decorrere il termine per la decadenza per l’invocazione di diritti previsti da una direttiva prima della data in cui la Corte ha accertato con sentenza interpretativa la natura di effetti diretti di tale direttiva. Tale precisazione è stata operata, tuttavia, alla luce della premessa che solo gli individui potessero invocare la direttiva a proprio vantaggio. La produzione di conseguenze giuridiche da parte di una sentenza interpretativa è, quindi, limitata all’ambito applicativo della dottrina degli effetti diretti delle direttive. È difficile ritenere che una sentenza interpretativa possa fuoriuscire da tale ambito e produrre effetti pregiudizievoli verso gli individui che le direttive non possono produrre.
Un secondo ordine di considerazioni si pone su un piano più generale e concerne l’esistenza stessa di una dottrina della sopravvenienza normativa come limite al giudicato nazionale. Le celebri dottrine Lucchini (18 luglio 2007, causa C-119/05) e Kühne (13 gennaio 2004, causa C-453/00), menzionate dalle due sentenze dell’Adunanza plenaria, sono imperniate sull’idea che le norme nazionali che stabiliscono la definitività delle decisioni giudiziarie e amministrative possano venir meno solo in circostanze eccezionali, legate alla violazione dell’obbligo dei giudici nazionali di promuovere un rinvio pregiudiziale di validità (Lucchini) ovvero di interpretazione (Kühne) alla Corte di giustizia (sia consentito rinviare, in proposito, al mio libro Il diritto dell’integrazione europea, IV ed., Torino, 2020, p. 351). Nella vicenda Lucchini, una sentenza definitiva che aveva accertato il diritto di un individuo a ricevere un aiuto di Stato contrario alla normativa europea sarebbe dovuto venir meno in quanto il giudice aveva definito il giudizio senza l’applicazione di una decisione dell’Unione sulla compatibilità dell’aiuto con il mercato comune e senza promuovere un rinvio pregiudiziale di validità obbligatorio ai sensi della dottrina Foto Frost. In Kühne il carattere definitivo di una decisione della pubblica amministrazione sarebbe dovuto venir meno sol perché confermato dal giudice di ultima istanza, il quale avrebbe dovuto sollevare un rinvio pregiudiziale di interpretazione, ai sensi della dottrina CILFIT, al fine di consentire la revisione di un orientamento interpretativo della Corte di giustizia.
In ambedue le ipotesi, il venir meno di un giudicato formatosi in difformità dal diritto europeo non solo non era legato ad una sopravvenienza normativa. Al contrario, esso è dipeso dalla circostanza che i giudici non avessero promosso tale “sopravvenienza”, vale a dire una sentenza della Corte di giustizia che avrebbe ben potuto impedire la formazione di tale giudicato a causa del suo contrasto con il diritto europeo.
Analogamente, nella vicenda in esame, la circostanza che l’Adunanza plenaria abbia adottato soluzioni innovative alla luce del diritto europeo senza promuovere un rinvio pregiudiziale potrebbe indebolire l’autorità formale e l’autorevolezza sostanziale del suo principio di diritto.
* Vedi su questa Rivista, i precedenti interventi di F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità e di R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 8) Il prigioniero coreano, recensione al film di Dino Petralia
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema, si veda l'Editoriale]
Tra crudezza e rivelazione l’opera di Kim Ki Duk racconta il muro intercoreano nella travagliata vicenda di un povero pescatore del nord, Nam Chul-Woo, rassegnatamente sereno nella sua umilissima vita personale e familiare, trovatosi a valicare involontariamente il confine d’acqua tra le due Coree per un guasto all’elica della sua barca (“È tutto ciò che possiedo”, dirà ad una sentinella del regime, finendo per sconfinare così in un mondo tanto opposto quanto ignoto).
Un muro segnato nell’acqua dunque, tanto più insidioso per il rischio di trasgressione quanto così visibile ai fucili che daranno poi termine alla storia e alla vita dell’onesto pescatore. Onesto si! e null’altro, dato che le colpe di marca ideologica delle quali da una parte e dall’altra sarà fatto bersaglio prescindono dai fatti, fondandosi loro stesse sulla feroce matrice del pregiudizio e del preconcetto ideologico.
Infatti, catturato come spia dai sudcoreani per quell’improvvido sconfinamento Nam viene sottoposto a torture verbali e fisiche nell’intento di guadagnare un’ammissione confessoria da tenere luogo di condotte non provate e del tutto inesistenti; restituito infine al suo Nord, anche lì il pescatore viene trattenuto dalle guardie del regime e costretto a sottoporsi ad un febbrile itinerario inquisitorio nella convinzione di un avvenuto tradimento.
Una doppia prigionia, per opposte ragioni ma con un’unica verità volutamente ignorata da un verdetto unanime in entrambe le sponde, sia nel mezzo che nel fine; una prigionia sospettosa e violenta la sudcoreana, neppure scalfita da quella vibrazione di apparente contraddittorio che a tratti l’esperto regista fa emergere nelle figure del superiore gerarchico e del giovane poliziotto, affidatario del povero pescatore e suo ostinato protettore; una prigionia altrettanto violenta e letale quella nordcoreana, edificata sul bisogno di mantenersi immuni da ogni contaminazione capitalistica, sia pure episodica e casuale.
Il dipinto dei contrasti tra le due realtà bene risalta nell’efficace sintesi comportamentale di Nam e del suo tenace rifiuto di aprire gli occhi al cospetto di una scena urbana – quella del centro di Seul - della quale avrebbe dovuto poi rendere giustificazione al suo regime d’appartenenza non appena di rientro al nord; ed anche nell’incredulo suo disorientamento, una volta aperti gli occhi per necessità di movimento, innanzi ad un mondo troppo eterogeneo e distante dal suo modello esistenziale, così diverso da far rischiare una seduzione di cui in verità sembra consentito cogliere un qualche flebile cenno.
Sullo sfondo tutta l’insensatezza e dissennatezza di un contrasto ideologico armato sul medesimo territorio asiatico, microcosmo filmico del duplice asse capitalistico e totalitario che ancora oggi nel mondo alimenta i suoi seguaci e i suoi muri e che l’abile Kim, tutt’altro che debuttante, proietta con formidabile maestria nella scena finale del doppio orsacchiotto - consunto e sdrucito quello del nord, colorato e semovente quello del sud - ripreso tra le mani della figlioletta di Nam che ad entrambi sorride grata quale prodromo di speranza.
Il termine dei motivi aggiunti in materia di contratti pubblici e l’incertezza della Corte Costituzionale (nota a Corte Cost. 28 ottobre 2021, n. 204) di Antonella Mirabile
Sommario. 1. Premessa: la questione del termine di impugnazione in materia di appalti pubblici. – 2. Il contesto normativo. – 3. La questione rimessa alla Corte Costituzionale e le motivazioni a sostegno del rigetto. – 4. Considerazioni conclusive.
1.- Premessa: la questione del termine di impugnazione in materia di appalti pubblici.
La Corte Costituzionale, su ordinanza di rimessione del Tar Puglia - Lecce[1], con la sentenza del 28 ottobre 2021, n. 204 è tornata ad affrontare la questione relativa al termine di impugnazione degli atti delle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici di appalto e di concessione di lavori, servizi e forniture[2].
Le questioni attinenti al termine decadenziale di impugnazione hanno, in generale, da sempre sollevato molteplici riflessioni dottrinali[3].
Con riguardo, poi, alla materia dei contratti pubblici la questione ha sollecitato molteplici pronunce[4] e l’interesse dottrinale[5] a fronte anche della accelerazione dei termini previsti per tale rito speciale.
La Consulta, con la sentenza in commento, sembra aver dato la stura all’interpretazione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12/2020, sancendone in via definitiva la conformità all’articolo 24 della Costituzione.
Tale pronuncia merita, tuttavia, di essere analizzata criticamente poiché, come si avrà modo di evidenziare nel prosieguo, il dato testuale dell’articolo 120, comma 5, c.p.a., oltre che la vigente disciplina sostanziale, in assenza del necessario intervento legislativo, lasciano tutt’ora aperte alcune questioni di compatibilità con il diritto europeo e, in particolare, con la direttiva 2007/66/CE, le quali vanno ad incidere non solo sugli aspetti processuali, ma anche e, soprattutto, su quelli sostanziali.
2.- Il contesto normativo.
Per comprendere appieno i termini della questione esaminata dalla Consulta nella sentenza in commento è necessario preliminarmente chiarire il relativo contesto normativo.
La materia dei contratti pubblici ha una spiccata matrice europea ed è anzi pressoché la sola materia nella quale il legislatore europeo si è spinto a disciplinare non solo gli aspetti sostanziali, ma anche quelli processuali.
Con le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE (le c.d. “direttive ricorsi”), così come modificate dalla direttiva 2007/66/CE e dalla direttiva 2014/23/UE, il legislatore europeo è andato a disciplinare, in tale materia, gli aspetti relativi alla proposizione di ricorsi al fine precipuo di garantirne l’effettività della tutela e, in questo modo, assicurare il rispetto della normativa sostanziale da parte degli Stati membri, dando di fatto vita ad una giurisdizione di tipo oggettivo[6].
Uno degli elementi centrali nella disciplina europea, tanto sostanziale quanto processuale, è rappresentato dalla necessità di garantire un notevole aumento delle garanzie di trasparenza e non discriminazione in tale materia. Per far sì che tali garanzie avessero effetti concreti, il legislatore europeo ha ritenuto che dovessero essere previsti mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di loro violazione[7].
La questione relativa al termine per proporre ricorso, in particolare, è stata presa in esame dalla direttiva 2007/66, soprattutto con riferimento alla necessità di avere un termine certo per superare una delle criticità riscontrate nell’applicazione delle direttive ricorsi, vale a dire «l’assenza di un termine che consenta un ricorso efficace tra la decisione d’aggiudicazione di un appalto e la stipula del relativo contratto»[8].
La previsione di un termine certo per proporre il ricorso, difatti, ha una valenza non solo processuale, ma anche e soprattutto di natura sostanziale.
Proprio a partire dalla riforma del 2007, per ovviare agli effetti lesivi e irreversibili della immediata stipulazione del contratto a seguito dell’aggiudicazione, è stato introdotto il c.d. stand still period[9], vale a dire un termine «sospensivo»[10] tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto. Questo termine dilatorio è stato previsto proprio per «concedere agli offerenti interessati sufficiente tempo per esaminare la decisione d’aggiudicazione dell’appalto e valutare se sia opportuno avviare una procedura di ricorso»[11].
Il termine per proporre il ricorso, sia nelle direttive, sia nella giurisprudenza della Corte di Giustizia[12], dovrebbe cominciare a decorrere dalla comunicazione dell’aggiudicazione solo se tale comunicazione contiene le motivazioni specifiche che hanno determinato tale scelta, di modo che l’interessato possa rendersi conto degli eventuali vizi della procedura e dell’aggiudicazione e, quindi, decidere in maniera consapevole se impugnare o meno la decisione ad esso sfavorevole.
Nell’ordinamento italiano, fino al recepimento della direttiva del 2007, con il d.lgs. 53/2010, ai sensi dell’art. 23-bis della l. Tar, anche al rito abbreviato per le controversie inerenti le procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture si applicava il termine di impugnazione generale di 60 giorni, decorrenti dalla notifica del provvedimento ovvero dal momento della piena conoscenza o, nel caso degli atti per i quali non era richiesta la notifica individuale, dalla scadenza del termine della pubblicazione nell'albo.
Con il recepimento[13], ad opera del d.lgs. 53/2010, della direttiva del 2007 è stato modificato l’articolo 245 del d.lgs. 163/2006 (di seguito “primo codice appalti”) sugli strumenti di tutela. Con tale modifica, pur continuandosi ad applicare il rito abbreviato di cui all’art. 23-bis della l. Tar, veniva prevista, al comma 2-quinquies, la riduzione del termine di impugnazione a 30 giorni, decorrenti dalla comunicazione degli atti ai sensi dell’art. 79 del medesimo codice ovvero con riferimento all’impugnazione dei bandi o degli avvisi, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di cui all’art. 66, comma 8.
Il d.lgs. 53/2010, peraltro, introduceva proprio all’art. 79 una forma di accesso informale agli atti di gara stabilendo, al comma 5-quater[14], che i partecipanti alla gara entro 10 giorni dal ricevimento delle previste comunicazioni[15] potessero prendere visione ed estrarre copia della documentazione semplicemente recandosi presso gli uffici dell’amministrazione.
Sempre nel 2010, con il d.lgs. 104/2010 e, quindi, con l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (di seguito c.p.a.) le norme di carattere processuale sono confluite in quest’ultimo e, pertanto, per la disciplina dei giudizi in materia di contratti pubblici le disposizioni di riferimento sono confluite negli articoli 119 e 120 e seguenti, mantenendo di fatto la configurazione di un rito abbreviato comune ad altre materie con la peculiarità della riduzione del termine di impugnazione a 30 giorni[16].
Per la determinazione del dies a quo il c.p.a. rinviava e, tutt’ora rinvia, alla disciplina sostanziale delle comunicazioni e pubblicazioni di cui detto sopra, salvo il criterio residuale - «negli altri casi» - della decorrenza dalla conoscenza dell’atto.
Già in questa fase di relativa chiarezza normativa, la dottrina[17] e la giurisprudenza[18] ravvisavano delle perplessità riguardo, essenzialmente, la sussistenza di una sorta di onere di ricorrere “al buio”, vale a dire prima di avere la piena conoscenza degli eventuali vizi della procedura.
Per contemperare, quindi, la necessità di garantire l’effettività della tutela e, al contempo, la certezza del diritto, si era andata consolidando in giurisprudenza una interpretazione di tali disposizioni maggiormente garantista, la quale distingueva, per l’individuazione del termine e del dies a quo, a seconda della completezza ed esaustività della comunicazione di aggiudicazione ex art. 79 del primo codice appalti, arrivando a consentire un incremento del termine di impugnazione di massimo 10 giorni, pari ai giorni necessari per poter avere una piena conoscenza degli atti tramite l’accesso informale di cui all’art. 79, comma 5-quater[19].
Qualora, poi, l’accesso fosse stato illegittimamente rifiutato o dilazionato per causa dell’amministrazione, il termine avrebbe cominciato a decorrere solo dalla data in cui l’accesso era stato effettivamente consentito[20].
L’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 (secondo codice contratti pubblici) ha complicato ulteriormente il quadro normativo[21]. Difatti, pur abrogando integralmente il primo codice e, quindi, anche le norme alle quali l’art. 120, comma 5 c.p.a. rinviava per determinare il termine di impugnazione, il legislatore non è intervenuto a modificare tale ultima disposizione normativa in modo tale da coordinare i testi normativi e, quindi, consentire di individuare in maniera certa il termine di impugnazione e il momento della sua decorrenza.
Peraltro, a fronte del mancato coordinamento legislativo, ulteriore elemento di complicazione è venuto dal fatto che sia stata abolita dal nuovo codice la procedura di accesso informale che prima era prevista dall’art. 79, comma 5-quater[22] e che, come visto, aveva consentito alla giurisprudenza di estendere il termine di impugnazione fino a 40 giorni.
Come ormai di sovente accade, ancora una volta è stata la giurisprudenza a doversi fare carico delle mancanze del legislatore[23].
Al riguardo, si sono venuti a formare due distinti ed opposti orientamenti giurisprudenziali. Un primo, rimanendo nel solco della giurisprudenza che si era consolidata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016, ha ritenuto che il richiamo all’art. 79 del primo codice dei contratti dovesse, ora, intendersi rivolto all’art. 76 e che a fronte del diverso contenuto delle due norme comunque si sarebbe dovuta riconoscere ai ricorrenti una dilazione temporale da determinarsi in 15 giorni, quale termine previsto dal nuovo codice per la comunicazione delle ragioni dell’aggiudicazione su istanza dell’interessato[24].
Il secondo orientamento, al contrario, ha ritenuto che l’abrogazione dell’art. 79 del primo codice abbia reso irrilevante il richiamo ad esso contenuto nell’art. 120, comma 5, c.p.a.. Questo avrebbe comportato che il termine di 30 giorni dovrebbe decorrere dalla comunicazione di aggiudicazione o, in sua mancanza, dalla conoscenza dell’aggiudicazione che l’interessato abbia acquisito aliunde. L’effettività della tutela, secondo questa interpretazione, sarebbe fatta salva dalla possibilità di proporre motivi aggiunti qualora la conoscenza dei vizi dell’aggiudicazione sia avvenuta in un momento successivo rispetto alla comunicazione[25].
Nel quadro, tutt’altro che chiaro determinato dal mancato necessario coordinamento legislativo, venivano chiamate - tra l’altro a distanza di un mese l’una dall’altra - a sciogliere tale questione sia la Corte costituzionale sia l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[26].
L’Adunanza Plenaria, pur segnalando al Consiglio dei Ministri la necessità di una modifica legislativa, si è comunque pronunciata con la sentenza del 2 luglio 2020, n. 12 andando a delineare i principi di diritto da seguire nell’interpretazione dell’immodificato disposto dell’art. 120, comma 5 c.p.a., i quali di fatto rimangono nel solco dell’interpretazione giurisprudenziale antecedente al d.lgs. 50/2016.
In particolare, la Plenaria ha affermato i seguenti principi di diritto: «a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016;
b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale;
c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;
d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione;
e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati».
3.- La questione rimessa alla Corte Costituzionale e le motivazioni a sostegno del rigetto.
Per quanto riguarda la Corte Costituzionale la sentenza 28 ottobre 2021, n. 204, oggetto di commento in questa sede, è stata sollecitata dal Tar Puglia, Lecce, con particolare riferimento al termine per la proposizione di motivi aggiunti.
Il Tar Lecce ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 5, c.p.a. nella parte in cui tale norma faceva (e fa tutt’ora) decorrere il termine di trenta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti dalla ricezione della comunicazione dell’aggiudicazione di cui all’art. 79 del d. lgs. n. 163/2006, per contrasto con il diritto di difesa e il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 della Costituzione, «poiché equiparando il termine per la proposizione dei motivi aggiunti a quello per la proposizione del ricorso, impedisce di fatto la tutela giurisdizionale della parte ricorrente avverso i vizi di legittimità del provvedimento di aggiudicazione rivelati dagli atti e dai documenti successivamente conosciuti».
Nel caso oggetto di giudizio, difatti, la società ricorrente, a seguito della comunicazione di aggiudicazione di un appalto di servizi a favore della controinteressata, datato 29 maggio 2019, impugnava tempestivamente, con ricorso ex art. 120 c.p.a, gli esiti di tale gara.
Fin dal 30 maggio 2019 la ricorrente chiedeva di accedere agli atti di gara, accesso che la stazione appaltante consentiva solo il 15 luglio successivo.
A seguito dell’accesso, la società ricorrente proponeva ricorso per motivi aggiunti notificandolo in data 31 luglio 2019.
Tali motivi aggiunti, secondo il Tar Lecce, in applicazione del disposto, ritenuto incostituzionale, dell’art. 120, comma 5, c.p.a., sarebbero stati tardivi poiché anche per essi il dies a quo di decorrenza del termine di impugnazione sarebbe stato il 29 maggio, quale data della comunicazione di aggiudicazione.
Il Tar, difatti, riteneva di essere vincolato all’applicazione di tale disposizione nell’univoco senso espresso dalla lettera della stessa, la quale riconnetterebbe la decorrenza del termine, sia per il ricorso principale sia per i motivi aggiunti, alla sola ricezione della comunicazione di aggiudicazione inviata agli operatori concorrenti alla gara ai sensi dell’abrogato art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006.
Tuttavia, dal momento che i vizi da porre a base dei motivi aggiunti ben potrebbero essere conosciuti solo in data successiva a tale ricezione, in forza dell’accesso agli atti di gara, tale regime processuale sarebbe palesemente in contrasto con l’art. 24 Cost., perché, comportando la decorrenza del termine per la proposizione dei motivi aggiunti in un momento antecedente alla effettiva cognizione del vizio, impedirebbe “di fatto” la tutela giurisdizionale.
Il giudice a quo riteneva di non poter operare una interpretazione costituzionalmente orientata dal momento che «se è vero che il giudice deve interpretare le leggi in conformità ai principi costituzionali, applicando direttamente la Costituzione, quando ciò sia tecnicamente possibile - e, quindi, potendo (o meglio dovendo) trovare un significato meno prossimo alla “lettera” della legge ove questo assicuri maggiore conformità alla “lettera” e allo “spirito” della Costituzione e rimettendo la decisione alla Corte costituzionale ove non sia possibile un’interpretazione “adeguatrice” - ciò non significa, però, che la cosiddetta “lettera” possa essere travalicata attraverso l’interpretazione, al punto di pervenire ad una vera e propria “disapplicazione” del testo normativo».
La Corte Costituzionale, tuttavia, ha ritenuto non fondata la questione sollevata dal Tar Lecce.
In primo luogo, ha ritenuto che non sussistesse alcuno ostacolo alla praticabilità dell’interpretazione adeguatrice di tale disposizione, come dimostrato dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Difatti, il richiamo all’articolo 79 del d.lgs 163/2006 contenuto al comma 5, dell’art. 120 c.p.a., oggi da riferirsi all’art. 76 del d.lgs. 50/2016, non sarebbe riferito solo alla comunicazione di aggiudicazione, ma anche a tutte le informazioni successive. Il rinvio al testo integrale della disposizione e, dunque anche alle attività conseguenti alla (eventuale) richiesta di accesso, consentirebbe di «ricondurre nel cerchio delle interpretazioni compatibili con la lettera della legge, secondo il contesto logico-giuridico al quale pertiene la norma, la lettura che impone una dilazione temporale, correlata all’esercizio dell’accesso nei quindici giorni previsti attualmente dall’art. 76 del vigente “secondo” cod. dei contratti pubblici (e, in precedenza, ai dieci giorni indicati invece dall’art. 79 del “primo” cod. contratti pubblici)»[27].
Sia consentito, tuttavia, rilevare sin da ora, come la Corte Costituzionale non abbia correttamente letto la pronuncia della Plenaria[28], laddove è stato evidenziato dai giudici di Palazzo Spada come l’articolo 76 del nuovo codice dei contratti non preveda una forma di accesso informale ai documenti, bensì la mera comunicazione, su richiesta scritta dell’offerente, della motivazione della decisione assunta.
Il termine di 15 giorni contenuto nell’art. 76, comma 2 è stato, difatti, creativamente[29] e in maniera non del tutto chiara[30] utilizzato dalla Plenaria per individuare, da un lato, un termine entro il quale l’amministrazione dovrebbe rispondere all’accesso informale ex art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006 , per poter conseguentemente applicare la dilazione del termine di impugnazione ovvero per individuare comportamenti dell’amministrazione aggiudicatrice idonei ad impedire l’accesso agli atti e, quindi, idonei a far decorrere il termine solo dal momento della conoscenza di tali atti e, dall’altro lato, sembra essere stato utilizzato per individuare il termine entro il quale l’operatore economico debba instare per accedere agli atti.
La Consulta ha, poi, affermato che contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo l’abrogazione dell’articolo 79 non rappresenta un ostacolo all’applicabilità dell’articolo 76 dal momento che «la lettera della legge, per la parte in cui dispone un rinvio ad una disposizione successivamente abrogata, non è un ostacolo, ma al contrario il punto di partenza che onera l’interprete del compito di assegnare alla norma il significato che essa acquisisce, a seguito dell’abrogazione della disposizione oggetto di rinvio»[31].
Il riferimento all’articolo 76 sarebbe comunque da riferirsi secondo la Corte non solo al secondo comma, ma anche al primo. Si confermerebbe in questo modo l’articolata interpretazione prospettata dall’Adunanza Plenaria secondo la quale il termine inizierebbe a decorrere dalla comunicazione di aggiudicazione, fatto salvo il meccanismo della dilazione temporale.
Per queste ragioni non vi sarebbe, contrariamente a quanto affermato dal giudice a quo, «alcun impedimento letterale o logico ad adottare l’interpretazione della norma censurata propugnata dalla giurisprudenza amministrativa maggioritaria, avvallata dalla Adunanza plenaria».
La Corte, superato lo “scoglio” dell’impedimento letterale – che a giudizio di chi scrive avrebbe dovuto essere maggiormente approfondito e della cui superabilità si dubita fortemente[32] - è venuta ad esaminare la conformità al disposto dell’art. 24 Cost. del termine di proposizione dei motivi aggiunti.
A questo proposito, la Consulta ha osservato che «prevedere che il termine di decadenza per proporre i motivi aggiunti maturi, nonostante il vizio non fosse conoscibile mediante l’impiego della ordinaria diligenza, comporterebbe una arbitraria e irragionevole compressione del diritto di agire (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2019 e n. 94 del 2017)».
Una previsione di questo tipo sarebbe in contrasto anche con il diritto europeo il quale invece «esige che il termine per proporre ricorso decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della illegittimità che intende denunciare (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 28 gennaio 2010, in causa C-406/08, Uniplex, UK, Ltd, e ordinanza 14 febbraio 2019, in causa C-54/18, Cooperativa Animazione Valdocco S.C.S. Impresa sociale Onlus), formulando così una regola che, in tale settore, concerne sia il ricorso principale, sia la proposizione di motivi aggiunti».
La Corte ha, quindi, ritenuto che l’interpretazione dell’art. 120, comma 5 avallata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sia compatibile con l’art. 24 Cost. e con il diritto UE poiché «assicura, mediante il meccanismo della cosiddetta dilazione temporale per i casi di accesso tempestivamente soddisfatto dall’amministrazione, che il termine per proporre i motivi aggiunti, pur decorrendo, per l’ipotesi prevista dalla disposizione censurata, dalla data di comunicazione dell’aggiudicazione, sia ugualmente pieno.
Parimenti, per il caso in cui l’amministrazione, invece, neghi l’accesso o lo procrastini con condotte
dilatorie, il termine, secondo tale lettura esegetica, decorre, quanto ai vizi non percepibili innanzi, dalla data di effettiva conoscenza degli atti di gara, sicché con ciò si assicura alla parte ricorrente di poter usufruire dei trenta giorni assegnati dall’art. 120 cod. proc. amm. per articolare le proprie censure in giudizio».
4.- Considerazioni conclusive.
Il giudizio sulla pronuncia in commento non può essere di certo positivo.
Essa rappresenta l’ennesima occasione persa per modificare una norma assolutamente non chiara e del pari per sanzionare un legislatore non solo inerte, ma di fatto assolutamente non intenzionato ad intervenire per rendere l’imprescindibile coordinamento legislativo a distanza di ormai ben 5 anni dalla avvenuta abrogazione del d.lgs. 163/2006 ad opera del d.lgs. 50/2016.
Difatti, come ricordato, il Consiglio di Stato, ha doverosamente segnalato al Consiglio dei Ministri tale mancanza di coordinamento, ai sensi dell’art. 58 del R.D. 444/1942[33], evidenziando la necessità che venisse disposta «una modifica legislativa ispirata alla necessità che vi sia un ‘sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile’, disciplinato dalla legge con disposizioni di immediata lettura da parte degli operatori cui si rivolgono le direttive dell’Unione Europea»[34]. Tuttavia, a distanza di più di un anno dalla segnalazione del Consiglio di Stato e a fronte di molteplici interventi normativi (l’ultimo dei quali con d.l. 77/2021 c.d. “semplificazioni bis”, convertito, con modificazioni, nella legge 108/2021), intervenuti sia sulla disciplina sostanziale di cui al d.lgs. 50/2016 sia su quella processuale, risulta evidente l’intento del legislatore di scoraggiare i ricorsi in materia di contratti pubblici, anche sotto il profilo dei termini di impugnazione[35].
Il termine di impugnazione di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., nonostante e anche a causa dell’interpretazione creativa del giudice amministrativo, continua ad essere tutt’altro che preciso, chiaro e prevedibile come invece richiederebbe la pacifica giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo la quale - come correttamente rilevato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato - «gli Stati membri hanno l’obbligo di istituire un sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile, onde consentire ai singoli di conoscere i loro diritti ed obblighi (Corte di Giustizia, 14 febbraio 2019, in C-54/18, punto 29; 7 novembre 1996, in C-221/94, punto 22; 10 maggio 1991, in C-361/88)».
Nell’interpretazione dell’Adunanza Plenaria n. 12/2020, così come avallata dalla Corte Costituzionale, né il termine stesso né il momento da cui tale termine comincerebbe a decorrere si può dire chiaro, preciso o prevedibile.
A seconda del comportamento più o meno diligente delle parti il termine di impugnazione può, difatti, variare dai 30 ai 45 giorni.
L’art. 76 del nuovo codice dei contratti pubblici, a differenza dell’art. 79 del primo codice[36], non prevede un contenuto minimo della comunicazione di aggiudicazione né, tantomeno, un termine entro il quale esercitare l’accesso informale alla documentazione di gara.
Ne consegue che, secondo l’interpretazione accolta dal Consiglio di Stato e dalla Corte Costituzionale, il termine di 30 giorni comincerà a decorrere dalla comunicazione di aggiudicazione solo se l’amministrazione, pur in assenza di un referente normativo, sarà stata autonomamente diligente nel rendere una comunicazione quanto più completa possibile e, parimenti, se sarà stata altrettanto diligente nel pubblicare i propri atti sul profilo committente, così come disposto dall’art. 29.
In tutti gli altri casi, che, ovviamente, come accade nel nostro sistema sono e saranno la norma, il termine sarà dilazionato di al massimo 45 giorni, senza che tuttavia ciò sia chiaramente evincibile dalla disposizione legislativa.
Il termine dilazionato di 45 giorni, nell’interpretazione in commento, sembrerebbe poter essere concesso agli operatori economici solo nel caso in cui questi si attivino tempestivamente per accedere agli atti[37].
Non è chiaro, però fino a quando possa considerarsi tempestiva l’istanza d’accesso né sotto quale forma debba essere presentata.
Non vi è norma alcuna che preveda il termine entro il quale gli interessati debbano richiedere di accedere alla documentazione di gara come, invece, era previsto nella vigenza dell’art. 79 e risulta poco chiara anche la statuizione della Plenaria sul punto, la quale sembrerebbe rinviare al termine di 15 giorni di cui all’art. 76, comma 2[38]. Tale termine, tuttavia, nella chiara lettera della disposizione è imposto, più che all’operatore economico, all’amministrazione per fornire le (sommarie) informazioni ivi elencate.
In ordine, poi, alla effettiva praticabilità della soluzione accolta dalla Plenaria, secondo la quale a seguito della mancata previsione di un accesso informale agli atti di gara si debbano applicare le disposizioni generali sull’accesso informale di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006[39], si deve considerare che tale disposizione esclude la possibilità dell’accesso informale nel caso in cui siano individuabili dei controinteressati, prevedendo che l’amministrazione, in questi casi, inviti l’interessato a presentare una richiesta formale di accesso.
Risulta evidente, quindi, come tale disposizione non possa applicarsi in pressoché nessun caso in subiecta materia, poiché la documentazione idonea a consentire la valutazione circa la proponibilità o meno del ricorso – e a cui fa riferimento la stessa Plenaria, poiché non soggetta a pubblicazione ai sensi dell’art. 29 – è generalmente rappresentata dalla documentazione di gara o dalle giustificazioni rese in sede di verifica di anomalia dell’offerta dall’aggiudicatario e, eventualmente, da altri concorrenti.
Le stazioni appaltanti, qualora venga loro richiesto di accedere in maniera informale, non potranno fare altro che invitare gli interessati a presentare una istanza di accesso formale ai sensi dell’art. 53 del codice per il quale, tuttavia, l’amministrazione ha, quale termine di riscontro, quello generale di 30 giorni di cui all’art. 25 della l. 241/1990.
In tali casi, potrebbe non essere applicabile il termine dilazionato di ulteriori 15 giorni, così come vorrebbe la giurisprudenza creativa del Consiglio di Stato. Questo poiché, salvo che gli operatori economici non facciano immediatamente accesso agli atti, non ci sarebbero da un punto di vista tecnico i 15 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione.
Difatti, la stazione appaltante, una volta ricevuta l’istanza di accesso – che dovrà necessariamente essere formale – dovrà, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006, comunicare ai controinteressati la presentazione di tale richiesta. I controinteressati avranno, a loro volta, 10 giorni per opporsi all’accesso motivando e comprovando che le informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima costituiscono segreti tecnici o commerciali.
Solo in caso di mancata opposizione, quindi trascorsi già almeno 10 giorni dalla istanza di accesso, l’amministrazione potrà ostendere la documentazione richiesta.
Viceversa, l’amministrazione dovrà valutare, facendo così trascorrere ulteriore tempo, l’effettiva sussistenza dei rilevati segreti tecnici o commerciali e, quindi, o negare l’accesso ovvero consentirlo solo con riferimento ai documenti nei quali non sono contenuti tali segreti tecnici o commerciali.
In questo modo, gli operatori economici vengono, di fatto, onerati a richiedere immediatamente l’accesso agli atti per poter realmente fruire della dilazione temporale riconosciuta dalla giurisprudenza.
Dal momento, poi, che la giurisprudenza amministrativa sembra aver collegato la decorrenza del termine di trenta giorni dal momento di effettivo accesso agli atti al comportamento tenuto dall’amministrazione, nei casi in cui l’accesso avvenga dopo più di 15 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione (e quindi non si possa applicare il termine dilazionato), per individuare il momento di decorrenza del termine dovrà valutarsi caso per caso se il comportamento tenuto dall’amministrazione sia da considerarsi dilatorio o diligente, con tutto ciò che ne comporta in termini di certezza.
In conseguenza di ciò, qualora non siano riscontrabili vizi della procedura né dalla comunicazione di aggiudicazione né dagli atti pubblicati nel profilo committente ai sensi dell’art. 29, gli operatori economici, nell’incertezza di quale possa essere l’effettivo termine di impugnazione, potrebbero sentirsi costretti, al fine di non decadere dalla possibilità di impugnare gli atti di gara, a dover esperire, ancora una volta, un ricorso “al buio”.
La Plenaria rispetto a tale questione è stata abbastanza tranchant nell’escludere la necessaria previa proposizione di un ricorso “al buio”.
Tuttavia, anche in relazione a tale aspetto ha affermato in maniera non chiara che rileverebbe il «tempo necessario per accedere alla documentazione presentata dall’aggiudicataria, ai sensi dell’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’», il quale, tuttavia, come detto sopra, stando al tenore letterale di tale disposizione, non sarebbe compatibile con la dilazione massima di 15 giorni garantita giurisprudenzialmente.
Ulteriore profilo di incompatibilità con il diritto europeo è, a parere di chi scrive[40], rappresentato dal mancato coordinamento del termine creato giurisprudenzialmente con quello di stand still sostanziale.
La direttiva 2007/66, come ricordato al paragrafo 2, ha collegato in maniera pressoché inscindibile il termine per presentare ricorso al termine dilatorio tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto (c.d. stand still).
E questo era proprio il perno della riforma del 2007[41].
Il quadro attuale, delineato dal mancato intervento legislativo e dalla giurisprudenza creativa del Consiglio di Stato, ha comportato e comporta un disallineamento tra il periodo di stand still, individuato dall’art. 32, comma 9 del nuovo codice appalti in 35 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione e l’incerto termine di impugnazione che, come abbiamo visto, può arrivare anche a 45 giorni (se non oltre in caso di comportamento dilatorio dell’amministrazione).
Questo comporta che trascorsi 35 giorni l’amministrazione, salvo che non provveda prima in via d’urgenza, ben possa sottoscrivere con l’aggiudicatario il contratto, con tutto ciò che ne potrebbe derivare in termini di effettività della tutela.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra non si può, pertanto, dire che la sentenza della Corte Costituzionale in commento abbia definitivamente chiuso la questione.
Solo un concreto intervento legislativo potrebbe sanare le incongruenze che si sono venute a creare nel nostro sistema[42].
L’intervento, tuttavia, non dovrebbe riguardare il solo articolo 120 c.p.a., ma dovrebbe andare a dare maggiore consistenza anche alle norme di carattere sostanziale.
In particolare, sarebbe auspicabile, per favorire la celerità e garantire la stabilità del rapporto nel più breve tempo possibile, l’individuazione puntuale della forma e degli elementi essenziali della comunicazione di aggiudicazione.
Inoltre, a fronte della digitalizzazione delle gare, per tutelare l’interesse degli eventuali concorrenti pretermessi di esaminare la documentazione della aggiudicataria e, quindi, consentigli di assicurarsi una rapida piena conoscenza degli eventuali vizi della gara e, allo stesso tempo, per tutelare l’interesse alla riservatezza dell’aggiudicatario, dovrebbe essere previsto che la documentazione dell’aggiudicataria, eventualmente epurata degli elementi oggetto di obbligo di segretezza, sia obbligatoriamente pubblicata in una area riservata, accedibile tramite apposite credenziali indicate nella comunicazione di aggiudicazione[43].
Nel caso, poi, in cui la documentazione per qualsiasi motivo non sia disponibile in formato elettronico, dovrebbe essere reintrodotto un sistema di accesso informale così come previsto nell’art. 79 del primo codice dei contratti. Dovrebbe, quindi, in tali casi, essere indicata già nella comunicazione di aggiudicazione la data entro la quale è possibile accedere tramite visione ed estrazione di copia alla documentazione di gara e far quindi decorrere il termine di impugnazione da tale momento.
Il tutto, infine, dovrebbe essere coordinato con il termine di stand still.
Si dubita, tuttavia, che a questo punto, dopo l’intervenuto avvallo della Consulta, il legislatore intervenga sua sponte per sanare le incongruenze del sistema.
Probabilmente ormai solo l’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea potrà sollecitare il nostro legislatore insipiente ed inerte.
****
[1] Tar Lecce, sez. III, ordinanza 2 marzo 2020, n. 297.
[2] L’ultima pronuncia della Corte Costituzionale sui termini di impugnazione in materia di contratti pubblici aveva avuto ad oggetto il rito super-accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis c.p.a., sentenza 18 dicembre 2019, n. 271.
[3] In letteratura sul tema si vedano, tra gli altri, E. Cannada Bartoli, Decorrenza dei termini e possibilità di conoscenza dei vizi, in Foro amm., 1961, I, 1085; S. Baccarini, La comunicazione del provvedimento amministrativo tra prassi e nuove garanzie, in Dir. proc. amm., 1994, 1, 8; V. Caianiello, voce Termini, III) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., vol. XXXV, Roma, 1997, 1; R. Politi, Decorrenza del termine per l'impugnazione del provvedimento in sede giurisdizionale e conoscenza della motivazione dell'atto: spunti di riflessione, in TAR, 1999, 2, 133; R. Damonte, Conoscenza del provvedimento amministrativo e termini di proposizione del ricorso al giudice amministrativo, in Riv. giur. edil., 2000, 1, 1135; F. Ceglio, La piena conoscenza e la decorrenza del termine per la proposizione del ricorso, in Giorn. dir. amm., 2003, 5, 495; A. Reggio D'aci, La piena conoscenza del provvedimento amministrativo e la decorrenza del termine per la sua impugnazione, in Urb. e app., 2007, 11, 1367; L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm. TAR, fasc.4, 2008, pag. 1193; D. De Pretis e F. Cortese, Stabilità e contendibilità del provvedimento amministrativo: percorsi di diritto comparato, in G. Falcon (a cura di), Forme e strumenti della tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi nel diritto italiano, comunitario e comparato, Padova, 2010, 331 ss.; G. Falcon e D. De Pretis (a cura di), Stabilità e contendibilità del provvedimento amministrativo nella prospettiva comparata, Padova, 2011, A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012; F. Saitta, Tutela risarcitoria degli interessi legittimi e termine di decadenza, in Dir. proc. amm., 2017, 1191 ss., 1219 ss.; M. Ramajoli, Riflessioni critiche sulla ragionevolezza della disciplina dei termini per ricorrere nel processo amministrativo, in Federalismi.it, 17/2018 (anche in F. Francario, M. A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 183 ss.); S. Martino, Termine di decadenza e la sua decorrenza: regole, applicazione, prospettive, in Principio di ragionevolezza, ult. cit. 223 ss..
[4] Sotto la vigenza del d.lgs. 163/2006, ex multis, si vedano ordinanza Cons. Stato, sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 790 di rimessione della questione relativa alla decorrenza del termine di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a indipendentemente dalla piena conoscenza dei plichi contenenti le offerte; Cons. Stato, Ad. plen., 20 maggio 2013, n. 14, la quale tuttavia non decideva la questione relativa ai termini in attesa della pronuncia della CGUE su analoga questione sollevata dal Tar Bari, con ordinanza 23 marzo 2013 n. 427; CGUE, Idrodinamica Spurgo, 8 maggio 2014 nella causa C-161/13. Con riferimento all’abrogato rito super accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., si vedano a titolo esemplificativo l’ordinanza di remissione alla CGUE del Tar Piemonte, Sez. I, 17 gennaio 2018, n. 88 e la conseguente sentenza Cooperativa Animazione Valdocco, CGUE, Sez. IV, 14 febbraio 2019, nella causa C-54/18; nonché le ordinanze di rinvio della questione di legittimità costituzionale del Tar Bari, Sez. III, 20 giugno 2018 n. 903 e 20 luglio 2018, n. 1097 e la conseguente sentenza della Corte Costituzionale, con sentenza 18 dicembre 2019, n. 271.
[5] Si vedano tra i più recenti M. Lipari, La decorrenza del termine di ricorso nel rito superspeciale di cui all’art. 120 co. 2-bis e 6-bis, del CPA: pubblicazione e comunicazione formale del provvedimento motivato, disponibilità effettiva degli atti di gara, irrilevanza della “piena conoscenza”; l’ammissione conseguente alla verifica dei requisiti, in www.giustizia-amministrativa.it; M.A. Sandulli, L'Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, in questa Rivista, luglio 2020; S. Rosati, La disciplina nazionale sulla decorrenza del termine di impugnazione dell'aggiudicazione, tra (in)certezze legislative e orientamenti giurisprudenziali, in Ildirittoamministrativo.it, luglio 2020; M. Santini, L'Adunanza plenaria sulla decorrenza del termine per l'impugnazione degli atti di gara, in Urb. app., 2020, 509 ss.; F. Gaspari, Decorrenza del termine per ricorrere, piena conoscenza dell'atto lesivo e giusto processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2020, 389 ss.; E. Lubrano, La decorrenza del termine nel processo-appalti (dalla conoscenza della motivazione e degli atti endoprocedimentali) dopo la Adunanza plenaria n. 12/2020: un principio da estendere a tutti i settori del processo amministrativo, in Federalismi.it, 27, 2020; M. Ferrante, Il dies a quo per l'impugnazione degli atti di gara, in Giorn. dir. amm., 2021, 90 ss.; L. Bertonazzi, La decorrenza del termine per ricorrere contro l’aggiudicazione, in Dir. proc. amm., 2021, 609 ss. Nonché, proprio con riferimento alla sentenza in commento, M.A. Sandulli, Per la Corte costituzionale non c’è incertezza sui termini per ricorrere nel rito appalti: la sentenza n. 204 del 2021 e il creazionismo normativo dell’Adunanza Plenaria, in Federalismi.it, 26, 2021.
[6] Non essendo questa la sede per soffermarsi sulla dicotomia tra giurisdizione soggettiva e giurisdizione oggettiva, sia consentito rilevare come vi sia un dibattito ancora aperto non solo a livello dottrinale, ma anche tra Corte di Giustizia e Consiglio di Stato che riguarda in maniera particolare la materia dei contratti pubblici. Si richiama a tal proposito l’ampia letteratura sul tema, con particolare riferimento alla querelle tra Corte di Giustizia e Consiglio di Stato sui ricorsi incidentali c.d. escludenti e sull’interesse strumentale. A. Romano Tassone, Sui rapporti tra ordinamento europeo ed ordinamenti statali in materia di tutela processuale, in Dir. amm., 2012, 491; B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, 99 ss. A. Bartolini, L’Adunanza plenaria ritorna sul ricorso incidentale escludente - una decisione poco europea, in Giornale Dir. Amm., 2014, 10, 932; L. Ferrara, L’Adunanza plenaria ritorna sul ricorso incidentale escludente - un errore di fondo?, ibidem, 918; E. Follieri, Individuazione negli interessi protetti dell'ordine di trattazione dei motivi reciprocamente escludenti, in Giur. it., 2014, 2255; Id., Due passi avanti e uno indietro nell'affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it., 2015, 2192; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2014, 341; M. Ramajoli, Legittimazione a ricorrere e giurisdizione oggettiva, in V. Cerulli Irelli (a cura di), La giustizia amministrativa in Italia e in Germania: contributi per un confronto, Torino, 2017; M. Silvestri, Le condizioni dell'azione nel rito in materia di contratti pubblici, in Dir. Proc. Amm., 2017, 937; F. Cortese, Amministrazione e giurisdizione: poteri diversi o poteri concorrenti?, in P.A. Persona e Amministrazione, 2/2018, 99 ss G. Tropea, Il ricorso incidentale escludente: illusioni ottiche, in Dir. Proc. Amm., 4, 2019,1083; Id., Il ricorso incidentale nel processo amministrativo, Napoli, 2007.
[7] Il considerando n. 3 direttiva 89/665/CEE afferma che «l'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un aumento notevole delle garanzie di trasparenza e di non discriminazione e che occorre, affinché essa sia seguita da effetti concreti, che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscano tale diritto»
[8] Il testo tra virgolette è relativo al considerando n. 4 della direttiva 2007/66/CE.
[9] Tra i primi commenti sulla direttiva ricorsi si vedano G. Greco, La direttiva 2007/66/CE: illegittimità comunitaria, sorte del contratto ed effetti collaterali indotti, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 5, 2008, 1029; A. Bartolini, S. Fantini, La nuova direttiva ricorsi, in Urb. e app., 2008, 10, 1093, i quali sottolineano come «il perno della nuova proposta ruota intorno alla cd. clausola stand still, consistente nell'introduzione di un termine sospensivo, operante tra il momento dell'aggiudicazione e quello della stipula del contratto: in altre parole, la possibilità di stipulare il contratto viene congelata per un certo periodo di tempo decorrente dal momento dell'aggiudicazione. In tal modo viene data la possibilità, alle imprese che si ritengono lese nelle proprie situazioni soggettive, di avviare utilmente una procedura di ricorso in una fase in cui le violazioni possono essere ancora corrette. Ad assicurare detto enforcement viene introdotto un articolato sistema sanzionatorio (privazione degli effetti del contratto e sanzioni alternative), da irrogare nel caso in cui le amministrazioni e gli enti aggiudicatori procedano alla stipula del contratto nel periodo di stand still oppure all'affidamento diretto al di fuori delle ipotesi consentite dal diritto europeo dei contratti».
[10] Previsto dall’art. 2-bis della direttiva 89/665/CE, così come modificata dalla direttiva 2007/66/CE. A tal proposito, pur se la traduzione italiana parla di «termine sospensivo», sarebbe stato preferibile parlare piuttosto di termine dilatorio. Ad ogni modo, la direttiva del 2007 individua due tipologie di stand still, per la classificazione delle quali in termini di «sospensione sostanziale» e «sospensione processuale», cfr. A. Bartolini - S. Fantini, La nuova direttiva ricorsi, cit. In questa sede prenderemo in considerazione solo quella «sostanziale».
[11] cfr. considerando n. 6.
[12] Il riferimento è in particolare, tra le altre, alla sentenza Uniplex CGUE, sez. III, 28. 1. 2010 - causa C-406/08 nella quale è stato chiaramente statuito che: «il termine per proporre un ricorso diretto a far accertare la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici ovvero ad ottenere un risarcimento dei danni per la violazione di detta normativa decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione stessa». La CGUE ha affrontato la questione anche con riferimento al diritto italiano nel caso Idrodinamica Spurgo, sez. V, 8 maggio 2014, C-161/13.
[13] Sul tema del recepimento della direttiva 2007/66 si vedano A. Bartolini, S. Fantini e F. Figorilli, Il decreto legislativo di recepimento della direttiva ricorsi, in Urb. app., 6, 2010, 638; D. Galli, Il recepimento della direttiva ricorsi tra nuovi e vecchi problemi, in Giorn. dir. amm., 9, 2010, 893; M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”: il nuovo processo super-accelerato in materia di appalti e l’inefficacia “flessibile” del contratto, in Federalismi.it, 7, 2010; R. De Nictolis, Il recepimento della direttiva ricorsi nel codice appalti e nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; F. D’Angelo, Il recepimento della direttiva ricorsi 2007/66/ce in Francia ed in Italia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2, 2012, 349.
[14] Il comma 5-quater statuiva che: «Fermi i divieti e differimenti dell'accesso previsti dall'articolo 13, l'accesso agli atti del procedimento in cui sono adottati i provvedimenti oggetto di comunicazione ai sensi del presente articolo è consentito entro dieci giorni dall'invio della comunicazione dei provvedimenti medesimi mediante visione ed estrazione di copia. Non occorre istanza scritta di accesso e provvedimento di ammissione, salvi i provvedimenti di esclusione o differimento dell'accesso adottati ai sensi dell'articolo 13. Le comunicazioni di cui al comma 5 indicano se ci sono atti per i quali l'accesso è vietato o differito, e indicano l'ufficio presso cui l'accesso può essere esercitato, e i relativi orari, garantendo che l'accesso sia consentito durante tutto l'orario in cui l'ufficio è aperto al pubblico o il relativo personale presta servizio».
[15] In particolare, le comunicazioni che la stazione appaltante era tenuta ad effettuare ai sensi dell’art. 79, comma 5, del d.lgs. 163/2006 erano: l’aggiudicazione definitiva, i provvedimenti di esclusione, la decisione di non aggiudicare l’appalto o concludere un accordo quadro, l’avvenuta stipulazione del contratto con l’aggiudicatario.
[16] A tal proposito F. Figorilli, Tratti peculiari del rito speciale in materia di appalti, in B. Sassani - R. Villata (a cura di), Il Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 1027 afferma che «all’esito dell’entrata in vigore del c. proc. amm., dette innovazioni hanno trovato una loro collocazione più puntuale nell’ambito di un quadro sistematico di regole che, nel nostro, caso danno vita ad un regime doppiamente derogatorio rispetto a quelle previste, da un lato, per il rito ordinario e, dall’altro lato, dal rito abbreviato disegnato, come detto, dall’art. 119 c. proc. amm».
[17] Si vedano a titolo esemplificativo le perplessità espresse in particolare da M. Ramajoli, Il processo in materia di pubblici appalti da rito speciale a giudizio speciale, in G. Greco, M. Antonioli (a cura di), Il sistema della giustizia amministrativa negli appalti pubblici in Europa, Milano, 2010, 127, la quale evidenziava come il legislatore si limitasse «a richiedere la mera conoscenza degli atti e non invece la piena conoscenza ai fini della decorrenza dei termini risulta in contrasto con la scelta garantista»
[18] Si veda la giurisprudenza citata nella prima parte della nota 4.
[19] Si vedano ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 28 agosto 2014, n. 4432; Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 718; Sez. III, 3 luglio 2017, n. 3253; Sez. V, 27 aprile 2017, n. 1953; Sez. V, 23 febbraio 2017, n. 851; Sez. V, 13 febbraio 2017, n. 592; Sez. V, 10 febbraio 2015, n. 864.
[20] Si vedano ex multis, Cons. Stato, sez. III, 22 luglio 2016, n. 3308; sez. III, 3 marzo 2016, n. 1143; sez. V, 7 settembre 2015, n. 4144; sez. V, 6 maggio 2015, n. 2274; sez. III, 7 gennaio 2015, n. 25; sez. V, 13 marzo 2014, n. 1250.
[21] Oltre alle questioni indicate in questa sede, il d.lgs. 50/2016 aveva introdotto al comma 2-bis il rito c.d. super accelerato (poi abrogato dal decreto-legge n. 32/2019, convertito in legge n. 55/2019), prevedendo in capo ai partecipanti alle gare per l’affidamento di contratti pubblici l’onere di immediata impugnazione non solo dei provvedimenti di esclusione ma anche di quelli di ammissione degli altri concorrenti, precludendo, poi, in sede di impugnazione dell’aggiudicazione di proporre censure rivolte alla carenza dei requisiti di partecipazione degli altri concorrenti.
[22] La procedura di accesso informale prevista all’ prevista dall’art. 79, comma 5-quater del primo codice dei contratti non è, difatti, oggi riscontrabile né all’art. 76, omologo dell’art. 79 del primo codice, né all’art. 29, riguardante la trasparenza delle gare in generale, né all’art. 53, sull’accesso.
[23] Il rapporto tra certezza del diritto e crisi del diritto legislativo è affrontato efficacemente da F. Francario, Il diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in Id. (a cura di), Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, Napoli, 2019, 3 ss; il quale a pag. 19 osserva come «nell’età contemporanea, caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione e dalla profonda crisi della politica, gli spazi lasciati liberi dal legislatore tendono ad essere quasi naturalmente occupati dalla giurisdizione. L’incapacità, l’impossibilità o la rinuncia del legislatore a prevenire la soluzione dei conflitti tra interessi fa sì che la definizione dei medesimi sia sempre più spesso demandata ad un giudice che tende così a diventare nomoteta. […] E’ quanto sta avvenendo anche nel nostro Ordinamento, che, al fine di garantire il rispetto del principio della certezza del diritto, tende a rendere vincolante l’efficacia del precedente giudiziale attraverso una ibridazione della regola dello stare decisis con quella della nomofilachia. Il problema che rimane tuttavia aperto è che, in mancanza di un insieme di regole previamente ordinate in un sistema logicamente coerente, l’intelligenza del giudice rimane incontrollabile ed esposta all’arbitrio (e diventa così solo fonte di ulteriore incertezza) se rimane libera di creare essa stessa le regole che è tenuta ad applicare al caso concreto».
[24] Cons. Stato, Sez. V, 10 giugno 2019, n. 3879; Sez. V, 27 novembre 2018, n. 6725; Sez. V, 20 settembre 2019, n. 6251; Sez. V, 2 settembre 2019, n. 6064; Sez. V, 13 agosto 2019, n. 5717, Sez. III, 6 marzo 2019, n. 1540; Sez. III, 6 marzo 2019, n. 1540.
[25] Cons. Stato, Sez. V, 28 ottobre 2019, n. 7384; Sez. IV, 23 febbraio 2015, n. 856; Sez. V, 20 gennaio 2015, n. 143.
[26] Cons. Stato, Sez. V, 2 aprile 2020, ord. n. 2215, la quale, peraltro, non ha dato atto della pendenza della questione costituzionale sulla medesime norma oggetto di remissione alla Plenaria.
[27] cfr. l’ultimo periodo del punto 4.1.
[28] Il riferimento è ai punti 24 e 25 dell’Adunanza Plenaria n. 12/2020.
[29] Sulla “creatività” della Plenaria si veda in particolare L. Bertonazzi, cit., il quale afferma che «l’Adunanza plenaria ha vistosamente travalicato il confine tra interpretazione e produzione del diritto, essendo pervenuta a fissare un precetto generale e astratto che, nel vigente assetto costituzionale, solo il legislatore ha titolo per porre, se del caso a seguito di una sentenza additiva di principio della Corte costituzionale». Di tale avviso è anche M. A. Sandulli, Per la Corte costituzionale non c’è incertezza sui termini, cit. la quale affronta in maniera assolutamente critica il creazionismo giurisprudenziale riproposto anche dalle recentissime Adunanze plenarie, nn. 17 e 18/2021 in tema di concessioni balneari.
[30] Nel secondo periodo del punto 27 della motivazione in diritto della Adunanza plenaria n.12/2020, difatti, si afferma che l’individuazione della «data oggettivamente riscontrabile» continua a dipendere «dal rispetto delle disposizioni sulle formalità inerenti alla ‘informazione’ e alla ‘pubblicazione’ degli atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso informale con una ‘richiesta scritta’, per la quale sussiste il termine di quindici giorni previsto dall’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’, applicabile per identità di ratio anche all’accesso informale». Dalla formulazione non è chiaro se il termine di 15 giorni sia da riferire alla richiesta scritta dell’operatore economico, considerando che nell’art. 79 del primo codice dei contratti il termine di 10 giorni era imposto a quest’ultimo. Ovvero se debba riferirsi al termine per il rilascio della documentazione da parte della stazione appaltante, considerando che l’art. 76, comma 2, impone tale termine all’amministrazione per fornire la motivazione della sua scelta.
[31] cfr. punto 4.2.
[32] A questo proposito si condividono pienamente le considerazioni di M.A. Sandulli, op. ult. cit., secondo la quale «la Corte avrebbe dovuto forse farsi carico di verificare se tale strada era (anche) consentita dalla legge, perché, in caso contrario, nessuna “proposta interpretativa” è davvero tale e può quindi dirsi “costituzionalmente conforme” e, nel caso in cui si riferisce alle regole processuali, lede anche il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost.».
[33] L’art. 58 dispone testualmente che: «Quando dall'esame degli affari discussi dal Consiglio risulti che la legislazione vigente è in qualche parte oscura, imperfetta od incompleta, il Consiglio ne fa rapporto al Capo del Governo».
[34] cfr. punto 21 dell’Adunanza Plenaria n. 12/2020.
[35] Molteplici sono infatti gli ostacoli che da diversi anni il legislatore frappone per deflazionare di fatto il contenzioso in materia di appalti pubblici. A tal proposito si veda l’elencazione esemplificativa che offre in questa rivista M.A. Sandulli, L'Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, cit.
[36] Tale disposizione, a seguito delle modifiche del 2010 e in applicazione della diretta 2007/66, al comma 5-bis prevedeva che la comunicazione di aggiudicazione fosse «accompagnata dal provvedimento e dalla relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al comma 2, lettera c), […] l’onere può essere assolto nei casi di cui al comma 5, lettere a), b) e b-bis) mediante l’invio dei verbali di gara e, nel caso di cui al comma 5, lettera b-ter), mediante richiamo alla motivazione relativa al provvedimento di aggiudicazione definitiva, se già inviata».
[37] Nella parte finale del punto 30 della motivazione in diritto dell’Adunanza Plenaria si può leggere che i principi dalla stessa enunciati sarebbero conformi con le esigenze di celerità dei procedimenti di aggiudicazione «fermi restando gli obblighi di diligenza ricadenti sulle imprese, di consultare il ‘profilo del committente’ ai sensi dell’art. 29, comma 1, ultima parte, dello stesso codice e di attivarsi per l’accesso informale, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 184 del 2006, da considerare quale ‘normativa di chiusura’ anche quando si tratti di documenti per i quali l’art. 29 citato non prevede la pubblicazione (offerte dei concorrenti, giustificazioni delle offerte)».
[38] Vedi a questo proposito quanto già detto a pagina 10 e alla nota 30.
[39] L’articolo 5 del Regolamento sull’accesso ai documenti amministrativi dispone che: «Qualora in base alla natura del documento richiesto non risulti l'esistenza di controinteressati il diritto di accesso può essere esercitato in via informale mediante richiesta, anche verbale, all'ufficio dell'amministrazione competente a formare l'atto conclusivo del procedimento o a detenerlo stabilmente./2. Il richiedente deve indicare gli estremi del documento oggetto della richiesta ovvero gli elementi che ne consentano l'individuazione, specificare e, ove occorra, comprovare l'interesse connesso all'oggetto della richiesta, dimostrare la propria identità e, ove occorra, i propri poteri di rappresentanza del soggetto interessato. /3. La richiesta, esaminata immediatamente e senza formalità, è accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le notizie, esibizione del documento, estrazione di copie, ovvero altra modalità idonea./4. La richiesta, ove provenga da una pubblica amministrazione, è presentata dal titolare dell'ufficio interessato o dal responsabile del procedimento amministrativo ed è trattata ai sensi dell'articolo 22, comma 5, della legge./5. La richiesta di accesso può essere presentata anche per il tramite degli Uffici relazioni con il pubblico./6. La pubblica amministrazione, qualora in base al contenuto del documento richiesto riscontri l'esistenza di controinteressati, invita l'interessato a presentare richiesta formale di accesso».
[40] E come evidenziato anche da L. Bertonazzi, cit.
[41] Si rimanda sul punto alla nota 8.
[42] Si rammenta, infatti, che «deve infatti essere mantenuta salda la distinzione tra attuazione dei valori costituzionali, riservata al legislatore, che è l’unico titolare del potere di bilanciamento degli interessi della società, in nome dell’investitura popolare, e l’applicazione dei valori costituzionali, affidata invece ai giudici» M. Ramajoli, cit., 3.
[43] In maniera simile alla previsione dell’art. 29 nella vigenza del rito superaccelerato ovvero a quanto disposto in relazione alle esclusioni ed ammissioni da comma 2-bis dell’art. 76.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.