ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le note a sentenza di Aldo M. Sandulli
di Giuseppe Morbidelli
(Premessa a cura della Redazione)
Nello spirito che ha animato la creazione stessa della Rivista, di permanente confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile, la sezione tematica specificamente dedicata al diritto e processo amministrativo si è proposta di realizzare il confronto a “doppia voce”, del togato e del non togato, anche sui temi del diritto e della giustizia amministrativa di volta in volta ritenuti meritevoli di maggior interesse per la comunità.
Giustiziainsieme nasce nel fermo convincimento che “la giustizia è una questione troppo importante perché se ne occupino solo i giudici” e che giurisprudenza e dottrina debbano svolgere ciascuna il proprio ruolo mantenendo vivo un dialogo ispirato ad un confronto non autoreferenziale.
Il giudice deve preoccuparsi di trovare la soluzione giusta nel caso concreto.
La dottrina deve preoccuparsi di valutare la coerenza sistematica della singola pronuncia nell’insieme dell’ordinamento.
Il dialogo tra giurisprudenza e dottrina che valorizzi le rispettive competenze e vocazioni è dunque indispensabile per assicurare quanto più possibile il rispetto del principio della certezza del diritto e con esso l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Sono trascorsi due anni da quando, nel marzo del 2020, questa Rivista ha aperto la sezione “Diritto e processo amministrativo”, che vive grazie alla collaborazione di decine di studiosi, giovani e meno giovani, allievi e maestri, impegnati, in controtendenza con le imperanti logiche di valutazione formale della produttività accademica, in un’opera di recupero e valorizzazione del genere letterario della nota a sentenza; con intento non meramente divulgativo, ma di contribuire al costante confronto tra la ragionevolezza delle soluzioni del singolo caso concreto e i principi informatori dell’ordinamento e dei suoi principali istituti giuridici.
Per sottolineare questo momento, apriamo i contributi del mese di marzo con lo scritto di Giuseppe Morbidelli, Le note a sentenza di Aldo M. Sandulli, pubblicato in Aldo M. Sandulli (1915-1984). Attualità del pensiero giuridico del Maestro, Milano, Giuffrè, 2004 e recentemente ripubblicato in G. Morbidelli, Ritratti, Ricordanze, Letture, Passigli Editori, 2021, Firenze, 353 ss.
La tecnologia amica del processo: dall’eredità dell’emergenza pandemica ai sistemi di giustizia predittiva
di Roberto Natoli e Pierluigi Vigneri[1]
Sommario: 1. Premessa - 2. L’eredità non dannosa di alcune misure dettate dall’emergenza pandemica - 3. L’intelligenza artificiale e le sue possibili applicazioni nel sistema giustizia - 4. I troppi compiti dei neoassunti addetti all’Ufficio del processo - 5. Verso la giustizia predittiva.
1. Premessa
L’introduzione del processo civile telematico[2], pur inizialmente accolta da comprensibili preoccupazioni, rappresenta il primo passo verso soluzioni di più efficiente e rapida gestione del contenzioso affidate alla tecnologia. Il tema è nell’agenda del legislatore europeo da più di dieci anni. Il Consiglio d’Europa, fin dal 2009, ha infatti emanato più Piani d’azione pluriennali in materia di giustizia elettronica europea[3]. Col primo Piano d'azione (quinquennio 2009-2013), ha definito le funzioni essenziali della «giustizia elettronica europea»: l'accesso alle informazioni nel settore della giustizia, la smaterializzazione delle procedure, la comunicazione tra autorità giudiziarie mediante, ad esempio, videoconferenze o reti elettroniche sicure[4]. Nel Piano per il quinquennio successivo queste funzioni sono state meglio specificate, ad esempio individuando strumenti per eliminare la presenza fisica delle parti nei procedimenti stragiudiziali transfrontalieri e sostituirla con collegamenti da remoto[5]. Con l’ultimo Piano d’azione (quinquennio 2019-2023) è comparso, per la prima volta, il riferimento all’intelligenza artificiale (IA) come strumento per migliorare il trattamento dei dati e la reperibilità delle informazioni e si è chiarito che quest’obiettivo può essere raggiunto non solo attraverso il “controllo” dei vocabolari[6], ma anche attraverso software che migliorano la qualità dei programmi di riconoscimento vocale e che consentono la trascrizione automatica di un discorso orale in forma scritta ai fini del suo utilizzo in procedimenti giudiziari[7].
Nel contesto dell’applicazione sempre più diffusa della tecnologia al processo, le innegabili opportunità che essa consente si sono manifestate con forza con l’emergenza pandemica. In Italia, ad esempio, alcune soluzioni emergenziali - pur introdotte col dichiarato intento di limitare i contatti sociali - si sono mostrate così efficienti da suggerirne una applicazione generalizzata anche ad emergenza conclusa. I tempi sono dunque maturi per interrogarsi su come e quanto la tecnologia, anche sotto forma di intelligenza artificiale, possa concorrere al raggiungimento dello storico obiettivo di una giustizia più rapida e più efficiente, senza perdere in qualità del giudizio, cioè senza obliterarne la naturale “umanità”[8]. Le positive innovazioni sperimentate nell’emergenza hanno infatti ingenerato una fiducia, probabilmente definitiva, nell’applicazione massiva della tecnologia al sistema giustizia, portando tutti gli operatori a toccare con mano quanto un suo uso intelligente e ben governato possa essere un ausilio e non un intralcio al buon funzionamento del processo.
2. L’eredità non dannosa di alcune misure dettate dall’emergenza pandemica
Negli ultimi anni, molte riforme dichiaratamente intese a ridurre i tempi di durata dei processi civili ne hanno spesso soltanto ritardato l’inizio o ne hanno addirittura aumentato la complessità, per esempio moltiplicando il numero delle questioni “di rito”, così rendendo inevitabilmente più lunghi i tempi di redazione. Si allude, ovviamente, all’eccessiva fiducia riposta nei sistemi obbligatori di A.D.R., i quali, a distanza di più di dieci anni dalla loro introduzione generalizzata per un cospicuo gruppo di materie (quelle previste dall’art. 5 del d. lgs. 28/2010), non hanno dato la prova di sé che ci si attendeva e hanno anzi alimentato evitabilissimi contenziosi giudiziali (si pensi, ad esempio, al problema di chi sia tenuto a introdurre la mediazione obbligatoria in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, giunto fino alle sezioni unite[9]). Queste soluzioni stragiudiziali, cui pure il PNRR continua a dedicare fin troppa fiducia[10], presuppongo però un’idea errata – o, almeno, non perfettamente centrata – delle cause dell’eccessivo carico di contenzioso che certamente rappresenta un problema ormai datato del sistema italiano.
La litigiosità non consegue al processo ma lo precede. E trova altrove le sue ragioni. Il processo è un mezzo e come tale va trattato, magari destinando i tanti sforzi periodicamente dedicati a scriverne e riscriverne le regole, a scrivere migliori regole di diritto sostanziale: più chiare e non contraddittorie.
Tanto premesso, è del tutto evidente che, se il tasso di litigiosità dei consociati (input) è trattato come una variabile indipendente, la riduzione dei tempi delle decisioni (output) dipenderà, anzitutto, dall’aumento dei mezzi, umani e no, destinati alla produzione dell’output.
Quindi: o si aumenta il numero dei decidenti o si migliorano i mezzi necessari alla decisione. Come si diceva, la strada prescelta dal legislatore italiana sembra essere sostanzialmente la seconda. È vero che negli ultimi anni si è assistito a un robusto reclutamento di magistrati ordinari, ma la gran parte delle risorse finanziarie provenienti dal Next Generation Fund all’Italia (191,5 miliardi) e destinate dal PNRR[11] alla Giustizia (2,827 miliardi) non servono ad aumentarne ulteriormente il numero, ma a finanziare le due linee complementari di intervento[12] dell’Ufficio per il processo (e, in generale, del capitale umano) e della digitalizzazione.
In questo contributo ci occuperemo dunque di come organizzare al meglio il capitale umano e i mezzi tecnologici affinché gli investimenti fatti nell’uno e nell’altro fattore produttivo non si risolvano soltanto in un fatuo intervento di facciata sul problema contingente, ancorché vetusto, dell’eccessivo numero di cause ultratriennali.
Rispetto a questo tema il punto di partenza è certamente il processo civile telematico. L’idea che ha animanto il P.C.T. è stata la dematerializzazione delle produzioni e lo sviluppo di soluzioni utili a rendere più rapide le decisioni. Da qui, ad esempio, l’importanza nella redazione degli atti processuali di un formato che ne consentisse la rapida copia (il c.d. pdf nativo). Da qui un sistema incentrato sulla gestione dei fascicoli processuali, sulla conservazione degli stessi in supporti durevoli e sulla rapidità della gestione dei documenti medesimi: cioè un sistema innegabilmente produttivo di risparmi sia per le parti, sia per i decidenti, i quali, dalla loro postazione telematica, possono depositare e accedere direttamente a tutti gli atti processuali e visualizzarli a video.
Il passaggio successivo, consentito proprio dall’entrata a regime del processo civile telematico, è stato offerto dalla riforma silenziosa avvenuta durante il periodo emergenziale attraverso al c.d. gestione telematica delle udienze.
Il primo mezzo adottato per evitare il contatto fisico tra le parti del giudizio e il paventato rischio di contagio è stato la partecipazione tramite collegamento audio visivo, cioè un mezzo che, sia pur senza la presenza fisica delle parti, ha comunque “mimato” l’udienza in presenza, perché ha comunque consentito la presenza contestuale e il contraddittorio in udienza. Nonostante questa mimesi, si è trattato comunque di un sistema che ha apportato benefici, forse minimi, ma comunque apprezzabili: si pensi, ad esempio, alla possibilità di condividere il verbale d’udienza o alla possibilità di evitare accavallamenti di voci tramite un uso accorto della funzione “attiva/disattiva microfono” da parte del giudice. Si tratta, come si vede, di vantaggi ancora ulteriori e diversi rispetto all’intuitivo guadagno offerto dalla riduzione (anzi, dall’azzeramento) del tempo necessario per raggiungere le aule d’udienza.
Il secondo mezzo adottato durante l’emergenza, cioè la sostituzione della trattazione in presenza con la c.d. udienza cartolare, è un’innovazione ancor più importante: con l’eccezione di talune attività (tipicamente, l’escussione di testimoni o informatori), si è infatti compreso che, se adeguatamente messa a punto con accorgimenti che non sacrificano il diritto al contraddittorio (ad es. col deposito di note scritte e di note scritte di replica prima dell’udienza), la gran parte delle udienze dei giudizi civili si può efficacemente svolgere in forma “cartolare”. Un simile ribaltamento di prospettiva, se generalizzato (cioè se istituzionalizzato anche al termine dello stato di emergenza) consente ai giudici di abbattere tempi sostanzialmente morti (si pensi, per citare il caso più eclatante, alle prime udienze in grado d’appello, che si risolvono nel 99% dei casi in cui un sibilo rivolto dagli avvocati al cancelliere per ribadire un inconferente obbligo di “insistenza” nelle conclusioni già rassegnate in atti), per reimpiegarli nello studio dei fascicoli e nella redazione delle decisioni.
Anche intuitivamente, generalizzando soluzioni emergenziali i tempi del processo possono ridursi riducendo i tempi (inutili) di svolgimento delle udienze o, ancor più banalmente, i tempi di spostamento da casa (dove buona parte dei giudici italiani studiano e scrivono) all’ufficio.
Mettere a frutto la miglior eredità dell’emergenza è dunque un obiettivo che il legislatore dovrebbe avere ben chiaro, tanto più perché sostanzialmente a costo zero.
3. L’intelligenza artificiale e le sue possibili applicazioni nel sistema giustizia
La tecnologia, però, può essere applicata al processo civile in modo più pervasivo di quanto fin qui sperimentato portando a regime il P.C.T. e sfruttandone, come accaduto durante l’emergenza pandemica, alcune inesplorate possibilità.
Tralasciando una serie di possibili applicazioni dei sistemi di I.A. ovviamente incompatibili con il sistema costituzionale come la redazione automatica delle decisioni – sulla cui incostituzionalità non mette neppure conto dilungarsi – l’intelligenza artificiale può essere utilmente sperimentata in una serie di attività che qui di seguito elenchiamo in ordine di crescente rassomiglianza alle attività tipicamente umane:
a) come strumento di “anonimizzazione” dei dati sensibili;
b) come strumento di catalogazione dei documenti;
c) come strumento di gestione ed esecuzione di attività semplici e preliminari;
d) come strumento di creazione delle massime;
e) come strumento di previsione dell’esito di una futura lite.
Procedendo per esemplificazioni di esperienze già sperimentate, in Italia o altrove, osserviamo che:
a) l’eliminazione dei dati sensibili dalle decisioni è oggetto di un avanzato progetto coordinato dal Ministero della Giustizia finlandese (ANOPPI)[13];
b) sempre in Finlandia alla catalogazione dei documenti (che è qualcosa di più della mera attività di raccolta di contenuti simili) è già è operativo il sistema TUOMAS, che consente alle parti di trasmettere i propri documenti mediante una piattaforma (SANTRA), lasciando poi che il sistema si occupi della catalogazione, della gestione dei termini di decadenza e dell’elaborazione della ricostruzione del fatto, in modo da consentire al giudice una più veloce stesura del provvedimento finale[14];
c) per la gestione informatizzata delle informazioni giudiziarie è stato sperimentato in Estonia il sistema KIS (Court Information System), che consente l’assegnazione ottimale delle cause ai giudici (in relazione al carico già sopportato dal singolo decidente e all’importanza assegnata dall’algoritmo alla controversia); il trattamento automatico delle e-mail; la generazione automatica di documenti modificabili da parte dell’utente (trattasi di veri e propri modelli di atti processuali)[15];
d) per la massimizzazione dei provvedimenti giudiziari, in Italia già da decenni esiste il Centro elettronico di documentazione (CED) della Corte suprema di Cassazione, nato proprio per offrire degli operatori del diritto archivi di giurisprudenza e di legislazione: proprio a partire dall'organizzazione automatizzata delle massime della Cassazione – e avvalendosi delle tecnologie di information retrieval – il CED ha realizzato il sistema Italgiure-Find che attualmente gestisce una raccolta di oltre 35 milioni di documenti costantemente aggiornati, tra cui testi legislativi, sentenze e Gazzette Ufficiali reperibili dal 1860 in poi. Italgiure è un esempio di sistema di Intelligenza Artificiale per la ricerca di informazioni giuridiche di contenuto concettuale e non meramente semantico[16]. Il thesaurus di Italgiure consente infatti una ricerca indicizzata, cioè non limitata alla ricorrenza di un lemma, ma capace di identificare corrispondenze logiche tra strutture concettuali (c.d. semi)[17].
4. I troppi compiti dei neoassunti addetti all’Ufficio del processo
Giunti a questo stadio del ragionamento, è possibile trarre qualche utile indicazione per il prossimo futuro individuando, in particolare, gli ambiti entro i quali le cospicue risorse destinate al settore della giustizia dal PNRR possono essere usate in modo efficiente, cioè creando infrastrutture che, anche quando l’attuale e straordinario afflusso di denaro cesserà, consentiranno comunque una più fluida gestione del “traffico” giudiziario.
I finanziamenti del PNRR, come detto, servono ad alimentare il processo di transizione digitale, cioè un processo che, come lo stesso termine “transizione” indica, è per definizione temporaneo. Ciò che davvero importa è cosa resterà alla fine della transizione. In quest’ottica non possiamo non denunziare una sorta di strabismo del legislatore, il cui sguardo non sembra rivolto verso l’orizzonte della fine della transizione e del mondo nuovo che verrà, ma appare fisso verso l’obiettivo immediato dello “smaltimento” delle pendenze ultratriennali. Se la nostra impressione è corretta, ne segue che l’immissione, tramite il recente reclutamento, di tanti addetti all’Ufficio del Processo, con contratti a tempo determinato (e per di più assai breve), è poco più di una trovata utile a reperire la forza lavoro necessaria per un’operazione che, già nel poco edificante termine che ne designa lo scopo (lo “smaltimento”), è vista come un lavoro sporco, ma che qualcuno deve pur fare.
Senza essersi posto il preliminare problema logistico (dove alloggiarli?); senza aver adeguatamente riflettuto sul tempo necessario ai giudici per formarli (inevitabilmente sottratto allo studio dei fascicoli e alla redazione delle decisioni); senza considerare tutto ciò, il Ministero vorrebbe infatti delegare ai neoassunti addetti all’Ufficio del processo i seguenti compiti[18]:
- la verifica della completezza del fascicolo, l'accertamento della regolare costituzione delle parti, il controllo delle notifiche, il rispetto dei termini, l’individuazione dei difensori nominati e altro;
- lo studio dei fascicoli, finalizzato a predisporre schede informative per ciascuna causa;
- il supporto alla stesura di bozze di provvedimenti semplici;
- il controllo della pendenza di istanze o richieste e la loro gestione;
- l’organizzazione delle udienze e del ruolo di ciascun giudice, con segnalazione dei fascicoli che presentino caratteri di trattazione prioritaria;
- l’approfondimento delle questioni giurisprudenziali e dottrinali implicate dalla controversia;
- la ricostruzione del contesto normativo;
- la massimazione dei provvedimenti, finalizzata alla emersione di indirizzi giurisprudenziali locali;
- il supporto ai processi di digitalizzazione e di innovazione organizzativa dell’ufficio e il pedissequo monitoraggio dei risultati.
È rimasta dunque inascoltata la perplessità di chi ha autorevolmente denunziato[19] la mancanza di «un vero approccio innovativo, che muova dalle ragioni della sostanziale inattuazione dell'istituto, facendosi leva su tirocinanti e risorse esterne (che espongono l'ufficio giudiziario a relazioni pericolose col territorio) e scegliendo il supporto al magistrato come chiave di intervento»[20].
Purtuttavia, proprio grazie all’immissione temporanea dei neoassunti addetti all’Ufficio per il processo, e limitandosi al contenzioso civile, ci si attende, nel giro di pochi anni, l'abbattimento del 90% delle controversie che hanno superato i limiti di ragionevole durata del processo in tutti i gradi di giudizio, nonché la riduzione complessiva del 40% della durata dei procedimenti civili; per di più prevedendo, quale target intermedio, l'abbattimento, entro la fine del 2024, dell’arretrato civile del 65% in primo grado e del 55% in grado di appello.
Individuato il traguardo, occorre scegliere il percorso. Al riguardo ci permettiamo di osservare che quello scelto dal legislatore italiano non sembra il migliore. O, quanto meno, che troppi sono i compiti che ci si attende dagli addetti all’Ufficio del Processo, per essere tutti efficacemente assolti. Bisognerebbe, invece, concentrarsi solo sui compiti che, se svolti bene, possono apportare benefici duraturi al “sistema giustizia”.
Occorre infatti non dimenticare che i denari del PNRR servono a garantire un futuro migliore alle nuove generazioni di cittadini europei (sulle quali graverà il debito peraltro contratto per restituire la gran parte dei finanziamenti stanziati dal Next Generation EU). Se l’abbattimento dell’arretrato ultratrienneale è certamente un obiettivo di medio periodo che merita di essere perseguito, bisogna però avere lo sguardo lungo e lavorare perché il risultato auspicato si consolidi. Bisogna, insomma, cambiare la “viabilità” della giustizia, modificandone le infrastrutture: altrimenti il traffico, solo contingentemente ridotto, sarà destinato inesorabilmente a reintensificarsi.
5. Verso la giustizia predittiva
A questo stadio del ragionamento possiamo soffermarci sulla giustizia “predittiva”[21], cioè sull’ultimo punto – la lett. e) – dell’elenco contenuto al § 3, volutamente non ancora trattato: cioè sull’uso della tecnologia come strumento di previsione dell’esito di una futura lite, tale da consentire agli operatori economici, prima di portare la controversia in giudizio, di verificarne con ragionevole grado di approssimazione il probabile esito. Un tale obiettivo, che è nell’agenda di buona parte dei Paesi occidentali, in Italia sembra tra l’altro rispondere anche all’esigenza, ripetutamente manifestata[22], di maggior attrazione degli investimenti stranieri, ostacolati non soltanto dall’irragionevole durata dei giudizi, quanto dalla loro tendenziale imprevedibilità.
Se queste due asserzioni rispondono al vero, si intuisce quale, tra i tanti compiti immaginati dal Ministero, possa essere assolto dagli addetti all’Ufficio del processo per generare effetti benefici e durevoli sul sistema: in un quadro che sullo sfondo vede un ruolo sempre più esteso dell’intelligenza artificiale anche nel sistema giudiziario, pensiamo soprattutto al supporto ai processi di digitalizzazione e di innovazione organizzativa dell’ufficio e al pedissequo monitoraggio dei risultati. L’Ufficio del processo – in sinergia con la consulenza preliminare delle Università, a loro volta riccamente finanziate dal PON 2014-20[23] – può infatti agevolare e fluidificare l’opera di immissione massiva degli input nel sistema (cioè di dati scomposti in modo così granulare da tendere all’aderenza più perfetta – quasi sartoriale – tra il caso nuovo e il caso già deciso), e controllare poi la rispondenza degli output.
Gli addetti all’Ufficio del Processo, tutti laureati in giurisprudenza ma di nessuna esperienza giudiziaria, potrebbero contribuire ad alimentare una banca dati di provvedimenti, soprattutto di merito, che, in prospettiva, possa consentire a chiunque di “interrogare” i dati raccolti e trarne possibili esiti di decisione.
È chiaro che, per raggiungere un simile esito – che non è quello della macchina che decide, come detto incostituzionale – occorre educare la macchina a educarsi, fino a farla procedere in sempre più totale autonomia. La prima cosa da fare è immettere i dati giusti nel sistema. Per confidare nelle capacità dell’intelligenza artificiale, occorre anzitutto l’intelligenza umana.
Per raggiungere lo scopo della predittività, bisogna ragionare in modo diverso dal passato. Chiunque abbia esperienza del giudizio, sa che la massima non correlata al fatto concreto dice assai poco. Non a caso è molto spesso mentitoria. Per costruire un sistema di giustizia predittiva occorre prima costruire un giacimento di fatti concreti, più che di massime. Il discorso meriterebbe ben altro respiro, ma un esempio può agevolarne la comprensione.
Si pensi alla clausola generale della buona fede. Chiunque, oggi, compulsi una qualsiasi banca dati, più o meno “logica”, che proceda per lemmi o per semi, alla domanda su quando sia violata la buona fede troverà sempre una risposta aperta, inidonea a dare indicazioni operative per la soluzione del caso concreto. Digitando su Italgiureweb, nel campo “concetti”, il sintagma “buona fede”, spunta tra le prime la seguente massima recente, tratta da Cass. 20 dicembre 2021, n. 40829: «Le clausole che, quale quella "quando possibile" o simile, individuano il momento dell'adempimento con carattere meramente indicativo, pur non integrando gli estremi di un termine essenziale, ex art. 1457 c.c., solo apparentemente lasciano all'obbligato un amplissimo margine di discrezionalità, quanto alla scelta del concreto momento in cui adempiere, dovendosi a tal fine dare rilievo, mediante il ricorso all'interpretazione secondo buona fede, alle circostanze - quale la possibilità, più o meno prossima, che il debitore superi alcune difficoltà - cui le parti abbiano fatto implicito riferimento. In tal caso, pertanto, non è configurabile un'obbligazione senza termine o con termine rimesso alla volontà del debitore, né può escludersi l'inadempimento di quest'ultimo, allorché non esegua la propria prestazione entro un lasso di tempo che, in relazione all'oggetto ed alla natura del contratto, il giudice ritenga congruo».
Si tratta certamente di una massima che può risultare utile per spiegare agli studenti di primo anno, alle prese con l’apprendimento delle Istituzioni di diritto privato, che la buona fede implica sempre una valutazione giudiziale delle circostanze del caso concreto. Non meno certamente, è però una massima inidonea a fornire indicazioni operative a chi voglia prevedere l’esito di una possibile lite, perché, come si vede, non dà risposta alla domanda per cui la banca dati è interrogata: quando, in relazione all'oggetto ed alla natura del contratto, può dirsi congruo il lasso di tempo entro il quale il debitore deve adempiere la prestazione dedotta in obbligazione?
A questa domanda, consultando le banche dati attuali (anche quelle che consentono la ricerca per semi), l’avvocato che voglia consigliare al cliente se fare o no causa non trova risposta. Ma neppure il giudice cui la lite sarà sottoposta, consultando le medesime banche dati, troverà un precedente che lo possa agevolare nel decidere e nello scrivere la decisione.
Come in un gioco di specchi, sia l’avvocato sia il magistrato torneranno sempre al punto di partenza: quando, secondo buona fede, il tempo dell’adempimento è congruo, in relazione all'oggetto ed alla natura del contratto?
Un sistema che li aiuti entrambi non dovrebbe ammassare le massime ma classificarle logicamente, evidenziando le peculiarità delle fattispecie concrete. Siccome le massime sono tratte per definizione da casi l’uno diverso dall’altro (poiché, per tornare all’esempio, ogni contratto ha un suo oggetto e una sua natura), un sistema intelligente di classificazione dovrebbe censire i precedenti in ragione non tanto del principio di diritto, che spesso si risolve in una norma giurisprudenziale non meno generale e astratta di quella interpretata e comunque suscettiva a sua volta di interpretazione, ma in ragione degli elementi di fatto del caso oggetto di giudizio. Solo così si possono ottenere risposte granulari a domande granulari.
Leggendo per esteso la sentenza da cui è tratta la massima più su richiamata, si scopre che il caso oggetto del giudizio di legittimità riguardava un altro problema. Il giudizio traeva origine da un contratto preliminare di permuta intercorso fra una persona fisica e una società immobiliare, avente ad oggetto la cessione di un terreno a fronte della realizzazione di una palazzina con boxes, cinque dei quali da trasferire al cedente, garantito da una fideiussione per il caso di inadempimento dell’obbligazione assunta. Interrogata su questo caso, la Cassazione ha ritenuto che, anche se le obbligazioni contrattuali non hanno un termine certo, non è possibile ritenere sempre obbligato il fideiussore, in ispregio al termine semestrale previsto, nell’interesse del garante, dall’art. 1957 c.c. Come si vede, la vicenda oggetto del concreto giudizio di legittimità non dà alcuna risposta al problema della congruità, secondo buona fede, del termine congruo per adempiere, occupandosi invece della diversa questione dell’onere del creditore garantito da fideiussione di agire prontamente nei confronti del debitore per preservare intatta la garanzia fideiussoria.
Perché la macchina restituisca massime (o interi provvedimenti) puntuali, che possano adattarsi sartorialmente al caso che sollecita l’interrogazione, occorre dunque una particolare intelligenza, che consenta di cogliere le peculiarità del caso concreto e “taggarle” in modo corretto. A quel punto si può cominciare a istruire il sistema, affinché questo, munito della sua “intelligenza”, proceda da sé a “taggare” correttamente le decisioni, ancorandole ai casi concreti. Come sempre accade quando si istruisce qualcuno (o qualcosa), occorre però del tempo per valutare l’esito dell’apprendimento: nel nostro caso, visto che parliamo di macchine, occorre del tempo per correggerne i “bachi”.
Questa correzione è un’attività anzitutto umana, non soltanto complessa ma specialistica, nel senso che dev’essere compiuta da esperti del settore: cioè non dagli ingegneri ai quali è chiesto di costruire la macchina, ma dai giuristi che devono guidarla. Tuttavia, i sistemi di intelligenza artificiale sono muniti di capacità di autoapprendimento. Pertanto, nel corso del tempo, le attività di correzione umana potranno diradarsi. Tali attività, se ben compiute nella fase iniziale, daranno frutti negli anni e nei decenni a venire, perché, adeguatamente istruita e corretta, la macchina un giorno saprà camminare senza conducente.
Non sembra utopistico immaginare che allo sviluppo di sistemi “driverless” possa condurre la sinergica attività di Università e addetti all’Ufficio del Processo. Quando sarà raggiunto quello stadio, si potrà immaginare non solo un uso dell’intelligenza artificiale per definire alcune eccezioni processuali (come l’incapacità di agire di un minore o di un interdetto o del rappresentante di società, associazioni, fondazioni, etc., quando tale qualità risulti direttamente da pubblici registri), ma anche – come pure è stato immaginato[24] – che un robot predittivo possa avere un ruolo fattivo nelle decisioni di inammissibilità in appello, ex art. 348-bis, c. 1, c.p.c., e in Cassazione, ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c., poiché in entrambi i casi (e con particolare evidenza nel secondo) l’inammissibilità è una conseguenza della coerenza del provvedimento impugnato con la «giurisprudenza della Corte»[25]. Si potrà pure immaginare un uso dell’intelligenza artificiale nelle controversie che implicano quantificazioni, come quelle in materia di risarcimento del danno o di quantificazione degli assegni di mantenimento per la prole. Per la quantificazione degli assegni di mantenimento esistono già oggi software, pur molto grezzi, cui chiunque può accedere e in grado di determinare il quantum in esito all’inserimento di poche informazioni[26]. Questi software, però, non spiegano come opera l’algoritmo che quantifica e, soprattutto, processano un numero molto limitato di dati, senza alcun riferimento a precedenti in materia. In futuro, non è difficile immaginare software che restituiscano quantificazioni più attendibili, perché alimentati da un maggior numero di informazioni, di cui sia trasparente la c.d. black box, cioè il meccanismo che governa l’algoritmo che opera il calcolo, e che facciano riferimento ad analoghi precedenti. È forse superfluo osservare che la macchina non potrà mai vincolare il decidente: la cui attività valutativa, per di più, incide su interessi non patrimoniali indisponibili dalle parti come il best interest of the child. Nondimeno, la macchina potrà fornire – alle parti ancor prima che al giudice – un punto di partenza “oggettivo” per personalizzare il quantum. E, anche intuitivamente, già la possibilità di conoscere il punto di partenza dal quale muoverà il giudice per giungere alla decisione, rappresenta un elemento di facilitazione al raggiungimento di soluzioni stragiudiziali.
Se gli ingenti investimenti finanziari attuali consentiranno di sviluppare sistemi di giustizia predittiva, i frutti prodotti saranno duraturi, perché la predittività incide doppiamente sul saldo dei flussi giudiziari. Da un lato, può far diminuire il flusso in entrata (input), disincentivando le parti dall’intraprendere contenziosi il cui esito infausto è già prevedibile. Dall’altro, può rendere più scorrevole il flusso in uscita (output), perché, fornendo al decidente schemi di decisione tratti da precedenti davvero conformi, rende più rapida la stesura dei provvedimenti.
In ogni caso, il decidente non sarà tenuto ad adeguarsi allo schema di decisione restituito dal sistema: sia perché ciò significherebbe introdurre nell’ordinamento il principio del precedente vincolante; sia perché il giudice è sempre autore del cambiamento e artefice, attraverso l’interpretazione, della diuturna evoluzione dell’ordinamento giuridico, altrimenti destinato a sclerotizzarsi e perdere il contatto con la realtà. Eppure, anche nel caso di scostamento dal precedente, lo schema di decisione restituito dalla macchina non smette di assolvere a importanti funzioni, perché per un verso potrebbe giustificare un onere di motivazione rafforzata del provvedimento che si discosta dal modello di decisione “pre-detto” dal sistema; per altro verso potrebbe giustificare un’automatica applicazione della regola della compensazione delle spese di lite, ex art. 92, c. 2, c.p.c.
[1] Sebbene frutto di un pensiero comune, i §§ 1 e 2 sono da attribuire a Pierluigi Vigneri; i §§ 3, 4 e 5 sono da attribuire a Roberto Natoli.
[2] Il cui fondamento normativo si rintraccia nell’art. 4 d.l. 29 dicembre 2009, n. 193 (convertito, con modificazioni, nella l. 22 febbraio 2010, n. 24) ove si previde che «con uno o più decreti del Ministro della Giustizia (...) adottati, ai sensi dell’art. 17, comma 3 ̊, della legge 23 agosto 1988, n. 400» venissero individuate «le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni». In questa delega di funzioni potevano isolarsi due principali criteri direttivi: 1) l’adozione della disciplina tecnica del p.c.t. veniva demandata al potere di decretazione del Ministro della Giustizia, secondo il paradigma procedimentale dei regolamenti (ministeriali) contemplati dall’art. 17, comma 3 ̊, l. 23 agosto 1988, n. 400; 2) la cornice normativa entro la quale tale disciplina doveva collocarsi era quella del Codice della amministrazione digitale e, in particolare, quella delle prescrizioni generali dettate con riferimento al documento informatico ed alle firme elettroniche. Questa disciplina è oggi dettata dal decreto del Ministero della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, che costituisce la base giuridica su cui poggia il complessivo impianto del processo telematico, ove si stabiliscono i dettami minimi per la trasmissione degli atti e documenti informatici all’interno del processo, per la consultazione delle informazioni relative ai singoli procedimenti sul c.d. dominio giustizia, per l’effettuazione dei pagamenti telematici del contributo unificato e degli altri diritti e spese dei procedimenti. Tale disciplina è stata poi arricchita dal d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella l. 17 dicembre 2012, n. 221), dalla l. n. 228/2012 e infine dal d.l. n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114). Sul punto v. G.G. Poli, il sistema delle fonti del processo civile telematico, in Riv. dir. proc., 2016, p. 1201 ss.
[3] Piano d’azione pluriennale 2009-2013 in materia di giustizia elettronica europea, (2009/C 75/01), Piano d’azione pluriennale 2014-2018 in materia di giustizia elettronica europea (2014/C 182/02); Piano d’azione 2019-2023 in materia di giustizia elettronica europea (2019/C 96/05).
[4] Piano d’azione pluriennale 2009-2013, cit., 3.
[5] Piano d’azione pluriennale 2014-2018, cit., 4.
[6] Cioè un elenco di termini utilizzati per indicizzare il contenuto e agevolare il reperimento delle informazioni. Tali vocabolari sono noti con l’acronimo di ELI (European Legislation Identifier) o ECLI (European Case Law Identifier).
[7] In quest’ottica il progetto è di incoraggiare l’uso di VocBench, cioè di una «piattaforma multilingue per la gestione collaborativa del thesaurus» (v. in https://ec.europa.eu/isa2/solutions/vocbench3_en); definire lo strumento di indicizzazione noto come EuroVoc, cioè il «thesaurus multilingue e multidisciplinare dell’UE», comprendente parole chiave, organizzate in 21 settori e 127 sottosettori, a descrizione del contenuto dei documenti in EUR-Lex (cfr. https://eur-lex.europa.eu/browse/eurovoc.html?locale=it); arricchire LegiVoc, cioè una banca dati terminologica progettata per facilitare la comprensione da parte degli Stati membri delle leggi dell’Unione europea e fornire un sistema terminologico interoperabile da utilizzare nei progetti relativi all’accesso alle leggi degli Stati membri dell’UE e agli scambi di informazioni tra le reti europee di cooperazione giuridica o giudiziaria (cfr. https://legivoc.org/).
[8] L. Breggia, Prevedibilità, predittività e umanità nella soluzione dei conflitti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, p. 395 ss.
[9] Cass., sez. un., 18 settembre 2020, n. 19596, in Corr. giur., 2021, p. 559, con nota di M. Stella, L’onere di mediazione grava sul creditore opposto: non un caso di overruling.
[10] M. Delia, Le ADR nei moduli organizzativi del processo civile e nella programmazione del PNRR, in https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/le-adr-nei-moduli-organizzativi-del-processo-civile-e-nella-programmazione-del-pnrr
[11] Il quale ascrive la riforma del sistema giudiziario alle riforme "orizzontali" e "di contesto": l’obiettivo generale della riduzione dei tempi dei giudizi si inserisce infatti in due delle sei missioni attorno a cui si raggruppano i progetti: la missione 1 (Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo) e la missione 2 (Rivoluzione verde e transizione ecologica).
[12] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_30.page#
[13] Finnish Project on the Anonymization of Court Judgments with Language Technology and Machine Learning Apps: v. in https://www.coe.int/en/web/freedom-expression/finnish-project-on-the-anonymization-of-court-judgments-with-language-technology-and-machine-learning-apps
Il sistema, grazie al software del quale è dotato, individua e contrassegna automaticamente le espressioni che identificano la stessa persona ed è in grado di renderne anonimi i riferimenti: il programma presenta una proposta all’utente completamente modificabile e consente, in aggiunta, la ricerca intelligente di documenti e il collegamento con testi affini.
[14] Cfr. Kujanen K., E-services in the courts in Finland. Presentation at the seminar on law and informatics 2004 in Berne, in https://rechtsinformatik.ch/wp-content/uploads/2004/06/kujanen.pdf
[15]https://www.rik.ee/sites/www.rik.ee/files/elfinder/article_files/RIK_e_Court_Information_System%2B3mm_bleed.pdf
[16] Si tratta dunque di un sistema più avanzato di quello basico fondata sulla rapida individuazione della ricorrenza di parole chiave in un documento (per intenderci, la funzione “cerca” presente in qualsiasi software di videoscrittura o di lettura di documenti informatici). I sistemi per la ricerca concettuale di informazioni giuridiche sono, invece, funzionali al reperimento di informazioni in base al loro contenuto concettuale o informativo. Sul punto v. S. Crisci, Intelligenza artificiale ed etica dell’algoritmo, in Foro amm., 2018, p. 10.
[17] Italgiure consente di individuare “semi” di linguaggio: ma il “seme” implica un’operazione logica, poiché contiene un insieme di termini tecnici concettualmente affini. Intuitivamente, una ricerca per semi dà risultati più apprezzabili di una mera ricerca testuale per lemmi.
[18] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_9_2_2.page?previsiousPage=mg_2_9_2
[19] Nelle proposte delle commissioni istituite dal Ministro Cartabia e presiedute dal Prof. Luiso per la giustizia civile, dal Presidente Emerito della Corte Costituzionale Lattanzi per la giustizia penale, dal Prof. Luciani per l’ordinamento giudiziario e dal Presidente della Corte d’Appello di Brescia Castelli per la magistratura onoraria.
[20] M.G. Civinini, Il "nuovo ufficio per il processo" tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in https://www.questionegiustizia.it/data/doc/2984/civinini-riv-upp-qg-26345.pdf
[21] Sul tema, E. Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in Giust. civ., 2020, 2, 280.
[22] S. Comi – M. Grasseni – L. Resmini, La giustizia efficiente porta investimenti stranieri, in lavoce.info, 31.8.2021, https://www.lavoce.info/archives/89301/la-giustizia-efficiente-porta-investimenti-esteri/
[23] Ad esempio, il progetto proposto dagli Atenei pubblici di Sicilia e Sardegna, intitolato “Giustizia Smart: Strumenti e modelli per ottimizzare il lavoro dei giudici – JustSmart” e finanziato con oltre 8 milioni di euro (https://www.unipa.it/dipartimenti/di.gi./progetti/just-smart/), è articolato in sei distinti punti: 1. elaborazione di un modello operativo dell’UPP (Ufficio per il processo) presso gli Uffici Giudiziari coinvolti, che consenta azioni efficaci di smaltimento dell’arretrato ed efficiente gestione dei flussi; 2. rilevazione quali-quantitativa dell’arretrato esistente e dall’analisi delle modalità operative seguite presso gli UPP istituiti; 3. disaggregazione dati e diversificazione analisi in funzione delle dimensioni degli Uffici Giudiziari e della distinzione tra Tribunali/Corti di Appello; 4. contributo a creazione banca dati merito (coordinamento progetto CSM); 5. progettazione dei provvedimenti per Sezioni o macrotemi/sperimentazione di modelli di intelligenza artificiale che fungano da ausilio al singolo decisore; 6. messa a punto di sistemi complementari agli applicativi. Big Data, Machine Learning, text analysis e feature extraction come strumenti di ausilio in fase di: a) assegnazione per materia in fase di incardinamento; b) tempo «attraversamento» fascicolo; c) disamina preliminare del singolo fascicolo e redazione della minuta di provvedimento secondo modelli tipizzati.
[24] A. Di Porto, Avvocato-robot nel «nostro stare decisis». Verso una consulenza legale «difensiva», in A. Carleo (a cura di), Decisione robotica, Bologna, 2019, p. 242 s.
[25] Rispetto al giudizio in Cassazione il sistema di ricerca Italgiureweb, inserendo il lemma “certalex” nel campo di ricerca “Intero testo” della scheda “Ricerca sintetica”, già consente di estrarre le massime che contengono i principi individuati come consolidati ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c.: v. http://www.italgiure.giustizia.it/informativaIWEB/Civile.htm
[26] v., ad es., https://www.remidafamiglia.com/
La nonviolenza: mi sembra una nozione stupenda. Essa è estremamente aristocratica (Gandhi, Russel …, Dostojevski …): d’origine preevangelica (orientale), come gran parte delle nozioni evangeliche, si è cristianizzata sopratutto col romanticismo nell’Ottocento, e ora si è scristianizzata, facendosi fieramente laica. Ma, si è visto nelle “Marce della Pace” di questa estate, tale sua fondamentale aristocraticità è facilmente accepibile dalle masse coscienti: non c’è contraddizione tra la sua elezione e la sua popolarità. Per questo, quelle “Marce della Pace” sono state il fenomeno politico italiano più interessante dell’anno. Una specie di riproposta, modernissima, del CLN. In esse era inclusa la svolta del XXII Congresso e la possibilità “reale” di un centro-sinistra.
La nonviolenza è l’acme ideale di una concezione razionale della realtà. Se ogni forma del pensiero ha bisogno, nell’atto pratico, di una manifestazione concreta e basata quindi sul sentimento e la persuasione, la nonviolenza è l’atteggiamento sentimentale e persuasivo di chi è totalmente fuori da ogni conformismo, di chi si è totalmente “liberato” attraverso gli strumenti della ragione e della cultura.
Pier Paolo Pasolini (Vie Nuove, 4 gennaio 1962)
Pier Paolo Pasolini e il Diritto
Il 5 marzo 2022 ricorrono 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini (Casarsa, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), intellettuale fra i più eclettici e discussi del ‘900. Poeta, scrittore, editorialista, traduttore, critico letterario, regista e drammaturgo, Pasolini ha sfidato i canoni tanto della tradizione che dell’avanguardia artistica, superando i confini fra generi letterari e fra vita privata e opera d’arte.
In un’Italia alle prese col boom economico e il passaggio alla postmodernità, Pasolini è stato uno dei più attenti osservatori e interpreti dei mutamenti sociali, politici, culturali ed economici del suo tempo. Sicché l’iter politico e culturale pasoliniano diviene paradigmatico di questa trasformazione non solo socio-economica, ma altresì antropologica, come Pasolini stesso ha intuito evocando «la scomparsa delle lucciole» in riferimento all’Italia della metà degli anni Sessanta dello scorso secolo (Il vuoto di potere in Italia, in “Corriere della Sera”, 1° febbraio 1975), distratta da una «violenta omologazione dell’industrializzazione».
A fronte dello svuotamento di potere della politica tradizionale dell’Italia del secondo dopoguerra, Pasolini ha sottolineato l’emergere di quel che definisce con sempre più convinzione il «nuovo fascismo» del consumo di massa, cifra delle società tardo-capitaliste. Una spinta centripeta si sostanzia così, secondo l’intellettuale, nella creazione di modelli omologanti elaborati dalla società del consumo, volti a ricondurre tutto ciò che è marginale e periferico verso un “nucleo” totalizzante che fornisce la base politica e culturale attraverso la quale avviene la neutralizzazione dell’originalità e delle differenze che hanno caratterizzato da sempre le culture provinciali e i dialetti (tanto cari al poeta), le borgate, le periferie. Il consumismo ha così finito per uniformare culturalmente l’Italia: si tratta perciò di una omologazione oppressiva, una completa borghesizzazione che conduce ad un vero e proprio genocidio culturale delle classi sociali subalterne e delle culture “altre”.
Contro questo nuovo ed egemonico sistema di valori l’impegno militante e politico di Pasolini è costante e irriverente, e lo scontro con il senso comune dell’uomo medio appare inevitabile, lasciando un segno tangibile nelle vicende giudiziarie dell’intellettuale.
Almeno due, pertanto, le prospettive che animano i diversi contributi che Giustizia Insieme si appresta a pubblicare in questo speciale “Pasolini e il Diritto”, per celebrare il centenario dalla nascita dello scrittore friulano.
Da una parte ci si interrogherà sul rapporto, non certo facile, dell’Autore con la macchina della giustizia italiana. Come ha avuto modo di sottolineare Stefano Rodotà (Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, oggi in La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 267 ss.), infatti, non si esagera se si afferma che Pasolini è stato l’intellettuale più processato di tutta l’Italia repubblicana: gran parte della sua produzione artistica è finita sotto la lente giudiziaria in processi in cui il ruolo della magistratura è stato spesso ideologico e personalistico. Ripensando alla vicenda giudiziaria di Pier Paolo Pasolini, invero, gli interrogativi si moltiplicano: quell’unico grande e continuo processo all’opera di Pasolini rappresenta la rottura delle convenzioni giudiziarie tradizionali. L’accertamento della verità pare cedere il passo alla violenza giudiziaria di una magistratura che si ostina a valutare con la prospettiva, omologante e conformista, dell’uomo medio. Pasolini, autore e regista, rimane per anni sotto la lente della giustizia: obiettivo è quello di “ridimensionare” un artista scomodo e scandaloso. Ma chi esce realmente vincitore da questa lotta? Chi, davvero, perde?
In un’altra prospettiva, infatti, il rapporto con la giustizia italiana ha accelerato fattivamente un’evoluzione del diritto e del costume sociale italiano, contribuendo a dare attuazione al pluralismo valoriale, al principio di laicità ed alle libertà inscritti nella Costituzione, che per troppo tempo erano rimasti lettera morta. In questo senso, invero, Pasolini ha costretto i giudici a ripensare e dare nuova linfa al “decoro”, al “buon costume”, all’“ordine pubblico” e, in definitiva, alla “dignità”, andando ben oltre il modello antropologico di uomo medio che ha conformato il diritto e la società borghese nella modernità.
Le due prospettive, quindi, ricalcano un po’ la dicotomia debito/credito che ha nel tempo hanno caratterizzato il rapporto fra il Diritto e l’intellettuale Pasolini: da un lato, infatti, il Diritto è oggi in credito con Pasolini in termini di valorizzazione delle differenze, delle identità, della laicità e delle libertà fondamentali; dall’altro il Diritto rimane in debito per la strumentalizzazione processuale fatta dell’opera di Pasolini, prima, e dell’incapacità di far chiarezza sulla sua morte, dopo.
I saggi, le interviste, le considerazioni che in queste prospettive intendono omaggiare Pier Paolo Pasolini, l’uomo e l’intellettuale, sono allora un’occasione di riflessione sul ruolo del diritto e dei suoi meccanismi performativi e “normalizzanti”.
Per tracciare un quadro completo e complesso di Pasolini verranno proposte alcune interviste, utili a meglio focalizzare il rapporto fra l’intellettuale e il suo tempo.
Con questo obiettivo Andrea Apollonio intervisterà Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini, scrittrice, intellettuale ed amica di Pasolini, autrice del recente libro “Caro Pier Paolo” (Neri Pozza, Milano, 2022).
Un primo ritratto di Pasolini ci è fornito da Umberto Apice, di cui pubblichiamo in anteprima un paragrafo del capitolo del libro "Una Musa per Temi. Diritto e processi in letteratura" dedicato al poeta friulano, Una vita piena di letteratura e processi: Pier Paolo Pasolini.
In occasione della celebrazione del 25 aprile Pierpaolo Gori, nel contributo Pasolini, l’invasore e la resistenza, illustra la riflessione sulla resistenza del poeta di Casarsa, contenuta nella sua unica tragedia, I turcs tal Friùl.
Il saggio di Luca Peloso, Lo sguardo sospeso. Aporìe pasoliniane tra normatività sociale e pratiche singolari, intende poi mettere in luce come quello fra Pasolini e l’universo del diritto sia stato un rapporto contraddittorio e non risolto.
L’iter che tracceremo del rapporto fra Pasolini e il Diritto prende le mosse dall'inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, sulla quale rifletterà Michela Petrini. Al processo a Pino Pelosi, invece, è dedicato il contributo di Giovanni Landi, Processo alla vittima: l’omicidio Pasolini.
Sui processi alla produzione artistica di Pasolini, a seguire, sono dedicati i contributi di Andrea Apollonio, Il processo a Pasolini difeso dal “fascista” Alfredo De Marsico, che evidenzia l’importanza storico-giuridica del processo a “I racconti di Canterbury”, ove l’intellettuale comunista è difeso da uno dei giuristi di spicco del regime fascista, che aveva in parte collaborato ai lavori preparatori di quello stesso codice penale su cui si chiedeva la condanna di Pasolini per oscenità delle sue opere; e di Maurizio Di Masi, Pasolini e il diritto di scandalizzare l’uomo medio, che traccia un parallelismo fra l’accanimento giudiziario contro l’autore e l’opera dello stesso Pasolini, da una parte, e l’attuale rapporto fra diritto, libertà e violenza, dall’altra.
Luigi Cavallaro, poi, nelle riflessioni su Pasolini e Sciascia, metterà a confronto i due intellettuali e la loro visione critica della società, della giustizia e della verità.
Maria Federica Moscati, a seguire, contribuirà con alcune riflessioni su “Infanzia e adolescenza nell'opera di Pasolini e comparazione con il diritto”.
Il rapporto fra potere ed omologazione, peraltro, passa nelle opere letterarie e cinematografiche di Pasolini per la fisicità dei corpi e la sessualità: a ciò sarà dedicato il saggio di Mauro Balestrieri, Corpo Pasolini. Legge e desiderio nella vita del libertino.
Nella prospettiva giusfilosofica, successivamente, Mariavittoria Catanzariti si soffermerà sulla mercificazione delle identità apportata dalle nuove tecnologie informatiche, con nessi sul potere pseudo-emancipativo del progresso, tema caro a Pier Paolo Pasolini, mentre Francesco Messina rifletterà sulla “Conoscenza della realtà, domanda di sacro e memoria in Pier Paolo Pasolini”.
Barbara Castaldo, infine, nel saggio Alcune riflessioni intorno al concetto di legge nell’opera di Pier Paolo Pasolini, fornirà una lettura conclusiva, che permetterà di sciogliere i nodi del rapporto fra legge e pensiero critico di Pasolini.
Sino a novembre, peraltro, questo itinerario sarà aggiornato ed arricchito con i contributi di altri studiosi e studiose, che completeranno il percorso che Giustizia Insieme intende qui intraprendere per riscoprire i molteplici volti di Pasolini.
Un ringraziamento convinto, per concludere, va al gruppo di ricerca “Visioni del giuridico”, che ha messo al servizio della Rivista e dei lettori l’esperienza acquisita in occasione del convegno organizzato dall’Università di Perugia nell’anno 2015 dedicato a Pasolini e il diritto, così come a tutti le Autrici e gli Autori che hanno voluto e potuto condividere con noi questo insolito, ma speriamo stimolante, itinerario giuridico.
Buona lettura!
La redazione
Il confine individuato negli ordinamenti democratici tra “guerra consentita” e illegittimo “sopruso bellico” e la disarmante insufficienza dell’approccio giuridico per impedire o reagire su scala internazionale a guerre classificabili nel secondo senso.
di Antonio D’Andrea
Accade che di fronte ad eventi drammatici quale quello che si svolge sotto i nostri occhi increduli e che appare di per sé inaccettabile e barbaro per tutto ciò che provoca e che viene mostrato istante per istante, in presa diretta (bombe, fumo, morte, gente che prova a scappare, cingolati che avanzano in un contesto spettrale e dai quali emergono uomini armati di tutto punto), ti venga richiesto di riflettere provando in realtà ad inquadrare l’invasione russa in atto in queste ore nel territorio ucraino, prima di tutto con la sensibilità “tecnica” che ha (o dovrebbe avere) un costituzionalista al quale non può sfuggire il richiamo che la nostra Legge Fondamentale fa, all’art.11, a proposito del ripudio della guerra quale “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ovviamente, non ai soli giuristi che si occupano di diritto internazionale e neppure ai soli operatori del diritto che fanno sempre più i conti con norme e decisioni provenienti dal diritto euro-unitario è nota, altresì, l’adesione del nostro Paese sia all’Unione Europea sia, ben prima, dal 1949, al Patto Atlantico, il che implica l’avere assunto nel tempo accordi su larga scala con altri Stati – si tratta della politica estera che si è perseguita – da cui conseguono perciò vincoli internazionali anche in tema di difesa comune. Non è tuttavia questo il momento di riflettere sull’europeismo e sull’atlantismo e ancor meno sugli indirizzi politici assunti nel tempo da coloro i quali hanno avuto la responsabilità di governare il nostro Paese, anche perché, come è noto, l’Ucraina non è uno Stato appartenente all’Unione Europea e neppure, a differenza delle Repubbliche baltiche dell’ex Unione Sovietica, fa parte della Nato, pur avendo da tempo intessuto trattative per entrarvi; il che, come è noto, per ragioni legate alla sua collocazione geografica, è stato probabilmente uno dei pretesti utilizzati per “giustificare” la “reazione” punitiva della Russia nei riguardi di quello Stato sovrano. Per quanto possa apparire, a questo punto, inutilmente astratto il contributo che può essere fornito dal costituzionalista, forse potrebbe serbare egualmente una qualche ragion d’essere se provasse ad inquadrare, con rigore argomentativo, “il fatto” che si è verificato sulla scena internazionale – l’atto di aggressione subito dall’Ucraina – all’interno delle categorie “interne” della legittimità/illegittimità di un’azione bellica promossa da uno Stato nei confronti di un altro Stato denunciando, alla fine, una reale, invincibile difficoltà, quella cioè di individuare su scala internazionale “sanzioni” diverse, ove si escluda la controffensiva bellica (in questo caso, a mio avviso, inopportuna ancorché ragionevolmente richiesta e auspicata dallo Stato aggredito, proprio per non allargare a dismisura il conflitto che, ancora una volta, interesserebbe in primo luogo l’Europa), dal tentativo di emarginazione dello Stato aggressore dalle comuni “pratiche internazionali” promuovendo, all’uopo, come si dice di voler fare, una serie di misure ritorsive di vario genere. Misure ritorsive che, tuttavia, quando sono in gioco, come nel caso della Russia, potenze mondiali possono provocare anche ricadute, più o meno rilevanti, negli stessi Paesi che assumono quella tipologia di sanzioni mettendosi in luce, senza troppi giri di parole, difficoltà anche su quel versante. Il che lascia del tutto drammaticamente irrisolto il problema dei rimedi che proprio su scala internazionale si dovrebbero utilizzare non già per radicalizzare ulteriormente il conflitto in atto ma per farlo cessare prima possibile e senza che da esso scaturiscano assetti post-bellici, a partire dall’integrità territoriale dell’Ucraina, in grado finanche di “premiare” il sopruso bellico della Russia, ma su questo francamente l’apporto del costituzionalista non credo sia neppure ipotizzabile.
Ed allora, prima di ogni altra possibile considerazione sulla vicenda bellica in atto, è bene richiamare, con riguardo all’ordinamento italiano, oltre al già citato art. 11 Cost., le altre disposizioni costituzionali che consentono di distinguere agevolmente tra “guerra offensiva” la cui legittimità è, come si evince testualmente, esclusa e “guerra difensiva” che, essendo opzione indotta dalla politica militare altrui, è viceversa considerata possibile e della cui organizzazione si occupano altre norme, tra le quali spiccano gli artt. 78 e 87, nono comma, Cost. Nel primo caso si richiede la deliberazione dell’organo parlamentare, espressione diretta della sovranità popolare, affinché possa essere legittimamente stabilito che il Paese “entra” in guerra contro qualcuno attribuendo nel contempo al Governo, nella sua veste collegiale, non tutti i poteri ipotizzabili ma solo quelli considerati “necessari” in quella circostanza; nel secondo caso si prevede l’attivazione del Presidente della Repubblica, organo non chiamato a svolgere funzioni di indirizzo politico eppure posto a capo delle Forze Armate, tenuto a formalizzare lo “stato di guerra” oggetto della decisione parlamentare e nel contempo si individua un organo collegiale ad hoc sempre presieduto dal Capo dello Stato ma disciplinato dalla legge, al quale si assegnano compiti di natura logistico-organizzativa finalizzati ad orientare l’azione delle nostre Forze Armate (delle quali si parla espressamente all’art. 52, terzo comma, Cost., richiedendo al loro interno “spirito democratico” in vista del migliore svolgimento dei delicati compiti istituzionali cui esse sovraintendono non solo in tempo di guerra). In sostanza il “pacifismo”, se si resta dentro il vigente quadro costituzionale, è presente ma non si spinge al punto di negare la necessità di fronteggiare, attraverso conseguenti azioni militari, l’integrità territoriale del nostro Stato e la sua indipendenza geopolitica. Come si può notare il concetto di “sovranità” dell’ordinamento statuale conserva ancora tutta la sua carica identificativa allorché venga messa concretamente in discussione la sua stessa esistenza, il che accade certamente qualora si subisca una aggressione armata. Gli ordinamenti democratici, pur nel tempo della tutela giurisdizionale multilivello dei diritti individuali e del contrasto alle discriminazioni (quale che sia il vincolo giuridico tra Stato e persona cui vengano conculcati i diritti fondamentali), pur nel tempo delle connessioni economiche e finanziarie indotte dalla globalizzazione, non per questo rinunciano a difendere la loro sovranità interna che resta una prerogativa cui si può, come noto, rinunciare “in condizioni di parità” (come prevede sempre l’art. 11 Cost., evocando proprio le organizzazioni internazionali) ma nel contempo rappresenta una barriera da salvaguardare e difendere di fronte all’ostilità altrui ovvero allo snaturamento dei principi supremi che la caratterizzano.
Partiamo dunque dalla riconfermata esistenza di una netta distinzione, accolta negli ordinamenti democratici a partire dal nostro, tra la promozione del principio universalistico della pace (che impegna le autorità politiche nel perseguimento di conseguenti indirizzi che vanno, in particolare nello scenario internazionale, in quella direzione) e l’uso legittimo della forza armata allo scopo, per quanto qui rileva, di difendere l’integrità territoriale dello Stato sovrano da “aggressioni esterne”. Lo Stato è presente nella scena internazionale e in essa agisce e opera, aggredisce e si difende ed è anche in quel palcoscenico che prova a far valere le proprie ragioni, indipendentemente da quali esse siano. Occorre ammettere con onestà che la Comunità internazionale da questo punto di vista si muove tuttora in ordine sparso anche se, come è noto, non sono mancate, a cavallo dei due conflitti mondiali, e non mancano anche attualmente nobili aspirazioni universalistiche che vorrebbero dare vita ad un ordine giuridico internazionale in grado di “regolamentare” le modalità con le quali gli Stati dovrebbero essere chiamati ad affrontare e a risolvere tra loro conflitti che oggi come ieri sono in grado di generare guerre con tutta la già accertata devastazione che queste comportano. Resta il fatto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) agisce e opera nel nome della fantomatica “comunità internazionale” senza che si possa prescindere dal suo assetto costitutivo che, infatti, da sempre tiene conto dell’effettivo “peso” degli Stati che ne fanno parte e che certo condizionano decisioni e interventi o, al limite, non interventi che pure andrebbero assunti e che finiscono, nella realtà, per fare i conti con gli insuperabili “veti”, espressi di volta in volta da Cina, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Russia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. In realtà al di fuori di poche regole di natura consuetudinaria, automaticamente riconosciute e immesse nel nostro ordinamento senza alcun bisogno di esplicita ratifica (art. 10 Cost.), il diritto internazionale ha una sua derivazione pattizia: le norme che impegnano reciprocamente gli Stati, o meglio alcuni tra questi, sono frutto di accordi ispirati da intenti politici e di reciproca convenienza (si è in effetti subito ricordata l’adesione del nostro Paese alla Nato, che resta un’alleanza militare di carattere difensivo come pure l’appartenenza a quella complessa organizzazione, via via nel tempo consolidatasi, che è l’Unione Europea cui si sono cedute quote rilevanti di sovranità nazionale). Ci si potrebbe allora chiedere, quantomeno in astratto, in che misura l’essere parte di queste organizzazioni che presuppongono senz’altro per l’Italia vincoli anche di natura militare (NATO) o comunque collegabili alla difesa e sicurezza dell’Unione (PESD), consentirebbero di portare fuori dai confini nazionali le nostre Forze Armate a sostegno di una “guerra legittima” a fianco dei nostri partner. A questa domanda si potrebbe rispondere ricordando che la legittimità o meno dell’intervento armato, sempre che non avvenga in conseguenza di una determinazione dell’ONU, come pure è talvolta accaduto (il che lo renderebbe formalmente legittimo), dipende solo ed esclusivamente dalla vincolatività sul piano internazionale di accordi di reciproca assistenza militare tra Stati sovrani e che perciò non potrebbe essere considerato legittimo, in assenza di ulteriori specifici impegni assunti in via supplementare dal nostro Paese, il coinvolgimento italiano nella difesa militare di altri Stati, pur se fatti oggetto di un’aggressione da considerarsi, alla luce del nostro ordinamento interno, meritevole di una “reazione armata”.
In ogni caso, preservare la democrazia all’interno degli Stati che si riconoscono nei principi del costituzionalismo occidentale passa, in primo luogo, dalle scelte che investono la responsabilità del corpo elettorale, beninteso allorché si possa esprimere liberamente (il che non è affatto detto che accada dappertutto). L’individuazione di coloro i quali vengono chiamati ad assolvere compiti di primo piano nella conduzione dello Stato – i governanti – così come la capacità di saper contrastare programmi e indirizzi incompatibili con i principi ispiratori della pacifica convivenza nello Stato e tra gli Stati, in linea con la richiamata apertura internazionalistica della nostra Costituzione democratica, è compito al quale ciascuno di noi deve attendere consapevolmente e senza sottovalutare le insidie che si porta dietro la semplicistica attrattiva per l’ “uomo forte”, “il capo” cui affidare il destino del proprio Paese tanto più quando tutto sembra problematico da gestire, secondo regole e procedure ordinarie. Ecco il pensiero che, alla fine, mi ha sollecitato lo scrivere questa nota sull’azione scellerata di cui si è reso responsabile un “capo forte” di una grande potenza mondiale (e il suo apparato di supporto) che, sia pure in forza di una formale legittimazione elettorale concretizzatasi in più occasioni, ha organizzato e avviato una brutale guerra di aggressione ben lontana dai presupposti che negli ordinamenti democratici consentirebbero, come visto, di ricorrere ad azioni militari per difendere l’integrità del territorio statuale. Almeno questo credo che si possa dire: quello che abbiamo sotto gli occhi è una guerra dettata da chiare, strumentali ragioni di espansione di uno Stato “forte” a danno di uno Stato sovrano lontano dalla sua orbita di influenza e che avrebbe voluto e vorrebbe continuare a restare tale. Tale drammatico evento dimostra peraltro come il modello democratico c.d. classico, non solo è difficilmente esportabile in altri contesti (il che lo si è verificato dopo avere fatto in più circostanze ricorso a vere e proprie missioni militari di “polizia internazionale” di dubbia legittimità, ancorché effettuate sotto “vessilli internazionali”, alle quali l’Italia non è rimasta estranea), ma persino in Europa esso appare tutt’altro che saldamente radicato.
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Luigi Salvato
1. Caro Luigi, secondo Te, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
«Diritto e dovere sono come il retto e il verso di una medaglia. [...]. Nella storia del pensiero morale e giuridico questa medaglia è stata guardata più dal lato dei doveri che da quello dei diritti», almeno fino a quando è maturata la transizione dal codice dei doveri al codice dei diritti, «dalla priorità dei doveri alla priorità dei diritti». Queste considerazioni di Norberto Bobbio sintetizzano icasticamente la relazione tra diritto e dovere, la complessità delle questioni alla stessa sottese, la preminenza del primo nella «età dei diritti», emergendo tuttavia nell’attuale fase storica l’opportunità di una riflessione sull’equilibrio tra gli stessi.
L’affermazione della priorità dei diritti rispetto ai doveri è stata imposta dall’esigenza di rovesciare il rapporto tra governanti e governati, di riguardarlo dalla parte del popolo, non del principe. L’enunciazione di ciascun diritto ha rappresentato «l’antitesi di un abuso di potere che si voleva combattere»», necessaria per garantire e realizzare «nuove libertà contro vecchi poteri», per affermare «che l'uomo ha dei diritti preesistenti alla istituzione dello Stato» (Norberto Bobbio).
A questa concezione si è accompagnato il convincimento che obiettivo dello sviluppo economico-sociale è l’espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani. Risultata vincente l’idea liberale, avremmo dovuto addirittura considerare «la possibilità che la stessa storia sia finita» (Francis Fukuyama). La storia, come sappiamo, non è finita (lo ha ammesso in questi giorni lo stesso Fukuyama nel commentare la crisi tra Russia ed Ucraina); non ha, non può avere, una fine.
L’età dei diritti è permeata da una concezione individualistica che connota anche la società, ma è dubbio che si tratti di un esito necessitato ed ineluttabile. È noto il dibattito in ordine alla relazione tra diritto e dovere, riassumibile (con sintesi estrema, con le semplificazioni e gli errori in questa insiti) nella contrapposizione tra le concezioni secondo cui «il diritto dell'uno esiste solo presupponendo il dovere dell'altro» e quella che ritiene quest’ultima insufficiente a rendere conto del modo in cui l’ordinamento considera gli individui.
Senza sottovalutare la complessità della questione, può ritenersi che la concezione individualistica sia viziata per difetto. Non coglie infatti che il diritto, la libertà, in quanto riconosciuti all’interno della società, che costituisce «un insieme in cui le varie componenti sono interdipendenti», sono legati da una stretta relazione ai doveri inerenti all’appartenenza alla società. Quando, ancora Norberto Bobbio, sottolinea che «l'enorme importanza del tema dei diritti dell'uomo dipende dal fatto che è strettamente connesso con i due problemi fondamentali del nostro tempo, la democrazia e la pace», fa emergere chiara l’impossibilità di scindere i diritti dai doveri. La considerazione dei soli diritti non basta per fondare l’etica pubblica; di ciò era convinto Giuseppe Mazzini, che osservava (nei Doveri dell’uomo): «Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l'armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione».
La crisi della società e le grandi tragedie del secolo scorso – della guerra, dei lager nazisti, delle stragi etniche, continuate anche dopo il ‘900 – hanno rafforzato la primaria esigenza di custodire la dignità dell’uomo ed i diritti fondamentali, non adeguatamente soddisfatta dagli sviluppi successivi alla loro proclamazione.
La storia ci ha consegnato una società (non soltanto quella del nostro Paese) troppo intrisa della convinzione che l’uomo sia pressoché esclusivamente soggetto di bisogni e che la sua esistenza abbia per fine il benessere individuale; quindi, una società permeata da una concezione che rischia di trasformare i cittadini in monadi isolate, disposti a sacrificare, sull’altare dell’interesse personale, legami umani e vincoli sociali, di renderli meri consumatori, spesso dimentichi che «la libertà non è mai un soffice cuscino sul quale ci si possa adagiare o dare a un godimento passivo; è sempre una sfida all’attività».
Quando l’apatia prende il posto della partecipazione attiva alla comunità, è alto il rischio di cadere «in una sorta di autoritarismo involontario. I cittadini dormono e i governanti fanno quel che vogliono» (Ralf Dahrendorf). Proprio perché l’importanza dei diritti e delle libertà è indiscussa, gli individui hanno oggi «fondato motivo per chiedersi che cosa dovrebbero fare per aiutarsi reciprocamente a tutelare o a promuovere le rispettive libertà»; per riflettere sul fatto che anche coloro i quali non sono responsabili della loro violazione, «ma che si trovano nella condizione di dare un contributo, hanno ragione per interrogarsi su ciò che dovrebbero fare». Riconoscere i diritti umani, le libertà individuali, significa «comprendere che, se una persona si trova in una posizione da cui può intervenire in modo efficace per scongiurare la violazione di un certo diritto, essa ha una buona ragione per procedere in tal senso» (Amartya Sen). Il cittadino deve essere attivo; dal cittadino va pretesa un’azione positiva, che rinviene fondamento nei doveri inerenti all’essere parte della società (più in generale, all’appartenenza all’umanità).
L’età dei diritti è stata saldamente fondata sull’esigenza di rovesciare il rapporto governanti-governati e, tuttavia, per garantirne l’attuazione, occorre altresì arginare una concezione esclusivamente individualistica con essa in antitesi; quindi, si ripropone il tradizionale interrogativo: che fare?
Individuare la soluzione è difficile; non spetta a me neppure accennarvi (non ne ho la forza e la capacità), ma sono convinto che passi anche attraverso la rivalutazione dei doveri, ricordando che Norberto Bobbio, alcuni anni dopo avere indicato nell’età dei diritti il «signum prognosticum del progresso morale dell’umanità», scrisse: «se avessi ancora qualche anno di vita, che non avrò, sarei tentato di scrivere “L’età dei doveri”».
La riflessione di Giuseppe Mazzini sui doveri resta dunque centrale, anche se deve essere attualizzata, occorrendo cogliere «il suo sentimento etico della vita come missione al servizio di grandi ideali» (sono le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione dell’incontro con una delegazione del Consiglio regionale della Toscana ed una rappresentanza di studenti toscani per presentare la pubblicazione su Giuseppe Mazzini "i doveri dell'uomo", 1° dicembre 2005) e la valorizzazione che egli ne fa per ripensare la complessità dell’ordinamento e ricomporre l’unione tra diritti, libertà e responsabilità, in vista della piena realizzazione di quei mirabili equilibri consegnatici dai Costituenti, nelle istituzioni democratiche e nella coscienza dei cittadini.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
Per le considerazioni svolte nel rispondere alla prima domanda, sono attuali gli interrogativi con cui Giuseppe Mazzini (nell’introduzione ai Doveri dell’uomo), si chiedeva: se «l’idea dei diritti inerenti alla natura umana è oggimai generalmente accettata: accettata a parole e ipocritamente anche da chi cerca nel fatto, eluderla. Perché dunque la condizione del popolo non ha migliorato?»; «dove i diritti vengono a contrasto con quelli d’un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?».
Mazzini dà risposta a detti interrogativi individuando nei doveri lo strumento di equilibrio, elaborando una strategia cui è sotteso il convincimento che l’esclusiva rivendicazione dei diritti rischia di sostituire ai passati sistemi oppressivi altri nuovi, non meno oppressivi, basati sulla forza, che oggi appare essere soprattutto quella economica. In lui era radicato il timore che l’enfatizzazione dei diritti potesse tramutarsi in retorica, timore amplificato (per alcuni, significativi, aspetti) dalla globalizzazione, se lasciamo che questa sia dominata da una logica eminentemente mercantile. Ed in tale logica può scivolare, nonostante le migliori intenzioni possibili, anche la libertà che, quando assoluta, esclusiva e senza limiti, finisce con dare «un valore economico ad ogni bene della vita» (Cesare Salvi), innescando una spirale inflattiva che rischia di condurre ad un’incongruente normativizzazione dei desideri.
I rischi insiti in una valutazione atomistica dei diritti sono stati colti dalla Corte costituzionale, affermando: «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (tra le più recenti, sentenza n. 33 del 2021). Si impone dunque una «valutazione sistemica», imprescindibile per evitare che un diritto possa pregiudicare gli altri (per tutte, sentenza n. 25 del 2019). Il rischio di un tale esito è insito nell’apprezzamento atomistico che istituzionalmente spetta ad una Corte esclusivamente dei diritti, quale la Corte EDU, benché appaia dubbio che anche per questa sia davvero l’unico praticabile e necessitato. L’immanenza di detto rischio spiega e giustifica il successo della tecnica del bilanciamento, assurta ad una sorta di novella pietra filosofale in grado di garantire gli equilibri richiesti dallo Stato costituzionale, pur con le note difficoltà ed incertezze insite nella stessa.
Anche Mazzini era attento a detto equilibrio, da lui ricercato volgendo lo sguardo ai doveri, ma non verso i governanti, bensì verso la verità ed il bene comune. Egli avverte infatti gli «operai Italiani, fratelli miei», che «la conoscenza […] dei diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole» e appunto per questo precisa: «non chiedo che rinunziate a questi diritti: dico soltanto che non sono se non una conseguenza dei doveri adempiti». In tal modo egli pone in luce l’insufficienza (oggi profetica) di un’attenzione focalizzata pressoché esclusivamente sui «miglioramenti materiali» ed elabora la teoria della «solidarietà dei doveri».
È dunque identificabile un profilo comune ed uno di diversità con l’attuale tecnica del bilanciamento. Nell’operazione di bilanciamento rinvenibile nella teorica mazziniana l’accento tonico ricade sui doveri; in quella della Corte costituzionale verte essenzialmente sui «valori», essendo altresì note le posizioni di chi, autorevolmente, ritiene che «[i]l bilanciamento è sempre tra i diritti fondamentali» (Gaetano Silvestri). Nondimeno, in coerenza con l’espressa previsione nella Carta fondamentale non soltanto dei diritti, ma anche dei doveri e con la considerazione che «tutti gli esseri umani […] sono egualmente dotati di dignità e di diritti “inalienabili”, cioè indisponibili, oltre che gravati di doveri sociali» (Valerio Onida), dalla giurisprudenza costituzionale emergono precisi segnali (che ragioni di spazio impongono di enunciare in modo assiomatico) nel senso della necessità del confronto (e bilanciamento) dei diritti anche con i doveri.
Può convenirsi con l’affermazione secondo cui non è pensabile che «l’interesse collettivo possa travolgere la sfera della tutela soggettiva» (Beniamino Caravita di Torritto), ma ciò non impedisce che occorra adeguatamente considerare l’esigenza di valorizzare nell’operazione di bilanciamento i doveri. E questi sono, nella dimensione costituzionale, ma già nel pensiero di Mazzini, quelli che si hanno nei confronti della società, prima ancora dell’umanità. Se così è, occorre chiedersi – lo dico problematicamente, per dare corpo ad un interrogativo – se non occorra più attentamente valorizzarli nell’operare il richiamato bilanciamento, per realizzare un ragionevole equilibrio negli ambiti (esemplificativamente, con riguardo ad alcuni di più stringente attualità) della tutela della salute (dando quindi il giusto rilievo al dovere di concorrere alla salute pubblica), del diritto penitenziario (interrogandosi sulla possibilità di ritenere che i doveri verso la società giustifichino la pretesa di una positiva dimostrazione della recisione dei legami con il mondo della criminalità e l’impossibilità del loro ripristino), del diritto alla privacy (che oggi richiede, come accenno di seguito, l’attenzione soprattutto ai doveri che gravano coloro che acquisiscono, specie per ragioni economiche, una massa smisurata di informazioni).
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Te la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Ai piani sui quali si svolgono e trovano attuazione i diritti ed i doveri si è accennato nella risposta alla domanda che precede; in quella alla prima domanda si è fatto riferimento alla relazione tra gli stessi. Colgo dunque in questa domanda soprattutto il tema dell’effettività dei diritti, inscindibilmente legata alla loro tutela; al riguardo basta ricordare la nota affermazione secondo cui «non è utile proclamare diritti se non c’è chi è in grado di difenderli» (Thomas Hobbes) della quale (come accenno nella risposta alla sesta domanda) è possibile rinvenire un riferimento nel pensiero di Mazzini, allorché pone in luce l’essenzialità della giurisdizione ai fini della tutela delle libertà.
La questione della tutela dei diritti si è complicata a seguito della globalizzazione e del mutamento della concezione della sovranità dello Stato seguita alla trasformazione del diritto internazionale (divenuto anche il diritto degli individui) ed alla realizzazione dell’ordinamento multilivello. Queste trasformazioni hanno condotto all’istituzione di corti internazionali, cui gli individui possono rivolgersi per conseguire forme di tutela dei loro diritti fondamentali (Alessandro Pizzorusso), risultando in tal modo garantita l’effettività dei diritti anche mediante l’accesso diretto del singolo alle stesse.
In Mazzini, per ragioni intuitive e per quanto si dirà nel rispondere alla settima domanda, è arduo trovare un accenno espresso alla possibilità di ricorrere, per la tutela delle libertà, a tribunali diversi da quelli dello Stato di appartenenza. La domanda fa tuttavia trasparire la questione, sopra accennata, del rischio della saturazione degli ordinamenti giuridici (con continue richieste di tutela iperindividualistiche) e del riconoscimento di nuovi diritti che, siccome non fondati su istanze stabili e universali, potrebbero risultare irragionevoli, refrattari a qualunque bilanciamento e frutto, come detto, di una logica mercantile che può condurre alla accennata «normativizzazione dei desideri».
Le questioni in campo sono quelle complesse, ampiamente indagate, che richiedono di stabilire: come distinguere tra pretese fondate e meri desideri; a chi spetti il riconoscimento dei diritti; dell’equilibrio tra potere legislativo e giudiziario, per evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali» (tendenza di cui ha dato conto Marta Cartabia), con il rischio (paventato da Francesco Gazzoni) di soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti.
A tali questioni può essere data risposta (almeno in parte) mediante un’accorta valutazione dei doveri, ricostruendo la trama che li lega ai diritti.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una
componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Te questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a Tuo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
La risposta a questa domanda – in particolare, al secondo dei due, densi, quesiti nei quali si articola – potrebbe essere affidata alle parole del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «è importante che soprattutto i giovani riscoprano il pensiero di Mazzini, leggano e studino le sue opere perché esse ci aiutano a comprendere il significato autentico dei valori posti a fondamento della nostra Costituzione repubblicana».
Quando Mazzini scrive: «l’origine dei vostri Doveri sta in Dio. La definizione dei vostri Doveri sta nella sua Legge», svolge una considerazione che, depurata del profilo religioso del suo pensiero, pone in luce una fonte trascendente dei doveri ed una finalità degli stessi che ne evita la valenza di strumento oppressivo e li rende anzi argine contro lo svuotamento del contenuto dei diritti ed una deriva marcatamente individualistica che può metterli in crisi.
I doveri, come declinati da Mazzini, danno contenuto alla cittadinanza quale «conquista quotidiana che richiede un dare e un avere […] adesione consapevole a una comunità intessuta di affetti, e non solo di interessi […] compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante primario è la solidarietà dei doveri, su rinnovate basi culturali e politiche» (Edoardo Crisafulli). I richiami alla coscienza come ad «un lume che le rompa d’intorno la tenebra, d’una norma che ne verifichi e diriga gli istinti» fissano quale finalità dell’agire il conseguimento di un alto interesse generale, che è quello della Umanità. Egli indica infatti «il nostro primo dovere» nel «concorrere a che l’Umanità salga prontamente quel grado di miglioramento e di educazione, al quale Dio e i tempi l’hanno preparata».
Il riferimento ad un’entità sovrannaturale è frutto della concezione religiosa che impronta il suo pensiero. Nondimeno, è possibile offrirne una lettura laica ed attuale, soprattutto perché Mazzini osserva che la Legge deve essere «scoperta» «linea per linea»; ciò è possibile «quanto più s’accumula l’esperienza educatrice delle generazioni, quanto più cresce in ampiezza e in intensità l’associazione fra le razze, fra i popoli, fra gli individui», nel convincimento che «i primi doveri […] sono verso l’Umanità».
I doveri, nella ricostruzione di Mazzini, sono finalizzati ad evitare che ogni uomo, concentrato esclusivamente nel soddisfacimento dei propri desideri e nella tutela dei propri diritti, possa diventare «quasi estraneo al destino di tutti gli altri». Permettono quindi di scongiurare il rischio – posto in luce anche da altri pensatori e che oggi appare particolarmente forte – del rifluire dell’uomo in una dimensione in cui «i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso» (Alexis De Tocqueville).
In definitiva, i doveri, nel pensiero mazziniano, costituiscono strumenti necessari a proiettare l’uomo «in una dimensione comunitaria che lo costringe a fare i conti con l’alterità e con interessi sovrastanti la propria egoistica ed edonistica individualità» (Paolo Grossi).
I richiami alla circostanza che «i più importanti doveri sono positivi» («Non basta il non fare: bisogna fare», «Non basta il non nuocere: bisogna giovare ai vostri fratelli») radicano la c.d. «solidarietà dei doveri» e l’etica della responsabilità, stella polare che deve guidare il cammino dei cittadini.
Per queste considerazioni traspare il legame del pensiero di Mazzini con alcuni dei valori consacrati nella Costituzione, specie laddove questa contiene precisi richiami ai doveri, tema che non ha attirato lo stesso interesse dei diritti, anche per l’asimmetria che ha caratterizzato l’età dei diritti.
L’art. 2 Cost. recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E’ chiaro e preciso il richiamo ai doveri, giustificato, nel corso dei lavori della Costituente, con la considerazione che «poiché l'uomo è “animale sociale” e non può essere giuridicamente considerato se non in quanto tale, ai diritti naturali fanno riscontro, nell'articolo, i correlativi doveri, senza il rispetto dei quali non è possibile l'umana convivenza; e anche questi doveri non sono soltanto quelli specificati nei successivi articoli della Costituzione; sono doveri naturali, al pari dei diritti (rispetto della vita altrui, della libertà di movimento altrui, dell'onore altrui, ecc., ecc.)». Emerge evidente la relazione con il pensiero di Mazzini, frutto della concezione dell’uomo quale «animale sociale», perciò necessariamente calato in una dimensione collettiva e cooperativistica e, appunto per questo, espressamente richiamato dal Presidente della Commissione dei settantacinque (Meuccio Ruini), il quale mise in luce tale matrice ed il legame tra diritti e doveri. Legame che «certo non si traduce in una corrispondenza biunivoca tra situazioni giuridiche soggettive attive e passive», ma «è più complesso e trova ragion d’essere nella funzionalità dei doveri costituzionali alla sopravvivenza di un ordinamento orientato all’affermazione e al mantenimento delle condizioni di sviluppo della persona umana, della quale i diritti di libertà risultano indefettibili declinazioni» (Alessandro Morelli).
Il dovere di solidarietà sociale era dunque immanente al pensiero mazziniano; basta considerare, per avere riguardo a profili, per così dire, concreti, la proposta che egli avanzò di una riforma tributaria ispirata alla tassazione del superfluo, tramite l’intervento legislativo dello Stato, in grado di assicurare «ricompense» proporzionate al lavoro e di garantire l’occupazione anche con una politica di lavori pubblici. È sufficiente tale accenno per evidenziare alcune ragioni di attualità della sua concezione della società. In una fase storica in cui sembra ineluttabile il primato del mercato (perché locus naturalis, mentre è un locus artificialis, Natalino Irti) ed il c.d. «orientamento naturalistico dell’economia», quindi una concezione dalla quale traspare «il volto più sincero dell’economicismo [che] è nell’anti-politica e nell’anti-ideologia» (Natalino Irti), occorre riflettere sulla attualità di una frase di Luigi Einaudi, ricordata dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro («l’economia è ancella della politica»), per garantire che i diritti non siano ridotti a mera proclamazione.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Te oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Dopo gli eventi storici del febbraio 1834, Mazzini impresse un carattere marcatamente religioso al suo pensiero politico, giungendo a ritenere sterile e dannosa una politica non intimamente connessa ad un principio religioso. La religione in Mazzini, ha scritto Maurizio Viroli, non costituisce però «un sistema di dogmi o di verità scritte in questo o quel libro sacro bensì un principio che spinge gli uomini a trovare nuove forme politiche e sociali, il concetto che innalza l’individuo, lo purifica dell’egoismo e lo rende capace di agire nella storia per realizzare un fine morale». Dunque, il «Dio che Mazzini addita al popolo quale ente supremo che orienta le sorti del mondo è “un termine […] a cui può aderire qualunque coscienza di credente”»; è «un principio di giustizia (o di amore) che guida la storia», nel rifiuto dell’immutabilità del dogma, di una religione cristallizzata in una rivelazione fissata per l’eternità e della «pretesa della gerarchia ecclesiastica della interpretazione della rivelazione divina» (Massimo Scioscioli).
Si tratta di conclusioni che emergono chiare quando Mazzini scrive: «noi vogliamo Associazione: come ottenerla sicura se non da fratelli che credano negli stessi principi regolatori, che s’uniscano nella stessa fede, che giurino nello stesso nome?», rimarcando che «vogliano formare Nazione: come riescervi, se non credendo in uno scopo comune, in un dovere comune?» e sottolineando di credere «nell’Umanità sola interprete della legge di Dio sulla terra».
Il riferimento è dunque ad un principio di giustizia, che può essere depurato dal richiamo ad un determinato credo. Tanto, soprattutto laddove egli, attribuendo il compito di individuarlo all’intera Umanità piuttosto che alle gerarchie clericali, permette di fare riferimento ad una religione civile, anziché ad un dato credo. Lo status di cittadino non è poi correlato ad una determinata religione, tenuto conto della declinazione da lui offerta delle libertà. Tra queste include infatti la «libertà di credenza religiosa», sottolineando: «Nessuno ha diritto […] di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose; nessuno fuorché la grande pacifica voce dell’Umanità ha diritto di frapporsi fra Dio e la vostra coscienza».
Per questi profili, il suo pensiero conserva elementi di modernità e costituisce ancora un valido insegnamento. La sua concezione permette infatti di definirlo apostolo di una religione laica, ispirata all’etica della responsabilità, soprattutto quando ammonisce che non v'è «patria senza un diritto uniforme» e non v'è patria «dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze», finalizzando i doveri e l’impegno di ciascuno per il conseguimento di uno scopo di coesione sociale, al fine di garantire il rispetto dei diritti di tutti.
Qui si esauriscono tuttavia gli elementi di modernità del pensiero di Mazzini e la possibilità di rinvenire un collegamento con i valori costituzionali, specie quello di solidarietà.
È difficile negare che il fortissimo sentimento religioso che permea la sua visione è, in larga misura, dissonante rispetto al carattere laico del nostro ordinamento costituzionale. Il distacco si rivela forte quando egli pone in guardia i lettori da quanti affermano che «la politica è una cosa, la religione un’altra. Non le confondete», ammonendoli: «Di quei che così vi parlano […] non amano Dio», per aggiungere, qualche pagina dopo, «possono dirvi cosa che non sia di Dio? Nulla è di Cesare, se non in quanto è conforme alla legge divina. Cesare, ossia il potere temporale, il governo civile non è che il mandatario, l’esecutore, quanto le sue forze e i tempi concedono, del disegno di Dio: dove tradisce il mandato è vostro, non diremo diritto, ma dovere, mutarlo».
Emblematica in tal senso è, infine, l’affermazione «Dio v’ha dato la vita; Dio v’ha dunque dato la legge. Dio è l’unico Legislatore della Razza umana. La sua legge è l’unica alla quale voi dobbiate ubbidire». Si tratta di considerazioni marcatamente orientate che connotano la sua teoria di un «fortissimo contenuto religioso che ne costituiva l’originalità ma, in qualche misura, anche il limite e, per l’identità da lui postulata tra religione e politica, rischiava di farne qualcosa di simile a una teocrazia» (Giuseppe Monsagrati), al punto che Karl Marx si spinse a definirlo «il nuovo Maometto».
Salve le pur importanti considerazioni iniziali, in relazione al profilo in esame appare complicato negare il distacco dell’idea di Mazzini della nostra Costituzione, benché l’osservanza dei valori fondamentali (di matrice e contenuto diverso) costituisca la fonte ed il limite che tutti (anche il legislatore, nello Stato costituzionale) sono tenuti ad osservare e dei quali va pretesa l’osservanza, ma nel nostro ordinamento con modalità ed azioni ovviamente diverse da quelle da lui prefigurate.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Te, come può concretizzarsi questa riflessione?
Nella frase riportata nella domanda si annida l’attualità più profonda del suo pensiero, la concezione della c.d. solidarietà dei doveri e della stretta relazione che li avvince ai diritti, delle quali si è detto in precedenza. Alle considerazioni già svolte va aggiunto che nella premessa dell’Atto di fratellanza della Giovine Europa (1834) egli esplicita il convincimento secondo cui «ad ogni uomo, e ad ogni popolo spetta una missione particolare, la quale, mentre costituisce la individualità di quell’uomo, o di quel popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’umanità». La sottolineatura della finalità dell’adempimento dei doveri può essere letta come un preciso richiamo alla necessità di una cittadinanza attiva, cui ho accennato.
La cittadinanza è una conquista quotidiana, che richiede un dare e un avere; è una adesione consapevole a una comunità intessuta di valori, non solo di interessi; è una compartecipazione emotiva e simbolica, il cui collante è anche la solidarietà dei doveri.
Conservano perdurante attualità non poche esortazioni mazziniane, quali: «avete il dovere d'educarvi per quanto è in voi, e diritto a che la società alla quale appartenete non v'impedisca nella vostra opera educatrice, v'aiuti in essa e vi supplisca quando i mezzi d'educazione vi manchino. La vostra libertà, i vostri diritti, la vostra emancipazione da condizioni sociali ingiuste, la missione che ciascun di voi deve compiere qui sulla terra, dipendono dal grado di educazione che vi è dato raggiungere»; «senza educazione voi non potete scegliere giustamente fra il bene e il male; non potete acquistar coscienza dei vostri diritti; non potete ottenere quella partecipazione nella vita politica senza la quale non riuscirete ad emanciparvi; non potete definire a voi stessi la vostra missione. L'educazione è il pane delle anime vostre».
I richiami non implicano, peraltro, un preciso legame sinallagmatico tra i diritti ed i doveri. La sua concezione è, inoltre, incentrata nell’enfatizzare quello dell’educazione, della conoscenza quale fattore imprescindibile di un giusto progresso, all’interno di una precisa gradazione dei doveri.
I «primi doveri», egli scrive, «sono verso l’Umanità» - che specifica essere «un corpo solo» - in quanto «siete uomini: cioè creature ragionevoli, socievoli, e capaci, per mezzo unicamente dell’associazione, d’un progresso a cui nessuno può assegnar limiti». Mazzini si rivela dunque predicatore di un civismo di sicura attualità, come lo è la sottolineatura che «la legge deve esprimere l’aspirazione generale, promuovere l’utile di tutti».
Moderna ed attuale, per alcuni profili, è altresì la concezione della legge. Nell’affermazione che «il semplice voto d’una maggioranza non costituisce sovranità se avversi evidentemente alle norme morali supreme, o chiuda deliberatamente la via al Progresso futuro» sono rinvenibili le radici del costituzionalismo moderno, quale ordinamento capace di porre al riparo le minoranze dallo strapotere delle maggioranze parlamentari, che condussero alle immani tragedie della prima parte del secolo scorso.
La declinazione delle libertà (della libertà personale, di locomozione, di credenza religiosa, «d’opinioni su tutte cose», «d’esprimere colla stampa o in ogni altro modo pacifico il vostro pensiero», di «libertà d’associazione per poterlo fecondare col contatto nel pensiero altrui», di «libertà di traffico»), dell’essere il lavoro «sacro: nessuno ha diritto di vietarlo», riassume ed anticipa le istanze che costituiscono il nucleo essenziale dei diritti di libertà, quali consacrate nella Costituzione.
Si tratta, peraltro, di una declinazione che non si esaurisce in mera proclamazione. Ad essa si accompagna infatti la precisa indicazione dei diritti che scaturiscono dalle libertà e dei rimedi imprescindibili per garantirne l’effettività.
Egli sottolinea: «nessuno ha diritto, in nome della Società, d’imprigionarvi o sottomettervi a restrizioni o invigilamento, senza dirvi il perché, senza dirvelo col minore indugio possibile, senza condurvi sollecitamente davanti al potere giudiziario del paese»; «Nessuno ha diritto di persecuzione, d’intolleranza, di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose»; «La stampa dev’essere illimitatamente libera: i diritti dell’intelletto sono inviolabili, ed ogni censura preventiva è tirannide; la Società può, come tutte le altre colpe, punire soltanto le colpe di stampa, la predicazione del delitto, l’insegnamento dichiaratamente immorale: la punizione in virtù d’un giudizio solenne è conseguenza della responsabilità umana, mentre ogni intervento anteriore è negazione della libertà».
Mi è sembrato opportuno riportare tali affermazioni, perché anticipano e riassumono il nucleo fondamentale delle garanzie costituzionali, individuando nella giurisdizione l’essenziale fattore di garanzia e tutela, sino ad anticipare, per alcuni profili, i principi del giusto processo. Di sicura attualità è altresì il riferimento al contenuto della libertà di stampa e di opinione, ma anche ai doveri alle stesse correlati, che inducono ad una riflessione con riguardo al nuovo fenomeno dei social network ed al diritto alla privacy che, per essere tutelato, richiede un rafforzamento dei doveri di non intrusione e di rispetto delle sfere soggettive individuali (specie da parte dei soggetti titolari di un potere economico immane, gestori dei cc.dd. Big data).
La relazione tra diritto e dovere di libertà («voi avete dunque diritto alla Libertà e dovere di conquistarla») è, infine, preciso sprone verso la cittadinanza attiva, che fonda il «dovere di educazione», quale libertà che permette di ripigliare i diritti. L’evocazione del dovere come legge di vita civile non comporta una rinuncia ai diritti, ma è ammonimento ad essere cittadini attivi, per non divenire meri consumatori.
In definitiva, la declinazione dei doveri operata da Mazzini, ponendo al centro il dovere di amare l’umanità, di superare gli interessi particolari, personali, nell’interesse generale e, quindi, di servire il bene comune costituisce presidio che concorre a difendere «la dignità della natura umana […] violata dalla menzogna e dalla tirannide». Ed il suo ammonimento deve costituire un imperativo non soltanto per i cittadini, quali persone fisiche, ma per tutti i soggetti dell’ordinamento, anche per le organizzazioni collettive – in special modo lucrative – in quanto non possono pretendere di instaurare un nuovo ordine basato solo sul profitto.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritieni dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
La domanda evoca in me ricordi dell’infanzia e mi sollecita una risposta da dare con il cuore piuttosto che con la ragione. Ho frequentato le scuole elementari nei primi, lontanissimi, anni sessanta del secolo scorso, in cui il c.d. ‘sussidiario elementare’, nella parte dedicata alla storia, prestava rilevante attenzione al Risorgimento, celebrato ogni anno in un’apposita giornata (nella quale apponevamo sul grembiulino una coccarda tricolore). Una delle figure centrali era infatti quella di Giuseppe Mazzini; fu così che in me si radicò il convincimento, essenzialmente emotivo, che quel signore barbuto raffigurato nel mio libro era appunto uno dei Padri dell’Italia.
Al di là dei ricordi della memoria, è certo che la Patria è centrale nella concezione di Mazzini. Si tratta tuttavia di una concezione ben lontana da quella (distorta) che impronta i movimenti che enfatizzano antistoriche (ovviamente, esecrabili) divisioni tra gli Stati, separati da rigidi, invalicabili, confini al cui interno ciascuno è sovrano e non dovrebbe rendere conto a nessun altro. Soltanto un misunderstanding può far rinvenire nel suo pensiero gli elementi dei più rozzi nazionalismi del secolo scorso (e di quello attuale), frutto invece di una manipolazione che fece «del mazzinianesimo ciò che non era mai stato: il viatico a una politica di potenza e di affermazione della nazionalità italiana nello scontro con le altre nazioni d’Europa» (Giuseppe Monsagrati).
Giuseppe Mazzini è stato sicuramente uno dei Padri dell’unità d’Italia, ma egli vedeva in tale unità il passaggio fondamentale verso la realizzazione dell’unità europea attraverso l’affratellamento di tutti i popoli europei nel segno della democrazia. Ancora una volta, è sufficiente ricordare le parole di due Presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi (lo «onoriamo come uno tra i Padri più nobili e lungimiranti della nostra Patria, l'Italia repubblicana, una, indivisibile e democratica», ma anche «dell’Europa unita») e Antonio Segni (il quale, nel discorso di insediamento, in un tempo vicino alla nascita della Comunità europea, ricordò: «Questa unità fondamentale dell’Europa fu intuizione ed aspirazione di uno dei più grandi spiriti del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini»).
La Patria, per Mazzini, costituiva dunque strumento per l’integrazione dei popoli e per la difesa dei diritti inviolabili dell’uomo. Al centro della sua costruzione vi è infatti essenzialmente la «associazione», da lui additata quale «dovere e diritto per voi» e che, in alcuni passaggi, si distacca altresì dalla nozione di Patria nazionale.
Egli, infatti, scrisse: «Taluni a limitarne il diritto fra i cittadini, vi diranno che l’associazione è lo Stato, la Nazione: che voi ne siete e dovete esserne tutti membri; e che quindi ogni associazione parziale tra voi è o avversa allo Stato o superflua. Ma lo Stato, la Nazione non rappresentano se non l’associazione dei cittadini in quelle cose, in quelle tendenze che sono comuni a tutti gli uomini che ne sono parte».
Si tratta di considerazioni che pongono al centro della sua visione «l’associazione», quale «metodo dell’avvenire». Sottolineando che questa deve essere «progressiva», «non contraria alle verità conquistate per sempre dal consenso universale dell’Umanità», «pacifica», «deve rispettare in altrui i diritti che sgorgano dalle condizioni essenziali dell’umana natura», egli ne delinea i caratteri che, in larga misura, sono quelli che connotano le moderne organizzazioni di cooperazione tra gli Stati.
Una dimensione sovranazionale del suo progetto ed il carattere aperto dell’associazione sono altresì precisamente fissati quando scrive (nell’Atto di fratellanza della Giovine Europa) che «La riunione delle Congreghe Nazionali, o dei delegati d’ogni Congrega costituirà la Congrega della Giovine Europa. Gli individui che compongono le tre associazioni sono fratelli. Ognuno di essi adempirà coll’altro ai doveri di fratellanza» (punto 5), sottolineando che «Qualunque popolo vorrà partecipare ai diritti ed ai doveri della fratellanza stabilita fra i tre popoli collegati in quest’atto, aderirà formalmente all’atto medesimo, firmandolo per mezzo della propria Congrega Nazionale» (punto 8).
L’universalità della sua visione è stata puntualmente rimarcata, ricordando che nei suoi scritti politici e nelle sue lettere «è impossibile trovare quei giudizi sprezzanti per i popoli non europei o quelle giustificazioni dei massacri compiuti da talune potenze europee». Al riguardo, è stato ricordato che il Pandit Nehru, nel 1933, dal carcere additò alla figlia Giuseppe Mazzini quale esempio da seguire (Massimo Scioscioli), che pone in luce un’anticipazione dei tempi addirittura straordinaria, se si pensa che le sue riflessioni erano svolte in un tempo dominato dalle politiche colonialiste degli Stati europei. La sua esortazione, ricordata dal Presidente Ciampi, «ad essere apostoli della Fratellanza delle Nazioni e dell'unità del genere umano» («In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte pel diritto, pel giusto, pel vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall'errore, dall'ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, SIETE TUTTI FRATELLI») è di sicura attualità in questi giorni in cui sull’Europa soffiano nuovamente tragici venti di guerra.
Il valore e la grandezza dell’insegnamento europeo di Giuseppe Mazzini non stanno, tuttavia, nella concezione, sostanzialmente vaga, della sua Europa, e neppure nella convinzione (che non ebbe) di una unità sovranazionale, benché avesse sottolineato che cercava di «verificare non una Europa, ma gli Stati Uniti d’Europa». L’europeismo di Mazzini, è stato convincentemente osservato, derivava dal profondo concetto dell’unità della cultura europea, «nello spirito, nell’anima morale di tutta la sua attività, interamente volta a mostrare – e a vivere una tale convinzione – che la democrazia, la libertà, la difesa della dignità dell’uomo sono solidali a livello europeo, o sono destinate a perire» (Andrea Chiti-Batelli), nell’intuizione (puntualmente segnalata da Pasquale Costanzo) della necessità di «equilibrare le differenze che separano un mercato da un altro». Per questa concezione, «non c’è contraddizione alcuna fra amore della propria città e regione, amor di patria, amore d’Europa» (sono parole del Presidente Ciampi nel Messaggio di fine anno agli italiani del 31 dicembre 2000), se solo si considera che lo stesso motto dell’Unione europea («Uniti nella diversità»), secondo la spiegazione ufficiale offerta nel sito web della stessa, «sta ad indicare come, attraverso l'UE, gli europei siano riusciti ad operare insieme a favore della pace e della prosperità, mantenendo al tempo stesso la ricchezza delle diverse culture, tradizioni e lingue del continente».
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni Ti suscita questa affermazione, da giurista e da magistrato?
I Doveri dell’uomo sono espressamente dedicati agli operai italiani ed il pensiero politico di Mazzini è strettamente connesso con l’interesse per la questione sociale. Egli tentò infatti di coinvolgere l’intero popolo in un’iniziativa rivoluzionaria volta ad un «miglioramento delle classi più numerose e più povere», spronandolo all’azione e chiarendo i diritti e i vantaggi che avrebbe potuto trarre dal nuovo assetto sociale, nel convincimento che i cittadini potevano essere chiamati a sacrificare la vita e la quiete soltanto «proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale e materiale comune a tutti, di educazione fraterna senza eccezione».
Giuseppe Mazzini si batté per l’aumento dei salari e per la riduzione della giornata lavorativa; auspicò forme speciali di credito per gli operai, per agevolare l’accesso alla proprietà dei mezzi di produzione; la sola forma di proprietà da lui accettata fu quella proveniente dal lavoro, che doveva deve essere resa accessibile al maggior numero di cittadini: «Non bisogna abolire la proprietà, perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla» (così scrive nei Doveri dell’uomo).
Per Mazzini, la soluzione più efficace alla questione operaia poteva derivare soltanto dal fermento rinnovatore rappresentato dall’associazione e dalla sua definizione in senso cooperativistico; appunto per questo, assunse grande rilievo l’impegno politico verso le «classi operose», che avrebbe dovuto tradursi in uno sforzo organizzativo per la creazione di società di mutuo soccorso e per la loro politicizzazione in senso democratico.
Il programma operaio di Mazzini restava, comunque, essenzialmente focalizzato su «una progressiva elevazione morale e culturale della classe operaia» (Nello Rosselli), in coerenza con il suo complessivo pensiero, scarsamente attento agli aspetti economici (particolarmente polemica la considerazione di Giuseppe Garibaldi secondo cui Mazzini non aveva esperienza delle reali condizioni del popolo, non avendolo mai conosciuto da vicino) e che fu alla base delle aspre, note, polemiche con Marx e Bakunin.
È dunque sufficiente ricordare che alcuni hanno ritenuto che le sue considerazioni sulla questione sociale ed operaia prefiguravano in realtà un mero «libro dei sogni» (Enrico Galavotti); altri hanno invece rinvenuto nel suo pensiero le radici del «modello forse impropriamente definito “socialdemocratico”» che, con diverse varianti, ha guidato lo sviluppo delle economie dei paesi europei (Massimo Scioscioli), emergendo, in ogni caso, l’attualità di una perdurante riflessione sul suo pensiero.
I Doveri dell’uomo, espressamente dedicati, come detto, agli operai, hanno altresì quale destinatario la donna e si inquadrano, storicamente, in un’epoca in cui vedevano la luce i primi giornali a questa dedicati. La concezione della Repubblica di Mazzini è focalizzata sull’idea di uno Stato non più basato sui privilegi di nascita, di censo, di sesso, il cui principio cardine è il suffragio universale, esteso perciò anche alla donna.
Già solo tale notazione vale ad evidenziare la modernità di Mazzini anche in relazione alla situazione della donna, soprattutto se si tiene conto di quella esistente al suo tempo.
Accanto a tale sicura modernità si accompagnano però considerazioni chiaramente datate, soprattutto con riguardo alla famiglia, in relazione alla quale (nel capitolo dedicato ai doveri verso la stessa) egli ripropone una risalente (all’epoca, radicata e tradizionale) visione che vede la donna essenzialmente quale «Angelo della Famiglia» e che, in nuce, contiene il germe di una concezione oppressiva, fortunatamente superata dall’evoluzione successiva, a tutti nota alla quale non è dunque necessario accennare.
Non poche sono tuttavia le riflessioni – alcune di sicura attualità ed ancora oggi condivisibili – con le quali sottolinea l’esigenza di realizzare un’eguaglianza effettiva di genere. Anziché attardarsi nell’esegesi del suo pensiero, è sufficiente ricordare che egli scrive: «Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione»; «cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi quell’apparente [l’enfasi è di Mazzini] inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione». «Non esiste disuguaglianza fra l’uno e l’altra»; «abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica».
La profonda religiosità di cui è intriso non gli impedì, inoltre, di scrivere: «La Bibbia mosaica ha detto: Dio creò l’uomo e dall’uomo la donna; ma la vostra Bibbia, la Bibbia dell’avvenire dirà: Dio creò l’Umanità manifestata nella donna e nell’uomo».
Si tratta infatti di considerazioni univocamente espressive del convincimento più profondo dell’eguaglianza di genere, la cui realizzazione esige che si dia corso al dovere di tutti di praticarla.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Tuo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La domanda è assai interessante, ma con sincerità devo dire che è arduo rinvenire un collegamento con il pensiero di Mazzini e, quindi, suggerisce riflessioni sul significato della riforma costituzionale, che è opportuno restino riservate ai costituzionalisti coinvolti in questa iniziativa – in particolare, ad Antonio Ruggeri ed Alessandro Morelli –, i quali, diversamente da me (sicuramente più di me), hanno titoli e sapienza per svolgerle. Dunque, ritengo senz’altro più proficuo ed utile (per me e per tutti i lettori), leggere le loro considerazioni.
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