ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La lotta alla mafia durante la pandemia da Covid-19: ricognizioni, errori e prospettive*
di Andrea Apollonio
Sommario: 1. La lezione del Covid-19 - 2. Al posto dello Stato - 3. La mafia che “aiuta” - 4. La mafia che si fa “impresa” - 5. Gli errori e le prospettive.
1. La lezione del Covid-19
La gravissima crisi economica in cui il Paese è sprofondato nel marzo 2020, dettata dall’emergenza sanitaria per la diffusione pandemica del virus Covid-19[1], sembra ormai alle spalle, almeno a voler considerare i dati confortanti sulla crescita del PIL per l’anno 2021[2]. D’altro canto, la capillare diffusione del rimedio vaccinale e degli strumenti connessi, quale il Green Pass, consente ragionevolmente di ritenere non più praticabili le politiche governative di rigido e generalizzato confinamento personale, di limitazioni agli spostamenti e, conseguentemente, delle attività economiche; le quali, adottate a momenti alterni tra il marzo 2020 e il giugno 2021 per fronteggiare le c.d. "ondate" del virus[3], tracciano un arco temporale che oggi, e comunque col passare del tempo, può cominciarsi ad osservare non più in chiave acritica, coeva e contingente, ma con maggiore cognizione e con riferimento agli effetti che in concreto la pandemia ha determinato sul piano socio-economico.
La stagione emergenziale - che possiamo osservare ancora da vicino, ma in ogni caso fuori dal periodo più critico e certamente imprevisto delle prime "ondate" e delle conseguenti limitazioni della libertà di movimento e di impresa - è stata infatti un banco di prova per le politiche economiche e sociali, intese come tentativi di governare, da parte dei poteri pubblici, il mondo degli investimenti, dell’imprenditoria, del lavoro. La pandemia ha innescato cambiamenti attesi e inattesi, ha accelerato trend in ogni campo; ivi compreso quello dei fenomeni criminali poiché, a ben vedere, la lezione del Covid-19, che già adesso possiamo trarre e che sicuramente gli studiosi di domani sapranno meglio valorizzare, riguarda in particolar modo le disfunzioni della società (la disoccupazione, il lavoro nero, le economie sommerse, e via così fino ad arrivare all’attività illecita dei gruppi mafiosi) tanto da collegarle tutte[4].
Cosicché, neppure lo studio e l’osservazione delle mafie può prescindere da quella che è stata la lezione del Covid-19: un evento talmente dirompente da poter essere utilizzato quale lente convessa dei percorsi intrapresi da quella criminalità mafiosa che oggi si cela prevalentemente dietro i colletti bianchi; onde registrarne le mutazioni, captarne i cambiamenti e le evoluzioni[5].
Non va taciuto che la storia delle mafie percorre la storia del Paese degli ultimi ottant’anni, segnata nel profondo da gravi tragedie sociali e calamità naturali: tutte parimenti tappe dell’evoluzione del fenomeno mafioso. Così come il movimento indipendentista siciliano del dopoguerra è stato strumentalizzato da cosa nostra quale arma di ricatto per le nascenti istituzioni democratiche, così il terremoto dell’Irpinia del 1980 ha determinato uno scontro violentissimo all’interno della camorra per l’accaparramento degli appalti pubblici, dando vita alla sanguinosa guerra tra la nuova camorra organizzata e la nuova famiglia[6]. Come pure, il più recente terremoto dell’Emilia del 2012 ha fatto emergere, sul piano investigativo prima e giudiziario poi, la presenza operativa delle cosche mafiose calabresi in quell’area, ormai spinte alla delocalizzazione, al decentramento degli interessi mafiosi ed economici, alla pesante infiltrazione nel tessuto imprenditoriale[7]. Sono solo alcune delle tappe dell’evoluzione del fenomeno mafioso connesse ad eventi di grande rilievo nazionale.
Partendo da questi presupposti, un evento planetario, epocale e disastroso come lo scoppio della pandemia da Covid-19 è, per sua stessa natura, un’ulteriore tappa della lunga storia criminale delle mafie italiane; e adesso può cominciare ad essere osservato ed analizzato in quanto tale.
2. Al posto dello Stato
La storia delle mafie è la storia della sostituzione di un potere ad un altro potere: della sostituzione del potere statuale con quello mafioso. È un dato storico oramai accertato che la mafia sia nata e si sia sviluppata in virtù di un’esigenza di protezione espresso dalle più svariate fasce sociali: dalle più basse e povere alle più facoltose, dalle più reiette, fino ad arrivare a soggetti istituzionali[8]. I latifondisti siciliani e calabresi di metà ottocento dovevano proteggere i frutti della terra e controllare la vasta manodopera, in un contesto socio-politico in cui lo Stato (borbonico prima, sabaudo poi) era impalpabile: e per questo si servivano di gabellotti mafiosi che riscuotevano gli affitti e soffocavano ogni forma di ribellione[9]. E poco più tardi, sempre in Sicilia, i mafiosi sarebbero diventati la mano armata delle istituzioni che fronteggiavano il brigantaggio: «La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale» , rivela nel 1871 il magistrato siciliano Diego Tajani[10], poi divenuto ministro della giustizia dell’Italia liberale.
Anche col novecento ogni vuoto sociale lasciato dallo Stato viene riempito dalla mafia. Lo scrittore siciliano Andrea Camilleri ha raccontato che suo nonno, proprietario di due miniere di zolfo, mandava i soldi per i pagamenti dei minatori in contanti con un uomo che viaggiava tranquillo perché nei punti più pericolosi c’era qualcuno a lui invisibile che con un fischio gli segnalava il via libera. «Chi erano i fischiatori? Erano mafiosi pagati da mio nonno per proteggere il percorso che veniva fatto settimanalmente. Allora non era previsto che la polizia o i carabinieri ti scortassero mentre effettuavi i pagamenti... quindi quello era un sistema che già si sostituiva allo Stato» [11].
Le stesse dinamiche si registravano, lungo i decenni, in Calabria con gli ‘ndranghetisti e nel napoletano con i camorristi. D’altro canto, l’immagine più veridica e nitida della mafia sta nella commedia di Eduardo de Filippo, Il sindaco del rione sanità (1960): don Antonio Barracano è un personaggio temuto e rispettato da tutti i cittadini, i quali si rivolgono a lui per comporre liti e chiedere giustizia, ben sapendo che lo Stato, nelle procedure attivate nei tribunali, non è in grado di assicurare giustizia con la stessa celerità e la stessa efficacia[12].
Sul finire degli anni settanta, con lo sviluppo del traffico di droga e l’avvio della globalizzazione delle attività criminali, quando la mafia da soggetto sociale si tramuta anche in soggetto economico con elevata capacità di guadagno e di spesa, comincia - nel senso sopra detto - a sostituirsi allo Stato anche sul piano della regolamentazione dell’economia[13]. La mafia diventa impresa surrogando con i propri metodi la libera concorrenza, ma al contempo creando facile ricchezza e posti di lavoro; assume le vesti di ente assistenziale, sostituendosi allo Stato, nei confronti delle popolazioni da soggiogare: la cosca mafiosa si eleva così, con un modello operativo che arriva fino ai giorni nostri, a punto di riferimento primario per chi non ha fiducia nella disciplina pubblica e ricerca mezzi di sussistenza oppure occasioni per avvantaggiarsi.
Lo spaccato proposto, che abbraccia oltre un secolo e mezzo di storia italiana, aiuta a comprendere più concretamente quali siano i rischi che oggi corre il Paese, da quasi due anni alle prese con l’epidemia Covid-19 e dai connessi, vertiginosi problemi socio-economici. Il propagarsi del virus ha infatti costretto lo Stato ad adottare rigorose misure di contenimento sanitario e di confinamento personale; misure diversamente graduate a seconda del periodo e della gravità della situazione pandemica, che nel complesso hanno penalizzato la gran parte degli operatori commerciali. Un’ampia fetta degli operatori economici si è ritrovata improvvisamente priva di entrate.
Lo Stato ha cercato di limitare i devastanti rilfessi economici su di una popolazione segregata nelle proprie abitazioni, e alle prese con un drammatico distanziamento sociale, con una politica di ristori confluiti nel mondo del lavoro[14]. Si è tenuto conto delle perdite di fatturato, rispetto agli anni precedenti, del singolo operatore: ma in ogni caso sono state erogate risorse insufficienti, distribuite sulla scorta di meri dati contabili (gli unici, d’altronde, obiettivamente verificabili) e senza considerare quell’ampia fetta di lavoro "nero"; che pure, al Sud comprende numeri di primaria grandezza. Lo Stato insomma, per suoi limiti funzionali, non è riuscito a fornire le adeguate prestazioni assistenziali richieste a gran voce dalla collettività e dagli operatori commerciali, che nel pieno della pandemia versavano in obiettiva difficoltà[15].
È in questo contesto che le mafie riescono ad avvantaggiarsi, sostituendosi allo Stato sul piano economico e socio-assistenziale: venendo incontro alla gente comune con piccoli aiuti in denaro e facendo leva sulle difficoltà per offrire lavori utili alla filiera mafiosa (si pensi alle c.d. "vedette" nello spaccio di sostanze stupefacenti, oppure all’utilizzo di prestanomi per l’intestazione fittizia dei beni)[16]. Ma anche venendo incontro agli imprenditori in stato di bisogno, mettendo a disposizione il loro denaro "sporco". Così facendo, le cosche raggiungono un triplice obiettivo: fidelizzare il comune cittadino e l’operatore economico; speculare sui prestiti concessi fino, al limite, a rilevare l’impresa beneficiata; riciclare capitali illeciti immettendoli nel sistema commerciale.
Non solo. In un momento di asfissia economica, con il contestuale allargamento delle maglie dei finanziamenti statali ed europei, le mafie (che per loro stessa natura dispongono di ingenti risorse conseguite in modo illecito ed anticoncorrenziale) hanno la possibilità non soltanto di aiutare, ma anche di farsi impresa, sovvertendo per tale via tutti gli equilibri del mercato[17]: approfittando proprio della maggiore propensione degli enti pubblici a finanziare, finanche a fondo perduto. La storia delle mafie ci insegna che nessuno meglio dei mafiosi-imprenditori riesce a muoversi tra le normative di stimolo dell’economia, spesso lacunose e incoerenti, divenendo costoro i primi destinatari delle misure.
La storia ci insegna, per questa via, che le mafie sono essenzialmente fenomeni politico-sociali[18] tesi a individuare rapidamente i mutamenti radicali di una società: il loro è, storicamente, un punto di vista privilegiato da cui scorgere in tempo reale i vuoti, a volte le voragini, che si aprono sul manto sociale ed economico. La rapida diffusione del virus Covid-19 ha colto tutti gli attori istituzionali (le Regioni, lo Stato, l’Unione Europea, le organizzazioni internazionali) impreparati, ad eccezione appunto delle mafie, che si sono mostrate pronte a raccogliere le enormi opportunità di profitto connesse all’epocale sfida alla pandemia: sia aiutando gli altri attori economici e sociali, sia facendosi impresa. Queste le due direttrici delle considerazioni che seguiranno.
3. La mafia che “aiuta”
Parlare di mafia che aiuta può apparire un paradosso: le mafie infatti operano col metodo mafioso (se così non fosse, non sarebbero tali), ovverosia facendo leva sulla forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo. Un gruppo mafioso riesce a conseguire una egemonia economico-territoriale proprio grazie alla capacità di assoggettamento che riesce ad esprimere tramite la violenza e la minaccia[19]. La presenza mafiosa è una forza prevaricatrice che si impone sul territorio e contrasta con metodi feroci chi vi si oppone: tanto da condensare un «ordinamento parallelo a quello ufficiale, caratterizzato dall’uso della violenza» , come tradizionalmente affermano gli scienziati sociali[20]. Eppure le mafie, dopo un certo periodo di esercizio della violenza, al fine di radicarsi più profondamente nel tessuto sociale assumono, in superficie, una immagine benevola; specularmente, cambiano anche le forme in cui si dispiega il metodo mafioso.
I teorici del fenomeno mafioso ci insegnano che il radicamento sul territorio di una mafia passa attraverso due essenziali passaggi storici, che tengono in conto un diverso rapporto con le popolazioni da soggiogare. Semplificando, potremmo dire che in un primo tempo il gruppo mafioso si impone esercitando violenza e intimidazione. E’ interessante al proposito l’affermazione di un importante storico del fenomeno: «Le quattro organizzazioni mafiose hanno avuto dall’inizio un metodo comune: utilizzare la violenza privata in tutte le sue espressioni (intimidazione, minaccia, ricatto, attentati, omicidi ma anche protezione pagata, mediazione forzosa e parassitaria che dà luogo a tangenti e a percentuali varie) come strumento di arricchimento e mobilità sociale» [21].
Dopo questa prima fase, la cosca per poter operare indisturbata deve evolversi: tende a diventare un elemento connaturato al contesto sociale di riferimento, e per riuscirci ricerca il consenso della popolazione[22]. E’ questo lo stadio - in cui tutte le mafie italiane oggi si trovano - ove i mafiosi si mostrano subdolamente come benefattori, spesso col volto pulito dei colletti bianchi; come coloro che "aiutano" la popolazione: sul piano economico, con piccoli e grandi prestiti a comuni cittadini e ad imprenditori, con l’agevolazione nell’assegnazione di appalti, con l’elargizione di posti di lavoro, con la pronta solvenza dei crediti; sul piano sociale, ponendosi come autorità in grado di fare giustizia, di dirimere le controversie, di fronteggiare efficacemente la micro-delinquenza[23]. Un compito sociale di mediazione tra la popolazione sempre più spaventata, diffidente, impaurita, dalle pulsioni illogiche e irrazionali [24] e la politica disattenta e lontana dai bisogni dei cittadini che, in tempo di crisi, viene ad essere più rilevante.
Ebbene, in questa fase di sviluppo del fenomeno mafioso, oggi in essere, il relativo metodo non è accantonato, ma viene accuratamente celato. Ma è un rapporto che nasconde in realtà forme di soggiogamento, esercitate non con la violenza ma con l’inganno: perché i mafiosi tendono la mano soltanto laddove l’opera prestata si tramuta in un beneficio tangibile per la cosca. E quello del Covid è, per i mafiosi, il periodo storico più propizio per intrecciare con la - sempre più ampia - fetta di popolazione bisognosa un vincolo di silente tolleranza del fenomeno mafioso, riconosciuto persino più utile e necessario dello Stato.
I quasi due anni di pandemia, causando la perdita del lavoro per molte categorie di persone ed acuendo situazioni di disagio e povertà, dimostrano che la popolazione abbandonata dalla mano pubblica è sempre più propensa ad andare incontro a chi è in grado comunque di elargire prontamente le risorse: specularmente, questo periodo mostra un aumento del potere mafioso, in termini di capacità di far fronte nell’immediato ai bisogni primari della gente più svantaggiata.
Già si è accennato alle piccole somme elargite da esponenti delle cosche a chi versa in stato di bisogno, utili anche solo a pagare le bollette o a fare la spesa; nell’ultimo periodo, a seguito del disagio finanziario vissuto da molte famiglie, è inoltre emerso un ulteriore aspetto a sostegno del ruolo di mediazione[25] delle mafie e della spregiudicata avidità degli affiliati, che non esitano a sfruttare misure assistenziali come il reddito di cittadinanza: indebitamente conseguite per sé o per altri soggetti estranei all’associazione, che a questa si rivolgono per la compilazione truffaldina delle pratiche necessarie. Le mafie, grazie anche alla filiera di professionisti e colletti bianchi di cui dispongono, ottengono rapidamente benefici economici continuativi per sé e per altri, determinando la gratitudine e, quindi, la messa a disposizione del percettore[26].
Si è anche fatto cenno ai posti di lavoro di cui una mafia dispone, direttamente o indirettamente: un dato che in questo frangente storico deve particolarmente allarmare gli attori del contrasto al fenomeno. Sul punto, va ricordato che tra i pochi settori per i quali si è registrato un forte incremento degli utili vi è appunto l’edilizia, a cui il Governo - già in pieno lockdown - si è rivolto individuando apposite misure di rilancio in forma di "bonus" da riconoscere a seguito di ristrutturazioni e costruzioni eco-sostenibili: ma si tratta di un settore che da sempre suscita gli appetiti anche delle mafie, perché è quello che permette di ottenere ampi margini di guadagno e di innescare più agevolmente meccanismi di riciclaggio di denaro, grazie alla mole di forniture necessarie ed alla possibilità di effettuare pagamenti non tracciabili (es. alla manodopera retribuita a giornata). Ma anche perché nell’ambito dell’edilizia i mafiosi dispongono di numerosi soggetti economici, direttamente o indirettamente controllati: basti pensare alla "protezione" che, nelle aree a controllo mafioso, si impone sui cantieri pubblici e privati; ma anche - forse sopratutto - all’assegnazione pilotata di grossi appalti ad imprese in odore di mafia per mano di amministratori pubblici collusi, che è da sempre il principale strumento di controllo economico del territorio da parte di un gruppo mafioso[27].
In quest’ambito, assecondando le previsioni del mercato, la domanda di lavoro a seguito della pandemia è risultata in forte crescita, e ciò ha permesso ai mafiosi di favorire assunzioni regolari o "in nero", o anche soltanto di offrire la paga per manodopera a giornata; si tratta di merce di scambio utile al conseguimento degli obiettivi primari di una mafia: radicamento e consolidamento su di un territorio.
Le mafie quindi aiutano direttamente, con favori ed elargizioni; contribuiscono all’ottenimento di benefici assistenziali e posti di lavoro nei settori economici da queste controllate (quale l’edilizia). Ma non solo.
Le cosche tendono la mano non soltanto attingendo dalle imprese direttamente o indirettamente controllate, dal proprio patrimonio di capitali illeciti, ma anche utilizzando fondi pubblici gestiti in maniera clientelare[28]. Dovendo ancora considerare le misure emergenziali adottate durante la pandemia, si pensi ai c.d. "buoni spesa": un aiuto straordinario per contrastare l’indigenza adottato nella primavera del 2020 dal Governo, che ha destinato ai comuni quasi mezzo miliardo di euro per iniziative assistenziali. Tuttavia, senza alcun controllo a monte sull’elargizione di tali buoni, nelle amministrazioni comunali infiltrate si è assistito ad una gestione personalistica degli aiuti, destinati soltanto ai soggetti che i gruppi mafiosi intendevano favorire[29]. Le cosche, tramite i loro esponenti nelle amministrazioni comunali, riuscivano così ad accrescere il consenso sociale anche con aiuti provenienti dallo Stato.
In questo modo la mafia, sostituendosi a compiti propri dello Stato, che ha quale primaria missione istituzionale quella di supplire alle disfunzioni dell’economia e ad una (per quanto possibile) equa ripartizione della ricchezza, grazie anche al favore mostrato dalla cittadinanza, sfrutta al massimo grado la situazione pandemica, la condizione di indigenza e bisogno della collettività: "aiuta" la popolazione e si infiltra nel tessuto economico-sociale del Paese, determinando gravi rischi per la tenuta democratica.
4. La mafia che si fa “impresa”
Poche settimane dopo lo scoppio della pandemia, con due distinte circolari, la Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato[30] segnalava la necessità di prestare grande attenzione alle infiltrazioni della criminalità organizzata e mafiosa nel settore degli appalti pubblici e, più nello specifico, nelle forniture sanitarie. Il repentino congelamento dei consumi aveva infatti indotto il Governo ad adottare normative che agevolassero, in deroga, gli affidamenti diretti di lavori pubblici alle imprese, accentuando il trend che era partito l’anno prima con il decreto c.d. "sblocca-cantieri". L’obiettivo dichiarato era ridurre significativamente le tempistiche delle procedure di aggiudicazione: ciò, al fine di stimolare l’economia - se non altro sul fronte delle commesse pubbliche - agevolando e semplificando le gare d’appalto, i cui procedimenti venivano ritenuti troppo farraginosi.
In questo contesto, un’ulteriore semplificazione delle procedure di gara è stata predisposta per garantire nell’immediato, alle strutture ospedaliere, la disponibilità dei dispositivi di protezione individuale, quali mascherine e guanti protettivi, e di dispositivi medici (in particolare ventilatori polmonari), ma anche di infrastrutture d’accoglienza adeguate. Sopratutto nelle prime settimane dell’emergenza - in cui, come si ricorderà, sono stati adibiti e costruiti in poco tempo ampi spazi per la degenza dei malati Covid-19, o addirittura veri e propri "Covid hospital" - nel settore sanitario sono state adottate procedure emergenziali, la cui scarsa trasparenza degli affidamenti veniva controbilanciata dall’urgenza del momento.
Il richiamo degli organi di polizia ad innalzare la soglia di attenzione si collega appunto all’allargamento delle maglie dei controlli nelle procedure di affidamento di lavori e servizi da parte di enti pubblici; che, come detto, sono sotto la lente di ingrandimento delle associazioni mafiose, bramose di sottrarre - con i propri metodi conniventi, corruttivi e anticoncorrenziali - risorse allo Stato per raggiungere gli obiettivi di prevaricazione e di arricchimento.
A distanza di molti mesi da quei moniti rivolti dagli organi del contrasto, sono oggi emerse evidenze di indagine che confermano il tentativo (spesso andato a buon fine) da parte delle mafie di inserimento nei settori maggiormente coinvolti dall’emergenza da virus Covid-19: sono stati ad esempio scoperti redditizi giri d’affari di imprese di diretta derivazione dai clan mafiosi che si erano subito convertite in operatori di sanificazione degli esercizi commerciali e pubblici, con l’immancabile ausilio di prestanome cui fittiziamente intestare le società[31]. E con riferimento alle strutture sanitarie, è stato anche confermato il pericolo di infiltrazione mafiosa (e in particolare ‘ndranghetista, in una terra - la Calabria - in cui ben due aziende sanitarie provinciali sono state commissariate per mafia), con una spinta alla corruzione dei dirigenti delle strutture agevolata dall’implicita minaccia dell’esercizio del metodo mafioso da parte degli agenti corruttori[32].
È doveroso a questo punto ricordare che il legislatore del 1982 ha così descritto l’associazione mafiosa: "L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali". Tra le altre caratteristiche del gruppo mafioso, il legislatore dunque non ha certo lasciato in ombra la mafia che si fa impresa[33], mediante la disponibilità di una riserva di capitali "sporchi" e prestanome, con l’esercizio dei pieni poteri sociali ovvero la compartecipazione "a distanza" di società sane, che si servono dei mafiosi per sbaragliare la concorrenza[34]. Ed infatti, la mafia che si fa impresa è tesa ad acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici: la mafia è in questi termini descritta dal legislatore come un’impresa che tende al monopolio sfruttando, all’occorrenza, il proprio metodo d’intimidazione; e un obiettivo talmente ambizioso non può fare a meno degli appalti pubblici, né degli aiuti di Stato.
In tempi di pandemia di notevole interesse sono le proiezioni dell’impresa mafiosa: crisi e mutamenti di regole e di percorsi ordinari che consentono all’impresa mafiosa di operare sul mercato con maggiore spregiudicatezza, sfruttando le condizioni più favorevoli del mercato. Proiezioni che coprono un ampio spettro d’azione: la mafia "impresa" non è solo quella che cerca di aggiudicarsi appalti pubblici, ma anche quella che, al pari delle altre imprese in difficoltà, cerca di avvantaggiarsi dalle nuove forme di credito rapido (quali quelle garantite dallo Stato varate a seguito della depressione economica scaturita dal Coronavirus) - con la differenza sostanziale che l’impresa mafiosa non può subire alcun tracollo, considerata l’iniezione continua nelle sue casse di liquidità illecita. Essa non può fallire: l’impresa mafiosa non è mai, realmente, sullo stesso piano degli altri soggetti economici, perché è appendice di un gruppo dedito ad attività criminali; eppure, riesce (truffaldinamente) a mostrare le difficoltà legate alla contingenza storica, al pari delle altre imprese, per accedere agli aiuti di Stato.
Si consideri, al riguardo, il c.d. "decreto credito" varato nell’aprile del 2020, con cui si forniscono gli istituti bancari di strumenti che agevolano il ricorso al credito, con una garanzia in parte pubblica. La misura è stata ideata per consentire alle piccole e medie imprese italiane di tamponare le perdite e superare le contingenti difficoltà: nondimeno, da più parti[35] è stato segnalato il rischio che a fruire di un tale beneficio siano anche le imprese mafiose, dietro il cui schermo societario possono nascondersi soggetti condannati per mafia o per altri reati sintomatici (es. contro la pubblica amministrazione) oppure sottoposti a misure di prevenzione personale o patrimoniale antimafia. D’altro canto, i primi mesi di applicazione di questa speciale disciplina creditizia hanno messo in luce quanto difficile sia accertare, dietro l’organigramma societario, gli effettivi beneficiari dei fondi; e ancor più difficile verificare se la liquidità erogata sia stata effettivamente destinata ad arginare i danni prodotti dalla ridotta mobilità sociale. Lo strumento adottato insomma, che si pone a metà strada tra il prestito (privato) e l’erogazione (pubblica) a fondo perduto, sfugge tanto alle verifiche bancarie in ordine alla tenuta finanziaria del richiedente, tanto ai controlli normalmente connessi agli aiuti elargiti alle imprese.
Autorevoli esponenti della magistratura[36] hanno segnalato che, in tal modo, si attiva una gigantesca iniezione di liquidità nel mercato delle imprese, eppure nessuno strumento tecnico-giuridico viene previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose: questo strumento creditizio rinuncia per es. alla tracciabilità dell’uso del finanziamento, attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati, in grado di facilitare l’individuazione di anomalie e rischi di riciclaggio; come si è rinunciato a subordinare l’accesso al credito agevolato al preventivo assolvimento di un obbligo dell’imprenditore di attestare, innanzitutto, di non essere sottoposto a procedimenti per gravi delitti, innanzitutto di criminalità organizzata, corruzione, frode fiscale. Ne consegue la possibilità che ad essere soddisfatti siano, oltre alle imprese effettivamente bisognose, anche gli interessi speculativi di strutture mafiose; e, in ultima analisi, del rafforzamento per quella mafia che si fa impresa.
Proseguendo sul versante dell’imprenditoria mafiosa: la pandemia, avendo generato una crisi di liquidità senza precedenti, ha inoltre accentuato il fenomeno dell’usura, che consente alle mafie di impadronirsi di nuovi soggetti economici. La crisi asseconda in questo senso la vocazione monopolista delle mafie: spinge da un lato gli imprenditori a richiedere risorse liquide e immediate a uomini dal volto pulito e amichevole, dietro cui si nascondono le cosche. L’imprenditore mafioso ha, di primo acchitto, un atteggiamento benevolo: offre aiuto all’impresa in difficoltà, con prestiti facili dai tassi d’interesse apparentemente allettanti. Un’ offerta che l’imprenditore insolvente non è quasi mai in grado di rifiutare; salvo scoprire, subito dopo, di dovere restituire somme esorbitanti e, in mancanza di liquidità, spesso finisce col cedere l’intera azienda[37].
D’altronde, la crisi è il momento in cui il sistema economico opera una sorta di selezione naturale, tra chi è in grado di reggere il peso delle difficoltà, e di uscirne rafforzato, e chi invece perisce, per essere espulso definitivamente dal mercato. Ecco perché è talvolta l’impresa mafiosa a cercare - o meglio: anticipare - l’operatore economico, proponendo offerte apparentemente vantaggiose per superare il momento di difficoltà: non solo prestiti usurai, ma anche strategie di evasione fiscale sicura o di ottimizzazione dei costi d’impresa con attività fraudolente. Il fine è sempre lo stesso: spingere all’indebitamento con gli stessi soggetti mafiosi, imporsi dentro l’impresa in difficoltà ed acquisire nuove fette di mercato a discapito di chi patisce la crisi.
L’infiltrazione nel tessuto economico dei mafiosi imprenditori e dei loro capitali illeciti è silenziosa, ma continua e costante, e aiuta le cosche a riciclare l’ampia riserva di denaro sporco generato dalle attività delittuose dell’associazione, attivando modalità di reimpiego in grado di convertire il denaro "sporco" in denaro "pulito"; e il reinvestimento dei profitti è un’attività assolutamente necessaria in tempi ordinari, e di gran lunga agevolata - per le ragioni sopra accennate - nel periodo storico che stiamo vivendo.
5. Gli errori e le prospettive
L’aver anzitutto ricordato alcuni dati storici incontestabili - ed in particolare che la mafia si pone al posto dello Stato in quanto soggetto politico per sua stessa natura - è stato necessario per individuare, in termini generali ma già col conforto di numerose evidenze giudiziarie a disposizione, il modo con cui le mafie si mostrano e operano in tempi di profonda crisi economica e sociale, quale quella scaturita dalla pandemia. Si è visto come le mafie operino su due direttrici: quello dell’aiuto (subdolo) ai soggetti in difficoltà e quello del rafforzamento delle proprie posizioni economiche. Ma si è anche visto come le mafie non cessino mai di essere entità predatorie, e sempre in questo duplice senso: in una stagione di aiuti economici i fondi vengono depredati per sé o per altri (è la mafia che aiuta) oppure per rafforzare la propria posizione imprenditoriale (è la mafia che si fa impresa). Sono essenzialmente queste le direzioni del crimine organizzato mafioso che si registrano in tempi di Covid-19.
Non è ancora possibile quantificare il grado di penetrazione delle compagini mafiose nella società e nell’economia italiana a seguito della spaventosa crisi generata dal virus: non è possibile quantificare il numero dei soggetti beneficiati dalle cosche mafiose (in cambio di una contropartita che, presto o tardi, verrà pretesa), di persone rimaste vittima del fenomeno usuraio perpetrato col metodo mafioso; il numero di aziende e imprese in difficoltà finite nelle mani delle organizzazioni mafiose, né la consistenza dei capitali illeciti messi in circolazione attraverso le attività lucrose delle imprese mafiose[38]. Eppure in buona parte già lo rilevano le risultanze investigative e processuali fin qui disponibili, in cui le attività mafiose di carattere economico-imprenditoriale mostrano un notevole incremento: emerge adesso con maggior forza un «interesse per l’impresa nelle indagini di criminalità organizzata»[39], tanto da suggerire l’abbandono «di una prospettiva per così dire "mafiocentrica", per puntare l’attenzione su quei fattori di contesto che consentono alla mafia di prosperare» . Bisogna quindi andare a guardare, oggi, il contesto in cui le mafie operano, che non è più soltanto quello economicamente asfittico del Meridione (in cui pure i soggetti economici ben conoscono l’esistenza dell’organizzazione e dell’impresa mafiosa e, talvolta, vi si affidano, per necessità o per convenienza), ma è anche quello del ricco Nord Italia, ove si guarda più alle capacità economiche che all’esercizio della violenza: sempre più terreno di coltura delle nuove forme mafiose, derivate o meno dalle compagini tradizionali[40].
Le prime risultanze investigative sul periodo coperto dalla pandemia quindi confermano una pesante infiltrazione delle mafie nelle economie legali. Un dato che si evince in positivo (in relazione alle indagini appunto messe a segno dagli organi inquirenti) ma anche in negativo: «l’aumento delle cancellazione di imprese sane può considerarsi il diretto portato dell’operatività dei soggetti economici mafiosi, che deviano la concorrenza, egemonizzando i settori di mercato in cui sono inseriti» [41].
Certamente può dirsi che il ritorno della questione mafiosa in relazione all’economia, nei provvedimenti giudiziari e nelle osservazioni degli organi di controllo e degli studiosi, fanno intendere che la prepotente domanda di legittimazione sociale delle mafie, di riconoscimento delle loro leadership sociali ed economiche di fronte agli stravolgimenti epocali vissuti a partire dal 2020, è stata soddisfatta: perché se è vero che le mafie, storicamente, sono state caratterizzate da un andamento carsico[42], è vero, per converso, che la cosca «sembra scomparire nei periodi di forte repressione, per riapparire, più forte e determinata nelle fasi di debolezza delle istituzioni e di crisi economica» [43]. Nè può escludersi che il meccanismo interno dell’attività mafiosa abbia, a seguito della comparsa del Covid-19 e delle relative - e sopra percorse - "occasioni" di rafforzamento e di guadagno, definitivamente abbandonato la violenza quale modalità d’azione: da attuare, per il mafioso sempre più homo oeconomicus, solo se strettamente necessario. E questo muta - come è già mutato - l’approccio dell’analisi e del contrasto del fenomeno, certamente resi più complessi.
Non è possibile neppure parlare di "errori", tali da aver determinato questo infausto risultato; piuttosto, come emerge dagli aspetti gestionali della crisi sopra ripercorsi, si evince un approccio superficiale alle misure di crescita, sotto l’aspetto legalitario, che non tiene conto dei risultati acquisiti in decenni di rigoroso contrasto alle cosche - non tiene conto, in particolare, della imprescindibile lezione di Giovanni Falcone, secondo cui le mafie sono sì fenomeni umani, ma sopratutto economici[44].
Può dirsi che da parte dei decisori pubblici, almeno fin qui, è stata compiuta la leggerezza di avere sottovalutato il rischio, da un lato, che al welfare state potesse subentrare il c.d. "welfare mafioso di prossimità"[45], ovvero quel sostegno attivo alle famiglie, agli esercenti commerciali, agli imprenditori in difficoltà, in cambio di connivenza, condivisione dei profitti, conquista di posizioni di mercato; dall’altro, che le misure di stimolo dell’economia potessero avvantaggiare, in primo luogo, proprio le imprese mafiose.
Come già si è ricordato: era il 1980 quando la camorra riusciva a mettere le mani sul business della ricostruzione del terremoto in Irpinia; erano ancora gli anni ottanta quando cosa nostra si sedette allo stesso tavolo della politica per inaugurare una imponente stagione di opere pubbliche realizzate in deroga di bilancio, in Sicilia, con l’obiettivo di riallineare il Sud al Nord; ed è stato ancora un terremoto, quello emiliano del 2012, ad aver sollecitato l’intervento degli imprenditori mafiosi presenti nell’area (in collegamento, in particolare, con le cosche calabresi). La storia delle mafie ci insegna che è nei periodi di emergenza, sfruttando le incertezze del legislatore e dell’esecutivo, che i gruppi mafiosi adottano con la massima efficacia i loro metodi, le loro politiche anticoncorrenziali; rafforzandosi sul piano economico e sociale.
Ancora si fronteggiano da un lato l’esigenza di garantire ossigeno e sostegno finanziario alle imprese e al sistema economico in genere, dall’altro la necessità di snellire le procedure di gara per stimolare l’economia e di agevolare l’erogazione di aiuti e sussidi, per tamponare l’indigenza. Ma questi obiettivi non possono andare a discapito dei controlli sugli effettivi utilizzi e sugli effettivi beneficiari dei denari pubblici; che, nel panorama attuale, andrebbero invece rafforzati. I presidi di legalità nelle procedure di affidamento di appalti o di concessione di benefici, procedure che interessano le mafie dal volto benevolo che mediano tra poteri pubblici e privati, dovrebbero essere implementati, non depotenziati. E quanto all’attuale spadroneggiamento delle imprese mafiose: come di recente ha segnalato un autorevole organo di controllo[46], è essenziale il monitoraggio dei ruoli chiave delle imprese per cogliere se, negli assetti proprietari, manageriali e di controllo, vi siano soggetti privi di adeguata professionalità che appaiono come prestanome.
Rispetto ai provvedimenti e alle misure ripercorse, sul piano della prevenzione suppliscono alle carenze normative i prefetti, con l’emanazione - in esponenziale aumento nell’ultimo anno - di interdittive antimafia: un provvedimento che vieta in radice alle aziende che celano rapporti con le mafie di partecipare ad appalti pubblici e di avere rapporti con la pubblica amministrazione[47]. Ma si tratta di una misura tampone, certamente inidonea a contrastare l’infiltrazione nell’economia pubblica e privata da parte delle mafie. E’ invero opportuno che sia il legislatore a maturare la consapevolezza dei rischi che il Paese sta correndo in questo frangente, le cui ulteriori incertezze nel prevenire il dissipamento delle risorse potrebbero essere pagate a caro prezzo da cittadini e da imprenditori negli anni a venire: è quindi necessario rivedere i moduli emergenziali fin qui adottati e assecondare istanze di controllo e di tracciabilità dei fondi nelle stesse leggi che istituiscono le risorse; oppure stipulare dei protocolli di legalità a margine di ciascun aiuto economico a privati e imprese, a margine di ciascuna procedura di gara semplificata per ragioni emergenziali.
Ci muoviamo, peraltro, in un orizzonte temporale dominato dal c.d. "Recovery Fund", il fondo per la ripresa che l’Unione europea a fine luglio 2020 ha messo sul piatto per rilanciare le economie dei 27 Paesi membri travolte dalla crisi del Covid-19[48]. Com’è stato segnalato dagli studiosi, la concreta gestione di queste risorse è un’opportunità, tanto per il progresso unitario del Paese, tanto per i propositi delle mafie, non solo d’arricchimento dei propri sodali, ma anche d’infragilimento della collettività: che quanto più si mostra disgregata, quanto più è propensa ad accettare le condizioni di subdolo sviluppo dettate dai mafiosi[49].
Nei prossimi mesi l’Italia sarà destinataria di questi fondi (una parte di contributi a fondo perduto, una parte di prestiti): e ci si chiede se sia possibile fare in modo che la più poderosa immissione di liquidità degli ultimi settant’anni nel sistema economico, con investimenti programmati dalle pubbliche amministrazioni di inedita portata, non conduca ad ulteriori situazioni di vantaggio per le mafie imprenditrici. Sarebbe un imperdonabile scacco, non solo sul piano economico, ma anche sul piano sociale e della tenuta democratica del Paese.
*Il presente contributo arricchisce ed amplia, con ulteriori argomentazioni e l’aggiunta di note, la relazione tenuta al convegno di studi Mafie tra continuità e mutamento: analisi, esperienze, narrative organizzato dall’Università di Messina - Centro studi sulle mafie, il 27-28 settembre 2021.
[1] Che si sia trattato di una delle più grandi crisi economiche - a livello planetario - degli ultimi decenni lo confermano gli analisti: cfr. Mitigating the COVID Economic Crisis: Act Fast and Do Whatever It Takes, a cura di Baldwin e Weder DiMauro, Centre for Economic Policy Research, London, 2020, con un focus sulla situazione italiana svolto da Alesina - Giavazzi, The EU must support the member at the centre of the COVID-19 crisis, p. 51 ss.; Report on the comprehensive economic policy response to the COVID-19 pandemic, Consiglio Europeo – comunicato stampa n. 223/20, 9 aprile 2020; ancora, sull’Italia, cfr. Produzione industriale italiana in calo di oltre il 50% in marzo e aprile. Una caduta senza precedenti, report del Centro studi Confindustria, 4 maggio 2020, rinvenibile su www.confindustria.it.
[2] Le previsioni di crescita del PIL del Paese per l’anno 2021 si attestano infatti attorno al 6% (a fronte del crollo della ricchezza nel 2020 nella misura del 9%), in linea d’altronde con i trend di crescita degli altri paesi europei (cfr. Banca d’Italia, Bollettino economico, 4, 2021, p. 51 ss.): ciò comporta il definitivo superamento della fase più critica della depressione economica vissuta nel 2020.
[3] L’espressione "ondata epidemica" con riferimento al virus Covid-19, che certamente connota la gravità del fenomeno, è stata inizialmente adottata nel report Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente - anno 2020 (Istituto nazionale di statistica - Istituto superiore di sanità), Roma, 2020, e poi penetrata nel linguaggio comune.
[4] Oltre a incidere pesantemente sulla crescita economica dei paesi coinvolti, la pandemia ha anche innescato ovvero contribuito ad accelerare processi potenzialmente idonei a modificare radicalmente il contesto socio-economico di riferimento. Sul punto, cfr. La crisi Covid 19. Impatti e rischi per il sistema finanziario italiano in una prospettiva comparata (report CONSOB), a cura di Linciano, Roma, 2020; Banca d’Italia, Indagine straordinaria sulle famiglie italiane, Roma, 2020, rinvenibile su www.bancaditalia.it.
[5] Al riguardo e` indicativo quanto ha affermato il Ministro dell’Interno alla Camera dei Deputati l’8 aprile 2020: «L’attuale fase di emergenza che stiamo vivendo sta incidendo profondamente anche sul tessuto economico e sociale. In tale contesto, è necessario mantenere alta la guardia, per scongiurare possibili rischi di infiltrazione della criminalità organizzata nella fase di riavvio delle diverse attività economiche attualmente in sofferenza. [...] Particolare attenzione dovrà essere rivolta verso determinati reati spia, indici di fenomeni di infiltrazione criminale, anche mafiosa, nelle pieghe economico-finanziarie, tra le quali l’attività estorsiva, l’usura, l’attività di riciclaggio» (Resoconto stenografico dell’Assemblea, XVIII legislatura, seduta n. 324 dell’ 8 aprile 2020, rinvenibile su www.camera.it). Il rischio dell’infiltrazione mafiosa nel sistema economico piagato dal Covid-19 è stato fin da subito sollevato da autorevoli commentatori, quali De Raho, Il procuratore nazionale antimafia De Raho: “I clan hanno necessita` di collocare i soldi liquidi: ecco come si approfitteranno della crisi”, in Corriere della Sera, 2 aprile 2020; De Lucia - Petralia - Sava, Infiltrazioni mafiose e Covid-19 (intervista a cura di Apollonio), in Giustizia Insieme (web), 20 aprile 2020.
[6] Per l’approfondimento in chiave storica di tali eventi cfr. Ciconte, Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri, 2008, Soveria Mannelli, p. 159 ss. e p. 306 ss.; cfr. anche Sales, Storia delle mafie italiane. Perché le mafie hanno avuto successo, Soveria Mannelli, 2015, spec. p. 53 ss.; Paoli, Fratelli di sangue. Cosa nostra e ‘ndrangheta, Bologna, 2000, p. 20 ss.
[7] Vd. Pignedoli, Operazione Aemilia: Come una cosca di ‘Ndrangheta si è insediata al Nord, Reggio Emilia, 2015; Soresina, I mille giorni di Aemilia. Il più grande processo al Nord contro la ‘Ndrangheta, Roma, 2019.
[8] «Interpretando la protezione come una merce vera e propria è possibile spiegare il senso di molte attività mafiose» (Gambetta, La mafia siciliana: un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 62). Nell’opera, che teorizza il concetto di protezione mafiosa, si evidenzia peraltro che quando trasformazioni economiche significative – come un boom in un mercato locale o una transizione da un sistema di contrattazione ad un altro – non sono governate dalle autorità danno origine ad una domanda di protezione cui si collega, nelle aree piagate dal fenomeno, immancabilmente un’offerta mafiosa in tal senso.
[9] Cfr., per tutti, Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo, Bologna, 1980, p. 128 ss.
[10] Tajani, Mafia e potere. Requisitoria del 1871, Pisa, 1993, p. 45.
[11] Camilleri-Lodato, La linea della palma, Milano, 2003, p. 31.
[12] Il tema, reso artisticamente da De Filippo, è ben trattato, sotto l’aspetto scientifico, da Fiore, La politicizzazione della camorra. Le fonti di polizia a Napoli (1840-1860), in Meridiana, 78, 2013, p. 134 ss. nonché da Di Majo, I grandi camorristi del passato, Napoli, 2012; vd. anche Mascilli Migliorino, Povertà e criminalità a Napoli dopo l’unificazione: il questionario sulla camorra, in Archivio della provincia napoletana, 3, 1980, p. 290 ss.
[13] Ciò è ben illustrato nello studio di Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna, 1983, p. 55 ss.; Becchi-Rey, L’economia criminale, Roma-Bari, 1994, p. 32 ss. Per uno spaccato criminologico attuale della questione vd. Savona, La regolazione del mercato della criminalita`, in Aa.Vv., Verso un nuovo codice penale: itinerari, problemi, prospettive, Milano, 1993, p. 203 ss.
[14] Ristori che hanno contribuito a sostenere: i) le imprese, per contenere l’incremento del tasso di insolvenza, il crollo degli investimenti e il calo della produttività anche collegato all’eventuale mantenimento di misure di distanziamento sociale necessarie per prevenire successive ondate di contagio; ii) le famiglie, in modo da mitigare la contrazione del reddito disponibile e dei consumi; iii) il sistema bancario, in modo da mitigare gli effetti di un peggioramento della qualità del credito sulla stabilità delle banche e sull’erogazione di crediti a famiglie e imprese (vd. La crisi Covid 19. Impatti e rischi per il sistema finanziario italiano, cit., p. 17). Cfr. anche Misure fiscali e finanziarie per l’emergenza Coronavirus - Camera dei Deputati - Servizio Studi, 25 giugno 2021, in www.camera.it
[15] L’insufficienza del sostegno pubblico nel contesto epidemico si registra su scala planetaria: si veda il rapporto Oxfam Shelter from the storm. The global need for universal social protection in times of Covid 19, a cura di Barba, van Regenmortal e Ehmke, Oxford, dicembre 2020.
[16] «Uno dei principali obiettivi delle mafie è quello di sostituirsi allo Stato nel sostegno alle fasce più deboli della popolazione, aumentando in tal modo il proprio consenso sociale, sia utilizzando "risorse" proprie, che gestendo i fondi che gli stessi decreti anticrisi destinano allo scopo» : De Lucia, in De Lucia-Petralia-Sava, Infiltrazioni mafiose e Covid-19, cit. Una lettura del fenomeno mafioso in termini di capitale sociale poggiato sul consenso è stata promossa efficacemente in Italia da Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione (nuova edizione), Roma, 2009, p. 48, fino al piu` recente lavoro di Sciarrone-Storti, Le mafie nell’economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, Bologna, 2019, p. 69 ss.
[17] Come infatti è stato sottolineato, «Un imprenditore legittimo, costretto ad operare in regime di concorrenza con colleghi "criminali" dotati di ricchissime fonti di denaro liquido, è destinato a soccombere» (Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, p. 52); sul profilo anti-concorrenziale del riciclaggio dei proventi mafiosi vd. anche Riciclaggio e imprese. Il contrasto alla circolazione dei proventi illeciti, a cura di Arnone e Giavazzi, Milano, 2011, p. 10 ss.; Masciandaro, Analisi economica della criminalità, teoria della regolamentazione e riciclaggio finanziario, in Mercati illegali e mafie, a cura di Zamagni, Bologna, 1993, p. 243 ss.
[18] La dimensione politica è costitutiva del fenomeno mafioso. Da questo punto di vista, la mafia si caratterizza come un gruppo politico in senso weberiano, poiché presenta le caratteristiche principali di tale categoria di gruppo, vale a dire un sistema di regole e di norme, un apparato in grado di farle rispettare, una dimensione territoriale, la coercizione fisica (Santino, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso d’analisi, Palermo, 1994, p. 125). Vd. anche Id., La mafia come soggetto politico. Ovvero: la produzione mafiosa della politica e la produzione politica della mafia, in La mafia, le mafie tra vecchi e nuovi paradigmi, a cura di Costantino e Fiandaca, Roma-Bari, p. 118 ss.
[19] Com’è noto, il metodo mafioso si condensa nelle modalità d’azione dei partecipi di cui al terzo comma dell’art. 416-bis c.p.: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri» .
[20] Hobsbawn, I banditi, Torino, 2002, p. 34; cfr. nei medesimi termini Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1917; tale concetto accede poi ai successivi studi sulla fenomenologia mafiosa: tra questi, si veda Cerami - Di Lello - Gambino, Istituzioni, mafia e realtà politico-sociale, in Aa.Vv., Mafia e istituzioni, Roma, 1981.
[21] Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012, p. 9.
[22] Il riferimento sociologico più utile e illustrativo sul tema lo si rinviene nel pensiero di Lupsha, che individua non due ma tre stadi di affermazione del crimine mafioso: lo stadio predatorio, in cui il mafioso, per imporre condizioni di assoggettamento, è costretto ad utilizzare in maniera indiscriminata e costante la violenza; lo stadio corruttivo, in cui si infiltrano i poteri pubblici costituiti; ed infine lo stadio simbiotico, in cui l’ente mafioso viene visto oramai come parte integrante del contesto sociale, come elemento "utile" di governo dell’economia e della società: cfr. Lupsha, Transnational Organized Crime versus the Nation State, in Transnational Organized crime, 48, 1996, p. 21 ss.
[23] Un altro dei compiti che l’organizzazione mafiosa si prefigge: vd. Sciarrone, Mafia e potere: processi di legittimazione e costruzione del consenso, in Stato e mercato, 3, 2006, p. 369 ss.
[24] Cfr. CENSIS, 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2021, Roma, dicembre 2021.
[25] Va ricordato che la mafia emerge nell’Ottocento come forma di mediazione: cfr. le tesi, piuttosto consolidate tra gli studiosi, di Ferrarotti, Rapporto sulla mafia: da costume locale a problema dello sviluppo nazionale, Napoli, 1978; Gribaudi, Mediatori, Torino, 1980.
[26] In Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, luglio-dicembre 2020, consultabile su www.senato.it, p. 23, che è lo specchio della più recente attività giudiziaria e di contrasto al fenomeno mafioso (e che per tale motivo verrà più volte citata nel prosieguo), si fa riferimento alle numerose evidenze d’indagine che riguardano l’indebita percezione di benefici assistenziali da parte di soggetti mafiosi ovvero di soggetti a questi vicini e da questi "aiutati".
[27] Nell’importante studio di Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 302, l’interesse delle mafie in quest’attività è legato al fatto che è statisticamente più facile che l’edilizia e il suo indotto siano inquinati dalle offerte truccate e dalle intese collusive; la mafia favorisce e protegge gli accordi sia di corruzione sia di collusione, agevolando ed amplificando le storture del mercato mediante l’immissione di denari "sporchi" e l’esercizio del suo metodo.
[28] Anche questo tema ha un rilievo socio-criminologico: secondo La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Bologna, 2005. p. 171, i politici meridionali piuttosto che amministratori capaci di impiegare efficacemente le risorse di cui dispongono, sono visti prevalentemente come mediatori tra centro e periferia e a livello locale, tra concessione e richieste di benefici economici.
[29] Cfr. Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 23.
[30] Si tratta di due circolari del DCA datate 27 marzo e 4 aprile 2020, indirizzate a tutti i Questori d’Italia, che segnalano la necessità di prestare grande attenzione e, quindi, contrastare le prevedibili infiltrazioni mafiose ed attività corruttive nel settore degli appalti pubblici e delle forniture sanitarie conseguenti alle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del coronavirus.
[31] Vds. il Report 4/2020 dell’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione dell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, Roma, dicembre 2020, spec. p. 87 ss., ove si accenna al ruolo determinante dei prestanome in tutti i casi in cui occorre aggirare verifiche preventive (es. la stipula di protocolli di legalità) e riscontri successivi da parte dell’autorità giudiziaria.
[32] Cfr. Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno, cit., pp. 12-13; l’esercizio solo eventuale del metodo mafioso da parte degli affiliati impegnati in pratiche corruttive con pubblici funzionari è un tema esplorato, volendo, in Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 130 ss.; Id., Estorsione "ambientale" e art. 416-bis.1 c.p.al cospetto dei modelli mafiosi elaborati dalla giurisprudenza, in Cass. Pen, 2018, p. 3483.
[33] Oltre al già citato studio di Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., va richiamato lo studio sull’impresa mafiosa di Pellegrini, L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale, Roma, 2018, p. 74 ss.
[34] Ed in tale ambito è stato di recente registrato come numerosi imprenditori, a seguito dello scoppio della pandemia, abbiano favorito l’ingresso nelle imprese di soggetti appartenenti alle cosche mafiose per beneficiare del loro peso criminale e delle loro tecniche intimidatorie, al fine di garantirsi, illecitamente, una vantaggiosa posizione di mercato (ma si pensi, anche, al difficoltoso recupero dei crediti in tempi di crisi economica): cfr. Report 4/2020, cit., p. 87.
[35] Sul punto si veda la Circolare del ministro dell’Interno ai Prefetti del 4 maggio 2020, Emergenza epidemiologica da COVID-19. Misure urgenti in materia di accesso al credito delle imprese, reperibile su www.interno.it, in cui si evidenzia che è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Interno, dell’Economia e delle Finanze, e la società SACE, «strutturando un modello collaborativo in grado di consentire, ad un tempo, la completa funzionalità dello strumento e l’esigenza di impedire il beneficio di qualunque utilità di fonte pubblica a vantaggio di un’ impresa in odore di condizionamento malavitoso» ; tuttavia, lo strumento "privilegiato" di controllo rimarrebbe l’auto-certificazione del possesso dei requisiti da parte del richiedente; sul punto vd. anche Saviano, Coronavirus. Perche´ la mafia vuole prendersi cura dei nostri affari, in La Repubblica, 26 aprile 2020; ed anche, volendo, Apollonio, Non rischiamo che le mafie si prendano il Paese, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 aprile 2020.
[36] Greco - Melillo, Greco e Melillo: “Ecco perche´ il Decreto Credito e` pericoloso”, in La Repubblica, 11 aprile 2020; Morosini, Emergenza socio-economica e pericolo mafioso, in Quest. Giust. (web), 16 ottobre 2020.
[37] Segnala il concretizzarsi del rischio di usura, e di acquisizione diretta o indiretta delle imprese da parte di organizzazioni criminali, nel periodo storico attuale, l’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF), Prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria connessi con l’emergenza da Covid-19, 11 febbraio 2021.
[38] E’ significativo che lo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), The impact of Covid-19 on organized crime - Research brief, report rinvenibile su www.unodc.org, distingua i settori economici vulnerabili all’infiltrazione del crimine organizzato tra quelli in difficoltà (Economic sectors vulnerable to infiltration by OCGs due to their financial distress caused by the COVID-19 crisis) e quelli con previsioni di crescita (Economic sectors vulnerable to OCG infiltration because of their opportunities to benefit from the COVID-19 crisis).
[39] Così il Procuratore di Milano Francesco Greco in Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, cit., p. 282.
[40] Sulle mafie al Nord si guardi il ricognitivo lavoro Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, a cura di Santoro, Bologna, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.; per i problemi tecnico-giuridici che il fenomeno solleva cfr. Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.
[41] Così Michele Formiglio, Prefetto di Mantova, in Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 283.
[42] In letteratura il primo ad utilizzare questa espressione, relativamente al fenomeno mafioso (camorristico) è Sales, La camorra, le camorre, Roma, 1988, p. 74.
[43] In questo senso, secondo Catino, La mafia come fenomeno organizzativo, in Quaderni di Sociologia, 14, 1997, «La visibilità dell’organizzazione sembra essere un indicatore negativo dello stato di sviluppo di un sistema sociale» .
[44] E, ancor più incisivamente: «la mafia, essendo in prima istanza un fenomeno socioeconomico, non può venire efficacemente repressa senza un radicale mutamenti della società, della mentalità, delle condizioni di sviluppo» (Falcone, Cose di cosa nostra, in collaborazione con Padovani, Milano, 1995, p. 153).
[45] La mafia infatti oggi si accredita «presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno finanziario e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale» (Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 12).
[46] Vd. Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF), Prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria, cit.
[47] Si registrano peraltro proficue interazioni e collaborazioni con i locali uffici di Procura che consentono approfondite istruttorie in tema di interdittive antimafia: cfr. Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 237.
[48] L’Italia, prendendo atto del fallimento delle politiche di sostegno adottate (talvolta compulsivamente) nel periodo emergenziale, grazie anche alla concessione di cospicui aiuti euro-unitari, ha redatto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), pubblicato il 5 maggio 2021 su www.governo.it: trattasi del più grande piano di pacchetti economici mai varato dal dopoguerra. Di interesse quanto dichiarato dal Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho all’ANSA il 28 aprile 2021: «Le mafie, diversamente dalle imprese sane, non hanno bisogno di liquidità ma piuttosto hanno l’esigenza di collocarle. Laddove lo Stato, l’Europa, intervengono per aiutare la ripresa dell’economia, già si esclude in parte il rischio che le mafie intervengano con i propri fondi per appropriarsi da dentro delle imprese e quindi di infiltrarsi. D’altro canto vi è anche l’ulteriore finalità delle mafie, quella di intercettare i flussi finanziari che provengono dallo Stato e dagli altri enti pubblici» .
[49] Sales, Il Recovery e il divario del Sud, in La Repubblica, 3 dicembre 2021, sottolinea - sulla scorta dei dati storici e previsionali a disposizione - che senza un radicale mutamento d’approccio nella gestione dei fondi pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni del Meridione, il PNRR e la relativa mole di finanziamenti destinati al Paese rischia di divaricare ulteriormente la distanza Nord-Sud e di frammentare ancora di più il corpo sociale: a tutto vantaggio delle organizzazioni mafiose.
La permanenza nel braccio della morte ovvero il tempo sospeso tra speranza e sofferenza
di Rocco Poldaretti
Sommario: 1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon». – 2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza. – 3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza? – 4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive.
1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon»
Il braccio della morte, ovvero il luogo in cui il condannato si trova ad attendere l’esecuzione della pena capitale sin dal momento della condanna, è stato a lungo al centro del dibattito giuridico nazionale e sovranazionale, in cui si è cercato di individuare un punto di equilibrio tra la salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti umani ed il perseguimento delle logiche della pena capitale.
In quest’ottica, la tutela costituzionale dei valori fondamentali dell’individuo si tradurrebbe nelle scelte dei singoli ordinamenti che, in varia misura, possono essere ispirate a principi tra loro divergenti: da un lato, la correttezza procedurale, e dall’alto la maggiore efficacia dello strumento sanzionatorio.
La delicata questione è stata oggetto di una riflessione del Justice Breyer della Corte suprema degli Stati Uniti, il quale, nella sentenza Glossip c. Gross[1], ha evidenziato sotto forma di dissenting opinion l’angusto «dilemma» che affligge la pratica della pena di morte.
Secondo il giudice, “in un sistema concernente la pena di morte che ricerchi la correttezza procedurale, l’affidabilità conduce a ritardi che aggravano seriamente la crudeltà della pena capitale e pregiudicano significativamente la logica dell’irrogazione di una condanna a morte, [mentre] un sistema che riducesse i ritardi pregiudicherebbe gli sforzi dell’ordinamento giuridico di assicurare l’affidabilità e la correttezza procedurale”[2].
Il dilemma verrebbe pertanto ad essere ridotto all’aut aut tra una pena di morte presumibilmente funzionale a perseguire legittimi scopi penologici[3], oppure un sistema procedurale che, presumibilmente, ricerchi affidabilità e correttezza nell’applicazione di tale pena[4].
All’interno di questo dualismo, che sovente si traduce in soluzioni di prevalenza – e non di totale esclusione – dell’uno sull’altro, si colloca poi la questione degli effetti del tempo trascorso dal condannato nel braccio della morte.
In questo senso, con l’espressione «death row phenomenon»[5] si indica l’insopportabile ritardo legato all’angoscia onnipresente e crescente relativa all’esecuzione della pena capitale[6], attraverso un giudizio incentrato sulla persona del ricorrente, ovvero con particolare attenzione alla sua età e al suo stato mentale all’epoca del reato, con il reale rischio di sottoporre lo stesso ad un trattamento inumano e degradante[7].
L’esistenza del braccio della morte non deve però portare a concludere che qualsiasi ritardo costituisca un trattamento disumano; poiché, altrimenti, l’alternativa di prevedere una esecuzione immediatamente successiva alla sentenza costituirebbe una patente violazione del diritto all’appello, alla revisione della condanna oppure alla richiesta di provvedimenti di clemenza, evitabile soltanto attraverso la strada dell’abolizione[8].
Occorre pertanto fare chiarezza su un duplice interrogativo: da un lato quello di cercare di definire il vasto orizzonte temporale che connatura il c.d. «death row phenomenon» e dall’altro quello di individuare il momento a partire dal quale l’attesa del condannato cesserebbe di essere giustificata, esponendolo a sofferenze fisiche e psicologiche insopportabili[9].
2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza
Nonostante l’assenza di una soluzione univoca sul punto da parte della giurisprudenza delle varie corti supreme e costituzionali, si evidenzia come alcune di esse, in realtà, abbiano intrapreso percorsi convergenti, circoscrivendone la durata “massima” una volta che il provvedimento è divenuto definitivo.
Le prime pronunce in tale direzione si devono alla Corte suprema indiana la quale, nel 1983, aveva in un primo momento riconosciuto come disumanizzante la permanenza del detenuto nel braccio della morte per un periodo superiore a due anni, periodo entro il quale si sarebbero dovuti esaurire tutti i rimedi esperibili contro il provvedimento che dispone la pena capitale[10].
Poco dopo, tuttavia, la Corte è tornata sui propri passi, dapprima evidenziando le perplessità relative alla portata applicativa che la soluzione avrebbe potuto avere[11]; poi attraverso un overruling, affermando come non possa essere predeterminato alcun termine fisso di ritardo a partire dal quale avrebbero origine le insopportabili sofferenze del condannato[12].
Una diversa chiave di lettura rispetto all’approdo finale della Corte indiana è invece offerta dalla giurisprudenza del Judicial Committee del Privy Council[13] e della Corte suprema dello Zimbabwe[14], che hanno ritenuto disumana o degradante la permanenza nel braccio della morte per una durata superiore, rispettivamente, ai 52 e 72 mesi nell’uno, e cinque anni nell’altro caso.
Sulla stessa scia sembra inserirsi anche la decisione della Corte Costituzionale dell’Uganda del 2005, con la quale i Justices hanno stabilito che l’esecuzione della condanna configura un trattamento disumano quando viene condotta oltre il termine di tre anni dal momento in cui il provvedimento diviene definitivo – e non, come nei casi precedenti, dalla emissione della prima sentenza – costituendo, al contempo, il termine massimo per decidere sulla domanda di grazia del condannato[15].
3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza?
Tuttavia tali concezioni, in cui la sofferenza dell’individuo viene ad identificarsi nella eccessiva durata o nell’eccessivo numero dei giudizi che, a vari livelli, consentono di ribaltare la condanna oppure di convertirne la pena, non hanno trovato terreno fertile nel dibattito giuridico di altri paesi retenzionisti.
Nell’ordinamento statunitense, in cui la Corte suprema federale ha sempre negato le varie richieste di certiorari sull’argomento, non sono mancate, da parte di corti d’appello, visioni di segno diametralmente opposto.
In questo contesto, il ritardo nella esecuzione viene difatti concepito come una conseguenza necessaria che sul piano pratico segue l’elenco di strumenti processuali forniti al condannato, cosicché la scelta di volerne profittare non renderebbe il ritardo contrario alla Costituzione[16]; mentre l’accoglimento di una qualsiasi domanda di questa natura potrebbe fornire un pericoloso incentivo a ritardarne volontariamente le tempistiche[17].
Questa “diversità di ritardo”[18] che contraddistingue l’ordinamento statunitense riflette al contempo una diversa percezione della sofferenza del condannato: l’interminabile attesa cui esso è sottoposto non costituirebbe la causa di sofferenze fisiche e psicologiche, quanto piuttosto l’unica fonte della speranza di poter godere, anche solo per più tempo ed all’interno di strutture detentive, del proprio bene “vita”.
Nella stessa direzione si pone anche l’ordinamento giapponese, in cui il termine massimo di sei mesi per l’emissione dell’ordine di esecuzione previsto dal Codice di procedura penale[19] si traduce, nella prassi, in una semplice “advisory provision”[20], con la permanenza nel braccio della morte di periodi che oscillano tra i 15 ed i 20 anni[21].
Il quadro di ingiustificati ritardi di carattere sostanziale viene poi integrato dalla controversa pratica di eseguire la condanna a morte a distanza di poche ore dalla notifica dell’ordine di esecuzione.
Tale attività, che provoca nel detenuto uno stress continuo ed ininterrotto fin dal momento della condanna, verrebbe a giustificarsi nella volontà di rimandare, per quanto possibile, il fortissimo impatto emotivo che l’atto avrebbe se notificato con anticipo, cercando al contempo di conservarne lo stato di serenità dell’individuo[22].
La questione non assume invece gli stessi termini nel sopraccitato ordinamento statunitense, dove il condannato non solo ha diritto a ricevere tempestivamente la notifica dell’ordine di esecuzione, ma dispone anche di mezzi di impugnazione atti a farne valere gli eventuali vizi[23].
Orbene, all’interno della inscindibile dicotomia tra speranza e sofferenza che definisce il braccio della morte, si inserisce da ultimo la singolare scelta legislativa dell’ordinamento cinese di prevedere, contestualmente alla sentenza di condanna e sulla base di una valutazione discrezionale del giudice, la possibilità di sospendere la pena di morte per un periodo di due anni, al termine del quale – se medio tempore il condannato non ha commesso nessun altro reato doloso – la pena viene automaticamente convertita nel carcere a vita oppure nella misura di 25 anni[24].
In questi termini, il braccio della morte verrebbe ad acquisire una dimensione temporale ben precisa e l’esito verrebbe ad essere interamente rimesso all’effettivo pentimento del condannato, costituendo una interessante lente d’osservazione attraverso la quale traguardare nuovamente i confini della questione.
Alcuni autori sostengono tuttavia che tale periodo sarebbe comunque idoneo a provocare nell’individuo un forte stato d’ansia legato alla (necessaria) autoriforma ed alla incerta applicazione della pena di morte[25]; mentre secondo altri[26] ciò non valicherebbe le soglie che, a diverse latitudini, tratteggiano la linea di confine dei trattamenti disumani e degradanti[27].
4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive
Volendo trarre qualche considerazione conclusiva si evidenzia come, in realtà, persino una soluzione ancorata a fattori che rientrano nella sfera di controllo del condannato non sia di per sé idonea a fugare ogni dubbio circa la possibilità che, nelle more dell’esecuzione, quest’ultimo non sia esposto ad un forte e perdurante stato di angoscia.
Speranza e sofferenza sarebbero dunque due elementi (rectius, conseguenze) ineliminabili del braccio della morte, il cui delicato bilanciamento sembra porsi al centro del «dilemma» sulle diversità sistemiche del Justice Breyer.
La predeterminazione di un termine massimo di durata del braccio della morte consentirebbe di porre un limite alle sofferenze fisiche e psicologiche del condannato, limitando però al contempo anche la speranza di continuare a godere del proprio diritto alla vita.
Al contrario, un più ampio orizzonte temporale si tradurrebbe nella effettiva dilazione del momento in cui l’individuo verrebbe privato del bene “vita”, acquisendo pertanto maggior rilevanza rispetto allo stato di angoscia cui esso è costantemente sottoposto.
Le diversità di concezioni e l’impossibilità di individuare una soluzione univoca sarebbero dunque il riflesso della natura stessa del braccio della morte, che come un pendolo oscilla incessantemente tra speranza e sofferenza, a cui ci si può sottrarre, forse, soltanto attraverso l’impervia strada dell’abolizione.
[1] Sentenza 576 U.S. 863, 29 giugno 2015, https://www.supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-7955_aplc.pdf.
[2] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32.
[3] Per una più attenta disamina degli stessi, cfr. N. Bobbio, Il dibattito attuale sulla pena di morte, in Id., L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1977, p. 201 ss; per un approfondimento sullo scenario statunitense si veda altresì D. Garland, Peculiar Institution: America's Death Penalty in an Age of Abolition, Oxford University Press, 2010; nonché J. S. Liebman, P. Clarke, Minority Practice, Majority’s Burden: The Death Penalty Today, in Ohio State Journal of Criminal Law, 2011, vol. 9, p. 255 ss.
[4] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32, cui peraltro il Justice ha precisato che, delle due, “non si possono avere entrambe”.
[5] Termine adoperato in un primo momento dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Kirkwood c. Regno Unito, n. 10479/83, 12 marzo 1984, https://www.refworld.org/cases,COEC-OMMHR,3ae6b6fc1c.html.
[6] Sul punto, cfr. anche Judicial Committee del Privy Council, sentenza Noel Riley and Others v Attorney-General for Jamaica, 1 AC 719 (1983), 28 giugno 1982, https://www.casemine.com/judg-ement/in/5779fac6e561096c93-13158b, in cui si è parlato di “anguish of alternating hope and despair, the agony of uncertainty, the consequences of such suffering on the mental, emotional and physical integrity and health of the individual”.
[7] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Soering c. Regno Unito, n. 14038/88, 7 luglio 1989, par. 111, https://hu-doc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-57619%22]}. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che l’estradizione di un individuo verso uno stato in cui, per il reato addebitatogli, può essere applicata la pena di morte, costituisce una forma di tortura o di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, in ragione del “periodo molto lungo da passare nel braccio della morte”.
[8] P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Calenzano, Leo S. Olschki, 2021, p. 238.
[9] Sulla insopportabilità delle conseguenze psicologiche cfr. Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza In Re Medley, 134 U.S. 160, 161, 3 marzo 1890, https://caselaw.findlaw.com/us-supreme-court/134/160.html; in dottrina, cfr. L. A. Rhodes, Pathological Effects of the Supermaximum Prison, in American Journal of Public Health, 2005, vol. 95 (10), p. 1692 ss.
[10] Cfr. sentenza T. V. Vatheeswaran vs State of Tamil Nadu, 1983 SCR (2) 348, 16 febbraio 1983, https://indiankano-on.org/doc/1536503/. Si segnala altresì la precedente sentenza Ediga Anamma vs State of Andhra Pradesh, 1974 SCR (3) 329, 11 febbraio 1974, https://indiankanoon.org/doc/1496005/, in cui la Corte aveva convertito la pena capitale con la pena dell’ergastolo sulla base, tra le altre, di un periodo nel braccio della morte superiore a due anni.
[11] Sentenza Sher Singh & o. vs The State Of Punjab, 1983 SCR (2) 582, 24 marzo 1983, https://indiankanoon.org/doc/1166797/.
[12] Sentenza Triveniben vs State of Gujurat, JT 1988 (4) ST 112, 11 ottobre 1988, https://indiankano-on.org/doc/144619408/.
[13] Sentenza Pratt and Morgan v Attorney General of Jamaica, 2 AC 1 (1993), 2 novembre 1993, https://www.casemine.com/judgement/uk/5b599a772c94e02f4938ac4f.
[14] Sentenza Catholic Commission for Justice and Peace in Zimbabwe v. Attorney General of Zimbabwe, 1993 (4) SA 239 (ZS), 24 giugno 1993, https://www.refworld.org/cases,ZWE_SC,3ae6b6c0f.html.
[15] Sentenza Susan Kigula & 416 Ors v Attorney General [2005], UGCC 8, 10 giugno 2005, https://ulii.org/ug/judgment/constitutional-court-uganda/2005/8.
[16] Cfr. l’opinione concorrente del Justice Thomas, sentenza Knight c. Florida e Moore c. Nebraska, U.S. 98-9741 e 99-5291 (1999), 8 novembre 1999, https://www.law.cornell.edu/supct/pdf/98-9741P.ZA; della Corte d’Appello del Nono Circuito si vedano invece la sentenza Richmond c. Lewis, 921 F.2d 933 (9th Cir. 1990), 26 dicembre 1990, https://www.casemine.com/judgement/us/5914bfe5add7b04-9347b092c, in cui si è sostenuto che così come “l’imputato non deve essere penalizzato per il perseguimento dei suoi diritti costituzionali, [dall’altro lato] non dovrebbe neanche essere in grado di trarre vantaggio dal perseguimento, in ultima analisi, infruttuoso di tali diritti”; nonché la sentenza McKenzie c. Day, 57 F.3d 1461 (9th Cir. 1995), 8 maggio 1995, https://casetext.com/case/mckenzie-v-day/?PHONE_NUMBER_GROUP=P.
[17] A. A. Sun, “Killing Time” in the Valley of the Shadow of Death: Why Systematic Preexecution Delays on Death Row Are Cruel and Unusual, in Colombia Law Review, 2013, vol. 113, p. 1605.
[18] Ibid., p. 1602.
[19] Art. 475, c. 2.
[20] M. Obara-Minnitt, Japanese Moratorium on the Death Penalty, Palgrave Macmillan, 2016, p. 35.
[21] P. Schmidt, Capital Punishment in Japan, Brill, 2002, p. 196.
[22] Sul punto, cfr. report Hanging by a thread: Mental health and the death penalty in Japan, Londra, Amnesty International, ASA 22/005/2009, 2009, settembre 1-94, p. 29.
[23] Per una disamina dei due modelli cfr. D. H. Foote, “The Door That Never Opens”?: Capital Punishment and Post-Conviction Review of Death Sentences in the United States and Japan, in Brooklyn Journal of International Law, 1993, vol. 19, issue 2, p. 386 ss.
[24] Artt. 48-50 della Legge penale della Repubblica popolare cinese.
[25] Cfr. Z. Ning, The Debate Over the Death Penalty in Today’s China, in China Perspectives, 2005, vol. 62. Sul punto si veda inoltre J. A. Cohen, The criminal process in the People’s Republic of China, 1949-1963, Harvard University Press, 2013.
[26] Cfr. M. Seet, China’s Suspendend Death Sentence with a Two-Year Reprieve: Humanitarian Reprieve or Cruel, Inhuman and Degrading Punishment?, in Asian Yearbook of International Law, 2017, vol. 20, p. 163 ss.
[27] Si evidenzia come la questione debba ancora essere oggetto di diretta considerazione da parte della giurisprudenza delle corti supreme e costituzionali. A titolo meramente esemplificativo, cfr. Corte Federale del Canada, sentenza Lai Cheong Sing and Tsang Ming Na v. Canada (Minister of Citizenship and Immigration), 2007 FC 361, [2008] 2 F.C.R. 3, 25 aprile 2007, par. 100, https://www.refworld.org/cases,CAN_FC,48eccb782.html, in cui si è limitata a dire che la questione circa la crudeltà dello strumento sanzionatorio non rileva poiché, nel caso di specie, non erano presenti i requisiti richiesti dalla legge per accedervi.
SE QUESTA È NOMOFILACHIA. IL DIRITTO AMMINISTRATIVO 2.0 SECONDO L’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO (recensione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”)
di Fabio Francario
1.- Veramente innumerevoli sono gli spunti di riflessione critica offerti dalle sentenze gemelle n 17 e 18 rese il 9 novembre 2021 dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sul tema (della proroga) delle concessioni balneari.
Il fascicolo monotematico dedicato al tema dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 ne offre un primo immediato compendio grazie all’impegno dei vari Autori che si sono immediatamente cimentati in un commento, quasi a prima lettura, delle pronunce, evidenziando gli spunti problematici per i profili ritenuti di maggior interesse da ciascun Autore.
Il numero speciale si apre con un’ampia introduzione curata da Maria Alessandra Sandulli che, dopo aver sottolineato come nell’occasione l’Adunanza Plenaria abbia (coraggiosamente) elaborato una sua soluzione all’irrisolto problema della proroga delle concessioni “assumendo sulle proprie spalle il pesante fardello di scelte che competevano e competono piuttosto al potere legislativo”, opera una preliminare ricostruzione generale del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, nel quale s’innestano le proroghe legislative della scadenza fino al 31 dicembre 2033, la pronuncia Promoimpresa CGUE 14 luglio 2016 e variegate pronunce del giudice amministrativo nazionale. Un ruolo centrale nella ricostruzione del quadro è attribuito alla lettera di messa in mora della Commissione UE del 3 dicembre 2020, con riferimento alla quale la Sandulli sottolinea innanzi tutto che “la lettera non si è limitata ad affermare l’incompatibilità del modello di “proroga generalizzata e indiscriminata” con il diritto UE, ma ha espressamente sottolineato la necessità di individuare “con legge” i criteri e le modalità di affidamento delle concessioni balneari per garantire il rispetto dei surrichiamati principi”, evidenziando sotto questo profilo la problematica dell’impugnabilità delle pronunce in Cassazione per eccesso di potere giurisdizionale. Sempre la stessa lettera messa in mora escluderebbe poi chiaramente la possibilità di ritenere che tutte le concessioni balneari italiane presentino quell’interesse transfrontaliero certo che imporrebbe l’apertura del mercato unionale e convincimento non dissimile sarebbe manifesto, a detta sempre dell’Autrice, nella stessa sentenza Promoimpresa, che del pari esclude che la condizione di scarsità della risorsa possa o debba ritenersi insita nel nostro bene costiero. Osservazioni che portano a concludere che “Meglio sarebbe stato allora forse reinterrogare in modo più puntuale la Corte di Giustizia, anche sotto il profilo della possibilità di riconoscere effetti diretti verticali “inversi” della Direttiva al fine di consentire all’amministrazione di applicare immediatamente le sue disposizioni nei confronti dei concessionari”. L’Autrice passa poi a evidenziare vari profili critici delle sentenze, concludendo con una nota di preoccupazione per i problemi che ne conseguono.
Il contributo di Fabio Ferraro (Diritto dell’unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’adunanza plenaria?) approfondisce i profili relativi ai temi dell’ambito di applicazione del diritto primario dell’Unione, della direttiva 2006/123/CE (c.d. direttiva servizi) e della sua efficacia self-executing, fino ad arrivare ad esaminare le questioni del contemperamento del principio del primato del diritto dell’Unione con quello dell’autorità del giudicato, e dell’efficacia temporale delle sentenze della Corte di giustizia, osservando come le sentenze “si conformano per molteplici profili al diritto dell’Unione e richiamano in modo puntuale la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, mentre per altri profili individuano delle soluzioni che possono apparire distoniche rispetto ad alcuni principi ormai sedimentati nell’ordinamento dell’Unione o che comunque richiedono una ulteriore riflessione”.
Sulla stessa linea si muove Elisabetta Lamarque (Le due sentenze dell’adunanza plenaria... le gemelle di shining?), dopo aver preliminarmente osservato che “da qualche tempo accade che quando un giudice supremo del nostro ordinamento decide di imboccare una strada nuova e impervia, e pertanto esposta ai forti venti delle critiche della dottrina e delle sempre possibili ribellioni degli altri giudici, sceglie di farlo attraverso uno strumento certamente dotato di un peso e di una visibilità maggiori di quelli di una semplice sentenza, oltre che, almeno nelle intenzioni di quel giudice, più resistente alle prevedibili intemperie: quello della ‘doppietta’ di sentenze di identico, o analogo, contenuto, depositate in pari data e identificate con numeri successivi”, osservache nel caso di specie l’Adunanza Plenaria non si è però limitata a ciò, ma ha preso in prestito, indebitamente, strumenti propri della Corte costituzionale (l’istituto dei controlimiti opposti all’ingresso nel nostro ordinamento del diritto dell’Unione europea dotato di effetti diretti e la tecnica del differimento degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento), ai quali la stessa Corte costituzionale ha fatto ricorso solo raramente e in occasioni particolari e che, soprattutto, non ha mai osato applicare insieme per decidere la medesima questione. Si tratta di strumenti, sottolinea con fermezza l’Autrice, che devono ritenersi sottratti alla disponibilità dai giudici comuni e che l’Adunanza plenaria non dichiara espressamente di applicare, ma aziona di fatto, ad esempio nel momento in cui sostiene che la norma europea che impone il principio della gara per l’assegnazione delle concessioni balneari trascura esigenze “irrinunciabili” dell’ordinamento italiano o in cui assimila i beni demaniali in questione ai “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” o ai “diritti inalienabili della persona” che possono essere invocati come controlimiti.
Il contributo di Giuseppe Morbidelli (Stesse spiaggi, stessi concessionari?) mette in luce come l’effetto ultimo prodotto dalle sentenze gemelle sia di dare luogo “indirettamente ad una rete di protezione delle situazioni in atto”. L’Autore sottolinea in particolare come l’Adunanza Plenaria abbia sostanzialmente aperto alla possibilità di corresponsione di un indennizzo ai concessionari (“l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi” (v. n. 49)), dando una lettura avversativa dell’art. 49 cod. nav. (“Devoluzione delle opere non amovibili”), il quale come noto dispone che “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”.
Sul profilo della remunerazione degli investimenti effettuati dai concessionari si concentra anche l’attenzione di Marco Calabrò (Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria), il quale, dopo aver sottolineato che nelle ipotesi di concessione demaniale marittima con finalità turistico-ricreativa le opere realizzate dal concessionario non sono “necessarie” per l’utilizzo dell’area stessa (come invece spesso accade in relazione alle concessioni demaniali portuali) e che ciò rende l’operatore economico tendenzialmente libero nel se e nel cosa realizzare, analizza in questa prospettiva il disposto dell’art. 49 cod. nav. che lega la devoluzione delle opere al patrimonio dello Stato al momento della “cessazione” della concessione.
Marcella Gola (Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?) muove dall’adesione dell’Adunanza Plenaria ad una concezione sostanzialistica del provvedimento di concessione come attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un’attività economica ed alla conseguente scontata rilevanza nel mercato e per la libera circolazione dei servizi. Concentra conseguentemente la propria attenzione sul profilo delle procedure selettive che dovranno essere bandite per sottolineare come l’obiettivo europeo dell’apertura dei mercati dovrà tuttavia necessariamente considerare le peculiarità del turismo nazionale, da valorizzare come sistema, risorsa centrale per il nostro Paese non solo per l’estensione delle coste, ma anche per lo stretto collegamento con i luoghi e la cultura locale, parte integrante dei quali deve essere considerata, ai fini dell’opportuno bilanciamento, anche la natura prevalentemente familiare delle imprese interessate.
Una correzione di prospettiva nella ricostruzione del regime giuridico del demanio costiero e dei suoi usi, non risolvibile interamente nel concetto di concorrenza, è auspicata anche da Giovanna Iacovone (Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione), la quale sottolinea che le caratteristiche del bene, e nel caso specifico la fragilità delle coste e dell’ecosistema al cui interno esse “vivono”, dovrebbero indurre il legislatore ad una regolamentazione dell’uso del bene stesso in funzione della sua conservazione e valorizzazione in modo da valorizzare la funzione pubblica del demanio marittimo e delle spiagge, esigenze e valori la cui considerazione dovrebbe parimenti governare la disciplina delle future procedure selettive.
Sul problema della natura giuridica delle concessioni demaniali balneari si è invece concentrata l’attenzione di Ruggiero Dipace (L’incerta natura giuridica delle concessioni demaniali marittime: verso l’erosione della categoria), con particolare riferimento ai profili della distinzione tra provvedimenti di autorizzazione e concessione e della distinzione tra concessioni di beni e di opere o servizi. Secondo l’Autore, la proposizione di una rilettura dell’istituto in chiave “funzionale e pragmatica” sembrerebbe suggerire che si stia intraprendendo un percorso simile a quello che ha portato ad attribuire natura negoziale alle concessioni di lavori e di servizi, ma sia l’esplicito riferimento al tema dell’“interesse transfrontaliero certo”, che, come è noto, si riferisce essenzialmente all’attività negoziale delle pubbliche amministrazioni, che l’affermazione secondo la quale “il confronto concorrenziale è estremamente prezioso per garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza, potendo contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita”, che suppone il riferimento ai “servizi pubblici”, tradirebbero ambiguità e confusione in ordine all’oggetto della concessione.
Il profilo della disapplicazione da parte dell’Amministrazione della norma nazionale contrastante con la direttiva self executing viene affrontato da Renato Rolli e Dario Sammarro (L’obbligo di “disapplicazione” alla luce delle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021 del consiglio di stato (adunanza plenaria) ricostruendo l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e comunitaria. Il tema è ripreso anche da Piergiuseppe Otranto (Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela),soprattutto nella sua correlazione, per un verso, con la negata qualificazione in termini di autotutela dell’intervento “dichiarativo” richiesto alle singole amministrazioni; per l’altro, con la cosa giudicata.
L’assunto che le aree costiere italiane presentano un interesse transfrontaliero certo “tutte e nel loro insieme” (che è, cioè, il valore della categoria del demanio marittimo unitariamente considerata a determinare quello di una singola concessione, la cui considerazione atomistica costituirebbe un “artificioso frazionamento” dell’importanza e della “potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale”) è al centro delle riflessioni di Marco Ragusa (Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?), il quale critica il fatto che, tra gli indirizzi rivolti alle amministrazioni (e in parte al legislatore, il cui auspicato intervento rappresenta una delle giustificazioni a fondamento della originale moratoria al 2023 disposta dalle due decisioni), non ve ne sia alcuno attinente alla pianificazione degli usi del demanio marittimo e alla puntuale identificazione ex ante delle aree concedibili (sia all’interno di un singolo tratto costiero, sia nel quadro complessivo del demanio marittimo nazionale, in tesi rilevante nella sua unitarietà). Non è infatti pensabile, secondo l’Autore, misurare la “potenzialità economica” delle aree gestite patrimonialmente senza previamente considerare proprio l’estensione e il valore della componente asservita a una (normale) destinazione non patrimoniale.
Il contributo di Enrico Zampetti (La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’Adunanza Plenaria) mira a evidenziare che ciò che il diritto europeo vieta sono le proroghe automatiche e generalizzate, ma non necessariamente le proroghe rapportate alle circostanze concrete che possono mirare a tutelare le legittime aspettative dei concessionari uscenti, soprattutto nei casi in cui si renda necessario garantire il riequilibrio economico della concessione. La critica si appunta conseguentemente sull’attribuzione di una rilevanza assoluta e incondizionata al principio della concorrenza, che in realtà deve sempre misurarsi, anche ai sensi dell’articolo 41 Cost., con altri interessi che talvolta possono provocarne una temporanea attenuazione.
Gli interventi si concludono ripubblicando l’articolo precedentemente apparso sulla rivista Federalismi.it a firma di Beniamino Caravita di Toritto, già condirettore della rivista e prematuramente scomparso lo scorso anno, e di Giuseppe Carlomagno, nel quale vengono tracciate le possibili linee di riforma del settore alla luce dei principi comunitari contenuti nella Direttiva Bolkestein e di quelli affermati nella sentenza CGUE Promoimpresa (La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma).
2.- Il fascicolo monotematico di Diritto e Società raccoglie dunque alcune prime riflessioni della dottrina sulle sentenze gemelle, ma gli spunti di riflessione critica sono in realtà innumerevoli. Ogni volta che si ripete la lettura delle sentenze, per cercare di meglio intenderne significato ed effetti, crescono i dubbi e le perplessità, in maniera tale che diventa impossibile farne anche solo una elencazione ragionata ed esaustiva.
La prima cosa che si può osservare, dunque, è che la lettura delle sentenze origina in chiunque, sia esso un cultore o studioso del diritto amministrativo, un pubblico amministratore, un operatore economico del settore, un magistrato, una sensazione di generale disorientamento.
Ciò che sicuramente colpisce è, innanzi tutto, la quantità degli istituti giuridici che vengono tirati in ballo. Non si ragiona, infatti, intorno ad un unico, per quanto complesso, istituto per chiarirne principi informatori o applicativi particolarmente controversi, ma si lavora per trovare la soluzione ad un problema creato dall’inerzia del legislatore.
In secondo luogo, colpisce il fatto che gli istituti evocati vengono richiamati dandone per scontata e presupposta l’utilizzabilità nel caso di specie o giustificandone l’impiego con affermazioni meramente assertive, laddove il loro impiego appare quantomeno fortemente problematico; senza nemmeno adeguatamente preoccuparsi della loro coerenza o non contraddittorietà in una logica di sistema. Le pronunce sembrerebbero ubbidire piuttosto ad una logica machiavellica: il fine (consentire e al tempo stesso limitare la proroga al 2023) sembrerebbe giustificare l’impiego di qualsiasi mezzo (istituto giuridico) utile a tal fine. Seguendo una logica di sistema, che richiede la dovuta attenzione alle esigenze di credibilità e di eguaglianza per rispondere alle quali gli istituti giuridici vengono creati, dovrebbe invece avvenire esattamente il contrario; e cioè che la decisione dovrebbe scaturire dall’applicazione dei secondi, e non viceversa.
Si ha così la netta sensazione che l’esercizio di una funzione nomofilattica sia evocato in realtà soprattutto a cercare di rinforzare l’efficacia di una decisione, che, se pur (forse) utile a dare un “segnale” alla Commissione UE, appare difficile leggere come esercizio tipico di una funzione giurisdizionale. E’ evidente che l’attenzione della Plenaria non si concentra o comunque non si limita a precisare quale debba essere, in presenza d’interpretazioni contrastanti, il principio di diritto che deve essere applicato per decidere il caso controverso e quelli analoghi. Più che la pronuncia di un’Adunanza Plenaria, sembrerebbe di leggere una pronuncia resa dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, dal momento che vengono espressamente indicati i criteri che dovranno essere seguiti dal legislatore nel provvedere al riordino della materia, sia sotto il profilo della disciplina del rapporto concessorio (obbligo d’indennizzo), che dei criteri di selezione dei futuri concessionari e delle relative procedure. Per quanto è dato di sapere, prima delle pronunce gemelle, nei giudizi pendenti nessuna parte ha mai chiesto al giudice amministrativo di definire ciò.
Anche lo schema di una funzione tipicamente consultiva risulta però ben presto superato: il legislatore viene in realtà completamente sostituito nel momento in cui si ritiene possibile (“congruo”) stabilire il termine massimo di efficacia del regime di proroga fino al 31 dicembre 2023. Peraltro, un attimo dopo aver precisato che il diritto eurounitario non consente più alcuna proroga e che sono pertanto nulle le proroghe disposte ex lege. Il legislatore nazionale non può disporre contro il diritto eurounitario, l’Adunanza del Consiglio di Stato sì. La piega presa diventa inarrestabile: il legislatore non può nemmeno disporre diversamente dall’Adunanza Plenaria/ Generale del Consiglio di Stato : “eventuali proroghe legislative del termine così individuato … dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’unione”. E la sostituzione, a ben guardare, non si limita soltanto al legislatore, ma si estende al giudice penale (“la descritta operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale”), al Giudice delle leggi e alla Corte di Giustizia UE, escludendo che la valutazione del contrasto della norma di legge nazionale con il diritto dell’Unione possa essere oggetto dei rispettivi giudizi di costituzionalità o d’interpretazione eurounitaria.
Nella evocata logica machiavellica, gli istituti giuridici impiegati sembrano subire quasi tutti una torsione innaturale.
A cominciare dal principio del contraddittorio.
L’Adunanza Plenaria è investita della questione ai sensi dell’art. 99 co. 2 c.p.a., d’ufficio, con decreto presidenziale che seleziona due soli ricorsi nell’ambito di un contenzioso ampiamente diffuso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza e dirimere contrasti giurisprudenziali, con chiaro e dichiarato intento nomofilattico. Ritiene di doversi limitare ad enunciare il principio di diritto e dichiara inammissibili tutti gli interventi, svolti direttamente innanzi all’Adunanza Plenaria o nel giudizio di merito, limitando di fatto la partecipazione alle sole parti principali del giudizio a quo. Il fatto di essere parte in altro giudizio vertente su una quaestio iuris analoga è ritenuto insufficiente per qualificare l’interesse a partecipare nel giudizio in cui si definisce la regola di giudizio da applicare successivamente, sebbene ciò che ha giustificato la necessità di una pronuncia nomofilattica è stata proprio la considerazione “degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente deriveranno su una moltitudine di rapporti concessori”. Anche in tal caso, dunque, vengono pacificamente applicati principi tutt’altro che scontati e sussiste una evidente torsione dei principi e delle regole sull’ intervento processuale e sul contraddittorio che allontana il lettore dalla possibilità di condivisione del dictum.
Questione senz’altro centrale nell’impianto delle decisioni è quella del carattere auto esecutivo o meno della direttiva Bolkestein, dalla soluzione della quale dipende la possibilità di disapplicazione o meno della norma nazionale. Implica, in buona sostanza, che (anche) la direttiva è immediatamente applicabile e invocabile nel rapporto cittadino – PA se le sue disposizioni sono “incondizionate e sufficientemente precise” (CGUE 22 giugno 1989, Flli Costanzo). Difficile o quantomeno fortemente opinabile assumere che si sia in presenza di disposizioni “incondizionate e sufficientemente precise” quando l’art 12 della Direttiva, prima di statuire chiaramente che la concessione “non può prevedere la procedura di rinnovo automatico”, afferma che il divieto si applica solo “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili” e che solo in tal caso gli Stati membri sono tenuti a seguire “una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”. Senza considerare il ricorrere dell’ulteriore condizione dell’interesse transfrontaliero certo. L’Adunanza Plenaria non ha invece dubbi nel ritenere che la direttiva de qua presenti un “livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege fino al 2033 e ad imporre di conseguenza una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità”, aggiungendo che il carattere self – executing sarebbe stato espressamente riconosciuto dalla sentenza CGUE Promoimpresa. In ciò la sostanza della motivazione, che per il resto riproduce le argomentazioni proprie già della sentenza Flli Costanzo, che si collocano però questa volta in un contesto profondamente diverso: lì si trattava di rimuovere il limite che la norma nazionale poneva alla possibilità di tutelare una ben definita situazione di diritto o comunque pretensiva riconosciuta dalla norma comunitaria; qui di creare un limite nell’attesa che venga definita una nuova disciplina, di disapplicare cioè in malam partem. Anche a prescindere dall’utilizzabilità di tale argomentazione, sta il fatto che la stessa Adunanza poco oltre afferma che non v’è dubbio che il legislatore debba intervenire “con una disciplina espressa e puntuale”, confermando con ciò la sua mancanza allo stato attuale. Ma ciò che più deve essere sottolineato è che in realtà l’Adunanza tutto fa tranne che disapplicare: la norma nazionale non viene sostituita immediatamente e direttamente dalla norma comunitaria (che escluderebbe in maniera incondizionata la possibilità di proroga), ma da un’altra norma nazionale pretoriamente creata nell’esercizio della funzione nomofilattica (che riduce la proroga nel termine ritenuto più congruo fino al 2023). Che nella realtà delle cose (e nella realtà dei processi) si sia in presenza della sostituzione di una norma nazionale con altra norma nazionale di creazione giurisprudenziale, e non con la norma comunitaria, è del resto confermato dalla decisione successivamente assunta dal giudice al quale sono stati restituiti gli atti per la decisione. Il CGARS, con la sentenza n. 116 del 24 01 2022, ha accolto in parte il ricorso (proposto avverso il diniego di proroga e per l’accertamento del diritto all’estensione della durata della concessione sino al 31 12 2033, ai sensi della l. 30 12 2018 n. 145) accertando il diritto alla proroga della concessione fino al 31 dicembre 2023, ai sensi di quanto statuito dall’Adunanza del Consiglio di Stato.
La stessa considerazione può ripetersi con riferimento al potere di graduare gli effetti delle proprie sentenze. La fissazione del termine al 31 12 2023 viene giustificata invocando la possibilità del giudice amministrativo di graduare gli effetti delle proprie decisioni. A parte che l’affermazione del principio sarebbe già di per sé più che discutibile, andrebbe in ogni caso considerato che il precedente invocato si riferisce ad ipotesi di pronunce di annullamento e non di disapplicazione. Disapplicazione e annullamento non sono la stessa cosa. L’annullamento rimuove un atto invalido con efficacia ex tunc; la disapplicazione opera sull’efficacia dell’atto lasciandolo in vita, ma impedendo che produca effetti nel caso di specie, in cui viene appunto disapplicato. Già è dubbio che si possa ritenere consolidata la riscrittura dei canoni classici dell’annullamento. Stravolgere anche quelli della disapplicazione senza nessuna argomentazione giuridica pare francamente troppo.
Lo stesso è a dirsi a proposito dell’interesse transfrontaliero e della categoria del demanio. L’interesse transfrontaliero certo viene desunto dalla qualificazione del mercato delle concessioni demaniali balneari con finalità turistico ricreative come complesso valutato unitariamente e complessivamente (“tutte e nel loro insieme”), coincidente con l’intero patrimonio costiero nazionale. Scompare la distinzione tra demanio e patrimonio.
E così per l’autotutela. Si afferma che non v’è necessità di rimuovere gli atti amministrativi di proroga perché questi hanno avuto funzione meramente ricognitiva perché l’effetto autoritativo (di proroga) è stato prodotto direttamente dalla legge. Nondimeno si afferma che “ragioni di certezza depongono nel senso che l’Amministrazione provveda comunque a rendere pubblica l’inconsistenza oggettiva dell’atto ricognitivo eventualmente già adottato e di comunicarlo al soggetto cui è stato rilasciato detto atto”. Anche in tal caso una sofisticata argomentazione per escludere in maniera non convincente la necessità del contrarius actus.
E ancora per il giudicato. Secondo l’Adunanza, non vi sarebbero ostacoli a dare immediata attuazione allo jus superveniens di derivazione comunitaria, anche se, sul diritto alla proroga, si sia formato un giudicato, perché la sopravvenienza normativa inciderebbe sulle situazioni giuridiche durevoli per quella parte che si svolge successivamente al giudicato. Anche in tal caso l’affermazione parrebbe opinabile, perché, nel caso di specie, lo jus superveniens non statuisce sulla durata del rapporto, ma vieta che possano essere disposte proroghe automatiche. Se la concessione della proroga è ormai coperta da giudicato, in assenza di un’espressa statuizione in ordine al carattere retroattivo dello jus superveniens, si dovrebbe a rigore ritenere che questo abbia disposto unicamente per il futuro.
I profili sopra accennati non sono esaustivi e non possono essere approfonditi in questa sede. Sono però all’origine di quella sensazione già ricordata che la lettura delle pronunce ingenera nel lettore. Le pronunce sembrano cioè lontane dal raggiungere lo scopo dichiarato di voler svolgere una funzione nomofilattica, perché non orientano, ma piuttosto disorientano l’attività di interpretazione. non sembrano preoccuparsi tanto di convincere con la forza dell’argomentazione ragionevole e condivisibile, proponendo l’argomentazione più attendibile all’esito del confronto tra gli argomenti spendibili; quanto di trovare una soluzione che sia in grado di risolvere il problema dato, anche se questa passa per argomentazioni divisive, non consolidate e spesso implausibili. La generosità e l’intelligenza che contraddistinguono il Consiglio di Stato consentono di indicare elegantemente una soluzione applicativa, ma gli istituti a tal fine impiegati non sembrano rispondere ai canoni consolidati secondo la scienza del diritto amministrativo e del diritto processuale amministrativo: l’interesse ad intervenire non è riconosciuto a chi non è parte principale del giudizio; il giudicato cede sempre e comunque allo jus superveniens; l’autotutela non è necessaria per gli atti dichiarativi, che così sfuggono al suo regime; il demanio non si distingue più dai beni patrimoniali; l’annullamento non ha più efficacia ex tunc; la disapplicazione non opera più sull’efficacia dell’atto nel caso concreto; il giudice amministrativo può sostituirsi al legislatore, al giudice penale, alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia nella creazione delle norme e nel rispettivo sindacato. In pratica, c’è quanto basta per riscrivere interamente un manuale di diritto amministrativo, sostanziale e processuale, che resta però affidato alle linee guida fluide e imprevedibili che verranno dettate da qui in avanti dall’Adunanza del Consiglio di Stato. Salvo che cambi rotta. Perché non è giusto che i vuoti della politica stravolgano il ruolo del Consiglio di Stato, che, a norma dell’art 100 Cost., è organo di consulenza giuridico-amministrativa “e di tutela della giustizia nell’amministrazione”, non nella legislazione.
Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116)
di Enrico Zampetti
1. La sentenza merita di essere segnalata in quanto applica i principi affermati dalle recenti sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021 in materia di concessioni demaniali marittime.
Proprio il giudizio adesso definito era stato uno dei due selezionati dal Presidente del Consiglio di Stato nel deferire d’ufficio all’Adunanza Plenaria la questione della compatibilità con il diritto europeo della vigente disciplina nazionale in materia di proroga delle concessioni demaniali marittime (art. 1, commi 682 e 683, legge n. 30 dicembre 2018 n. 145; art. 182, co.2, d.lgs. 19 maggio 2020 n. 34), sottoponendo, segnatamente, i seguenti quesiti di diritto: “1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l'apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l'obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell'Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-executing, l'attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all'accertamento dell'efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva; 2) nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l'amministrazione dello Stato membro sia tenuta all'annullamento d'ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell'Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all'annullamento d'ufficio; 3) se, con riferimento alla moratoria introdotta dall'art. 182, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell'Unione europea, debbano intendersi quali «aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell'entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell'art. 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145”.
Le sentenze gemelle rese dall’Adunanza Plenaria hanno già alimentato un ricco e vivace dibattito dottrinale[1]. Con esse il Consiglio di Stato ha affermato l’incompatibilità delle attuali previsioni nazionali con l’articolo 49 del Trattato FUE e con l’articolo 12 della direttiva 2006/123 c.d. Bolkestein, precisando che “tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione”. Al contempo, per “evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere”, la stessa Plenaria ha, però, rinviato al 31 dicembre 2023 gli effetti delle proprie decisioni, sicchè, anziché cessare immediatamente, “le concessioni demaniali per finalità turistico- ricettive già in essere continueranno a essere efficaci sino al 31 dicembre 2023”, in attesa del riordino del settore e dell’espletamento delle necessarie gare pubbliche.
2. La specifica vicenda contenziosa adesso definita origina dal ricorso proposto da un concessionario per l’annullamento del diniego di proroga della concessione demaniale marittima adottato dalla competente Autorità portuale, nonché per l’accertamento del diritto al “riconoscimento dell’estensione della durata” della medesima concessione, ai sensi della citata legge n. 145/2018.
L’Autorità portuale aveva negato la proroga assumendo l’inapplicabilità dell’attuale normativa nazionale per contrasto con il diritto europeo, e in particolare con l’articolo 12 della Direttiva Bolkestein, sulla scia di quanto già rilevato nel 2016 dalla Corte di giustizia con la sentenza Promoimpresa e da una parte della giurisprudenza interna[2].
Con la sentenza 15 febbraio 2021 n. 504, la Sezione III del TAR Sicilia, Catania aveva confermato la legittimità del provvedimento di diniego, rimarcando il contrasto tra la normativa nazionale e le norme e i principi del diritto europeo e la decisione era stata così appellata dal concessionario innanzi al CGARS. Tra i vari motivi di appello, veniva in particolare denunciata l’erronea applicazione delle regole in tema di prevalenza del diritto UE, sul rilievo che nel caso di specie l’amministrazione non avrebbe dovuto disapplicare, ma applicare, la normativa interna, anche in ragione del ritenuto carattere non self executing della direttiva Bolkestein. Essendo nelle more sopravvenuti i principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria, che riconoscono l’efficacia delle concessioni in essere sino al 31 dicembre 2023, l’appellante, in sede di discussione orale della causa, chiedeva in subordine “un accoglimento parziale della domanda, con proroga della concessione fino al 31 dicembre 2023” (così, testualmente, la sentenza).
Nel decidere l’appello, il CGARS ha affermato che “in applicazione delle norme multilivello l’eventuale proroga, senza pubblica gara, delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative deve considerarsi illegittima, trattandosi di un provvedimento amministrativo adottato in conformità alla legge nazionale ma in violazione di direttiva autoesecutiva o di regolamento U.E.” e che “legittimo è, pertanto, il provvedimento adottato dall’Autorità di sistema portuale oggi impugnato e prive di fondamento le deduzioni che avverso lo stesso sono state formulate con il ricorso di primo grado e ribadite con l’atto di gravame”. Tuttavia, in ragione della precisazione della Plenaria per cui “le concessioni demaniali per finalità turistico- ricettive già in essere continueranno a essere efficaci sino al 31 dicembre 2023”, la sentenza ha accolto “parzialmente la domanda di accertamento del diritto formulata con il ricorso introduttivo” e, come richiesto in subordine da parte appellante, ha accertato “l’efficacia della concessione demaniale marittima (…) sino al 31 dicembre 2023”, evidenziando che “l’accoglimento parziale è dovuto al decisum dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e non intacca, sotto alcun profilo, la legittimità del provvedimento impugnato, con conseguente esclusione di ogni profilo di colpa dell’Amministrazione”.
[1] Si veda il recente numero speciale della Rivista Diritto e Società n. 3/2021 dedicato a La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, con contributi di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R.Rolli - D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di toritto - G. Carlomagno. Per gli ulteriori contributi sul tema pubblicati su questa Rivista, si veda F. P. Bello, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 24 novembre 2021; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. Plen, in questa Rivista, 30 dicembre 2021; R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, in Giustizia insieme, 21 luglio 2021
[2] Si veda, in particolare, Cons. St., Sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874, in www.giustizia-amministrativa.it.
Tutela del contraddittorio e pregiudizio effettivo
di Paolo Biavati
Sommario: 1. La sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021 delle Sezioni unite. – 2. Una riaffermazione esemplare del principio del contraddittorio. – 3. Il pregiudizio effettivo. – 4. Ancora il pregiudizio effettivo: relativizzato, ma non eliminato. – 5. La lettura dell’art. 360-bis c.p.c. n. 2. – 6. Una composizione da trovare.
1. La sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021 delle Sezioni unite
Con la sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021 le Sezioni unite intervengono a comporre un contrasto interpretativo sorto da tempo fra le sezioni semplici in tema di tutela del contraddittorio e pregiudizio effettivo. Si tratta di una decisione di indubbio rilievo, non solo per il suo esito, ma anche per i passaggi motivazionali con cui è stata costruita.
Conviene partire dal caso concreto, in sé molto semplice. Un attore cita in giudizio tre convenuti per ottenere una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c. nonché il risarcimento dei danni e vince in primo grado, sia pure conseguendo una liquidazione del danno inferiore a quella auspicata. Il medesimo attore e uno dei convenuti impugnano e la Corte d’appello di Roma conferma sostanzialmente la decisione del Tribunale, ma escludendo il convenuto appellante dall’obbligo risarcitorio.
Accade, però, che il giudice di secondo grado deliberi la decisione in camera di consiglio alcuni giorni prima della scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica.
L’attore ed appellante principale, ancora insoddisfatto per l’entità della pronuncia risarcitoria, ricorre in Cassazione, in base a quattro distinti motivi, il primo dei quali consiste nella dedotta nullità della sentenza di appello, per essere stata decisa prima del deposito di tutti gli scritti difensivi finali.
Si è posta, quindi, la questione, se sia sufficiente per conseguire la cassazione della sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c., la violazione della regola processuale, ovvero se al ricorrente incomba l’onere di dimostrare quale pregiudizio egli abbia effettivamente subito a motivo dell’omessa presa in esame della sua memoria di replica.
Le Sezioni unite ripercorrono i due opposti orientamenti delle sezioni semplici e giungono ad enunciare un principio di diritto, che mi sembra opportuno riportare integralmente: “la parte che proponga l’impugnazione della sentenza d’appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero per replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; la violazione determinata dall’avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto ai difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all’atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo”.
2. Una riaffermazione esemplare del principio del contraddittorio
Troppe volte, nella mia esperienza di avvocato, mi sono sentito chiedere da colleghi e clienti, se il giudice avrebbe poi realmente letto le carte di causa. Certo, usualmente gli atti vengono letti con cura, ma la Corte d’appello di Roma non è davvero il primo giudice che decide senza avere letto tutto: soltanto che, nel caso di specie, l’omissione della lettura delle repliche (e, probabilmente, la molto rapida lettura delle comparse conclusionali, depositate pochi giorni prima) è risultata per tabulas.
Le Sezioni unite hanno rimarcato, in modo limpido, la necessità di rispettare il principio del contraddittorio. Audiatur et altera pars: completamente e fino in fondo. Nei diversi schemi procedimentali, il confronto fra le parti può svolgersi in modo più o meno articolato, ma, all’interno di un dato procedimento, a ciascuna parte deve essere assicurata la possibilità di esaurire tutte le proprie facoltà difensive. Se ciò non avviene, il contraddittorio è violato.
Credo che la sentenza in commento sia uno dei migliori apprezzamenti del ruolo e dell’attività del difensore nel processo, che non può essere compressa per reali o presunte esigenze di celerità. In una fase storica in cui sembra che il fattore tempo acquisti un rilevo centrale nel processo civile, fino quasi a scapito della giustizia della pronuncia, la linearità delle Sezioni unite è un significativo monito a tutti gli organi giudiziari e un richiamo non superfluo al legislatore della riforma.
Non si può davvero che aderire al principio di diritto enunciato[1].
3. Il pregiudizio effettivo
Al di là dell’esito, l’arresto delle Sezioni unite solleva, nel suo impianto motivazionale, diversi problemi che meritano attenzione.
Il primo è il ruolo del pregiudizio effettivo subito dall’impugnante nel sistema dei gravami.
L’orientamento giurisprudenziale da cui le Sezioni unite hanno preso le distanze è in realtà un orientamento crescente. Ad esempio, pochi mesi prima, un’ordinanza della seconda sezione della Cassazione ribadiva che l’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c. non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza dell’error in procedendo[2].
Annoto che qui si gioca una partita decisiva sul senso del processo e delle sue regole[3]. Lo scopo della sentenza, scrivono le Sezioni unite[4], “è sì quello di realizzare il diritto sostanziale, ma sempre nel rispetto delle regole e dei principi del processo giurisdizionale”. Certo, occorre decidere i casi secondo giustizia e verità, ma il metodo è quello dialettico del contraddittorio, da intendersi non come faticoso e disturbante peso per un giudice che potrebbe benissimo fare da solo, ma come via necessaria per valorizzare fino in fondo gli apporti dei contendenti.
La legge pone precisi percorsi che conducono alla decisione: anzi, il rischio è che talora si opti per soluzioni troppo destrutturate, quando questi percorsi sono lasciati all’eccessiva discrezionalità del giudice. Ora, la violazione dei “diritti processuali essenziali” costituisce un pregiudizio in sé, lesivo delle facoltà defensionali, e non richiede “l’individuazione di un pregiudizio “altro” (id est, un pregiudizio effettivo ulteriore) da porre a fondamento della sanzione di nullità”[5].
Portando il tema del pregiudizio effettivo alle sue estreme conseguenze, si giungerebbe all’azzeramento delle regole processuali, che diventerebbero una sorta di cammino consigliato, ma dal quale il giudice si potrebbe sempre discostare, visto che la valutazione della correttezza o meno della sua attività si misurerebbe, in definitiva, solo sul merito.
4. Ancora il pregiudizio effettivo: relativizzato, ma non eliminato
Con tutto questo, il tema del pregiudizio effettivo non può essere archiviato in modo sbrigativo[6].
È debole il punto di motivazione in cui le Sezioni unite precisano che la legge processuale italiana non vi fa riferimento, mentre ciò accade, ad esempio, nell’ordinamento francese[7]. È debole perché dimostra che in altri sistemi, non certo privi di garanzie, fra i diritti processuali e l’effettività del pregiudizio si è trovato un equilibrio.
Non viene preso in esame, ad esempio, l’art. 58 dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, laddove si precisa che l’impugnazione dinanzi alla Corte delle pronunce del Tribunale è proponibile per motivi relativi a vizi della procedura, recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente[8]. Le regole processuali dell’Unione non costituiscono un modello per i sistemi nazionali, ma ne sono uno specchio: raccolgono, cioè, i frutti di sensibilità diffuse, seppure non unanimi, all’interno dei Paesi membri[9].
In definitiva, l’argomento qui usato dalle Sezioni unite si ritorce contro il ragionamento sviluppato in altre parti della motivazione. Non è vero che qualunque vizio procedurale della decisione ne comporta nullità perché le regole sono intangibili: la soluzione italiana è tale (così sembra di poter arguire) soltanto perché manca una norma che stabilisca qualcosa di diverso. Ma la norma che oggi manca potrebbe domani darsi (così come attualmente si dà altrove).
Del resto, le Sezioni unite si pongono su questa linea anche quando ricordano, dopo l’enunciazione del principio di diritto, che di fronte alle sentenze di primo grado il problema si atteggia in modo diverso. La motivazione anche qui è lineare e ineccepibile: la conversione delle nullità in mezzi di gravame e la regola posta dall’art. 354 c.p.c., per cui il giudice d’appello, pur rilevata la nullità, decide nel merito, portano alla pacifica conseguenza che la parte non può limitarsi a impugnare la sentenza unicamente per vizi procedurali (diversi, ovviamente, da quelli dell’art. 353 c.p.c.), ma deve attaccare anche le statuizioni di merito[10]. E del tutto logicamente, esse precisano che, se il caso dell’omesso esame della replica si fosse posto dinanzi a un giudice di primo grado e la corte d’appello, senza rilevare la nullità, avesse poi deciso nel merito, un ipotetico ricorso per cassazione contro la pronuncia di secondo grado, fondato sul vizio processuale non rilevato, sarebbe stato inammissibile per difetto di interesse[11].
È forse il caso di aggiungere che la legge di delega di riforma del processo civile, al comma 8°, lettera o) del comma unico, impegna il legislatore delegato a riformulare gli artt. 353 e 354 c.p.c., riducendo le ipotesi di rimessione in primo grado ai soli casi di violazione del contraddittorio. Ne segue che, in sede di appello, lo spazio per impugnazioni soltanto sul rito si riduce ulteriormente.
Mi sembra, allora, che sia difficile espungere il tema del pregiudizio effettivo dal nostro sistema, ma che si tratti soltanto di relativizzarlo, in rapporto alle non identiche disposizioni che governano le impugnazioni di merito e quella di legittimità. Chi propone appello deducendo al contempo un motivo procedurale e un motivo sostanziale, viene implicitamente a dire che il vizio denunciato con il primo motivo ha avuto conseguenze (causando quindi un pregiudizio effettivo) perché ha trainato l’errore denunciato con il secondo.
In realtà, a ben guardare, le Sezioni unite non escludono né il punto dell’interesse ad impugnare, né quello del pregiudizio effettivo. Vengono a dire, piuttosto, che il principio del contraddittorio è così fondamentale ed essenziale, che ogni violazione delle regole che lo concretizzano suppone un pregiudizio in re ipsa, collocandosi sulla stessa linea del legislatore della riforma. Ma ciò che vale per il contraddittorio, non è detto valga per ogni altro caso in cui il giudice, anche in sede di appello, si discosti dalle regole del processo[12].
Mi pare, insomma, leggendo la sentenza in controluce, si possa distinguere fra un nucleo duro di regole che attengono al cuore del processo (come il rispetto del contraddittorio e l’imparzialità del giudice) e la cui lesione si riverbera sempre e comunque sulla decisione, e altre regole, dalla cui violazione può discendere o no, a seconda dei casi, un pregiudizio al diritto di difesa: e la linea di demarcazione fra i due gruppi di ipotesi non si identifica con la comminatoria o no di nullità assoluta dell’atto.
A margine del ragionamento, non sarebbe inutile riflettere sull’utilità degli scritti defensionali finali nell’ambito di un mezzo di impugnazione chiuso, come l’attuale appello civile. Non penso affatto che debbano essere eliminati, ma certamente andrebbero esplorate modalità per renderli più produttivi ai fini di un efficace confronto fra le parti. Nella svista della Corte territoriale romana, può avere giocato l’abitudine a vedere presentati e ripresentati sempre gli stessi temi.
5. La lettura dell’art. 360-bis c.p.c. n. 2
È anche molto interessante il passaggio motivazionale in cui le Sezioni unite ritengono di rafforzare la loro scelta fra le due diverse ipotesi interpretative basandosi sull’art. 360-bis, n. 2, c.p.c.
La lettura di questa controversa norma divide la dottrina. Alcuni (fra cui chi scrive) la vedono, nella logica del filtro, come uno step di controllo ulteriore rispetto ai cinque motivi dell’art. 360, comma 1°: così come il n. 1 rende inammissibile limita la proponibilità del ricorso in cassazione nei casi in cui la lamentata violazione di diritto non si ponga in contrasto con un orientamento giurisprudenziale consolidato, il n. 2 compie il medesimo percorso nei casi in cui il vizio procedurale lamentato non assurga al livello di violazione delle regole del giusto processo[13].
Altri autori reputano invece che l’art. 360-bis, n. 2 costituisca un insieme aperto di situazioni, che vengono a tutelare il giusto processo anche laddove non vi sia un’espressa sanzione di nullità e che, pertanto, si aggiunga ai casi coperti dall’art. 360, comma 1°, n. 4[14].
Le Sezioni unite optano per questa seconda interpretazione e se ne avvalgono per rafforzare la tesi della nullità della sentenza deliberata prima del decorso dei termini per le difese finali, benché le specifiche norme (per l’appello, l’art. 352 c.p.c.) non la dispongano in modo espresso.
Ora, a me pare che la nullità della pronuncia della Corte d’appello nel caso di specie discenda pianamente dalla violazione del contraddittorio e quindi degli art. 24, comma 2° e 111, comma 2°, cost. e che, pertanto, il richiamo all’art. 360-bis, n. 2, c.p.c. sia ininfluente rispetto alla soluzione correttamente offerta dalla pronuncia in commento. Invece, è interessante collegare la tesi delle Sezioni unite (di cui prendo atto per l’autorevolezza della fonte, ma che non mi convince) alla questione del pregiudizio effettivo: e anche qui, mi sembra di scorgere una contraddizione.
Immaginare l’art. 360-bis, n. 2, come una clausola aperta che allarga gli spazi di ricorribilità in Cassazione delle sentenze significa dire che si può impugnare per nullità anche oltre i casi esplicitamente regolati dalla legge. Ma allora, per stabilire il discrimine fra i vizi che possono essere oggetto di ricorso e quali no, ci si deve appoggiare su qualche dato esterno, che realizza in concreto il depotenziamento del diritto di difesa. Possiamo non chiamarlo pregiudizio effettivo, se la parola non piace, ma si tratterebbe comunque di un elemento che va oltre il dato letterale della norma.
6. Una composizione da trovare
Quando, nelle pronunce della Cassazione allineate all’orientamento smentito dalle Sezioni unite, si legge il riferimento alla “astratta regolarità dell’attività giudiziaria”, viene immediato osservare che le regole non sono un’astrazione. Le regole processuali sono la sostanza della difesa e il loro rispetto è sostanza del giudizio. Per questo la sentenza n. 36596 del 2021 è un punto fermo di notevole importanza.
Tuttavia, il tema del collegamento delle regole con il merito della causa, espresso da concetti come l’interesse a impugnare e il pregiudizio effettivo, non può essere messo all’angolo. Lo si deve invece tenere presente, sia pure declinandolo in rapporto alle norme positive e non assumendolo come un ipotetico principio che quelle norme supera e travolge.
È giusto non estremizzare[15] il principio di ragionevole durata, che, peraltro, non è solo un principio, ma ha una precisa forza normativa, di rilievo costituzionale. Non si può, nello stesso tempo, chiudere gli occhi di fronte ad una domanda, culturale e sociale, di effettività e di impiego razionale delle energie giudiziarie, che sono una risorsa finita e non moltiplicabile.
Sarebbe fin troppo facile chiedersi se la Corte d’appello di Roma, letta la nota replica, avrebbe cambiato idea oppure no. I giudici hanno sbagliato e, per così dire, devono – correttamente – rifare il compito. Però, una causa già decisa ritorna ad essere trattata, spostando indietro di almeno un paio di anni le lancette della giustizia. Le Sezioni unite hanno pienamente ragione, ma le parti dovranno sopportare altre spese e attendere ancora.
Non so se le sezioni semplici si atterranno pacificamente al principio di diritto enunciato o se, in qualche modo, cercheranno altre strade per fare emergere il pregiudizio effettivo anche oltre i confini tracciati dalla decisione in commento. Certo, una composizione dovrà essere trovata. Una strada, come accennato, potrebbe essere quella di distinguere fra regole che concernono i “diritti processuali essenziali” (a cominciare da quelle che presidiano il contraddittorio) e regole di altro profilo. La sentenza delle Sezioni unite è una roccia solida, ma, con le parole del mitico Lucio Battisti dei miei anni giovanili, “come può uno scoglio arginare il mare ?“.
[1] Pienamente adesivo il commento di CAPPONI, Buone notizie dalle Sezioni unite sulle nullità processuali (e sul rapporto tra norme e principi), in www.giustiziainsieme, 2021.
[2] Cass,. II, ord. 14 luglio 2021, n. 20067, in Guida al diritto, 2021, n. 34, p. 59. Nel caso di specie, era stata omessa la fissazione dell’udienza di discussione orale, pur ritualmente chiesta dalla parte. Del tutto analogamente Cass., I, ord., 6 settembre 2021, n. 24002, in Guida al diritto, n. 42, p. 77.
[3] Citare contributi sul punto vorrebbe dire richiamare l’intera produzione scientifica dei processualcivilisti. Mi sia consentito richiamare, in omaggio al Maestro recentemente scomparso, il notissimo (ma non sempre correttamente compreso) saggio di CHIARLONI, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987, p. 569 ss.
[4] Punto XV della sentenza commentata.
[5] Punto VIII della sentenza commentata
[6] Il tema è fortemente sviluppato dalla giurisprudenza, ma ancora avversato dalla dottrina maggioritaria. Si veda, di recente, per un’ampia disamina, svolta su posizioni tradizionali, la monografia di DONZELLI, Pregiudizio effettivo e nullità degli atti processuali, Napoli, 2020.
[7] Punto IX della sentenza commentata. Il richiamo è all’art. 114 del nouveau code de procédure civile, sui cui v. CADIET, JEULAND, Droit judiciaire privé, Parigi, 2016, p. 450.
[8] Per un ampio esame della giurisprudenza della Corte di giustizia sul punto, v. NAÔMÉ, sub. Art. 58 Statuto, in CONDINANZI, AMALFITANO, IANNUCCELLI, Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, p. 296 ss.
[9] Mi permetto di richiamare un mio scritto, ormai risalente, che affrontava espressamente questo punto: Processo comunitario e formazione di un processo comune europeo (le regole in materia di prove), in Rivista di diritto processuale, 1994, p.769 ss.
[10] Sulla valorizzazione dell’art. 354 c.p.c. e sul potere-dovere del giudice di appello di decidere nel merito, si veda, in una fattispecie diversa, la recentissima Cass., S.u, 26 gennaio 2022, n. 2258.
[11] Punto XVIII della sentenza commentata. Sul tema, v. SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, Milano, 1990. Ci si potrebbe chiedere se il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite valga anche quando la Cassazione è giudice del merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2°, c.p.c.
[12] Ovviamente, la difficoltà sta nel collocare correttamente le regole, con il rischio di soluzioni arbitrarie. È ciò che si è discusso fino da quando il tema del giusto processo è entrato in Costituzione. Sul punto, v. per tutti TROCKER, Il nuovo art. 111 della Costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2001, p. 398 ss. Più di recente, si legga l’importante contributo di PANZAROLA, Alla ricerca dei substantialia processus, in Rivista di diritto processuale, 2015, p. 680 ss.
[13] Ho espresso questo avviso in Argomenti di diritto processuale civile, 5° ed., Bologna, 2020, p. 517.
SASSANI (La Cassazione, in Diritto processuale civile, diretto da DITTRICH, II, Milano, 2019, p. 2734 ss.) rileva che la lettura restrittiva è conforme alla volontà del legislatore, anche se “pone non pochi problemi”.
CAVALLARO (Forma e contenuto della decisione, in Acierno, Curzio, Giusti, La Cassazione civile, 3° ed., Bari, 2020, p. 432 ss.) esprime l’avviso che tutte le violazioni denunciabili ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c., comportino una violazione delle regole del giusto processo (in apparenza, svuotando quindi il filtro di ogni efficacia), ma aggiunge poi “che il significato della disposizione è quello di imporre alla parte che denuncia un error in procedendo l’onere di illustrarne la decisività, ossia che quell’errore abbia inciso sul contenuto della decisione e abbia arrecato un effettivo pregiudizio al suo diritto di difesa”.
[14] In questo senso, v. LUISO, Diritto processuale civile, II, 10° ed., Milano, 2019, p. 447. Vi sono poi letture intermedie e più articolate, come quella di CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, 3° ed., Padova, 2012, p. 346.
[15] Così la pronuncia in commento, punto X.
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