ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla sindacabilità della certificazione medica di esonero vaccinale: il principio del controllo non meramente formale sulla sussistenza delle condizioni esoneratrici posto dal Consiglio di Stato e disatteso dalla normativa sopravvenuta (nota a Cons. St., sez. III, 20 dicembre 2021, n. 8454)
di Simone Serio
Sommario. 1. Premessa: il giudice amministrativo e la legislazione emergenziale anti-COVID in tema di vaccinazione obbligatoria - 2. La questione sottoposta al Consiglio di Stato - 3. La normativa di riferimento e la soluzione interpretativa prospettata dai giudici di Palazzo Spada - 4. Brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa: il giudice amministrativo e la legislazione emergenziale anti-COVID in tema di vaccinazione obbligatoria
La sentenza in commento si inserisce nell’ambito di una serie di pronunce con le quali il giudice amministrativo ha avuto modo di affrontare questioni, di scottante attualità, nate sull’onda dell’emergenza epidemiologica tuttora in corso e che rimandano al tema sensibile del rapporto fra il valore costituzionale della libertà di autodeterminazione dell’individuo con riguardo alla sfera della propria salute e quello della tutela della salute pubblica.
Tali decisioni hanno avuto in molti casi origine da ricorsi presentati da lavoratori del settore della sanità avverso provvedimenti che, in applicazione della normativa in tema di vaccinazione obbligatoria anti-COVID selettiva, prevista cioè esclusivamente per il personale sanitario o di interesse sanitario, operante nella sanità pubblica ed in quella privata, avevano disposto nei confronti di quegli operatori che non avessero ottemperato all’obbligo vaccinale l’adozione delle misure ricollegate dalla legge a tale inosservanza[i].
Detti ricorsi, con cui si sono impugnati in prevalenza i provvedimenti di sospensione dal servizio per inosservanza dell’obbligo di vaccinazione adottati in ragione dell’impossibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse[ii], sono stati il più delle volte rigettati dagli organi giurisdizionali aditi, i quali si sono espressi nel senso che, a fronte di crisi sanitarie che rappresentano una grave minaccia per la salute di tutti e di ciascuno - quale è quella concretizzata dalla pandemia di COVID-19 -, l’interesse della collettività alla salute assurge al rango di valore superiore, idoneo a giustificare il sacrificio anche del diritto all’autodeterminazione riguardo alla propria salute[iii]; nell’aderire a siffatta prospettazione ermeneutica il giudice amministrativo ha mostrato di muovere dalla considerazione per la quale le normative di carattere emergenziale, di cui quella in materia di vaccinazione obbligatoria in funzione di contrasto della pandemia è un rilevantissimo esempio, costituiscono il risultato di un bilanciamento, operato dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità politica, volto a far prevalere, in ragione appunto dell’eccezionalità della situazione disciplinata, l’istanza solidaristica sottesa al disposto costituzionale dell’art. 32; istanza che giustifica, in nome della salvaguardia della salute pubblica, l’imposizione di limiti stringenti ad altri interessi pur costituzionalmente rilevanti, ma afferenti alla dimensione prettamente individuale della persona[iv].
La decisione qui annotata affronta un peculiare aspetto della disciplina legislativa in tema di obbligo vaccinale imposto al personale sanitario; con essa, infatti, i giudici di Palazzo Spada hanno fatto il punto sul potere di controllo spettante all’amministrazione sanitaria sulla sussistenza delle condizioni che, per legge, sono idonee ad esonerare dall’adempimento di tale obbligo.
Tuttavia, come emergerà dal prosieguo della trattazione, il principio evincibile dal decisum in esame è suscettibile oramai di applicazione esclusivamente alle vicende disciplinate, ratione temporis, in base alla legislazione preesistente al d.l. 26 novembre 2021, n.172, che significative modifiche ha arrecato all’originario articolato normativo.
2. La questione sottoposta al Consiglio di Stato
La pronuncia de qua ha tratto origine dall’appello proposto da un medico convenzionato presso una asl avverso la sentenza con cui il Tribunale amministrativo regionale dallo stesso adito aveva rigettato il ricorso per l’annullamento degli atti, adottati dall’asl competente, di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale e di conseguente sospensione dell’operatore sanitario dal servizio senza corresponsione di retribuzione.
Nella sentenza appellata il giudice di prime cure aveva respinto il motivo di ricorso con cui veniva denunciata la violazione dell’art. 4, co. 2, d.l. n. 44/2021, che, a fronte della certificazione, ad opera di un medico di medicina generale, di «specifiche condizioni cliniche documentate» e tali da configurare un «accertato pericolo per la salute» individuale, consente che la vaccinazione venga omessa o differita ed esclude, pertanto, il relativo obbligo; lamentava infatti il ricorrente che le misure disposte nei suoi confronti fossero illegittime, in quanto adottate pur avendo egli ottemperato agli adempimenti di legge previsti per il riconoscimento dell’esenzione dall’obbligo vaccinale.
In particolare, l’infondatezza della censura veniva motivata dal giudice adito in primo grado sulla base della rilevata non conformità delle due certificazioni di esenzione, trasmesse alla asl in momenti distinti, alle modalità previste dall’art. 4, co. 2, d.l. n. 44 cit., atteso che esse si erano limitate ad attestare genericamente che il ricorrente era affetto da patologie non rientranti fra quelle oggetto di sperimentazione da parte delle aziende farmaceutiche produttrici dei vaccini anti-COVID, senza essere pertanto accompagnate dall’indicazione delle «specifiche condizioni cliniche» idonee ad integrare il «pericolo per la salute» il cui accertamento è richiesto dalla legge ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, né dalla documentazione comprovante le ragioni poste alla base dell’esonero vaccinale prospettato nella certificazione.
Nella sentenza oggetto del gravame, inoltre, si rilevava come non potessero trovare spazio le istanze di tutela della sfera di riservatezza dell’interessato, richiamandosi alle quali quest’ultimo aveva prodotto il certificato di esenzione nei termini anzidetti, dal momento che la decisione del legislatore, all’esito del bilanciamento effettuato fra tutela della privacy ed esigenze di trattamento dei dati sensibili per finalità di sanità pubblica, si era orientata nel senso di gravare l’interessato stesso dell’obbligo di supportare la certificazione rilasciata dal proprio medico curante e da versare agli atti del procedimento con la documentazione idonea a provare le ragioni giustificative dell’esonero vaccinale.
La critica rivolta dall’originario ricorrente con l’atto introduttivo del giudizio di appello nei confronti della pronuncia impugnata aveva ad oggetto in primis l’affermazione per la quale alle asl, ai sensi della legislazione in tema di vaccinazione obbligatoria anti-COVID selettiva, fosse demandato il controllo della correttezza dell’attività certificativa svolta dai medici di medicina generale; affermazione, questa, censurata come priva di qualsiasi base normativa, posto che, secondo la deduzione dell’appellante, detta legislazione avrebbe attribuito all’amministrazione sanitaria un compito limitato alla mera ricezione della certificazione di esonero rilasciata dal medico curante, con esclusione pertanto del potere di esigere la documentazione medica comprovante le ragioni dell’esenzione.
Il motivo di doglianza è stato ritenuto non fondato e, pertanto, respinto dal Consiglio di Stato; il supremo consesso di giustizia amministrativa, infatti, ha considerato correttamente esercitato il potere di accertamento attribuito all’asl, fondando tale giudizio sull’argomento per cui quest’ultima avrebbe riscontrato l’inottemperanza all’obbligo vaccinale ricollegandola alla rilevata non conformità delle certificazioni di esenzione presentate alle modalità tipizzate dal legislatore, e non invece, come dedotto nell’atto di appello, attraverso l’effettuazione di un controllo sulla correttezza dell’operato dei medici certificatori, andando cioè a sindacare quanto da loro attestato; con il che è stata rigettata la tesi, sostenuta dall’originario ricorrente, del travalicamento, da parte dell’asl competente, dei limiti posti dalla legge rispetto all’espletamento della funzione di accertamento dell’inottemperanza all’obbligo di vaccinazione demandata all’amministrazione sanitaria.
3. La normativa di riferimento e la soluzione interpretativa prospettata dai giudici di Palazzo Spada
Al fine di meglio comprendere la soluzione data dai giudici amministrativi alla questione loro sottoposta, è bene inquadrare il dettato normativo sotteso alla controversia de qua nell’ambito dei principi generali che governano la materia dei trattamenti sanitari obbligatori.
Tali principi sono stati enucleati grazie al determinante contributo della giurisprudenza della Consulta, la quale ha avuto modo di precisare in più di un’occasione la portata del relativo disposto costituzionale[v]; l’art. 32, co. 2, Cost., infatti, di per sé si limita a prescrivere da un lato la necessità della previsione di legge[vi] e, dall’altro, quella del rispetto della persona umana nella configurazione di un certo trattamento sanitario come obbligatorio[vii].
In particolare, l’orientamento del Giudice delle leggi è consolidato nell’enunciare il principio per il quale l’imposizione del trattamento debba porsi come funzionale, ad un tempo, alla protezione tanto della salute di chi vi è assoggettato quanto di quella della generalità dei consociati[viii]; la legittimità costituzionale della previsione legislativa dell’obbligatorietà del trattamento è legata pertanto all’assenza di qualsiasi contrasto fra tutela della salute individuale e tutela della salute pubblica[ix], con conseguente inammissibilità di qualsivoglia trattamento disposto per salvaguardare l’interesse generale alla salute collettiva, ma suscettibile di arrecare pregiudizio, oltre la soglia della normale tollerabilità, all’integrità psico-fisica del soggetto passivo del trattamento stesso[x]; per quest’ultima evenienza, per l’ipotesi cioè di concretizzazione del rischio di lesione correlato al trattamento obbligatorio, la stessa giurisprudenza costituzionale ha sempre ritenuto necessaria l’introduzione, da parte del legislatore ordinario, di forme di tutela ulteriori rispetto alla tutela risarcitoria, sotto forma di liquidazione equitativa per il danno patito[xi].
La funzionalità del trattamento di cui viene prevista l’obbligatorietà alla protezione sia della salute individuale che di uno specifico interesse della collettività alla salute generale (e non di un interesse pubblico qualsiasi[xii]) - che, come si è appena detto, costituisce, per ius receptum, la condizione fondamentale della conformità al dettato costituzionale della previsione legislativa impositiva dell’obbligo di trattamento -, discende dalla necessità, postulata dall’art. 32 Cost., di contemperare il diritto alla salute del singolo individuo (comprensivo del profilo della libertà di cura) con l’uguale diritto rivendicabile da ciascuno degli altri individui e, dunque, con la salute come interesse della collettività[xiii].
D’altro canto, l’impossibilità di sacrificare l’interesse alla salute individuale a quello alla salute pubblica costituisce un portato dell’impostazione personalista alla base della Carta costituzionale del 1948, che esclude in radice che il primo possa assumere posizione servente rispetto al secondo[xiv].
Nella materia dei vaccini la necessità di realizzare un ragionevole punto di equilibrio fra il diritto del singolo di autodeterminarsi rispetto ai trattamenti sanitari e le ragioni di tutela della salute individuale e collettiva attribuisce un ruolo di primo piano alla discrezionalità del legislatore, chiamato ad individuare di volta in volta, sulla base dei dati offerti dalle evidenze scientifiche disponibili al momento nonché della situazione epidemiologica accertata dalle autorità sanitarie, quale tecnica, fra quella della raccomandazione e quella dell’obbligo, sia la più indicata nella logica della garanzia di un sistema di profilassi vaccinale idoneo a prevenire efficacemente l’insorgenza di malattie infettive[xv].
Pertanto, nonostante la libertà di cura costituisca, conformemente alla già richiamata impostazione personalista della Costituzione, il principio generale che governa l’intera materia dei trattamenti sanitari[xvi] - così che la regola è la volontarietà di questi ultimi, mentre la loro obbligatorietà ha carattere eccezionale[xvii] - il legislatore può scegliere di porre la somministrazione vaccinale ad oggetto di un obbligo, optando per lo strumento della coercizione anziché per quello della persuasione, purché tale scelta risulti non irragionevole alla luce delle condizioni epidemiologiche rilevate nelle sedi appropriate e sia sorretta dalle acquisizioni al momento accreditate e largamente condivise dalla comunità medico-scientifica[xviii].
La scelta effettuata dal legislatore con il d.l. n. 44/2021 per fare fronte all’emergenza sanitaria collegata alla pandemia di COVID-19 è stata quella di introdurre un obbligo vaccinale circoscritto, quanto ai suoi destinatari, al personale sanitario e di interesse sanitario, operante nel settore pubblico ed in quello privato[xix], e di rendere pertanto la vaccinazione «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati»[xx].
La giurisprudenza amministrativa che ha avuto modo di pronunciarsi su tale opzione legislativa ha messo in evidenza che la forma selettiva di obbligatorietà delineata nel sopra citato provvedimento normativo, se sicuramente risponde all’esigenza di protezione del personale medico e sanitario nei luoghi di lavoro, trova giustificazione altresì alla luce della chiara finalità di tutela, secondo il principio costituzionale di solidarietà, dei pazienti, e, soprattutto, di quei soggetti che, resi particolarmente fragili e vulnerabili dall’età o da gravi patologie, sono costretti a rivolgersi spesso alle cure e all’assistenza del personale sanitario e per i quali, pertanto, più frequenti sono le occasioni di contatto con questi lavoratori[xxi].
La ratio della previsione, del resto, è esplicitata nello stesso testo di legge, in cui apertis verbis l’obbligo vaccinale gravante sugli operatori sanitari viene collegato al «fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza»[xxii].
Proprio muovendo dalla considerazione della finalità perseguita dal legislatore, il Consiglio di Stato ha escluso il carattere discriminatorio della previsione de qua, ritenendo che l’imposizione dell’obbligo di vaccinazione nei confronti del solo personale sanitario trovi la propria primaria giustificazione, oltre che nel principio di solidarietà, in quello per il quale la sicurezza delle cure (da intendersi qui come affidamento che la persona bisognosa di assistenza sanitaria ripone nella non contagiosità di chi lo cura e, quindi, nella sicurezza del luogo di cura) rientra pienamente nella relazione di fiducia che si instaura tra paziente e medico e nel dovere di cura che su quest’ultimo incombe, divenendo, quindi, parte costitutiva del diritto alla salute costituzionalmente garantito[xxiii].
L’approccio interpretativo appena riferito è recepito anche dalla pronuncia qui annotata, la quale ha ritenuto non irragionevole la diversificazione degli strumenti di contenimento della diffusione del virus operata dal legislatore prevedendo appunto la vaccinazione obbligatoria nei confronti esclusivamente degli esercenti le professioni sanitarie e statuendo per altre categorie di lavoratori il solo obbligo della c.d. certificazione verde vaccinale (con facoltà pertanto per l’interessato di scegliere se sottoporsi a vaccinazione o di effettuare il tampone per verificare la negatività al virus ed escludere la propria contagiosità); a siffatta conclusione l’organo giudicante è pervenuto proprio facendo leva sulla considerazione per cui, attesa la diversa funzione ed efficacia degli strumenti utilizzabili fra quelli messi a disposizione dalla scienza (prevalentemente diagnostiche nel caso del tampone, prevalentemente di prevenzione della malattia indotta dal virus nel caso della vaccinazione), l’imposizione agli operatori sanitari dell’obbligo vaccinale si ricollega alla «maggiore potenziale fragilità dei soggetti che accedono alle prestazioni sanitarie, la quale giustifica l’adozione a fini preventivi di misure ritenute maggiormente efficaci (anche se maggiormente invasive nei confronti delle libertà dell’operatore interessato)», nell’ottica della minimizzazione del rischio di trasmissione del virus nei luoghi di cura e assistenza.
Nella decisione in commento, peraltro, non si manca di rilevare come al trattamento differenziato riservato agli operatori sanitari rispetto ad altre categorie professionali le cui mansioni implicano ugualmente contatti interpersonali e, quindi, il rischio di diffusione del contagio (emblematico, in questo senso, il caso del personale scolastico) non sia estranea neppure una specifica «finalità protettiva nei confronti dello stesso operatore sanitario, la quale non può che essere maggiormente avvertita in un contesto lavorativo caratterizzato, a differenza di quello scolastico, da un maggior grado di esposizione al rischio infettivo, già in ragione della più intensa variabilità dell’utenza (rispetto a quella scolastica)»[xxiv].
L’obbligatorietà della vaccinazione prevista dalla normativa coinvolta nel tema di causa è parsa inoltre alla stessa giurisprudenza amministrativa soddisfare pienamente il requisito della proporzionalità: le evidenze scientifiche e l’osservazione empirica dell’evoluzione della pandemia hanno in effetti ampiamente dimostrato il ruolo cruciale svolto dalla vaccinazione nell’arginare il propagarsi dell’infezione da Sars-CoV-2, di modo che il principio di proporzionalità, che vincola il legislatore a ricorrere, ove possibile, agli strumenti che meno incidono sulle libertà del singolo e configura pertanto, in una prospettiva di equilibrato bilanciamento fra valori contrapposti, l’imposizione dell’obbligo vaccinale quale extrema ratio[xxv], risulta rispettato proprio perché altre misure (distanziamento sociale, uso delle mascherine, ecc.) hanno fornito una risposta debole, o comunque non sufficientemente efficace rispetto al medesimo obiettivo, rendendo necessaria la previsione dell’obbligatorietà vaccinale[xxvi].
D’altronde, l’introduzione dell’obbligo vaccinale selettivo in funzione di limitazione della diffusione del contagio del nuovo coronavirus trova altresì spiegazione alla luce del contesto storico di riferimento entro il quale questa e simili decisioni prese dalle pubbliche autorità si inscrivono; contesto che appare segnato dall’insorgere, nel nostro come in altri paesi industriali avanzati dell’Occidente, di movimenti di protesta nei confronti delle misure di sanità pubblica adottate dai governi per far fronte al dilagare della pandemia di COVID-19.
Tali contestazioni sono portate avanti da rumorose e battagliere minoranze che, con argomentazioni spesso prive di qualsiasi fondamento scientifico, rivendicano, nella sostanza, una libertà individuale di autodeterminarsi con riferimento alla propria salute concepita come del tutto svincolata dalle istanze solidaristiche che connotano qualsiasi ordinamento democratico.
Simili movimenti, alla cui base si pone anche un atteggiamento di pervicace scetticismo nei confronti dei vaccini predisposti per prevenire il manifestarsi della malattia indotta dal virus respiratorio, alimentano inevitabilmente quel fenomeno già noto come “esitazione vaccinale”, che, in quanto diffuso presso la popolazione generale, è suscettibile di avere un impatto fortemente negativo sulla campagna di immunizzazione di contrasto al diffondersi delle malattie epidemiche, e, in quanto riscontrabile anche all’interno della categoria professionale degli operatori sanitari, è passibile di compromettere altresì la sicurezza dei luoghi di cura.
In questa prospettiva, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ritenuto che, in ultima istanza, sia proprio il contesto emergenziale che fa da sfondo alle misure adottate dalla legislazione di contrasto della pandemia ad avere giustificato la prevalenza data dalla normativa in discorso alle ragioni di tutela della salute collettiva rispetto all’autonomia decisionale del singolo operatore sanitario con riguardo alla sfera della propria salute; infatti - ha argomentato il supremo consesso di giustizia amministrativa - la libertà di scelta in questo campo, pienamente garantita dall’ordinamento nelle situazioni ordinarie, si traduce per contro, in condizioni contrassegnate dall’emergenza, in un «rischio inaccettabile»[xxvii], poiché il ritenere che essa possa essere incondizionatamente esercitata anche in queste evenienze, secondo una visione individualistica ed egoistica non giustificata sul terreno della scienza e che non può trovare spazio alcuno nelle fasi di emergenza[xxviii], può concretizzarsi in condotte destinate fatalmente a favorire la trasmissione del virus, a danno dei soggetti più fragili (malati e anziani), proprio nei luoghi di cura e assistenza per opera del personale medico e infermieristico non vaccinato.
Se, come si è appena detto, l’emergenza pandemica ha relegato il diritto di autodeterminazione terapeutica degli operatori sanitari in una posizione recessiva rispetto al preminente interesse alla salute pubblica (sub specie di protezione dei soggetti fragili nei luoghi ove essi ricevono le cure), esso non ha tuttavia inciso sul già richiamato limite dell’impossibilità di sacrificare a quest’ultimo le istanze di tutela della salute individuale, che vengono salvaguardate dalla normativa interessata dal tema di causa.
Il legislatore, infatti, come si è già ricordato quando si sono riportati sinteticamente i termini della questione esaminata dal Consiglio di Stato[xxix], ha contemplato la possibilità per l’operatore sanitario di essere esonerato dall’adempimento dell’obbligo vaccinale al ricorrere di determinate condizioni; in particolare la legge consente l’omissione o il differimento della vaccinazione in presenza di un «accertato pericolo per la salute», correlato a «specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale»[xxx].
Detta previsione, a ben vedere, riveste un ruolo centrale nell’ambito della normativa in discorso, in quanto si connette proprio all’esigenza, costituzionalmente imposta, di contemperare le ragioni di tutela della salute pubblica con quelle di protezione della salute del singolo individuo.
Il meccanismo delineato dal legislatore fa dipendere l’applicazione della clausola di esonero dalla documentazione di patologie del soggetto interessato tali da configurare una oggettiva incompatibilità con la somministrazione del siero vaccinale; spetta al medico di medicina generale desumere dalle condizioni cliniche da lui stesso attestate la sussistenza di un pericolo per la salute dell’operatore obbligato per legge a sottoporsi a vaccinazione e che presenta la certificazione di esenzione dall’obbligo; alle asl è demandato invece un potere di controllo su quest’ultima.
La questione della portata da ascrivere a tale potere - scrutinata nella sentenza in commento nei termini di cui si dirà a breve - ha una rilevanza essenziale rispetto alla definizione del grado di tutela assicurato alla salute collettiva, che, per quello che si è fin qui detto, costituisce la primaria ragion d’essere delle disposizioni in tema di vaccinazione obbligatoria selettiva dettate dal legislatore per contrastare la pandemia in atto; dal modo infatti in cui si ritenga di dover intendere il compito di verifica delle condizioni esoneratrici affidato all’amministrazione sanitaria, dipende la prevalenza delle ragioni della collettività ovvero di quelle del singolo nell’ambito dell’operazione di bilanciamento astrattamente effettuata dal legislatore.
Come si è accennato[xxxi], nella controversia decisa dal Consiglio di Stato nella decisione qui annotata, i giudici dell’appello, andando dello stesso avviso rispetto al giudice di prime cure, hanno ritenuto correttamente esercitato da parte dell’asl competente il potere di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo di vaccinazione; per i giudici, infatti, il modus procedendi in concreto seguito dall’amministrazione, lungi dal configurarsi come una forma di controllo non consentita dalla legge sulla correttezza dell’operato dei medici certificatori (secondo la tesi sostenuta dall’appellante), si è risolto nell’adozione dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo a seguito della mera constatazione della non corrispondenza della certificazione al modello legale, e quindi della sua non idoneità a giustificare l’esonero dall’obbligo stesso.
La premessa da cui muove la Terza sezione dell’organo di vertice della giustizia amministrativa è che l’attività di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo demandata alle asl presuppone la possibilità per queste di verificare tutti gli elementi costitutivi della relativa fattispecie e che, conseguentemente, dal momento che quest’ultima non è integrata quando risultino sussistere le condizioni esoneratrici previste dalla legge e rappresentate dall’interessato, occorre che i poteri di verifica spettanti all’amministrazione sanitaria abbiano modo di esplicarsi, in termini di effettività, anche su di esse.
A questa esigenza si accompagna pertanto, nella lettura che i giudici di Palazzo Spada hanno dato della normativa in discorso, la necessità di una valutazione non meramente formale della sussistenza delle condizioni esoneratrici attestate nella certificazione medica; una valutazione, cioè, che non si esaurisca nella mera presa d’atto di quest’ultima (secondo quanto asserito invece dall’appellante nella sua deduzione), ma che, scevra dalla pretesa di sindacare nel merito il contenuto di ciò che viene attestato dai medici certificatori, permetta all’amministrazione sanitaria di appurare il ricorrere degli elementi costitutivi della fattispecie esoneratrice.
La soluzione interpretativa offerta dal decisum in esame, che nei termini appena riferiti ricostruisce i caratteri del potere di accertamento attribuito dalla legge alle asl, si fonda, a ben vedere, su un inquadramento della sequenza procedimentale inerente a tale verifica teso ad una piena valorizzazione, alla luce del dato normativo, del ruolo dell’amministrazione nell’attuazione dell’obbligo imposto al personale operante in ambito sanitario.
Infatti, affrontando la questione della portata dispositiva e, quindi, immediatamente pregiudizievole dell’atto di accertamento di mancata ottemperanza all’obbligo (tale da imporre la necessità della sua immediata impugnazione ove l’interessato ne lamenti l’erroneità), la pronuncia pone in evidenza la rispondenza della dinamica procedimentale complessivamente tratteggiata dal legislatore all’obiettivo di puntuale individuazione, all’interno delle categorie professionali contemplate dalla normativa, dei soggetti effettivamente tenuti a sottoporsi a vaccinazione, in un’ottica di concretizzazione del relativo obbligo rientrante nel più ampio disegno normativo volto ad ascrivere alle asl, come affermano i giudici in un ulteriore successivo passaggio della sentenza, la «primaria responsabilità […] in ordine alla efficacia del piano vaccinale».
Proprio sui presupposti sopra accennati, da cui il Consiglio di Stato muove nell’interpretare la disposizione sottesa alla controversia sottoposta al suo esame, si regge la linea di demarcazione dal medesimo consesso nettamente tracciata fra i compiti affidati ai diversi soggetti istituzionali che animano la sequenza procedimentale delineata dal d.l. n. 44/2021.
Il «contatto “diretto”» instaurato con i pazienti dai medici di medicina generale configura il controllo da essi esplicato come un necessario «”filtro” delle “istanze” di esonero»; con ciò i giudici della Terza sezione hanno inteso significare che le funzioni certificative attribuite al medico di medicina generale rispondono all’esigenza di assicurare un controllo di tipo tecnico sull’effettiva incompatibilità delle condizioni cliniche rappresentate dall’interessato con la somministrazione del siero vaccinale.
Il contatto «secondario ed indiretto» (in quanto mediato dalla certificazione medica) delle asl, nella lettura dei giudici, d’altro canto, non rende il controllo ad esse affidato una pleonastica duplicazione di quello spettante ai medici curanti, poiché dall’esercizio di tale potere di verifica dipende la constatazione della «rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista», vale a dire la dimostrazione della circostanza che la somministrazione vaccinale, in ragione delle documentate condizioni di salute del vaccinando, costituirebbe un pericolo per la sua salute.
Ne deriva che le modalità prescritte dalla legge per la certificazione (id est, appunto, la documentazione delle «specifiche condizioni cliniche» e l’accertamento del «pericolo per la salute») costituiscono quegli elementi della fattispecie esoneratrice la cui presenza vale a conferire alla certificazione stessa, per esprimersi con le parole dei giudici amministrativi, quell’«esaustività giustificativa» necessariamente funzionale al riscontro, da parte dell’amministrazione sanitaria, del ricorrere dei presupposti dell’esonero «secondo un parametro “minimo” di “attendibilità”».
In altre parole, secondo i giudici dell’appello, al carattere mediato ed indiretto della funzione di controllo attribuita alle asl non corrisponde un potere di verifica meramente formale della sussistenza dei presupposti alla base dell’esonero, poiché la stessa «pregnanza» (in termini sostanziali e probatori) degli elementi costitutivi della fattispecie di esenzione indica univocamente che, nel disegno del legislatore, le attestazioni mediche di esonero, «oggetto diretto ed esclusivo» dell’attività di verifica della asl, debbano essere soggette ad un riscontro effettivo di attendibilità da parte dell’amministrazione sanitaria.
Sulla base di tali motivazioni, il Consiglio di Stato, per un verso, facendo proprio l’argomento già espresso in tal senso dalla pronuncia resa in primo grado, ha ritenuto la circostanza addotta nelle due certificazione oggetto della controversia, cioè l’esclusione delle patologie non specificate né documentate dal novero di quelle sottoposte alla sperimentazione condotta dalle case farmaceutiche produttrici dei vaccini anti-COVID, non valevole ad integrare il requisito dell’«accertato pericolo per la salute», collegato invece dalla legge alla sussistenza di «condizioni cliniche documentate ed attestate»[xxxii]; per altro verso ha sconfessato la tesi, sostenuta dall’appellante, per la quale la documentazione comprovante le specifiche condizioni cliniche deve essere prodotta esclusivamente al medico certificatore e non anche alla asl; per altro verso ancora ha escluso che le istanze di tutela della riservatezza dell’interessato valgano ad inibire la produzione di un certificato di esenzione con l’indicazione delle patologie da cui dovrebbe desumersi l’incompatibilità della somministrazione vaccinale con lo stato di salute dell’interessato e con il supporto dalla relativa documentazione, come per contro sostenuto nell’atto di appello, nel quale si invocava l’applicazione analogica della circolare del Ministero della salute sulle modalità di redazione dell’attestazione di esenzione dall’obbligo vaccinale valida a dispensare dall’applicazione delle disposizioni relative al possesso della certificazione verde COVID-19[xxxiii].
4. Brevi considerazioni conclusive
Il decisum in commento si pone perfettamente in linea con la finalità di tutela dell’interesse alla salute collettiva sottesa alla normativa che prevede l’obbligo di vaccinazione selettiva; il principio di diritto posto dal Consiglio di Stato, infatti, è volto a valorizzare il potere di accertamento demandato all’amministrazione sanitaria in ordine alla sussistenza o meno dell’obbligo vaccinale, evidenziando come i requisiti tipizzati dalla legge per l’integrazione della fattispecie esoneratrice siano funzionali alla possibilità per la stessa amministrazione di esercitare un controllo sostanziale sull’attendibilità dell’attestazione medica dell’elemento cardine ai fini del riconoscimento dell’esonero dall’obbligo: il pericolo per la salute del vaccinando, che deve potersi evincere dalla documentazione delle condizioni cliniche oggetto di attestazione.
Al contempo, statuendo simile principio, i supremi giudici amministrativi hanno posto bene in luce che la conoscibilità, da parte dell’asl competente all’accertamento, della motivazione diagnostica alla base dell’addotta certificazione, ferma rimanendo l’insindacabilità nel merito di quanto attestato dal medico in ordine alla sussistenza di tale pericolo, costituisce la condizione indispensabile per scongiurare il rischio che il potere di decidere in materia si concentri esclusivamente in capo ai medici di medicina generale, riducendo i compiti attribuiti alle asl a mere formalità destinate solo ad aggravare la sequenza procedimentale delineata dal legislatore.
All’impostazione ermeneutica adottata dalla sentenza, presumibilmente, non è estranea neppure una logica volta alla prevenzione dei possibili abusi dello strumento della certificazione, che trovano terreno fertile nel richiamato attuale contesto storico segnato dall’affermarsi di forme di opposizione alla campagna di vaccinazione, che a loro volta favoriscono, anche all’interno della categoria professionale destinataria dell’obbligo in discorso, il fenomeno della c.d. esitazione vaccinale.
Sono, insomma, le ragioni della salute pubblica, risultate prevalenti, nel bilanciamento operato dal legislatore, con i contrapposti interessi attinenti alla riservatezza[xxxiv] e all’autodeterminazione individuale del singolo operatore sanitario, nel quadro, tuttavia, di un ragionevole contemperamento realizzato con le istanze di tutela della salute individuale, a rendere non ammissibile una certificazione “in bianco”, che si limiti cioè - come si esprimono i giudici nella pronuncia de qua -, a dichiarare «ab externo» le condizioni giustificative dell’esonero, con la pretesa di considerarle dimostrate, in ossequio alle ragioni della privacy, senza renderle note all’amministrazione e in assenza di qualsiasi documentazione comprovante la loro sussistenza.
L’orientamento espresso dai giudici della Terza sezione, tuttavia, deve essere riconsiderato alla luce delle modificazioni apportate al d.l. n. 44 dal già richiamato d.l. n. 172/2021.
Fra le novità introdotte da quest’ultimo provvedimento[xxxv], particolarmente rilevante, ai fini del nostro discorso, è quella relativa alle modalità prescritte per la redazione della certificazione di esonero, che segnalano una maggiore attenzione riservata dal legislatore della novella alle esigenze di tutela di riservatezza dei vaccinandi.
Sotto questo profilo, la normativa novellata appare espressione di un bilanciamento diverso e, per così dire, specularmente rovesciato rispetto a quello che ha animato la logica sottesa all’impianto originario del d.l. n. 44.
Infatti, il testo attualmente vigente impone che l’attestazione da parte del medico di medicina generale delle «specifiche condizioni cliniche documentate» debba avvenire «nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2»[xxxvi]; dal momento che fra i criteri definiti da tali circolari figura quello per il quale «i certificati non possono contenere altri dati sensibili del soggetto interessato», e che fra questi dati viene richiamato espressamente, seppur a titolo esemplificativo, la «motivazione clinica della esenzione»[xxxvii], ne deriva che il rinvio della normativa modificata alle modalità di redazione indicate nelle circolari rende ora ammissibile ciò che, come ben chiarito dal Consiglio di Stato della decisione annotata, non era invece consentito alla luce della previgente normativa: riceve cioè legittimazione la produzione di una certificazione rispetto alla quale l’attestazione generica dell’incompatibilità dello stato di salute del vaccinando con la somministrazione del siero, priva del riferimento alle «specifiche condizioni cliniche attestate» e non accompagnata dalla idonea documentazione, sembra essere non solo ammessa, ma addirittura l’unica modalità di redazione consentita dalla legge.
Invero, l’esito del differente bilanciamento effettuato dal legislatore con la normativa così modificata pare a chi scrive contraddistinguersi per l’indebolimento arrecato alle ragioni di tutela della salute pubblica, posto che alle esigenze di garanzia della riservatezza degli operatori sanitari gravati dall’obbligo vaccinale viene attribuito un peso di gran lunga maggiore rispetto a quello che esse avevano nell’originario disegno normativo e tale da determinare uno spostamento del baricentro dell’intera disciplina, concepita appunto inizialmente in funzione di una tutela rafforzata della salute della collettività, verso istanze rispetto a quest’ultima antagoniste.
Se così è, risulta allora facilmente comprensibile come l’inversione di tendenza del legislatore comporti una parziale ma significativa compromissione della portata del potere ascritto all’amministrazione sanitaria in tema di accertamento della sussistenza dell’obbligo vaccinale.
Nel regime previgente l’amministrazione disponeva, nell’esercizio di detto potere, di un certo margine di apprezzamento della certificazione medica rilasciata, proprio in forza del suo carattere circostanziato e documentato richiesto dal modello legale, che rendeva possibile effettuare un minimo riscontro, in termini di attendibilità, in ordine alla deduzione, da parte del medico, del pericolo per la salute dalle condizioni patologiche specificamente attestate e documentate[xxxviii].
La disciplina ora in vigore, che impone, per ragioni di tutela della sfera di riservatezza dell’interessato, l’omissione della motivazione diagnostica alla base dell’addotta esenzione, rende per contro l’attività di valutazione in questione prettamente formale, atteso che il potere di verifica spettante alle asl, esplicandosi su una certificazione “in bianco”, si svuota di contenuto; rebus sic stantibus, salvo interpretazioni correttive della giurisprudenza, rimane impregiudicata per l’amministrazione soltanto la possibilità di sindacare l’attestazione medica sotto un profilo formale, riducendosi le ipotesi di accertamento della mancata integrazione della fattispecie esoneratrice a casi di scuola, quale può essere quello dell’attestazione priva della sottoscrizione del medico certificatore.
In definitiva, la disciplina attuale, così concepita, pone le premesse per la concretizzazione del rischio di rimettere l’intero potere decisionale sulla (in)sussistenza dell’obbligo vaccinale ai medici di medicina generale, estromettendone invece dall’esercizio le asl, titolari del potere di accertamento dell’obbligo vaccinale; rischio che, come si è detto, la pronuncia del Consiglio di Stato oggetto di questa nota, ponendo il principio di diritto che si è illustrato, ha ritenuto, alla luce della previgente normativa, doversi assolutamente scongiurare.
Invero, il modo in cui il legislatore ha scelto di dare tutela alle istanze relative alla privacy nella normativa novellata appare il frutto di un bilanciamento con la garanzia della salute pubblica alquanto discutibile sotto il profilo della ragionevolezza, soprattutto in considerazione del depotenziamento del ruolo dell’amministrazione sanitaria nell’attuazione dell’obbligo vaccinale indotto dalla nuova disciplina; ruolo che, ben presente nel disegno normativo originario, è stato oggetto, come si è visto, di opportuna valorizzazione nella sentenza in discorso.
A ben vedere, l’impossibilità per le asl di conoscere il tipo di patologia da cui il medico curante desumerebbe il pericolo per la salute individuale, unitamente alla non accessibilità da parte delle medesime alla documentazione comprovante lo stato di salute del soggetto interessato, produce due risultati degni di nota ma tutt’altro che auspicabili: da un lato il medico di medicina generale finisce inopinatamente per rivestire i panni di una sorta di “garante” della privacydell’operatore sanitario rispetto al quale rilascia la certificazione di esenzione, in virtù della conoscenza esclusiva che egli ha delle sue condizioni cliniche e della relativa documentazione; dall’altro, un sistema così congegnato favorisce il consolidarsi di un sistema opaco, o, quanto meno, poco trasparente, in cui il ruolo del medico di medicina generale tende a ridursi a quello di un “certificatore seriale”, cioè di un produttore in serie di attestazioni di esonero dall’obbligo vaccinale, a cui non necessariamente però corrisponde uno stato di salute tale da giustificare l’esonero stesso, e in cui può agevolmente abusarsi dello strumento della certificazione di esenzione, posto che senza l’indicazione della motivazione diagnostica essa si trasforma nell’attestazione di una condizione (il pericolo per la salute), non più accertata, come vorrebbe la legge, ma la cui sussistenza è presunta iuris et de iure e della quale l’asl deve pertanto limitarsi a prendere atto.
Pare dunque lecito porsi il dubbio se la pur giusta esigenza di preservare il valore, costituzionalmente garantito, della riservatezza valga a giustificare un sacrificio così rimarchevole delle contrapposte ragioni di tutela della pubblica salute.
In uno scenario - qual è quello attuale - contraddistinto da tenaci, seppur minoritarie, forme (spesso irrazionali) di resistenza alla vaccinazione di massa, sarebbe infatti opportuno che il legislatore favorisse la creazione di meccanismi volti a contrastare tale fenomeno; in questa direzione si era orientato il d.l. n. 44 nella sua originaria impostazione, prevedendo un controllo effettivo delle asl sull’operato dei medici di medicina generale, tale da consentire all’amministrazione di cooperare efficacemente allo svolgimento ed al buon funzionamento della campagna vaccinale in corso.
La nuova disciplina, che rende di fatto già superato l’importante principio di diritto statuito dal decisum in commento, rischia viceversa di favorire un impiego distorto del diritto alla privacy, poiché questo può essere invocato strumentalmente ogniqualvolta il singolo intenda far prevalere il proprio diritto all’autodeterminazione sulle ragioni solidaristiche connesse alla tutela della salute collettiva e che giustificano l’imposizione dell’obbligo vaccinale.
Ciò però conduce ad assecondare la logica, rigettata fermamente dalla stessa Consulta, dei c.d. “diritti tiranni”[xxxix]: la libertà individuale di autodeterminarsi con riferimento alla propria salute viene infatti elevata a situazione giuridica soggettiva che, lungi dal confrontarsi con diritti di pari rango nell’ambito di un doveroso bilanciamento, si pone come monade isolata e irrelata, e, in tal guisa, si esprime una visione dell’ordinamento non certo in linea con lo spirito solidaristico che anima la Carta costituzionale repubblicana[xl].
[i] La disciplina normativa a cui si fa riferimento nel testo è quella di cui all’art. 4 del d.l. 1 aprile 2021, n. 44 (recante, fra l’altro, «Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2»), conv. in l. 28 maggio 2021, n. 76, nel testo previgente alle innovazioni apportate dall'art. 1, co. 1, lett. b), del d.l. 26 novembre 2021, n. 172, non ancora convertito in legge.
[ii] Ex art. 4, co. 6, d.l. n. 44/2021 cit., ante modifiche arrecate dal d.l. n. 172/2021 cit.
[iii] La pronuncia maggiormente emblematica di tale modus opinandi è Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045, in Dir. Giust., 2021, 21 ottobree in Guida al dir., 2021, 42, che ha avuto origine dal ricorso di alcuni esercenti professioni sanitarie della regione Friuli Venezia Giulia, non ancora sottoposti alla vaccinazione obbligatoria, contro i provvedimenti dell’asl che hanno sanzionato l’inosservanza dell’obbligo vaccinale; in termini cfr. anche Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 6401, in Dir. Giust., 2021, 10 dicembre, sempre in tema di sospensione dal servizio del medico che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione anti-COVID; sono riconducibili al medesimo orientamento anche TAR Lazio-Roma, sez. III, 17 dicembre 2021, n. 7394, in Dir. Giust., 2021, 21 dicembre, in tema di sospensione dal servizio dei docenti non vaccinati, e TAR Lazio-Roma, sez. III, 2 settembre 2021, n. 4531, in Guida al dir., 2021, 35, che si è pronunciata sui provvedimenti adottati dal Ministero dell’istruzione disciplinanti la certificazione obbligatoria anti-COVID del personale scolastico - rispetto ai quali alcuni docenti avevano presentato istanza di sospensione -, confermando la validità della normativa che prevede l'automatica sospensione dal lavoro e dalla retribuzione da parte del personale sprovvisto della c.d. certificazione verde vaccinale.
[iv] Sulla proiezione solidaristica del diritto alla salute nella normativa di contrasto al COVID-19 e sulla difficoltà di contemperarla con altri interesse di pregio costituzionale, si veda M. Noccelli, La lotta contro il coronavirus e il volto solidaristico del diritto alla salute, in federalismi.it - Osservatorio emergenza Covid-19, 2020. Va osservato in proposito che la dimensione collettiva del diritto garantito dall’art. 32 Cost., rimasta sullo sfondo e, in un certo senso, messa in ombra dal ruolo assolutamente preponderante assunto, nel dibattito giuridico e politico, dai temi attinenti alla garanzia della salute individuale, ha riconquistato prepotentemente il centro della scena proprio con l’emergenza epidemiologica derivante dalla diffusione del nuovo coronavirus. Gli aspetti legati a tale dimensione sono emersi in tutta la loro drammatica attualità ed urgenza, amplificati ed esasperati nel contesto dell’epocale passaggio storico segnato dalla pandemia; infatti, il “diritto dell’emergenza” nato per gestire la crisi sanitaria ha posto una serie di problemi legati, oltre che alle rilevanti limitazioni di cui si fa cenno nel testo, e cioè a quelle imposte al singolo nell’esercizio di diritti e libertà costituzionalmente garantiti (per le quali si rinvia alla lettura di L. Cuocolo, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: la reazione italiana, in Id. (a cura di), I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata, in federalismi.it - Osservatorio emergenza Covid-19, 2020), anche alle ipotesi di conflittualità venutesi a determinare fra tutela della salute collettiva e tutela della salute individuale, intesa, quest’ultima, tanto come diritto a ricevere cure, quanto come libertà di cura. Proprio su quest’ultimo profilo, e cioè sul bilanciamento operato dal legislatore fra diritto all’autodeterminazione con riguardo alla propria salute e interesse alla salute pubblica si pronunciano le decisioni menzionate nella nota precedente e quella oggetto di questo commento.
[v] Da ultimo in Corte cost. 18 gennaio 2018, n. 5 (est. Cartabia), in Giur. cost., 2018, 1, 38 ss. (con nota di C. Pinelli, Gli obblighi di vaccinazione fra pretese violazioni di competenze regionali e processi di formazione dell’opinione pubblica, 101 ss.; L. Principato, La parabola dell’indennizzo dalla vaccinazione obbligatoria al trattamento sanitario raccomandato, 374 ss.; A. Proto Pisani, Brevi note su Costituzione tutela effettiva del cittadino nei confronti della p.a. e errori della c.d. dottrina, 443 ss.; V. Ciaccio, I vaccini obbligatori al vaglio di costituzionalità. Riflessioni a margine di Corte cost. sent. n. 5 del 2018, 451 ss.), che contiene rilevantissime precisazioni sui trattamenti vaccinali imposti per legge.
[vi] In dottrina è largamente prevalente l’opinione che la riserva di legge in questione abbia carattere relativo: v., per tutti, M. Luciani, voce Salute, I) Diritto alla salute - Dir. cost., in Enc. giur., vol. XXXII, Roma, 1993, 11.
[vii] Il limite del rispetto della persona deve intendersi riferito tanto al rispetto della sua dignità quanto a quello della sua integrità psico-fisica; sul punto, si veda, ex multis, Corte cost. 26 giugno 2002, n. 282 (est. Onida), in Giur. cost., 2002, 2, 2012 ss. (con nota di A. D’Atena, La Consulta parla… e la riforma del titolo V entra in vigore; D. Morana, La tutela della salute, fra libertà e prestazioni, dopo la riforma del Titolo V. A proposito della sentenza 282/2002 della Corte costituzionale), in tema di appropriatezza delle scelte terapeutiche e discrezionalità legislativa: «La pratica terapeutica si pone […] all’incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica, diritto questo che l’art. 32, comma 2, secondo periodo, Cost. pone come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono essere imposti per legge come obbligatori a tutela della salute pubblica».
[viii] Corte cost. 22 giugno 1990, n. 307 (est. Corasaniti), in Giur. cost., 1990, 6, 1874 s. (con nota di F. Giardina, Vaccinazione obbligatoria, danno alla salute e «responsabilità» dello Stato): «Da ciò [dal disposto dell’art. 32 Cost., n.d.r.] si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale».
[ix] Sulla necessaria convergenza fra interesse individuale e interesse collettivo alla salute, che esclude qualsiasi funzionalizzazione del primo al secondo, si veda, in dottrina, B. Pezzini, La decisione sui diritti sociali. Indagine sulla struttura costituzionale dei diritti sociali, Milano, 2001, 131 s.
[x] Corte cost. n. 307/1990, cit.: «[Dal disposto dell’art. 32 Cost., n.d.r.] si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili. Con riferimento, invece, all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri».
[xi] Il principio è stato posto dal Giudice delle leggi con l’importante citata sentenza additiva n. 307/1990, resa in tema di indennizzo per danni collegati alle vaccinazioni obbligatorie: «Un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute [come “fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”, n.d.r.] - e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell'imposizione del trattamento sanitario - implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l'essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito»; nello stesso senso si veda anche Corte cost., 23 giugno 1994, n. 258, in Foro it., 1995, I, 1451 ss.
[xii] Che ai fini della legittimità costituzionale della previsione legislativa del trattamento sanitario obbligatorio non basti la sua funzionalità rispetto ad un interesse pubblico purchessia, richiedendosi al contrario la sussistenza di uno specifico interesse pubblico attinente alla salute collettiva, è principio largamente condiviso tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. Non è un caso, sotto questo profilo, che Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, in Giur. cost., 1996, 4, 2142 (con nota di A. Nappi, Sull’esecuzione coattiva della perizia ematologica; M. Ruotolo, Il prelievo ematico tra esigenza probatoria di accertamento del reato e garanzia costituzionale della libertà personale. Note a margine di un mancato bilanciamento tra valori), abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, co. 2, c.p.p. nella parte in cui prevedeva la possibilità per il giudice delle indagini preliminari di disporre coattivamente - in sede di incidente probatorio per l'esecuzione di perizia ematologica - il prelievo ematico nei confronti tanto dell'indagato quanto di terzi; la previsione oggetto della declaratoria di incostituzionalità, infatti, contemplava un’ipotesi di accertamento invasivo della «sfera corporale della persona» (test del DNA) senza il consenso dell’interessato «per fini di acquisizione probatoria nel processo penale», dunque per fini non sanitari. In dottrina si veda M. Luciani, voce Salute, cit., 11; D. Morana, La salute nella Costituzione italiana. Profili sistematici, Milano, 2002, 189; L. Carlassare, Dignità della persona e libertà di cura, in Studi in onore di Franco Modugno, vol. I, Napoli, 2001, 571 s.: «Un trattamento sanitario […] può essere imposto soltanto quando sia direttamente in gioco l’interesse collettivo: per prevenire o fermare malattie contagiose che provocano un diretto danno sociale. Solo la tutela degli altri può consentire trattamenti imposti limitando la libertà individuale. Ma l’interesse della collettività dev’essere anche attuale. In nome di un possibile danno o interesse futuro della collettività si potrebbe altrimenti arrivare ad esiti finali che sgomentano, la selezione degli individui, ad esempio, secondo la pratica nazista»; ritiene che l’interesse della collettività a cui si riferisce l’art. 32, co. 1 Cost. vada interpretato come «limite esterno» rispetto al diritto individuale alla salute, cioè come «barriera che ne circoscrive l’ampiezza senza tuttavia condizionarne il godimento», D. Morana, op. ult. cit., 163 (v. anche Id., La salute come diritto costituzionale. Lezioni, II ed., Torino, 2015, 39).
[xiii] Corte cost. 2 giugno 1994, n. 218, in Giur. cost., 1994, 3, 1812 ss.: «La tutela della salute […] implica e comprende il dovere dell'individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell'eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell'interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari»; si veda anche Corte cost. 27 marzo 1992, n. 132, ivi, 1992, 2, 1108 ss.; Corte cost. 20 dicembre 1996, n. 399, in Foro it., 1997, I, 3124; Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 268, in Giur. cost., 2017, 6, 2913 ss.. Sul tema del contemperamento fra la dimensione individuale e quella collettiva del diritto alla salute nella disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori, si veda C. Colapietro, La valutazione costi-benefici nei trattamenti sanitari obbligatori: il bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli della collettività, in NOMOS - Le attualità nel diritto, 1997, 3, 57 ss.
[xiv] Così D. Morana, La salute come diritto, cit., 38 s.: «quanto appena detto sulla natura individualistica della libertà di salute non si pone in alcun modo in contrasto con la prescrizione costituzionale che, nella medesima formulazione dell’art. 32, tutela la salute stessa anche come “interesse della collettività”. È sufficiente la lettura della disposizione, infatti, per comprendere come l’“interesse della collettività” alla salute non venga affatto qualificato dalla Costituzione come scopo in vista del quale si riconosce il diritto alla salute dell’individuo. Il riferimento all’interesse della collettività alla salute, insomma, non vale a finalizzare ad esso, rendendolo funzionale, il diritto individuale, ma rappresenta esclusivamente un “contenimento esterno” per quest’ultimo. Detto altrimenti, la libertà di salute non viene attribuita al singolo in ragione dell’interesse collettivo alla salute; ben diversamente, essa viene configurata in modo tale che il suo godimento non pregiudichi il corrispondente interesse della collettività. In tal senso, dunque, quest’ultimo non si configura come ragion d’essere della libertà, ma soltanto come limite esterno alle concrete forme di godimento di essa che il soggetto titolare deciderà di mettere in atto».
[xv] Così, da ultimo, Corte cost. n. 5/2018, cit.; v. anche Tar Lazio-Roma, sez. III, 2 ottobre 2020, n. 10047, in Foro amm., 2020, 10, 1917 ss., che precisa che l’operazione di bilanciamento fra i vari interessi coinvolti nel tema delle vaccinazioni spetta al legislatore statale, con esclusione pertanto della potestà legislativa delle regioni, che non possono pertanto neanche introdurre previsioni più rigorose, volte cioè ad ampliare l’ambito oggettivo e soggettivo dell’obbligatorietà vaccinale.
[xvi] Si veda in proposito L. Carlassare, Dignità della persona, cit., 571. Nella manualistica si veda, per tutti, C. Colapietro, I diritti sociali, in F. Modugno (a cura di), Diritto pubblico, IV ed., Torino, 2019, 700: «Il 2° comma dell’art. 32 Cost. introduce il tema dei trattamenti sanitari obbligatori […], da considerarsi l’eccezione rispetto al principio generale, solennemente proclamato nella prima parte di questa stessa disposizione, della libertà dell’individuo da qualsiasi trattamento sanitario non imposto da legge conforme a Costituzione». Sulla funzione svolta dai limiti e dalle garanzie previste in Costituzione per i trattamenti obbligatori, si veda inoltre R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, II ed., Torino, 2020, 77 s.: «la salute come problema collettivo è sì allocato (anche) nella dimensione pubblicistica dell’ordine pubblico interno, soprattutto pensando alla materia delle vaccinazioni obbligatorie preordinate ad impedire l’insorgenza di determinate forme di morbilità, ma nel quadro di regole e di principi di garanzia idonei a controbilanciare i pur manifesti frammenti e momenti di regolazione autoritativa. La norma costituzionale è, infatti, di particolare rigore: non solo perché sottopone al limite invalicabile della riserva di legge, pur diversamente graduato, la liceità e la legittimità di ogni trattamento sanitario obbligatorio, ma anche perché, in sintonia con il principio personalistico di cui all’art. 2 Cost., pone inequivocabilmente, come vincolo per ogni futura determinazione del legislatore, il rispetto della persona umana».
[xvii] M. Mazziotti di Celso e G.M. Salerno, Manuale di diritto costituzionale, VII ed., Padova, 2018, 259: «Questi principi [“la riserva rafforzata, sebbene relativa, di legge” ricollegabile alla necessità di rispettare “i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, n.d.r.] e il modo stesso come la norma [l’art. 32, co. 2, Cost., n.d.r.] è formulata, dimostrano la volontà del legislatore di favorire la volontarietà dei trattamenti (cfr. art. 1 della legge 180/78) ed in genere la partecipazione del soggetto alla misura preventiva e alla cura; da essa deriva poi un limite preciso alla imposizione di trattamenti obbligatori, cioè che sia in gioco non solo l’interesse del malato, ma quello della collettività. Non esistendo, almeno secondo l’opinione dominante, un dovere di tutelare la propria salute, l’obbligatorietà dei trattamenti è ammissibile solo quando è in gioco, oltre che l’interesse individuale, anche quello collettivo alla salute».
[xviii] Così ancora Corte cost. n. 5/2018 cit., con cui i giudici della Consulta, pronunciandosi sul ricorso in via principale presentato dalla regione Veneto avverso le disposizioni del d.l. 7 giugno 2017, n. 73, recante «Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale», hanno giudicato «non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche» il provvedimento legislativo censurato nel ricorso e volto a «rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale» (confermando l’obbligatorietà per i minori fino a sedici anni di età di alcune vaccinazioni e introducendola per altre prima solo oggetto di raccomandazione) a fronte di «una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia»; nella decisione in questione si è sottolineato altresì come le scelte adottate in tema di vaccinazione siano strettamente collegate al contesto e ai dati offerti dalla comunità scientifica, così che le determinazioni legislative, con l’evolversi delle conoscenze in campo sanitario e con il mutare delle condizioni epidemiologiche, possono essere oggetto di rivalutazione, come dimostra la stessa normativa scrutinata dalla Corte con l’introduzione, in sede di conversione del decreto legge, di «un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini», secondo un meccanismo di «flessibilizzazione della normativa da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate». Peraltro, il passaggio da un regime all’altro (da quello della raccomandazione a quello dell’obbligo e viceversa) non deve suonare né strano né inconsueto se si muove dalla premessa, ben evidenziata dalla Corte nella citata pronuncia, per la quale «nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici», atteso che «In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo (tanto che sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze […])».
[xix] A mente del testo previgente dell’art. 4, co. 1, d.l. n. 44 cit. sono ricompresi nel personale sanitario «gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali»
[xx] La disposizione, contenuta nel testo previgente dell’art. 4, co. 1, d.l. n. 44 cit., è rimasta immutata nel testo attualmente in vigore.
[xxi] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit.
[xxii] L’esplicitazione della finalità sottesa alla normativa è identica, nella sua formulazione, nel testo previgente dell’art. 4, co. 1, d.l. n. 44/2021 e nel testo attualmente in vigore. Come viene rilevato anche in Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., la ratio della previsione si evince in maniera chiara anche dalla conseguenza che dal testo previgente del d.l. n. 44 cit. veniva fatta discendere dall’inosservanza dell’obbligo vaccinale: il comma 6 dell’art. 4 prevedeva infatti che «L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione del diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2»; la finalità perseguita dal legislatore è ricavabile anche dall’attuale formulazione del testo di legge, che statuisce che «L’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale […] determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie» (art. 4, co. 4, d.l. n. 44 cit., come modificato dal d.l. n. 172/2021, cit.) e prevede l’assegnazione a mansioni diverse, che non implichino il rischio di diffusione del contagio, senza decurtazione della retribuzione, nei confronti solo dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale (art. 4, co. 7); su tale aspetto v. infra, nt. 35.
[xxiii] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit.
[xxiv] Appare significativo, sotto il profilo considerato nel testo, che sia in Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., che nella pronuncia qui commentata si sia deciso di non rimettere alla Consulta, ritenendola manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale sollevata, nel giudizio instauratosi innanzi al giudice amministrativo, con riferimento alla previsione legislativa dell’obbligo vaccinale nei confronti del personale sanitario, per il suo supposto contrasto rispetto al parametro costituzionale di eguaglianza.
[xxv] Che il trattamento sanitario previsto dalla legge come obbligatorio debba risultare proporzionato alla luce di dati scientifici chiari e ampiamente accettati dalla comunità scientifica, costituisce ius receptum, essendo oramai generalmente riconosciuto nella giurisprudenza della Consulta; si veda, in questo senso, da ultimo, Corte cost. n. 5/2018, cit.
[xxvi] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit. Il tema della proporzionalità della disciplina impositiva dell’obbligo vaccinale è richiamato da ultimo da Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., ord. 17 gennaio 2022, n. 38, in Giustizia-amministrativa.it; in tale pronuncia, nella quale peraltro si prospetta come ipotizzabile la rimessione alla Corte costituzionale di alcune questioni di legittimità costituzionale, ritenute rilevanti e non manifestamente infondate, sollevate dal ricorrente con riferimento all’obbligo vaccinale e si dispone istruttoria al riguardo, si rileva che l’evoluzione della situazione sanitaria in corso, contraddistinta dalla diffusione di nuove varianti del virus, ponga il problema di esaminare l’opportunità, sotto il profilo appunto del rispetto del principio di proporzionalità, di una possibile futura previsione legislativa che prescriva come obbligatorie «ripetute somministrazioni nell’anno per periodi di tempo indeterminati».
[xxvii] Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit.
[xxviii] «Nel bilanciamento tra i due valori, quello dell'autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, compiuto dal legislatore con la previsione dell'obbligo vaccinale nei confronti del solo personale sanitario, non vi è dunque legittimo spazio né diritto di cittadinanza in questa fase di emergenza contro il virus Sars-CoV 2 per la c.d. esitazione vaccinale» (sent. ult. cit.).
[xxix] V. supra, par. 2.
[xxx] La disposizione, contenuta nel testo previgente dell’art. 4, co. 2, d.l. n. 44 cit., è rimasta immutata nel testo attualmente in vigore, che tuttavia, come si dice più avanti nel testo (v. infra, par. 4), aggiunge l’inciso, particolarmente rilevante per l’effetto che ne scaturisce e che verrà esaminato, per il quale l’attestazione da parte del medico di medicina generale delle «specifiche condizioni cliniche documentate» deve avvenire «nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2»
[xxxi] V. supra, par. 2.
[xxxii] Nella certificazione trasmessa alla asl, veniva invocata l’applicazione del principio di precauzione in materia sanitaria, facendo leva sull’affermazione del carattere condizionato dell’approvazione dei vaccini anti-COVID; la tesi della natura sperimentale dei vaccini anti-COVID è confutata da Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., sulla base della considerazione che essi stati approvati a seguito di un rigoroso processo di validazione scientifica e di sperimentazione clinica; sul peculiare modo di atteggiarsi del principio di precauzione nelle fasi di emergenza sanitaria, sempre con particolare riferimento al tema dei trattamenti vaccinali obbligatori per gli esercenti professioni sanitarie, si veda ancora sent. ult. cit., che ne mette in evidenza il funzionamento in termini invertiti rispetto ai tempi ordinari, derivante, a ben vedere, dal suo combinarsi col principio solidaristico in funzione di tutela dei soggetti più vulnerabili: «In fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante, drammatico, indifferibile di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all'ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l'utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito - va ribadito - tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l'utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l'utilizzo di quel farmaco».
[xxxiii] Secondo quanto previsto dal d.l. 22 aprile 2021, n. 52, conv. in l. 17 giugno 2021, n. 87, che statuisce che le disposizioni del comma 1 non si applicano ai soggetti esentati dalla somministrazione del vaccino «sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute» (v. artt. 9-bis, co. 3; 9-ter, co. 3; 9-ter.1, co. 2; 9-ter.2, co. 2; 9-quater, co. 2; 9-quinquies, co. 3; 9-sexies, co. 7; 9-septies, co. 3).
[xxxiv] Che nel bilanciamento effettuato dal legislatore fra interessi antagonisti le ragioni di tutela della salute pubblica siano prevalenti rispetto a quelle della privacy dei soggetti interessati è sottolineato dal giudice adito in primo grado (v. supra, par. 2).
[xxxv] Nell’ambito delle modifiche recate dal d.l. n. 172 cit., degna di nota, oltre a quella di cui ci si occupa nel testo, è l’attribuzione del potere di adottare l’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale all’Ordine professionale competente, anziché, come nella previgente disciplina, all’asl (art. 4, co. 4, d.l. n. 44 cit., nel testo modificato dal citato d.l. n. 172), nonché il già richiamato effetto (v. supra, nt. 22), prodotto da tale atto (la cui natura viene qualificata come «dichiarativa» e «non disciplinare»), di «immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie» - art. 4, co. 4, cit. -, (che sostituisce l’effetto, previsto nel regime anteriore, di sospensione dal solo diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano il rischio di diffusione del contagio), mentre l’adibizione a mansioni anche diverse, che non implichino il rischio di diffusione del contagio, senza decurtazione della retribuzione, è prevista ai sensi del vigente co. 7 nei confronti solo dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale.
[xxxvi] Art. 4, co. 2, d.l. n. 44/2021 cit.
[xxxvii] Circolare del Ministero della salute del 4 agosto 2021.
[xxxviii] Appare significativa, in questo senso, la prassi, instauratasi presso alcune asl nella vigenza del testo originario del d.l. n. 44 cit., di istituire commissioni interne, composte da tecnici incaricati di valutare le certificazioni presentate.
[xxxix] Molto rilevante in tema è la pronuncia del 2013 resa dal Giudice delle leggi sulla vicenda Ilva (Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85 (est. Silvestri), in Giur. cost., 2013, 3, 1424 ss., con nota di V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente; D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge ILVA; R. Bin, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza “Ilva”; G. Sereno, Alcune discutibili affermazioni della Corte sulle leggi in luogo di provvedimento): essa ha escluso in radice che il diritto alla salute possa farsi «“tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette», in quanto ciò si porrebbe in insanabile contrasto con il pluralismo che informa la Carta repubblicana, fondata, al pari delle costituzioni che reggono gli ordinamenti di altre democrazie contemporanee, sull’«integrazione reciproca» dei diritti fondamentali.
[xl] In termini Cons. St., sez. III, n. 7045/2021, cit., che richiama l’orientamento espresso dalla sopra citata sentenza della Consulta sul caso Ilva per il quale «tutti i diritti tutelati dalla Costituzione - anche quello all’autodeterminazione - si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri».
Un ulteriore passo in avanti nel (difficile) cammino della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per l’applicazione negli ordinamenti tributari nazionali dei principi della Convenzione EDU (nota a Corte EDU, 14 dicembre 2021, causa 11200/19 Melgarejo Martínez Abellanosa v. Spagna)
di Roberta Alfano*
Sommario: 1. Introduzione - 2.1. Il caso concreto - 2.2. La pronuncia della Corte di Strasburgo - 3. La motivazione della sentenza: sollecitazioni sovranazionali ed evoluzione domestica fra esigenze di semplificazione e rispetto di tutti i principi a fondamento del giusto processo - 4. Sanzioni penali, sanzioni (formalmente) amministrative e principio del ne bis in idem - 5. Il cadenzamento dei passi della Corte EDU e l’effettivo adeguamento interno: qualche riflessione.
1. Introduzione
La Corte EDU si è recentemente pronunciata in merito alla violazione dell’art. 6 della convenzione EDU in campo tributario.
La sentenza in commento si pone in linea di continuità con le precedenti pronunce volte all’affermazione del giusto processo in materia tributaria, ovvero a garanzia di quei principi che, con le parole di autorevole dottrina, non costituiscono “il” traguardo , ma i meri standard minimi di garanzia che devono essere assicurati da una giurisdizione in uno Stato di diritto[1].
Il caso di specie si sofferma sul difetto di motivazione in merito alla natura accessoria di un accertamento riferito a sanzioni per ritardato pagamento ed interessi di mora, per il quale non era stato deciso l’annullamento, come invece avvenuto per la presunta pretesa tributaria. L’attività della Corte EDU trova fondamento nel principio di effettività delle garanzie fondamentali, per la protezione concreta e reale delle prerogative dei singoli individui, prendendo le distanze dalle interpretazioni fondate su classificazioni sistematiche poste in essere negli ordinamenti interni, nel fine prevalente dell’effettiva tutela dei diritti dell’uomo. La Convenzione EDU ha trovato soltanto in un secondo momento applicazione al diritto tributario attraverso la giurisprudenza della Corte EDU, che ha dilatato significativamente il campo di applicazione dell’art. 4, prot. 7 della Convenzione; ciò, in particolare con riferimento alla vexata quaestio della reale afflittività delle sanzioni amministrative[2] e al rispetto del principio del ne bis in idem in ragione di sanzioni penali e sanzioni qualificate come amministrative in diritto nazionale, ma sostanzialmente penali, irrogate allo stesso soggetto per i medesimi comportamenti[3].
La pronuncia segna un ulteriore passo a favore di un consolidamento della cogenza della Convenzione EDU nel sistema tributario in grado di sensibilizzare il giudice interno, sollecitandone un’interpretazione sistematica volta a garantire i diritti del contribuente nel rispetto del livello di tutela garantito in sede europea. L’art. 6 della Convenzione EDU trova, in una fattispecie che presenta profili tributari e sanzionatori inscindibilmente connessi, pieno riconoscimento, contribuendo ad adeguare il “contenuto sostanziale dell’art. 111 Cost., di rilevanza meramente interna, a quello indicato dalla Corte Europea ai sensi dell’art. 6 CEDU[4]”. La pronuncia deve, dunque, considerarsi soltanto quale ultimo - da un punto di vista cronologico - tassello di una significativa giurisprudenza, che fin dalla sentenza Ferrazzini ha evidenziato in campo tributario il modus operandi della Corte EDU “secondo un criterio di prudenza”, lentamente estesosi - pur se con qualche passo da gambero[5] - anche alle controversie che non presentino (soltanto) “profili sanzionatori[6]”.
Last but not least , la Corte torna, pur se incidentalmente, ad esprimersi sulla sopracitata e mai sopita questione della natura delle sanzioni formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali, rimarcando – in chiave evolutiva nel rispetto delle sue più recenti pronunce – la propria posizione, affatto diversa da quella presente in molteplici ordinamenti interni, primus inter pares quello italiano. A cascata, tale pronuncia stimola indirettamente anche una rapida considerazione con riferimento al rispetto del principio del ne bis in idem recentemente oggetto di una rivalutazione – rectius : un chiarimento – importante da parte di entrambe le Corti europee.
Appare, dunque, opportuno preliminarmente ricostruire in estrema sintesi la fattispecie concreta interna e l’impianto argomentativo della Corte EDU, per poi riflettere sulle sollecitazioni provenienti dalla pronuncia, in un tentativo di trasposizione in chiave sistematica delle crescenti sollecitazioni della giurisprudenza europea sul diritto e processo tributario e di ulteriore sensibilizzazione in chiave europeistica degli operatori del diritto.
2.1. Il caso concreto
A seguito di accertamento nei confronti del ricorrente erano stati emessi dall’amministrazione finanziaria due distinti avvisi, il primo in merito al debito d'imposta e l’altro alle sanzioni per ritardato pagamento ed interessi di mora. Il ricorrente aveva esperito i diversi rimedi previsti dal sistema interno, con esiti affatto differenti; dopo diverse pronunce ad opera dei Tribunales Económico-Administrativos – gli organismi spagnoli di duplice grado appartenenti al Ministero de Hacienda per la risoluzione dei ricorsi tributari, con sede, in prima istanza (TEAR ) presso ciascuna delle Comunidades Autónomas e, successivamente, in sede centrale (TEAC) – il ricorrente aveva proposto ricorso innanzi all’ Audiencia Nacional, tribunale unico spagnolo. Posto che il TEAC aveva annullato il solo debito principale, il ricorrente aveva richiesto il conseguente annullamento dell’avviso relativo alle sanzioni per ritardato pagamento e interessi accessori. La Audiencia Nacional aveva respinto il ricorso, senza affrontare espressamente la pretesa del contribuente circa la nullità dell’avviso relativo alle sanzioni per ritardato pagamento e interessi per la cancellazione del debito principale. In data di poco successiva – circa due mesi – la medesima Audiencia Nacional , in analoga composizione ma con diverso giudice relatore, si era pronunciata sullo speculare ricorso dei fratelli del ricorrente, nei cui confronti parimenti erano stati emessi distinti accertamenti in merito al debito d’imposta e alle sanzioni per ritardato pagamento ed interessi. Nel loro caso, la Audiencia Nacional aveva però dichiarato la nullità dell’avviso relativo alle sanzioni per ritardato pagamento ed interessi, posta la natura accessoria rispetto al debito principale, cancellato dal TEAC, del quale doveva seguirne la sorte.
I diversi ricorsi giurisprudenziali interni esperiti dal primo fratello non avevano trovato accoglimento. In primo luogo era stato respinto il ricorso per cassazione per difetto relativo a vizi di impugnazione; analogamente era stato respinto il successivo ricorso incidentale dalla stessa Audiencia Nacional per presunta violazione del diritto all’uguaglianza, in ragione della pronuncia nei confronti dei fratelli e per violazione del diritto al giusto processo per mancata motivazione. Il contribuente aveva altresì presentato successivamente Recurso de Amparo per violazione dell’art. 24 della Costituzione spagnola in merito al diritto al giusto processo, dichiarato però inammissibile dalla Corte Costituzionale con pronuncia n. 2913 del 2018 per difetto di rilevanza costituzionale. Di qui il ricorso alla Corte EDU.
2.2. La pronuncia della Corte di Strasburgo
La Corte EDU affronta una pluralità di aspetti che appare opportuno enunciare in seguenza cronologica. In primo luogo la Corte EDU si pronuncia sulla presunta violazione della certezza del diritto per la disparità fra le diverse sentenze della Audiencia Nacional nei confronti dei fratelli, nell’ipotesi di medesime fattispecie sostanziali. La Corte EDU, a fronte di sentenze diverse poste in essere in un breve lasso di tempo, rileva che, sebbene una siffatta divergenza sia motivo di preoccupazione, la possibilità di decisioni giudiziarie contraddittorie è una caratteristica intrinseca propria di qualsiasi ordinamento, che, come precedentemente rilevato dalla Corte, non può essere considerata di per sé stessa una violazione della Convenzione EDU[7]. In particolare, il ricorrente, pur rilevando tale discrasia, non aveva argomentato che la divergenza sulla questione specifica addottata fosse contraria a precedente e consolidata giurisprudenza, sulla quale avrebbe potuto ragionevolmente basarsi per aspettarsi un diverso risultato e non aveva portato a fondamento del suo ragionamento precedenti pronunce a favore di tale possibile pretesa.
Ciò posto la Corte EDU ribadisce che il suo ruolo non si sostanzia nel porre a confronto diverse decisioni emesse dai tribunali nazionali: pur richiamando propri precedenti secondo cui il principio della certezza del diritto può ritenersi violato dalla previsione di decisioni contrastanti emesse dal medesimo giudice per casi analoghi – decisioni che compromettono la fiducia dei cittadini nella magistratura, e possono, in alcuni casi, equivalere a un diniego di giustizia[8] – ha evidenziato la mancanza di "differenze profonde e consolidate" nella giurisprudenza pertinente. Di conseguenza, la Corte non rileva una violazione del principio di certezza del diritto in misura incompatibile con le garanzie di cui all’articolo 6.1 .
La Corte EDU si è soffermata sul fatto che l’Audiencia Nacional, a fronte della domanda del ricorrente in merito alla natura accessoria delle sanzioni per ritardato pagamento ed interesse di mora, non abbia risposto espressamente a tale specifica censura . La Corte ha ricordato che l'obbligo di motivazione non richiede in alcun modo una risposta dettagliata a ciascuna delle argomentazioni presentate dall'attore; ciò nonostante è necessario argomentare con una risposta concreta ed esplicita circa le motivazioni decisive per la risoluzione di un procedimento.
Nel caso di specie, la tesi dell’attore circa la natura accessoria delle pretese evidenziate nel secondo accertamento era potenzialmente determinante per l’esito della controversia, come ben dimostrato dalle pronunce di poco successive nei confronti dei fratelli del ricorrente, la cui l’istanza di annullamento è stata accolta proprio in ragione di siffatta argomentazione.
La Corte EDU ha, dunque, rimarcato la propria consolidata giurisprudenza secondo la quale non rientra nelle sue competenze determinare se le domande del ricorrente avrebbero dovuto essere accolte o meno in sede interna o se le sue affermazioni fossero fondate. Parimenti, pur non dovendo procedere a una siffatta analisi, la Corte non ha potuto non rilevare che la domanda del ricorrente relativa alla natura accessoria delle sanzioni per ritardato pagamento e degli interessi fosse determinante per l'esito della causa. La mancata motivazione rispetto a tale punto dirimente ad opera del giudice interno ha, dunque, determinato una violazione del principio del giusto processo ex art. 6 della Convenzione EDU.
3. La motivazione della sentenza: sollecitazioni sovranazionali ed evoluzione domestica fra esigenze di semplificazione e rispetto di tutti i principi a fondamento del giusto processo
Nel caso di specie il difetto di motivazione del giudice spagnolo si era sostanziato nel non aver esplicitato la ratio del mancato annullamento dell’accertamento accessorio dopo aver dichiarato tale quello relativo al debito d’imposta. L’omessa motivazione sul punto, ha indotto la Corte EDU, in linea con la sua giurisprudenza[9], a rilevare la violazione dell’art. 6, posto che la valutazione sul carattere accessorio dell’accertamento avrebbe avuto carattere decisivo per l'esito della controversia. L’analisi delle diverse pronunce della Corte EDU in tema di motivazione contrastante con l’art. 6 della Convenzione ne evidenzia la consueta pragmaticità nella definzione dei requisiti propri della motivazione della sentenza, che in più di una fattispecie si sono riferite a pronunce italiane, fra cui la recente causa Felloni[10]. La Corte evidenzia come le decisioni giudiziarie debbano riportare sufficientemente i motivi[11] che ne sono a fondamento – necessari per le parti ai fini della dimostrazione che i motivi addotti siano stati attentamente analizzati - e con sufficiente chiarezza[12]. Qualora non sia garantito un esame effettivo delle principali argomentazioni del ricorrente e non sia fornita una risposta che permetta di comprendere la ratio di tale rigetto, si realizza, come nel caso di specie, una violazione del giusto processo di cui all’art. 6, comma 1 della Convenzione EDU.
L’obbligo di motivazione si qualifica, per la Corte EDU, in ragione di una certa mobilità dei requisiti, strettamente correlati alla natura stessa della decisione; necessaria è un’analisi che tenga conto delle specifiche circostanze riferite al caso concreto[13], che evidenzi, quale minimo comune denominatore, l’effettivo esame di tutte le diverse questioni fondamentali sollevate dal ricorrente[14], a ciascuna delle quali – come recentemente sancito proprio a seguito di un revirement della Corte stessa[15] – deve essere stata fornita specifica ed esplicita risposta[16] .
La motivazione della sentenza fondamenta la legittimità dell'azione giurisdizionale, condicio sine qua non per la comprensione delle modalità di convincimento del giudice. La motivazione, nell’esplicitare le ragioni della decisione, permette di comprendere il ragionamento di carattere fattuale e giuridico del Giudice “per determinare la regola concreta della vicenda scrutinata partendo dalla norma astratta, in modo che quanto disposto non sia percepito come un responso oracolare[17]”.
La motivazione deve essere, in ogni caso, idonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione[18]. In caso contrario, la sentenza è nulla per mancanza di un requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, nella sua espressione di requisito minimo costituzionale imposto al giudice dall’art. 111 Cost., comma 6, di quanto stabilito dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dall’art. 118 disp. att. c.p.c.[19] e, per il processo tributario, al richiamo esplicito all’ art. 36, comma 2, D.Lgs. 546/1992. Anche nel processo tributario - diretto non alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio[20] – il rispetto dell’obbligo di motivazione può considerarsi soddisfatto anche in mancanza di un’analitica individuazione del contenuto dell’atto impugnato, purché il giudice sia in grado di delineare chiaramente il rapporto sostanziale controverso[21]. La motivazione deve poter esplicitare le ragioni a base della decisione, che prescindono dal grado di articolazione della motivazione stessa. In tal senso emblematica una recente pronuncia della Cassazione, che – nell’annullare con rinvio la sentenza della CTR del Lazio che aveva confermato la contestazione dell’amministrazione nei confronti di una società informatica di aver partecipato ad una frode IVA, ponendo in essere operazioni di acquisto soggettivamente inesistenti – ha rilevato come la motivazione risultasse nella sostanza solo apparente; infatti, pur essendo formalmente articolata, era fondata “su asserzioni astratte prive di un riscontro concreto con riferimento ai fatti controversi senza indicare quali fossero gli elementi presuntivi[22]” rilevati dall’amministrazione. La motivazione deve essere in grado di esplicitare il contenuto dinamico della decisione, secondo la recente qualificazione del giudice di legittimità tributario[23]. La sentenza deve considerarsi nulla in tutte le ipotesi di motivazione apparente[24], di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile[25], di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico ovvero di contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili[26]. Infatti, qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita disamina giuridica rende impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento[27]. D’altro canto, proprio pochissimi giorni addietro e proprio in campo tributario – in tema di frodi carosello e di legittimità della prova per presunzioni nell’ipotesi di pluralità di rapporti economici con le società cartiere – la Cassazione ha avuto modo di ribadire che il vizio di motivazione è deducibile quale vizio di legittimità solo quando si concreti in una nullità processuale ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. È necessario, dunque, che la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, in ragione di un contrasto irriducibile tra affermazioni, ovvero faccia riferimento a circostanze che, nel caso di specie, non hanno legittimato tale declaratoria di nullità[28].
Il legislatore, come chiaramente evidenziato sin dalla riforma del processo civile e del processo amministrativo, ha posto in essere un cammino riformatore del processo di cui il depotenziamento dell’apparato motivazionale della sentenza è certamente una peculiare espressione. La concentrazione dei tempi processuali e la necessità endemica di deflazionare il sistema giudiziario riverbera infatti i propri effetti anche nella motivazione della sentenza, posto che “frequente si ritrova l'adagio che il vero « collo di bottiglia » del processo sia la fase di decisione della causa, uno dei talloni d'Achille del sistema giudiziario italiano sul quale dover intervenire[29]”; ciò ha portato ad implementare e giustificare l’utilizzo, non sempre ottimale, di tecniche di semplificazione, quali la motivazione per relationem o per collage[30].
Il principio della ragionevole durata del processo anche in campo tributario legittima l’idea che il necessario contemperamento di interessi richieda che siano il più possibile contenuti i ritardi da motivazione, per non arrecare inutili appesantimenti del giudizio.
Evidente è la necessità di un bilanciamento di interessi. Il corollario del principio della ragionevole durata del processo, intrinsecamente collegato al principio del giusto processo, la cui interiorizzazione, dopo un accidentato ed altalenante cammino di riconoscimento, comincia a trovare una sua dimensione anche in campo tributario[31], giustifica la possibilità di un’esposizione – e, in epoca pandemica, anche di una “comparizione”[32] – per sintesi. Stringente appare l’esigenza di un’economia di scrittura - recentissimamente dichiarata legittima anche in merito ai notoriamente difficili equilibri (non solo riferiti alla motivazione) in tema di contraddittorio endoprocedimentale[33] –purchè sia sempre e comunque possibile la sufficiente individuazione del percorso argomentativo della pronuncia e del ragionamento del giudice. Tale bilanciamento impone, però, che lo sventolio di tale vessillo, non distragga dal rispetto di altri e non meno rilevanti valori di cui (quanto meno) in pari misura si nutre l’equo processo, quali il diritto al contraddittorio, il diritto ad un giudizio, all'imparzialità e terzietà del giudice e, soprattutto, il rispetto del diritto di difesa[34].
4. Sanzioni penali, sanzioni (formalmente) amministrative e principio del ne bis in idem
La Corte EDU, nell’analisi in merito all’applicabilità della parte penale dell'articolo 6 , 1 della Convenzione, torna, anche se solo in via incidentale, ad occuparsi - par. 25 - della natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative. Il fil rouge della giurisprudenza della Corte EDU si sostanzia, ancora una volta, nella verifica della persistenza degli Engel criteria.
La Corte rileva come, nel caso di specie, ancora una volta, la sanzione per ritardato pagamento, pur non essendo qualificata dall’ordinamento interno come penale, ma amministrativa non si sostanzia in realtà in un mero risarcimento pecuniario per il danno: si tratta, dunque, di una punizione per scoraggiare la recidiva, dalla natura deterrente e punitiva, confermata dalla gravità della sanzione, pari al venti per cento dell'imposta dovuta. È noto come il punto di partenza di tale processo evolutivo è stato il riconoscimento, da parte dei giudici di Strasburgo, della natura sostanzialmente “penale”, ai sensi degli artt. 6 e 7 Convenzione EDU, di molte sanzioni tradizionalmente qualificate come amministrative[35]. Il distinguo sostanziale fra le due tipologie di sanzioni ha trovato nella giurisprudenza della Corte EDU la sua principale declinazione in riferimento all’applicabilità del principio del ne bis in idem, «principio di civiltà giuridica[36]», teso a vietare – rectius: a regolamentare – il cumulo sanzionatorio, che trova, in campo tributario, sua privilegiata collocazione, tassello imprescindibile nel mosaico della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, riconosciuti a livello sovranazionale e dai diversi ordinamenti interni.
L’evoluzione del ne bis in idem trova alimento nell’interpretazione giurisprudenziale, in primo luogo europea, in cui la Corte EDU e la Corte di giustizia sono giunte, pur se con qualche significativo e altrove più compiutamente esaminato distinguo[37], a conclusioni sostanzialmente analoghe. Il difficile equilibrio fra ordinamento interno, principi contenuti nella Convenzione EDU e diritto europeo ha necessitato del continuo l’ausilio della bussola giurisprudenziale. I giudici, a fronte del silenzio del legislatore, si sono sentiti investiti del compito di calmierare e trovare un punto di incontro tra diritti fondamentali, all’interno del delicato ambito del diritto punitivo, che, fermo il rispetto del principio di legalità, più di ogni altro deve tener conto della vis nomofilattica degli organi giurisdizionali. Non da meno appare evidente che, pur con il conforto dato dal fitto dialogo fra le Corti in materia, “il dibattito sul ne bis in idem sconta ancora una certa magmaticità perché demanda all’apprezzamento di fatto del giudice la sussistenza dei presupposti della violazione”[38]. L’assist fornito dalla valutazione incidentale sulla natura delle sanzioni nella pronuncia in commento permette in questa sede di poter rimarcare che l’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU insieme - e soprattutto – con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, pur avendo evidenziato nel tempo un mutato approccio interpretativo, che ha reso regola - con la nota sentenza A e B - la complementarietà in luogo dell’alternatività fra sanzioni, non ha comportato nella sostanza una effettiva deminutio delle garanzie e dei principi a fondamento della risposta sanzionatoria, in ragione della sempre viva primazia della regola della proporzionalità. A conforto di tale affermazione occorre citare alcune pronunce molto recenti della Corte EDU[39] e, con riferimento alla Corte di Giustizia, alcune recentissime conclusioni dell’Avvocato generale M. Bobek[40]. Quest’ultime, pur non strettamente riferite a controversie tributarie, si esprimono chiaramente anche con riferimento a tale campo di indagine[41] ed evidenziano la rinnovata lettura del principio in senso garantista. Garanzia che, in assenza di un chiaro intervento normativo interno, cerca di rompere l’assordante silenzio del legislatore, a fronte del difficile quadro normativo vigente sul rapporto fra sanzioni penali e tributarie e i correlati processi. In sede interna, la mancanza di meccanismi di efficace coordinamento fra sanzione amministrativa e penale lascia presagire ad ogni mossa il rischio concreto di compromettere la proporzionalità della reazione sanzionatoria nel suo complesso. Il sinergico e coordinato svolgimento dei due procedimenti – così come auspicati dalle Corti europee, in particolare al fine di evitare la duplicazione dell’attività istruttoria e di raccolta delle prove[42] – appare in realtà un’araba fenice , posto che il principio di autonomia dei due procedimenti, ciascuno dotato di peculiarità sue proprie, ne rende estremamente ardua l’applicazione[43].
Le recenti puntualizzazioni delle Corti europee confermano quanto già da una parte della dottrina evidenziato[44] in merito alla mancanza di una volontà di abiura delle proprie precedenti interpretazioni in tema di ne bis in idem, come era stato, prima facie, inteso.
Le alterne vicende interpretative sul principio esprimono in modo inequivocabile l’oggettiva difficoltà esistente per definire l’annosa querelle. La posizione delle Corti sovranazionali deve essere necessariamente letta nella tradizionale ottica sostanzialistica e trasversale fra i diversi rami del diritto che permea le Corti europee. La Consulta sembra averne sentito l’eco, come dimostra la più recente giurisprudenza[45], che però non si espone eccessivamente, rafforzando sostanzialmente le proprie ammonizioni al legislatore. Se queste sono le premesse, altrettanto evidente è però la ritrosia dei giudici di legittimità nell’applicazione effettiva del principio, con buona pace delle poche fattispecie in cui la Cassazione ha rinviato gli atti al giudice di merito per una più attenta valutazione sull’effettiva presenza dei presupposti richiesti in sede sovranazionale. D’altro canto, non può sottacersi che “analizzando le interrelazioni tra procedimento penale e procedimento tributario così come rese possibili dai diversi istituti, ora di matrice legislativa ora di matrice pretoria, presenti nel nostro ordinamento, può fondatamente nutrirsi più di un dubbio circa l’ontologica riscontrabilità di tutti i material factors richiesti”[46].
5. Il cadenzamento dei passi della Corte EDU e l’effettivo adeguamento interno: qualche riflessione
La sentenza in esame può certamente considerarsi un’altro, prezioso, tassello per il completamento del puzzle delle garanzie in materia tributaria, in cui una molteplicità delle tessere che formano la trama è di derivazione europea. E’ (tristemente) conosciuta l’endemica complessità che caratterizza la giustizia tributaria italiana e le particolari e certamente non lineari evoluzioni che ne hanno caratterizzato la storia fin dalla sue origini. In siffatto tessuto, le necessarie garanzie, anche quando in modo inequivocabile se ne è evidenziata l’imprescindibilità, si sono sempre trovate ad inseguire le complessità via via più marcate che hanno contraddistinto la norma tributaria, risultando, nella corsa ad ostacoli ingaggiata, inevitabilmente perdenti[47]. I mali endemici della giustizia tributaria non possono in alcun modo sfuggire neanche all’occhio meno esperto; prima inter pares la oggettiva difficoltà data dalla presenza di giudici part time non specializzati e non esclusivamente dedicati alla risoluzione di controversie tributarie. Tale limitazione, in una materia caratterizzata da spiccato tecnicismo, ha nei fatti significativamente compromesso anche la qualità e la quantità delle questioni di costituzionalità o dei rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia, non contribuendo ad un possibile cambio di rotta del processo tributario, di fatto a lungo sostanzialmente servente rispetto all’interesse fiscale. La continuamente richiamata specificità della materia tributaria è divenuto il pretesto che ha, nei fatti, alimentato dinamiche di cambiamento spesso analoghe a quelle professate da Tancredi Falconeri nel Gattopardo.
La materia tributaria, espressione emblematica della sovranità statale, sconta ed amplifica – più ancora che in altri rami del diritto – le fisiologiche difficoltà all’accettazione dei principi di promozione delle libertà civili negli ordinamenti interni che promanano dalle Corti europee.
I principi elaborati dalla Corte EDU in tema di giusto processo hanno trovato la strada per poter esprimere le proprie dirette ricadute sull’ordinamento interno lastricata delle difficoltà generate dai limiti propri di una giurisdizione in cui l’effettività di detti principi è stata lungamente assicurata soltanto dal giudice di ultima istanza. Giudice che, a sua volta, non fondamenta la propria funzione nomofilattica su nutrienti interpretazioni della Consulta in campo tributario.
Il reiterarsi delle interpretazioni sostanzialistiche in sede europea moltiplica le concrete possibilità di attuazione di un sistema di garanzie per il contribuente. Tale consolidamento è potenzialmente in grado ad incidere in misura crescente sui giudici nazionali tributari, posta la “dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato[48]”. Con riferimento al giusto processo, l’adeguamento interpretativo del contenuto sostanziale dell’art. 111 Cost., di rilevanza interna, a quanto indicato dalla Corte EDU, ex art. 6 della Convenzione[49], non può che tradursi, in linea teorica, in un crescente consolidamento del caleidoscopico panorama di siffatte garanzie; fra queste rilevano la parità delle armi, l’imparzialità, l’indipendenza, o il diritto al silenzio – recentemente sancito anche dalla Corte di Giustizia europea in tema di sanzioni CONSOB[50] – fino alla previsione della prova testimoniale, verso cui la Cassazione ha mostrato recentemente segnali di apertura[51]. Tutti punti nevralgici del rapporto processuale tributario, tradizionalmente sbilanciato nel sistema interno verso la tutela dell’interesse fiscale.
Mutatis mutandis quanto rilevato può trovare applicazione per l’altra peculiare questione sottesa che emerge dalla pronuncia, in riferimento alla diversità di garanzie interne fra sanzioni (solo formalmente) amministrative e sanzioni penali; in particolare, rileva rispetto a quanto previsto dall’art. 4 par. 7 della Convenzione EDU circa la duplice sottoposizione al procedimento di accertamento tributario e di indagine penale.
All’attualità i giudici possono e devono fare la loro parte, nella consapevolezza che – come anche la Consulta ha fermamente e in più occasioni ribadito, insieme con una nutrita parte della dottrina –– spetta al legislatore regolare più attentamente i rapporti tra sistema penale tributario e sistema amministrativo tributario, meglio definendo ciascuna tipologia di illecito, per evitare un cumulo di sanzioni e di procedimenti privo di ragionevolezza e proporzionalità.
I principi europei evidenziano la necessità improcastinabile di una diversa modulazione sanzionatoria. “La soluzione più tranchant sarebbe quella di tornare alla regola dell’alternatività dei due tipi di sanzioni accolta, a suo tempo, dalla Legge n. 4/1929”[52]. Le sanzioni penali dovrebbero trovare esclusiva applicazione per gli illeciti tributari rilevatori di un grave disvalore sociale. Le sanzioni amministrative potrebbero prevedere più articolate modulazioni, se del caso opportunamente graduando la risposta sanzionatoria amministrativa anche attraverso un ampio ricorso alla categoria delle sanzioni interdittive[53].
L’evoluzione del ne bis in idem è certamente espressione privilegiata del precipuo dialogo tra Corti, che anche con riferimento alle sanzioni tributarie in genere e non solo con riferimento al principio, promuove e conferma un cammino sostanzialistico teso all’abbandono di una logica meramente formale. Entrambe le questioni che la pronuncia, in via diretta o mediata pone in evidenza, esprimono, inequivocabilmente, la cogenza di una nuova visione, che ruoti intorno al contribuente, in un diverso equilibrio fra autoritatività dell’azione impositiva e – auspicata – pariteticità del rapporto obbligatorio[54].
Imprescindibile, dunque, una lettura sistematica del processo tributario che permetta di ancorarsi sempre più efficacemente ai principi contenuti nella Convenzione EDU. Tocca al giudice il maggior sforzo di adeguamento. Nel farlo, non deve dimenticare che, in tutte le ipotesi di sospetta incompatibilità con i principi europei di norme tributarie nazionali, può procedere al rinvio pregiudiziale ex l’art. 267 TFUE, ovvero può porre in essere un atto di coraggio e disapplicare norme interne contrastanti con principi di matrice europea, soprattutto nell’ipotesi in cui fattispecie analoghe siano già stato oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Il giudice di Strasburgo continua nel suo complesso cammino, con l’intento di conformare il sistema tributario interno ai diritti fondamentali della Convenzione EDU. Evidente è la necessità di rispettare la sovranità statale di cui la politica fiscale è una delle espressioni più emblematiche:parimenti, appare evidente la necessità che sia sempre garantito il principio di proporzionalità.
Imprescindibile il compito di adeguamento ai principi europei da parte dei giudici, che debbono trarne ispirazione ai fine della propria funzione nomofilattica.
Ancora più imprescindibile la necessità che la tanto invocata riforma del sistema e del processo tributario riesca a trovare una reale definzione e che il legislatore sia realmente disposto a fare la sua parte.
I segnali continuano ad apparire contraddittori. Uno, in conclusione, fra i tanti. Se sembra evidente che l’evoluzione della giurisprudenza sovranazionale in campo tributario - di cui il ne bis in idem, così come il principio di proporzionalità sono precipue espressioni – necessiti di essere recepita dal legislatore, provoca una certa amarezza verificare che il più recente disegno di legge di delega sulla riforma fiscale[55]non si pone neppure il problema del coordinamento fra sanzioni amministrative e penali tributarie, non mostrando alcun intento di risolvere la vexata quaestio. Permane, dunque, tangibile il dubbio se il legislatore voglia realmente accettare la sfida di riconoscere e legittimare nell’ordinamento tributario interno le garanzie e le tutele definite dalla giurisprudenza europea. Nell’immobilismo del legislatore, la Corte EDU, rispetto a quanto emerso nella sentenza commentata, continua nel proprio cammino : da un lato - con riferimento agli obblighi di motivazione della sentenza - verso la sempre più completa applicabilità dei principi del giusto processo alla materia tributaria tout court . Dall’altro - in merito alla diversità delle garanzie fra sanzioni tributarie penali e (formalmente ) amministrative in sede interna e a correlati rischi di violazione del principio del ne bis in idem - per puntualizzare la mancanza di un revirement delle proprie precedenti interpretazioni, come era stato, prima facie, (mal) inteso.
Anche il giudice nazionale, sotto il mantello di protezione della giurispudenza della Corte EDU, deve, dunque, superare in modo sempre più definito la propria naturale ritrosia nell’applicazione concreta dei principi europei, perchè “se è pur vero che oggi, rispetto al passato, sono sempre maggiori i casi in cui il giudice si confronta effettivamente con i principi elaborati dalla Corte EDU riconoscendone quindi implicitamente l’autorità, allo stesso tempo sul piano delle ricadute pratiche siamo ancora lontani da quel grado di tutele che pure la Convenzione parrebbe offrire al contribuente[56]”.
[1] L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, passim.
[2] CEDU, 23 luglio 2002, Janosevic c. Svezia e CEDU 23 luglio 2002, Västberga Taxi Aktiebolag e Vulic c. Svezia, con commenti di S. Dorigo, Il diritto alla ragionevole durata del giudizio tributario nella giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rass. trib., 2003, 1, 42; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 1, 14.
[3]G. Marino, La sanzione tributaria nella giurisprudenza della CEDU, in Riv. dir. trib. int., 2014, 3, 19; Id., Il principio del “ne bis in idem” nella giurisprudenza CEDU: dai profili sostanziali a quelli procedimentali, in Per un nuovo ordinamento tributario, Tomo II, Padova, 2019, 638, rileva, nota 32, che l’Italia al momento di ratificare la Convenzione EDU ex lege n. 98/1990 si era riservata di applicare il protocollo in questione esclusivamente ad infrazioni, procedure e decisioni definite dalla norma interna come penali, riserva considerata poi invalida dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens.
[4] Così A. Marcheselli, in A. Marcheselli, V. Mastroiacovo, G. Melis. Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, in questa Rivista, 2020, risposta n. 1.
[5] CEDU, 28 giugno 2018, G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia.
[6] Per le parti in corsivo ancora A. Marcheselli, V. Mastroiacovo, G. Melis , Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 1. In particolare G. Melis evidenzia come la giurisprudenza della Corte EDU abbia potuto espandersi ai profili tributari non peculiarmente sanzionatori, in ragione del fisiologico legame fra i due profili, che ha permesso l’ampliamento delle tutele proprie dell’art. 6.
[7] Corte EDU, 12 gennaio 2021 Svilengaćanin e altri c. Serbia.
[8] Corte EDU, 1 luglio 2010, Vusić c. Croazia; Corte EDU, 20 maggio 2008 Santos Pinto c. Portogallo.
[9] Corte EDU, 17 aprile 2018, Uche C. Svizzera . La mancanza di una specifica motivazione, da parte della Corte Suprema federale svizzera, circa la censura sollevata relativamente alla violazione del principio del contraddittorio contrasta con l’art. 6 della Convenzione EDU. Il ricorrente non aveva, infatti, avuto modo di comprendere se la Corte Suprema federale avesse semplicemente omesso di esaminare il motivo di ricorso presentato o se l’avesse respinto.
[10] Corte EDU, 6 febbraio 2020, Felloni c. Italia; in precedenza con riferimento sempre all’Italia Corte EDU, 21 luglio 2015, Schipani e altri c, Italia.
[11] Corte EDU, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo; Corte EDU 25 luglio 2002, Papon c. Francia.
[12] Corte EDU, 16 dicembre 1992, Hadjianastassiou c. Grecia. Per un puntuale richiamo alla giurisprudenza tutta della Corte EDU con riferimento all’art. 6, Ministero della Giustizia, Direzione generale degli Affari giuridici e legali, Guida sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (agg. 30 aprile 2020).
[13] Corte EDU, 9 dicembre 1994, Ruiz Torija c. Spagna.
[14] Corte EDU, 27 febbraio 2020, Lobzhanidze e Peradze c. Georgia.
[15] In precedenza la Corte EDU si era espressa nel senso che il Giudice non è tenuto a fornire una risposta dettagliata a ciascuno dei motivi di ricorso invocati : Corte EDU, 19 aprile 1994, Van de Hurk c. Paesi Bassi.
[16] Corte EDU, 29 ottobre 2013, S.C. IMH Suceava S.R.L. c. Romania.
[17] Consiglio di Stato, sez. VI , 25 febbraio 2021 n. 1636 e, in precedenza, Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2020 n. 6896.
[18]Cass., Sez. VI, 25 settembre 2018, n. 22598. La motivazione non deve dunque essere meramente apparente, contraddittoria, perplessa o incomprensibile: Cass., Sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass., Sez. Lav., 18 aprile 2008, n. 10213; Cass., Sez. II, 19 marzo 2007, n. 6382.
[19] Per il processo amministrativo i riferimenti sono all’art. 3, comma 1, c.p.a. secondo cui “Ogni provvedimento decisorio del giudice è motivato”; l’art. 88 comma 2 lett. d) c.p.a. , per cui la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”; l’art. 74 c.p.a. secondo cui - per le sentenze in forma semplificata e per quel che attiene alla motivazione - “La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.”.
[20] Si tratta della sempre viva questione nostrana del difetto di motivazione in ragione del carattere sostitutivo del processo rispetto alla dichiarazione del contribuente o all’accertamento dell’amministrazione, su cui, ceteris pluribus, Cass., sez. V., 5 novembre 2020, n. 24707 e Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25629. In tema di dichiarazione del contribuente, Cass., Sez. V, 19 settembre 2014, n. 19750. Con riferimento all’accertamento dell’Ufficio, Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27560. Ciò impone al giudice di descrivere con chiarezza il rapporto sostanziale alla base dell’atto impositivo: Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27574; Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 25629; Cass., Sez. V, 19 novembre 2014, n. 24611. Il processo tributario non viene infatti interpretato come di impugnazione annullamento, ma di impugnazione merito, secondo un modello di processo tributario quale giudizio di accertamento del rapporto d’imposta, considerato da prevalente dottrina superato. F. Tesauro, Manuale del processo tributario, 5ª ed., Torino, 2020, 208.
[21] Cass., Sez. V, 5 novembre 2020, n. 24707, con nota di A. Turchi, Motivazione della sentenza e oggetto del processo tributario in Riv. Dir. Trib., 2021, 3, 177.
[22] Cass., sez. V., ordinanza 6 maggio 2021, n. 11983.
[23] Cass. sez. V, ord. 15 gennaio 2020 n. 608: la motivazione deve poter descrivere il processo cognitivo e l’evoluzione dallo stato d'iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio.
[24] Cass, sez. III, 30 maggio 2019 n. 14762: qualora il giudice di merito non abbia dato conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del proprio percorso logico per accogliere o rigettare la domanda proposta, la sentenza deve ritenersi viziata per apparenza della motivazione meramente assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti.
[25] Cass. S.U., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 e successivamente Cass., S.U., 5 aprile 2016, n. 16599: di “motivazione apparente” o “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa permetta di rendere percepibili le ragioni della decisione, in quanto si sostanzia in argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento. In tali fattispecie la motivazione non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice . Specificamente in campo tributario, Cass. sez. VI, 14 febbraio 2019 n.4337.
[26] Cass., sez. III, 15 ottobre 2021, n. 28423.
[27] Cass., sez. III, 23 marzo 2017 n. 7402 : è nulla la sentenza la cui motivazione consista nel dichiarare sufficienti tanto i motivi esposti nell’atto che ha veicolato la domanda accolta, quanto non meglio individuati documenti ed atti ad essa allegati, oltre ad una consulenza tecnica. In tali ipotesi, non sono riprodotte le parti idonee a giustificare la valutazione espressa.
[28] Cass. sez. V, ord. 30 dicembre 2021, n. 41948.
[29] C. Rasia, Dalla motivazione per relationem alla motivazione c.d. collage in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2016, 1, 204, che ricorda che tale espressione era già stata utilizzata nella risoluzione del 18 maggio 1988 in tema di « provvedimenti urgenti per le accelerazioni dei tempi della giustizia civile », in Foro it., 1988, V, 260.
[30] Cass., S.U., 16 gennaio 2015 n. 642 .
[31] Cass sez. VI, 28 giugno 2020, n. 20358.
[32] F. D’Ayala Valva, L’affievolito diritto ad essere ascoltato in un giusto processo tributario, in corso di pubblicazione su GT, giurisprudenza delle imposte, 2022, consultato per gentile concessione dell’autore, che rileva (citando A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, Milano, 2021, 25ss e 122) come l’udienza da remoto - soluzione necessaria per non arenare, in tempi di pandemia il processo, che richiede ex se un’accellerazione – abbia nei fatti comportato “un’uscita dallo spazio”; è infatti soppressa la “comparizione”, che necessariamente si nutre della compresenza. “La distanza telematica che si viene a creare, rende più problematica la relazione con il giudice, dal momento che la difesa ha bisogno di “ascoltare coloro che ascoltano”. Il difensore adatta continuamente il proprio atteggiamento a seconda che percepisca di essere compreso o meno dai giudici, di riuscire a smuoverli, a istillare loro il dubbio o al contrario di non riuscire a farli vacillare dall’eventuale preconcetto. Il monitor indebolisce la capacità di convinzione. Anche il giudice è messo sotto pressione dalla presenza fisica delle parti e raggiunge il pieno coinvolgimento nell’udienza pubblica. Il monitor sterilizza questo effetto particolare della convergenza degli sguardi, che ha una funzione gratificante ma anche responsabilizzante. Nel processo telematico la rigidità e il flusso della tecnica cancellano quella frammentazione di gesti, quelle esitazioni, quei ripensamenti, che rendono più ricco ed articolato il tessuto della giustizia”.
[33] Cass, sez. V, ord. 23 dicembre 2021, n. 41444.
[34] G. Olivieri, La « ragionevole durata » del processo di cognizione (qualche considerazione sull'art. 111, 2º comma, cost.), in Foro it., 2000, V, 251.
[35] M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in Federalismi.it, 2017, 4, 2 evidenzia che sono state ricondotte alla materia penale non solo misure indiscutibilmente dal carattere punitivo/afflittivo ma anche tutta una serie di provvedimenti nei quali è percepibile un elemento di cura concreto dell’interesse pubblico. Seguendo un approccio sostanzialistico, la Corte EDU ha superato anche la distinzione propria nel nostro ordinamento, tra sanzioni in senso stretto e provvedimenti ablatori-ripristinatori.
[36] Corte cost., 4 maggio 1995, n. 150.
[37] J. Kokott, P. Pistone, R. Miller, Diritto internazionale pubblico e diritto tributario: i diritti del contribuente, in Dir. prat. trib. int., 2020, 2, 454; R. Alfano, E. Traversa, L’impatto del diritto europeo sull’applicazione del divieto di bis in idem in materia tributaria, in Dir. e prat.trib.int., 2021, 1, 18. A. Marcheselli, V. Mastroiacovo, G. Melis, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 3; G. Marino, Il principio del “ne bis in idem” nella giurisprudenza CEDU: dai profili sostanziali a quelli procedimentali, cit., 638; id, Sanzioni amministrative e penali tributarie resistenti come il ferro al ne bis in idem, in Giur. trib., 2021, 1, 36.
[38] A. Marcheselli, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 1.
[39] Corte EDU, 31 agosto 2021, Bragi c. Islanda; Corte EDU, 31 agosto 2021, Milošević c. Croazia. La Corte EDU – aveva già chiarito in specie nelle sentenze Ármannsson, Nodet e nelle recentissime Bragi e Milošević - come la complementarietà fra le due risposte sanzionatorie possa trovare applicazione, purchè la proporzionalità mantenga la sua primazia rispetto agli altri requisiti.
[40] Presso la Corte di Giustizia risultano attualmente pendenti in tema di concorrenza due cause, delle quali sono state pubblicate, in data 2 settembre 2021, le Conclusioni. Si tratta in particolare della causa C-151/20, Nordzucker e a., e della Causa C-117/20, Bpost. L'avvocato generale Bobek nelle conclusioni congiunte ha chiaramente proposto un criterio unificato per il rispetto del principio del ne bis in idem ai sensi della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che riguardi ogni ramo del diritto.
[41] “quando il procedimento tributario/amministrativo inizia a spiegare un effetto punitivo, al di là del recupero delle somme maggiorate degli interessi, o quando anche il procedimento penale è volto anche al recupero di qualsiasi somma dovuta, in tal caso la differenza concettuale tra i due semplicemente scompare, e scatta il divieto della duplicazione dei procedimenti ai sensi del ne bis in idem…non è possibile che sia l’amministrazione fiscale sia il giudice penale puniscano lo stesso fatto con sanzioni di natura penale”. Così conclusioni, Avv. Generale M. Bobek, 2 settembre 2021, cause riunite, causa C-151/20, Nordzucker e a., e causa C-117/20, Bpost .
[42]Particolare rilevanza deve essere attribuita alla fondamentale CGUE, 16 ottobre 2019, causa C-189/18, Glencore Agricolture Hungary, che ha regolamentato la “circolazione della prova” nel caso di procedimenti paralleli, evitando l’indiscriminato “travaso”di elementi istruttori acquisiti, soprattutto, a seguito dell’eventuale attivazione delle procedure di scambio internazionale di informazioni fiscali.
[43]F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle alte corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in Rass. trib., 2017, 4, 915, che, nota 6, cita P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2016, 1, 35.
[44] G. Melis, M. Golisano, Il livello di implementazione del principio del ne bis in idem nell’ambito del sistema tributario in Riv. trim. dir. trib., 2020, 3,597; J. Kokott, P. Pistone, R. Miller, Diritto internazionale pubblico e diritto tributario: i diritti del contribuente, in Dir. prat. trib. int., 2020, 2, 454; R. Alfano, E. Traversa, L’impatto del diritto europeo sull’applicazione del divieto di bis in idem in materia tributaria in Dir. Prat. Trib. Int., 2021, 1, 18.
[45] Corte cost., 24 ottobre 2019 n. 222; Corte cost. 12 giugno 2020 n. 114; Corte cost. 1 luglio 2021 n. 336.
[46] Così G. Melis, M. Golisano, Il livello di implementazione del principio del ne bis in idem nell’ambito del sistema tributario, cit, 619.
[47] A. Marcheselli , Verso un giudice tributario “europeo”: profili critici della indipendenza della giurisdizione fiscale italiana nel quadro dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in F. Bilancia – C. Califano – L. Del Federico – G. Puoti (a cura di), Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e giustizia tributaria, Torino, 2014, 322.
[48] Corte cost., 26 marzo 2015 n. 49.
[49] Ancora A. Marcheselli, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 1.
[50] CGUE, 2 febbraio 2021, causa C-481/19, DB a seguito di rinvio pregiudiziale posto in essere dalla Corte costituzionale italiana con ordinanza 10 maggio 2019 n.117.
[51] Cass., sez. VI, 3 febbraio 2020, n.2406; Cass., sez. V, 12 dicembre 2019, n.32568; Cass., sez. V, 19 novembre 2018, n.29757; Cass., sez. V, 16 marzo 2018 , n. 6616.
[52] Cfr. F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle alte corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in Rass. trib., 2017, 4, 915.
[53] S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 405.
[54] Per una valutazione di più ampio respiro sul tema, rilevante anche rispetto alle sanzioni F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Padova, 2019, passim.
[55] Atto 3343 presentato alla Camera in data 29 ottobre 2021.
[56] Ancora G. Melis, Cedu e cultura giuridica italiana. 8. Cedu e diritto tributario, cit., risposta n. 2.
Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?
di Chiara Saraceno
Sono molti i cambiamenti che dal dopoguerra ad oggi hanno modificato la percezione di ciò che è normale e socialmente accettabile, anzi necessario e di ciò che non lo è, investendo la stessa configurazione dei diritti e di conseguenza hanno messo in questione norme giuridiche che vuoi li negano, vuoi li ignorano... Alcuni di questi cambiamenti riguardano i mutati rapporti tra uomini e donne, che hanno reso sempre più inaccettabili norme e comportamenti prima dati per scontati – dalle differenze salariali al prevalere del cognome paterno su quello materno, dalla illiceità dell’aborto all’idea che il sesso nel matrimonio sia un debito che la donna deve onorare e l’uomo può esigere. Altri riguardano la crescente diversificazione di ciò che è considerato normale (e moralmente e socialmente accettabile) nella sfera della sessualità e della formazione della famiglia, a partire dall’orientamento sessuale. Altri ancora riguardano le opportunità offerte dalle tecnologie mediche nel campo della riproduzione e le loro conseguenze sul modo di concepire la filiazione da un lato, chi ha diritto ad avere figli dall’altro. Ed altri riguardano – in quella che mi sembra una riformulazione del diritto alla base di tutti i diritti civili, l’habeas corpus - la crescente richiesta di avere un controllo sul proprio corpo, che si tratti del diritto alla contraccezione o viceversa all’aborto, di decidere a quali cure sottoporsi e quando rifiutarle, del diritto ad essere aiutati a por fine alla propria vita se questa è diventata intollerabile e non si è in grado di farlo da soli. Stefano Rodotà ha parlato di diritti di terza generazione, riferendosi al fatto che riguardano ambiti della vita e comportamenti prima ignorati come possibili ambiti di diritti, anche se in molti casi ciò avviene perché soggetti prima esclusi dalla piena cittadinanza (quando non criminalizzati nel caso degli omosessuali e transessuali) chiedono di uscire dallo status di denizen, di persone a cittadinanza limitata. Denunciano il dato per scontato di uno standard unico, cui risponde una gerarchia di “differenti”, come base delle norme e dell’accesso al riconoscimento. Forse per questo i temi sollevati da questa rottura sono definiti “sensibili”: perché toccano i modelli di normalità dati per scontati in sfere della vita la cui regolazione è stata a lungo sottratta alla discussione pubblica. Anche se con il tempo alcuni di questi temi, ad esempio l’uguaglianza tra uomini e donne, sono usciti dall’ambito di quelli “sensibili” ed entrati a far parte di quelli condivisi almeno a livello di principi, stante che sul piano pratico è tutt’ora un’altra storia. Per altro, proprio la definizione di un tema come “sensibile” è servita e serve come legittimazione per non affrontarlo, o solo parzialmente, per non urtare la “sensibilità” di chi è messo a disagio, quando non è più o meno violentemente contrario, dall’idea che non esista uno standard compattamente omogeneo, con buona pace delle conseguenze discriminatorie e limitanti la libertà e dignità derivanti dall’abuso di questa nozione.
Ma non sono soltanto i temi cosiddetti sensibili ad interrogare l’attuale configurazione dei diritti (o la loro mancanza) e delle norme. La presenza di cittadini stranieri, oltretutto con uno statuto diverso a seconda che facciano o meno parte della UE, e la stessa appartenenza ad una comunità sovranazionale come la UE, con le sue norme e i suoi principi, mentre mette in questione l’idea di uno stato chiaramente circoscritto da confini univocamente individuabili e con un’unica fonte normativa, non consente più la sovrapposizione quasi automatica tra cittadinanza nazionale e cittadinanza sociale, richiedendo di normare la seconda anche a prescindere dalla prima. E se consente ai cittadini di un paese in cui alcuni diritti sono negati (ad esempio il matrimonio tra persone dello stesso sesso, o la filiazione omosessuale) di muoversi in un altro dove invece sono riconosciuti, richiede anche di regolare come integrare queste difformità, così come richiede di decidere quanto delle regolazioni – legali, o anche solo culturali – di altri paesi possano essere accettate senza, vuoi mettere in discussione i propri principi fondamentali, vuoi ledere gravemente diritti di libertà di qualcuno.
Se spetta al Parlamento legiferare, eventualmente innovando nelle norme, spetta ai giudici prima, alla Corte Costituzionale poi verificare se le norme esistenti sono coerenti con il dettato costituzionale, anche quando i casi presentati non facevano sicuramente parte dell’orizzonte cognitivo dei costituenti e della cultura in cui essi erano radicati.
Stanti questi sommovimenti nel campo delle aspettative e le tensioni che ne derivano, non deve stupire che i tribunali siano sempre più frequentemente investiti da questioni che riguardano la legittimità delle norme esistenti, che i giudici ordinari le sottopongano alla Corte Costituzionale e che questa demandi al Parlamento di modificare questa o quella norma. Aggiungo che ciò avviene tanto più quanto meno il Parlamento prende autonomamente l’iniziativa di modificare norme non più adeguate o accettabili, o individuando nuovi settori che richiedono regolazione, rispondendo a cambiamenti culturali, a movimenti di opinione o di pressione, come è avvenuto in passato, per quanto tardivamente, per il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia. La periodica lamentazione sulla prevaricazione normativa da parte del sistema giudiziario dovrebbe piuttosto diventare riflessione autocritica sulla difficoltà che il Parlamento incontra nell’affrontare le conseguenze dei cambiamenti sociali e culturali.
Nella conferenza stampa seguita alla sua elezione a presidente della Corte Costituzionale, Amato ha indicato come uno dei problemi che si presentano oggi nel rapporto tra Corte Costituzionale come soggetto che verifica la costituzionalità delle norme e il Parlamento come soggetto legislatore la crescente mancanza di cooperazione tra i due. Alle indicazioni della Corte in merito alla incostituzionalità di alcune norme e alla necessità di modificarle il Parlamento risponde con una forte difficoltà, quando non riluttanza, a darvi seguito, formulando norme costituzionalmente più adeguate. Ciò avviene particolarmente, direi quasi sempre, quando sono in gioco diritti civili – ad esempio il fine vita e il suicidio assistito – o i modelli di famiglia – dal cognome materno al diritto dei figli di genitori dello stesso sesso ad avere un rapporto istituzionalmente riconosciuto con entrambi coloro che li hanno voluti. Questa resistenza del Parlamento a dar seguito alle indicazioni della Corte lascia nell’incertezza le persone ed è occasione di sistematico arbitrio interpretativo da parte delle istituzioni. Il caso più drammatico al momento è quello del suicidio assistito, dove all’indicazione della Corte dei criteri entro i quali può essere ammesso, il Parlamento non ha ancora risposto con una legge che regoli puntualmente la cosa, definendo chiaramente le responsabilità e i doveri delle istituzioni, lasciando chi, secondo la Corte, avrebbe diritto ad accedere al suicidio assistito alla mercè di istituzioni sanitarie che si negano. Ma anche questioni meno “eticamente sensibili”, e sicuramente meno drammatiche per la vita delle persone coinvolte, come il diritto a trasmettere il cognome materno, rimangono da anni irrisolte dal Parlamento.
Vi sono, tuttavia, anche questioni in cui il Parlamento, non volendo o potendo decidere stanti i propri conflitti interni, dopo aver legiferato in modo palesemente anticostituzionale e/o contro la normativa europea, demanda implicitamente alla Corte (e prima ancora a ricorsi in sede giudiziaria) di pronunciarsi, in modo da far apparire una eventuale modifica alla norma come un atto dovuto sotto costrizione. È stato, in parte, il caso della legge 40 sulla fecondazione assistita, progressivamente smantellata a suon di sentenze. È il caso, oggi, di norme discriminatorie nei confronti degli stranieri. E’ recente la doppia sentenza – prima della Corte di Strasburgo poi della Corte Costituzionale, che dichiara contraria sia al diritto europeo sia alla Costituzione italiana (articoli 3 e 31) la norma che richiede il requisito di lunga residenza per accedere al bonus bebé e all’assegno di maternità (nel caso di madri non altrimenti indennizzate e appartenenti a famiglie a basso reddito). Che questa norma fosse illegittima non solo sul piano etico, ma anche su quello del diritto europeo e dei principi costituzionali era chiaro fin da principio. Ma il legislatore ha preferito farla passare comunque, per guadagnare punti nell’elettorato contrario ai migranti, salvo poi doversi mostrare costretto a modificarla da un’autorità esterna. Lo stesso sta avvenendo nel caso del Reddito di cittadinanza, dove l’asticella per gli stranieri è stata posta ancora più in alto: dieci anni di residenza, il doppio di quanto richiesto per il permesso di lungo soggiorno. A fronte delle richieste di modifica avanzate da più parti e da ultimo anche da parte del Comitato di valutazione del RdC, il governo ha dichiarato l’impossibilità di farla accettare dalla maggioranza che lo sostiene e quindi di sottoporla all’approvazione del parlamento, rimandando la cosa ad un possibile (auspicato?) ricorso alla Corte Europea e al pronunciamento di questa, eventualmente con seguito nella Corte Costituzionale. Ha quindi buttato ancora una volta la palla nel campo della giurisdizione e prima ancora della capacità di iniziativa di individui e gruppi, e dei loro avvocati, di dare forma giuridicamente accettabile alla contestazione di una norma legalmente sbagliata in partenza. È un modo non solo di non assumersi le proprie responsabilità di legislatore, ma anche di prendere tempo e risparmiare soldi, lasciando il più a lungo possibile senza sostegno le mamme, le famiglie, i bambini stranieri poveri, che pure si sa già in partenza che ne avrebbero diritto in base sia al diritto europeo sia ai principi costituzionali.
Il Parlamento riapra il cantiere sulla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU -Gruppo Area Cassazione-
Sommario: 1. I prodromi - 2. L’esame della dottrina dopo lo stop al Prot.n.16 - 3. La riflessione avviata all’interno del gruppo Area Cassazione - 4. Che fare? - 5. Il convegno di Area Cassazione su “Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021 - 6. La proposta del gruppo Area-Cassazione: il Parlamento riparta dal Prot.n.16!
Gruppo Area Cassazione
1. I prodromi
Il 23 settembre 2020 si arenava, innanzi alle Commissioni riunite II e III della Camera dei Deputati, il progetto di legge relativo alla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, iniziato con l’esame del disegno di legge C. 1124 Governo e C. 35, Schullian, relativo alla Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013, entrato in vigore per effetto delle ratifiche operate da 15 Paesi del Consiglio d’Europa.
Nel corso dei lavori assembleari relativi al testo licenziato dalle Commissioni innanzi all’Assemblea della Camera la relatrice del provvedimento dichiarava che il rinvio della ratifica del Protocollo n.16 era sorto a “causa di profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento.” Il Senato, successivamente, approvava in via definitiva il ddl n.1958 relativo alla ratifica del Protocollo n.15 contenente modifiche della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nella seduta del 12 gennaio 2021.
2. L’esame della dottrina dopo lo stop al Prot.n.16
Nel silenzio dell’Accademia, dei gruppi associativi della magistratura, dell’Avvocatura e dell’Accademia, Giustizia insieme segnalava, con un editoriale dell’ottobre 2020, gli effetti negativi che quella decisione parlamentare avrebbe provocato sul ruolo delle Alte Corti nazionali italiane, private della possibilità di richiedere, se ritenuto necessario rispetto al giudizio pendente, un parere non vincolante alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ed invitava ad accendere i riflettori sul tema ed a riaprire il dibattito nell'Accademia e nelle giurisdizioni.
Particolarmente vivace è risultato il successivo dialogo a distanza sviluppatosi fra studiosi prestigiosi provenienti da diversi settori accademici - costituzionalisti, processualcivilisti, filosofi del diritto, internazionalisti e studiosi del diritto UE -.
Questo dibattito è stato studiato ed esaminato dai componenti del gruppo Cassazione, i quali hanno realizzato dei report volti a sintetizzare le posizioni assunte dalla dottrina - Antonio Ruggeri, Cesare Pinelli, Elisabetta Lamarque, Carlo Vittorio Giabardo, Enzo Cannizzaro, Paolo Biavati, Sergio Bartole, Andreana Esposito e Bruno Nascimbene- all’indomani della decisione parlamentare di sospendere l’esame del Protocollo n.16.
La premessa dalla quale sono partiti alcuni degli interpreti (Ruggeri, Bartole) è stata quella del principio di apertura al diritto internazionale e sovranazionale voluto dalla Costituzione, aprendosi il diritto interno ai sistemi di protezione dei diritti sovranazionali che a loro volta si integrano nei primi, essendo comunemente ispirati al meta-principio che è la massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali, vera e propria Grundnorm della costruzione inter-ordinamentale.
È infatti difficile comprendere come la vocazione universale del discorso sui diritti dell’uomo (e, dunque, la sua naturale inclinazione al dialogo comparatistico) possa costringersi entro i ristretti confini di una singola dimensione politica nazionale (Giabardo).
In questa prospettiva i commentatori si sono ritrovati d’accordo nell’evidenziare le potenzialità “buone” dello strumento rappresentato dalla richiesta di parere preventivo alla Corte edu.
Si è subito sgombrato il campo dai dubbi in ordine alla ritualità dello strumento legislativo ordinario per ratificare il Protocollo, messa in dubbio nel corso dei lavori preparatori, è smentita dall’ordinamento costituzionale ‘vivente’ secondo il quale la conformazione dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dalla adesione a Trattati o Convenzioni internazionali tramite legge ordinaria è del tutto pacifica e la – ipotizzata – rivalutazione di tale assetto appare del tutto strumentale ed eversiva -Bartole -.
Si è poi convenuto sull’improduttività del sovranismo costituzionale che sembra avere ispirato la decisione del Parlamento (Ruggeri) dovendosi scongiurare, attraverso il sostegno alla ratifica del protocollo 16, l’ingiustificata esclusione o l’emarginazione delle Corti italiane da un dialogo culturale al quale il nostro paese non può permettersi di rinunciare (Pinelli, Giabardo). Senza nemmeno dimenticare il valore “filosofico” dell’istituzionalizzazione del dialogo tra le diverse Corti europee (Giabardo).
Non si tratta, dunque, secondo Pinelli, di depotenziare il ruolo della Corte costituzionale o di restringere la capacità interpretativa del giudice nazionale, come sostenuto dal Prof. Luciani, ma, al contrario, dell’attivazione del ruolo istituzionale della Conv. edu che proprio la Corte costituzionale riconosce per prima, vale a dire quello dell’interpretazione della Convenzione. Né il giudice nazionale può ritenersi impedito, dopo il parere, dal rivolgersi alla Corte costituzionale - osserva Cannizzaro - ove non sia convinto della conformità del suo contenuto all’assetto costituzionale dei valori. Senza dire che le sentenze della Corte costituzionale hanno carattere vincolante, come quelle della Corte di giustizia, il che impedisce che il giudice nazionale possa ad esse ribellarsi formulando successivamente una richiesta di parere alla Corte edu (Cannizzaro).
Del resto, le posizioni contrarie alla ratifica del protocollo 16 finiscono con l’ipotizzare un effetto vincolante del parere per il giudice interno che non solo non è nella formulazione del testo (Nascimbene), ma che tradisce il senso di sfiducia verso il senso di responsabilità e lo spirito di indipendenza delle alte Corti nazionali posto a base del meccanismo pregiudiziale (Bartole, Lamarque).
Non si è mancato poi di sottolineare come il parere Cedu possa offrire preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della Cedu e della Carta di Nizza-Strasburgo offerta, in parallelo, dalla CGUE sia in linea con la Convenzione edu (Ruggeri).
Inoltre, sul piano delle possibili interferenze, in caso di plurime pregiudizialità, Ruggeri, Pinelli e Cannizzaro si sono ritrovati nel respingere le preoccupazioni di quanti hanno intravisto in questo strumento un pericolo per la centralità della Corte costituzionale, soprattutto nell’ipotesi in cui la richiesta di parere preceda l’incidente di legittimità costituzionale.
Più articolata la posizione espressa da Nascimbene sui rapporti fra richiesta di parere preventivo e rinvio pregiudiziale. I problemi nascerebbero dal vincolo per il giudice nazionale rispetto alla pronunzia resa in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di giustizia ove il parere reso dalla Corte edu fosse con lo stesso contrastante. Ipotesi che, secondo Nascimbene, determinerebbe la necessità di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE per chiedere chiarimenti ovvero un rinvio alla Corte costituzionale, considerato il possibile contrasto fra obblighi che discendono da due fonti diverse, la CEDU e i Trattati UE, e considerato il precetto contenuto nell’art. 117, 1° comma Cost., che impone il rispetto, quanto all’esercizio della potestà legislativa, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Quanto all’ulteriore ipotesi di rinvio contemporaneo alla Corte di giustizia – in sede di rinvio pregiudiziale – ed alla Corte edu – in seno ad una richiesta di parere preventivo – la stessa non appesantirebbe la durata del processo, ma creerebbe maggiori incertezze per il giudice nazionale qualora le due interpretazioni fossero divergenti, pur non essendo vincolante quella della Corte EDU.
Pinelli, Bartole e Lamarque si sono poi trovati d’accordo nell’escludere che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte, se si considera, per un verso, la “circolarità della produzione normativa fra le Corti (Esposito) e la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della Convenzione e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Riguardo all’argomento inerente al paventato “rischio di erosione del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane”, i timori sono stati considerati privi di rilievo ed espressione di sovranismo giurisdizionale, perché la mancata partecipazione attiva di alcune Corti al dialogo con la Corte edu rischia di renderne alcune mute e passive rispetto ad altre (Lamarque, Esposito).
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo “eroda i principi fondamentali dell'ordinamento”, secondo un’ottica di sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei contro-limiti (Lamarque).
Molti interpreti hanno poi insistito sulle potenzialità della richiesta di parere preventivo in termini di negoziabilità reciproca fra Corti nazionali e Corte edu, cogliendosi nel dialogo diretto e non mediato dal ricorso della parte a Strasburgo un mezzo capace, nella fase ascendente, non solo di veicolare i cardini del sistema interno all’interno della Corte edu e di esporre la propria visione della questione al giudice che poi dovrà rispondere, ma anche, nella fase discendente, di avere l’ultima parola sulle modalità di attuazione del parere (Lamarque).
La manifestazione di sfiducia verso forme di utilizzo non corrette dei contenuti del protocollo tradisce, secondo Bartole, non confessate paure di alterazione di un desiderato equilibrio di tipo gerarchico – nell’esercizio della giurisdizione - in realtà costantemente contraddetto dalle concrete e costanti forme di interazione tra gli ordinamenti e tra le Corti (Bartole).
Il Protocollo n. 16 sarebbe così divenuto un altro fantasma persecutorio del “sovranismo simbolico” (Pinelli), con il risultato, certamente opposto a quello voluto, di privare le Corti italiane dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU su istanza delle Corti dei paesi che lo hanno ratificato (Pinelli, Ruggeri,Giabardo, Bartole, Biavati e Lamarque).
È dunque la libertà di attivare o meno la richiesta di parere preventivo a rappresentare il dato distintivo tra rinvio pregiudiziale e richiesta di parere preventivo (Biavati).
Infatti, a differenza che per il rinvio pregiudiziale, per cui le parti hanno diritto di arrivare a Lussemburgo orientando la discrezionalità del giudice nazionale, la richiesta di parere ai sensi del Protocollo 16 può al massimo essere sollecitata, ma non pretesa dalle parti.
Quanto poi al rischio del grave ritardo che il processo subirebbe nell’attesa del parere, è stata evidenziata la strumentalità di tale critica - altrimenti estensibile ad altri strumenti di dialogo (Ruggeri) - ipotizzandosi in ogni caso la possibilità di adottare meccanismi volti a favorire la trattazione rapida dei processi interessati dalla richiesta di parere o la introduzione di un divieto di sospensione del processo (Biavati e Lamarque).
In definitiva, il rischio di isolamento dell’ordinamento italiano e delle sue alte Corti dal circuito di dialogo con la Corte edu che deriva dalla mancata ratifica è già palpabile, una volta che si è già da subito riconosciuta piena valenza ai pareri resi dalla Corte edu, anche da parte della Corte costituzionale (sent.n.230/2020, par.6) e dalla stessa prima sezione civile della Corte di Cassazione n.8325/2020 in materia di trascrizione dell'atto di nascita canadese conseguente a gestazione per altri.
3. La riflessione avviata all’interno del gruppo Area Cassazione
L’esame del tema ha condotto il gruppo Cassazione di Area ad una riflessione ampia.
È sembrato opportuno evidenziare, in termini generali, che lo scopo del Protocollo n.16 non era stato adeguatamente valutato dal legislatore, essendo indirizzato non già a sottrarre nicchie di sovranità e di potere giurisdizionale agli organi interni, quanto ad introdurre uno strumento destinato a recuperare segmenti di certezza e prevedibilità al sistema di tutela dei diritti fondamentali, addirittura accentuando il ruolo di autonomia e indipendenza delle giurisdizioni superiori nazionali.
La discrezionalità nel chiedere il parere e la piena autonomia nel disattenderne i contenuti denotano in maniera inequivocabile i tratti caratterizzanti del meccanismo dialogico che sta alla base del Protocollo 16, il quale tanto nella fase ascendente che in quella discendente offre alle giurisdizioni nazionali di ultima istanza la possibilità di sfruttare a fondo il loro ruolo di protagonisti del sistema di garanzia a presidio dei diritti imposto dalla Costituzione.
Le considerazioni appena espresse si accentuano in modo particolare se si pensa al ruolo della Corte di Cassazione nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e la sua centralità nell’applicazione uniforme del diritto.
Prospettiva, quella fissata dall’art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario che, riletta ed attualizzata alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione e della sua apertura alle fonti sovranazionali, agli obblighi internazionali ed alla limitazioni di sovranità finalizzate alla garanzia di pace e sicurezza delinea in modo marcato la funzione di nomofilachia europea che la nostra Corte è andata assumendo e che proprio grazie agli strumenti di dialogo sempre più sfruttati con la Corte costituzionale e con la Corte di Giustizia consente ad essa di essere rappresentata anche all’esterno come organo centrale nel sistema di protezione dei diritti.
Ciò che non intende in alcun modo rivendicare posizioni di primazia o di egemonia nei confronti di altre giurisdizioni interne né di quelle sovranazionali, ma soltanto attestare che proprio attraverso le forme di dialogo la strada di una cooperazione equiordinata fra le giurisdizioni nazionali e sovranazionali deve essere implementata e non già impoverita o erosa secondo una prospettiva ben presente nella mancata ratifica del Protocollo n.16.
Si tratta di una prospettiva necessitata dal fatto che il diritto è sempre più affidato ai principi costituzionali, interni, dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dunque collegato a tecniche di argomentazione giuridica che proprio attraverso il dialogo si costruiscono continuamente e progressivamente, in un ordine giuridico che non è più dato e fissamente orientato su scale gerarchiche, ma si compone, seppur con accenti di complessità sicuramente elevati, anche grazie all’opera del giudici interni e di quelli sovranazionali, parte attiva di un processo costituzionale nel quale il ruolo dagli stessi svolti di garanti della legalità è espressione democratica dello Stato costituzionale. Ciò perché si considerano tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee. Dunque, la logica ispiratrice non può che essere quella della leale cooperazione, essa riuscendo a perseguire il miglior risultato possibile per chi si trova davanti al giudice.
Non può tacersi che l’avvento della protezione dei diritti fondamentali in chiave convenzionale da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato per lunghi anni vissuto a livello nazionale come una sorta di aggressione di una giurisdizione altra ed esterna al perimetro dei plessi giurisdizionali riconosciuti dalla Costituzione.
La progressiva assimilazione del corretto ruolo della CEDU nel sistema interno e dei suoi rapporti con la Costituzione, dispiegatosi anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze gemelle del 2007 e poi via via che i vari seguiti, ha consentito però di comprendere appieno le finalità e potenzialità della Convenzione dei diritti umani, anche grazie all’opera di conoscenza svolta dai protocolli conclusi fra le Corti nazionali e la Corte edu. E non può essere senza significato che sia stata la Corte di Cassazione italiana a concludere, seconda in Europa, un protocollo d’intesa con la Corte edu nel dicembre del 2015, alla quale hanno fatto seguito le altre Corti apicali italiane e la stessa Corte costituzionale nel gennaio 2019.
Anzi, è stato sottolineato che proprio in occasione della firma del Protocollo fra Corte costituzionale e Corte edu al Palazzo della Consulta l’11 gennaio 2019 si auspicò la rapida ratifica del Protocollo n.16, come emerge dal comunicato stampa della Corte costituzionale reso l’11 gennaio 2019 in cui si afferma testualmente che “…dalla discussione è emersa anzitutto la necessità che le Corti europee – in una fase storica di debolezza, in alcuni Paesi, dei diritti fondamentali – dialoghino tra loro per la piena tutela di questi diritti, anche assicurando l’armonizzazione delle rispettive giurisprudenze. A questo scopo è stata sottolineata l’urgenza dell’approvazione, da parte del Parlamento italiano, del Disegno di legge di ratifica e di attuazione del “Protocollo 16”, che consente un effettivo dialogo con la Corte di Strasburgo attraverso la richiesta di pareri sulle questioni oggetto di giudizio nelle Corti italiane”.
Posizione, quest’ultima, che del resto trova piena conferma in quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n.49/2015, allorché si chiarì che “…È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.”
In definitiva, si avverte sempre di più l’esigenza di cercare modalità operative e tecniche decisorie che, anche in ragione della pluralità di fonti che governano i diritti, tanto in chiave nazionale che in prospettiva sovranazionale, attenuino o riducano le possibilità di conflitti fra i diversi plessi giurisdizionali, proprio in una prospettiva che prima ancora di essere orientata all’alleggerimento del contenzioso da parte di un sistema giudiziario sempre più in crisi sul versante dei tempi, offra a chi ha a che fare con la giustizia risposte tendenzialmente prevedibili proprio grazie alla conoscenza della posizione della Corte edu.
Se, dunque, il meccanismo del ricorso a Strasburgo contro le decisioni dei giudici nazionali costituisce la valvola di sfogo finale consentita dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il Protocollo n.16 intende prevenire quella possibile ulteriore lungaggine processuale alla quale sarebbe sottoposta la persona che reclama la protezione dei suoi diritti consentendo al giudice nazionale che, nell’esercizio delle sue prerogative dovesse ritenere rilevante un parametro convenzionale, di interloquire prima che l’eventuale conflitto fra le Corti diventi manifesto per effetto dell’accoglimento del ricorso da parte della Corte edu.
4.Che fare?
Al termine di questa prima ricognizione del panorama dottrinario e della successiva riflessione che ha ripercorso buona parte delle ragioni espresse da autorevole dottrina contro la ratifica del Prot.n.16 (cfr, per tutti, M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, 26 novembre 2019, in www.SistemaPenale.it; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n.15 e16 alla CEDU, in Dirittifondamentali.it,2019,6; G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 alla CEDU, in Federalismi), la scelta di chiudere le porte al Protocollo 16 era già parsa fortemente inopportuna, tralasciando di considerare le finalità virtuose sottese al varo di tale strumento e l’idea stessa di un diritto che si compone della legge e della sua applicazione e attuazione nel caso concreto.
Da qui, l’organizzazione del convegno da parte del gruppo Area Cassazione sulla piattaforma Zucchetti dal titolo Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021, al quale hanno preso parte esponenti dell’Accademia, dell’Avvocatura e del Parlamento.
5. Il convegno di Area Cassazione su “Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021
Il convegno si è rivelato un serbatoio di idee e di preziosi spunti ricostruttivi.
Il Segretario generale Luigi Marini, in rappresentanza del Primo Presidente della Cassazione, ha evidenziato la centralità dell’incontro sul Protocollo n.16 rispetto al ruolo della Corte di Cassazione, inserita stabilmente nel circuito delle Corti sovranazionali, e l’importanza di avere tenuto acceso l’interesse sul tema, contribuendo a favorire anche prese di posizione diverse da quelle che legittimamente sono state fin qui espresse dalle forze parlamentari.
L’Avvocato generale Luigi Salvato, in rappresentanza del Procuratore generale della Cassazione, ha evidenziato la centralità del tema del convegno, ritenendo che la riapertura dei lavori parlamentari sulla ratifica del Protocollo n.16 sarà un logico e naturale sbocco, volto a rafforzare il confronto fra le Corti. Ha sottolineato l’opportunità di superare logiche ideologiche, evidenziando che l’affermazione del diritto giurisprudenziale non può che determinare l’approfondimento dei meccanismi che ne consentano la formazione. Nessuna preoccupazione può sorgere sulla questione dell’erosione della sovranità nazionale, inoltre auspicando che i problemi connessi all’attuazione del Protocollo n.16 non potranno essere tutti risolti in fase parlamentare, dovendo l’elaborazione giurisprudenziale e proprio l’attività di sollevazione delle richieste di parere e dei pareri stessi contribuire, progressivamente, alla soluzione dei problemi concreti.
Dopo i saluti di Paola Filippi e di Roberto Conti, Maria Cristina Ornano, segretaria generale di Area, dopo avere evidenziato i rischi di marginalizzazione della giurisprudenza italiana nel processo di costruzione di un sistema di tutela dei diritti fondamentali che deve essere sempre più improntato ad una dimensione sovranazionale, ha auspicato la pronta ripresa dei lavori parlamentari sul Prot.n.16, evidenziandone l'importanza e la centralità rispetto al tema dei valori dell'uomo.
Il Presidente Guido Raimondi, che ha coordinato i lavori del convegno, ha messo in evidenza i notevoli vantaggi connessi all’attuazione del Prot.n.16, in ragione della finalità che esso incarna. La ratifica del Prot. 16, secondo Raimondi, non può pregiudicare l’autonomia delle giurisdizioni nazionali, né tanto meno la sovranità del Parlamento ritenendo al contrario che il dialogo fra le giurisdizioni non potrà che sortire effetti positivi attraverso i principi di sussidiarietà e di responsabilità condivisa fra livello europeo e livello nazionale nell’applicazione della CEDU, i quali costituiscono stimolo e violano della giurisprudenza della Corte edu ed alla accresciuta volontà di offrire alle Corti nazionali la possibilità di fare corretta applicazione del diritto vivente della Corte edu, altresì consentendo nel medio periodo uno sgravio del peso dell’arretrato sulla corte di Strasburgo. Un’ultima considerazione è stata espressa da Raimondi a proposito del ruolo centrale che la giurisprudenza consultiva assumerà rispetto alle nuove frontiere dei diritti dell’uomo per le quali non esiste una giurisprudenza della Corte stessa, sicché è proprio un peccato tagliar fuori la sapienza giuridica italiana da questo dialogo, inoltre sottolineando che i problemi che pure si porranno in sede di applicazione del Protocollo non possono incidere in alcun modo sull’opportunità che esso sia comunque celermente ratificato.
Particolarmente rilevanti sono risultati gli interventi degli esponenti del mondo politico, ai quali è mancato, per l’insorgenza di seri problemi di natura familiare, l’apporto dell’On.Pierantonio Zanettin (Forza Italia).
La senatrice Anna Rossomando (PD) si è espressa in modo esplicito nel senso di auspicare il ritorno in aula del progetto di ratifica del Prot.n.16 non confondendo le criticità esistenti con l’opportunità di ratificare tale strumento.
Il riferimento alla sovranità, sventolato come valore da difendere con il vento sovranazionale è secondo la senatrice un feticcio, non cogliendo la realtà delle politiche dei paesi europei, sempre più condizionate da aspetti che oltrepassano i confini nazionali. Anzi, proprio l’universalità dei diritti fondamentali e la prospettiva che questi ultimi facciano capo alla persona non indefettibilmente legata al concetto di cittadinanza rende evidente l’opportunità di scelte di politica giudiziaria dotate di sano realismo che antepongano la protezione dei diritti fondamentali rispetto ad altri interessi non primari.
Occorrerà dunque affrontare i nodi della sospensione del processo interna, del tempo connesso al rilascio del parere ed al ruolo della Corte costituzionale.
Anche la senatrice Grazia D’Angelo (Mov.5 Stelle) ha messo in evidenza come l’idea che deve essere sviluppata, ben lungi dal rappresentare un attacco alla sovranità, finisce con l’esaltarla proprio per effetto della possibilità delle Corti nazionali di ultima istanza di interagire con la Corte edu, dovendosi escludere che tale strumento costituisca una “perdita di tempo”, anzi, dimostrando l’utilità del dialogo
Il Prof. Guido Alpa, anche a nome dell’Associazione civilisti italiani, si è detto ampiamente favorevole alla ratifica del Protocollo n.16, esso inscrivendosi all’interno di una prospettiva che anche nell’ambito del diritto civile tende a favorire l’immediata efficacia dei diritti umani nell’ordinamento interno. Il fatto che all’interno dell’Accademia si discuta sulle modalità con le quali attuare tale esigenza e cioè ricorrere alle forme della tutela diretta dei diritti fondamentali ovvero attraverso forme di tutela mediata- attraverso la clausola generale dell’ordine pubblico – non elide la centralità del meccanismo teso a favorire il dialogo fra le Corti ed un clima di feconda cooperazione.
Anche il Prof. Filippo Donati si è espresso con l’auspicio di una celere riapertura dei lavori parlamentari sul Protocollo n.16 ritenendo errata la prospettiva volta a sostenere la postulata lesione della sovranità che dallo stessa deriverebbe, ricordando come già la giurisprudenza costituzionale tiene conto dei pareri resi dalla Corte in sede consultiva-Corte cost. nn-32 e 33 del 2021-.
Né occorre attendere la ratifica di altri stati, già delineandosi l’erosione di possibilità di dialogo con la Corte edu. Ha poi ricordato la diversità ontologica fra il parere preventivo della Corte edu e la decisione della Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale, sottolineando il carattere non vincolante del primo e la sua efficacia affidata all’interpretazione del giudice nazionale in fase discendente.
Il Prof. Bruno Nascimbene, dopo aver messo in evidenza i fattori strettamente giuridici che già oggi, in assenza della ratifica del Preot.n.16, comunque sottoscritto dall’Italia anche se non ratificato, rendono rilevante dal punto di vista del diritto internazionale e dei Trattati detto strumento- già pienamente considerato anche dalla Corte costituzionale italiana in diverse recenti occasioni, ha stigmatizzato l’atteggiamento di alcuni esponenti politici volto a sostenere che il Prot.n.16 costituisce un vulnus alla sovranità del nostro Paese ed alla autonomia ed indipendenza delle autorità giurisdizionali, in ogni caso sottolineando che se critica andava fatta al sistema di tutela convenzionale, si dovrebbe avere il coraggio di denunciare al Consiglio d’Europa la Convenzione europea, della quale il Protocollo n.16 è semplice gemmazione dotata peraltro di ridotta portata. Richiamando i contenuti del suo approfondimento già ricordato, Nascimbene ha quindi auspicato la riapertura dei lavori parlamentari proprio ripartendo dal parere reso dalla Commissioni politiche comunitarie della Camera, peraltro sottolineando che non solo il parere lasciano un naturale margine di apprezzamento al giudice nazionale, come dimostrato nel primo caso fatto oggetto di richiesta di parere preventivo.
L’Avv. Anton Giulio Lana, pur evidenziando la fragilità delle ragioni esposte da una parte della dottrina costituzionalistica in ordine ai pericolo derivanti dalla ratifica del Prot.n.16, non ha mancato di sottolineare l’esistenza di alcune ombre, collegate essenzialmente ai tempi dei processi, destinati ad allungarsi, all’assenza di una richiesta di parere in favore dei giudici di merito che sono più legati al fatto rispetto al giudice di ultima istanza, al rischio che il parere non sia rispondente rispetto alla vicenda concreta, l’esistenza di nodi irrisolti in ordine alle modalità di redazione della richiesta, alla traduzione della stessa e del parere eventualmente reso dalla Corte edu. Elementi che potrebbero anch’essi porsi in antitesi con l’esigenza di una pronta definizione dei processi.
Lana ha peraltro sottolineato che in ogni caso dal varo del Protocollo n.16 non potrebbe che derivare l’esigenza di una formazione continua e comune fra Avvocatura e giurisdizione attorno al tema dei diritti fondamentali e della CEDU.
Il Prof. Cesare Pinelli si è detto favorevole all’immediata riapertura dei lavori parlamentari, ricordando che gli argomenti evocato da chi ha espresso l’auspicio della mancata ratifica del Protocollo n.16 trovano evidente smentita nella finalità dello stesso, visto che la Corte edu non sarà verosimilmente più chiamata a pronunziarsi sulle questioni decise con i pareri. Pinelli ha poi radicalmente escluso che il parere costituisca un nuovo strumento decisorio nelle mani della Corte edu, non potendosi disconoscere che esso, per un verso, è meno incisivo di altre decisioni della Corte edu- sentenze pilota- che pure vanno verso la direzione di rendere più funzionale l’operato della Corte edu. Pinelli si chiede poi come possa sostenersi che i pareri siano vincolanti se la sentenza n.49/2015 della Corte costituzionale ha chiarito la rilevanza della sola giurisprudenza consolidata della Corte edu.
Né assume specifico rilievo il richiamo al tema del margine d di apprezzamento che, seguendo le coordinate della Corte edu, è riferito alla discrezionalità politica nell’interpretare un diritto come garantito dalla CEDU. In definitiva, secondo Pinelli sarebbe grave escludere l’Italia dal processo di confronto con le Corti sovranazionali già dimostratosi assai fecondo in altre occasioni, nelle quali i giudici italiani hanno dimostrato di avere ben chiaro il loro ruolo di cooperazione con le altre giurisdizioni senza rinunziare ad esprimere posizioni collidenti con le altre istanze giudiziarie sovranazionali.
Il Prof. Giorgio Spangher ha insistito sul fatto che il Prot.n.16 rappresenta un tassello fondamentale della costruzione di un nuovo ordine costituzionale europeo che, pur evidentemente contrastato da più parti, non può che rappresentare il modello virtuoso e l’obiettivo del nostro tempo, nel quale la prospettiva di protezione sovranazionale dei diritti umani ed il dialogo fra le Corti appaiono esigenze prioritarie e necessarie. Malgrado le condanne ripetutamente inflitte dalla Corte edu e malgrado la diversità di vedute che spesso emerge fra giurisdizione nazionale e giudici sovranazionali rispetto alle modalità di tutela dei diritti fondamentali, secondo Spangher occorre investire nelle forme di dialogo e di cooperazione, senza che esiste un concreto rischio circa il fatto che la Corte costituzionale possa perdere il suo ruolo nella protezione dei diritti fondamentali.
II rimedio del parere consultivo potrebbe in definitiva deflazionare i ricorsi stabilizzare il consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali quando c’è una autorità e diventa vincolante ecco il senso della facoltatività e nulla esclude che sia recepito
Il Presidente Vladimiro Zagrebelsky, per esordendo col dire che il protocollo n.16 non ha la capacità di realizzare lo scopo primario che lo stesso intende perseguire- ridurre il carico di lavoro della Corte edu- né si porrebbe in coerenza con lo scopo della CEDU- essenzialmente collegato alla reazione del ricorrente danneggiato nei propri diritti sul piano nazionale, ha comunque sottolineato l’erroneità delle argomentazioni espresse contro la ratifica del protocollo, destinate ad avere un effetto suicidario nei confronti dei giudici italiani, tagliati fuori dal dialogo con la Corte edu – che si alimenterà dei pareri r
Il Presidente Valerio Onida nel trarre le conclusioni del dibattito, ha evidenziato che l’esistenza di problemi pratici sulle modalità di attuazione del Protocollo n.16 non elidono l’anima dell’istituto, che non è diversa da quello che emerge dai rapporti costruiti fra Costituzioni nazionali, legislazione e giurisprudenza della Corte edu. Due elementi base sono rappresentati dalla pluralità di ordinamenti che supera la logica del singolo ordinamento. Ciò che orienta verso una logica di universalità dei diritti dell’uomo. Vi è la necessità di mettere insieme la pluralità degli ordinamenti con l’universalità dei diritti umani che riguardano l’universalità delle persone. La soluzione dei possibili conflitti richiede dunque l’apprestamento di tecniche di tutela diverse. Per il diritto convenzionale, dopo che il nostro sistema ha trovato un equilibrio quanto alle relazioni fra diritto interno e diritto UE .
L’obiezione politica di fondo circa la lesione della sovranità è dunque mal posta e fuori luogo.
Universalità dei diritti fondamentali non vuol dire che la declinazione dei diritti in ogni ordinamento debba essere la stessa in ogni sistema. Ci possono dunque essere conflitti, ha ricordato Onida, ma non si può rimanere meravigliati da questi conflitti, essendo questi fisiologici, occorre elaborare la soluzione dei conflitti nel modo migliore possibile. Il coordinamento fra le Corti è dunque fisiologico senza che un clima di incertezza debba disturbare, richiedendo anzi il confronto dialogico fra le Corti e senza che si possa individuare una figura giudiziaria capace di risolvere in forma piramidale il conflitto. Il Protocollo n.16 introduce dunque un parere su una “questione di principio” ed in questo vi è un’evidente novità rispetto alle forme di tutela dei diritti fondamentali rispetto alle ipotesi ordinarie, innovazione capace di arricchire il dialogo fra le Corti.
Il senso dell’intervento del Prof. Onida è dunque di guardare con ottimismo al Protocollo n.16, non potendosi immaginare una soluzione di chiusura al Protocollo, se non giungendo alla negazione stessa del ruolo della CEDU.
6. La proposta del gruppo Area-Cassazione: il Parlamento riparta dal Prot.n.16!
A leggere gli esiti del convegno e le opinioni espresse quasi unanimemente in punto di ratifica o meno del Protocollo n.16, appare chiaro come il richiamo alla lesione di sovranità connessa all’erosione del ruolo delle Corti nazionali sia risultato fuori bersaglio, imponendo di ricercare il senso ultimo, probabilmente non del tutto manifestato apertamente, che ha condizionato la discussione accademica ed anche parlamentare già ricordata.
Le accuse di lesione alla sovranità attengono dunque, se colte nella loro intrinseca essenza e nemmeno tanto celata prospettiva, al modo con il quale le Corti nazionali hanno fin qui favorito l’ingresso del diritto vivente della Corte edu, vissuto in termini di forte contrazione del diritto interno e del giudice naturalmente chiamato ad applicarlo, finendo con l’apparire strumentali nel porre in discussione l’architrave sulla quale si fondano i rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Ed in questo non è tanto in discussione l’autonomia – espressiva di sovranità interna - delle Istituzioni giudiziarie verso le quali sembrerebbero venire in difesa i critici del protocollo n.16 quanto, ancora una volta, il “modo” con il quale tale autonomia viene esercitata.
Quel che non appare gradito, in termini ancora più chiari, non è la Corte edu, il suo Protocollo n.16 e la sua giurisprudenza, quanto l’uso che se ne fa nel diritto interno. Un uso che va al contrario vigorosamente protetto.
Il gruppo Area Cassazione, alla luce delle premesse e dei contenuti del convegno svoltosi lo scorso 22 giugno, si rivolge alle più alte cariche istituzionali del Parlamento e del Governo affinché esse si attivino, ciascuno nel proprio ruolo istituzionale, per riprendere l’iter di approvazione del progetto di ratifica del Protocollo n.16.
Un’idea, quella alla base del Prot.n.16, nella quale una singola vicenda processuale contribuisce alla costruzione di un nuovo ordine costituzionale europeo, marginalizzando una concezione statica del diritto, uno e primo, rispetto a ciò che, alimentandosi delle pronunzie di una
Una prospettiva, quella sottesa al Prot.n.16, secondo cui tutti i giudici, in tutte le loro articolazioni- nazionali e sovranazionali- partecipano attivamente, senza scale gerarchiche, ad un’idea di giurisdizione al servizio dei diritti improntata ad un principium cooperationis, al cui interno implementare le occasioni di reciproca conoscenza e confronto, seguendo l’idea di una nuova nomofilachia che, nel tentativo di rimediare alle fisiologiche incertezze nascenti dalla prospettiva universale propria dei diritti fondamentali, tende a divenire sempre più orizzontale, discorsiva, dialogica, circolare con i giudici sovranazionali e con quelli di merito.
La pretesa di risolvere i nodi problematici che in tema di richiesta di parere preventivo alla Corte edu non ratificando il Protocollo n.16 già entrato in vigore risulta fallace per plurimi motivi, il primo dei quali correlato al fatto che i pareri resi dalla Corte edu confluiscono comunque all’interno della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e dovranno, pertanto, essere presi in considerazioni ed utilizzati dai giudici italiani, allo stesso modo di qualunque altro precedente di quella Corte sovranazionale.
Sicché indicare la prospettiva della ratifica del Protocollo non vuol dire prospettare una strada di automatica trasposizione di tale strumento ma, al contrario, prefigurare una ripresa parlamentare della discussione sul progetto di legge, al cui interno le forze parlamentari avrebbero dovuto offrire eventuale soluzione ad aspetti problematici o tesi a rendere ancor più utile e proficuo lo strumento di cui qui si discute.
Molti sembrano essere gli vantaggi sottesi alla richiesta di parere preventivo alla Corte edu da parte delle Alte giurisdizioni.
Per un verso, la possibilità che esso offra preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo fatta propria, in parallelo, dalla Corte di Giustizia -sia in linea con la CEDU e con la stessa Costituzione attraverso uno strumento che esalta, piuttosto che comprimere, la indipendenza e la sovranità delle autorità giudiziarie nazionali, dovendo poi escludersi, che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte se si considera, per un verso, la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della CEDU e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo 16 eroda i principi fondamentali dell' ordinamento, secondo un’ottica che nulla a che vedere con la salvaguardia della sovranità invece inscrivendosi in quel poco commendevole sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei contro-limiti.
Troppo intensi risultano i benefici di un confronto in fase ascendente e discendente dall’attivazione del dialogo fra giudice nazionale e Corte edu per anestetizzare il Protocollo n.16 e, con esso, il valore del diritto praticato in Italia, come si è detto capace di contribuire in modo determinante alla formazione di un “diritto vivente europeo” improntato al rispetto dei diritti fondamentali in favore delle persone.
D’altra parte, proprio l’intervenuta ratifica, nel febbraio 2021, del Protocollo n.15 appena ricordato dimostra come proprio le preoccupazioni circa la deriva europeista e le pesanti limitazioni di sovranità che deriverebbero dalla ratifica del Protocollo n.16 avrebbero dovuto risuonare anche nei confronti dello strumento ratificato, nel quale si riconosce apertamente il ruolo primario della Corte edu nella protezione dei diritti fondamentali di matrice convenzionale, e si insiste sul margine di apprezzamento attribuito ai Paesi aderenti, “sotto il controllo della Corte edu”.
Il gruppo Area è dunque persuaso del fatto che proprio la natura non vincolante del parere non incida affatto sulla sovranità dello Stato e dei suoi giudici, rappresentando piuttosto un complemento alla CEDU, la cui ratifica portò ad una rinunzia parziale alla sovranità in presenza di ragioni giustificatrici, rappresentate dapprima dall’art. 11 Cost. e, successivamente, dall’art. 117, 1°comma Cost. Come si è convinti che nessun rischio di marginalizzazione della Corte costituzionale dal Protocollo n.16 che si innesta in uno scenario ormai svezzato rispetto a quello descritto dalle remote sentenze gemelle quanto ai rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Privare le Corti italiane di ultima istanza dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU reso su istanza di altre Corti europee significa impedire le contaminazioni fra gli organi nazionali e sovranazionali che hanno per statuto il compito di salvaguardare i diritti fondamentali nella loro proiezione universale, arginandone le possibilità di contatto, erigendo i muri, invece che costruendo ponti e porti capaci di accogliere i diversi naviganti, rendendo effettivo il rischio di isolamento del nostro sistema ordinamentale.
Tutte queste circostanze dimostrano quanto ampi siano gli spazi per riannodare i fili del ragionamento, depurandolo da precondizioni che, come emerso dal dibattito dottrinario, sembrano poco solide e scarsamente persuasive.
L’attenzione mostrata da ampi settori della dottrina italiana e di un gruppo di consiglieri della Corte di Cassazione costituisce già un elemento sul quale le Istituzioni potranno riflettere in modo proficuo, superando preconcetti e logiche ideologiche ed invece imboccando la via della più ampia tutela dei diritti fondamentali.
E' dunque il clima costruttivo sul tema "riforme della giustizia" che sembra animare l’intero Parlamento dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Matterella reso a Camere riunite in occasione della sua rielezione a favorire la riattivazione del circuito parlamentare su una riforma anch'essa “ineludibile” per una giustizia che potrà essere più efficace e giusta con la ratifica del Prot.n.16. Una riforma che, insieme alle altre in cantiere, assume valore parimenti centrale per la difesa dei diritti nella loro vocazione naturalmente universale.
Roberto Giovanni Conti
Paola Filippi
Giacinto Bisogni
Gabriella Cappello
Gaetano De Amicis
Marco Dell’Utri
Franco De Stefano
Francesca Fiecconi
Raffaello Magi
Anna Rosaria Pacilli
Brevi osservazioni sulla proposta di direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali
di Tiziana Orrù
Sommario: 1. Introduzione - 2. Nuovi modelli di organizzazione del lavoro e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori - 3. Prospettive di tutela.
1. Introduzione
Il 9 dicembre del 2021 la Commissione Europea ha proposto un pacchetto di misure che mirano a migliorare le condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali e a rinforzare la crescita sostenibile delle aziende tra le quali la preparazione di una Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio per la tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali.
Contestualmente è stata approvata una comunicazione che definisce l’approccio e le misure dell’Ue sul lavoro mediante piattaforme digitali. Queste ultime sono integrate da azioni che le autorità nazionali, le parti sociali e altri soggetti interessati dovrebbero adottare al loro livello. La Comunicazione mira inoltre a gettare le basi per lavorare a future norme globali per un lavoro di alta qualità mediante piattaforme digitali.
Infine è stato presentato un progetto di orientamenti che chiariscono l’applicazione del diritto dell’Ue in materia di concorrenza ai contratti collettivi dei lavoratori autonomi individuali che cercano di migliorare le loro condizioni di lavoro, compresi coloro che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali.
L’iniziativa della Commissione segue ed accompagna il contenuto di altri significativi interventi volti a regolare il lavoro nell’era della rivoluzione digitale caratterizzata da una società in rapida evoluzione nella quale nuove opportunità e nuove sfide emergono dalla globalizzazione, dal mutamento dell’organizzazione del lavoro e dagli sviluppi sociali e demografici.
Una prima risposta alle nuove sfide è sicuramente inserita nella c.d. Direttiva trasparenza - DIRETTIVA (UE) 2019/1152 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.
Più di recente la Commissione Europea ha adottato, il 28 Giugno del 2021, La strategia Ue per la salute e sicurezza sul lavoro (Ssl)[1] che prevede tre obiettivi principali:
1) Anticipare e gestire il cambiamento nel mondo del lavoro determinato dalle transizioni verde, digitale e demografica.
2) Migliorare la prevenzione agli incidenti e alle malattie sul lavoro.
3) Accrescere la preparazione per ogni potenziale futura crisi sanitaria.
La Commissione ha messo l’accento sulla circostanza che la robotizzazione, l'uso dell'intelligenza artificiale e la maggiore prevalenza del lavoro a distanza riducono i rischi di attività pericolose, ma pongono anche una serie di criticità dovute sia all’aumento dell'irregolarità nel momento e nel luogo in cui viene svolto il lavoro, sia ai rischi relativi a nuovi strumenti e macchinari ed anche ai rischi psico-sociali.[2]
La situazione di fatto che l’Unione Europea sta tentando di regolare è legata in sintesi alla nascita di nuove forme organizzative, modelli aziendali e tipologie di contratto che hanno determinato un mutamento radicale del concetto stesso di lavoro determinando la necessita di un impegno globale per gestire il cambiamento garantendo dignità al lavoro e maggiori diritti alle persone che lavorano soprattutto quando si chiede ai lavoratori di adattarsi alle innovazioni ed alle rapide trasformazioni che investono il mondo del lavoro.
2. Nuovi modelli di organizzazione del lavoro e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori
L’ingresso massiccio dell’utilizzo delle tecnologie digitali ha incoraggiato l’espansione delle imprese, soprattutto nel settore logistico dove è attualmente presente un processo di estrazione del profitto dal lavoro in grado di catalizzare la precarietà dell’occupazione. È sempre più attuale il fenomeno dell’intermediazione illegale della forza lavoro e del meccanismo delle finte cooperative costituite ed estinte per la durata di un appalto o di un subappalto e la spasmodica ricerca di risparmio dei costi attuata a svantaggio della sicurezza sul lavoro.
Occasioni illecite sfruttate soprattutto dalle multinazionali del settore della logistica, alle quali occorre prestare particolare attenzione vista la loro rapida estensione anche ad altri settori quali quello manufatturiero e dei servizi, tutti accomunati dall’utilizzazione di manodopera irregolare o dall’applicazione di contratti collettivi che garantiscono ai lavoratori meno diritti e meno tutele di quelli previsti dal contratto nazionale di categoria[3].
Sono ambiti socio-economici nei quali la figura del datore di lavoro, sempre più evanescente, costituisce spesso l’occasione favorevole per la nascita di nuovi fenomeni di sfruttamento del lavoro quale ad esempio il caporalato digitale dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli.
Il luogo e l’orario di lavoro sono oggi concetti fluidi, affrancati dalle classiche nozioni normative che necessitano di una disciplina specifica in grado di tutelare le nuove esigenze di sicurezza. [4]
Le nuove tecnologie stanno mutando radicalmente la dimensione spaziotemporale dei luoghi di lavoro. Per i rider, i luoghi di lavoro sono le città, per i nuovi operai dell’Industria 4.0 vi sono i cosiddetti cyberphysical workplace – luoghi di lavoro in cui software ed algoritmi sono complementari agli hardware: macchine, robot, computer, braccialetti o visori di realtà aumentata. Per entrambi, il tempo di lavoro è ormai calcolato minuziosamente sul tempo effettivamente lavorato e valutato da scrupolosi ed invasivi strumenti di performance metrics.
Ma il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale possano diventare uno strumento prescrittivo senza controllo.
Gli algoritmi funzionano principalmente come sistemi atti a produrre canoni da considerare lo standard al quale adeguarsi per massimizzare le performance dei lavoratori. Questi congegni, inoltre, utilizzano i medesimi standard anche per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori.
Nell’organizzazione dei fattori di produzione l’utilizzo dell’algoritmo si traduce sostanzialmente in una gestione dei lavoratori affidata quasi totalmente ai computer che assicurano processi di selezione e gestione del lavoro più efficaci poiché riducono drasticamente i tempi ed evitano l’intervento umano.
3. Prospettive di tutela
L’automazione del lavoro prodotta dalle nuove tecnologie, un fenomeno che investe l’economia mondiale e travalica i confini nazionali riguardando perlopiù imprese multinazionali, necessita senz’altro di una disciplina idonea a tutelare i prestatori di lavoro garantendo loro condizioni migliori in termini di diritti e garanzie.
E’ la nuova sfida che impone di aggiornare la disciplina vigente a salvaguardia della dignità e salute dei lavoratori sia, con specifico riguardo al momento ed al luogo in cui viene svolto il lavoro per i rischi connessi ai nuovi strumenti e macchinari, sia con riferimento alle possibili problematiche psico-sociali derivanti dallo stress generato nell’ambiente di lavoro dalla connessione continua, dalla mancanza d’interazione sociale, dall’espansione dell’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione, tutti fenomeni in grado di generare l’insorgere di rischi addizionali.
In Italia e nei Paesi dell’Unione il tema non è stato sinora affrontato con interventi generali di disciplina sistematica ma, attraverso interventi settoriali dedicati essenzialmente ai ciclofattorini, che sono diventati la figura emblematica del conflitto sociale accesosi attorno al lavoro su piattaforma. [5]
In ambito nazionale nella Gazzetta Ufficiale n. 257 del 2 novembre 2019 è stata pubblicata la L. n. 128/2019, di conversione del D.L. n. 101/2019 (cd. “D.L. tutela lavoro e crisi aziendali”). La disciplina interviene in particolar modo in favore di alcune categorie di lavoratori particolarmente deboli, quali i riders qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme digitali. Le tutele prevedono la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e la previsione di una retribuzione di base, senza tuttavia garantire che la situazione occupazionale delle persone che lavorano nelle piattaforme di lavoro digitali corrisponda, a livello giuridico, ai loro effettivi contratti lavorativi.[6]
Ma è soprattutto in ambito eurounitario che si sta cercando di affrontare i cambiamenti determinati dalla trasformazione digitale nei mercati del lavoro con interventi più generali volti a migliorare le condizioni di lavoro e i diritti sociali delle persone che lavorano con piattaforme (art. 1, par. 1).[7]
A questo proposito, la Proposta di Direttiva individua tre obiettivi specifici: 1) garantire che le persone che lavorano mediante piattaforme digitali abbiano, o possano ottenere, la corretta situazione occupazionale alla luce del loro effettivo rapporto con la piattaforma di lavoro digitale e abbiano accesso ai diritti applicabili in materia di lavoro e protezione sociale;
2) garantire l'equità, la trasparenza e la responsabilità nella gestione algoritmica nel contesto del lavoro mediante piattaforme digitali; e
3) accrescere la trasparenza, la tracciabilità e la consapevolezza degli sviluppi nel lavoro mediante piattaforme digitali e migliorare l'applicazione delle norme pertinenti per tutte le persone che lavorano mediante piattaforme digitali, comprese quelle che operano a livello transfrontaliero.
L’intervento europeo è volto innanzitutto ad escludere ai lavoratori su piattaforma il riconoscimento di un terzo status speciale rispetto al lavoro subordinato e a quello autonomo, garantendo a tutti la corretta qualificazione giuridica del rapporto di lavoro con la previsione di una presunzione relativa di subordinazione se la piattaforma di lavoro digitale controlla determinati elementi dell'esecuzione del lavoro. [8]
È previsto, a tal fine un elenco di criteri di controllo volti a determinare in concreto l’ambito della presunzione: nel caso in cui la piattaforma soddisfi almeno due dei criteri specificamente indicati, si presume che si sia in presenza di un “worker” ossia, nel linguaggio nazionale, di un lavoratore subordinato.[9]
La Proposta chiarisce inoltre che spetta al presunto datore di lavoro dimostrare l’assenza di un rapporto di lavoro subordinato alla luce delle definizioni nazionali sancite dalla legislazione o dagli accordi collettivi del rispettivo Stato membro.[10]
La piattaforma dovrà dimostrare la sussistenza dell’autonomia della prestazione fornendo alle autorità giurisdizionali o amministrative tutte le informazioni pertinenti con un palese obiettivo di contrasto oltre che allo sfruttamento lavorativo anche all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva.
In maniera ancora più significativa la direttiva prevede un aumento della trasparenza nell’uso degli algoritmi da parte delle piattaforme di lavoro digitali, garantendo che l’insieme dei parametri che regolano l’algoritmo usato per “valutare” il lavoratore vengano resi pubblici con una comunicazione formale. Un modo per rendere consapevole il lavoratore del metro con cui il suo lavoro viene giudicato con conseguente garanzia di contestazione delle decisioni automatizzate.[11]
Gli artt. 7 e 8 pongono un altro importante principio circa la sorveglianza dei sistemi automatici basati su algoritmi vietando, tra l’altro alle piattaforme di usare sistemi di gestione algoritmica idonei ad esercitare una pressione indebita sui lavoratori della piattaforma o a mettere altrimenti a rischio la salute fisica e mentale dei lavoratori della piattaforma. Inoltre è garantito al lavoratore di ottenere dalla piattaforma di lavoro digitale una spiegazione o una rettifica di una decisione presa o sostenuta da sistemi automatizzati che incida significativamente sulle sue condizioni di lavoro.
All’obiettivo della trasparenza sono dedicati gli artt. 11 e 12 della Proposta di Direttiva. Il primo obbliga le piattaforme a condividere con le autorità pubbliche dello Stato membro in cui la prestazione di lavoro è seguita il lavoro affidato ai lavoratori delle piattaforme e ogni dato pertinente, secondo le previsioni dei diritti nazionali. Il secondo specifica che le informazioni in questione, da rendere semestralmente sia alle autorità pubbliche vigilanti sul lavoro sia alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici con piattaforma, attengano al numero delle persone che lavorano continuativamente con la piattaforma e alla qualificazione giuridica del loro rapporto, nonché i termini e le condizioni contrattuali applicati, e possano essere oggetto di richieste di chiarimento cui le piattaforme hanno obbligo di rispondere.
Infine la Proposta di Direttiva dedica gli artt. 13-19 agli aspetti processuali e rimediali, tra i quali viene in rilievo per l’assoluta novità la legittimazione alla sostituzione processuale delle organizzazioni sindacali rispetto ai lavoratori rappresentati, con il consenso di questi ultimi, per le violazioni della Direttiva (art. 14).
Altri creano diritti inediti sul piano sostanziale, come quello di usufruire della infrastruttura della piattaforma per comunicazioni tra i lavoratori, e tra i lavoratori e i loro rappresentanti (art. 15); o sul piano processuale, come l’obbligo per gli Stati di consentire alle autorità che giudichino della corretta qualificazione del rapporto di lavoro di ordinare alle piattaforme di fornire ogni elemento di prova rilevante, anche di natura riservata: con una significativa applicazione del principio di vicinanza della prova, e un notevole allargamento rispetto alle previsioni dell’art. 210 c.p.c. (art. 16).
Sono inoltre previste tutele per le persone che lavorano con piattaforme, e per i loro rappresentanti, contro rappresaglie per aver invocato l’applicazione delle disposizioni della Direttiva (art. 17), e in particolare contro il licenziamento, tra le quali ultime vi è il passaggio dell’onere della prova in capo alla piattaforma (art. 18).[12]
Infine l’art. 19 richiede agli Stati membri di prevedere un sistema sanzionatorio effettivo, proporzionato e dissuasivo, oltre ad indicare la responsabilità delle autorità che vigilano sull’applicazione del Regolamento (EU) 2016/679, cioè il Regolamento privacy, per l’imposizione di sanzioni amministrative nei casi di violazioni degli att. 6, 7, parr. 1 e 3, 8 e 10.
La sia pur superficiale analisi dei contenuti e degli scopi della Proposta di Direttiva, fa emergere con tutta chiarezza la volontà di creare un apparato normativo completo ed efficace, sicuramente idoneo a superare nel nostro ordinamento quello contenuto nella legge 128/2019.
Il fine di tutelare e porre in sicurezza al più presto una parte cospicua e finora trascurata di lavoratori è inoltre garantito dall’art. 21, par. 1 delle disposizioni transitorie della Proposta di Direttiva che pongono il termine biennale per il recepimento da parte degli Stati membri ma, nulla impedisce al nostro legislatore nazionale di anticipare i tempi dell’emanazione della Direttiva e così adeguare le norme italiane alle aspettative eurounitarie.
[1] Con l’obiettivo di anticipare e gestire il cambiamento, la Commissione dedica particolare attenzione alla necessità per la Ssl di rispondere alle innovazioni generate dalle transizioni verde e digitale, accelerate anche dai piani di ripresa e resilienza, nonché dalle dinamiche demografiche che stanno già determinando un invecchiamento della popolazione lavorativa. In proposito, richiama a riferimento il proprio studio Industria 5.0 - verso un’industria più sostenibile, resiliente, incentrata sull’umano del 7 gennaio 2021 che propone una visione per conciliare diritti e bisogni dei lavoratori con i processi di transizione verde e digitale e il libro verde sull’invecchiamento demografico del 27 gennaio 2021.
[2] Attualmente si stima che i problemi di salute mentale affliggano 84 milioni di europei, metà dei lavoratori considerano lo stress una criticità comune del loro ambiente di lavoro. Si valuta che lo stress genera il 50% delle giornate lavorative perse in Ue.
Gli effetti della pandemia hanno portato il 40% dei lavoratori a lavorare da remoto a tempo pieno con l’effetto di confondere la separazione tra tempo di vita privata e tempo del lavoro, generando problemi quali la connessione continua, la mancanza d’interazione sociale, l’espansione dell’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione (Tic), che hanno generato l’insorgere di rischi addizionali per gli aspetti psicosociali ed ergonomici.
[3] L’articolo 29 D.lgs 276/03 che disciplina la responsabilità solidale nell’ambito dell’appalto ampliando la previsione dell’art. 1667 c.c., appare ora – dopo innumerevoli modifiche - insufficiente a salvaguardare i lavoratori utilizzati all’interno di processi produttivi frammentati che prevedono il frequente ricorso a catene di appalti e subappalti.
La norma, infatti, contrariamente a quanto prevedeva l’abrogato art.3 della legge 1369/60 per gli appalti interni, non prevede alcuna garanzia di parità di trattamento per i lavoratori impiegati nell’appalto diversamente da quanto previsto dall’art. 23 d.lgs. 276/03 per i lavoratori somministrati e da quanto ora disposto dal D.L. n. 77/2021 (convertito dalla legge n. 108/2021) nella regolamentazione degli appalti in ambito pubblico. In particolare il comma 1 lett. b punto 2 dell'art. 49 che ha modificato il comma 14 dell'art. 105 del D.lgs n. 50/2016, ha previsto che “il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l'applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro, qualora le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l'oggetto dell'appalto ovvero riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti e siano incluse nell'oggetto sociale del contraente principale”.
[4] Il 7 dicembre 2021, è stato sottoscritto – all’esito di un approfondito confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” con lo scopo di fornire a imprese e lavoratori del settore privato le linee guida con cui disciplinare, nella contrattazione collettiva, il lavoro agile. I punti di principale attenzione del protocollo sono: - accordo individuale; - organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione; - luogo di lavoro; - strumenti di lavoro; - salute e sicurezza sul lavoro; - infortuni e malattie professionali; - diritti sindacali; - parità di trattamento e pari opportunità; - lavoratori fragili e disabili; - welfare e inclusività; - protezione dei dati personali e riservatezza; - formazione e informazione; - osservatorio bilaterale di monitoraggio; - incentivo alla contrattazione collettiva. Di particolare rilevanza l’abbandono della nozione di orario di lavoro, e quindi di lavoro straordinario nei periodi di smart working, l’obbligo di individuare sempre, in ogni caso, la fascia di disconnessione, la possibilità per il lavoratore sospendere la prestazione lavorativa fruendo di permessi, la libertà per il lavoratore Il lavoratore di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile, purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire condizioni di sicurezza e riservatezza lasciando alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare i luoghi inidonei per motivi di sicurezza personale o protezione, segretezza e riservatezza dei dati. Restano in ogni caso confermati gli obblighi del datore di lavoro, già previsti dalla legge, in tema di salute e sicurezza, di formazione e di informazione, di divieto di discriminazione.
[5] Finora la risposta più rilevante a questa naturale conflittualità è venuta dalla giurisprudenza della maggior parte dei Paesi Europei interessati dal fenomeno: Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663; Tribunale di Bologna 31 dicembre 2020 in materia di discriminazione; Cour de Cassation, Chambre social, 28 novembre 2018, n. 1737, per i riders di Takeaway, e Cour de Cassation, Chambre sociale, 4 marzo 2020, n. 374, per i drivers di Uber in Francia; BundesArbeitsGericht (Bag), 1° dicembre 2020, 9 AZR 102/20, a proposito dei crowdworkersin Germania; Tribunal Supremo Sala de lo Social, Pleno, 25 settembre2020, n. 805, per i repartidores di Glovo in Spagna.
[6] Secondo una stima, contenuta nella relazione (Explanatory memorandum) alla Proposta di Direttiva, fino a cinque milioni e mezzo di persone che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali potrebbero essere a rischio di errata classificazione della situazione occupazionale.
[7] La relazione (stima che circa 28 milioni di persone lavorino attualmente su piattaforme digitali nell’Unione Europea come lavoratori autonomi, con una previsione di crescita di circa 43 milioni di addetti entro il 2025. Le piattaforme di lavoro digitali sono presenti in diversi settori economici. Alcune offrono servizi "in loco", come ad esempio servizi di trasporto a chiamata, consegna di merci, servizi di pulizia o di assistenza. Altre operano esclusivamente online fornendo servizi quali la codifica di dati, la traduzione o il design.
[8] Le disposizioni relative sono contenute negli artt. 3-5 della Proposta di Direttiva: l’art. 3, par. 1 impone agli Stati di prevedere una procedura di qualificazione del rapporto di lavoro delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali, in modo da consentire alle persone che potrebbero essere erroneamente classificate come lavoratori autonomi, di essere riclassificate come lavoratori subordinati in base ad una valutazione dei fatti relativi all'effettiva esecuzione del lavoro e alla retribuzione (art.3, par. 2).
[9] Art. 4, par. 1. Va ricordato che la presunzione relativa non si applica a qualunque piattaforma, ma soltanto a quelle (digital labour platforms) che controllino l’esecuzione del lavoro, intendendo per controllo, ai sensi dell’art. 4, par. 2, quello che comporti la presenza di almeno due degli indici seguenti: a) determinando effettivamente o fissando limiti massimi per il livello di remunerazione; (b) imponendo alla persona che esegue il lavoro di piattaforma di rispettare specifiche norme vincolanti per quanto riguarda l’aspetto, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l'esecuzione del lavoro; (c) controllando l'esecuzione del lavoro o verificando la qualità dei risultati del lavoro anche con mezzi elettronici; (d) limitando di fatto la libertà, anche mediante sanzioni, di organizzare il proprio lavoro, in particolare la discrezionalità di scegliere il proprio orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare compiti o di ricorrere a subappaltatori o sostituti; (e) limitando efficacemente la possibilità di crearsi una clientela o di eseguire lavori per terzi.
[10] L’art. 5 pone a carico delle piattaforme l’onere della prova dell’autonomia del lavoro prestato a loro vantaggio: anche nel caso di sussistenza di tutti gli indici che, ex art. 4, evidenziano il controllo sul lavoro da parte della piattaforma, specificando l’irrilevanza dell’eventuale accordo tra le parti del rapporto di lavoro per escludere la subordinazione.
[11] Nella proposta di Direttiva, l’art. 6 prevede l’obbligo degli Stati membri di introdurre un diritto di informazione in capo ai singoli lavoratori sia sui sistemi di controllo delle prestazioni lavorative, sia su quelli che prendono decisioni sulle condizioni di lavoro, come l’accesso alle singole prestazioni di lavoro, la loro retribuzione, la sicurezza e salute sul lavoro, l’orario di lavoro, il loro orario di lavoro, e il rapporto di lavoro in genere, compresa, la limitazione, la sospensione o la cessazione del loro account (par. 1).
[12] Con previsione analoga a quella italiana contenuta nell’art. 5 della legge 604/1966.
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