GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Pasolini, l’invasore e la resistenza

    Pasolini, l’invasore e la resistenza

    di Pierpaolo Gori

    La feroce invasione di un grande Stato nel cuore dell’Europa ripropone immagini di guerra urbana, il terrore di esposizione a disastri nucleari, le centinaia di migliaia di sfollati in fuga dall’intervento armato, secondo schemi che ci riportano ai momenti più bui del secolo breve[1]. Al proposito è lucida - ma rigettata dalla trionfante società dei consumi - la riflessione sulla resistenza di Pier Paolo Pasolini, racchiusa nella sua unica tragedia, I turcs tal Friùl. Composta in una Casarsa occupata dai nazisti, usa la lingua del cuore, un idioma non ancora abusato dalla propaganda nazionalista che spinge a diffidare delle grandi lingue letterarie del mondo[2]. Il suo stile è arcaico, quasi greco, e modernissimo ad un tempo, perché, sotto il velo del teatro e della narrazione apparentemente remota, nel profondo ci parla dell’armonia sconvolta e del nostro stare insieme oggi. 

    Il manoscritto del maggio 1944 è stato lasciato in un cassetto da Pier Paolo per tutta la sua vita, sebbene egli lo considerasse quanto di meglio esistente nella sua produzione giovanile[3]. È la conferma che si tratta di un’opera intima, composta in primo luogo a fini liberatori ed espiatori di quella sofferenza interna che nei grandi spiriti proietta all’esterno una straordinaria creatività. Quasi per pudore, la tragedia è stata pubblicata postuma ad oltre trent’anni dalla sua scrittura.

    Un cenno al contenuto. In un paese lassù ad est, non lontano dalla piana della Richinvelda (in antico, reiche Felde), si può ancora a stento leggere un’iscrizione, salvata da una chiesetta scomparsa. È posta su un lacerto di marmo e racchiude in lingua volgare italiana una semplice dedica di un piccolo oratorio alla Madonna delle Grazie, per aver risparmiato nel 1499 Casarsa dalle orde dei turchi. Di fronte all’avanzare inesorabile delle cavallerie e colonne turchesche e, con essi, dei saccheggi e delle distruzione sistematiche dei paesi della pianura, solo quel borgo sarebbe passato indenne, perché improvvisamente avvolto da una fitta coltre di basse nubi, sulle umide sponde del Tagliamento, paese di temporali e di primule[4]. Il fatto storico, la leggenda e la devozione popolare hanno ispirato il componimento di Pier Paolo, il quale immagina il dramma della indifesa comunità contadina che rischia di essere cancellata dai turchi. Così nella famiglia Colùs, la madre Lùssia e i suoi due figli, Meni e Pauli, devono decidere come reagire di fronte al disastro che incombe sul paese e che sembra inarrestabile.

    È una condizione sovrapponibile a quella in cui si trovano, 450 anni dopo, nel maggio 1944, Susanna Pasolini e i due figli Pier Paolo e Guido. Da oltre sei mesi l’intero Friuli Venezia Giulia è invaso dai tedeschi e sottoposto al diretto controllo del Terzo Reich, sottratto persino alla Repubblica Sociale Italiana, e inserito entro una neo-costituita zona di operazioni militari denominata Adriatisches Küstenland.

    All’inizio del dramma si delinea il significato della scelta del fratello minore di Pier Paolo, Guido (nel poema chiaramente Meni Colùs ne è l’alter ego) di non restare a morire nel villaggio come agnello sacrificale (“Murì e basta: ma no coma agnèi…”)[5]. Il giovane, con altri uomini, decide così di lasciare Casarsa per unirsi alla resistenza partigiana con la brigata Osoppo e combattere, pur senza esperienza né mezzi, per la liberazione dai nazisti. Guido adotterà il nome di battaglia “Ermes” e sarà assassinato nel febbraio 1945, quasi alla fine del secondo conflitto mondiale in un momento storico decisivo per l’Italia, da altri partigiani vicino a Cividale del Friuli nei fatti legati all’eccidio di Porzùs.

    Quella di Meni/Guido è una scelta sofferta, per l’attaccamento profondo alla vita del giovane, appena diciottenne, che sceglie di andare a combattere contro l’invasore sì, ma soffre nel vedere in lacrime la povera madre Lùssia, dalle minuscole spalle nel suo grembiule consunto, che nasconde appena il piccolo, minuto grembo in cui si era un giorno sentito protetto (“jot là se spalutis, puora mari, tal grumal fruvàt. E jo ch’i soi stat drenti di che grin, Signòur, di chel grin pìciul, pìciul. E par chistu adès i patìs; i soi tant tacàt a chista vita; i ài tanta pòura di murì”)[6].

    È una scelta ideale e coraggiosa che si confronta con quella di segno opposto compiuta da Pauli. Sullo sfondo, un pathos scandito dall’epica solenne dei cori: da un lato, delle donne vestite di nero, custodi di una società contadina antica e, dall’altro, dei turchi invasori, dèi della guerra, lucenti sotto la luna nella loro terribile crudeltà e logica di dominio dell’uomo sull’uomo.

    Pauli Colùs (in cui si scorge Pier Paolo) rifiuta di retribuire la morte con la morte, facendo un atto di fede in favore della pace, ritenuta la via da perseguire ad ogni costo, anche del sacrificio se questa è la volontà di Dio (“Ma se la voluntat dal Signòur a è che murini dùcius, l’unica maniera a è di murì cu ‘l nomp so tal còur”)[7]. Resta così a lavorare e pregare al suo posto, vicino a Lùssia, come farà nella realtà Susanna, la madre che non si allontanerà mai da Pier Paolo neppure nei momenti più duri che seguiranno il primo processo quando, espulso dal PCI per indegnità e sospeso dall’insegnamento, dovrà rifugiarsi a Roma.

    Pauli non aderisce individualmente a quella piccola schiera di sognatori che difendono la vita perché certe forze legano tutti gli esseri umani, vittime e invasori. Egli prende una decisione non meno coraggiosa di quella del fratello che imbraccia la resistenza armata organizzata. La sua resistenza all’avanzata di un potente esercito di migliaia di cavalieri e centinaia di fanti (“Deis mil ciavài, sincsènt a piè”)[8] è egualmente radicale perché irreversibile. L’opzione è sorretta dall’indomito linguaggio del proprio comportamento unito a quello della comunità, ed è pericoloso perché non è quiescente bensì irriducibilmente alternativo all’invasore. Questi è solo apparentemente invitto: non potrà eradicare una tenace reazione collettiva fondata su valori culturali profondi a lui antitetici e, perciò, destinata nel tempo a prevalere sulla recisa violenza, sulla morte che come un mare circonda il villaggio (“Vuèi a è la muart ch’a ni speta cà intor”)[9].

    La decisione è coerente con il rifiuto del linguaggio stesso della morte, ed è la scelta di Pier Paolo fatta per sempre a favore della vita, di andare avanti sempre e comunque, con passo leggero, quali che siano le difficoltà da superare, verso quel rinnovamento che solo i giovani possono dare (“E jo i ciaminarai lizèir, zint avant, sielzìnt par simpri / la vita, la zoventùt”)[10].

    E’ questa radicalità uno dei caratteri della costante “inattualità” e del fascino immenso che esercita Pasolini: in vita, figura di intellettuale indipendente e perciò non organico al partito comunista nel momento della massima ”egemonia culturale”. Poi, dopo la morte, è divenuto un “alieno” per la società dei consumi, ormai intrisa di post storicismo materialista che divora ogni cosa, anche le vite delle persone ritenute fungibili, assemblabili, omologabili.

    I Turcs tal Friùl sono soprattutto una riflessione sulla giustizia e sul diritto. Una δίκη (dìke), innanzitutto, nel significato che Eschilo affida a questo termine, di legge che gli dèi applicano sul mondo, giustizia divina che nulla ha a che spartire con il benessere materiale dell’uomo, in fondo nemmeno agognato (“Crist, pietàt dal nustri paìs. No par fani pì siors di chel ch’i sin”)[11]. L’uomo anela ad altro, alla vita, al rinnovamento.

    La giustizia è invano cercata sulla terra, come conferma l’ἐπιτάφιον (epitàfion), l’elogio funebre scritto da Pier Paolo e letto il 21 giugno 1945 nel cimitero di Casarsa, mentre viene tumulato il corpo del fratello Guido. L’epitaffio si conclude con le acute parole “alla società non chiediamo lacrime, chiediamo giustizia[12], mai veramente raccolte da chi poteva agire.

    Ridotti erano gli spazi lasciati dalla guerra fredda, in particolare sul sanguinoso crinale orientale, “limes” anche linguistico e culturale per eccellenza tra anima latina, slava e germanica, tra occidente e socialismo reale. Ancora più sottili erano le crepe che potevano aprirsi sul muro della verità ufficiale del PCI, non disposta ad accettare alcuna responsabilità per aver favorito nel 1945 l’estensione con la violenza del comunismo di Tito/nazionalismo jugoslavo a porzioni di Friuli Venezia Giulia. Non vi era sufficiente luogo per chiaroscuri, per distinzioni, per posizioni individuali e accertamenti, passi così necessari per permettere il nascere e fluire del misero processo degli uomini, pallida ombra di δίκη.

    Pare che Christa Wolf si sia ispirata anche a Pasolini per la sua Medea[13], eroina non violenta, donna “maga” che, secondo il mito pre-euripideo, non è autrice bensì subisce l’assassinio dei propri figli per lapidazione. Omicidi sono i Corinzi infuriati contro la madre, additata da un’informazione manipolata come responsabile della peste che infuria.

    In realtà, Medea deve morire perché ha compreso l’orribile segreto di morte e di violenza su cui è fondato l’ordinamento giuridico della regalità di Corinto. La straniera, con la sua irriducibile diversità, non può essere assimilata dal Sistema e potrebbe rivelarne all’esterno l’oscenità (ob scaenam - fuori dai riflettori).

    Secondo una saggezza antica la morte rivela chi si è stati davvero in vita (θάνατος βίοu κατηγορία - zànatos bìu categorìa): Lùssia Colùs/Susanna Pasolini, come la Medea di Christa Wolf, minuta nel suo fisico asciutto eppure sorretta da uno spirito d’acciaio, è la testimone di una civiltà millenaria persa per sempre. La madre avrà l’amaro destino di sopravvivere ai suoi figli, entrambi prematuramente scomparsi nonostante le scelte di vita opposte compiute. Prima Meni Colùs/Guido, portatole via a un passo dalla fine della guerra, e poi nel 1975 anche Pauli Colùs/Pier Paolo, assassinato in circostanze mai interamente chiarite. La loro sepoltura non potrà arrestare il segreto rivelato, a chi sa ascoltare.


    [1] E. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century (1914-1991), Abacus, London, 1994.

    [2] Emblematica la poetica concretista di Schweigen (silenzio) in cui solo l’assenza della parola tradita può restituire l’autentico significato, E. Gomringer, Worte sind schatten. Die Konstellationen 1951-1968, Rowohlt Verlag, Reinbek Bei Hamburg, 1969.

    [3] Lettera di P.P.Pasolini a G. D’Aronco del 29 novembre 1945.

    [4] N. Naldini, introduzione a P.P.Pasolini (a cura di N. Naldini), Un paese di temporali e primule, Guanda, Milano, 2015.

    [5] P.P.Pasolini, Turcs tal Friùl, 1976, Doretti, Udine, 1976, p.22.

    [6] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, p. 15.

    [7] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 26.

    [8] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 21.

    [9] P.P.Pasolini, Turcs, ibidem, 7.

    [10] Sono gli ultimi versi di P.P.Pasolini, La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975.

    [11] Si tratta dei versi iniziali della tragedia, P.P.Pasolini, Turcs, cit. in nota 5, p.7.

    [12] Elogio funebre completo in E. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005,105 e ss.

    [13] C. Wolf, Medea. Stimmen, traduzione italiana Medea. Voci, Roma, edizioni e/o, 2005.

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