ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti. 6) «Un muro d’oro puro, simile a terso cristallo»: una meditazione natalizia a margine di Giovanni, Apocalisse 21
di Tommaso Manzon
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Sommario: 1. Introduzione - 2. Muri e Ponti - 3. I confini cittadini - 4. Un ponte che unisce il cielo e la terra - 5. “Un muro d’oro puro, simile a terso cristallo” - 6. e il Natale?
1. Introduzione
Caro lettore, cara lettrice, ti avverto subito che dovrai portare un po’ di pazienza. Immagino che sarai arrivato/a qui condotto/a dal titolo, ma, come avrai presto modo di scoprire, non procederò immediatamente a svolgere il cuore del mio tema, bensì impiegherò qualche pagina a “preparare il terreno” con delle riflessioni che comunque spero non siano inutili. In ogni caso, tutto tende a degli auguri di Natale, che ti saranno immancabilmente rivolti al termine del presente testo. Il punto è come ci arriveremo, di che significato si saranno caricati quegli auguri; forse per te non sarà cambiato nulla, oppure forse sarà cambiato qualcosa. In ogni caso, come da richiesta editoriale, questa riflessione si muove a partire dal tema dei “muri e dei ponti”, di cosa sono gli uni, di cosa sono gli altri, di come essi si relazionano; probabilmente non vedi ancora che cosa connetta questo tema al titolo che leggi qui sopra. Pertanto – immaginando tu voglia scoprirlo – ti affido al testo senza alcun ulteriore indugio.
2. Muri e Ponti
Immaginiamo che a qualcuno di noi venga chiesto di fare delle libere associazioni a partire dalle parole “ponte” e “muro”. È molto probabile che il risultato sarebbero due liste di termini che hanno ben poco in comune tra di loro. Questo è per un verso alquanto logico, visto che, intuitivamente, un muro è qualcosa che ostacola e limita, mentre un ponte è qualcosa che collega, apre e conduce da qualche parte. Certo un muro può essere inteso come un sostegno o qualcosa a cui appoggiarsi, mentre un ponte può benissimo essere sbarrato, però è quasi certo che se chiedessimo a una persona di dirci a cosa “connette” quando sente queste due parole messe insieme, potremmo stare certi che il risultato sarebbe quello appena descritto. Allora quasi un po’ per vezzo mi chiedo e ti chiedo lettore/lettrice se non possiamo provare ad osservare questa coppia di termini in modo “obliquo”. Possiamo in altre parole pensare in un altro modo ai “ponti” e ai “muri” guardandoli da una prospettiva diversa? Più nello specifico, possiamo provare a ribaltare l’esito dell’esperimento mentale di cui si diceva poc’anzi giungendo magari ad un risultato poco intuitivo e di segno differente? Può un muro non essere il contrario di un ponte bensì essere un ponte? Può un muro essere qualcosa che collega o che ci conduce da qualche parte, pur non per questo rinunciando necessariamente a svolgere la sua funzione di schermo e di limite? Ma soprattutto, seppure potessimo condurre un percorso che porta a questo esito, che cosa ci insegnerebbe, quale sarebbe il guadagno netto per la nostra riflessione?
Da qui in avanti nelle prossime pagine proverò a fare qualche esempio che possa rendere ragione di questo paragrafo iniziale, forse un po’ bizzarro e convoluto. Diciamo subito però che un muro è un ponte nella misura in cui un muro mostra sempre qualcosa: in questo senso un muro conduce sempre da qualche parte e metaforicamente svolge il compito di dirci qualcosa su ciò che sta da questa parte del muro e ciò che sta dall’altra parte del muro. In questo modo il muro, pur in qualche modo distinguendo gli ambiti e per questo impedendo i contatti tra le due regioni che vi si affiancano, svolge la funzione di ponte e le collega. Facciamo qualche esempio, cominciando con qualcosa di estremamente semplice. In questo momento sto scrivendo al computer seduto sul divano di casa mia: alzo lo sguardo e di fronte ho la parete dell’appartamento che condivido con mia moglie e con due gatti; il muro dice casa, il suo colore caldo inscurito dal sole che cala mi suggerisce qualcosa che ha a che fare con l’essere protetto, curato, quasi qualcosa di materno. L’effetto è rinforzato dalle fotografie, dalle piante, dai libri che vedo infilati in uno scomparto sotto una vetrina attraverso dei quali si intravedono delle scatole di pasta e una confezione di pellicola. Oltre questo muro, sono fuori di casa mia e guardandolo io percepisco la presenza implicita dell’esterno. Questo non è necessariamente qualcosa di minaccioso – per me non lo è – ma so che ovviamente fuori di questo luogo valgono regole diverse, che non mi posso comportare come a casa mia, etc., etc. . Potremmo ovviamente ripetere l’esperimento con i muri di altre stanze e otterremmo ogni volta un risultato differente, una diversa percezione, una diversa tonalità emotiva e costellazione concettuale che è contenuto e forma di quanto viene evocato ed esperito anche grazie a questo muro.
Se uscissimo di casa (o dal nostro ufficio) e facessimo una passeggiata per la città in cui viviamo vedremmo ovviamente una serie di muri. Alcuni di questi muri comunicano un messaggio alquanto esplicito – svolgono apertamente la loro funzione di ponti – nella misura in cui sono stati adibiti o addirittura eretti per svolgere questa funzione. Nello specifico vorrei soffermarmi sugli spazi pubblicitari: molti muri nelle nostre città sono superfici specificamente dedicate alla pubblicità, oppure per l’appunto sono stati eretti (pensiamo ai cartelloni) con lo scopo precipuo di mostrare una pubblicità. La pubblicità ha lo scopo, a fine di lucro chiaramente, di proiettarci in un mondo di fantasie, che catturino la nostra attenzione e ci portino a desiderare quanto viene pubblicizzato. Questo a volte può avere degli effetti estremamente molesti. Per esempio, vicino alla stazione dei treni di Pordenone – mia città natale – si trova una curva, sopra la quale si trova un cartellone pubblicitario, un rettangolo orizzontale, che tradizionalmente è comprato da una nota marca di biancheria intima femminile. Tradotto: metri quadri di immagini di modelle semi-nude, scosciate e adeguatamente foto-shoppate. Ricordo ancora il giorno in cui il professore di italiano del liceo ci raccontò – ridendosela – che aveva appena letto sul giornale un articolo in cui si sosteneva che, sulla base di accurate ricerche, era risultato che su quella curva si verificava un numero sproporzionato di incidenti automobilistici – causa apparente l’insufficiente attenzione data alla guida da parte degli autisti. Questo spero valga come esempio “grafico” del potere dei muri, adeguatamente addobbati, di costruire dei ponti tra un al di qua e un al di là, e della loro capacità di catturare la nostra attenzione e immaginazione in modo estremamente potente.
Un esempio più serio di questa dinamica si può evincere da qualcosa che mi è capitato di osservare di recente. L’ultima moda in fatto di pubblicità a Milano è quella di produrre delle réclames in forma di murales – cosa di per sé anche apprezzabile devo dire, dato che “sbattono” molto meno l’occhio e in genere sono disegnati con una buona perizia artistica. In una via nei pressi di Porta Garibaldi si può osservare la fiancata di un edificio di fatto appaltata ormai da diverso tempo a una singola azienda di moda, sicché, ciclicamente, il murales di turno viene cancellato, ridisegnato, e uno nuovo ne prende il posto. Circa un mese fa stavo percorrendo a piedi questo spazio urbano e, alzato lo sguardo vidi per l’appunto il murales di turno. Esso consisteva in una rappresentazione pittorica di quattro modelli – in realtà una band “rock” che fa furore in questi ultimi, sciagurati, tempi – che ovviamente indossavano i prodotti dell’azienda. Uno dei quattro era ritratto in piedi, con un libro in mano; aguzzando la vista si poteva leggere il titolo in copertina: “Walter Benjamin: l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Verso quale mondo ci porta questo muro/ponte, rappresentante un mix di cultura “alta” e “pop” con tanto di un’opera di un noto anti-capitalista messa al servizio del glamour di una molto più nota azienda di moda?
3. I confini cittadini
L’ultimo passaggio su Milano ed i suoi volti ci porta ad allargare il livello dello sguardo. Se un muro può essere un ponte non lo fa solo rispetto al contenuto suo proprio, ma anche rispetto al suo contesto: cioè, la pubblicità murales di cui sopra non ci porta solo verso un immaginario e un messaggio che dovrebbero condurci a comprare vestiti e occhiali di una certa azienda, bensì, ci dice anche qualcosa sul luogo in cui si trova – ci dice qualcosa su Milano, ci proietta come un ponte verso il cuore della città che esprime sé stessa mostrandoci una delle espressioni della sua vita. Come ogni città moderna, anche la capitale lombarda ha lo scopo e la natura di essere un luogo di pubblicità commerciale, questo perché, tra le altre cose che una città analoga fa ed è, essa è un luogo permeato da un certo regime economico e culturale che coinvolge la produzione di pubblicità, etc., etc.. Quindi il murale di cui sopra, se fatto oggetto di contemplazione e riflessione, ci mette in cammino verso un certo mondo dello spirito umano che si esprime, tra gli altri modi, tramite la pubblicità commerciale e che permea un certo spazio geografico che include Milano.
Due rapidi esempi alternativi per fissare meglio il punto: 1) un amico di recente mi raccontava di una sua visita a Cuba, luogo di nascita e di residenza della futura moglie, e mi diceva che la cosa più strana della sua visita era che a Cuba – o perlomeno nei contesti in cui si era trovato lui – non c’è la pubblicità. Roba da non crederci, letteralmente. Beninteso, questo lo scrivo da non-fan dei socialismi reali; mi serve solo per indicare l’esempio contrario a quello appena fatto: in una città dove non c’è la pubblicità ci troviamo, evidentemente, in presenza di un mondo dello spirito umano che differisce da quello imperante a Milano. 2) Altro termine di paragone, forse un po’ impietoso, sono i muri dipinti dell’urbe di cui Tommaso Campanella parla nell’opera utopica La Città del Sole, laddove le pareti di questo luogo sono come un libro aperto che mostrano e insegnano i contenuti delle diverse scienze, nonché delle dottrine religiose alla base del progetto teo-politico campanelliano.
Arrivando al punto, spostiamo una terza e ultima volta il luogo di questa riflessione su come un muro possa essere un ponte. In primis l’abbiamo proposta all’interno delle mura domestiche, poi l’abbiamo proposta in merito alle mura infra-cittadine, infine rivolgiamoci ora alle mura che circondano la città. Questo è ovviamente un concetto che in un’epoca come la nostra può risultare un po’ sfuggente, a meno che, ovviamente, non si viva a Lucca o in qualche altro luogo in cui la cinta muraria sia stata preservata. Sta di fatto che nella tarda modernità sappiamo e osserviamo come le mura cittadine siano state normalmente e in buona parte abbattute; ciò è avvenuto per una serie di motivi, ma in generale esse sembravano aver esaurito la loro funzione difensiva e costituivano semmai un impedimento all’espansione urbana dei centri abitati. Ora stiamo forse vedendo un’inversione del trend, sicché scopriamo che le buone vecchie barriere fisiche verticali in fondo hanno un loro senso. Del resto, se non si dispone di un lanciarazzi, un carro-armato, un elicottero, o quantomeno una buona scala, non è mica semplice passare oltre un muro di cemento – per quanto esso possa sembrare un dispositivo antiquato. In effetti da cittadini europei potremmo riflettere su come il futuro a breve e medio termine della nostra compagine sociale sembri essere definito almeno in parte dai muri. Muri che non dicono solo qualcosa a quelli che stanno al di là di essi (“voi siete fuori”), ma che dicono a questi ultimi qualcosa di quelli che stanno al di qua dei muri (“loro sono dentro e vi vogliono fuori”).
Infine, questi muri possono dire qualcosa di coloro che stanno all’interno di essi su coloro che stanno all’interno di essi – e cioè su loro/noi stessi. In altri termini, come nel caso dei muri di casa mia, anche un muro al confine tra la Polonia e la Bielorussia dice qualcosa su chi sta ad Ovest di esso – e ovviamente non mi riferisco esclusivamente ai polacchi, che da questo punto di vista agiscono solo come parte di un insieme. Io guardo l’interno dei muri di casa mia e mi riconosco come occupante e abitante della casa; Romolo, dopo aver tracciato il solco su cui sarebbero sorte le mura di Roma, le guardava pensandosi come il re della città che sarebbe sorta e già vedeva nel fratello Remo una minaccia. Quando guardiamo al confine orientale dell’impero, con le legioni di Frontex schierate a protezione del limes, che cosa vediamo di noi?
4. Un ponte che unisce il cielo e la terra
Come le città e gli imperi, anche le dimore del divino hanno le loro mura e i loro accessi che collegano questo mondo a quelli trascendenti. Per esempio, secondo la mitologia norrena esiste un ponte, il Bifrost, che unisce la terra con il cielo – Midgard, la dimora degli esseri umani, con Asgard, la dimora delle divinità Aesir che ci osservano dall’alto. Il Bifrost è rappresentato come un arcobaleno bruciante, che s’innalza in spazi stellari fino al suo termine, laddove si erge il castello di Himinbjörg, abitazione del dio Heimdall, il guardiano della soglia che tiene sorvegliato il confine della porta degli dèi. Secondo le saghe, negli ultimi giorni, al che si allunga l’ombra del Ragnarök – “il fato degli dèi” – i figli di Muspell, i giganti del fuoco che abitano questo reame di combustione e distruzione, marceranno fino ad Asgard guidati dal gigante Surtr (il cui nome significa “l’Oscuro”); l’arcobaleno crollerà disperdendosi in mille pezzi sotto il peso del loro incedere. I giganti combatteranno con gli dèi dentro la loro casa e prevarranno: alla fine, avendo conquistato la cima del cielo, Surtr userà la sua spada di fuoco per incendiare l’intero universo. La vita umana in qualche modo sopravviverà a questa catastrofe, ma dovrà in ripartire da capo, senza peraltro una garanzia che, in un tempo lontano, una nuova catastrofe non si porti via i nuovi dei e la nuova civiltà che si saranno nel frattempo sviluppati.
Proviamo a riflettere un momento su questa storia utilizzando gli elementi che sono stati sviluppati nelle sezioni precedenti. Anche qui abbiamo un ponte e abbiamo un muro: da un lato il Bifrost, che tiene aperti i collegamenti tra cielo e terra e dall’altro le mura di Himinbjörg che segnalano e bloccano l’ingresso al mondo degli dèi. Anche in questo caso è facile ribaltare una figura nell’altra: il Bifrost è un muro perché esso pur invitando ad un movimento ascendente – per entrare nel regno degli dei bisogna che noi saliamo il ponte – esso è allo stesso tempo sorvegliato e quindi può chiudersi qualora l’accesso di qualcuno in particolare non sia gradito; ma allo stesso modo Himinbjörg è anche un ponte, perché, come in qualche modo fanno i murales di Milano, ci mostra la punta avanzata del mondo degli dei e quindi comunica che noi che stiamo da questa parte siamo i mortali – che però, chissà, possono anche ambire a visitare questo regno fantastico.
Cito questi racconti leggendari perché ho l’impressione che molti di noi oggi vivano irriflessivamente all’interno di queste storie. Non nel senso che la nostra società sia popolata da seguaci di Thor e di Odino – sebbene nel variegato panorama attuale nemmeno quelli manchino del tutto – bensì che sia in verticale sia in orizzontale noi ci concepiamo come se vivessimo all’interno di una storia che, nei suoi aspetti fondamentali, si presenta come queste saghe nordiche che ho qui rapidamente ricordato. In verticale, perché ci pare che il cielo sia chiuso e che il Bifrost si sia parzialmente già frantumato: magari i giganti di fuoco non hanno ancora concluso il loro lavoro – il fuoco cosmico non ci ha ancora consumato – ma probabilmente stanno già battagliando con gli Aesir; di sicuro hanno già percorso parte del loro tragitto e la loro marcia ci ha già lasciato alle spalle. I cieli sono diventati imperscrutabili per noi, perché l’estremità del Bifrost che ci tocca si è già frantumata; quanto, se qualcosa, rimanga del ponte di arcobaleno non ci è dato saperlo e comunque, interrotte le comunicazioni, ci è impossibile sapere che cosa succeda lassù e quanto tempo ancora manchi prima dell’immancabile catastrofe – l’unica cosa a noi nota è che essa è in cammino verso di noi. In orizzontale, perché forse siamo noi gli dèi in decadenza: in qualche modo la nostra sorveglianza di ciò che stava alla nostra porta è stata elusa, ed ora l’oscurità, la morte, il conflitto sono alla nostra porta e si stringono intorno a noi, anzi, hanno già messo un piede dentro Asgard e c’è chi dice che la santa dimora di Valhalla – luogo di feste e riposo – sia già stata violata.
Come e in che misura queste due visioni che s’intrecciano, l’una di un cielo chiuso e probabilmente in piena devastazione, l’altra di un orizzonte che si fa sempre più cupo e che si chiude su di noi, siano effettivamente una buona descrizione della situazione reale o perlomeno di come noi la percepiamo, lo lascio alla riflessione del lettore/lettrice. Per canto mio, ho la forte impressione che molte delle nostre narrazioni e sensazioni si collochino di fatto all’interno di qualcosa di molto simile a questo mondo di immagini; ora, vi dirò la sincera verità: credo che questa storia sia una pessima storia. Sicuramente la saga degli Aesir è avvincente ed è stata fonte di ispirazione per tanta buona musica ed altrettanti libri ed opere d’arte di ogni genere; ciò detto, lo ripeto, è una brutta storia, per un fatto molto semplice: il suo orizzonte termina con la distruzione. Certo, c’è la rinascita, ma la morte, il disastro è ciò che in questa leggenda mette in prospettiva tutto il resto; vivere in questo mondo significa essere definiti più dalla morte che dalla vita e, se veramente ci stiamo dentro e decidiamo che questa storia è in fondo una brutta storia, allora forse ne dovremmo trovare una migliore.
5. “Un muro d’oro puro, simile a terso cristallo”
Da qui in avanti cercherò quindi di raccontare una storia diversa, finalmente tenendo fede al titolo di questo breve scritto. Qual è l’opposto di Himinbjörg e di Bifrost? Dunque, se Himinbjörg è letteralmente “la cima del cielo” – questo è il significato del suo nome – bisogna che il suo opposto sia la medesima cosa di segno però inverso: una cima del cielo che stia in terra, che scende da noi, mentre prima eravamo noi a dover salire ad essa. In questa immagine non c’è un Bifrost, se non come coda lasciata dalla traccia della cima che scende, come se una meteora che si dirigesse verso il suolo terrestre si lasciasse alle spalle il segno del suo passaggio indicandoci il luogo del suo atterraggio.
Scrive Giovanni nell’Apocalisse che porta il suo nome:
«Poi venne uno dei sette angeli […] egli mi trasportò in spirito su una grande e alta montagna, e mi mostrò la santa città, Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, con la gloria di Dio. Il suo splendore era simile a quello di una pietra preziosissima, come una pietra di diaspro cristallino» (Ap. 21:9-11).
Qui al veggente viene concesso di vedere qualcosa che accadrà pienamente solo al termine della storia, ma che già esiste tra noi, come vedremo tra poco: Gerusalemme – quella celeste, la “città del Dio vivente” (Ebr. 12:22) di cui quella terrena è un riflesso (cfr. Ga. 4:24-26, ma l’intero concetto di una Gerusalemme celeste emerge dal patrimonio ebraico e vetero-testamentario ed è ben attestato in esso) – scende tra di noi avvolta dalla gloria di Dio. A questo proposito, vale la pena di citare anche un altro passo estratto dal medesimo testo, allorché Giovanni descrive Dio seduto sul suo trono nei cieli: «Colui che stava seduto era simile nell'aspetto alla pietra di diaspro e di sardonico; e intorno al trono c'era un arcobaleno che, a vederlo, era simile allo smeraldo» (Ap. 4:3). Dunque, Dio che esprime la sua gloria seduto sul suo trono è circondato da un arcobaleno smeraldino; ergo, possiamo immaginarci questa città che scende dal cielo circondata dalla gloria di Dio e avvolta allo stesso tempo da un arcobaleno che essa si lascia alle spalle. Non siamo più noi a dover risalire l’arcobaleno sperando che Heimdall ci dia l’accesso – operazione che peraltro i giganti di Muspell sembrano aver reso impossibile – ma in questo caso sono il Valhalla e Himinbjörg – il luogo del riposo e la cima del cielo – che scendono con e lungo l’arcobaleno (già mostrato come segno del patto di pace tra Dio e l’uomo alla fine del racconto noachitico di Genesi 9-10) per essere tra di noi e non vi è traccia di giganti e di spade di fuoco che incendiano la volta celeste in questa città, poiché in essa «non vi sarà più nulla di maledetto» (Ap. 22: 3) ed essa sarà «il tabernacolo di Dio con gli uomini» dove «Egli abiterà con loro” ed “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap. 21:4).
Per due volte nei passi apocalittici che abbiamo citato troviamo la menzione del diaspro: simile al diaspro è lo splendore della Gerusalemme celeste, simile al diaspro è l’aspetto di Dio stesso. Giovanni rincara la dose dicendoci che «le mura erano costruite con diaspro e la città era d’oro puro, simile a terso cristallo» (Ap. 21:18). Il diaspro è un quarzo di colore vivace e acceso, ma normalmente opaco. Vediamo come però Giovanni in Ap. 21:11 parli di un “diaspro cristallino” che quindi siamo invitati ad immaginarci come trasparente; allo stesso modo ci viene detto che di diaspro sono le mura e che la città è d’oro puro, ma anche in questo caso essa è simile al terso cristallo. L’insieme di tutto ciò ci dà l’idea di una città splendente di una luce ora descritta come dorata, ora descritta come variopinta (cfr. Ap. 21:19 e seguenti), e che è accesa da una luminosità che è insieme una e molteplice, ma che in definitiva non le viene da sé stessa bensì da un’altra fonte. Questa fonte è per l’appunto Dio stesso e la sua gloria, sceso in terra con la sua città per dimorare tra noi: «La città non ha bisogno di sole, né di luna che la illuminino, perché la gloria di Dio la illumina e l’Agnello è la sua lampada» (Ap. 21:23).
Quindi: in questa storia il ponte/muro viene invertito in un muro/ponte, perché la discesa delle mura gerosolimitane ci mostrano il collegamento aperto e percorso da Dio per raggiungerci e non quello che noi dobbiamo percorrere – ammesso e non concesso che ciò sia possibile – per innalzarci a lui; qui si parla della vicinanza con Dio, non della sua distanza. In secondo luogo, la visione della Gerusalemme celeste ci parla di mura di una città che sono un ponte, un accesso, per un luogo che a sua volta è un accesso alla stessa persona di Dio, il consolatore. Essa stessa nella sua struttura (che va ben oltre i dettagli frammentari qui riportati) è un invito teso a inverare ciò che scrive il veggente: «essi saranno i suoi popoli […] le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra vi porteranno la loro gloria» (Ap. 21:3,24).
Chiaramente tutto ciò è visto da Giovanni secondo una previsione di tempi futuri: la Gerusalemme celeste è ancora nella sua sede in attesa della pienezza dei tempi; l’oscurità abita ancora in questo mondo e svolge i suoi traffici apparentemente indisturbata, convinta di aver chiuso tutte le vie di fuga e di accesso, di aver fatto esplodere i ponti della luce e aver eretto ovunque muri di tenebra. Il punto è però che la visione di Giovanni pone il termine di una storia che non è lo stesso termine che vediamo nella figura di Surtr, che stagliandosi sovrano su ogni cosa dopo aver spodestato Odino (detto “allvater”, “padre di ogni cosa”) si dedica alla sua gioiosa opera di distruzione. Qui invece vediamo una prospettiva dove è alla fine la vita, nonostante la morte, a prevalere, una prospettiva che Surtr e i figli di Muspell devono temere, perché prima della discesa della Gerusalemme Celeste essi saranno gettati in uno stagno di fuoco e zolfo e il fuoco cosmico non sarà la distruzione del creato, bensì il segno e lo strumento del loro giudizio (Cf. Ap. 20:7-10).
All’interno storia dei norreni ci può essere ottimismo, se con questa parola comprendiamo un’attitudine negazionista verso il male che fa festa nel Valhalla mentre i giganti incedono, oppure che si ostina ad ignorare gli avvertimenti di Heimdall che suona l’allarme; l’ottimista così inteso spera che alla fine in qualche modo i problemi si risolvano da soli o che comunque passino senza toccarlo. Eppure, sotto la superficie della sua coscienza l’ottimista sa che il suo destino è segnato e che non c’è scampo, che alla fine la morte verrà anche per lui e per tutto il suo mondo. Se ci sarà un altro mondo dopo questo, lui non lo vedrà di certo e quanto esiste in questo mondo non esisterà comunque nel prossimo, se non in maniera flebile, come una distante memoria di ciò che fu. Inoltre, nulla promette che anche il nuovo mondo non sia minacciato da un nuovo Surtr; in fondo, chi può dire il contrario?
Nella storia del veggente Giovanni invece non c’è spazio per questo tipo di attitudine; l’Apocalisse passa più tempo a parlare del male delineandolo con gran cura e realismo, che se non a concentrarsi sul bene e sulla sua natura. È però questo secondo elemento che è sovrano e mette in prospettiva il primo. Questa configurazione impedisce l’ottimismo – perché il male è messo in primo piano e non nascosto – ma dà ragione di speranza e la speranza è una postura bellicosa: essa non è acquiescente come il beato ottimismo di chi si tappa le orecchie alzando il livello del volume delle casse. La speranza invece è una postura bellicosa e belligerante, perché vede l’oscurità e ne percepisce l’incedere soffocante, ma, siccome ha visto una luce accesa in mezzo al buio, si rifiuta – in maniera risolutamente ostile – di credere che all’oscurità sarà concesso di avere l’ultima parola e che invece sarà proprio quella luce, che ora magari sembra piccola e poca cosa, che è infine destinata ad accendere di gloria ogni cosa.
6. e il Natale?
Ok, ma il Natale che cosa c’entra? Beh, il primo Natale è un episodio cardine della storia del veggente Giovanni, perché, come si è già scritto, è l’Agnello che è la lampada della gloria di Dio – il contenitore e rifrattore della luce del fuoco che accenderà la Gerusalemme celeste e che cancellerà la notte. Questo Agnello – chi legge ci sarà già arrivato – è lo stesso di cui è stato detto che “toglie l’hamartian [lit. mancare il bersaglio, per estensione “prendere una strada sbagliata”] del mondo”, perché ci conduce di nuovo sulla strada e sul ponte giusto, non quello che porta al muro dell’oscurità, bensì quello che, a partire dalla luce di cui l’Agnello stesso è la lampada/muro-trasparente, ci collega al cuore di Dio. Leggiamo del resto come al termine del noto prologo del quarto Vangelo, Giovanni scriva «la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre». La gloria: Gesù di Nazareth è l’essenza, l’avanguardia e l’anticipo di quella stessa gloria che infine apparirà nella sua maestà, avvolgendo ogni cosa a partire dalla Gerusalemme celeste. Come lui stesso dice di sé stesso, egli è «la luce del mondo» (Giov. 8:12) che «splende nelle tenebre» e che da esse non è stata sopraffatta (Giov. 1:5).
Sebbene la Parola abbia abitato tra noi (lit. «abbia piantato la tenda») solo per un tempo – e qui possiamo soltanto indicare per motivi di spazio il dramma pasquale, perché il Natale senza la Pasqua rimane incomprensibile – egli ha lasciato dietro di sé lo Spirito, il Consolatore che viene dal Padre, che è lo Spirito della Verità che testimonia di Gesù (Giov. 15:26), rendendocelo presente e tenendo accesa nelle tenebre la sua luce, tanto ora come in Israele due millenni addietro – come recita l’inno evangelico, “Thank you oh my Father, for giving us your Son, and leaving your Spirit, 'til the work on earth is done”. Insomma, il ponte è ancora qui, davanti ai nostri occhi, rendendo già attuale – in modo parziale e confuso, ma non per questo meno vero – ciò che al tempo giusto ci raggiungerà dall’altra estremità del passaggio. E qui, potremmo dire che il Natale si sdoppia e con esso anche l’augurio di “buon Natale” che possiamo rivolgere al nostro prossimo. Perché il Natale può essere una festa delle luci, della gioia effimera e dello spreco, una manifestazione del Valhalla che festeggia e che tiene acceso il proprio bagliore e la propria vitalità fintanto che essa dura e fintanto che è possibile tenerlo acceso; oppure il Natale può essere la memoria vivente di quella fredda notte invernale in cui, come un lampo di ciò che è, ma che ancora dev’essere, pastori raccolti intorno a una mangiatoia hanno visto i cieli accendersi della gloria della città di Dio. Se questo è il Natale, allora esso è un raccogliersi intorno a una luce che illumina e che sta accesa di per sé, ed è un radunarsi intorno a un fuoco che scalda e che brucia spontaneamente con vita propria.
Insomma, come a partire da questa coppia – muri e ponti – abbiamo tratteggiato due storie diverse, così abbiamo trovato al Natale due diversi spazi da occupare in ciascuna di queste due storie. Sono di fatto due feste diverse, che convivono assieme, ma si escludono a vicenda. Come ogni buona festa, ciascuna si accompagna con una musica e quindi entrambe le versioni del Natale hanno un loro sound. Il sound della seconda versione di questo Natale, quello che interessa al veggente Giovanni si esprime bene con queste parole (purtroppo la musica qui non ve la posso fare sentire, ma credo che molti di voi la conoscano già):
“Venite, venite in Bethlehem. Natum videte regem angelorum […] Aeterni Parentis splendorem aeternum, velatum sub carne videbimus […] pro nobis egenum et foeno cubantem, piis foveamus amplexibus. Sic nos amantem quis non redamaret?”
Ed allora buon Natale a tutte e tutti: Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra agli uomini di buona volontà.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 7) Gaza. Il dramma del fanciullo palestinese e il muro dell'indifferenza. Quali ponti per il futuro? di Karim El Sadi
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In copertina uno dei murales realizzati da Bansky sul muro di Gaza
Sommario: 1. Introduzione - 2. Lampi di luce e sguardi distolti, la quotidianità che uccide - 3. Gli invisibili che camminano nel terrore - 4. Una generazione mutilata - 5. Abbattere muri, costruire ponti.
1. Introduzione
“Vorrei poter correre a piedi nudi in ogni campo profughi e tenere in braccio ogni bambino, coprirgli le orecchie in modo che non debbano sentire il rumore dei bombardamenti per il resto della loro vita come faccio io”.
Recitava così, nel 2011, Rafeef Ziadah, poetessa e attivista palestinese naturalizzata canadese. Quanto appena letto è un breve estratto del poema “”We teach life” (“Noi insegniamo la vita”), recitato dalla giovane a Londra. Un monologo potentissimo, divenuto virale in tutto il mondo, in cui la poetessa denuncia il silenzio della comunità internazionale sul dramma di Gaza rovesciando la narrativa sionista e riaccendendo un faro sui giovani della Striscia. Le sue sono parole cadenzate e commoventi che si vedono trasformate periodicamente in realtà ogni qual volta Israele rovescia tutta la propria violenza omicida contro i “gazawi” (gli abitanti di Gaza).
Come nell’ultima recentissima offensiva lanciata a inizio maggio di questo 2021. Undici giorni di bombardamenti incessanti in cui le scene descritte dalla Ziadah hanno preso forma in tutta la loro drammaticità: i raid, le morti, i feriti, le tv e il dramma dei giovani. Ed è su costoro che questo editoriale si vuole concentrare. Durante l’ultima offensiva criminale israeliana ribattezzata “Guardiano delle mura”, sono stati i giovani quelli più colpiti dalla violenza cieca e spropositata dell'aviazione di Tel Aviv. “Un inferno inevitabile”, l’ha descritta l’ONG Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.
“Israele ha deliberatamente preso di mira aree civili densamente popolate e ha usato indiscriminatamente armi esplosive mortali durante la sua campagna di attacchi aerei”, ha denunciato l’ONG Aiwars lo scorso 9 dicembre.
In questo “inferno”, dei 259 uccisi sotto le bombe dell'aviazione e dell'artiglieria israeliana (1500 sono i raid dichiarati da Tel Aviv) 41 erano donne e 66 bambini o ragazzi. In rapporto: circa 1 vittima su 4 dei missili israeliani era un bambino o una bambina. Non solo. Altri rapporti ufficiali notificano che oltre un terzo di tutte le vittime civili segnalate a Gaza era di età compresa tra 0 e 17 anni.
Nei giorni dell'offensiva sono stati uccisi quasi un minore al giorno, per lo più rimasti uccisi in bombardamenti notturni in cui, a morire sotto i missili insieme a loro, sono stati anche i vari membri delle famiglie.
Ma questa escalation è solo l'ultima di una lunga serie. Il dramma che affligge Gaza, e in particolare i giovani della Striscia, è ultradecennale e non è solo di carattere militare, ma anche politico, economico e sociale.
2. Lampi di luce e sguardi distolti, la quotidianità che uccide
Gli occhi dell’opinione pubblica in Italia - e in generale nel mondo - tendenzialmente si soffermano su Gaza - un fazzoletto di terra bagnato dal Mediterraneo di 360 km² - solo quando a illuminarla sono i lampi delle bombe israeliane o il fuoco dei razzi lanciati sulle città israeliane dalla resistenza palestinese. Quello che Gaza vive quotidianamente però, specialmente quello che vive la sua gioventù, viene completamente ignorato. La vera grande tragedia di Gaza è proprio questa: la quotidianità. Ed è nella quotidianità che Gaza perisce, giorno dopo giorno. Un’agonia iniziata nel 2007 quando, dopo la vittoria alle elezioni politiche del movimento islamista di resistenza Hamas, e un periodo di tensioni che poi scoppiarono a fine 2008 con la tragicamente famosa operazione “Piombo fuso” di Tel Aviv (1400 morti palestinesi di cui circa 300 bambini), Israele impose il blocco sulla Striscia di persone e di merci. Una misura condannata dalle Nazioni Unite e dalle principali organizzazioni per i diritti umani. Il blocco è di carattere militare, terrestre e navale e tuttora restringe le importazioni di beni e l’erogazione di servizi - inclusa la fornitura di energia elettrica - verso il territorio palestinese, soffocando, così, l respiro economico della Striscia.
A tutto ciò bisogna aggiungere che i quasi due milioni di palestinesi che vivono sotto assedio nella Striscia, il 56% al di sotto dei 18 anni, sono privati del bene più vitale: l'acqua.
Il 95% della popolazione - anche solo per bere e cucinare - dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata, con tutti i rischi che ciò comporta. Una situazione aggravata dopo i bombardamenti di maggio che hanno preso di mira una buona parte delle infrastrutture della Striscia.
In aggiunta, quasi la metà degli abitanti di Gaza non ha cibo a sufficienza; gli ultimi dati del 2019, cioè due anni prima l’ultima offensiva di Israele, certificano un tasso di disoccupazione salito oltre il 49%. Particolarmente marcato è il tasso di disoccupazione tra le giovani donne (15-29 anni) che raggiunge il 92%, contro il 63,2% di disoccupazione degli uomini della stessa fascia di età. Mediamente il tasso complessivo di disoccupazione giovanile a Gaza è cresciuto dal 64,2% nel primo trimestre, al 69,9% nel secondo. Gli effetti del blocco israeliano si vedono pertanto nella vita di tutti i giorni. Senza poi contare le gravose conseguenze della pandemia da Covid-19 che ha piegato ancora di più la popolazione sia dal punto di vista umano che economico. Parliamo di 1,9 milioni di persone attualmente rinchiuse in un’area molto ristretta di territorio che non possono uscire senza autorizzazioni delle autorità israeliane o egiziane a seconda del valico da attraversare. “La prigione a cielo aperto più grande al mondo”, così viene descritta Gaza dagli esperti. E in questa “prigione” il commercio è praticamente inesistente, le famiglie sono divise e le persone non possono muoversi liberamente per curarsi, lavorare e tantomeno studiare.
Secondo Oxfam più di 740 scuole si trovano in grande difficoltà per la carenza di energia elettrica, che è disponibile per sole 4-5 ore al giorno, altre invece sono state bombardate o danneggiate dai bombardamenti (circa 50 scuole hanno subito danni strutturali nei raid di maggio) nel corso di questi anni.
Nel 2012 l’ONU dichiarava Gaza a rischio di invivibilità entro il 2020. Uno scenario che però, secondo Save the Children, si è palesato già nel 2018: oggi un milione di bambini sono costretti a vivere in condizioni inaccettabili.
3. Gli invisibili che camminano nel terrore
Per tutte queste ragioni, si può dire chiaramente che da anni Israele viola quotidianamente, in maniera più o meno diretta, la quasi totalità dei diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti del fanciullo approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1959. A Gaza, attualmente, vivono circa un milione di minori. Chi ha 13 anni a Gaza ha già vissuto quattro aggressioni militari (2008, 2011, 2014, 2021). Molti di quelli scampati ai missili e all'artiglieria, purtroppo non sono scampati ai traumi che questi hanno provocato. Traumi che segneranno la loro esistenza fin dalla più giovane età e con i quali dovranno continuare a camminare e convivere.
Per esempio, il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo all’operazione dell’esercito israeliano “Margine protettivo” del 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all'uccisione di persone, per lo più familiari. La conseguenza più diffusa era il disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell'individuo a eventi traumatici o violenti. Nello studio, erano stati registrati sintomi psicologici come continui incubi e flashback, paura di uscire in pubblico o di rimanere soli. Ma anche problematiche fisiche come disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; oltre ai disturbi emotivi che includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. Essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni, vedere soldati, spari, omicidi, corpi dilaniati, sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria di un individuo.
4. Una generazione mutilata
Restando sulla violenza esercitata sulla popolazione civile, sempre analizzando la questione dei giovani di Gaza, altro aspetto importante è quello della “gioventù mutilata”. L'oppressione, il contesto sociale in cui vivono i ragazzi e le ragazze, la disillusione, la pressoché totale assenza di prospettive future e la cornice della profonda fragilità politica, hanno fatto in modo di trasformare la delusione giovanile in rabbia e pretesa di giustizia. Questo sentimento di resilienza spesso si manifesta ai confini della Striscia, lungo le linee di demarcazione con Israele dove periodicamente, da marzo 2018, data in cui i palestinesi ricordano la “Grande marcia del ritorno”, migliaia di palestinesi si riuniscono per manifestare contro il governo israeliano e le sue politiche repressive. Qui si tengono ampie proteste pacifiche, salvo il saltuario lancio di pietre e utilizzo di aquiloni incendiari, ai quali l’esercito israeliano risponde con una forza spropositata e criminale. Spesso, infatti, vengono piazzati cecchini e tiratori scelti dietro alle barriere di filo spinato che, con proiettili veri, fanno fuoco ad altezza uomo contro i dimostranti. Centinaia sono stati gli omicidi registrati (circa 200 solo nel 2018), tra questi anche giornalisti e infermieri presenti sul posto per soccorrere i feriti. Israele non guarda in faccia nessuno e spara deliberatamente e in maniera sistematica. Molti dei giovani colpiti, poi, se non perdono la vita (da marzo ad aprile 2018 sono stati uccisi circa 100 dimostranti) restano senza arti. Questo perché l'esercito utilizza “proiettili farfalla”, considerati banditi secondo il diritto internazionale, progettati per espandersi all'interno del corpo del bersaglio, sfracellando così braccia, mani e gambe.
5. Abbattere muri, costruire ponti
Giunti a questo punto, occorre soffermarsi, su quelle che dovrebbero essere le mosse politiche e sociali utili a favorire un cambiamento quanto ormai urgente e necessario. Per esempio, andrebbero favorite tutte quelle realtà sociali internazionali, incluse quelle israeliane che si discostano dalle politiche reazionarie e coloniali di carattere sionista, sensibili alla tematica e desiderose di solidarizzare con la popolazione sotto assedio. Molte di queste lavorano da anni, fianco a fianco, con la popolazione palestinese ma vengono ostacolate dalle azioni di contrasto di Tel Aviv. Parimenti andrebbero internazionalmente sostenuti gli spiriti di sano e corretto rinnovamento presenti all’interno della società israeliana, che possano rappresentare un focolare di resistenza culturale e opposizione politica ai progetti espansionistici coloniali di Israele e tutte le loro ramificazioni. Ma, ancor prima di questo, come osservano storici, analisti ed esperti, palestinesi e non, il primo passo da compiere è la revoca immediata del blocco su Gaza e la cessazione dell’assedio che soffoca il respiro economico e democratico della Striscia. Abbattere questo muro significherebbe consentire alla popolazione di Gaza di ripartire con le proprie forze e con la propria dignità - esemplare nel mondo - sotto numerosi punti di vista e offrire nuove e concrete opportunità alla popolazione civile, specie ai più giovani. Sono i giovani il presente e il futuro della Palestina. Sono loro che sono chiamati a raccogliere la staffetta della resistenza culturale di generazioni di padri. Ed è a loro che ritengo sia doveroso dedicare le ultime parole di questo editoriale con un passaggio della poesia del grande poeta siriano Nizar Qabbani che durante la Prima Intifada ha voluto dedicare agli scolari di Gaza:
“Questa è la rivoluzione dei quaderni e dell’inchiostro. Diventate sulle labbra melodie. Fate piovere su di noi valore e fierezza”.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 5) Il ponte fragile della ragione (Appunti sull’obbligo vaccinale)
di Marco Dell’Utri
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
La relazione dialettica tra sicurezza e libertà rappresenta un elemento costitutivo dell’idea moderna di politica. Ed è una relazione strettamente legata al dibattito sui fondamenti del potere, polarizzato nella contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo politico. Si tratta di un contrasto che la natura stessa della vicenda umana rende inevitabilmente ricorrente, e che ha più di recente assunto i volti spaventosi della tecnicizzazione totale dell’esistenza e, all’opposto, del rifiuto pregiudiziale di ogni tentativo di spiegazione ragionevole, sensata e comunicabile della realtà. L’esperienza costituzionale del nostro paese tentò di esorcizzare il rischio di quelle esasperazioni attraverso il riconoscimento del valore del pluralismo, della discorsività della ragione pubblica e della solidarietà sociale come comune denominatore etico ed emotivo. Nel solco di quei principi chiede di essere affrontato l’odierno dibattito tra fautori ed oppositori dell’obbligo vaccinale in funzione di rimedio alla minaccia epidemica. Ed è un ritorno che interroga ciascuno sul significato della consapevole assunzione della responsabilità dell’altro o, tutto al contrario, dell’attesa impotente, e dunque del rassegnato abbandono alle oscure forze del destino.
Sommario: 1. Politica e cultura - 2. Vaccinazione, conflitto sociale e senso dello stato - 3. Assonanze hobbesiane - 4. La tragica parabola del ‘dio mortale’ - 5. La Costituzione ‘presa sul serio’ - 6. Tecnica, razionalità scientifica e ragione discorsiva - 7. Dibattito politico e parametri di costituzionalità - 8. Responsabilità e destino.
1. Politica e cultura
A ridosso degli anni della guerra, tra le rovine di un paese disastrato e diviso, Piero Calamandrei veniva progettando, del tessuto della società italiana logorato da vent’anni di dittatura e dalla tragedia del conflitto, il disegno di un paziente lavoro di rigenerazione.
Si trattava di rianimare, sul piano civile e culturale, e in aperta polemica con le denunciate astrattezze dell’idealistica ‘religione’ crociana della libertà, i fili concreti delle ragioni della solidarietà sociale, nel solco di quella che (ispirata dalle pagine del ‘Socialismo liberale’ di Carlo Rosselli) Guido Calogero e Aldo Capitini andavano elaborando come l’anima del pensiero liberalsocialista.
A un simile compito, Calamandrei s’era accinto attraverso la voce di una tra le più importanti e significative riviste di cultura dell’epoca, ‘Il Ponte’, che lo stesso Calamandrei aveva direttamente concepito e fondato nel vivo di quegli anni.
Alla scelta del nome (il ‘Ponte’) Calamandrei aveva affidato, simbolicamente, l’evocazione del senso della ricostruzione dell’unità morale del popolo italiano dopo gli anni della profonda crisi e della disgregazione delle coscienze; un tempo che aveva condotto, secondo il giudizio di Calamandrei, “a far considerare le attività spirituali, invece che come riflesso di un’unica ispirazione morale, come valori isolati e spesso contraddittori, in una scissione sempre più profonda tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti”.[1]
Occorreva, dunque, rinnovare “in tutti i campi la fede nell’uomo, questo senso operoso di fraterna solidarietà umana per cui ciascuno sente rispecchiata nella sua libertà e nella sua dignità la libertà e la dignità di tutti gli altri. […] Se le convinzioni morali contano solo in quanto servono ad impegnare la vita, a dirigere e a promuovere atti in coerenza con esse, gli atti contano solo in quanto sono espressione e testimonianza di convinzione morale sentita come regola di vita”.[2]
Risuonavano, nelle parole di Piero Calamandrei, il rigore morale del giurista, del raffinato cultore del processo e, insieme, la passione civile dell’intellettuale impegnato a risvegliare la ‘fede’ nell’uomo e nel valore collettivo e politico della sua opera; del suo lavoro materiale (proprio lo studio dell’economia rappresenterà, per le pagine del ‘Ponte’, una delle novità di più rilevante significato nel contesto di un’impresa di matrice umanistica), e di quello intellettuale: dell’elaborazione culturale come energia, spinta morale, forza di promozione e di cambiamento della società tutta.
Anche Norberto Bobbio - che tra il 1951 e il 1955 era venuto raccogliendo i testi poi riuniti in ‘Politica e cultura’ - volle testimoniare il valore e il significato dell’iniziativa del ‘Ponte’ a distanza di trent’anni dalla sua nascita: “Quanta acqua è passata sotto quel ponte! E l’omino col badile sulle spalle è sempre lì, non è ancora riuscito a giungere dall’altra parte. Ma il ponte costruito in fretta con alcune assi trovate fra le rovine della guerra ha resistito. Credo che a Calamandrei l’idea fosse venuta dalla pena per i ponti di Firenze distrutti dai tedeschi in fuga. C’era in questa immagine, dunque, prima di tutto, l’idea che bisognava cominciare a ricostruire ciò che era stato distrutto. Ma in questa immagine c’era anche l’idea che si dovesse dare opera a ricongiungere ciò che era stato violentemente separato, il presente col passato, l’Italia con l’Europa e col mondo. In un’Italia devastata dalla guerra, la costruzione di un ponte, infine, era un’idea di pace (così come la metafora contraria del ‘bruciare i ponti alle proprie spalle’, è una metafora di guerra). Di una pace costruttiva, per attuare la quale non bisognava lasciarsi prendere dalla nostalgia del passato ma contare solo su sé stessi, come l’omino col badile, solo sulle proprie forze. E quando Calamandrei parlava di forze, intendeva quelle forze che una guerra infame non aveva distrutto, anzi aveva ingigantito, le forze morali”.[3]
Negli anni a venire, la sensibilità di Bobbio per il tema dei rapporti tra politica e cultura (sulle cui tracce sarebbe stata in seguito composta, alla fine degli anni ’60, la rassegna del ‘Profilo ideologico del Novecento’) avrebbe assunto le forme di un impegno riflessivo condotto sulla figura dell’intellettuale e sulle sue responsabilità nel mondo contemporaneo: “Viviamo in un’età in cui, fra tanti processi degenerativi […], mi pare che uno dei più preoccupanti […] sia la progressiva deresponsabilizzazione dell’individuo, una volta diventato uomo-massa. […] Mi limito a richiamare la […] frequenza, invadenza, insistenza delle manifestazioni di massa in cui l’individuo perde la propria personalità e si identifica, si perde, si annulla nel gruppo, non parla ma grida, non discorre ma inveisce, non ragiona ma esprime il proprio pensiero nello stile primitivo dello slogan, non agisce ma si agita, e fa gesti ritmici con il braccio teso, che – meraviglia dell’immagine trasmessa con rapidità fulminea da Paese a Paese – appaiono a noi attoniti, nonostante la varietà dei costumi, dei regimi e delle civiltà, eguali, perfettamente eguali in tutto il mondo. L’etica di gruppo prevale sull’etica individuale: intendo l’etica secondo cui la mia azione è imputabile al gruppo di cui faccio parte e solo il gruppo, quindi, qualunque azione compia, anche la più efferata, e che io personalmente non condivido, ne è il responsabile”. Da qui il passaggio sulla figura dell’intellettuale: “Intellettuale e massa sono due termini incompatibili: esiste l’uomo-massa, la massa anonima, amorfa, spersonalizzata, sempre più moralmente e politicamente degradata, delle grandi città, l’edilizia di massa, che ha reso tutte le città del mondo uguali […]. Non esiste, non può esistere, l’uomo di cultura di massa. O se esiste, e purtroppo esiste, nessuno di noi sarebbe disposto ad additarlo ad esempio. Il dire che non esiste, e non può esistere, l’intellettuale-massa, significa che per nessun altro vale il principio della responsabilità, intendo della responsabilità individuale, quanto per chi si assume il compito ingrato, difficile ed esposto continuamente al rischio dell’incomprensione o del fallimento, di esercitare la propria intelligenza per muovere e smuovere l’intelligenza altrui”.[4]
Individuato nella ‘politica della cultura’ il territorio in cui si manifesta ed esprime l’azione e la responsabilità ‘politica’ dell’intellettuale, Bobbio definisce quell’espressione (‘politica della cultura’) come “un determinato modo di intendere il rapporto fra politica e cultura, e quindi la funzione degli intellettuali, perché ha un suo modo specifico di intendere la politica e di delimitare la sfera della politica (intendo la politica ordinaria) e rispettivamente della cultura, che ha, deve avere, la sua politica […]. La politica non è tutto. Chi crede che la politica sia tutto, come crede l’uomo del ‘tutto o niente’, è già sulla via della politicizzazione o statalizzazione integrale della vita in cui consiste lo Stato totalitario. […] Solo chi crede che la politica non sia tutto giunge a convincersi che la cultura svolge un’azione a lunga scadenza anch’essa politica, ma di una politica diversa. La politica ordinaria […] è la sfera dei rapporti umani in cui si esercita la volontà di potenza, anche se coloro che la esercitano credono che la loro potenza – beninteso non quella degli altri – sia a fin di bene.[…] Solo chi crede in un’altra storia – vi crede perché la vede correre parallelamente alla storia della volontà di potenza -, può concepire un compito della cultura diverso da quello di servire i potenti per renderli più potenti, o da quello ugualmente sterile di appartarsi e di parlare con sé stesso”.[5]
Nella preservazione della libertà del dialogo e delle sue stesse condizioni di possibilità - e dunque nell’impegno a garantirne la difesa, Bobbio veniva quindi individuando il principio della responsabilità ‘politica’ dell’intellettuale, e, in definitiva, della sua stessa ‘legittimazione’ politica, nel contesto di una strutturazione istituzionale di tipo democratico: il contributo che l’uomo di cultura, e la cultura stessa, avrebbe infine assicurato alla difesa e allo sviluppo delle ragioni dell’uomo nel suo rapporto con la ‘città’
2. Vaccinazione, conflitto sociale e senso dello stato
L’idea che la voce dell’uomo di cultura possa o debba contribuire a rianimare le ragioni o il significato dei legami civili e politici delle nostre società assume un suo particolare valore in questi tempi di dolorosa meditazione collettiva sui temi ‘eterni’ della malattia e della morte come fatti sociali di quotidiana ricorrenza.
In un testo composto poche settimane orsono per le pagine del Corriere della Sera, Emanuele Trevi (intellettuale e scrittore tra quelli dotati di maggiore talento delle nostre più giovani generazioni) ha provato a ricapitolare il senso di impotenza che accompagna la convivenza civile smarrita nel conflitto insorto sulla disponibilità al vaccino contro il Covid-19 e sulla legittimità del c.d. green pass. [6]
Scrive Trevi: “Dovessi campare mille anni, leggendo e analizzando una per una le argomentazioni contro i vaccini e contro quel loro necessario complemento che sono i green pass, non riuscirei ad assimilare nemmeno un minimo frammento di quella maniera di pensare e di comportarsi. […] Ci vedo all’opera un’intelligenza, sarebbe meglio dire una parodia dell’intelligenza, priva di empatia […]. Sui due fatti centrali potremmo essere tutti d’accordo: i vaccini sono uno strumento ancora lontano dalla perfezione, non garantendo l’immunità in modo totale; e i green pass non andranno impiegati un giorno più del necessario, perché è vero, l’ombra del controllo pesa su tutte le società e non è certo una cosa da prendere sottogamba. Ma è proprio di fronte a queste constatazioni elementari che il discrimine tra gli esseri umani non è più l’intelligenza, ma l’empatia. Prendiamo il sentimento più elementare e comprensibile: la paura del vaccino. Chi di noi non l’ha provata? Ebbene la finta intelligenza, lasciata sola, è capace di costruire intorno al puro e semplice fatto della paura, che è difficile accettare ed ammettere in quanto tale, tutto un reticolato di motivazioni che possiedono l’apparenza di un ragionamento conseguente e supportato da fatti. È così che ci si condanna a vivere in quello che una grande scrittrice cattolica americana, Flannery O’Connor, ha definito «un mondo che Dio non ha mai creato». L’empatia, tutto al contrario, è una consigliera più prudente e insieme più aperta alle infinite possibilità della vita. Non esige da te che superi la paura del vaccino, non zittisce le tue eventuali preoccupazioni filosofiche sull’opportunità del green pass. Ti suggerisce solo di collegare la tua singola esistenza a ciò che è umano in te come negli altri. E di adottare strumenti imperfetti perché altri, per adesso, non ce ne sono. Perché molti medici possano tornare a occuparsi di tutte le altre patologie necessariamente trascurate, per esempio. Perché sia garantita la possibilità di visitare i malati nei luoghi di cura, per dirne un’altra, che è una parte irrinunciabile dei processi di guarigione. […] Il rischio esistenziale, ovvero la perdita di connessione empatica con l’umano, peserebbe sulla bilancia molto più di un supposto effetto collaterale o di una momentanea perdita di libertà. […] Degno dell’attenzione di un grande romanziere, è uno scenario sociale in cui la mancanza di empatia, di compassione, di rispetto per il sapere autentico si infiltra nelle case, nella cerchia degli affetti, addirittura nelle relazioni d’amore. […] Conosciamo tutti persone che non si sono vaccinate, o che pensano che mostrare il green pass in treno sia un attentato alla Costituzione […] Ogni giorno che passa ci cascano le braccia alla sola idea di discutere con loro. Perché ormai, è inutile che lo neghiamo, le armi della persuasione si sono totalmente spuntate”.
Alla desolazione che accompagna il riscontro dell’appannamento della connessione empatica tra le persone, e dunque alla consapevolezza della progressiva degradazione della qualità della convivenza, segue, tuttavia, nella riflessione dello scrittore, la confessione di un’ultima speranza: “Ma l’esperienza ce lo insegna: noi non togliamo l’affetto a chi si macchia di comportamenti altrettanto incivili, se è possibile: quando mai abbiamo troncato con qualcuno perché guida in modo imprudente, e magari ci beve sopra un paio di bicchieri? Quando mai abbiamo rinunciato a frequentare qualcuno che non fa la raccolta differenziata, o si fa pagare al nero un lavoretto? Per dirla con la Bibbia, non siamo noi i guardiani dei nostri fratelli, e anche se a dirlo era Caino, in questo caso aveva ragione. Sono solo le leggi, e le istituzioni preposte a farle rispettare, che ci possono salvare. La norma è impersonale, e non distingue tra chi la ritiene giusta e chi la ritiene un sopruso. Ci solleva da discussioni, da conflitti, da silenzi addolorati che sono del tutto inutili e rischiano di trascinarsi dietro una specie di Long Covid emotivo, nel quale continueremo a voler bene a persone alle quali non riusciremo a perdonare quello che non hanno fatto, i sentimenti che non hanno provato. Tra tante scalogne inevitabili che la pandemia ha portato con sé, norme limpide e l’autorità necessaria a farle rispettare potrebbero almeno sollevarci dalle spalle l’onere di incarnare – ci mancava solo questa! – un assurdo perbenismo sanitario”.
3. Assonanze hobbesiane
Il lettore vorrà perdonare l’insistita, lunga riproposizione del testo di Emanuele Trevi: si tratta di un esercizio essenziale per comprendere come – ne fosse o meno consapevole – il ragionamento proposto dal nostro scrittore finisca col riscoprire (e dunque rievocare), nei termini di un’esemplare limpidezza, i fondamenti stessi della riflessione condotta, alle soglie dell’età moderna, sulla dimensione propriamente antropologica ed esistenziale della ‘politica’ e dello ‘stato’; un ritorno, dunque, alle radici stesse del concepimento di quelli, per come giunti e consegnatici dagli itinerari della storia.
Nel discorso di Trevi, il processo di dissoluzione della coscienza empatica sembra muovere dai goffi tentativi di mascheramento di una paura ancestrale; di una paura che spinge all’esercizio puramente egoistico dei propri diritti individuali, all’intangibilità del proprio corpo, della propria integrità personale, della propria sfera di libertà, da preservare da ogni indebita forma di limitazione, di intromissione o di controllo. In breve, di una paura destinata ad alimentare pretese insofferenti a qualsivoglia contenimento funzionale all’appagamento di possibili esigenze altrui (qualsiasi contenuto esse abbiano). Una paura per così dire ‘primordiale’, generata dalla consapevolezza di trovarsi nel vivo di un conflitto (vissuto come forma concorrenziale) in cui ‘ne va’ della vita (nel duplice senso della vita puramente biologica o propriamente umana, della zoé o del bios); perché della vita ‘ne va’ nel sottoporsi, o meno, a trattamenti sanitari dal discusso margine di sicurezza, o nel rinunciare, o meno, alla coltivazione dei propri rapporti personali negli ambiti (lavorativi, conviviali, ludici, culturali, sportivi, etc.) in cui la persona trova le occasioni concrete di esplicazione e di compimento.
La superabilità di un conflitto di tale consistenza e proporzioni è indicata, da Trevi, nell’invocazione di un intervento della legge e dello Stato; del carattere impersonale della norma e dell’autorità capace di farla rispettare; di un attore estraneo al conflitto, capace di ergersi al di sopra delle parti, in quanto espressione della collettività che si organizza in istituzione (lo Stato) al fine di esercitare la sua (individualmente non resistibile) forza, per la salvezza stessa di tutti e di ciascuno.
Appaiono sin troppo evidenti le assonanze che accostano il discorso di Emanuele Trevi ai passaggi che scandiscono la descrizione dell’abbandono dello stato di natura e la formazione dello Stato nel Leviatano di Thomas Hobbes: una figura, non a caso sovente richiamata e brandita, a mo’ di denuncia, dagli oppositori delle misure di (non troppo surrettizia) induzione legislativa al vaccino, condotta attraverso l’introduzione delle pesanti limitazioni alla capacità giuridica delle persone implicate dall’obbligo del c.d. green pass.
Il procedimento che accompagna il graduale passaggio dallo stato di natura allo stato civile, in cui è possibile dar luogo alla formazione dello Stato, è propriamente descritto nella progressiva acquisizione della razionale consapevolezza, da parte di ciascuno, del carattere inevitabilmente distruttivo del conflitto permanente; della profezia di fatale annientamento che si annida nella condizione di terrore implicita nell’angoscia di perdere ciò che rappresenta la naturale espressione dell’istinto umano: “il diritto di tutti a tutto”.
Le pagine di Hobbes sono su questo esemplari: la ‘ricerca della pace’, che rappresenta la prima legge naturale e razionale che apre la strada alla costruzione dello Stato, non può aver alcun luogo se i singoli non sono disposti a dismettere le principali ‘cause di contesa’ tra loro, che sono, “in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo, la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione. [...] Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”.[7]
In questa naturale condizione di conflitto, “ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno”.[8]
Ecco, dunque, l’unica via per la pace: dalla “fondamentale legge di natura che comanda agli uomini di sforzarsi alla pace, deriva questa seconda legge: che un uomo sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e che si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad altri uomini contro di lui. Infatti, finché ogni uomo ritiene questo diritto di fare ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Ma se gli altri uomini non deporranno il loro diritto, come lui, allora non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un esporsi alla preda (cosa a cui nessun uomo è vincolato) piuttosto che un disporsi alla pace. Questa è la legge del Vangelo: tutto ciò che tu richiedi che gli altri ti facciano, fallo a loro; e la legge di tutti gli uomini: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris”.[9]
La parola di Hobbes è chiara: il superamento della naturale condizione di paura ancestrale, e il conseguimento della sicurezza indispensabile per la serena conduzione della vita, è possibile solo nella preliminare dismissione della propria pretesa a tutto in una condizione di reciprocità; in assenza di una tale completa reciprocità ‘non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un esporsi alla preda’ piuttosto che un disporsi alla pace. Quando tutti avranno dismesso la propria pretesa egoistica e individualistica a tutto, e l’avranno concordemente attribuita a un unico, terzo soggetto (lo Stato), sarà allora superato l’ancestrale, terrifico stato di natura, avendo l’uomo raggiunto lo stato civile in cui il governo politico dei rapporti è in mano a uno solo, lo Stato.[1
4. La tragica parabola del ‘dio mortale’
Il ‘dio mortale’ (lo Stato) che spinge gli uomini a spogliarsi di tutto per la sicurezza di tutti è dunque il simbolo inaugurale della modernità politica: la plastica istituzione del rapporto di proporzionalità inversa tra l’esigenza umana di sicurezza e l’aspirazione (altrettanto umana) alla libertà, un rapporto garantito (non più dall’angoscia generata dall’onnipotenza della divinità, storicamente vicariata dal potere della classe pastorale sacerdotale, ma), dal terrore originato dal potere del nuovo sovrano o, secondo l’alternativa interpretazione foucaultiana, delle catene dei poteri-saperi (politici, economici, scientifici, sociali, culturali) che si stabilizzano (quali nuovi esempi di potere pastorale) come istanze di assoggettamento.
L’intero percorso della riflessione politica moderna può allora verosimilmente sintetizzarsi (assecondando una consapevole semplificazione) nella continua ricerca e nella razionale giustificazione della più adeguata ponderazione di quella misura; nell’individuazione, cioè, di quella proporzione tra restrizione accettabile delle libertà e margine di sicurezza sociale e individuale (a quella limitazione inestricabilmente connesso); o, se si vuole, nell’individuazione di quel punto di equilibrio, tra sicurezza sociale e libertà individuali, compatibile con la conservazione degli assetti di potere consolidati.
Da questa prospettiva, la rilettura della modernità politica attraverso la lente del rapporto tra sicurezza e libertà consente di portare alla luce un’altra significativa dicotomia (a quel rapporto comunque connessa), stavolta legata alla strutturazione propriamente teorica dei fondamenti del potere.
Vuole qui alludersi a quella ricorrente contrapposizione tra l’idea del potere come risultante di una (più o meno allegorica) contrattazione sociale (evidentemente diretta ad affidare agli stessi individui la determinazione dei limiti dei propri diritti di libertà in funzione dei margini di sicurezza concretamente perseguiti), e la figurazione del potere come espressione diretta di un sentimento di appartenenza collettiva, immediatamente suscettibile di dar luogo all’unità di un corpo (non la semplice somma di volontà individuali ma il soggetto di una volontà comune, o di una volontà generale) capace di riconoscersi nella virtù, per lo più irrazionale ed emotiva (propriamente carismatica), di un’autorità o di un capo.
Si inscrivono, variamente combinate nei percorsi così sommariamente tracciati, le esperienze del pensiero contrattualista – che unisce idealmente Thomas Hobbes e John Locke alla stagione del costituzionalismo americano (e solo in parte al discorso contrattualista rousseauiano) – e quelle dell’Illuminismo francese, la cui costitutiva ambiguità, tra le corrispondenze (biograficamente) ‘inglesi’ degli scritti di Voltaire e le visioni ‘olistiche’ di Jean-Jacques Rousseau, troverà modo di esprimersi nell’articolata e complessa esperienza della rivoluzione francese, tra le primitive esaltazioni legate al riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, alla successiva stagione del Terrore, del potere personale (tra tutti, del mito robespierriano) e dell’esito autocratico dell’età napoleonica.
Pure si addice, a questa elementare ricapitolazione delle forme moderne del potere politico consegnate alla riflessione dello storico, la contrapposizione tra l’idea della legittimità del potere fondato sul modello ‘legale razionale’, e quella del potere di fonte ‘carismatica’, alle quali Max Weber assocerà l’indicazione del c.d. potere legittimato dalla ‘tradizione’, più vicino, per sua natura, agli schemi e alle consuetudini della premodernità.
Che, nello sviluppo storico dell’Europa continentale, il coté rousseauiano (e dunque la sua visione fortemente unitaria e centrata della società quale totalità retta da un’unica logica dominante e pervasiva, entro cui si perde, tanto l’idea di stabili ‘parti’ o gruppi componenti, quanto la distinzione tra sfere parzialmente autonome) finì, lungo il corso del XIX secolo, coll’assumere un’indiscutibile prevalenza (tanto sul piano ideologico quanto su quello più propriamente storico-pratico), è fatto in relazione al quale una possibile giustificazione può utilmente ricercarsi nell’esito accentuatamente idealistico entro il quale era stata concepita e realizzata l’idea dello Stato-nazione, e dunque in coerenza ai quadri teorici della dominante sensibilità culturale tedesca.
Fu proprio a partire dall’influenza esercitata da quell’ambiente culturale (da cui trasse sicuro alimento la riflessione del nascente marxismo) che – mediate e lungamente formate dai maestri del costituzionalismo tedesco di fine Ottocento – le opposte (e reciprocamente avversate) meditazioni di due straordinari giuristi, come Hans Kelsen e Carl Schmitt, finirono col riproporre, sia pure nella singolare originalità di ciascuna delle due dottrine, i termini di quella distinzione weberiana tra legittimazione legale razionale e legittimazione carismatica del potere politico.
La contrapposta considerazione del pensiero di Hans Kelsen e di Carl Schmitt si inserisce utilmente nel quadro del discorso che si viene proponendo, là dove suggerisce, sia pure in una dimensione largamente ulteriore rispetto all’ambito d’interesse dei due giuristi di lingua tedesca, l’opportunità di delineare il profilo di almeno due tra i più rilevanti rischi che ancora incombono sulla vita politica delle nostre comunità.
Vuole qui alludersi, in primo luogo, all’esasperazione del razionalismo e della dimensione puramente logico-formale delle operazioni che presiedono al controllo e alla direzione del comportamento umano misurato sul piano delle relazioni sociali.
L’idea della riduzione dell’esperienza giuridica al dato del rapporto di coerenza logica tra norme (secondo le tracce della riflessione kelseniana), in assenza di alcun possibile riferimento, ma anzi nel rifiuto di ogni ‘impura’ contaminazione con la dimensione sostanziale di valori o interessi, finì in larga misura col contribuire (sia pure involontariamente, e certamente a dispetto delle sincere idealità democratiche del giurista austriaco) alla dispersione del significato intrinsecamente ‘qualitativo’ della persona, rivista nella concretezza esistenziale dei propri bisogni e nella viva materialità (o ‘carnalità’) dei rapporti dalla stessa istituiti sul piano sociale.
Allo stesso modo (ma in termini diametralmente opposti), le rilevanti intuizioni del decisionismo schmittiano (tra cui la riaffermazione dell’anima intimamente conflittuale dell’esperienza politica e la radice costitutivamente infondata del potere, ove considerato al di fuori da ogni connotazione ideologico-culturale) diedero modo, ai disegni più sconsiderati delle formazioni politiche d’inclinazione violenta e razzista, di giustificare la dignità teorica delle proprie vocazioni più folli o irrazionali, tra i paventati vagheggiamenti di un diritto libero e la sperimentata, incosciente teorizzazione della volontà del ‘capo’, quale fonte sovrana e indiscutibile (führer-prinzip).
Al ricorso di quelle due fatali esasperazioni vorrebbero ricondursi, tra tutte le altre concorrenti spiegazioni, le ragioni della dissoluzione storica della lunga esperienza dello stato moderno, che la fine della Seconda guerra mondiale portò a compimento.
Alla corrosiva critica della ragione illuministica avevano dedicato pagine preziose, ancora terribilmente attuali, gli studiosi della c.d. Scuola di Francoforte.
L’ambito di sviluppo della ‘teorica critica’ francofortese veniva collocandosi – in conformità alle originarie linee di impostazione segnate da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno negli anni attorno al secondo conflitto mondiale – nel quadro di un generale progetto di demistificazione delle tendenze della cultura occidentale moderna.
L’obiettivo critico dei due studiosi tedeschi si appuntava, in primo luogo, sul senso del processo storico-culturale involutivo in base al quale, a partire dall’esperienza illuminista, la ragione, avendo smarrito la propria capacità di cogliere gli aspetti dialettici, pluralistici e contraddittori della realtà, ha progressivamente assunto il senso di un principio di uniformazione e di omologazione ‘scientificizzante’ (‘matematizzante’) del reale; il ruolo di un organo di calcolo e di pianificazione, inteso alla ricerca di una ‘coerenza sistematica che annulla le differenze vitali’ , dove alla rispettosa attenzione per la ‘singolarità’ e l’‘irripetibilità’ (irriducibile al ‘paradigma’), viene a sostituirsi un impegno di ‘riduzione’ e di ‘semplificazione’ dell’esperienza destinato, in ultima analisi, a svuotare quest’ultima del proprio autentico significato a fini dominativi. Un fenomeno che appare di manifesta evidenza nella graduale ‘sterilizzazione’ del linguaggio, capace di mere ‘designazioni’ prive di ‘significati’ autentici.[11]
L’effetto ‘alienante’ di questa degradazione ‘intellettualistica’ della ragione - amplificata dagli orientamenti dell’‘industria culturale’ interessata all’omologazione e alla ‘reificazione’ dei rapporti sociali, da trasformare in prodotti/merci di agevole diffusione sul ‘mercato’ - si rappresenta nei termini di un processo di sostanziale e irrevocabile repressione dell’esperienza comunicativa e culturale: “l’abolizione del privilegio culturale per liquidazione e svendita non introduce le masse ai domini già loro preclusi, ma contribuisce, nelle condizioni sociali attuali, proprio alla rovina della cultura, al progresso della barbarica assenza di relazioni”[12]. Dalla degenerazione che offre il linguaggio a qualunque forma di manipolazione discende la possibilità della strumentalizzazione da parte delle strutture sociopolitiche: il nuovo stile imposto dall’industria culturale esprime così la struttura della violenza sociale e l’unità stilistica di un sistema di non-cultura.[13] Ogni ricerca di emancipazione dalla dimensione sociale, scopre l’individuo alle prese con i tentativi del suo forzato coinvolgimento “in forme di collettivizzazione che si nutrono di una cultura di massa, capaci di ridurre gli uomini a strumenti senza uno scopo proprio”.[14]
Se l’esatta comprensione delle implicazioni connesse alla degenerazione del razionalismo (con le sue esigenze di uniformità e di cancellazione delle differenze) richiede l’articolazione e la complessità di simili analisi e della loro raffinata sensibilità culturale, assai più immediata (quantomeno sul piano della misurazione e della valutazione degli esiti che ne discendono) si rivela l’intuizione dello sfondo catastrofico entro cui si muovono le attitudini irrazionalistiche del pensiero politico.
Per condurcene al rifiuto, basterà appena accennare alla dolente ricapitolazione delle immagini che raccontano la desolazione delle rovine della guerra, le sue macerie materiali, il dolore dei volti violentati e l’orrore dei campi di sterminio.
5. La Costituzione ‘presa sul serio’
I gruppi politici che assunsero la responsabilità del disegno costituzionale italiano concepito nel secondo dopoguerra (e il discorso qui si riannoda al progetto del ‘Ponte’ che Piero Calamandrei aveva espressamente legato all’esperienza della ‘Costituente’) avevano dimostrato di aver appreso con saggezza la lezione della storia secolare dello Stato moderno.
Il catalogo dei diritti fondamentali della persona, recepito dall’antica tradizione del giusnaturalismo, veniva adesso composto in un quadro più articolato e complesso, non più misurato, sul piano antropologico, sulla figura dell’individuo singolo, smarrito o abbandonato all’irriducibilità della sua solitudine (specchio del carattere di esclusività ed assolutezza della sua dimensione proprietaria), ma costruito a partire dalla considerazione della relazione come dimensione propriamente costitutiva della persona, e dunque dell’uomo che scopre se stesso nel vivo dei rapporti che sostanziano e alimentano la propria esperienza esistenziale.
La cultura italiana veniva scoprendo, proprio all’indomani della catastrofe bellica, i valori, fino ad allora sconosciuti sul piano del riconoscimento politico e giuridico, della solidarietà sociale come limite implicito dei diritti individuali, e del pluralismo degli ordinamenti e dei gruppi intermedi come intrinseca demarcazione del potere dello Stato, sottolineando, da un lato, il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (“sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”) e richiedendo, dall’altro l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.). Sotto un altro profilo, l’Assemblea costituente volle certificare il proprio congedo dalla storia alla quale il conflitto mondiale aveva definitivamente messo capo, non solo decretando il proprio ‘ripudio’ della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ma consentendo, “in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Cost.).
Sono, quelle (gli artt. 2 e 11 Cost.), due norme che sembrano risolvere lo Stato sovrano nel riconoscimento del carattere (verosimilmente ancor più) originario delle comunità (rispetto a quello) minori e, insieme, di quelle maggiori.
L’idea (forse financo abusata nella letteratura filosofica e giuridica contemporanea) della post-modernità, che Lyotard definiva, sul piano della storia del pensiero, in ragione della fine delle grandi narrazioni sul ‘senso’[15], viene declinandosi, nei termini del pensiero giuridico, come la fine della grande narrazione che identifica il diritto con la legge dello Stato.
Secondo la nuova ‘piccola’ narrazione (se può ancora valere la terminologia e il linguaggio del filosofo francese), il diritto diviene il prodotto di una serie complessa e articolata di fonti e di ‘formanti’, il cui coordinamento (seppur sempre possibile nell’impegno teorico del giurista accademico) assume un senso effettivamente rilevante, sul piano politico e sociale, solo attraverso e nel momento dell’applicazione, e dunque nel suo affidamento al giudice, cui è rimesso il compito di ricostruire e portare a una sintesi possibile la ricchezza dei materiali di formazione dell’esperienza giuridica.
Assecondando, con un vago compiacimento storiografico, una certa lettura idealistica dei processi (in termini di corsi e ricorsi o di sintesi dialettiche), potrà persino intravedersi il recupero (metodologico), in chiave contemporanea, di quell’‘ordine giuridico medievale’ che, in un certo senso, ricompare sullo sfondo di tanti degli scritti più recenti di Paolo Grossi.[16]
Secondo la pagina ricostruttiva dello storico, gli ordinamenti medievali (gli statuti comunali, il diritto feudale, le regole corporative, la tradizione del diritto comune e del diritto romano, il diritto della Chiesa, etc.) si ponevano come ordinamenti legati alla realizzazione di specifici interessi (settoriali o particolari, volendosene contrapporre le caratteristiche all’ordinamento ‘a fini generali’, come siamo abituati a definire l’ordinamento dello Stato): una fenomenologia di moltiplicazione capillare di ordinamenti particolari che pure caratterizza i segni della realtà (cosiddetta neo-corporativa) che trovano riscontro nella vita sociale e civile dei nostri giorni.
Il carattere eminentemente ‘problematico’ dell’esperienza giuridica contemporanea sembra discendere, in primo luogo, dalla circostanza della continua interferenza e dal costitutivo conflitto, non risolto a priori, tra ordinamenti diversi, ciascuno piegato alla realizzazione dei propri fini, secondo i termini delle rispettive razionalità interne. Del diritto torna a porsi in evidenza la qualità di pratica sociale, lontano dall’idea di un sistema di norme ordinato allo scopo di un’edificazione civile e politica di carattere generale.
Tra le più evidenti conseguenze della pluralizzazione delle razionalità dei diversi ordinamenti particolari trova posto – accanto e al di là dell’irriducibilità del sistema a una pregiudiziale e unitaria coerenza – la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere i contrasti attraverso il richiamo a un unico criterio o a una coerente e unificabile, seppur articolata, organizzazione di criteri.
Si tratta di un orizzonte, o di una prospettiva di azione, in cui al giurista è affidato il compito di affrontare e districare il senso di una complessità che appare sempre più spesso declinata nei termini dell’antinomia e della contraddizione. Da qui il significato del frequente ricorso all’impiego di norme generali o di sfumate terminologie; ad espressioni che invitano all’esercizio della ‘ponderazione’ tra interessi, al ‘bilanciamento’ tra istanze contrapposte, al temperamento della ‘ragionevolezza’.
Sono queste le premesse storico-culturali che avviano il discorso alla conclusione per cui il diritto non è più in grado di attribuire, sul piano dei rapporti civili, alcuna sfera predeterminata di libertà individuale, secondo il modello o la tecnica del diritto soggettivo tradizionale, poiché deve ritenersi largamente compromessa (quando non svanita del tutto) la possibilità di riconoscere interessi cui attribuire una protezione giuridica assoluta e incondizionata.
Più che il riconoscimento di sfere di libertà o di poteri astrattamente attribuiti al singolo dall’ordinamento (secondo una tecnica o un disegno di tutela costruito o derivato dal modello proprietario della tradizione liberale), la cultura giuridica contemporanea appare incline a coltivare l’idea della costruzione degli spazi della convivenza degli interessi (e dunque della relativa tutela) secondo un archetipo che supera la visione statica dell’individuo come principio elementare attorno al quale ordinare i contenuti del proprium.
Si tratta di superare i termini di una logica meramente attributiva, per attingere il livello di una più articolata complessità delle situazioni, da cogliere nel quadro di una dinamica relazionale cui necessariamente si coniuga l’impegno di ciascuno a tener vivi e regolare nel tempo le modalità e i termini di conformazione dei propri bisogni di tutela. Da qui l’esigenza di richiedere a ciascuno la capacità di articolare fatti e prospettazioni interpretative secondo le proprie particolari visioni delle cose e del mondo, affinché il sistema delle istituzioni (di volta in volta, il legislatore, il giudice, il pubblico amministratore) sappia considerarne il peso e il valore.
L’idea del rapporto giuridico legata alle scelte dell’autonomia individuale (dalla decisione legata all’instaurazione della relazione, a quelle destinate a dar seguito, forma e contenuto ai relativi percorsi) lascia il posto al riconoscimento di una realtà sociale connaturata all’inestricabile e immanente pervasività della dimensione relazionale in cui, più spesso, accade di trovarsi.
La circostanza dell’essere o del trovarsi costitutivamente in una rete di relazioni sociali modifica il paradigma tradizionale del pensiero e della tutela giuridica, come sistema di attribuzione di diritti rivisti alla stregua di sfere intangibili di sovranità individuale, poiché nessuna situazione soggettiva può definitivamente dirsi al riparo dal destino del ripiego o del sacrificio.
Il riconoscimento del diritto soggettivo finisce quasi col consistere in una sorta di ‘peso argomentativo’ offerto al sostegno delle ragioni della persona (ora in funzione difensiva, talora, più schiettamente, in chiave emancipativa) in un quadro di bilanciamento conflittuale, senza più alcuna possibilità di ascriverne la virtù di disegnare impensabili enclosure assolute.
Discorrere del riconoscimento della tutela di diritti soggettivi può certamente assumere un valore non trascurabile, sul piano costruttivo o sul terreno della sistemazione concettuale, ma non cancella il dato reale cui la riflessione giuridica è chiamata ad accostarsi, che è quello della necessità di comprendere lo spessore di ciascuna situazione soggettiva unicamente in vivo, ossia nello specifico contesto di relazione in cui la persona è chiamata ad affermare il suo interesse in una dimensione necessariamente conflittuale o dialogica, senza alcuna pretesa di assolutezza.
6. Tecnica, razionalità scientifica e ragione discorsiva
Varrà incidentalmente accennare, nell’affrontare il tema del conflitto portato sull’esercizio dei diritti fondamentali, alle preziose meditazioni che Emanuele Severino ha consegnato alle future generazioni sui modi attraverso i quali si realizza e si perpetua il pluralismo conflittuale tra le culture e i gruppi attivi all’interno delle nostre società.
L’ammonizione del filosofo bresciano induce a individuare la radice o l’essenza del nichilismo, che caratterizzerebbe i termini della cultura contemporanea, nella dominazione ormai assunta dalla tecnica, a tutti i livelli della vita sociale.
Scrive Severino: “La tecnica è lo strumento guidato dalla scienza moderna che oggi si rivela come il più potente degli strumenti. Così crediamo tutti. Tutti ne siamo convinti. […] Il fenomeno della globalizzazione […] è un fenomeno che sussiste solo in quanto il capitalismo gestisce la potenza tecnologica. Il capitalismo oggi gestisce la ricerca scientifica e l’applicazione della scienza all’industria, cioè le varie forme di tecniche. Le forze che oggi hanno in gestione la tecnica sono tra di loro in conflitto. Quali sono queste forze? Il capitalismo, che non vive in un Olimpo, in un limbo senza nemici; ieri c’era il comunismo, che è stato eliminato. Ma la democrazia non ha come scopo ciò che costituisce lo scopo del capitalismo. Qual è lo scopo del capitalismo? L’incremento indefinito del profitto privato. Il capitalismo mira a questo: che lo scopo supremo della società sia l’incremento del profitto privato. Questo non è lo scopo della democrazia. La democrazia pensa, crede, propone, fa in modo che lo scopo della società sia la libertà e l’uguaglianza degli individui. Non è certamente lo scopo del cristianesimo l’incremento del profitto privato. Non è certamente lo scopo dell’Islam. Non era certamente lo scopo del comunismo. Non è lo scopo dei nazionalismi. […] E cosa accade quando molte forze, per esempio queste che ho elencato, sono in conflitto tra di loro e tutte si servono della tecnica? Dico ‘tutte’ perché anche il cristianesimo si serve della tecnica. Il sistema mass-mediatico del Vaticano è tra i più elaborati tra quelli oggi esistenti sulla faccia della terra. La carità cristiana planetaria, se la mano destra non sa cosa fa la sinistra, è scombussolata, non funziona. Bisogna che la mano destra sappia bene cosa fa la sinistra. Lo può sapere soltanto attraverso l’organizzazione tecnica della carità. Quindi per questo dicevo che tutte le forze, anche quelle che meno ci aspetteremmo di trovare, si servono della tecnica. Che cosa accade dunque quando tutte queste forze, essendo tra loro confliggenti, si servono – per prevalere l’una sulle altre – di una certa frazione dell’apparato scientifico-tecnologico? Se una vuole prevalere sull’altra, e poiché vuole prevalere, è necessario che rafforzi sempre di più lo strumento che le consente di prevalere. Altrimenti si arrende. Ma anche le altre non stanno a guardare questo rafforzamento e a loro volta rafforzano quelle frazioni dell’apparato scientifico-tecnologico che hanno a disposizione. Ha così luogo un progressivo crescere del potenziamento che queste forze operano dello strumento di cui si servono per realizzare i loro confliggenti scopi. Che cosa è destinato ad accadere in una situazione di questo genere? Che l’intensità del potenziamento dello strumento, per realizzare lo scopo originario della forza che di esso si serve, conduca a far sì che lo scopo non sia più lo scopo originario, che voleva servirsi dello strumento per realizzarsi, ma che sia il potenziamento dello strumento. Il capitalismo […] è destinato, per sopravvivere ai nemici che tuttora lo ostacolano e alla distruzione che la produzione economica compie della terra, a rafforzare lo strumento tecnologico anche per quanto riguarda la produzione di energia alternative alle energie inquinanti. In questo modo è costretto a lasciare sullo sfondo sempre di più il proprio scopo originario, cioè l’incremento indefinito del profitto, per porre al centro della propria intenzionalità come scopo primario la forza di quello strumento che gli consente di realizzare il proprio scopo originario, che ormai diventa obsoleto. Passa in secondo piano. Si va così verso una situazione in cui la tecnica non serve ad aumentare il capitale, ma l’aumento del capitale serve a incrementare la potenza della tecnica. Questo è uno sguardo gettato sul futuro, uno sguardo che allude al tramonto delle forze che tuttora dominano il mondo. […] Si ha tuttora la sensazione […] che i grandi gruppi industriali guidino la condotta degli Stati. […] Ma perché l’economia prevale sulla politica? Perché c’è la tecnica a sostentare l’economia, altrimenti l’economia potrebbe essere rimasta allo stato feudale, dove il potere politico del Signore guidava la produzione economica dei sottoposti e di coloro che producevano la ricchezza. Quindi, altro è che ci si serve della tecnica per incrementare il capitale, altro è che si incrementi il capitale per potenziare la tecnica. Stiamo andando verso un tempo in cui lo scopo supremo sarà quello in cui la tecnica sostituirà, perché ha la stessa anima, il vecchio dio”.[17]
Il discorso di Emanuele Severino (dietro cui sembra affacciarsi l’inquietante mistero della nietzschiana volontà di potenza) tocca un nodo critico di particolare delicatezza del modo contemporaneo di stare al mondo che caratterizza la vita delle nostre società. Si tratta di un fenomeno (quello che si nasconde dietro la progressiva sostituzione dello scopo del potenziamento tecnico, rispetto ai valori e agli interessi originari dei gruppi) che è destinato, a lungo termine, a intaccare il senso stesso dell’esperienza della relazione sociale e della dimensione qualitativa della persona, nella misura in cui, dietro l’indefinito perfezionamento della tecnica sostenuta dalla ricerca scientifica applicata, rivive l’antico rischio della regressione dei processi storico-culturali, destinati, là dove incapaci di cogliere la dimensione dialettica, pluralistica e contraddittoria della realtà, ad assumere il senso di un principio di uniformazione ‘scientificizzante’ e di alienante omologazione del reale.
Il significato propriamente ‘eversivo’ di questa trasformazione viene colto, da Habermas, nella progressiva sostituzione dell’eticità, come forma di regolazione dei rapporti strutturata attorno alla verità del ‘senso’, con l’ideologia tecnocratica, non già orientata a perseguire finalità di sviluppo umano in termini di dover essere, quanto incline a realizzare una forma di dominio totalizzante sulla natura, sulla base di ciò che di fatto è. Da qui la progressiva affermazione di una razionalità facilmente strumentalizzabile, che dà vita a quella configurazione del mondo nel senso del dominio destinata a preludere alla legittimazione dello stesso dominio dell’uomo sull’uomo.[18]
Le strutture repressive del dominio tecnocratico finiscono per disperdere l’umanità dell’uomo nella manipolazione di procedimenti tecnici finalizzati a scopi oggettivati, dal cui orizzonte è radicalmente esclusa ogni possibilità di discussione pubblica finalizzata ad una decisione. Le trasformazioni indotte dalla società dell’economia fondata sulla pubblicità commerciale finiscono col travolgere le stesse basi della comunicazione quotidiana e del linguaggio: l’effetto dei mass-media (stampa, tv, etc.) amplifica la metamorfosi della comunicazione politica, riplasmata attraverso le tecniche pubblicitarie, sottolineando il progressivo assorbimento della discussione critica pubblica, della comunicazione e della cultura nella sfera del consumo.
La reazione nei confronti di questo modello politico-culturale, di per sé caratterizzato da un elevato livello di repressione e di violenza sociale, muove, nella prospettiva habermasiana, dal tentativo di ‘rivitalizzare’ la comunicazione critica nell’ambito della sfera pubblica, dissolvendo progressivamente gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di ciascuno alla discussione collettiva che prelude alla decisione; un ambito in cui acquista un senso preciso il riferimento alle responsabilità culturali e politiche dell’intellettuale nella prospettiva teorico-pratica dell’‘agire comunicativo’.[19]
Sulla base di queste premesse, Habermas invita a riflettere sui nessi che intercorrono tra la riflessione e il linguaggio, come terreno d’elezione della violenza e della frustrazione comunicativa (e, in questo senso, punto di partenza del processo di emancipazione), e individua, nel paradigma costituito dal modello psicanalitico, l’approccio per una graduale consapevolizzazione del significato delle forme repressive e del loro superamento. Da questo punto di vista, ricollegandosi ad alcune osservazioni di Freud, Habermas identifica nella “fuga dell’Io di fronte a sé stesso” la conseguenza di una reazione dell’Io infantile di fronte “al potere insopportabile delle norme sociali” […]. Un’operazione che è condotta nel e con il linguaggio” attraverso “una scissione di singoli simboli dalla comunicazione pubblica e la conseguente privatizzazione del loro contenuto di significato”.[20] Scopo della terapia psicanalitica è l’identificazione della rimozione e la lotta contro la stessa, attraverso l’ausilio di un interprete “che insegni ad uno stesso e identico soggetto a capire il proprio linguaggio. L’analista guida il paziente perché impari a leggere i propri testi mutilati e deformati, e a tradurre i simboli da un modo espressivo deformato del linguaggio privato nel modo espressivo della comunicazione pubblica”.[21]
La conoscenza psicanalitica fornisce così il modello dell’autoriflessione come fondamento delle possibilità di emancipazione attraverso la riconquista della dimensione comunicativa del linguaggio (luogo dell’autoriflessione e strumento di una intersoggettività ‘emancipatrice’), in cui gli uomini manipolati (per i quali vale solo la somma delle opinioni e il compromesso in vista della realizzazione di possibilità tecniche) si trasformano in uomini agenti che ricercano, nel quadro di una ricostituita ‘dialettica dell’eticità’ il consenso attraverso la pratica di una discussione illuminata.[22]
7. Dibattito politico e parametri di costituzionalità
La contrapposizione che caratterizza il dibattito politico odierno sull’esigibilità dell’adempimento vaccinale (o sulla prospettiva di introdurne l’obbligo per via legislativa) sembra dunque riproporre, sia pure sotto forme e vesti diverse, i termini di un conflitto ricorrente, dove le accuse vicendevolmente sollevate dai contendenti paiono appuntarsi sul reciproco addebito di adesione acritica a tesi pregiudiziali, e dunque di un inadeguato controllo razionale del proprio comportamento sociale.
Si tratterebbe, da un lato, dell’accusa di una passiva accettazione ideologica della potenza della tecnica (suffragata dalle incontestabili conquiste del progresso tecnologico, di cui i diversi vaccini anti-Covid-19 costituirebbero l’ultimo ritrovato), e, dall’altro, da un altrettanto acritico e ideologico rifiuto della razionalità scientifica, sostanzialmente motivato dalla rilevata incompletezza dei controlli sperimentali imposta dalla ristrettezza dei tempi trascorsi, oltre che da un elementare principio di precauzione suggerito dall’esasperato e contraddittorio pluralismo delle interpretazioni scientifiche circolate (in modo più o meno sconsiderato) nelle diverse forme di comunicazione mass-mediatica.
Lo spessore di un simile dibattito, per la verità, là dove limitato al mero dissenso sui punti indicati, finirebbe inevitabilmente con l’esaurirsi sul terreno del controllo dell’efficacia scientifica del trattamento sanitario controverso: un dissenso che il tempo e l’attenta osservazione della comunità scientifica sarebbero in grado di affrontare e risolvere, in via definitiva, una volta acquisiti tutti i dati obiettivi ritenuti necessari e sufficienti, secondo le consuetudini e le indicazioni dei più accreditati protocolli sperimentali.
Ma l’autentico nodo di quel dibattito, in realtà, una volta sottratto al dominio del giudizio tecnico-scientifico, chiede piuttosto d’essere rinvenuto sul piano, del tutto diverso, dell’opportunità politica del ricorso all’obbligatorietà per via legislativa di un trattamento sanitario preventivo le cui conseguenze sulla salute individuale appaiono, allo stato, ancora non completamente conosciute (come, peraltro, accade per una larghissima quantità di trattamenti farmaceutici pacificamente in circolazione da tempo); e ciò allo scopo di fronteggiare la diffusione di un’epidemia già capace di condurre rapidamente a morte decine di migliaia di persone, di incidere pesantemente sull’integrità dei contagiati, di paralizzare l’intera struttura del sistema sanitario nazionale (sì da comprometterne significativamente il funzionamento per la cura e la prevenzione di tutte le altre malattie), di sospendere la vita economica, sociale e scolastica delle persone (al fine di impedirne il contatto fisico), e dunque di sconvolgere l’andamento delle ordinarie condizioni di vita di un’intera popolazione.
Ricondotta a questa prospettiva, la questione che attiene all’efficacia (o alla pericolosità) del trattamento sanitario (il vaccino) astrattamente destinato a prevenire la diffusione del contagio, non assume rilievo di per sé sul piano assoluto dei valori scientifici (comunque destinati ad essere considerati e valutati dagli esponenti della comunità scientifica, secondo i paradigmi propri della razionalità scientifica), quanto alla stregua (relativa) di un singolo coefficiente di ponderazione di una più complessa analisi comparativa, destinata ad essere condotta – là dove orientata allo scopo dell’obbligazione legale – in chiave strettamente politica (secondo i paradigmi propri dell’argomentazione discorsivo-dialettica), in cui alla valutazione scientifica di quel dato di efficacia si accostano, da un lato, la considerazione del peso politico da riconoscere, nella situazione contingente, alla negazione dell’autodeterminazione sanitaria e, dall’altro, il rilievo della sicurezza collettiva e dell’insieme degli interessi pubblici potenzialmente compromessi da un’incontrollata diffusione dell’epidemia.
Si tratta di una prospettiva che la nostra Costituzione conosce e prevede, e che invita ad affrontare nello spirito del dialogo e del necessario bilanciamento tra le ragioni del singolo e l’interesse della collettività, con l’ulteriore prospettiva secondo cui un eventuale trattamento sanitario imposto per legge non valga ‘in nessun caso’ a violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32 Cost.).
Con specifico riguardo alle vicende connesse all’imposizione per via legislativa dell’obbligo vaccinale, la nostra Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della legge n. 119/2017 (che ha reintrodotto l’originaria obbligatorietà vaccinale dei minori su scala nazionale)[23], dopo aver ribadito (in coerenza alla propria storia giurisprudenziale) come l’art. 32 Cost. postuli il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività[24], ha precisato come l’imposizione legislativa di un trattamento sanitario non sia incompatibile con l’art. 32 Cost. se lo stesso sia diretto “non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)”.[25]
Nel caso relativo alla legge impositiva della vaccinazione obbligatoria nei confronti dei minori, la Corte ha sottolineato come l’intervento legislativo si lasciasse apprezzare per la ragionevolezza e la flessibilità dell’impostazione, tanto sensibile all’interlocuzione culturale con i soggetti chiamati all’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei minori, quanto avvertita della natura dinamica ed evolutiva del sapere medico-scientifico. In particolare, la Corte ha evidenziato come, in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, la legge prevedesse un procedimento volto, in primo luogo, a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione; “a tale scopo, il legislatore ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Nel presente contesto, dunque, il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, configurando un intervento non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata. In questa prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario, il legislatore […] ha opportunamente introdotto in sede di conversione un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini […]. Questo elemento di flessibilizzazione della normativa, da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate, denota che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso”.[26]
Ai fini del discorso che si conduce, in sintesi, converrà ribadire l’inesistenza di alcun impedimento di principio alla previsione di un’eventuale obbligatorietà del trattamento di immunizzazione, in presenza delle condizioni che ad ogni trattamento sanitario obbligatorio occorre si associno, secondo la lettura del sistema ricostruito in coerenza con le linee della giurisprudenza della Corte costituzionale del nostro paese.
Occorrerà, in tal caso, verificare che il trattamento obbligatorio (sperimentalmente sicuro e ragionevolmente innocuo nei limiti consentiti dalle conoscenze scientifiche disponibili pro-tempore) si presenti effettivamente alla stregua dell’unica via percorribile al fine di assicurare la tutela della salute della collettività e di terzi, fatta salva la previsione di forme indennitarie e risarcitorie in caso di eventuali conseguenze dannose sofferte dal singolo, ivi compresa la malattia contratta per il contagio causato dall’esecuzione della vaccinazione profilattica.[27]
Il discorso, al di fuori di ogni inopportuna banalizzazione, soffre dell’estrema difficoltà che affligge la complessa articolazione dei rapporti tra il diritto e la scienza. È essenziale non sottovalutare l’importanza di considerare con grande attenzione il ruolo e l’apporto delle conoscenze scientifiche nel processo di formazione delle leggi oltre che, più ampiamente, nel processo giudiziario. Da qui la difficoltà di definire confini e limiti di un rapporto complicato, che si estrinseca anche nello sforzo di coordinare il linguaggio scientifico con quello del diritto e di valutare il ‘se’ e il ‘come’ tradurre dati scientifici in obblighi giuridici. Una sfida aperta, complessa e dibattuta, che emerge con chiarezza anche nella disciplina in materia di trattamento vaccinale e nelle parole del Giudice delle leggi, là dove osserva che “nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici”.[28]
In tali affermazioni, emerge il tentativo della Corte di assumere su di sé il peso dell’evidente diversità dei due linguaggi (quello scientifico e quello giuridico) e di affievolirne in qualche modo le differenze: “si tratta di due ordini diversi, posti da scienze diverse, ma che devono interagire, e dove l’evidenza scientifica, la statistica, la scelta politico-legislativa sono chiamate a trovare un equilibrio credibile e coerente con il quadro costituzionale”.[29]
Non manca, peraltro, chi riscontra come in tali dichiarazioni si finisca con l’attribuire alla scienza medica “un ruolo eccessivo che finisce per determinare un’ibridazione di concetti giuridici (raccomandazione e obbligo) per effetto del contatto con la tecnica”.[30]
L’insieme di queste riflessioni aiutano a comprendere come la disciplina del trattamento vaccinale assuma un carattere paradigmatico, non solo della difficoltà di individuare un corretto equilibrio tra interesse collettivo e diritti dell’individuo, bensì anche del complesso rapporto tra scienza e diritto, tra progresso scientifico e linguaggio giuridico, tra valutazione dei dati tecnico-scientifici e discrezionalità legislativa.[31]
Ed è in questo peculiare contesto – di fronte a un ‘rigore’ del sapere scientifico che manifesta, nei suoi dibattiti interni e nei suoi cambiamenti (anche repentini), gli aspetti della sua sfuggente controllabilità – che il discorso della politica e del diritto è chiamato ad affrontare, con crescente difficoltà, le delicate sfide che attendono i compiti della posizione della ‘regola’ in un quadro di equità e di ragionevolezza.
8. Responsabilità e destino
L’esigenza della solidarietà non è mai a senso unico: alle richieste di apporto individuale occorre saper associare, coerentemente, il vicendevole rispetto che si manifesta nella reciproca capacità di dare e di ricevere che è propria di una comunità intera.
La scelta di affidarsi, solidalmente, alla decisione, discussa e argomentata, che esorta ciascuno a rendersi responsabile dell’altro in una comune sfida all’insondabilità del futuro, significa respingere l’attesa, nei termini di una passiva rassegnazione, del manifestarsi delle forze oscure della natura, e del destino che ferocemente le guida.
In questa eterna ricapitolazione dialettica, che oppone il coraggio della responsabilità allo sconsolante abbandono del fatalismo, vorrebbe conclusivamente riassumersi il senso condiviso di un’esperienza di vita collettiva: dove ancora mette conto di interrogarsi se le vie attraverso cui la morte ci avrà raggiunti saranno davvero la chiave che apre la strada a un credibile racconto della nostra vita.
[1] P. Calamandrei, Il Ponte, n. 1, aprile 1945.
[2] P. Calamandrei, Il Ponte, anno I, n. 1, aprile 1945.
[3] N. Bobbio, Il Ponte, anno XXXI, n. 4, aprile 1975, pp. 160-161.
Aggiunge Bobbio: “Molte riviste nacquero in quegli anni, ma quasi tutte hanno avuto vita breve. Ne ricordo alcune che pur hanno lasciato tracce non solo nel nostro ricordo ma nella determinazione di quella svolta politica e culturale che è stata l’uscita dalla guerra e dal fascismo: «Stato moderno» di Mario Paggi, «La Nuova Europa» di De Ruggiero e Salvatorelli, «Acropoli» di Omodeo, «Il Politecnico» di Elio Vittorini. «Il Ponte» nacque in quello stesso clima di tensione morale, di passione civile, di desiderio del nuovo e del diverso, in quel tempo che fu insieme facile agli entusiasmi ma anche proclive alle improvvise stanchezze, proteso verso le “grandi speranze” ma anche non immunizzato contro le grandi delusioni. Forse «Il Ponte» è stata l’unica rivista - ed è questa la ragione della sua durata, il suo punto di forza che non è mai venuta meno in questi anni, nonostante la mediocrità della nostra storia e le atrocità del fascismo nel mondo, all’impeto e all’impegno delle grandi speranze. […] «Il Ponte» può essere fiero di non avere mai disperato, anzi di essere stato in prima linea nel difendere la virtù contro il furore”.
[4] N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001 (1993), pp. 143 s.
[5] N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., pp. 149 s.
[6] E. Trevi, L’amico no-vax e il solco incolmabile in Corriere della Sera del 19 novembre 2021 (pag. 11).
[7] Th. Hobbes, Il Leviatano, BUR Rizzoli, Milano, 2011, pp. 190-191.
[8] Th. Hobbes, Il Leviatano, cit., p. 196.
[9] Op. ult. cit., pp. 196-197.
[10] “La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamato uno Stato, in latino Civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa” (Th. Hobbes, Il Leviatano, cit., pp. 241-242).
[11] «Gli uomini si distanziano col pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale, che si mantiene identico in situazioni diverse, e separa così il mondo – caotico, multiforme e disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il concetto è lo strumento ideale, che si apprende a tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare» (M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, pp. 47-48).
«Dal punto di vista della sua genesi la logica si presenta come tentativo di integrare e ordinare stabilmente ciò che era originariamente polisemico, come passo decisivo per la demitologizzazione. […] In forza della logica, il soggetto si sottrae alla tendenza verso ciò che è amorfo, instabile, polisemico, e imprime nell’esperienza di sé l’identità di colui che in essa si autoconserva come forma, legittimando solo quegli enunciati sulla natura che sono catturati dall’identità di tali forme» (T.W. Adorno, Zur Metakritik der Erkenntnistheorie, in Gesammelte Schriften, Bd. V., Suhrkamp, Frankfurt, p. 86).
[12] M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p.172.
[13] «Al posto dell’adeguazione fisica alla natura subentra la “ricognizione nel concetto”, l’assunzione del diverso sotto l’identico. Ma la costellazione in cui si instaura l’identità (quella immediata della mimesi come quella mediata della sintesi, l’adeguazione alla cosa nel cieco atto vitale o la comparazione del reificato nella terminologia scientifica) è sempre quella del terrore. La società continua la natura minacciosa come coazione stabile ed organizzata, che, riproducendosi negli individui come autoconservazione coerente, si ripercuote nella natura come dominio sociale su di essa. La scienza è ripetizione, elevata a regolarità accertata, conservata in stereotipi. La formula matematica è regressione impiegata consapevolmente, come già il rito magico; è la forma più sublimata del mimetismo. La tecnica realizza l’adattamento al morto ai fini dell’autoconservazione, non più, come la magia, con l’imitazione materiale della natura esterna, ma con l’automatizzazione dei processi spirituali, con la loro trasformazione in ciechi decorsi. Col suo trionfo le manifestazioni umane diventano insieme controllabili e coatte. Dell’adeguazione alla natura non resta che la sclerosi verso di essa» (M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit., pp. 193-194).
[14] M. Horkheimer, Eclissi della ragione, Torino, Einaudi, 1969, p. 131.
«L’umanità ha dovuto sottoporsi ad un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo» (M. Horkheimer-T.W. Adorno, op.ult.cit., p. 42).
[15] V. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, 1982.
[16] V. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma, 1997; Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015; Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017; Id., Il mestiere del giudice. Prefazione di Paolo Grossi. Introduzione di P. Filippi e R.G. Conti
[17] E. Severino, Lezioni milanesi. Il nichilismo e la terra (2015-2016), Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 75-81.
[18] Cfr. J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1969, p. 199.
[19] Espressione che dà il titolo alla monumentale opera habermasiana (cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, traduz. italiana di P. Rinaudo, a cura di G.E. Rusconi, Bologna, Il Mulino,1986).
[20] J. Habermas, Conoscenza e interesse, Bari, Laterza, 1970, pp. 251 e 236.
[21] J. Habermas, Conoscenza e interesse, cit., p. 223.
[22] Cfr. J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, cit., p. 55.
[23] Corte Cost., sentenza n. 5 del 18.1.2018, n. 5, in Giur. Cost., 2018, 1, 38.
[24] V. Corte Cost., sentenza n. 268 del 2017, in Foro it., 2018, 3, I, 742.
[25] Corte Cost., sentenza n. 5 del 18.1.2018, n. 5, cit.
[26] Corte Cost., sentenza n. 5 del 18.1.2018, n. 5, cit.
[27] V., in particolare, Corte Cost., sentenza del 14.12.2017, n. 268, in Foro it., 2018, 3, I, 742, e Corte Cost., sentenza del 18.1.2018, n. 5, cit. La stessa Corte ha avuto modo di tornare su alcuni specifici aspetti di tale questione con due decisioni, la sentenza del 6.6.2019, n. 137 e la sentenza del 18.7.2019, n. 186, adottate a poca distanza l’una dall’altra, confermando e puntualizzando quanto già in precedenza affermato. Sul tema, più di recente, L. Scaffardi, G. Formici, Vaccini obbligatori e ruolo del diritto. Un tentativo di (ri)composizione della materia partendo dalla più recente giurisprudenza costituzionale, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2020, fasc. 1, pp. 379 ss.
[28] Cfr. il par. 8.2.4. della sentenza n. 5/2018, cit.
[29] M. Plutino, Le vaccinazioni. Lineamenti ricostruttivi di diritto costituzionale su un tema dominato dalle evidenze scientifiche, in BioLaw Journal, 2, 2019, p. 561.
[30] A. Iannuzzi, L’obbligatorietà delle vaccinazioni a giudizio della Corte costituzionale fra rispetto della discrezionalità del legislatore statale e valutazioni medico-statistiche, in ConsultaOnline, 1, 2018.
[31] L. Scaffardi, G. Formici, Vaccini obbligatori e ruolo del diritto, cit., p. 412.
La triangolazione penale retribuzione riparazione prescrizione*
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. Retribuzione e prevenzione - 2. La giustizia riparativa - 2.1. Riparazione economica o sociale - 2.2. Riparazione nelle relazioni personali: la mediazione penale - 2.1.1. Stato emotivi e passionali e mediazione penale - 2.1.2. Mediazione penale e reati contro la famiglia - 2.3. Il reato riparato - 3. La cornice concettuale della pena prescrittiva.
1. Retribuzione e prevenzione
Le questioni relative allo scopo della pena sono cruciali per valutare la ragioni del processo penale e dell’istituzione penitenziaria, tanto più perché si possono constatare agevolmente sia la modesta efficacia delle sanzioni penali ai fini della prevenzione generale e speciale sia i molti riverberi negativi della pena carceraria, che peraltro riguarda principalmente le fasce marginali della società (così accrescendo disuguaglianze e emarginazione sociale), gli autori di gravi reati contro la persona e gli appartenenti alla criminalità organizzata[1].
L’idea della pena come retribuzione funzionale anche alla prevenzione di nuovi reati presuppone la pienezza del libero arbitrio e il suo prevalere sui vari condizionamenti che il mondo esterno e le emozioni o le passioni possono esercitare sulla volontà dell’individuo: si assume che l’imputato fosse in grado di comportarsi diversamente da come si comportò e si presume che la pena lo indurrà a agire in modo diverso nel futuro.
Sia la retribuzione che la prevenzione speciale concentrano le loro valutazioni essenzialmente sulla figura del reo e sulla sua condotta illecita (solo nei processi nei confronti di minorenni e nella fase esecutiva della pena questo orizzonte viene in qualche misura ampliato[2]). Tuttavia, dare attenzione al rapporto fra la vittima e il reo può giovare a entrambi (e anche alla società) se conduce a forme di mediazione e di riparazione distinte dalla tutela degli interessi patrimoniali che ordinariamente consente alla persona offesa di costituirsi in giudizio.
Indubbiamente la concezione della pena come afflizione proporzionata al reato commesso è solidamente radicata nella società e costituisce − anche nella prospettiva della tendenza alla rieducazione del condannato imposta dalla Costituzione italiana − il paradigma centrale nel sistema penale. Questo risulta palese dalle norme vigenti, che sono conformi alla tradizione giuridica, agli orientamenti culturali e ai valori morali (oltre che a intense propensioni irrazionali) prevalenti. Ma nulla osta a che la giustizia riparativa e la mediazione penale si sviluppino in termini di complementarità con il permanere delle sanzioni afflittive, cosicché gli oneri complessivi per il reo nel post delictum non differiscano, in linea di principio, da quelli derivanti da una pena meramente retributiva, salvo che per specifiche situazioni non si ammetta che un compiuto esito della riparazione possa tradursi in una condizione di sopravvenuta non punibilità.
2. La giustizia riparativa
Il 16 dicembre 2021 la Conferenza dei Ministri della Giustizia dei Paesi del Consiglio d’Europa ha redatto la Dichiarazione di Venezia, che invita il Consiglio d’Europa e gli Stati membri a considerare la giustizia riparativa non come un semplice strumento nell’ambito dell'approccio tradizionale alla giustizia penale, ma come espressione di una cultura più ampia che dovrebbe permeare il sistema di giustizia penale.
2.1. Riparazione economica o sociale
In realtà, l’ordinamento giuridico prevede già svariate forme di riparazione del reato che influiscono sulla pena o sulla stessa punibilità sino alla estinzione del reato (con il rischio, per il principio di eguaglianza, che i benefici per il reo derivino dalle sue condizioni economiche o, comunque, da condizioni contestuali e non soltanto dalle sue scelte personali) e ognuna delle periodiche commissioni di riforma del sistema penale ha di fronte la prospettiva di estendere il campo della giustizia riparativa[3].
2.2. Riparazione nelle relazioni personali: la mediazione penale
Tuttavia, il paradigma della giustizia riparativa prefigura qualcosa di più ampio rispetto al risarcimento del danno patrimoniale o sociale. Non è incompatibile con la giustizia retributiva, ma segue un altro percorso, che, mentre asseconda le esigenze della prevenzione speciale e della rieducazione del reo, si occupa della persona offesa dal reato.
La mediazione fra il reo e la persona offesa riguarda propriamente i reati che ledono le persone nella loro dimensione psicologica e morale e si collega a un’idea di responsabilità che è indipendente da quella che il reo ha verso lo Stato e che non è retrospettiva (rivolta alla precedente condotta riprovevole) ma prospettica (rivolta a quel che di positivo si può fare nonostante la commissione del reato)[4].
Viene considerata la dimensione diacronica e relazionale del reato e delle sue conseguenze. Si mira a fare evolvere i rapporti in una loro estensione cronologica più ampia di quella (a volta prolungata, altre volte circoscritta a pochi istanti) in cui si colloca il comportamento penalmente rilevante, utilizzando l’oblio attivo, cioè la capacità di distaccarsi dal passato per attenuarne le conseguenze dannose. Si guarda alla vicenda complessiva nella sua realtà, nella sua durata[5].
La pena retributiva segue un criterio di proporzionalità che si concretizza nella determinazione della sanzione ma le sue conseguenze ulteriori non sono prevedibili (neanche la sua estensione cronologica è compiutamente determinata perché possono sopravvenire benefici che la riducono o cumuli che la accrescono).
Invece, le procedure di mediazione penale mirano a produrre uno specifico risultato tangibile che ricomponga in qualche modo, sia dal punto di vista del reo che dal punto di vista della vittima, lo squilibrio relazionale provocato dal reato.
L’idea della giustizia riparativa valorizza una spiegazione del reato che non si limita alla valutazione di una scelta individuale illecita ma si estende alla considerazione delle condizioni (a volte semplici, spesso complesse) che la favoriscono.
Esistono variegate forme e diversi fattori (economici, politici, psicologici) di corresponsabilità sociale nella produzione dei reati e certamente sanzionare l’individuo risulta più semplice che controllare questi fattori. Allora risulta chiaro che la giustizia riparativa veicola idee diverse rispetto a quelle che reggono la concezione della pena come afflizione proporzionata al fatto commesso, ma questo non rende incompatibili le loro rispettive applicazioni.
La concezione corrente considera il reo per le sue condotte ma trascura quel che persona offesa può, in varie forme (desiderio di vendetta, semplice rabbia o rancore, recriminazioni verso gli altri e verso noi stessi) provare per avere patito una condotta criminale. Invece, la mediazione penale considera la vittima anche come un destinatario degli effetti della incapacità dell’autore del reato di risolvere in modo positivo i suoi conflitti interni o con l’ambiente sociale. Mira a fare regredire la dimensione conflittuale del rapporto fra il reo e la vittima soprattutto mediante la rivisitazione degli accadimenti, l'evoluzione delle rispettive posizioni e una reinterpretazione del fatto che non li trovi più soltanto come soggetti in contrasto.
Evidentemente la riparazione del reato non può essere regolata da criteri generali e astratti. Tuttavia, va risolta normativamente la questione della collocazione istituzionale della figura del mediatore e della sua attività nel sistema processuale perché il suo ruolo, tanto essenziale quanto delicato, non consiste solo nel comporre il conflitto fra il reo e la vittima, ma sta anche nel valutare preliminarmente se esistono le condizioni perché ciò avvenga[6].
2.1.1. Stato emotivi e passionali e mediazione penale
A volte può risultare in concreto difficile accertare e valutare lo stato psichico della persona al momento in cui compì il reato (così da condurre il diritto penale italiano a considerare in linea di principio irrilevanti gli stati emotivi e passionali e i loro andamenti), distinguere tra normalità e patologia, registrare i meccanismi dei processi mentali e, così, riaffermare solidamente la validità che principio che fonda la responsabilità giuridica in termini soggettivi.
La giustizia riparativa si adatta particolarmente a questo genere di situazioni perché valuta la relazione fra la responsabilità individuale e la sanzione afflittiva come eventuale e non necessaria. Infatti, dal punto di vista della giustizia riparativa (non anche del suo combinarsi con quella retributiva) il nucleo della responsabilità soggettiva sta nel dovere di rispondere alla persona offesa per ciò che si è compiuto a suo danno. La risposta può anche non essere immediata ma concludere un itinerario che si svolge in un tessuto di relazioni che supera la diade reo-vittima e si muove nell’ambito della triade reo-mediatore-vittima nel contesto del rapporto Stato-reo.
2.1.2. Mediazione penale e reati contro la famiglia
La proposta (comunque già concretizzarsi nella evoluzione della giurisprudenza) della dottrina penalistica di ricollocare i reati contro la famiglia nell’ambito dei reati contro la persona agevola previsioni di mediazione soprattutto relativamente ai reati di maltrattamenti e di violazione degli obblighi di assistenza morale, per le implicazioni di carattere affettivo e psicologico che essi naturalmente presentano. Se ne hanno anticipazioni già nella sentenza della Corte costituzionale n. 357 del 20/07/1990.
In particolare, per quel che riguarda i maltrattamenti, ridurre la pena massima edittale a quattro anni (nella pratica raramente le pene sono inflitte in questa misura e, per lo più, sono inferiori ai due anni e sospese) consentirebbe la applicazione del procedimento della messa alla prova dell’imputato ex art. 168-bis cod. pen.
2.3. Il reato riparato
Sarebbe utile una raccolta compilativa delle forme riparatorie speciali (che hanno prodotto una parziale decodificazione) e delle oblazioni (frequenti in materia di contravvenzioni), perché potrebbe condurre a giustificare l’idea di una figura di parte generale del delitto riparato che riduca la pena originaria in rapporto alla riparazione dell’offesa; oppure l’avvenuta riparazione come un titolo autonomo di reato (il reato riparato con una sua pena indipendente, simmetricamente a quel che avviene con la figura del tentativo di reato).
Al riguardo è stata proposta una disequazione: delitto riparato uguale o minore al diritto tentato, “delitto riparato ≤ delitto tentato, seguendo l’idea che il disvalore e il trattamento punitivo del delitto riparato siano o meno gravi, o equivalenti a quelli del tentativo. In quest’ottica la previsione della diminuzione della pena fino a due terzi non deriverebbe dalla configurazione di una circostanza attenuante ma da un titolo autonomo di reato: il reato riparato quale analogo inverso rispetto al reato tentato[7]. Oppure il legislatore potrebbe determinare per alcuni reati, o per categorie di reati, non soltanto le sanzioni edittali ma anche i possibili strumenti riparatori connessi.
3. La cornice concettuale della pena prescrittiva
3.1. Il diritto penale deve essere giustificato sulla base di scelte valoriali fondate su principi ben intellegibili e fra loro coesi e le idee relative alla giustizia riparativa riattualizzano le questioni relative alla scopo della norma penale.
Se la pena retributiva non è più vista come unica forma di pena perché le si affianca la (eventuale) riparazione delle conseguenze del reato, allora occorre una cornice concettuale sovraordinata che ricomprenda sia la retribuzione che la riparazione, in un misto di afflizione e (eventuale) riparazione verso la collettività e/o le persone lese.
Questa cornice è offerta dalla pena prescrittiva intesa come pena principale, all’interno della quale restrizioni personali afflittive (dalle diverse forme di limitazione della libertà personale alla interdizione allo svolgimento di attività) e prescrizioni di condotte attive (anche riparatorie) possono variamente equilibrarsi secondo i tipi e la gravità dei reati, ma sempre in base a previsioni tassative nel necessario rispetto del principio di legalità delle pene e al fine di indirizzare e circoscrivere la discrezionalità dei giudici[8].
Una pena prescrittiva contenuta ma rapida − a conclusione di processi snelli nei quali siano comunque assicurate le garanzie procedurali essenziali − può risultare più efficace, con effetti personali e con impegno sociale meno drammatici, nel ridurre i rischi di recidiva, soprattutto nei casi di reati di lieve o media gravità, invece di una pena più estesa e posticipata nel tempo quando le condizioni del soggetto e del suo contesto) potrebbero essere mutate (e risultare accresciuta o, all’inverso, ormai scemata la sua tendenza a delinquere) oppure la sua stessa attuabilità potrebbe evaporare per effetto della prescrizione del reato[9].
Peraltro, una pena siffatta (vicina nel tempo al reato contestato e breve nella sua durata) renderebbe meno nefasti gli effetti di sempre possibili errori giudiziari.
3.2. I modelli di giustizia riparativa e prescrittiva derivano da elaborazioni criminologiche o da approcci empirici e esperienziali.
Invece, la materia richiede appositi approfondimenti scientifici e una sua correlata autonomia didattica nei programmi accademici, che tenga conto anche degli apporti della vittimologia, disciplina che tratta la tipologia delle vittime e il loro ruolo nella genesi del crimine, e comporta una specifica formazione professionale per i giuristi giudiziari[10].
Serve anche a una tecnica legislativa che delimiti i poteri discrezionali del giudice, il cui compito risulterebbe più agevole se il legislatore si limitasse a dare rilievo a forme materiali (oggettivabili) di riparazione, mentre sarebbe troppo largo (e potrebbe sforare in modi debordanti dai suoi limiti istituzionali) se fossero ammesse anche forme di riparazione per equivalente o a carattere ideale o simbolico.
*Relazione svolta il 10/011/2021 presso il Centro di ricerca sulla Giustizia dei minori e della famiglia dell’Università di Catania.
[1] Sul tema l’incontro organizzato a Napoli dalla Scuola Superiore della Magistratura il 14-16 luglio 2021 dal titolo Dalla giustizia sanzionatoria alla giustizia riparativa.
[2] G. Tuccillo, Linee di indiritto del Dipartimento per la Giustizia minorile in materia di Giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato. Ministero della Giustizia minorile e di comunità, in: Giustizia News on line, Quotidiano del Ministero della Giustizia, 22 maggio, 2019.
[3] Ne sono esempi: lo scioglimento della cospirazione e della banda armata (artt. 308 e 309), la ritrattazione nei reati contro l'amministrazione della giustizia; l'adempimento che estingue l'insolvenza fraudolenta. L’art. 162-ter cod. pen. per i reati procedibili a querela soggetta a remissione prevede la estinzione del reato nel caso di riparazione integrale del danno causato (lo schema di una forma processuale della mediazione penale sta nell’art. 29 d.lgs. n. 274/2000 relativo ai reati di competenza del giudice di pace). Per il d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti l'eliminazione delle conseguenze pericolose e dannose del reato e il risarcimento integrale conducono alla esclusione delle pene interdittive e alla riduzione di quelle pecuniarie. Dal 2002 esistono, in materia societaria, forme di risarcimento che estinguono il reato (artt. 2627, 2628, 2633 del codice civile riformato). Similmente il pagamento del debito tributario, la riparazione integrale del danno prodotto dall’inquinamento idrico, la riguardante la bonifica dei siti producono a benefici per il reo. Relativamente alla criminalità organizzata sono previsti premi per la collaborazione poi estesi alla criminalità comune. La collaborazione processuale rileva nei reati contro il diritto d'autore, nel contrabbando, nel furto e nella ricettazione, nell'immigrazione clandestina, nella riduzione in schiavitù, nella tratta di schiavi, in materia di pedopornografia, di proprietà industriale e di reati relativi ai prodotti agroalimentari. L’attenuante ex art. 62 n. 6 cod. pen. prevede una riduzione della pena nel caso di riparazione integrale del danno prima del giudizio o dell’adoperarsi, fuori dal giudizio, per elidere o attenuare le conseguenze dannose del reato. Nel codice penale alcuni istituti sono combinati al risarcimento: la seconda sospensione condizionale, l’amnistia e gli indulti condizionati, i condoni tributari, previdenziali, urbanistici.
[4] La materia è ormai estesamente e variamente trattata. Per un approccio lucido, fra gli altri: V. Patanè, Mediazione penale (voce), in: Enciclopedia del diritto, Annali II, tomo I, Giuffrè, Milano, 2008; V. Patanè, La tutela della vittima nel procedimento di mediazione, in: Giurisprudenza italiana, 2012, 2,485 (commento alla normativa); R. BARTOLI, Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in: Rivista Italiana di diritto e procedura penale, 2016, pp. 101ss; G. Mannozzi, Giustizia riparativa, in: Enciclopedia del diritto, Annali, X, 2017, pp. 475.
[5] Inevitabile il richiamo al pensiero di Bergson e, in particolare al suo Essai sur less données immédiates de la conscience del 1889 (trad.it. di F. Sossi, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere, 1889-1896, Milano, Mondadori, 1986). Vale citare anche: R. Ronchi (a cura di). H Bergson- W. James, Durata reale e flusso di coscienza. Lettere e altri scritti (1902-1939), Milano, Raffaello Cortina, 2014.
[6] La mediazione autore-vittima ha terreno fertile nell’ambito della giustizia minorile (gli artt. 9, 27 e 28 del d.P.R. 448/1988 consentono alla mediazione di svolgere un ruolo in relazione agli istituti della tenuità del fatto e della sospensione del processo con messa alla prova) e potrebbe trovarlo anche in relazione ai reati di competenza del giudice di pace, dove è previsto l’obbligo per il giudice di promuovere la conciliazione fra le parti, la non procedibilità per particolare tenuità del fatto e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (artt. 29, co. 4, 34 e 35 d.lgs. n. 274/2000). Nell’ordinamento penitenziario l’affidamento in prova ai servizi sociali ha connotati riparativi (art. 47 l. n. 354/1975), perché prevede la possibilità per l’affidato di adoperarsi in favore della vittima del reato, con effetti riparativi e risocializzanti.
Con la legge del 28 aprile 2014 n. 67 è stata introdotta la sospensione del procedimento con messa alla prova, che configura uno spazio di concreta operatività per mediazione. Invece, la legge 27 settembre 2021 n. 134 «Delega al Governo per l’efficienza del processo pena nonché in materia di giustizia riparativa» coltiva una prospettiva più ristretta e introduce una modifica dell’art. 165 cod. pen. che ampia i casi in cui la sospensione condizionale della pena può essere subordina alla riparazione del danno o a prestazioni gratuite in favore della collettività o alla partecipazione a percorsi di recupero del condannato.
[7] M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in: Diritto penale contemporaneo, 2, 2015, pp. 236 ss.
[8] L. Eusebi, Ipotesi di introduzione della pena prescrittiva come nuova pena principale, relazione introduttiva in: Dalla giustizia sanzionatoria alla giustizia riparativa. S.S.M.N. 14-16 luglio 2021, Napoli, Castel Capuano.
[9]Per i reati meno gravi, si potrebbero aumentare le ipotesi di messa alla prova (art. 168-bis cod. pen.) e, per quelli più gravi, dove una esecuzione anche detentiva sarebbe inevitabile, di aumentare comunque le ipotesi di pene alternative al carcere. In Italia i limiti edittali inferiori delle pene sono elevati e impediscono di individualizzare la pena, sebbene criteri dell’art. 133 cp, siano tutti diretti alla individualizzazione, e quindi opposti alla prevenzione generale. In Francia non c'è il minimo edittale, ma solo il massimo; in Germania dei minimi bassissimi, tranne che per i delitti più gravi.
[10] G. Mannozzi- GA. Lodigiani, Formare al diritto e alla giustizia: per un’autonomia scientifico-didattica della giustizia riparativa in ambito universitario, in: Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1, 2014, pp.
Riduzione in schiavitù e costrizione o induzione al matrimonio: la Cassazione esclude la successione di leggi penali nel tempo
di Domenico Gaspare Carbonari
Con la sentenza n. 30538/2021, la Corte di Cassazione si pronuncia sul rapporto intercorrente tra la fattispecie di riduzione o mantenimento in schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., e il neo introdotto delitto di costrizione o induzione al matrimonio, ex art. 558 bis, comma 1, c.p. (L. n. 69/2019), escludendo la ricorrenza di un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo.
Sommario: 1. I fatti - 2. Il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio e l’armonizzazione giuridica perseguita dal legislatore italiano - 3. Le questioni affrontate dalla Corte: configurabilità del reato di riduzione in schiavitù - 4. Segue: l’assenza di un fenomeno successorio tra l’art. 600, comma 1, c.p., e l’art. 558 bis c.p. - 5. Ulteriori questioni.
1. I fatti
Con la sentenza n. 30538/2021[1], la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Firenze, con la quale un imputato di origine rom veniva condannato per il reato di cui all’art. 600 c.p., aggravato ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 602-ter c.p., commesso ai danni della figlia. Invero, in assenza del consenso di quest’ultima o prescindendo da un preventivo accordo, il suddetto imputato cedeva la persona offesa al "patriarca" della famiglia cui apparteneva il soggetto promesso sposo.
Dall’istruzione dibattimentale di primo grado emergevano, in particolare, gli elementi sintomatici della sussistenza della fattispecie di riduzione in stato di schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., consistenti nella cessione della persona offesa e nella corresponsione del c.d. “prezzo della sposa”, inteso quale vantaggio economico riveniente dallo sfruttamento e dal processo di reificazione della persona offesa nel momento della cessione ad altri.
Avverso la sentenza in commento, l’imputato presentava ricorso per Cassazione, deducendo la erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla configurabilità del reato contestato, in primo luogo rilevando come la Corte territoriale non avrebbe specificato quale delle due fattispecie alternativamente previste dall’art. 600 c.p. risultasse integrata[2]. In secondo luogo, osservava come il giudice di merito non avrebbe tenuto in considerazione le c.d. motivazioni culturali, ossia le tradizioni e i costumi sociali della comunità rom e dell’ordinamento giuridico di riferimento, per il quale il “prezzo della vittima” costituirebbe un risalente istituto giuridico privo di natura corrispettiva, ma funzionale al risarcimento della famiglia di origine per la “perdita del proprio componente”. Ne inferiva l’assenza dell’elemento soggettivo, rilevando come l’adesione ai fattori culturali lo abbia generato in lui una ragionevole convinzione di comportarsi lecitamente.
Muoveva, infine, una censura in ordine alla mancata riqualificazione del fatto contestato nella fattispecie di costrizione o induzione al matrimonio, avente natura di fattispecie più favorevole al reo.
2. Il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio e l’armonizzazione giuridica perseguita dal legislatore italiano
Preliminarmente, appare opportuno soffermarsi sulla natura della nuova fattispecie, vagliando anche le ragioni politico-criminali che hanno indotto il legislatore ad introdurla nel codice penale, nella specie nel titolo XI relativo ai delitti contro la famiglia e non nel capo III, titolo XII, in materia di delitti contro la libertà individuale. Malgrado la collocazione normativa sia stata criticata da qualche commentatore, tuttavia, deve ritenersi che il nuovo delitto ha natura di fattispecie plurioffensiva, apprestando tutela all’istituzione matrimoniale e, al contempo, alla libertà di autodeterminazione della persona.
La fattispecie astratta costituisce la trasposizione normativa parziale dell’art. 37 della Convezione di Istanbul e del contenuto della Direttiva 2012/29/UE[3]. Invero, la novità legislativa assolve all’esigenza di apprestare tutela penale ai soggetti che vengono obbligati, per mezzo della violenza o della minaccia, o indotti tramite approfittamento delle condizioni di vulnerabilità, a contrarre matrimonio o unione civile. Ed infatti, in assenza di una disciplina specifica e peculiare, la precedente dottrina e giurisprudenza di legittimità hanno ipotizzato la sussumibilità della fattispecie concreta nell’ambito applicativo dei reati previsti dagli artt. 558 c.p. (induzione al matrimonio mediante inganno), 573 c.p. (sottrazione consensuale di minorenni, fattispecie attenuata nella ipotesi in cui il fatto fosse stato commesso “per fine di matrimonio”), 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci), 605 c.p. (sequestro di persona), 574-bis (sottrazione e trattenimento di minore all’estero) e 610 c.p. (violenza privata)[4]. Fattispecie che presentano alcuni elementi costitutivi in comune con la nuova disposizione, evidenziando come tra di esse non sia stata mai annoverata la riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù. Ciò lascerebbe intendere, almeno in linea teorica, l’inesistenza di punti di contatto tra le due fattispecie, così come sostenuto dalla Corte nella sentenza in commento, nella quale si è osservato che mai in passato è stato “ipotizzato che il “matrimonio forzato e/o precoce” integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600 comma 1 c.p.”.
Quanto alla struttura, la formulazione legislativa depone per la natura comune del reato, in quanto le condotte contestate possono essere poste in essere da chiunque; inoltre, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, che si sostanzia nella mera coscienza e volontà di costringere o indurre qualcuno a contrarre matrimonio o unione civile, a nulla rilevando le motivazioni specifiche che hanno animato la condotta del reo. Più articolato appare, invece, l’elemento oggettivo, la cui individuazione dipende dalla formulazione dell’art. 558 bis c.p. in due fattispecie: al comma 1, viene sanzionata la condotta costrittiva posta in essere con violenza o minaccia[5]; al comma 2, invece, viene punita la condotta induttiva consistente, da un lato, nell’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di necessità di una persona e, dall’altra, dall’abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile[6].
3. Le questioni affrontate dalla Corte: configurabilità del reato di riduzione in schiavitù
Nella pronuncia in commento, i giudici di legittimità hanno confermano la ricostruzione operata dai giudici di merito, ritenendo sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 600, comma 1, c.p. Sotto il profilo soggettivo, pur non negando che il reo abbia agito sotto l’impulso dell’adesione al sistema culturale di riferimento, tuttavia, la Corte ha osservato che lo stesso agiva nella consapevolezza di porre in essere un comportamento illecito per l’ordinamento giuridico italiano, deponendo in tal senso la risalente presenza sul territorio italiano e le dichiarazioni divergenti acquisite in fase di indagini[7].
Anche sul versante oggettivo la Corte conferma le argomentazioni dei giudici di merito, rilevando come il reo avesse sottoposto la vittima ad un processo di reificazione: si richiede, infatti, che la vittima sia stata “oggettivizzata” e che l’autore del fatto illecito eserciti sulla stessa i poteri corrispondenti al diritto di proprietà[8]. La cessione contro la corresponsione del c.d. “prezzo della sposa”, in particolare, è stata ritenuta espressione di quella condizione di schiavitù di fatto idonea, da un lato, a limitare la libertà di autodeterminazione della vittima e, dall’altro, a configurare l’essere umano quale mera merce di scambio.
4. Segue: l’assenza di un fenomeno successorio tra l’art. 600, comma 1, c.p., e l’art. 558 bis c.p.
Il profilo più interessante della pronuncia attiene al rapporto tra le due fattispecie, il quale è stato dedotto dal ricorrente in termini di specialità diacronica[9] e, quindi, in un rapporto di successione di leggi penali nel tempo, con presunta applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p. In particolare, il ricorrente osservava che l’introduzione dell’art. 558 bis c.p. configurava una ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, capace di assorbire il disvalore di quelle condotte che, prima di tale innovazione legislativa, sarebbero state riconducibili al campo applicativo dell’art. 600 c.p.
La Corte di legittimità ha diversamente opinato, esprimendo il principio di diritto per cui, in applicazione del c.d. criterio strutturale in astratto, tra le due fattispecie non può predicarsi una successione di leggi penali nel tempo, difettando l’area di coincidenza strutturale tra le stesse: l’imputato non può giovarsi dell’effetto favorevole di cui all’art. 2, comma 4, c.p. Si conclude, pertanto, per l’assenza di un rapporto in termini di “specialità diacronica”, escludendosi l’applicazione dell’art. 558-bis c.p. al caso di specie.
In particolare, al fine di individuare il criterio di soluzione della presunta questione successoria, per un verso, la Corte contesta il richiamo implicito al criterio della c.d. doppia incriminabilità in concreto[10], osservando che può discutersi di fenomeno successorio tra leggi penali, ex art. 2, comma 4, c.p., quando la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente. Situazione, questa, che – come si vedrà – non è ritenuta ricorrente dai giudici di legittimità, per i quali non è “stato mai ipotizzato che il matrimonio forzato e/o precoce integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600, comma 1, c.p.”.
Per altro verso, aderisce all’orientamento pacifico della giurisprudenza della legittimità e della dottrina, opinando per il c.d. criterio del confronto strutturale[11] o della doppia incriminabilità in astratto: quest’ultimo, invero, valorizza il confronto strutturale tra le fattispecie astratte e ricerca “quell’area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo”. Ed infatti, in applicazione del suddetto criterio, si ha fenomeno successorio nel caso in cui, a fronte di una comparazione, si evince un rapporto strutturale di continenza tra le due fattispecie, tal per cui la norma successiva presenta elementi di specialità rispetto a quella originaria generale e sia idonea ad inglobarla.[12]
In particolare, la continuità normativa tra due fattispecie non deve basarsi meramente su “criteri valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e alle modalità di offesa, assai spesso incapaci di condurre ad approdi interpretativi sicuri”[13], bensì su una comparazione organizzata su due livelli: da un lato, si tiene conto del grado di specificazione della fattispecie successiva rispetto a quella originaria e, dall’altro, e si procede all’attività di sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta delineata da una delle due norme. Pertanto, solo ove la fattispecie concreta oggetto di attenzione fosse effettivamente annoverabile nella sfera di disciplina della fattispecie della costrizione al matrimonio, ex art. 558 bis c.p., allora potrà sostenersi la ricorrenza di un fenomeno di successione favorevole al reo.
Nella specie, dal confronto strutturale tra le due fattispecie emerge che “i fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non presentano alcun elemento di contatto”, perché la fattispecie della riduzione e mantenimento in schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., non contempla gli elementi della violenza e della minaccia, intesi quali elementi costitutivi della fattispecie di matrimonio forzato e/o precoce (secondo la formulazione di cui al comma 1 dell’art. 558 bis c.p.). Ed invero, ricopre un ruolo dirimente la circostanza della cessione della vittima che, in assenza di fatti di violenza o minaccia[14], integra gli estremi della reificazione e dello sfruttamento riconducibile alla nozione di riduzione in schiavitù[15]. Inoltre, in virtù di un criterio storico, i giudici di legittimità hanno evidenziato che, anche prima dell’introduzione dell’art. 558-bis c.p., le ipotesi di matrimonio forzato e/o precoce non hanno mai integrato, di per sé, il reato di cui all’art. 600, comma 1, c.p., così come addebitato all’imputato.
In definitiva, la comparazione tra le fattispecie astratte “non può che avere esito negativo, non registrandosi alcuna coincidenza tra le fattispecie a confronto”. La soluzione scelta dalla Corte è preferibile perché, in difetto di comunanza di elementi costitutivi, non può predicarsi l’applicazione della nuova fattispecie più favorevole, anche se questa sanziona la specifica condotta della costrizione o induzione al matrimonio: non è la sola finalità, ossia la contrazione del matrimonio, a caratterizzare la specialità dell’art. 558 bis c.p. rispetto al delitto di cui all’art. 600, comma 1, c.p., in quanto quest’ultima fattispecie astratta, configurando un reato di mera condotta, è integrata in presenza dell’esercizio, su di una persona, dei poteri assimilabili a quelli del diritto di proprietà[16].
5. Ulteriori questioni
In altro passaggio della sentenza, la Corte accenna ad una ulteriore questione fondata sulla considerazione per cui la “violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione in schiavitù […] bensì di quello di riduzione o mantenimento di persona in uno stato di soggezione continuità”. Anche se implicitamente, i giudici di legittimità sembrano accostare la fattispecie della riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa a quella di cui all’art. 558 bis c.p., caratterizzata dall’impiego della violenza, della minaccia o delle modalità induttive.
Con riferimento a questo punto, la prospettiva di analisi potrebbe non essere quella della specialità diacronica, bensì della specialità di tipo sincronico, ossia del rapporto tra due norme compresenti nel sistema giuridico, senza che si verifichi la sostituzione di una norma generale con una caratterizzata da elementi di specialità: in questo caso, si ricorre al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. Ed invero, le classi di fattispecie che potrebbero presentarsi all’attenzione dell’interprete comprendono le ipotesi in cui il matrimonio è evento conseguente all’impiego sia della violenza o della minaccia, sia di un’attività di induzione[17]: si tratta, infatti, di condotte astrattamente riconducibili anche al delitto di riduzione e mantenimento in servitù.
In applicazione del criterio di specialità, l’attività prodromica dell’interprete consiste nell’individuazione della “stessa materia” che, in virtù del confronto strutturale tra le fattispecie astratte, conduce ad accertare la “esistenza di un’area di disvalore comune e sovrapponibile tra le condotte descritte nelle norme concorrenti”[18], area che descrive un rapporto di continenza verificabile “mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse”. In particolare, il concetto di stessa materia esula dall’identità del bene giuridico tutelato, tal per cui può risolversi il conflitto anche in favore di una fattispecie che, nonostante la diversità de bene, presenta gli stessi elementi costitutivi di altra fattispecie.
Ebbene, nella specie, il confronto strutturale tra l’art. 600, comma 2, c.p. e le ipotesi disciplinate dall’art. 558 bis c.p. sembrerebbe avere esito positivo, nel senso che la seconda fattispecie condivide parte degli stessi elementi costitutivi della prima, ossia: la celebrazione del matrimonio in stato di costrizione (violenza o minaccia) o di induzione al matrimonio, quest’ultima caratterizzata dallo sfruttamento delle condizioni o di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di una situazione di necessità. A questi si accostano ulteriori elementi specializzanti (c.d. specificazione per aggiunta), individuabili, da un lato, nella finalità della condotta costrittiva o induttiva verso la contrazione del matrimonio e, dall’altro, nell’approfittamento delle suddette condizioni congiunto all’abuso delle relazioni familiari, domestiche o derivanti dall’affidamento della persona offesa per ragioni di cura, istruzione o educazione.
L’art. 558 bis c.p., pertanto, sembrerebbe condividere gli stessi elementi, o parte di essi, della fattispecie di riduzione o di mantenimento in una condizione di servitù, con gli ulteriori elementi di specificazione dati dal tipo di relazione che connota l’abuso (approfittamento delle condizioni personali, domestiche, etc.) e dalla finalità propria dell’attività costrittiva o induttiva. Si perviene alla medesima conclusione, inoltre, anche se il bene giuridico tutelato è diverso a seconda della fattispecie che si considera.
Con specifico riferimento all’ipotesi dell’induzione al matrimonio, ad essa può ricondursi l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di riduzione e mantenimento in servitù, alle espressioni “sfruttamento delle condizioni o di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di una situazione di necessità, anche con abuso di autorità”, ossia la compromissione della libertà di autodeterminazione della vittima rispetto alla generalità delle scelte che connotano la sua esistenza, anche se questa non risulti del tutto alterata; e ciò anche nell'ipotesi – specifica la Corte - in cui la vittima conservi una parziale libertà di autodeterminazione[19].
L’impossibilità o la ridotta capacità di resistenza può ben configurarsi anche nell’ipotesi di una vittima che, benché non opponga resistenza alla limitazione della libertà personale, vi aderisce in conformità ai costumi e alle usanze della cultura di riferimento. In altri termini, l’approfittamento della condizione può concretizzarsi anche nella induzione c.d. implicita a contrarre matrimonio, in virtù del richiamo alle tradizioni cui la famiglia della vittima aderisce, costituendo una sorta di “adesione obbligata e incondizionata e senza possibilità di scelta” (senza, dunque, che assuma efficacia scriminante il consenso o l’acquiescenza della vittima). Conseguenza, questa, resa complessa dall’inserimento della vittima in un sistema familiare caratterizzato dal patriarcato o, comunque, dall’esercizio di una radicale e rigorosa patria potestà sui figli, configurandosi un abuso delle relazioni familiari in materia di cura, educazione e vigilanza dei figli[20].
A fronte di un contesto familiare indicativo di uno “stato di soggezione implicito”, riconducibile alle indicazioni delineate dall’art. 600, comma 2, c.p., ma caratterizzato anche da un abuso sistematico dell’autorità derivante dall’affidamento della vittima ad un capo famiglia (ex art. 558 bis, comma 2, c.p.), l’interprete potrebbe aderire ad un’interpretazione evolutiva, che tenga conto della specificità del contesto delittuoso in cui le condotte si esplicano.
I vantaggi dell’impiego di questa modalità operativa rivengono dalla considerazione oggettiva dello svolgimento delle singole fattispecie e dei contesti di riferimento, al contempo, evitando i rischi connaturati ad un uso eccessivamente discrezionale o e valoriale di criteri astratti ad opera del giudice. Rilevano, dunque, il rapporto tra la vittima e l’autore del reato, il contesto familiare e quello culturale, che potrebbero deporre, anche in presenza di un contesto tipico di riduzione e mantenimento in servitù, per l’applicazione della fattispecie speciale di cui all’art. 558 bis, comma 2, c.p.[21]
In virtù di quanto su esposto, e come accennato dalla Corte, ben potrebbe in futuro porsi la necessità di definire il rapporto tra gli artt. 600, comma 2, e 558 bis c.p., per lo più in termini di specialità sincronica, con applicazione del principio di specialità.
[1] Cassazione, Sezione I, n. 30538/2021.
[2] Il ricorrente osservava che le due fattispecie alternative fossero accumunate dall’elemento deIl’asservimento della vittime ai fini dello sfruttamento: quest’ultimo individuato nel vantaggio economico che l’imputato avrebbe tratto dalla cessione della persona offesa alla famiglia cui apparteneva il soggetto a cui era stata promessa in sposa sulla base di un accordo a cui la persona offesa è rimasta estranea.
[3] L’art. 37 della Convenzione di Istanbul impone agli Stati firmatari di reprimere tutti quei comportamenti consistenti nel costringere un adulto o un minore a contrarre matrimonio e nell’attirare un adulto o un minore nel territorio di uno Stato estero diverso da quello in cui risiede, con lo scopo di costringerlo a contrarre un matrimonio. La Direttiva 2012/29/UE, volta a dettare norme minime in materia di diritti all'assistenza, informazione, interpretazione e traduzione nonché protezione nei confronti di tutte le vittime di reato, nel considerando n. 17), include nella violenza di genere anche quella posta in essere nelle relazioni strette e i cd. matrimoni forzati.
[4] In tal senso, la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione sulla Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. In dottrina, G. Pepe, I matrimoni forzati presto previsti come reato anche in Italia? Qualche approfondimento sul fenomeno ed un primo commento alla norma volta a contrastarlo, contenuta nel Disegno di Legge “Codice Rosso”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, maggio 2019, prima dell’approvazione della legge, ipotizzava de iure condito il ricorso alle fattispecie degli “artt. 572, 605, 610, 609-bis, 609-quater c.p., rilevando come, tuttavia, si configurasse “una tutela poco uniforme, che non si rivolge in modo puntuale allo specifico bene giuridico della libertà di autodeterminarsi sulla propria vita sentimentale e matrimoniale e non riesce a cogliere compiutamente il fatto lesivo, come invece cerca di fare, attraverso un’incriminazione specifica, la proposta di legge oggi all’esame del Senato”. Differente si mostra la tendenza di alcuni paesi europei, nello specifico, Danimarca, Germania, Spagna, Slovacchia e Regno Unito, i quali hanno provveduto in tempi celeri a criminalizzare le condotte in questione.
[5] La ratio della generica previsione della “costrizione” è quella di sanzionare, in modo incondizionato e senza categorizzazioni di sorta, qualsiasi condotta realizzata tramite violenza o minaccia. In particolare, la Corte di Cassazione ha evidenziato come il comma 1 ricalchi la formulazione dell’art. 610 c.p., in materia di violenza privata, “di cui pare costituire norma speciale”, tal per cui la nozione di “violenza e minaccia” viene a coincidere con l’interpretazione fornita dalla prassi giurisprudenziale in tema di art. 610 c.p.
[6] Ulteriori profili di disciplina attengono all’applicazione nello spazio della nuova fattispecie e all’interpretazione estensiva della nozione “matrimonio ed unioni civili”. Con riferimento al primo profilo spaziale, l’ultimo comma dell’art. 558 bis c.p. consente all’autorità giudiziaria italiana di perseguire, in deroga la principio di territorialità, le condotte commesse all’estero anche da cittadini italiani, in considerazione, da un lato, della natura transfrontaliera dei matrimoni forzati e, dall’altro, dell’eventuale trasferimento della vittima da un territorio nazionale ad un altro (artt. 36, 37, 38 e 39 della Convenzione di Istanbul). Quanto al secondo profilo, invece, la giurisprudenza di legittimità ritiene che la nozione di matrimonio o unione civile possa essere estesa anche a tutte quelle ipotesi di relazioni personali che producono gli stessi effetti di un matrimonio o unione civile, pur sotto diversa denominazione: se la volontà legislativa è quella di sanzionare una “pratica che sovente si manifesta al di fuori del territorio di appartenenza”, allora, la disposizione sembrerebbe riferirsi anche rapporti o vincoli di natura personale e riconducibili, pur se con diversità sul piano effettuale, alle ipotesi disciplinate dall’ordinamento giuridico italiano (in tal senso, Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione sulla Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere).
[7] La sussistenza dell’elemento soggettivo si fonda anche su altra argomentazione, ossia sull’esclusione della rilevanza del c.d. fattore culturale. Ed infatti, aderendo all’indirizzo prevalente in dottrina e in giurisprudenza, la Corte sostiene che le condotte di riduzione in schiavitù non possono essere scriminante sulla base del c.d. movente culturale, con riferimento a tutti i casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduca nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale, presidiati dalle norme penali violate. Inoltre, ai fini dell’esclusione della rilevanza penale di un fatto, il giudice di merito è chiamato a valutare congiuntamente “la natura della regola culturale in adesione alla quale la condotta è stata posta in essere - se cioè di matrice religiosa, consuetudinaria o positiva (prevista cioè dall’ordinamento giuridico di eventuale originaria appartenenza) - nonché il suo carattere vincolante per l’agente, ma altresì il livello di integrazione di quest’ultimo nel contesto sociale dominante”. Conseguenza di questa argomentazione è quella per cui, in tema di riduzione in schiavitù, “non assume rilievo scriminante il movente culturale in tutti i casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduca nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale, presidiati dalle norme penali violate”.
[8] La Corte, infatti, avalla una interpretazione ampia del processo di reificazione della vittima, osservando come ad esso si possa ricondurre non solo una “condizione di schiavitù di diritto, ma altresì quelle situazioni nelle quali di fatto venga esercitata su di un altro essere umano una signoria così pervasiva da risultare equivalente nel suo contenuto alle forme di manifestazione del diritto di proprietà”.
[9] Per una trattazione esaustiva della categoria e delle relative differenze con la specialità sincronica, si è ampiamente espressa sia la Corte Costituzionale (sentenze nn. 196/2004 e 324/2008) che la Corte di Cassazione (sentenze nn. 24834/2017 e 1418/2017). In dottrina, tra tutti, M. Gambardella, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cassazione Penale, 2007.
[10] Tesi della doppia punibilità in concreto o del fatto concreto, per la quale si ha successione favorevole al reo se un fatto risulta concretamente punibile sia in base alla vecchia norma che alla nuova più favorevole.
[11] Il percorso si è sviluppato su tre diverse tappe: in un primo momento, veniva avallata la tesi del c.d. fatto concreto o della doppia punibilità in concreto, superata dalla posizione di altra dottrina e giurisprudenza in favore del criterio valutativo o della c.d. continuità del tipo di illecito. A questo, faceva seguito l’attuale orientamento maggioritario in favore del criterio strutturale.
[12] In giurisprudenza di legittimità, le pronunce a SS.UU. Magera del 2007, Niccoli del 2008 e Rizzoli del 2009. Di recente, SS.UU., sentenza n. 25887/2003 e SS.UU., sentenza n. 20664/2017. Nello stesso senso, Cass., Sez. VI, sentenza n. 30227/2020 e 36317/2020. In dottrina, G.L. Gatta, la Cassazione applica il 'criterio strutturale' e ribadisce: nessuna abolitio criminis del peculato commesso dall'albergatore prima del 'decreto-rilancio', www.sistemapenale.it, dicembre 2020.
[13] In aderenza al principio di diritto sancito da Sez. U, Sentenza n. 25887/2003.
[14] La figura disciplinata dal comma 1 dell’art. 600 c.p. è rappresentata dall'esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà (ipotesi corrispondente a quella descritta nella rubrica come "schiavitù"); la figura disciplinata dal comma 2 è rappresentata dalla riduzione o dal mantenimento di una persona, attuati con le modalità previste dal secondo comma, in uno stato di soggezione continuativa, nella quale la vittima venga costretta a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (ipotesi descritta dalla rubrica come "servitù").
[15] Ciò in quanto il delitto di cui all’art. 600 c.p. è configurabile anche quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato, essendo, dunque, sufficiente l’esercizio sulla vittima di poteri corrispondenti al diritto di proprietà o la sua riduzione o mantenimento in stato di soggezione continuativa.
[16] Pertanto, in aderenza alla suddetta conclusione, può ben escludersi un fenomeno successorio favorevole al reo e, quindi, anche un’eventuale abolitio parziale, in virtù della diversità strutturale tra le due fattispecie e, in particolare, dell’assenza di precedenti giurisprudenziali che riconducessero le precedenti fattispecie concrete di matrimoni forzati e/o precoci nel novero delle ipotesi disciplinate dall’art. 600, comma 1, c.p.
[17] Attività di induzione consistente nell’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia.
[18] Cass., SS.UU., n. 1963/2011.
[19] Dirimente, per lo più, l’approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica che, insieme allo sfruttamento della condizione di vulnerabilità e dell’abuso di relazioni domestiche o familiari, viene ricondotto alla generale formula della condizione di vulnerabilità della vittima, alla quale la giurisprudenza di legittimità riconduce la “condizione di diminuita capacità di resistenza della vittima, la quale renderà irrilevante la sua eventuale acquiescenza al volere dell'agente”.
[20] A corroborare questa conclusione potrebbe dedursi la questione circa la possibilità di considerare, ai fini del concetto di “stessa materia”, l’eventuale area comune determinata dai c.d. reati culturalmente orientati. Nell’ambito di contesti delittuosi caratterizzati dall’adesione a valori o matrici culturali contrastanti con l’ordinamento giuridico, l’area comune tracciata dal criterio strutturale potrebbe essere rinvenuta nel contesto multiculturale in cui la vittima è collocata e nelle condotte materiali che la stessa subisce o cui implicitamente aderisce.
[21] A conferma di questa conclusione si possono dedurre, altresì, le intenzioni del legislatore eurounitario, per il quale le fattispecie di matrimonio forzato e/o precoce devono essere sanzionate a maggior ragione quando si innestano in contesti o ambienti caratterizzati dal costante impiego dei poteri tipici della riduzione o del mantenimento in schiavitù o servitù.
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