ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nel centounesimo anniversario della nascita di Leonardo Sciascia, Giustizia Insieme ricorda lo scrittore con una recensione della Prof.ssa Tania Groppi ad un volume dedicato alla sua memoria, di recente edito.
Di fronte al potere. Considerazioni sul volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, Cacucci Editore, Bari, 2021.
di Tania Groppi
Otto giuristi per otto romanzi. Non c’è modo migliore per rendere omaggio, a centouno anni dalla nascita, a uno scrittore che ha messo il diritto, e chi di diritto si occupa, al centro della sua opera letteraria. Quasi che le parole del protagonista di “Una storia semplice”, citate nell’esergo del volume curato, non a caso, da due magistrati, Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, corrispondessero a un personale desiderio dell’autore: “la laurea in legge era la suprema ambizione della sua vita, il suo sogno”.
La piena consapevolezza della centralità del diritto, e della sua applicazione, in particolare da parte dei giudici, ritorna in molte delle opere esaminate nel volume, culminando nel breve testo di Sciascia riportato nell’appendice, scritto in occasione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, dedicato alla “dolorosa necessità del giudicare”. Un testo che sembra riassumere la visione che lega, come un filo rosso, i romanzi commentati, che si snodano lungo il corso di tutta l’attività dello scrittore. “Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare: dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”.
Perché, ci potremmo chiedere, il diritto è così centrale nell’opera di un autore che, maestro elementare formatosi tra le due guerre mondiali in remote lande siciliane, appassionato di storia, di letteratura, di cultura essenzialmente locali, giunge a dedicarvi una parte importante della sua opera, nonché a partecipare attivamente, da protagonista, decenni dopo, al dibattito pubblico sulla giustizia, fino a divenire direttamente legislatore, in due consecutive legislature negli anni ottanta del ventesimo secolo?
La risposta ci giunge da molti dei saggi raccolti nel volume e ha a che vedere con un aspetto “primigenio” delle società umane, così primigenio (nel senso che viene prima, anche del diritto) da aver spinto i curatori a tralasciarlo nella scelta delle parole del titolo: ovvero, ha a che vedere con il potere. Un potere che, come evidenzia Natalino Irti nel saggio su “Il giorno della civetta”, si sviluppa secondo la relazione hegeliana tra servo e padrone. È lì che nasce il diritto, come prodotto del potere, strumento di soprusi e diseguaglianze che attraversano tutta l’opera di Sciascia, profondamente intrisa di storia, in particolare quella del Regno delle Due Sicilie, ancorata nello Stato per ceti e nella tradizione preilluministica. È il diritto che viene applicato dagli inquisitori in feroci supplizi, da “Il Consiglio d’Egitto” a “Morte di un inquisitore”, fino a “La strega e il capitano”, in un Ancien Régime che, per Sciascia, sembra impossibile scardinare: “solo il mondo della letteratura e dell’arte ci consente di vedere la luce”, per riprendere le parole di Massimo Donini nel saggio su “Il Consiglio d’Egitto”.
A fronte di questo diritto, l’unica possibile reazione morale è la resistenza individuale, espressa, in forme diverse, dai protagonisti di questi romanzi, uomini (e donne, dovremmo aggiungere) di “tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio”, come ci ricorda Davide Galliani riprendendo le parole di Sciascia contenute nelle note finali al testo su “Morte di un inquisitore”.
Il diritto, in quanto prodotto del potere, si rivela inevitabilmente incapace di limitarlo, intrappolato, come scrive Mario Serio, nelle astuzie di un ambiente che non consente l’effettivo funzionamento dell’ordinamento statuale. Tutti gli sforzi di utilizzare la legge per porre fine all’arbitrio (emblematico è il caso della lotta contro la mafia, tema che attraversa l’opera, non solo letteraria, di Sciascia) paiono destinati alla sconfitta, al punto che i personaggi che se ne fanno portatori risultano o degli appassionati idealisti, come il capitano Bellodi de “Il giorno della civetta”, oppure degli sciocchi illusi, come il professor Laurana di “A ciascuno il suo”.
In questo quadro, la giustizia, che nelle opere di Sciascia, frequentemente costruite nella forma del romanzo poliziesco, coincide con la verità, è un mito irraggiungibile, per l’inerzia, l’incapacità o le deviazioni dei suoi attori, come evidenzia Giovanni Mammone nel saggio dedicato a “Il contesto. Una parodia”, nel quale sviluppa un innovativo paragone con Kafka. La giustizia condizionata dal potere è l’ossessione di Sciascia, ricorda Gabriella Luccioli nel capitolo su “La strega e il capitano”, sottolineando che tutta la produzione letteraria di Sciascia testimonia della mancanza di fiducia per i giudici del suo tempo, definiti in alcune occasioni “burocrati del male” e configurati generalmente come figure ambigue, come antieroi fautori dell’impostura, protagonisti di procedimenti giudiziari troppo inquisitori ed ispirati a logiche di prevaricazione.
Come interpretare allora altre celebri parole di Sciascia, a più riprese citate dagli autori del volume, che sembrano andare in opposta direzione? “La democrazia non è impotente a combattere la mafia…Ha anzi tra le mani lo strumento che la mafia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia”.
Mi pare che in questo snodo, al crocevia tra potere, diritto e giustizia, si possa collocare anche il prodotto più fruttuoso di questa rilettura dell’opera di Sciascia, che può portarci a una accresciuta consapevolezza sulle problematiche e le sfide che assillano i giuristi dei nostri tempi.
Come mette in evidenza Nicolò Lipari nel capitolo su “Diritto e letteratura in Todo modo”, l’opera di Sciascia “si colloca lungo la linea di uno spartiacque, quello che ha segnato il passaggio del diritto da scienza teoretica a scienza pratica, da un atteggiamento cioè che impone il riferimento a un oggetto definito (il quadro delle regole dettate) ad un altro, antitetico, che chiede di rivolgersi al modo di svolgimento di una prassi nella quale è inevitabilmente implicato lo stesso operatore. Non possiamo più attendere che il mutamento discenda dall’alto di un atto legislativo, esso deve salire dal basso dei nostri comportamenti”. Mi pare assai convincente la prospettiva secondo la quale “Sciascia, pur non avendone lucida consapevolezza sul piano teorico…avverte questa tensione: intende i pericoli di un atteggiamento culturale che, anche se chiede un cambiamento, lo attende passivamente da altri o lo riconduce a una radicale sovversione delle strutture esistenti”.
In altre parole, è assente dal panorama di Sciascia l’immane tentativo, posto in atto nel Secondo dopoguerra, di riconciliare il diritto con la giustizia, trasformandolo da strumento del potere a mezzo per il conseguimento di un risultato di giustizia, attraverso la scrittura nelle costituzioni rigide e nei trattati internazionali di principi supremi e inviolabili che pongano al centro la dignità della persona umana. Una concezione del diritto che, a partire da tali principi supremi, apra la strada a un loro inveramento dal basso, sotto la pressione dei casi, trasformando i giudici nei garanti dei diritti, in dialogo con la società civile e con l’ordinamento europeo e internazionale. Come scrive in altra parte del volume Donini, la visione di Sciascia, secondo la quale “il diritto serve al potere, e non il potere al diritto”, riguarda “il diritto prima dei diritti, il diritto pre-costituzionale”.
Se in parte una simile assenza può risultare sorprendente nell’opera di un autore che intorno al diritto e alla giustizia si è arrovellato per decenni, nell’Italia repubblicana, essa ci aiuta, oggi, a vedere le grandi difficoltà che questa nuova concezione del diritto ha dovuto affrontare per farsi strada, e diventare parte di una identità culturale condivisa.
Non solo. Leggere con questo sguardo l’opera di Sciascia ci aiuta a cogliere l’importanza e la fragilità di questa acquisizione.
Se definiamo il formalismo giuridico con le parole del capitano Bellodi di “Todo modo”, come “quella astrazione in cui le leggi vanno assottigliando attraverso i gradi di giudizio del nostro ordinamento fino a raggiungere quella trasparenza formale in cui il merito, cioè l’umano peso dei fatti, non conta più; e abolita l’immagine dell’uomo, la legge nella legge si rispecchia” è facilmente intuibile che tale rischio è tutt’altro che scongiurato, anzi è continuamente in agguato.
Il principale antidoto a una sempre possibile involuzione sembra ancora una volta quella responsabilità personale alla quale spesso l’opera di Sciascia richiama, e in primo luogo proprio la responsabilità di chi ha fatto del diritto una professione. L’esergo del romanzo Porte aperte, una citazione di Salvatore Satta messa in evidenza da Ernesto Lupo nel capitolo “Il diritto tra legge e giudizio: Porte aperte”, mi pare possa riassumere al meglio l’intuizione di Sciascia, che è al cuore del diritto del nostro tempo: “La realtà è che chi uccide non è il legislatore, ma il giudice, non è il provvedimento legislativo, ma il provvedimento giurisdizionale. Onde il processo si pone con una sua totale autonomia di fronte alla legge e al comando”.
Come ci mostra la vicenda del “piccolo giudice” protagonista di Porte aperte, decidere da che parte stare è sempre possibile, anche in un regime autoritario come quello fascista, solo che si abbia il coraggio di assumere la propria responsabilità. Una responsabilità che impone di guardare in faccia la realtà e di farsene carico, senza sfuggire a inquietudini, dubbi e tormenti. La letteratura può rivelarsi, ancora una volta, una grande maestra per un apprentissage nella conoscenza del reale che non deve però esimere ciascuno, nella concretezza della sua esperienza, dal fare le proprie scelte.
Trattazione scritta e udienze da remoto fino al 31 dicembre 2022: di proroga in proroga (d.l. 30 dicembre 2021, n. 228) di Franco Caroleo
Mentre da un punto di vista letterario il 2022 sarà un anno di eccezionali ricorrenze (fra tutte, i centenari delle nascite di Pier Paolo Pasolini, Beppe Fenoglio e Luciano Biancardi), nelle aule di giustizia sarà l’anno di perduranza della trattazione scritta e del collegamento da remoto.
Così stabilisce il d.l. n. 228/2021 con cui si proroga nuovamente l’efficacia delle disposizioni processuali emergenziali fino al 31 dicembre 2022.
Analizziamo qui di seguito le norme del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
DECRETO-LEGGE 30 dicembre 2021, n. 228
“Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi” (21G00255) (GU Serie Generale n.309 del 30.12.2021)
La norma riguardante il processo civile
- art. 16, commi 1 e 2
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 16, co.1-2, del d.l. n. 228/2021 recita:
“1. Le disposizioni di cui all'articolo 221, commi 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 10 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nonché le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 2, 4, 6, 7, 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, 9, 9-bis e 10, e agli articoli 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e 24 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in materia di processo civile e penale, continuano ad applicarsi fino alla data del 31 dicembre 2022.
2. Le disposizioni di cui all'articolo 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e all'articolo 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, non si applicano ai procedimenti per i quali l'udienza di trattazione è fissata tra il 1° gennaio 2022 e il 31 gennaio 2022”.
La vigenza delle norme processuali stabilite per il periodo pandemico viene così posticipata al 31 dicembre 2022.
Come nei d.l. nn. 44/2021 e 105/2021, il legislatore individua un termine fisso, scegliendo di non ancorare la proroga al termine dello stato di emergenza (attualmente in scadenza al 31 marzo 2022).
Inoltre, come nel precedente d.l. di proroga (n. 105/2021), non viene direttamente novellato l’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020 (contenente il termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020), ma è lo stesso decreto a indicare il termine di protrazione delle previsioni emergenziali.
Effetti
In ogni caso, gli effetti sono analoghi a quelli degli scorsi decreti e devono quindi ritenersi prorogati al 31 dicembre 2022:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
-la decisione in camera di consiglio sui ricorsi proposti davanti alla Corte di Cassazione per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo comma, e 379 del codice di procedura civile, senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale (art. 23, co. 8 bis, d.l. n. 137/2020); ciò, a meno che si tratti di procedimenti per i quali l’udienza di trattazione sia fissata tra il 1° gennaio 2022 e il 31 gennaio 2022 (deroga espressamente stabilita dal comma 2 dell’art. 16 d.l. n. 228/2021[1]);
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Conclusioni
Inutile tornare ad evidenziare che quella sancita con il d.l. in commento è l’ennesima proroga nell’arco di due anni.
Questa volta, però, la proroga supera (e di molto) il termine fissato per lo stato di emergenza (fino ad oggi mantenuto come riferimento, in forza di rinvio espresso o con indicazione della medesima data) e, a differenza delle precedenti, ha una portata annuale (il precedente d.l. n. 105/2021 era arrivato ad estendere la vigenza delle disposizioni emergenziali di sei mesi).
Da una parte, dunque, con il limite ultimo della disciplina processuale più avanzato rispetto a quello dello stato di emergenza (che qualifica il fenomeno straordinario), si perde l’appiglio giustificativo sotteso alla revisione (emergenziale) del sistema processuale ordinario: in assenza di una ratio emergenziale, non è dato comprendere in funzione di quale evento potrà ritornarsi al processo civile cristallizzato nel codice.
Dall’altra parte, se proprio la temporaneità è la condizione che supporta la natura emergenziale delle norme, la lunga proroga delle modalità di trattazione dell’udienza civile sembra aprire la via a una certa stabilità e ordinarietà del processo dell’emergenza.
Del resto, che quest’ultima soluzione possa rispondere ad una specifica intenzione del legislatore non sembra smentito dal disegno di legge n. 3289/2021 di delega al governo, in cui si conferisce cittadinanza processuale alla trattazione scritta e al collegamento da remoto[2].
Ma per il momento possiamo solo aspettare … e prorogare.
[1] Per un’analisi di questa previsione si veda, in relazione alla precedente analoga disciplina, Frasca R., “Brevi considerazioni sull’art. 7 del d.l. n. 105 del 2021 e la Cassazione Civile” , su Giustizia Insieme, 26.7.2021: https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1884-brevi-considerazioni-sull-art-7-del-d-l-n-105-del-2021-e-la-cassazione-civile
[2] Così recita il comma 17 dell’art. 1 d.d.l. n. 3289/2021: “17. Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti disposizioni dirette a rendere i procedimenti civili più celeri ed efficienti sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: […]
l) prevedere che il giudice, fatta salva la possibilità per le parti costituite di opporsi, può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice si svolgano con collegamenti audiovisivi a distanza, individuati e regolati con provvedimento del direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia;
m) prevedere che, fatta salva la possibilità per le parti costituite di opporsi, il giudice può, o deve in caso di richiesta congiunta delle parti, disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni da effettuare entro il termine perentorio stabilito dal giudice;
n) prevedere che il giudice, in luogo dell'udienza di comparizione per il giuramento del consulente tecnico d'ufficio, può disporre il deposito telematico di una dichiarazione sottoscritta con firma digitale recante il giuramento di cui all'articolo 193 del codice di procedura civile”.
Buone notizie dalle Sezioni unite sulle nullità processuali (e sul rapporto tra norme e principi)
di Bruno Capponi
Le presenti, brevissime note non rappresentano un commento (neppure “a caldo”), quanto un convinto invito alla lettura della sentenza delle Sezioni Unite n. 36596/2021: lettura lieve, perché – pur risolvendo un contrasto interno alla Corte – gli argomenti vengono presentati in modo piano e conseguente, con chiarezza encomiabile; e al tempo stesso di notevole peso specifico, perché la sentenza potrebbe (il condizionale è d’obbligo) determinare l’attesa inversione di tendenza rispetto a quella giurisprudenza più “creativa” e “invasiva” a cui la Corte ci ha purtroppo abituati da quando princìpi astratti (o, se si preferisce, la concretizzazione di tali princìpi) sono entrati in competizione con le norme positive, e in particolare con quelle processuali.
Questa sorta di “conflitto” ha dato luogo a vari fenomeni: il più grave è quello della strisciante abrogazione di norme dal contenuto non dubbio (si pensi, per tutte, all’art. 37 c.p.c.), al fine di premiare la concretizzazione di un principio del quale la sentenza qui segnalata denunzia, giustamente, la «estremizzazione».
Altro fenomeno – una delle applicazioni è appunto quella su cui le Sezioni Unite hanno convincentemente pronunciato – è quello dello stravolgimento interpretativo consistente nell’aggiungere, a norme dal contenuto non dubbio, condizioni «deduttive o probatorie» delle quali in quelle norme non c’è alcuna traccia. E, nel caso specifico, non certo per dimenticanza o insipienza del legislatore bensì per la fondamentale ragione che «la diversa regola, che vuole necessario ai fini dell’apprezzamento della nullità processuale anche il riferimento a un pregiudizio effettivo “altro” rispetto a quello a tal fine considerato dal legislatore, non è in alcun modo presidiata nell’ordinamento processuale italiano, a differenza di quel che accade (per esempio) nell’esperienza dell’ordinamento francese (art. 114 del Nouveau code de procédure civile)».
Ecco una sentenza magistrale, in cui la Corte è corretta interprete del diritto positivo, che viene salvaguardato da fumose e opinabili interpolazioni riferite a princìpi il cui ruolo è quello di accompagnare, non di stravolgere l’interpretazione delle norme. Chapeau.
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La meritocrazia possibile: il sistema delle valutazioni della Scuola Superiore della Magistratura
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. Introduzione - 2. Come funziona il sistema di valutazioni dei corsi della Scuola - 3. Le conseguenze delle valutazioni sui contenuti dell’offerta formativa - 4. Le conseguenze delle valutazioni sulla selezione del corpo docente - 5. La responsabilizzazione dei discenti come presupposto ineludibile del funzionamento del sistema.
1. Introduzione
La realizzazione del criterio meritocratico per le valutazioni dei magistrati si presenta da sempre come particolarmente problematica, stretta com’è tra due esigenze contrapposte ed entrambe meritevoli di tutela.
La prima necessità è quella di non imbrigliare la discrezionalità di chi è preposto a tali valutazioni in vincoli troppo stringenti, che potrebbero portare ad un controllo ab externo della delicata attività dei rappresentanti del potere giudiziario; la seconda è quella di assicurare criteri di trasparenza ed oggettività per evitare che si sconfini nell’arbitrio o nell’autodichia.
Un ruolo non del tutto trascurabile nella trattazione del problema in esame si gioca da sempre sul tavolo della formazione, essendo questo uno dei campi che contribuiscono a formare i curricula dei magistrati e quindi indirettamente a influenzarne le carriere.
È pertanto naturale che ai temi della selezione e della valutazione del corpo docente della Scuola (relatori, tutor, esperti formatori e coordinatori) il Comitato Direttivo dedichi da sempre una cura e un’attenzione particolare.
In queste brevi note si descriverà come funziona questo sistema (e cosa non funziona o è migliorabile) e auspicabilmente si indicheranno i motivi che giustificano l’ambizioso titolo dello scritto.
2. Come funziona il sistema di valutazioni dei corsi della Scuola
Il sistema delle valutazioni, adottato dalla Scuola Superiore della Magistratura sin dalla sua istituzione ed interamente informatizzato in seguito allo scoppio della pandemia, è semplice e intuitivo: al termine di ogni sessione (corrispondente a mezza giornata) di corso viene reso disponibile ai discenti su Teams un modulo (form) contenente i nomi di coloro che hanno svolto la relazione o coordinato il gruppo di lavoro, con la possibilità di assegnare un voto da 1 a 10 e appositi spazi per esprimere osservazioni. Al termine del corso si possono valutare, allo stesso modo, gli organizzatori del corso (esperti formatori), i tutor (per i corsi MOT) e la Scuola stessa, giudicabile per gli aspetti organizzativi e contenutistici e per l’assistenza amministrativa, logistica e informatica fornita.
Le valutazioni così espresse sono facoltative (la loro compilazione non è requisito per ottenere l’attestato di partecipazione al corso) e del tutto anonime, per garantire la massima libertà di giudizio ai partecipanti ed eliminare ogni rischio di condizionamento alla serenità del giudizio: anche il più giovane appartenente ad un ufficio giudiziario può valutare liberamente il dirigente del luogo in cui lavora o gli esponenti apicali della magistratura giudicante e requirente, qualora se li trovi di fronte come docenti.
Gli esiti delle valutazioni così espresse sono accessibili – anche dopo la fine del corso e virtualmente a tempo illimitato - ai componenti del Comitato Direttivo; in particolare, il responsabile del corso ha l’onere di verificare costantemente la media ponderata dei voti di ciascun relatore e di leggere e valutare i giudizi espressi, individualmente e se occorre relazionarne alle riunioni plenarie del Comitato.
Si ottiene in questo modo un feedback, disinteressato e presumibilmente imparziale, in tempo reale non solo di ogni corso organizzato dalla Scuola Superiore ma più in generale dell’offerta didattica, che costituisce il cuore e il significato dell’esistenza del nostro organismo di formazione.
Gli effetti di questo monitoraggio, continuo e come si è detto assolutamente democratico, sono evidenti e influiscono virtuosamente in due direzioni, diverse ma complementari: i contenuti dell’offerta formativa e la selezione dei formatori.
3. Le conseguenze delle valutazioni sui contenuti dell’offerta formativa
Quanto all’offerta formativa, è possibile attraverso il sistema descritto ottenere un indice di gradimento, da parte dell’utenza a cui la formazione è rivolta, sull’argomento del corso e sui singoli approfondimenti scelti come argomento delle relazioni, sulla efficacia degli approfondimenti svolti nei gruppi di lavoro e nelle tavole rotonde, sulle metodologia scelta dai singoli relatori per approfondire gli argomenti loro affidati, sulla maggiore o minore utilità ed efficacia di un approccio maggiormente pratico o più teorico, sulla opportunità di affidare uno o più argomenti ad un confronto a due voci, sul gradimento del coinvolgimento di esponenti del mondo accademico, dell’avvocatura o di saperi esterni a quelli dei colleghi magistrati, sulla incisività dell’esperto formatore nel legare gli interventi e dirigere il dibattito, sullo spazio assegnato al dibattito stesso, sulla utilità di slides o altri sistemi di presentazione della relazione, sulla tempestività della consegna di un elaborato scritto da parte dei docenti…. l’elenco, tratto da suggerimenti e critiche espressi negli anni dai partecipanti ai corsi e consacrati nei form di valutazione, è potenzialmente infinito.
Questa messe di informazioni fluisce continuamente nelle scrivanie (virtuali) dei componenti del Comitato Direttivo ed è oggetto di valutazione attenta e di discussioni nelle riunioni dello stesso. Si tratta di strumenti indispensabili per aggiornare continuamente l’offerta formativa: sono innumerevoli le occasioni in cui il programma di un corso è stato ricalibrato da un anno all’altro in conseguenza delle valutazioni dei discenti dell’anno precedente o di altri corsi aventi ad oggetto simile.
Naturalmente si tiene conto della quantità delle osservazioni (una singola valutazione che ad esempio suggerisce di ampliare il tempo concesso al dibattito successivo alla relazione ha ovviamente un peso diverso da decine di giudizi dello stesso tenore) e della necessaria soggettività di ogni parere espresso: non è raro imbattersi in valutazioni di segno assolutamente contrario e persino tra loro incompatibili (è accaduto ad esempio che un relatore sia stato criticato da alcuni per la eccessiva genericità e da altri per l’eccessivo tecnicismo).
Questo fenomeno non deve sorprendere, né inficia l’attendibilità dei giudizi espressi, ma implica semplicemente che gli stessi devono essere letti cum grano salis e valutati complessivamente (se una valutazione dice “bianco” e venti valutazioni “nero” è facile comprendere quale sia il parere eccentrico, anche se le cose non sono sempre così semplici da decifrare).
Giova in tal senso, naturalmente, l’esperienza specifica di chi è chiamato alla ponderazione delle valutazioni medesime: in fondo, è questo uno dei punti fondamentali dell’attività del Comitato Direttivo e precisa responsabilità di ciascuno dei suoi componenti, e si tratta di un’attività a cui sono chiamati elementi altamente specializzati - da molto prima della nomina alla Scuola - nella gestione dell’attività di formazione (poiché proprio tale specializzazione maturata nel tempo è alla base della loro nomina al Direttivo).
Elemento non trascurabile è, in questo senso, il fatto che almeno uno dei componenti del Comitato assiste personalmente a tutte le sessioni del corso di cui è responsabile o corresponsabile, ed è dunque in grado di aggiungere la propria personale valutazione a quelle risultanti dai form.
Sulla base della combinazione di tutti questi elementi, i contenuti dell’offerta formativa vengono dunque aggiornati e si evolvono in continuazione.
Un recente studio commissionato al CNR in occasione del decennale della istituzione della Scuola Superiore ha dimostrato che il gradimento dei magistrati all’offerta formativa si è via via incrementato negli anni fino a raggiungere l’attuale picco di eccellenza: questo dato non riflette, presumibilmente, una maggiore attitudine dei componenti attuali del Comitato Direttivo rispetto a quelli dei Direttivi precedenti, ma è ad avviso di chi scrive frutto del progressivo affinarsi degli strumenti didattici e dei corsi in conseguenza di una decennale attenzione alle istanze e alle valutazioni dei partecipanti ai medesimi.
Parte importante del merito va dunque proprio a chi ha istituito questo sistema virtuoso e a chi, in questi dieci anni, lo ha mantenuto ed alimentato con la costante attenzione ai giudizi espressi.
4. Le conseguenze delle valutazioni sulla selezione del corpo docente
Per quanto attiene alla selezione dei formatori, possono essere svolte considerazioni di tenore analogo a quelle appena rassegnate: la scelta dei relatori, dei tutor, dei coordinatori e degli esperti formatori dei corsi passa, oltre che per la profonda attenzione ai curricula e alla attenta attività di selezione delle eccellenze espresse dai singoli uffici giudiziari (per i magistrati) o dai luoghi di provenienza (per gli esponenti del mondo accademico e in generale per i non magistrati) anche dalla certosina valutazione delle votazioni e dei giudizi espressi nei precedenti corsi in cui le persone da nominare sono state utilizzate.
In merito, va specificato che il parterre di ogni singolo corso è quasi sempre formato, per intuitive ragioni, da una parte di docenti già sperimentati e una parte di “esordienti”: i secondi servono a garantire il ricambio resosi necessario per motivi di età o altre ragioni (un certo numero di docenti ogni anno va in pensione o cambia funzione, ragion per cui può essere ritenuto preferibile sostituire gli stessi con altri docenti con esperienza più attuale nel settore da approfondire), mentre la conferma di docenti già sperimentati consente di assicurare al corso l’apporto di soggetti con esperienza diretta della formazione rivolta ai magistrati, pubblico giustamente tra i più esigenti del mondo della formazione.
La responsabilità della composizione dei relatori del corso spetta in via esclusiva al Comitato Direttivo (con l’ausilio, per i corsi di formazione permanente, dell’esperto formatore): tuttavia, lo sguardo critico ai form di valutazione, come detto, gioca un ruolo fondamentale nelle scelte.
Tra diversi curricula all’attenzione del Direttivo per il conferimento di un incarico, il miglior voto medio riportato in corsi precedenti di analogo tenore sovente fa la differenza, così come il riscontro dell’attitudine formativa o della chiarezza esplicativa dimostrate in altri corsi ed attestate dai form.
In questo modo si ottiene un doppio risultato: affinare costantemente il livello dei docenti coinvolti nelle attività della Scuola ed evitare, quasi naturalmente, ingerenze esterne diverse da quelle del merito.
Ognuno dei componenti sa infatti che proporre un nominativo che si riveli non altezza dei livelli di eccellenza di cui si è detto comporta la certezza della mancata conferma del medesimo ai corsi futuri, ed espone l’intero corso di cui è responsabile al rischio di un giudizio negativo che, va da sé, nessuno è disposto ad accollarsi.
Salva la inevitabile percentuale di errori insita in ogni attività, il sistema garantisce dunque – o dovrebbe garantire l’effettiva adozione della meritocrazia come criterio guida per la selezione dei docenti.
5. La responsabilizzazione dei discenti come presupposto ineludibile del funzionamento del sistema
L’aspetto forse più importante del sistema delle valutazioni in esame è che mette al centro effettivo i fruitori della formazione e non i dirigenti della macchina organizzativa.
Oltre che – auspicabilmente – meritocratico, è un sistema a carattere diffuso e che agisce per spinta orizzontale, in conformità non casuale con la struttura della magistratura disegnata dalla Carta Costituzionale.
Perché esso realizzi compiutamente i suoi obiettivi, occorre però uno sforzo di auto-responsabilizzazione da parte di tutti i suoi attori.
È in primo luogo necessario che si diffonda la piena consapevolezza della importanza della partecipazione mediante riempimento dei form.
Pigrizia, scarsità del tempo a disposizione (anche se la compilazione del form richiede pochi minuti), inconsapevolezza, scarsa dimestichezza con il mezzo informatico sono ostacoli da rimuovere per evitare che il partecipante al corso si disinteressi del fondamentale adempimento in esame.
La conseguenza è intuitiva: più è esiguo il numero di coloro che prendono parte a questo sistema, più lo si rende inefficace ed in definitiva elitario, proprio come accade in caso di astensione dal voto per le elezioni politiche o amministrative.
Ancora più perniciosi e assolutamente da evitare sono fenomeni del voto dato superficialmente o con leggerezza, da chi non ha ascoltato la relazione (perché distratto o assente “informalmente”, fisicamente o in spirito): sono stati riscontrati casi di relatori che hanno dato forfait all’ultimo momento (e il cui nome era dunque rimasto nei form) che sono stati oggetto di plurime dichiarazioni di voto, alcuni con esiti molto lusinghieri (forse una sorta di voto “di stima”) altri con trattamenti illogicamente severi.
Questi episodi, che a prima lettura possono essere considerati quasi di “colore”, vanno considerati con la massima serietà e stigmatizzati, poiché rischiano di inficiare la credibilità dell’intero sistema, minandone l’affidabilità che è il presupposto indefettibile perché possa essere preso come punto di riferimento.
In conclusione, si tratta di un sistema in qualche misura fragile, come tutti i sistemi democratici ed a gestione diffusa e sicuramente perfettibile.
Molto si può fare per esempio in termini di pubblicità e trasparenza degli esiti delle valutazioni, rendendone gli esiti facilmente accessibili e consultabili sul sito (almeno per quanto riguarda le valutazioni generali sul corso).
Parimenti, occorre certamente ampliare la partecipazione di tutti i magistrati alla continua opera di scouting che i componenti del Direttivo pongono in atto per l’emersione di nuovi elementi da valorizzare e coinvolgere nel corpo docenti.
Ma, va ribadito, l’efficacia di questo sistema meritocratico e la sua stessa sopravvivenza sono affidate ai protagonisti, ovvero - in un virtuoso rovesciamento rispetto agli schemi consueti – gli utenti del servizio, che ne sono responsabili insieme al Direttivo della Scuola.
A loro il compito di custodire questo prezioso strumento dedicando la giusta attenzione alle valutazioni, garantendone la perdurante validità come sistema meritocratico e vigilando sulla loro adeguata valutazione da parte degli affidatari pro tempore del servizio.
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