ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Attribuzione al figlio del (solo) cognome materno (nota a App. Potenza, sez. civ., ord. 12 novembre 2021)
di Maria Alessandra Iannicelli
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’attribuzione del cognome al figlio. – 3. Gli orientamenti della giurisprudenza. – 4. L’opportunità di una soluzione legislativa.
1. Il caso
Nell’ordinamento italiano la vicenda del cognome familiare e, più precisamente, dell’attribuzione del cognome al figlio, può ritenersi una questione ancora tutta chiarire.
Concorrono in tale direzione il vivace dibattito dottrinale, le insistenti e costanti pressioni della giurisprudenza, nonché il confronto con le esperienze statali europee[1].
Il cognome – quale elemento costitutivo del nome unitamente al prenome, ai sensi dell’art. 6, comma 2, c.c. – non si limita ad assolvere una funzione pubblicistica preordinata a garantire la certezza delle relazioni giuridiche ed un ordinato vivere civile, quale espressione dell’interesse della collettività a poter identificare i propri componenti[2], ma ha anche e soprattutto una funzione privatistica, quale segno identificativo della discendenza familiare, finalizzata alla tutela dell’identità personale di ciascun individuo[3].
A differenza del prenome, il cognome – oltre a svolgere una funzione identificativa – è dunque elemento che caratterizza il singolo in ambito sociale, poiché espressivo dell’identità della persona sotto il profilo della discendenza (biologica o affettiva). Motivo per cui il cognome, quale strumento idoneo non soltanto ad identificare una data persona ma anche a ricollegare ad essa una determinata identità, deve essere attribuito tenendo conto del fatto che ciascun individuo discende da una determinata coppia di genitori. Cosicché può affermarsi che ogni persona ha diritto non ad un cognome qualsiasi, ma a “quel” cognome che testimoni il legame con i genitori. E di conseguenza, che ciascuno dei genitori ha diritto a che il cognome del figlio testimoni tale legame[4].
Nella fattispecie in esame, la Corte di appello di Potenza, con ordinanza del 12 novembre 2021, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c. e 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno, per violazione degli artt. 2, 3, 29, comma 2, oltre che dell’art. 117, comma 1°, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
La questione di legittimità con riferimento alle norme suindicate è stata sollevata nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso decreto del Tribunale di Lagonegro del 4 novembre 2020, con cui si dichiarava inammissibile il ricorso proposto da una coppia di coniugi che aveva richiesto, in via principale – previa disapplicazione della «norma consuetudinaria» che dava prevalenza al cognome paterno in quanto contra legem – che si ordinasse al proprio Comune di residenza di iscrivere il figlio presso i registri dello stato civile con il solo cognome materno (già proprio delle altre figlie, nate quando i ricorrenti non erano ancora coniugati, e riconosciute dalla madre per prima); iscrizione, invece, denegata dall’ufficiale di stato civile, il quale aveva registrato il neonato con il cognome di entrambi i genitori.
In subordine, i ricorrenti chiedevano – ove si aderisse alla tesi della «natura legislativa» della norma in base alla quale il figlio assume il cognome del padre – che ne fosse sollevata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui prevede la prevalenza del cognome paterno e (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016)[5] il doppio cognome in caso di accordo dei coniugi, residuando la preclusione di attribuire il solo cognome della madre.
Il giudice di prime cure basava fondamentalmente la propria decisione sul rilievo che la «norma consuetudinaria» dell’attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio potesse essere superata esclusivamente da un intervento legislativo, non potendo il giudice sostituirsi al legislatore in un ambito riservato a scelte di politica legislativa; inoltre, non poteva rimettersi la questione alla Corte costituzionale, non ravvisandosi profili di illegittimità nel vigente assetto normativo.
Avverso il decreto del Tribunale di Lagonegro, i coniugi hanno proposto tempestivo reclamo.
In primo luogo, i reclamanti si sono doluti della mancata disapplicazione della “regola del patronimico”, pur avendo essa natura consuetudinaria e non legislativa.
La Corte di appello di Potenza ha ritenuto il suindicato motivo infondato.
2. L’attribuzione del cognome al figlio
Sebbene nel nostro ordinamento non esista una previsione normativa espressa in base alla quale al figlio (nato da genitori coniugati) è attribuito il cognome del padre, si tratta senza alcun dubbio di una regola operativa, osservata e fatta rispettare dalle istituzioni preposte. Ci si è allora interrogati in ordine alla natura di questa disposizione[6].
Sull’alternativa tra norma consuetudinaria (fondata sulla risalente tradizione dell’attribuzione ai figli del cognome paterno) e norma implicita di sistema (presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse), l’orientamento privilegiato dalla giurisprudenza prevalente aderisce alla seconda tesi[7].
La soluzione elaborata dai giudici identifica una serie di previsioni normative, pur eterogenee e regolatrici di fattispecie diverse, dalle quali «si desume (…) l’immanenza di una norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è pur presente nel sistema e lo completa» e che «si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo», alla stregua della quale «il cognome del figlio legittimo non si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure da quello a questo»[8].
Le norme che, in combinato disposto fra loro, porterebbero a ritenere che esista una regola di sistema ovvero un principio desumibile da diverse disposizioni dell’ordinamento, conformi agli usi, in base al quale il figlio assume il cognome del padre, sono gli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2, 262, 299, comma 3, c.c. nonché gli artt. 33, 34, d.P.R. n. 396/2000, sia pure con le rilevanti modifiche introdotte dalla riforma della filiazione[9].
Secondo l’ordinanza della Corte di appello di Potenza in esame, la regola del patronimico desumibile dai suindicati articoli non è evidentemente suscettibile di una diversa interpretazione costituzionalmente orientata. Siffatta regola è infatti caratterizzata da «automatismo» e, d’altronde, la Corte costituzionale nel 2016 è intervenuta su analoga questione con sentenza di accoglimento: il che presuppone, appunto, l’impossibilità di una diversa interpretazione della norma denunciata.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza
Con il secondo motivo i reclamanti si sono doluti del mancato accoglimento da parte del giudice di prime cure della eccezione di legittimità costituzionale della norma “implicita” di sistema in materia di attribuzione del cognome al figlio e ne hanno ribadito la rilevanza e la fondatezza.
Secondo la Corte di appello di Potenza il motivo deve essere accolto e la controversia non può essere decisa indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione di legittimità costituzionale.
A ben vedere, come sopra segnalato, la questione è analoga a quella sollevata dinanzi alla Consulta dalla Corte di appello di Genova nel 2013[10] ed accolta dalla Corte costituzionale con la suindicata sentenza n. 286/2016[11]. Mentre, in quel caso, era in esame la legittimità della regola del patronimico, ma limitatamente alla parte che non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere “anche” il cognome materno, nella fattispecie qui considerata è invocato il diritto dei coniugi di attribuire concordemente al figlio “soltanto” il cognome della madre.
Negli anni, la copiosa giurisprudenza in materia di attribuzione del cognome ha espresso orientamenti volti a corrodere progressivamente l’intangibile regola dell’attribuzione al figlio del cognome del padre[12]. È particolarmente indicativo come la Consulta, chiamata a pronunciarsi sull’automatica attribuzione al figlio del cognome paterno – dopo aver originariamente statuito, alla fine degli anni Ottanta[13], che la regola era rispondente all’interesse alla conservazione dell’unità familiare tutelata dall’art. 29 Cost. e profondamente radicata nel costume sociale come criterio di tutela della famiglia fondata sul matrimonio[14] – abbia manifestato, quasi un ventennio dopo[15], la consapevolezza di come la tematica in esame non sia avulsa dai profondi mutamenti culturali intervenuti nel corso degli anni. Pertanto, pur dichiarando inammissibile la questione prospettata, perché una decisione positiva avrebbe costituito una «operazione manipolativa» esorbitante dai poteri della Corte costituzionale[16], nel 2006 affermava espressamente che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
Dopo circa un decennio dalla sentenza del 16 febbraio 2006, n. 61, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi in materia di cognome del figlio con la nota sentenza sopra richiamata dell’8 novembre 2016, n. 286[17].
In quell’occasione, la Consulta ha accolto la questione di legittimità costituzionale – sollevata dalla Corte di appello di Genova con riferimento agli artt. 2, 3, 29, comma 2, e 117, comma 1°, Cost.[18] – della norma “implicita”, desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di attribuire al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno, prevedendo così l’automatica attribuzione del solo cognome del padre pur in presenza di una diversa volontà dei genitori.
Il caso era nato dal rigetto della richiesta, presentata all’ufficiale dello stato civile, da una coppia di coniugi di nazionalità italo-brasiliana residenti a Genova, di poter registrare il proprio figlio – avente doppia cittadinanza – con il cognome di entrambi i genitori, considerato che il minore sarebbe stato identificato diversamente: in Italia, con il solo cognome del padre e, in Brasile, con il doppio cognome, paterno e materno.
La pronuncia si è – purtroppo – rivelata parzialmente risolutiva, poiché l’attribuzione del cognome materno al figlio (non soltanto nato nel matrimonio ma anche a quello nato fuori dal matrimonio e a quello adottivo, considerato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale si estende in via consequenziale alle norme di cui all’art. 262, comma 1, c.c. in caso di riconoscimento del figlio effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, e di cui all’art. 299, comma 3, c.c. in caso di adozione compiuta da entrambi i coniugi) è attualmente possibile soltanto in caso di comune accordo dei genitori e “in aggiunta” al cognome del padre automaticamente imposto.
Nella controversia in esame, invece – ove si invoca il diritto dei coniugi di trasmettere concordemente il “solo” cognome della madre – la volontà dei ricorrenti nel giudizio di primo grado e, successivamente, reclamanti dinanzi alla Corte di appello di Potenza, coincide con la volontà espressa oltre venti anni fa da una coppia di coniugi milanesi, i quali, entrambi concordi e favorevoli ad attribuire alla propria figlia il solo cognome materno, si erano visti respingere la loro richiesta dalle autorità italiane, secondo la prassi che imponeva l’attribuzione automatica e senza eccezioni del cognome del padre ai figli nati nel matrimonio.
I coniugi Cusan e Fazzo – desiderosi di onorare la memoria del nonno paterno, grande benefattore che aveva improntato la propria esistenza ad alti valori morali – adirono, pertanto, la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nell’accogliere le richieste dei ricorrenti, ha evidentemente sollecitato l’apertura della strada al riconoscimento in Italia del diritto dei genitori di attribuire il cognome materno ai figli, pronunciando la storica sentenza del 7 gennaio 2014[19], con cui ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 («Diritto al rispetto della vita privata e familiare»)[20] in combinato disposto con l’art. 14 («Divieto di discriminazione»)[21] CEDU, a causa dell’impossibilità di derogare alla regola dell’attribuzione del cognome paterno ai figli anche laddove vi sia una diversa volontà concorde dei coniugi, ritenendo tale regola basata su una discriminazione fondata sul sesso dei genitori.
Sebbene, nelle more del giudizio dinanzi alla Corte europea, i suindicati coniugi avessero ottenuto dal Prefetto di Milano – mediante il procedimento amministrativo di cui al d.P.R. n. 396/2000 – l’aggiunta del cognome materno a quello paterno per tutta la loro prole, tuttavia tale cambiamento non corrispondeva al desiderio iniziale degli stessi, i quali avrebbero voluto attribuire alla figlia il solo cognome della madre.
La Corte EDU ravvisava, pertanto, nella prassi italiana il verificarsi di una discriminazione tra marito e moglie nell’esercizio del loro diritto di determinazione del cognome della figlia in quanto, pur trovandosi in una situazione simile (essendo padre e madre della bambina), erano trattati in maniera diversa: a differenza del padre, la madre non poteva attribuire il proprio cognome alla figlia. Questa distinzione, non poteva – ad avviso della Corte europea – giustificarsi in considerazione dell’interesse pubblico che ha lo Stato di preservare l’unità della famiglia mediante l’attribuzione automatica del cognome del padre a tutti i suoi membri. L’esigenza dell’unità familiare è insufficiente a giustificare una discriminazione siffatta; ne derivava, dunque, una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 CEDU[22].
Non si può sottacere come, sia pure trattandosi di una coppia non coniugata, la medesima volontà di attribuire unicamente alla figlia minore il cognome della madre sia stata recentemente espressa da due genitori desiderosi di trasmettere il solo cognome materno (e non già, di aggiungerlo a quello del padre) per esigenze di eufonia, giacchè nella lingua tedesca il cognome della madre “suona” meglio di quello paterno.
In questo caso, la Procura della Repubblica di Bolzano ha proposto ricorso, ex art. 95, d.P.R. n. 396/2000, al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina i cui genitori non uniti in matrimonio, hanno concordemente espresso la volontà di attribuire alla minore unicamente il cognome della madre.
Non potendo, nel caso di specie, procedersi ad una interpretazione orientata dell’art. 262, comma 1, c.c., sulla scorta della precedente sentenza della Consulta n. 286/2016, evidentemente inapplicabile, il giudice a quo ha dubitato della legittimità costituzionale del rigido automatismo di attribuzione del cognome paterno al figlio in caso di contestuale riconoscimento da parte di entrambi i genitori ex art. 262 c.c., non derogabile neppure in caso di concorde diversa volontà dei genitori di attribuire il solo cognome della madre.
Secondo il Tribunale di Bolzano, siffatta disciplina sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza tra uomo e donna; e violerebbe altresì l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, per mancato rispetto, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti da obblighi assunti a livello internazionale.
Ai fini della definizione del giudizio sollevato dal rimettente, il Collegio ha ritenuto di non potersi esimere dal risolvere pregiudizialmente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui – in mancanza di diverso accordo dei genitori – impone l’acquisizione del solo cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in ragione del rapporto di presupposizione e continenza tra la questione specifica dedotta dal Tribunale di Bolzano e la più ampia questione avente ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno. Pertanto, con ordinanza dell’11 febbraio 2021, n. 18[23], la Consulta ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale della suindicata disposizione, di cui si attende l’esito decisorio.
La non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale è – ad avviso della Corte – rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori nonché la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia[24]. Il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, comma 1, c.c., attiene anche alla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
Parimenti, con riferimento alla fattispecie qui in commento sottoposta a disamina dalla Corte di appello di Potenza, la questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dalle disposizioni di cui agli artt. 237, 262, 299 c.c. e 33, 34 d.P.R. n. 396/2000, sollevata dai coniugi reclamanti, non può ritenersi manifestamente infondata. E infatti, la suindicata norma – ad avviso del collegio potentino – si pone innanzitutto in contrasto con l’art. 2 Cost., che tutela il diritto alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea tra i figli e il diritto all’unità familiare. A tal riguardo, non si può sottacere che nel caso concreto la scelta dei genitori di attribuire il solo cognome materno al terzogenito non sia riconducibile ad un “capriccio”, bensì all’esigenza di tutelare l’interesse dei tre figli minori ad un armonico sviluppo della personalità e alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea, contribuendo all’unità familiare mediante l’adozione del medesimo cognome. Seguendo il ragionamento del decreto impugnato, i reclamanti sarebbero stati costretti ad attribuire al terzogenito un cognome differente in ragione del matrimonio della coppia intervenuto successivamente alla nascita delle sorelle, riconosciute dalla madre per prima; in alternativa, avrebbero potuto dare anche alle prime due figlie il doppio cognome, con evidente pregiudizio per l’identità di queste ultime (in particolare per la figlia undicenne e, dunque, con identità pienamente formata nella comunità, innanzitutto scolastica).
Secondo la Corte di appello di Potenza, la regola del patronimico si pone altresì in contrasto con gli artt. 3 e 29, comma 2, Cost., poiché «…la diversità di trattamento tra i coniugi, in quanto espressione di una concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti tra coniugi ormai superata, non è compatibile né con il principio di eguaglianza, né con quello della loro pari dignità morale e giuridica»[25].
Anche in questo caso, il dubbio di legittimità della norma implicita di sistema in materia di cognome investe l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU risolvendosi in una discriminazione fondata sul sesso dei genitori e, comunque, in una ingiustificata compressione delle scelte familiari. A tal proposito, il collegio potentino richiama espressamente la sentenza della Corte EDU, Cusan e Fazzo c. Italia, nella parte in cui si afferma che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane».
La Corte di appello di Potenza, dunque, per violazione dei suindicati articoli della Costituzione, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c. nonché degli artt. 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno, ritenendo di non poter decidere la presente controversia indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione.
In attesa che la Corte costituzionale si pronunci, non si può certo ignorare che l’esito di un giudizio volto ad erodere una regola[26] non consente di conseguire il medesimo risultato a cui perverrebbe, invece, il legislatore disciplinando in modo organico e sistematico la materia e ponendo, così, fine ad aporie e difficoltà interpretative[27].
4. L’opportunità di una soluzione legislativa
Un intervento legislativo volto a riformare una normativa obsoleta, che non tutela adeguatamente le istanze privatistiche connesse all’uso del cognome quale riflesso dell’identità personale e che tollera, ancora oggi, la vigenza di norme in cui il principio di parità tra i coniugi e, più generale, il principio di eguaglianza dei genitori risultano mortificati, appare quanto mai opportuno.
Del resto, già quindici anni fa, anche la Corte di Cassazione[28] – pochi mesi dopo la nota pronuncia della Corte costituzionale del 16 febbraio 2006, n. 61[29] – segnalava espressamente la necessità di un intervento del legislatore, affermando che la sussistenza di una norma di sistema automaticamente attributiva del solo cognome paterno, oltre che retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, era in contrasto con le fonti sovranazionali, che impongono agli Stati membri l’adozione di misure idonee alla eliminazione delle discriminazioni di trattamento nei confronti della donna.
Non resta dunque che confidare nel superamento dell’immobilismo legislativo italiano in materia di attribuzione del cognome ai figli affinché il nostro ordinamento si adegui alle legislazioni degli altri paesi europei che consentono l’attribuzione al figlio del cognome del padre e/o della madre, secondo un modello non solo aderente al disegno costituzionale, ma conforme ai principi convenzionali[30] e agli orientamenti giurisprudenziali europei ed italiani.
L’ordinamento francese ha aperto alla possibilità che i genitori si esprimano anche per il doppio cognome[31], collocandosi evidentemente a metà strada tra la soluzione tedesca e quella spagnola, che ha fatto dell’imposizione ex lege del cognome secondo entrambe le linee genitoriali il cuore della propria tradizione[32].
In Germania, invece, permane il rifiuto del cd. Doppelname e, pertanto, ai figli viene in ogni caso attribuito un unico cognome (ovvero quello del padre o della madre secondo la libera volontà dei genitori) oppure un cognome familiare comune (c.d. Ehename)[33].
A ben vedere, le diverse soluzioni adottate in Europa[34] lasciano affiorare l’esigenza di creare in futuro un meccanismo unitario che, inserendosi nel solco del processo di armonizzazione del diritto europeo della famiglia, non ingeneri discriminazioni tra i cittadini appartenenti ai diversi paesi dell’Unione europea. Evidentemente, i tempi non sono maturi per una disciplina uniforme a livello europeo, il cui perseguimento – in ragione della diversa cultura e sensibilità dei legislatori nazionali – è senza dubbio caratterizzato da un iter lungo e complesso.
Se, tuttavia, i tempi non sembrano tali da consentire la previsione di una disciplina uniforme in ambito europeo, alla luce delle brevi riflessioni sin qui svolte appaiono ormai mature le circostanze per approvare in Italia una legge in materia di attribuzione del cognome ai figli che si adegui alle normative vigenti in altri paesi europei ove – come sopra accennato – sia pure con soluzioni diverse, si è approdati ad un regime meno discriminatorio nei confronti della donna e più coerente con l’esigenza di tutelare il diritto all’identità personale del minore ad essere identificato sin dalla nascita anche con il cognome della madre[35].
[1] In argomento, v. G. Passarelli, Note sulla attribuzione del cognome materno. Una questione (ancora de iure condendo), in Fam. dir., 2021, 551 ss.
[2] Sul punto, v. A. Conti, Note intorno all’attribuzione del cognome paterno, in Giur. mer., 2011, p. 2392.
[3] Superata la concezione pubblicistica che considera esclusivamente la finalità identificativa di ordine pubblico, è dato incontrovertibile che il nome – composto da prenome e cognome – sia il più rilevante segno distintivo della persona nella sua vita di relazione, attributo proprio dell’individuo, espressione delle sue qualità personali, la cui funzione identificativa attribuita dalla legge e preordinata alla tutela dell’identità personale è tutelata anche nei confronti dello Stato (art. 22 Cost.). A tal riguardo, si vedano M. Nuzzo, Nome, in Enc. dir., Milano, 1978, p. 304 ss.; L. Lenti, Nome e cognome, in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 135 ss. e in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, p. 928 ss.
[4] In questi termini si esprime, condivisibilmente, M. Trimarchi, Diritto all’identità e cognome della famiglia, in Jus civile, 2013, p. 36.
[5] Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, in Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 28 dicembre 2016, n. 52; in Fam. e dir., 2017, p. 213 ss.; in Corriere giur., 2017, p. 165 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 818 ss..
[6] Sul punto, si segnalano in giurisprudenza numerose pronunce di merito: v. ex multis Trib. Lucca, decreto 1° ottobre 1984, in Dir. fam. pers., 1984, p. 1068; in Giust. civ., 1985, I, p. 876 e in Giur. mer., 1985, I, p. 288 (nel decreto si legge che: «è in base ad una consuetudine secolare, fondata sul regime patriarcale, che l’ufficiale dello stato civile attribuisce al figlio legittimo il solo cognome del padre»); Trib. Palermo, 17 marzo 1993, in Dir. fam. pers., 1994, p. 640; App. Milano, 4 giugno 2002, in Fam. dir., 2003, p. 173.
In dottrina, v. A. Giusti, Il cognome del figlio legittimo di fronte alla Corte costituzionale, in Giust. civ., 1985, I, p. 1471 ss.; E. Pazè, Verso un diritto all’attribuzione del cognome materno, in Dir. fam. pers., 1998, p. 324 ss.; F. De Scrilli, Il cognome dei figli, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Filiazione, Milano, 2002, p. 472 ss.; G. Grisi, L’aporia della norma che impone il patronimico, in Europa dir. priv., 2010, p. 649 ss.; G. Alpa e A. Ansaldo, Le persone fisiche. Artt. 1-10, in Il Codice civile. Commentario, fondato P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, 2ª ed., Milano, 2013, p. 405 ss.; M. Moretti, Il cognome del figlio, in G. Bonilini (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, IV, Milano, 2016, p. 4078 ss.; C. Caricato, L’attuale normativa italiana in materia di attribuzione del cognome, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 9 ss..
[7] In particolare, Cass. civ., sez. I, 26 maggio 2006, n. 12641, in Foro it., 2006, I, p. 2314 ss.; in Giust. civ., 2006, I, p. 1698 ss.; in Familia, 2006, p. 951 ss.; in Dir. fam. pers., 2006, p. 1649 ss.; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss.; in Giur. it., 2007, p. 2198 ss..
[8] Così, Cass. civ., sez. I, ord. 17 luglio 2004, n. 13298, in Foro it., Rep. 2004, voce Filiazione, n. 29; in Fam. dir., 2004, p. 457 ss.; in Dir. giust., 2004, 32, p. 27 ss.; in Europa dir. priv., 2005, p. 829 ss.. Nello stesso senso, anche la più recente Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, cit., ove si afferma espressamente che: «Non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio. Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, essa è presupposta e desumibile dalle disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dal rimettente (artt. 237, 262 e 299 c.c., 33 e 34 del d.P.R. n. 396/2000; nonché solo a fini esplicativi, art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, abrogato dall’art. 110 del citato d.P.R.), e la sua perdurante immanenza nel sistema, come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo, è stata già riconosciuta sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia dalla giurisprudenza di legittimità».
[9] L. 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali», Gazz. Uff., Serie Generale, n. 293, 17 dicembre 2012 e d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, recante «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’art. 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219», Gazz. Uff., Serie Generale, n. 5, 8 gennaio 2014.
[10] App. Genova, sez. III, ord. 28 novembre 2013.
[11] V. nota 5.
[12] Per quanto riguarda la giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità, v. ex multis: Trib. Bologna, decreto 9 giugno 2004, in Fam. dir., 2004, p. 441 ss., secondo cui «la doppia cittadinanza del minore legittima i suoi genitori a pretendere che vengano riconosciuti nell’ordinamento italiano il diritto e la tradizione spagnoli per cui il cognome dei figli si determina attribuendo congiuntamente il primo cognome paterno e materno»; Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093, in Giust. civ., 2007, I, p. 149 ss.; in Vita not., 2007, p. 203 ss.; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss., ove si afferma che l’attribuzione al figlio del solo cognome paterno è antistorica oltre che in contrasto con le norme sovranazionali e si segnala, pertanto, la necessità di un intervento del legislatore; Cass. civ., sez. I, ord. 22 settembre 2008, n. 23934, in Fam. dir., 2008, p. 1093 ss.; in Foro it., 2008, I, p. 3097 ss.; in Dir. fam. pers., 2008, p. 1931; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 11 ss.; in Giust. civ., 2009, I, p. 2178 ss.; in Dir. fam. pers., 2009, p. 1074 ss..
Con riferimento alla giurisprudenza europea, invece, v. in particolare: Corte di Giustizia UE, 2 ottobre 2003, causa C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Belgio, secondo cui costituisce discriminazione in base alla nazionalità il rifiuto da parte dell’autorità amministrativa di uno Stato membro di consentire che un minore avente doppia nazionalità possa essere registrato con il cognome cui avrebbe diritto secondo le leggi applicabili nell’altro Stato membro, in Giur. it., 2004, 2009 ss.; in Fam. dir., 2004, p. 437 ss.; in Europa dir. priv., 2004, p. 217 ss.; Corte EDU, 16 novembre 2004, ric. n. 29865/96, Ünal Tekeli c. Turchia; Corte di Giustizia UE, 14 ottobre 2008, causa C-353/06, Grunkin e Paul c. Germania, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 268 ss.; in Corriere giur., 2009, p. 489 ss.; in Giur. it., 2009, p. 299 ss..
[13] Corte cost., ord. 11 febbraio 1988, n. 176, in Rass. dir. civ., 1991, p. 190; in Foro it., 1988, I, p. 1811; in Giur. cost., 1988, I, p. 605; in Dir. fam. pers., 1988, p. 670; e Corte cost., ord. 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, p. 1206; in Giust. civ., 1988, I, p. 1649.
[14] Nella motivazione si legge che: «l’interesse alla conservazione dell’unità familiare, tutelata dall’art. 29 Cost., sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia».
[15] Corte cost., 16 febbraio 2006, n. 61, in Foro it., 2006, I, p. 1673 ss.; in Giur. cost., 2006, p. 543 ss.; in Familia, 2006, p. 931 ss.; in Dir. giust., 2006, 10, p. 14 ss.; in Dir. fam. pers., 2006, p. 927 ss.; in Dir. comm. internaz., 2006, p. 341 ss.; in Giust. civ., 2006, I, p. 1124 ss..
[16] Alla stessa conclusione perveniva la Consulta nel 2007, quando – chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c., sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., nella parte in cui, per il caso di contestuale riconoscimento del figlio operato da entrambi i genitori, anziché consentire ai genitori una scelta libera e concordata, dispone che il figlio assume il cognome del padre – dichiarava la questione manifestamente inammissibile, «poiché l’intervento richiesto, lasciando aperta una serie di opzioni riservate alla discrezionalità del legislatore, impone una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte costituzionale» (così, Corte cost., ord. 27 aprile 2007, n. 145, in Giust. civ., 2007, I, p. 1306 ss.).
[17] V. nota 5.
[18] V. nota 10.
[19] Corte EDU, 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07, Cusan e Fazzo c. Italia, in Foro it., 2014, IV, p. 57 ss.; in Dir. fam. pers., 2014, p. 537 ss.; in Fam. dir., 2014, p. 205 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 515 ss..
[20] Ai sensi dell’art. 8 CEDU, rubricato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare»: «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[21] Ai sensi dell’art. 14 CEDU, rubricato «Divieto di discriminazione»: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
[22] La Corte ha condannato l’Italia, non in quanto la norma implicita sia di per sé in contrasto con la Convenzione europea, ma sulla base di una lacuna assiologica del sistema normativo italiano ovvero perché non prevede la facoltà di derogarvi anche laddove la volontà dei coniugi sia concorde (in francese la Corte usa, al paragrafo 81 della sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, il termine più evocativo di «défaillance du système juridique italien»).
[23] Corte cost., ord. 11 febbraio 2021, n. 18, in Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 17 febbraio 2021, n. 7. A commento della pronuncia, v. M. N. Bugetti e F. G. Pizzetti, (Quasi) al capolinea la regola della trasmissione automatica del patronimico ai figli, in Fam. dir., 2021, p. 461 ss.; L. Olivero, Cognome dei figli: i rischi dell’autonomia e dell’alfabeto, in Giur. it., 2021, p. 1811 ss; E. Repetto, La trasmissione del cognome ai figli: fine di un’era?, in Familia, 2021, p. 544 ss..
[24] Sin da epoca ormai risalente, la Consulta ha espressamente osservato che la prevalenza attribuita al ramo paterno nell’attribuzione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quell’unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (così, Corte cost., 13 luglio 1970, n. 133).
[25] Riprendendo le parole di Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, cit., par. 3.4.2.
[26] In caso di accoglimento della questione, non si configurerebbe un vuoto normativo, ma la sola apertura all’accordo dei coniugi sulla scelta del cognome materno.
[27] S. Troiano, Cognome del minore e identità personale, in Jus civile, 2020, p. 580, sottolinea «la fragilità di un quadro complessivo che affida la garanzia di diritti fondamentali e, al contempo dell’interesse pubblico all’identificazione delle persone, a regole basate sulle mutevoli letture degli interpreti e all’instabile contributo offerto da fonti normative sparse e, in buona misura, anche gerarchicamente sottordinate». A tal riguardo, un esempio significativo è dato proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016, considerato che il Ministero dell’Interno aveva recepito il decisum di detta pronuncia con Circolare del 19 gennaio 2017, n. 1, limitandosi a stabilire che «l’applicazione della sentenza della Corte costituzionale è immediata… e che l’ufficiale dello stato civile dovrà accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendano attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o dell’adozione». Restavano, così, irrisolti i dubbi interpretativi originati dalla sentenza n. 286/2016 – applicabile dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ovvero dal 29 dicembre 2016 (Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 28 dicembre 2016, n. 52) – in caso di richiesta concorde dei genitori di attribuzione al figlio del doppio cognome (a titolo esemplificativo: “Quale forma deve avere l’accordo dei genitori per l’attribuzione del doppio cognome: dichiarazione resa personalmente da entrambi i genitori o anche comunicazione scritta recante sottoscrizione autenticata? I cognomi devono attribuirsi secondo l’ordine prescelto dai genitori o il cognome della madre deve essere soltanto aggiunto a quello del padre e, quindi, sempre attribuito per secondo? E nel caso di accordo tra uno o addirittura entrambi i genitori che già recano un doppio cognome, si attribuiranno tutti o soltanto il primo dei due o uno dei due scelto discrezionalmente dai genitori?”).
[28] Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093, in Giust. civ., 2007, I, p. 149 ss.; in Vita not., 2007, p. 203; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss..
[29] V. nota 15.
[30] Si segnalano, in particolare, l’art. 16, comma 1, lett. g, della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con l. 14 marzo 1985, n. 132, che espressamente impegna gli Stati contraenti ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compreso il diritto alla scelta del cognome»; gli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, che vietano ogni forma di discriminazione basata sul sesso (art. 21) nonché l’obbligo di assicurare la parità tra uomini e donne (art. 23); le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa nn. 1271/1995 e 1362/1998 e, ancor prima, la risoluzione n. 37/1978, relative alla piena realizzazione dell’eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome ai figli; gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che sanciscono rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di ogni forma di discriminazione.
[31] Loi n. 2002-304 du 4 mars 2002 relative au nom de famille, successivamente modificata dalla Loi n. 2003-516 du 18 juin 2003 relative à la dévolution du nom de famille, e dall’Ordonnance n. 2005-759 du 4 juillet 2005 portant réforme de la filiation; artt. 311-21, 311-22, 311-23, 311-24 del Code civil.
[32] Nell’ordinamento spagnolo, vige la regola del doppio cognome. Secondo la Ley 40/1999, de 5 de noviembre, sobre nombre y apellidos y orden de los mismos, i figli assumono il cognome di entrambi i genitori, secondo l’ordine da questi stabilito. Inizialmente, la legge prevedeva che, in caso di difetto di accordo sull’ordine di precedenza, quest’ultima fosse automaticamente accordata al cognome paterno. Da ultimo, la disciplina è stata tuttavia modificata, nell’ambito della più ampia riforma del Registro civil (Ley 20/2011, de 21 de julio, entrata in vigore – per la parte che qui interessa – il 30 giugno 2017), prevedendosi che se i genitori non stabiliscono l’ordine dei cognomi o non vi è accordo tra loro su quale debba essere, decorso il termine di tre giorni, sarà l’ufficiale del Registro civil a dover stabilire il predetto ordine. Il criterio che l’ufficiale dello stato civile deve seguire è quello del interés superior del menor.
[33] Ai sensi del paragrafo 1355 BGB, i coniugi possono decidere con una dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile al momento del matrimonio o successivamente con una dichiarazione autenticata, se adottare un cognome familiare comune (c.d. Ehename), scelto tra i propri cognomi, da assegnare alla prole o mantenere i rispettivi cognomi di nascita. In quest’ultima ipotesi, ai figli dovrà comunque essere attribuito un unico cognome (quello del padre o della madre) secondo la libera volontà dei genitori. In caso di disaccordo, secondo quanto previsto dal paragrafo 1616 BGB, compete al Giudice Tutelare scegliere il genitore a cui affidare la determinazione e, ove il genitore designato vi si sottragga, ai figli è attribuito il suo cognome.
[34] Per una compiuta disamina delle normative vigenti in Europa in materia di attribuzione del cognome ai figli, v. R. Peleggi, Il cognome dei figli: esperienze statali a confronto, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 115 ss..
[35] Nel corso dell’attuale XVIIIª legislatura, tra i più recenti progetti di legge presentati in materia di cognome si segnalano il d.d.l. n. 2293 (intitolato «Nuove disposizioni in materia attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli», presentato al Senato in data 22 giugno 2021 e non ancora assegnato) e il d.d.l. n. 2276 (intitolato «Modifiche al codice civile in materia di cognome», presentato in data 10 giugno 2021 e assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente il 10 novembre 2021). Entrambi i suindicati progetti di legge – che modificano anche la normativa in materia di cognome dei coniugi e presentano evidenti analogie con la disciplina francese – riconoscono ampia discrezionalità ai genitori rimettendo loro la scelta del cognome (unico o doppio) dei figli, potendosi discrezionalmente attribuire al figlio il cognome del padre o quello della madre o quelli di entrambi, nell’ordine concordato. Il testo dei disegni di legge in questione ricalca il più risalente d.d.l. n. 286 (assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente l’11 luglio 2018) nonché il d.d.l. n. 1628 della precedente legislatura, con riferimento al quale, per un’attenta disamina sia consentito rinviare a M. A. Iannicelli, Prospettive di riforma in materia di attribuzione del cognome ai figli, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 157 ss.; M. A Iannicelli, Il cognome del figlio: brevi note de iure condendo, in Familia, 2017, p. 34 ss..
Diversamente, il d.d.l. n. 2102 (intitolato «Modifiche al codice civile in materia di cognome dei figli», presentato in data 17 febbraio 2021 e assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente il 9 marzo 2021) – più aderente al modello spagnolo – prevede un’indicazione vincolante a favore del doppio cognome, stabilendo che, su accordo dei genitori, sia attribuito al figlio al momento della dichiarazione di nascita presso gli uffici di stato civile il cognome di entrambi nell’ordine concordato secondo la loro volontà.
In caso di mancato accordo tra i genitori, tutti i disegni di legge suindicati prevedono che sia attribuito al figlio il cognome di entrambi in ordine alfabetico.
L’applicazione delle misure di sicurezza detentive e il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle REMS, secondo C. Cost., sentenza n. 22 del 2022: un punto di svolta nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[1]
di Francesco Gualtieri
Il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai dieci or sono ai sensi dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, non può ancora dirsi compiuto e continua ad essere attraversato da criticità e contraddizioni, che riguardano, in primo luogo, l’attuale sistema di assegnazione dei pazienti psichiatrici autori di reato alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (R.E.M.S.) attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi. Con la sentenza n. 22 del 2022, la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibili le questioni poste alla sua attenzione, ha tuttavia rivolto un fondamentale monito affinché vengano prontamente individuate soluzioni di carattere strutturale per le numerose problematiche, giuridiche ed organizzative, che connotano la materia. Il presente contributo, oltre a commentare i contenuti della sentenza, intende affrontare il merito delle complesse questioni oggi “sul tappeto”, a partire da una disamina delle cause che hanno determinato l’attuale situazione di stallo nel sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive nei confronti delle persone non imputabili.
Sommario: 1. Il contesto di riferimento - 2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021 - 3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili - 4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri - 5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPGP alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato - 6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva. 7. Conclusioni.
1. Il contesto di riferimento
Lo scorso 27 gennaio la Corte costituzionale ha depositato l’attesa sentenza n. 22 del 2022, concernente il giudizio di legittimità dell’art. 3-ter del decreto legge 22 dicembre 2021, n. 211, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, con il quale venivano formalmente istituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (cosiddette R.E.M.S.), nell’ambito del travagliato percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
La Consulta ha ritenuto di dichiarare inammissibili tutte le questioni poste alla sua attenzione ma tale dispositivo non deve trarre in inganno, collocandosi nell’ambito di una pronuncia che, pur non essendo sfociata in una decisione demolitoria, si distingue tuttavia per l’estrema chiarezza dei principi che il Giudice delle leggi ha ritenuto di riaffermare e per la severità dei moniti rivolti senz’altro al legislatore, ma anche a tutti gli altri attori istituzionali coinvolti nelle procedure giurisdizionali e amministrative di individuazione, presa in carico, cura e custodia dei pazienti psichiatrici autori di reato.
La ricostruzione della disciplina di riferimento, rinvenibile nelle premesse in fatto della sentenza in commento, consente agevolmente di notare quanto accidentato, contraddittorio e per certi versi timido sia stato il percorso riformatore che, per il suo impatto nel sistema sanzionatorio italiano, avrebbe senz’altro dovuto essere oggetto di interventi ben più ordinati ed organici.
Al riguardo, oltre a quanto puntualizzato dalla Consulta, deve anzitutto sottolinearsi come, in modo francamente anomalo, l’obiettivo del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari sia comparso ex abrupto nell’ordito normativo nazionale, in particolare nell’ambito di un decreto-legge che, in modo non del tutto coerente rispetto a quanto previsto in precedenza, introduceva il tema della soppressione degli OPG, sebbene la normativa primaria approvata pochi anni prima si fosse limitata a delineare il semplice trasferimento delle funzioni in materia di OPG dallo Stato alle Regioni[2].
Al di là di tale circostanza, ciò che maggiormente desta sorpresa – e su cui, non a caso, si sono appuntate le più decise critiche del Giudice delle leggi – è la persistente assenza di una normativa esplicita di rango ordinario concernente la gestione concreta delle REMS, con un vero e proprio “scarico” di responsabilità su fonti giuridiche secondarie, quali i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti ministeriali e gli Accordi da stipularsi in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, nella sostanziale assenza di indicazioni esplicite all’interno della cornice normativa di riferimento.
In questo contesto, il sistema delle assegnazioni dei pazienti psichiatrici alle REMS è da sempre rimasto in un limbo di ambiguità che, peraltro, tuttora persiste, determinando l’insorgere di gravi problematiche applicative e gestionali.
Tutto ciò, inoltre, si è verificato nell’ambito di un sistema riferito non già a prestazioni di carattere esclusivamente sanitario, bensì alla esecuzione di misure di sicurezza aventi una chiara natura giurisdizionale; ed ancora, la configurazione dei rapporti organizzativi tra i diversi livelli di governo si è perfezionato, in modo evidentemente approssimativo, a fronte dell’ostinato silenzio del legislatore il quale, con l’art. 3-ter, co. 3, lett. a), d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, si è limitato a prevedere la “gestione esclusivamente sanitaria” delle REMS, senza null’altro aggiungere in merito al riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni nella fondamentale materia delle assegnazioni dei pazienti destinatari di misure giudiziarie.
In questo senso, la principale disciplina di riferimento può in effetti rinvenirsi nell’Accordo del 26 febbraio 2015, stipulato in sede di Conferenza Unificata tra Governo, Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano e Autonomie locali, recante le “disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”[3].
La lettura di detto documento, che a tutt’oggi governa la materia, dimostra in particolare come, in seguito al lungo processo di trasferimento delle funzioni relative alle misure di sicurezza detentive in capo ai sistemi sanitari regionali, all’Amministrazione penitenziaria sia stato di fatto riservato un ruolo di spettatrice passiva di ciò che accade nel sistema delle REMS, risultando la stessa privata di eventuali poteri di intervento, sia pure in via sostitutiva o sussidiaria, onde supplire ad eventuali difetti del sistema medesimo.
Vero è, infatti, che, formalmente, l’art. 1 dell’Accordo parrebbe assegnare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il potere-dovere di effettuare le assegnazioni e i trasferimenti degli internati e degli internandi presso le singole REMS, nel rispetto del principio di territorialità di cui all’art. 3 ter, co. 3, lett. c) d.l. 211/2011 e, dunque, in ragione della residenza anagrafica degli interessati, come già precisato il 26 novembre 2009, in seno ad un precedente Accordo stipulato in sede di Conferenza Unificata[4]. Tuttavia, il medesimo articolo precisa che le assegnazioni e i trasferimenti siano disposti in base alla disponibilità di posti-letto nelle strutture e, soprattutto, attribuisce in via esclusiva alle Regioni e alle Province autonome il compito di verificare la progressiva disponibilità di posti-letto all’interno delle singole REMS, per poi comunicare tempestivamente dette disponibilità all’Amministrazione penitenziaria, affinché quest’ultima possa procedere alle assegnazioni e ai trasferimenti degli internandi e degli internati nei casi previsti dalla legge.
Ancora, deve rammentarsi come l’Accordo del 26 febbraio 2015, sia pure nelle sue premesse, abbia definito come inderogabile il limite dei 20 posti-letto da attivare in ciascuna REMS, il che, nella prassi, al presumibile fine di scongiurare qualsivoglia fenomeno di sovraffollamento, ha indotto le Regioni a palesare nei confronti dell’Autorità giudiziaria e del DAP una tendenziale rigidità nella gestione delle liste di accesso alle singole Residenze, negando sostanzialmente l’accesso degli internandi una volta raggiunto il limite massimo dei posti-letto disponibili all’interno delle strutture presenti nel territorio regionale.
Pare dunque inevitabile che, in siffatto contesto, in assenza di posti-letto effettivamente disponibili e delle conseguenti comunicazioni inoltrate dalle Regioni, il potere di assegnazione e trasferimento degli internandi e degli internati formalmente assegnato all’Amministrazione penitenziaria sia stato de facto abrogato.
2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021
È dunque questo lo scenario in cui si è innestata la questione di legittimità costituzionale definita con la sentenza in commento.
Segnatamente, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Tivoli, con ordinanza dell’11 maggio 2020[5] sollevava d’ufficio la questione di legittimità costituzionale degli articoli 206 e 222 cod. pen. e 3-ter, d.l. n. 211/2011, con riguardo proprio alla sopravvenuta assegnazione alle Regioni di ogni concreta competenza in merito all’ammissione in REMS dei destinatari delle misure di sicurezza detentive.
Il remittente segnalava il potenziale contrasto di tale assetto normativo, da un lato, con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, assegna al Ministro della giustizia i compiti relativi all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia e, d’altro lato, con le norme costituzionali, prime fra tutte l’articolo 25, che, prevedendo il principio della riserva di legge anche in materia di misure di sicurezza, osterebbero a norme ordinarie che consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in relazione alle REMS.
Oltre ad avere avuto l’obiettivo merito di ravvivare il dibattito sulla materia[6], disvelando expressis verbis l’esistenza di chiari problemi nell’attuale sistema di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, l’ordinanza in questione ha senz’altro sollevato perplessità sulla legittimità costituzionale dell’attuale assetto organizzativo meritevoli di approfondimento e non affatto peregrine.
Tuttavia, come correttamente evidenziato e come infine riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, è da subito apparso arduo ipotizzare che i nodi “di sistema” che attualmente affliggono le modalità di accoglienza in REMS potessero risolversi mediante l’eventuale revisione costituzionale della normativa di riferimento, senza affrontare nel merito questioni di carattere più sostanziale[7].
In tale contesto, non pare un caso che taluni commentatori abbiano da subito “sospettato” che dietro l’eventuale trasferimento in capo al Ministero della giustizia di più pregnanti competenze nella materia delle assegnazioni in REMS, tramite l’accoglimento della questione posta dal Giudice di Tivoli, si celasse il reale intento di “derubricare” le esigenze di cura dei pazienti accolti nelle Residenze in modo da privilegiare interessi di tipo più securitario. È inoltre sembrato piuttosto chiaro che il timore maggiormente diffuso in ambito sanitario fosse quello che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale potesse determinare il superamento del principio del “numero chiuso” in relazione alla disponibilità dei posti-letto in REMS[8].
In realtà, al di là del pregiudizio che parrebbe permeare una siffatta impostazione, laddove si sostiene che “solo con l’esclusiva gestione sanitaria una struttura può infatti avere come criteri organizzativi quelli finalizzati alla cura dei pazienti, senza essere sottoposta a pressioni dettate da altre esigenze”[9], risulta tuttavia altrettanto chiaro che, indipendentemente dal riparto di competenze tra Amministrazione centrale e Regioni e pur non rimettendo in discussione il principio della esclusiva gestione sanitaria delle strutture, tale tipologia di gestione dovrà comunque cominciare ad essere conciliata con le peculiarità delle misure di sicurezza detentive, aventi natura pacificamente giudiziaria e che, come tali, devono essere suscettibili di pronta esecuzione.
L’estrema complessità delle questioni poste dal remittente resta comprovata dalla decisione interlocutoria che la Corte costituzionale ha ritenuto di assumere all’esito della camera di consiglio celebrata il 26 maggio 2021, adottando[10] l’ordinanza “istruttoria” n. 131, depositata il 24 giugno 2021[11].
Infatti, al fine di decidere in merito alle questioni promosse dal Giudice di Tivoli, la Consulta ha ritenuto necessario acquisire una serie di approfondite informazioni dal Ministro della giustizia, dal Ministro della salute, dal Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e, limitatamente alla lettera m) del dispositivo, dal Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, per quanto di rispettiva competenza.
Le richieste, peraltro, non riguardavano esclusivamente i dati statistici inerenti al numero di REMS realizzate sul territorio nazionale (lett. a) del dispositivo), il numero dei pazienti inseriti nelle singole liste di attesa [(lett. b), c) e d)], con specifico riguardo per coloro che si trovassero detenuti in Istituto di pena in attesa di ricovero (lett. f), e la tipologia dei reati contestati agli internandi (lett. e), ma concernevano altresì questioni che si caratterizzano per una consistenza squisitamente politica.
Le istanze istruttorie si addentravano infatti in tutte le più spinose problematiche che connotano la formazione delle liste di attesa per l’ingresso in R.E.M.S., riguardando in particolare: l’accertamento in ordine alle difficoltà di funzionamento dei luoghi di cura per la salute mentale esterni alle R.E.M.S. per i pazienti psichiatrici autori di reato (lett. g); l’esistenza di forme di coordinamento tra il Ministero della giustizia, il Ministero della salute, le aziende sanitarie locali e i Dipartimenti di salute mentale, volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei provvedimenti di applicazione, in via provvisoria o definitiva, delle misure di sicurezza detentive (lett. h); quali specifiche competenze esercitino, in particolare, il Ministro della giustizia e il Ministro della salute rispetto all’obiettivo di cui alla lettera h) (lett. i); se il ricovero nelle R.E.M.S., nonché i trattamenti sanitari conseguenti all’applicazione della libertà vigilata, rientrino nei livelli essenziali di assistenza (L.E.A.) che le Regioni sono tenute a garantire (lett. j); se sia attualmente effettuato dal Governo uno specifico monitoraggio sulla tempestiva esecuzione dei provvedimenti di applicazione delle misure di sicurezza detentive (lett. k); se sia prevista la possibilità dell’esercizio dei poteri sostitutivi del Governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni (lett. l); se le riscontrate difficoltà siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie, ovvero ad altre ragioni (lett. m); se siano attualmente allo studio progetti di riforma legislativa, regolamentare od organizzativa per ovviare alle predette difficoltà e rendere complessivamente più efficiente il sistema di esecuzione delle misure di sicurezza applicate nei confronti delle persone inferme di mente (lett. n).
Orbene, così sintetizzati i quesiti posti dal Giudice delle leggi, pare a chi scrive che, con l’ordinanza de qua, la Consulta abbia ritenuto di inscrivere la questione di legittimità costituzionale posta alla sua attenzione entro un quadro giuridico, fattuale e politico ben più ampio, indicando alle amministrazioni coinvolte – ed in ultima istanza al decisore politico – gli ambiti in cui gli interventi organizzativi e finanziari risultano ormai non più rinviabili, al fine di restituire efficacia ed efficienza al sistema di esecuzione delle misure di sicurezza, detentive e non.
Dalle parole della ordinanza traspare dunque la consapevolezza di quanto sopra accennato a proposito del riparto di competenze tra Stato e Regioni, in quanto problematica giuridico-organizzativa che di per sé sola non ha determinato la situazione di stallo nella quale in atto versa l’apparato delle misure di sicurezza e che, in ogni caso, non può continuare ad essere impropriamente utilizzata come schermo per continuare a rinviare sine die la concreta individuazione delle soluzioni.
3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili
Queste ultime considerazioni, invero, hanno trovato piena conferma nelle motivazioni della sentenza n. 22 del 2022, da ultimo depositate.
A dispetto della declaratoria di inammissibilità delle questioni, la Corte ha con evidenza individuato dei punti fermi nella ricostruzione giuridica ed organizzativa della materia, che costituiranno un ineludibile riferimento nella integrale revisione del sistema per tutti coloro che – in tempi auspicabilmente rapidi – saranno chiamati a rendere più fluida ed organica l’applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei pazienti psichiatrici autori di reato.
In estrema sintesi, i principi affermati dalla Consulta possono così riassumersi:
- malgrado la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze sancita dal legislatore, “l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”; l’assegnazione a una REMS va dunque a tutti gli effetti considerata una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una ratio profondamente diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura e di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d. l. n. 211 del 2011 (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- in quanto misura di sicurezza espressamente “limitativa della libertà personale”, l’assegnazione a una REMS merita altresì di essere tenuta distinta da ogni ordinario trattamento della salute mentale, ed in particolare dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, in ragione, tra l’altro, sia dei noti presupposti penalistici, di rango sostanziale processuale, che ne legittimano l’applicazione in concreto, sia della sua schietta natura giurisdizionale, comprovata dai penetranti poteri di costante vigilanza nella fase esecutiva, pacificamente assegnati al Magistrato di Sorveglianza (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- secondo l’autorevole avviso della Corte, dunque, l’assegnazione a una REMS non può ritenersi connotata esclusivamente da una finalità di tipo terapeutico, trovando “la propria peculiare ragion d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente”; le due finalità sottese all’applicazione della misura di sicurezza detentiva, del resto, non rappresentano affatto un novum nel panorama interpretativo relativo all’istituto di cui si discute, come stratificatosi nei decenni secondo chiavi di letture costituzionalmente orientate; evidenzia sul punto la Corte come “le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile (sentenza n. 253 del 2003)” (punto 5.2 del “Considerato in diritto”);
- sulla base di tali premesse, la Consulta indica dunque la necessità che l’assegnazione ad una REMS, per la sua natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico, si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori; ed in questo senso, i riferimenti costituzionali pressoché obbligati, nel percorso argomentativo seguito dalla Corte, debbono individuarsi nell’art. 13 della Costituzione relativo alla salvaguardia della libertà personale, nonché negli articoli 25, terzo comma e 32, secondo comma, rispettivamente dedicati all’applicazione delle misure di sicurezza e dei trattamenti sanitari obbligatori, assoggettando entrambi gli istituti alla riserva di legge; di peculiare interesse risultano peraltro le considerazioni svolte a proposito del citato art. 25, terzo comma, reinterpretato dalla Corte secondo una logica rinforzata, in nome della quale il legislatore non può comunque limitarsi alla sola individuazione dei “casi” in cui possa applicarsi una misura di sicurezza detentiva, dovendo altresì farsi carico di delineare i “modi” con cui la misura possa restringere la libertà personale degli individui, “ed anzi di privarli della loro libertà, spesso per periodi duraturi o – addirittura – per l’intera vita residua” (punto 5.3.1 del “Considerato in diritto”);
- dato un siffatto perimetro costituzionale, la Corte annota come l’attuale disciplina in materia di assegnazione alle REMS riveli “evidenti profili di frizione” con i principi di rango sovra-ordinario illustrati nella sentenza (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- in particolare, nel prosieguo della pronuncia si sottolinea come, attualmente, l’unica norma ordinaria che regoli la materia sia rinvenibile nello scarno art. 3-ter, d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, oltre che nelle datate norme codicistiche che, tuttavia, si limitano a regolare i “casi” in cui le misure di sicurezza detentive – ancora impropriamente denominate ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e in casa di cura e custodia – possono trovare applicazione in concreto; manca, d’altro canto, una disciplina primaria dei “modi” mediante i quali dette misure, e dunque, le assegnazioni alle REMS, debbono essere eseguite, posto che, come ribadito dalla Corte, la regolamentazione puntuale dei ricoveri è stata affidata a fonti secondarie, quali i decreti ministeriali e gli Accordi intercorsi tra Amministrazioni centrali ed autonomie territoriali; ed un tale assetto, per quanto detto, non può che entrare in potenziale conflitto con il principio della riserva di legge in materia di misure di sicurezza, sancito dall’art. 25, terzo comma della Costituzione (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- a proposito degli ambiti in cui viene appunto invocato un organico intervento del legislatore, concernenti i “modi” di esecuzione delle misure in parola, la Corte segnala anzitutto l’esigenza che la norma primaria stabilisca se ed in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione; in secondo luogo, la legge ordinaria dovrà farsi carico di disciplinare “in modo chiaro e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS e ai loro strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti delle decisioni delle relative amministrazioni” (punto 5.2.3 del “Considerato in diritto”);
- è a questo punto della pronuncia che la Corte costituzionale, ben lungi dall’arrestare la propria analisi ai profili prettamente giuridici della questione, ritiene di compiere una lucida disamina su quello che definisce “grave malfunzionamento strutturale del sistema di applicazione dell’assegnazione in REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”), evidentemente non al fine di sconfinare dalle proprie prerogative istituzionali, ma onde verificare se ed in che termini una eventuale pronuncia demolitoria potesse essere idonea a garantire il risultato perseguito dal remittente, ossia la corretta allocazione in REMS per la persona sottoposta al procedimento penale nel cui alveo era stata promossa la questione di legittimità costituzionale (punto 6 del “Considerato in diritto”);
- a quest’ultimo proposito, il Giudice delle leggi prende le mosse dagli esiti della istruttoria intrapresa con la citata ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021, da cui si evince che un numero di persone almeno pari a quelle attualmente ospitate in REMS – compreso tra le 670 (secondo i calcoli effettuati dal Ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome) e le 750 (secondo i calcoli del Ministero della giustizia) – si trovano allo stato in attesa di essere collocate in una REMS; la permanenza media in una lista di attesa è pari a circa dieci mesi ma in alcune Regioni i tempi di attesa possono essere ancora più lunghi; le persone in attesa di ricovero sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici di “reati assai gravi”, il più delle volte commessi contro la persona (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- ciò premesso, pur non entrando nel merito delle possibili soluzioni prospettate dalle Amministrazioni interpellate con la citata ordinanza istruttoria, la Corte non ha potuto fare a meno di rilevare la “problematicità” della situazione venutasi a creare e a consolidare nel tempo, con riguardo appunto all’esistenza di liste d’attesa per l’esecuzione di provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria nei confronti di autori di reato, sul presupposto della loro pericolosità sociale; sul punto, si sottolinea opportunamente nella sentenza come “per loro natura, simili provvedimenti dovrebbero essere immediatamente eseguiti, così come destinate a essere immediatamente eseguite sono le misure cautelari previste dal codice di procedura penale che si fondano sulla necessità di prevenire rischi quale – in particolare – il pericolo di commissione di gravi reati da parte dell’imputato (art. 274, comma 1, lettera c, del codice di procedura penale)”; ad autorevole avviso della Corte, del resto, l’esigenza di immediata esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali di cui si discute non corrisponde ad una sterile petizione di principio, costituendo semmai il passaggio indispensabile per dare effettività alla “tutela dell’intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare”; spiega al riguardo la Corte come “da un lato, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in esame comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti – rientranti a pieno titolo tra i LEA (Ritenuto in fatto, punto 5.9) – che dovrebbero essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- detto che la soluzione alla problematica illustrata non potrà evidentemente risiedere nell’assegnazione in soprannumero delle persone in attesa di ricovero, la Corte invita con forza ad affrontare “senza indugio” il problema delle liste di attesa, attraverso le differenti strategie prospettate dalle competenti Amministrazioni, allo scopo di ridurre gradatamente, “sino ad azzerare, l’attuale divario tra il numero di posti disponibili e il numero dei provvedimenti di assegnazione”; nel merito, nella sentenza si invoca in particolare di adottare ogni strategia opportuna specialmente presso le Regioni rivelatesi più indietro nell’attuazione del processo riformatore: “compreso l’esercizio degli ordinari poteri sostitutivi da parte del Governo, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost., in caso di riscontrata inadempienza di quelle Regioni che fossero venute meno al proprio dovere costituzionale di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nei confronti dei destinatari dei provvedimenti di assegnazione alle REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- da ultimo, la Corte si sofferma sulla compatibilità dell’attuale assetto organizzativo con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, affida al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia; al riguardo, nel ricomprendere pacificamente l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive nel novero dei servizi giudiziari, nella pronuncia si giudica non del tutto conforme al dettato costituzionale l’attuale apparato organizzativo delle REMS, nella parte in cui di fatto estromette proprio il Ministro della giustizia dalle attività inerenti l’applicazione in concreto delle misure di sicurezza, detentive e non (punto 5.5 del “Considerato in diritto”);
- in conclusione, nel dichiarare inammissibili le questioni poste dal remittente, il cui eventuale accoglimento sarebbe palesemente inidoneo a garantire il risultato pratico cui egli mira, la Corte evidenzia l’ “urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamnto e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi” (punto 6 del “Considerato in diritto”).
Si comprende dalla sentenza come la Corte costituzionale si sia opportunamente fatta carico di offrire una sistemazione, anzitutto teorica e conseguentemente pratica, ad una materia estremamente delicata, in relazione alla quale la perdurante tensione dal sapore ideologico tra istanze contrapposte aveva di fatto determinato negli ultimi anni, tra gli stessi operatori, una sorta di smarrimento delle direttrici giuridiche fondamentali.
Ed è proprio a tali “fondamentali” – che d’ora in avanti non potranno più essere ignorati – che si riferisce la Corte nel momento in cui riafferma la natura pienamente bifronte dell’assegnazione in REMS quale misura di sicurezza detentiva, dalla cui corretta esecuzione dipende la compiuta attuazione di diritti fondamentali concomitanti e di pari rango, consistenti, da un lato, nella doverosa tutela della posizione giuridica delle vittime di reato e, d’altro lato, nell’altrettanto doverosa cura dell’autore del reato affetto da infermità psichica.
Ed è sempre ai “fondamentali” che si rifà la Corte, allorquando rammenta la “problematicità” di un sistema di liste di attesa venutosi impropriamente ad alimentare non già in relazione a misure aventi un contenuto esclusivamente terapeutico, ma con riguardo a misure disposte dall’Autorità giudiziaria con la finalità di prevenire la commissione di reati ad opera di persone che, già avendo commesso reati, siano state giudicate socialmente pericolose.
In questo senso, allorquando equipara a chiare lettere l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive a quella delle misure cautelari personali sul piano della necessariamente immediata attuazione del relativo ordine giurisdizionale, la Consulta addita implicitamente come insostenibile un sistema che, nel silenzio della normativa di riferimento, pretenda di subordinare al lento scorrimento di liste di attesa l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali con cui sia stato disposto il ricovero in REMS. E tale insostenibilità viene evidenziata in modo ancor più netto nel momento in cui la Corte ammonisce il legislatore e gli operatori ad adottare strategie volte non già ad attenuare la consistenza di dette liste, bensì ad arrivare all’ “azzeramento” delle stesse. Siffatte valutazioni, operate dal più autorevole consesso giurisdizionale dello Stato, non sembrano ammettere né deroghe, né tantomeno soluzioni una tantum che, ove adottate in modo disorganico, potrebbero in prima battuta determinare un rapido assottigliamento degli attuali elenchi, seguito subito dopo da un altrettanto rapido e rinnovato incremento degli stessi.
È dunque verso soluzioni e strategie di carattere strutturale che la Corte sembra chiaramente indirizzare, così da portare finalmente ad effettivo compimento l’irreversibile percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai più di dieci anni or sono.
4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri
Per ciò che concerne l’individuazione in concreto delle soluzioni, non pare un caso che, nelle conclusioni della pronuncia, la Corte invochi, tra l’altro, “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure)”.
Ebbene, considerando che la sentenza in commento è pervenuta all’esito di una istruttoria volta, tra l’altro, ad accertare il numero di posti in REMS attualmente disponibili sul territorio nazionale, è lecito ipotizzare che l’appena citato monito della Corte a dotare il paese di “un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni” implichi un indiretto giudizio di insufficienza rispetto al numero di REMS attualmente funzionanti, formalmente comunicato alla Consulta in risposta all’ordinanza n. 131/2021.
Pare dunque doveroso interrogarsi sulla congruenza del quantitativo di strutture programmato nel momento in cui il percorso riformatore veniva avviato.
In tal senso, quanto verificatosi nel corso degli ultimi anni, con la formazione e l’inarrestabile incremento di consistenti liste di attesa per i ricoveri in REMS in buona parte del territorio nazionale, permette oggi di affermare che, all’indomani della riforma entrata a regime nel 2015, si sia prevista la realizzazione di un numero di REMS sostanzialmente insufficiente rispetto alle effettive esigenze di internamento derivanti dall’applicazione di misure di sicurezza detentive da parte dell’Autorità giudiziaria, applicazione che, nei fatti, è rimasta tendenzialmente costante ed allineata ai numeri antecedenti all’introduzione delle REMS ed al superamento degli OPG.
Al riguardo, in linea generale, si è sottolineato come, per lo meno a partire dal 2005, si sia registrato un netto aumento nell’applicazione delle misure di sicurezza detentive, anche per gli effetti prodotti dalla nota sentenza “Raso” emessa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione[12] (sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005), con la quale si è specificato che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale[13]. Come nel prosieguo si vedrà, peraltro, tale importante apertura in merito alla rilevanza dei “disturbi di personalità” avrebbe ricevuto negli anni successivi non poche critiche, anche a causa dei concreti effetti che si sarebbero prodotti sul sistema delle REMS, una volta entrato a regime, risultando in molti casi destinatari delle misure di sicurezza detentive soggetti affetti da patologie psichiatriche con caratteristiche tali da non poter essere adeguatamente trattate e contenute presso strutture, quali le REMS, a vocazione esclusivamente sanitaria[14].
Ad ogni modo, al di là delle motivazioni anche giuridiche da cui è derivato l’aumento del ricorso alle misure di sicurezza detentive, consta il dato per cui, a fronte di una media di circa 1.250 pazienti accolti nei vecchi OPG, per lo meno tra gli anni 2008 e 2011[15], siano stati ad oggi realizzati 652 posti-letto nelle 36 REMS attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi, a fronte dei circa 740 posti di dotazione originariamente programmata agli albori della riforma (punto 5.1 del “Ritenuto in fatto” della sentenza in commento)[16].
Con ogni probabilità, la scelta di creare una rete di Residenze dimensionata al ribasso in termini di posti-letto non è stata casuale o dettata esclusivamente da ragioni finanziarie ma si poneva in linea con il presupposto politico, oggi concretizzato nel noto art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011 ma già da tempo conosciuto nella giurisprudenza costituzionale riferita agli OPG[17], secondo cui il ricovero in REMS sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio, cui ricorrere solo nel caso in cui qualsiasi altra misura non detentiva si fosse rivelata inappropriata o inefficace nei confronti del singolo paziente autore di reato; ciò posto, le Residenze di nuova istituzione non avrebbero dovuto considerarsi sic et simpliciter come dei sostituti dei vecchi O.P.G.[18]
Inoltre, sin da quanto previsto nell’ “Allegato C” del D.P.C.M. primo aprile 2008[19], si era in effetti stabilito che, in vista del transito della gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari in capo ai sistemi sanitari regionali, si procedesse “alla restituzione ad ogni Regione italiana della quota di internati in OPG di provenienza dai propri territori e dell’assunzione della responsabilità per la presa in carico”. In tale contesto normativo, una volta approvato il d.l. n. 211/2011, tra il 2012 e il 2015, si è dato impulso, d’intesa con l’Autorità giudiziaria, a numerose dimissioni dal circuito degli ospedali psichiatrici giudiziari[20], così da poter realizzare il trasferimento di un più contenuto numero di pazienti all’interno delle neonate REMS che, come detto, erano state istituite in un’ottica di accoglienza molto meno “massiva” rispetto a quanto non fosse accaduto con l’esperienza degli O.P.G.
D’altro canto, nell’ambito di siffatta operazione, come opportunamente sottolineato, non si è adeguatamente tenuto conto del tasso di nuovi ingressi, essendosi appunto parametrato il numero dei posti-letto teoricamente necessari su una media di presenze in O.P.G. anormalmente bassa, in quanto appunto proveniente da una importante campagna di dimissioni[21].
Inoltre, deve considerarsi che buona parte dei posti-letto realizzati nelle REMS sono stati inizialmente destinati all’accoglienza dei pazienti già ricoverati in OPG e ritenuti non suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, dal che è derivata una rapida saturazione delle nuove strutture con l’inevitabile creazione di liste di attesa per il perfezionamento dei ricoveri a partire già dal mese di dicembre 2015[22].
Del resto, neppure il transito dei pazienti dagli OPG alle REMS si è svolto in maniera realmente efficiente. Deve rammentarsi, al riguardo, come la realizzazione delle Residenze rientrava nella attuazione dei complessi programmi organizzativi regionali previsti dall’art. 3-ter, co. 6, d.l. n. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, attuazione che, com’è noto, non è avvenuta in tutte le Regioni secondo la medesima tempistica ed ha anzi subito in alcuni casi consistenti rallentamenti, al punto da giustificare la nomina, nel febbraio 2016, da parte del Consiglio dei Ministri, di un Commissario unico per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
I ritardi registratisi nella concretizzazione del processo riformatore hanno comportato finanche difficoltà nella allocazione degli internati in OPG alla data di formale chiusura degli stessi. Costoro, infatti, non essendo stati ritenuti suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, hanno continuato ad essere ristretti nelle strutture penitenziarie, pur dopo il primo aprile 2015, in attesa che le Residenze competenti per la loro accoglienza venissero realizzate e comunque dichiarassero la disponibilità di posto-letto; solo agli inizi del 2017, si è infine giunti alla completa dimissione degli internati dagli ospedali psichiatrici giudiziari, potendosi così procedere alle loro effettive chiusure o riconversioni[23].
In siffatto contesto, la creazione e il progressivo incremento delle liste di attesa per i ricoveri in R.E.M.S. dei vecchi internati e dei nuovi internandi avrebbe dovuto considerarsi come una disfunzione ampiamente prevedibile.
Ancora, come si vedrà meglio nel prosieguo, la previsione normativa del principio della REMS come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali, sicché, nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in REMS, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione; vi è anche da dire che, a fronte di taluni territori in cui si sono innescati meccanismi virtuosi di collaborazione tra Magistratura, Aziende sanitarie e Dipartimenti di salute mentale, nell’ambito di altre Regioni sono verosimilmente mancati adeguati canali di comunicazione tra le varie istituzioni coinvolte nella cura e nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, il che ha determinato inevitabili ripercussioni anche sulla corretta individuazione, da parte delle Autorità giudiziarie, delle misure di sicurezza più appropriate per i singoli destinatari. Analoghe problematiche, peraltro, parrebbero affiorare, sempre con livelli di gravità sensibilmente differenziati tra i singoli territori regionali, in relazione al corretto espletamento di un adeguato turn-over tra soggetti già internati in REMS che, raggiunto un buon livello di compenso psichico, potrebbero essere dimessi, e soggetti internandi che, al contrario, trovandosi talora in situazioni di maggiore gravità clinica, meriterebbero una più immediata accoglienza nelle Residenze[24].
A quest’ultimo riguardo, peraltro, non si registra un pieno accordo tra i commentatori; alcuni, infatti, più che sui difetti di coordinamento tra REMS, dipartimenti di salute mentale e strutture alternative di accoglienza, si sono espressi con toni fortemente critici sul tema della valutazione di appropriatezza del ricovero in REMS operato nei confronti di taluni dei pazienti psichiatrici autori di reato che giungono alla loro attenzione. In questo senso, si è segnalato come, in molti casi, i pazienti delle REMS si troverebbero sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, pur avendo commesso reati “tutto sommato modesti” e come, talora, le liste di attesa per l’accesso nelle Residenze sarebbero infoltite da persone che, oltre ad essere affette da disturbi psichiatrici, versano in situazioni di disagio socio-economiche che dovrebbero essere meglio trattate con risposte diverse da quella sanzionatoria di tipo penale[25].
Nello stesso contesto interpretativo si è inoltre rilevato come il problema della tendenziale scarsità dei posti-letto disponibili deriverebbe da un uso troppo disinvolto dei ricoveri in REMS di tipo provvisorio, a norma dell’art. 206, cod. pen., peraltro spesso destinati a soggetti connotati da alta e persistente pericolosità sociale e criminale e che, come tali, trarrebbero giovamento da percorsi giudiziari ordinari e non dall’applicazione di misure di sicurezza detentive[26]. Secondo tale impostazione, sarebbe dunque fondamentalmente errato auspicare un maggiore ricambio nell’accoglienza in REMS tra pazienti “compensati” e pazienti che si trovano invece in stati di acuzie, posto che le Residenze di nuova concezione non dovrebbero proprio considerarsi adatte a soggetti che mostrano più spiccati profili di pericolosità anche in ragione dello scompenso psicopatologico in cui versano.
Ad ogni modo, pur prendendosi atto delle illustrate divergenze di opinioni, e con particolare riguardo per il principio affermato dall’art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011, si ritiene che non sempre, nella disamina della problematica, si tengano nella dovuta considerazione i principi posti dal diritto vivente, con i quali tutti gli operatori non possono esimersi dal confrontarsi, e che però, oggi, grazie alla sentenza in commento, sono stati opportunamente ricollocati dalla Corte costituzionale al centro del dibattito pubblico.
In tal senso, in relazione ai variegati spunti problematici connessi al giudizio di “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva, dovrebbe pur sempre rammentarsi come, a prescindere dall’innesco di buone pratiche e dalla esistenza di adeguati circuiti di accoglienza alternativi alle R.E.M.S., il citato art. 3-ter, co. 4, pur indicando le Residenze come una extrema ratio, affidi comunque alla esclusiva responsabilità dell’Autorità giudiziaria la scelta non solo sull’an, ma anche sulla tipologia della misura di sicurezza da adottare in concreto; tale giudizio, peraltro, per espressa previsione normativa, deve essere parametrato alla pericolosità sociale del destinatario della misura, previo specifico accertamento da eseguirsi sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle sue “condizioni di vita individuale, familiare e sociale”, prese in considerazione dall’art. 133, co. 2, n. 4, c.p. E’ noto del resto che, trattandosi di giudizio connotato anche da una importante componente tecnica, lo stesso è di norma svolto con il supporto di consulenti e periti esperti in psichiatria investiti di fondamentali compiti ausiliari; ma è altresì noto che, per espressa previsione normativa, il giudizio in merito all’adeguatezza della misura è destinato a colorarsi anche di valutazioni giuridiche, aventi ad oggetto la gravità del reato in contestazione, dalle modalità di esecuzione dello stesso, oltre che i precedenti penali e giudiziari del soggetto interessato; ancora, un ruolo cruciale nella valutazione di “adeguatezza” circa la misura da applicare è inoltre rivestito dalla compliance che il paziente abbia dimostrato rispetto alla eventuale precedente irrogazione di misure non detentive ed in particolare dalla sussistenza di pregresse violazione delle prescrizioni che, di norma, vengono impartite con la misura gradata della libertà vigilata.
Va da sé, dunque, che non sempre le valutazioni giudiziarie potranno combaciare con le indicazioni provenienti dai servizi psichiatrici territoriali circa l’appropriatezza della misura da applicare o, eventualmente, da prorogare.
Ne consegue che, pur ipotizzandosi maggiori sforzi anche di tipo finanziario per dare concretezza al principio della R.E.M.S. quale extrema ratio, con ogni probabilità, ci si dovrà comunque continuare a confrontare con un rilevante numero di misure di sicurezza detentive che le Autorità giudiziarie riterranno di continuare ad applicare in forza di valutazioni strettamente giuridiche legate alla pericolosità sociale del paziente psichiatrico autore di reato.
Quest’ultimo dato di fatto non pare sia stato adeguatamente ponderato dai decisori pubblici e le conseguenze di tutto quanto sopra esposto non possono che risultare di rilevante gravità.
Basti pensare che, alla data del 28 ottobre 2020, risultava all’Amministrazione penitenziaria l’esistenza di 813 persone in attesa di ricovero in R.E.M.S., in quanto destinatarie di provvedimenti applicativi di misura di sicurezza detentiva, in via provvisoria o definitiva; delle persone in attesa di ricovero, 98 si trovavano ristrette in istituti penitenziari, mentre le restanti 715 si trovavano in stato di libertà con tutto ciò che intuitivamente ne consegue in termini di rischi per la sicurezza pubblica e privata, trattandosi evidentemente di soggetti infermi di mente che hanno già commesso reati ed attualmente giudicati socialmente pericolosi.
In tale contesto, deve peraltro segnalarsi che, sempre sulla base dei dati a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria, le situazioni più critiche in termini di consistenza delle liste di attesa, alla data del 28 ottobre 2020, si registravano nelle Regioni Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia e Sicilia che, da sole, assorbivano circa il 72% delle persone in attesa di ricovero. Ad ogni modo, seppure con numeri più contenuti, alla predetta data quasi tutte le Regioni italiane risultavano interessate dal fenomeno delle liste di attesa per l’ingresso in REMS.
Nell’ultimo anno la situazione si è evoluta positivamente solo con riguardo al numero complessivo delle persone che attendono il ricovero dall’interno degli istituti penitenziari, essendosi passati a 35 persone che si trovavano in tale condizione al 25 ottobre 2021 (punto 5.5 della sentenza in commento), con una evidente flessione rispetto al dato della precedente rilevazione; di scarso rilievo appare invece la diminuzione del numero complessivo delle misure di sicurezza detentive rimaste ineseguite, essendosi passati, alla data del 31 luglio 2021, secondo le rilevazioni comunicate alla Corte costituzionale, ad un totale compreso tra le circa 670 persone, secondo i calcoli del Ministero della salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, e le 750 persone, secondo i calcoli del Ministero della giustizia (punto 5.4 della sentenza in commento).
Né, peraltro, risulta che la difficoltà sia recente, essendosi appunto detto come, sin dalla inaugurazione delle REMS, le stesse abbiano sofferto di una carenza di posti-letto divenuta esponenziale e cronica nel corso degli anni.
Ed al riguardo, pare senz’altro utile richiamare i moniti che, già nell’aprile 2017, il Consiglio Superiore della Magistratura aveva divulgato a proposito delle criticità che, già all’epoca, affliggevano il sistema delle REMS, all’esito di un’articolata indagine conoscitiva condotta presso tutti gli uffici giudiziari italiani[27].
Né, evidentemente, come del resto sottolineato dalla stessa Corte costituzionale (punto 5.4 della sentenza in commento), può sottacersi il crescente interesse che per la materia sta manifestando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quanto meno nei confronti dei soggetti che, in attesa del ricovero in REMS si trovino ad essere ristretti in istituto di pena e, dunque, in contesti detentivi notoriamente non appropriati alla loro condizione psicopatologica.
Constano al riguardo almeno due provvedimenti cautelari emessi dalla C.E.D.U. ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte concernenti altrettanti detenuti ristretti in due diversi penitenziari, nei confronti dei quali il Giudice sovranazionale ha ordinato l’immediato ricovero in strutture idonee. Stante peraltro la peculiarità di tali provvedimenti, la più attenta dottrina non ha mancato di rilevare come gli stessi possano verosimilmente costituire il “prologo” per più consistenti decisioni idonee a mettere in mora il Governo italiano per l’adozione di provvedimenti di carattere più strutturale[28].
5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPG alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato
L’introduzione di strumenti normativi ed organizzativi finalmente funzionali ad una vera e propria risistemazione della materia, da cui possano scaturire circuiti realmente virtuosi nella cura, nel trattamento ed anche nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, non è dunque più rinviabile, come da ultimo opportunamente ribadito dalla Corte costituzionale.
A distanza di quasi sette anni dall’entrata in vigore della riforma che ha sancito il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, si è venuta a creare una situazione “patologica” per cui non solo è da considerarsi “superata” l’esperienza degli OPG, ma risultano di fatto non più utilmente applicabili – per lo meno in alcune realtà regionali – le norme che, a tutt’oggi, in presenza di determinati presupposti, continuano a prevedere la possibilità di sottoporre gli infermi di mente a misure di sicurezza di tipo detentivo.
L’esistenza delle liste di attesa pocanzi indicate, almeno in alcune parti del territorio nazionale, fa sì che l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva nei confronti di un infermo di mente si presenti ormai come un’opzione non più utilmente esperibile, sebbene, in concreto, nella pratica, continuino ovviamente a presentarsi svariati casi in cui, essendosi verificati i presupposti previsti dalla legge, l’adozione di tali misure risulterebbe chiaramente necessitata, tanto più in considerazione della persistente vigenza delle norme penali relative all’applicazione ed all’esecuzione delle misure di sicurezza detentive.
Tale situazione, com’è noto, produce evidenti distorsioni.
Considerando il numero dei soggetti destinatari di misura di sicurezza detentiva ed in attesa di internamento, si ravvisa il rischio che il processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari si traduca non già nella individuazione di istituti di cura e custodia realmente adeguati alle necessità degli infermi di mente giudicati socialmente pericolosi, bensì in una sorta di rinuncia, da parte dei pubblici poteri, a soddisfare il dovere, loro assegnato, di sostenere e contenere i cittadini che abbiano commesso reati in uno stato di non imputabilità, derivante da un vizio totale di mente.
E questa sorta di dismissione di competenze, come detto, si è concretizzata nella formazione di liste di attesa per l’ingresso in REMS, più o meno nutrite, in tutte le Regioni italiane.
Il concetto di “lista d’attesa”, peraltro, non è affatto sconosciuto ed è anzi connaturato all’ambito sanitario, per ciò che concerne l’erogazione delle prestazioni mediche di carattere esclusivamente pubblicistico e, a distanza di oltre sei anni dall’attuazione della riforma di cui si discute, può oggi ragionevolmente affermarsi che i sistemi sanitari regionali abbiano tendenzialmente accettato il rischio che anche per i ricoveri nelle REMS si creassero per l’appunto dei tempi di attesa più o meno prolungati.
Tale scelta, tuttavia, come lucidamente sottolineato dalla Corte costituzionale, non appare compatibile con l’erogazione di prestazioni che, a differenza di ogni altro trattamento sanitario, corrispondono non solo ad una finalità di tipo terapeutico ma dipendono direttamente da un ordine impartito dall’Autorità giudiziaria, dotato per definizione di esecutorietà e, dunque, meritevole di una esecuzione che, seppur non immediata, deve senz’altro potersi effettuare in tempi ragionevoli e, soprattutto, prevedibili. Al riguardo, riprendendo sul punto le considerazioni svolte dalla Consulta, giova rammentare come proprio dalla compiuta esecuzione di tali ordini giurisdizionali dipenda la salvaguardia di irrinunciabili valori costituzionali, attinenti, da un lato, alla tutela della salute degli infermi di mente destinatari delle misure di sicurezza e, dall’altro, alla protezione dei diritti – concernenti nella maggior parte dei casi la sicurezza pubblica e l’incolumità individuale – di cui sono titolari le vittime dei reati per cui si procede.
Ne consegue che, in assenza di riforme normative con un carattere più pervasivo, la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze introdotta con il d.l. n. 211/2011 non avrebbe dovuto, né potuto, interpretarsi come produttiva di un inedito sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive, che, allo stato, e per lo meno in alcune realtà regionali, parrebbe basarsi su una sorta di impropria condivisione del potere di internamento tra Autorità giudiziarie e Autorità sanitarie locali.
Per quanto sinora detto, infatti, ben lungi dal voler espungere o ridimensionare l’istituto delle misure di sicurezza detentive, il legislatore ha semplicemente previsto forme e modalità di esecuzione delle stesse diverse e maggiormente incentrate sull’obiettivo del recupero psichiatrico dei pazienti autori di reato, senza tuttavia attribuire ai rappresentati dei sistemi sanitari regionali poteri di veto o di inibizione delle decisioni adottate dalle Autorità giudiziarie. E tali riflessioni, peraltro, paiono tanto più vere, ove si consideri quanto detto poc’anzi a proposito dell’attuale contesto normativo che, pur con l’importante novità costituita dalla positivizzazione del principio della R.E.M.S. come extrema ratio, continua stabilmente a considerare come atto giudiziario l’applicazione dell’internamento.
In questo contesto, pare piuttosto chiaro che, accanto ad una realizzazione di un numero complessivo di posti-letto in REMS evidentemente sottodimensionato rispetto alla domanda effettiva, un ruolo di peso nella formazione delle liste di attesa sia stato esercitato anche dal principio del “numero chiuso” degli accessi, introdotto peraltro, come detto, neppure per via normativa, bensì nell’ambito degli accordi intervenuti tra lo Stato e gli enti territoriali.
È bene precisare, tuttavia, anche qui rifacendosi alle considerazioni della Consulta, come, indipendentemente dalle singolari modalità con cui detto principio ha fatto la sua comparsa nell’ordinamento, non pare affatto auspicabile un suo superamento, con la contestuale accettazione di rinnovate dinamiche di sovraffollamento delle REMS oggi presenti sul territorio nazionale.
Né, tanto meno, le considerazioni sin qui svolte mirano a sottrarre ai rappresentanti dei sistemi sanitari ogni potere di interlocuzione con l’Autorità giudiziaria in merito alla effettiva appropriatezza dei singoli ricoveri in REMS, oltre che della permanenza nelle Residenze dei soggetti già internati e che, a giudizio dei responsabili sanitari, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico.
Tuttavia, (e senza revocare in dubbio l’introduzione delle R.E.M.S. quali luoghi non penitenziari ove dare esecuzione alle misure di sicurezza detentive, la valorizzazione del contenuto sanitario di dette misure e la qualificazione delle stesse come extrema ratio) si ritiene che la vera attuazione della riforma passi necessariamente per un rinnovato investimento nella stessa, anche in termini finanziari[29].
Continuare a mantenere una dimensione artificiosamente contenuta del numero dei posti-letto in R.E.M.S. lascerebbe invero supporre la surrettizia finalità di indirizzare forzatamente le scelte dell’Autorità giudiziaria verso l’applicazione di misure di sicurezza di tipo non detentivo, il che, tuttavia, si presenza come un’operazione in alcun modo conforme all’attuale contesto normativo.
Il principio del “numero chiuso” degli accessi in REMS, semmai, potrà conciliarsi con i provvedimenti giurisdizionali, solo nel momento in cui tutte le Regioni saranno dotate di un numero di posti-letto effettivamente adeguato e pienamente parametrato ai requisiti tecnici individuati con il D.M. primo ottobre 2012[30]; si ritiene, infatti, che solo in tal modo l’ordinamento potrà produrre una efficace risposta, in termini di cura e contenimento, per quei pazienti psichiatrici autori di reato nei cui confronti sia ineludibile l’applicazione delle misure di sicurezza detentive al fine di fronteggiarne la pericolosità sociale, pur nella piena considerazione del principio del ricovero in R.E.M.S. quale extrema ratio.
Del resto, già l’Accordo del 26 febbraio 2015 esplicitava nelle premesse lo specifico impegno, in capo alle Regioni ed alle Province Autonome, a provvedere “ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo alla evoluzione del numero dei propri pazienti”.
Preso atto della situazione sin qui descritta, deve constatarsi come, almeno in talune Regioni, detta programmazione non sia stata adeguatamente effettuata.
Le risorse non dovrebbero peraltro destinarsi alla sia pur ineludibile implementazione della rete delle Residenze, ma anche al rafforzamento del complessivo sistema di cura ed accoglienza dei pazienti psichiatrici autori di reato, incentrato sui dipartimenti di salute mentale presenti sull’intero territorio nazionale.
Infatti, il principio della REMS come extrema ratio è sinora sostanzialmente rimasto lettera morta anche per la limitatezza di soluzioni alternative all’applicazione delle misure di sicurezza detentive. In questo senso, da più parti, si è anche denunciata una certa tendenza dell’Autorità giudiziaria nel ricorrere al ricovero in REMS anche in casi in cui l’applicazione di misure gradate, quali la libertà vigilata con prescrizioni, potrebbe rivelarsi sufficiente ai fini della corretta instaurazione di percorsi di cura e contenimento dei singoli pazienti. D’altro canto, si è anche rilevato come la mancata applicazione delle misure di sicurezza non detentive sia talora derivata dall’assenza di adeguate risposte operative da parte dei dipartimenti di salute mentale, specialmente per quanto concerne l’individuazione di strutture cliniche di assistenza ove prevedere l’esecuzione di progetti riabilitativi di tipo residenziale o semi-residenziale.
Ne consegue che, accanto al potenziamento della rete delle REMS, come d’altra parte segnalato anche dalla Corte costituzionale, andranno necessariamente implementati anche i servizi psichiatrici territoriali, così da poter mantenere fermo il principio del “numero chiuso” per l’accesso nelle Residenze, dotando contestualmente i Giudici competenti di misure alternative applicabili nei confronti dei pazienti connotati da pericolosità più attenuata, nonché per coloro che, già ristretti in REMS, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico. Proprio in questo modo, infatti, si favorirebbe un più accentuato turn-over tra i pazienti già accolti in REMS e quelli da accogliere, scongiurando il rischio che il fenomeno delle liste di attesa si riproduca nuovamente in futuro, anche nel momento in cui dovesse incrementarsi la dotazione di posti-letto nel territorio nazionale.
6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva
Un’altra problematica, non sempre chiaramente esplicitata e che, come sopra accennato, sembra agitarsi nel dibattito relativo al sistema delle REMS, è quella relativa all’appropriatezza di tali strutture nei confronti di talune specifiche categorie di pazienti psichiatrici autori di reato. La questione risulta peraltro in più punti affacciarsi anche nell’ambito della sentenza della Corte costituzionale in commento (si vedano, tra gli altri, i punti 5.12 del “Ritenuto in fatto” e 5.3.2 del “Considerato in diritto”).
Al riguardo, si è precisato come le Residenze, in quanto strutture votate in modo pressoché esclusivo alla recovery sanitaria dei loro ospiti, si connoterebbero per requisiti di sicurezza non particolarmente elevati e comunque adatti solo per una utenza selezionata, composta da pazienti che abbiano dimostrato un’adeguata consapevolezza di malattia e, soprattutto, una buona accettazione di percorsi terapeutici di tipo residenziale; e si è anche sottolineato, nella medesima ottica, come le REMS, proprio perché non meramente succedanee dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, dovrebbero caratterizzarsi per la predisposizione di piani terapeutici evoluti e senz’altro distinti dai vecchi principi della “contenzione” fisica degli internati[31].
Si è quindi puntualizzato come determinate categorie di soggetti, in atto stabilmente destinati alle REMS, non sarebbero in realtà clinicamente idonei per il ricovero nelle Residenze, in quanto gravemente dipendenti dalle sostanze stupefacenti, ovvero connotati da personalità violente ed anti-sociali, intolleranti alle regole, minacciosi, “tendenti a mentire”, “prevaricatori, oppositivi, aggressivi verso il personale e gli altri malati”[32]. Secondo alcuni studi, i pazienti con queste caratteristiche costituirebbero addirittura il 20-30% dell’utenza delle REMS, andando così ad alimentare numerose problematiche, sia in termini di incremento delle liste di attesa con soggetti che, da un punto di vista clinico, non sarebbero da considerarsi idonei per i percorsi di cura erogabili in REMS, sia in termini di sicurezza interna alle Residenze, nei casi in cui si sia proceduto al loro effettivo internamento[33].
Orbene, anche quest’ultimo aspetto del dibattito dimostra in modo obiettivo come le modalità approssimative con cui tra gli anni 2011 e 2015 è stata attuata la riforma abbiano prodotto il “terreno di coltura” ideale per fare affiorare le contraddizioni del sistema di cura e trattamento per i pazienti psichiatrici autori di reato attualmente vigente in Italia.
Pare infatti chiaro che, in assenza di una compiuta riflessione politica e giuridica in merito al sistema delle misure di sicurezza detentive ed alle norme codicistiche che individuano l’ampia platea degli infermi di mente sottoponibili alle stesse, taluni ambiziosi obiettivi sono destinati a rimanere “lettera morta”.
Ed invero, l’affermazione secondo cui le R.E.M.S. dovrebbero strutturarsi in modo diverso dai vecchi OPG, rivolgendosi ad una utenza maggiormente selezionata e che mostri una tendenziale compliance rispetto alle cure proposte, mal si concilia con una norma, quale il citato art. 3-ter, co. 4, d. l. n. 211/2011, a tenore del quale, in modo indistinto, tutte le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono da eseguirsi presso le Residenze di nuova concezione, sia pure con il caveat costituito dal principio dell’assegnazione in R.E.M.S. come extrema ratio; peraltro, proprio quest’ultima “valvola di sfogo”, in forza della quale le Autorità giudiziarie dovrebbero sempre prediligere misure di sicurezza non custodiali, neppure pare applicabile ai casi da ultimo presi in considerazione, concernenti i soggetti connotati da profili di pericolosità estremamente elevati i quali, per definizione, non possono che risultare incompatibili con un regime blandamente restrittivo, quale è quello della libertà vigilata.
È dunque coerente che taluni degli operatori che sottolineano l’inappropriatezza delle REMS per la tipologia di utenza più pericolosa, contestualmente auspichino un rinnovato ricollocamento di questi pazienti all’interno delle strutture penitenziarie, sia pure ipotizzando nello stesso tempo un congruo rafforzamento delle aree che erogano prestazioni sanitarie negli Istituti di pena[34]. Quest’ultima opzione presupporrebbe però una radicale rivisitazione della normativa che regola la materia della imputabilità, verosimilmente anche sul piano costituzionale, essendo ben noto che, allo stato, i principi e le norme dedicate agli infermi di mente autori di reato esprimano una insofferenza sia per il loro ingresso in carcere, sia, tanto più, per la loro permanenza negli ambienti inframurari[35]. Del resto, la tendenziale inappropriatezza del contesto carcerario per il trattamento delle infermità psichiatriche, per lo meno nelle loro forme più severe, è stata di recente riaffermata dalla stessa Corte costituzionale, con la nota sentenza della Corte costituzionale 14 aprile 2019, n. 99[36].
Chiamato a valutare la legittimità dell’art. 47-ter, co. 1-ter, ord. pen. nella parte in cui non prevedeva che il tribunale di sorveglianza, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta, potesse concedere al condannato la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter, il Giudice delle leggi ha colto l’occasione per soffermarsi su varie problematiche di sistema relative al trattamento delle patologie psichiatriche all’interno degli Istituti di pena; ed al riguardo, pur non escludendo aprioristicamente che anche i penitenziari possano essere sede di aree specificamente destinate alla cura delle infermità mentali, ha comunque chiaramente riconosciuto come, per lo meno per i casi patologici connotati da maggiore gravità, debba ravvisarsi una sostanziale incompatibilità tra carcere e disturbo mentale[37].
Peraltro, l’ipotesi di ricondurre una parte dei pazienti psichiatrici autori di reato all’interno dei penitenziari, sia pure presso aree ad esclusiva gestione sanitaria, parrebbe obiettivamente contraddire il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[38], al netto delle annose problematiche che, peraltro, tutt’oggi continuano ad affliggere il sistema di tutela della salute psichica delle persone detenute, nonostante gli sforzi profusi dall’Amministrazione penitenziaria e dai sistemi sanitari regionali.
Ad ogni modo, dal 2011 ad oggi, non si è registrata l’approvazione di alcuna riforma organica né del sistema delle misure di sicurezza detentive, né, tanto meno, dei criteri che regolano l’imputabilità e ciò si è inevitabilmente ripercosso sul sistema delle REMS, nella misura in cui si è dovuto disporre il ricovero in dette strutture di tutti i pazienti psichiatrici autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere al momento del fatto e socialmente pericolosi in grado tale da meritare la misura custodiale, indipendentemente dalle specificità delle loro condizioni psicopatologiche e dalla effettiva appropriatezza del percorso di cura esperibile in REMS rispetto alle situazioni cliniche individuali.
Se dunque è questo il contesto entro cui confrontarsi, è bene però nuovamente precisare che neppure la problematica da ultimo esaminata potrà adeguatamente fronteggiarsi mantenendo artificiosamente bassi i numeri dei posti-letto disponibili in REMS, così da indurre l’Autorità giudiziaria, in modo pressoché forzato, a ricercare percorsi di cura alternativi per i pazienti affetti da patologie non correttamente trattabili nelle Residenze.
In questo senso, deve infatti ricordarsi che, a legislazione invariata, continua a mancare qualsivoglia criterio organizzativo o normativo che consenta legittimamente alla Magistratura o alle Amministrazioni sanitarie regionali di effettuare una selezione in entrata dei soggetti non imputabili attinti da misura di sicurezza detentiva, sicché gli stessi, allo stato, continuano inevitabilmente ad essere indirizzati nelle REMS prescindendo da specifiche valutazioni in merito alla loro compatibilità personologica con l’ambiente residenziale. Né, come detto, tendenzialmente, tali valutazioni riescono ad effettuarsi in modo efficace prima della emissione dei provvedimenti che dispongono l’applicazione della misura detentiva, a causa dell’assenza di offerte terapeutiche alternative alla REMS parimenti rassicuranti con riguardo alle possibilità di contenimento dei pazienti.
Dunque, il sotto-dimensionamento della rete delle Residenze presenti sul territorio nazionale, ben lungi dall’innescare meccanismi virtuosi di ricerca di soluzioni alternative, finisce semplicemente, almeno in alcune realtà regionali, per privare di adeguate forme di assistenza i pazienti psichiatrici autori di reato, determinando contestualmente la mancata esecuzione dei provvedimenti che li riguardano.
Una più efficace selezione in entrata dei pazienti da ammettere in REMS potrebbe al più prefigurarsi – ed auspicarsi – con riguardo ai soli soggetti connotati da una ridotta pericolosità sociale e, come tali, adeguatamente trattabili nel regime tipico della libertà vigilata, ma non anche in relazione ai pazienti più aggressivi che, con ogni probabilità, dovrebbero comunque continuare ad indirizzarsi verso soluzioni terapeutiche extracarcerarie ma comunque di tipo detentivo.
Reputando auspicabile non già un abbandono dell’esperienza delle REMS bensì un reale potenziamento della stessa, dovrebbe semmai rivalutarsi il tema della sicurezza interna ed esterna delle Residenze, tenendo in adeguata considerazione le problematiche gestionali che l’esperienza degli ultimi anni ha lasciato affiorare in relazione al trattamento dei soggetti più violenti e pericolosi e, dunque, ipotizzando di coniugare in modo diverso e più efficace le esigenze di cura di tutti i soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva con la domanda di sicurezza proveniente dagli operatori e dagli ospiti delle strutture connotati da profili di aggressività più attenuata.
7. Conclusioni
Com’è noto, nessuno dei progetti di riforma del sistema delle misure di sicurezza elaborati nel corso degli ultimi anni ha superato il vaglio dell’approvazione parlamentare[39]; e ciò dimostra come, da ormai troppo tempo, su alcuni nodi problematici della materia di cui si discute gli esperti non riescano a trovare una soluzione equilibrata che soddisfi in egual misura le “esigenze” della giustizia e le istanze dei sistemi sanitari dedicati al trattamento delle patologie psichiatriche.
Si è dunque tentato di illustrare le ragioni per cui si ritiene che tale compromesso difficilmente potrà mai raggiungersi, qualora si continuerà a non cogliere la specificità di una materia in cui, comunque, viene in rilievo la necessaria esecuzione di provvedimenti giurisdizionali che trovano la propria giustificazione non solo nelle doverose esigenze di cura dei pazienti psichiatrici autori di reato, ma anche nella domanda di sicurezza pubblica e privata connaturata nella collettività e chiaramente rilevante sul piano costituzionale, al pari del diritto alla salute riconosciuto ai pazienti.
Ad avviso di chi scrive, dovrà necessariamente prendersi atto del fatto che, nella materia in questione, le ontologiche competenze giudiziarie potranno senz’altro essere rimodellate, così da assicurarsi meccanismi di più ampia collaborazione con gli specialisti della salute mentale, ma non potranno continuare ad essere neutralizzate, né direttamente, né, tanto meno, indirettamente, mediante la eccessiva compressione del numero complessivo dei posti-letto in R.E.M.S., sinora verificatasi.
In questo senso, stante la molteplicità degli obiettivi perseguiti e la complessità delle problematiche accumulatesi in ragione di riforme approssimative e disorganiche, in definitiva, si ritiene che il decisore politico debba finalmente rivolgere uno sguardo attento e convinto sui pazienti psichiatrici autori di reato, con la piena consapevolezza – come opportunamente segnalato dai più attenti commentatori – che le questioni sin qui poste non potranno risolversi “a costo zero” e sulla base di clausole di invarianza finanziaria[40], ravvisandosi la necessità di investimenti che siano effettivamente proporzionati all’ambizione delle riforme che ci si proporrà di attuare.
Su questi ed altri temi ha da ultimo espresso la sua autorevole posizione anche la Corte costituzionale con la sentenza in commento e di tale posizione non potrà, evidentemente, non tenersi conto nell’immediato futuro.
[1] Il presente contributo costituisce un estratto aggiornato dell’articolo Il sistema delle R.E.M.S. Limiti, contraddizioni e prospettive di una riforma, pubblicato dallo stesso Autore in Temi di esecuzione penale (rivista della Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”), dicembre 2021.
[2] In questo senso, l’art. 3-ter, co. 1, d. l. 211/2011 fa esplicito riferimento al “termine per il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari già previsto dall’allegato C del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2008 (…) e dai conseguenti accordi sanciti dalla Conferenza unificata (…)”. Il legislatore del 2011 ha dunque ritenuto di introdurre un termine perentorio per il compimento di un “percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, in realtà sino a quel momento mai indicato come obiettivo dalla normativa primaria, ma solo nell’Allegato C del D.P.C.M. primo aprile 2008, a sua volta dedicato non già al “superamento degli O.P.G.”, bensì al trasferimento delle funzioni gestionali in materia di O.P.G. al servizio sanitario nazionale, al pari di ogni altra funzione in materia di medicina penitenziaria.
[3] Accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in attuazione al D.M. 1 ottobre 2012, emanato in applicazione dell’articolo 3ter, comma 2, del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9 e modificato dal decreto legge 31 marzo 2014 n. 52, convertito in legge 30 maggio 2014, n. 81 – Rep. Atti n. 17/CU del 26/02/2015.
[4] Accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, concernente la definizione di specifiche aree di collaborazione e gli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e nelle Case di Cura e Custodia (CCC) di cui all’Allegato C al D.P.C.M. 1° aprile 2008 – Rep. n. 81 – CU del 26 novembre 2009, pubblicato in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 2, del 04/01/2010.
[5] Pubblicata sul sito www.dirittopenaleuomo.org, con il commento di A. Calcaterra, Misura di sicurezza con ricovero in R.E.M.S.: il ritorno al passato no!
[6] Tra i commenti, si segnala l’interessante dibattito a più voci intercorso tra M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, in Questione Giustizia, 02/06/2020; G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, in Questione Giustizia, 04/02/2021; P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, in www.sossanità.org.
[7] In questi termini, si esprime M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit.
[8] Tale evenienza è rappresentata da P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[9] K. Poneti, La Consulta e le pulsioni neo-manicomiali, in www.sossanità.it.
[10] Ai sensi dell’art. 12 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[11] Segnalata in www.giurisprudenzapenale.com.
[12] Cass., Sez. Un., sent. 8 marzo 2005, n. 9163, in Dir. pen. proc., 2005, 837 ss., con nota di M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite.
[13] Date queste premesse, le Sezioni Unite hanno anche aggiunto che, d’altro canto, nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità".
[14] In linea generale, il tema è trattato da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, in Questione Giustizia, 13 maggio 2021; della stessa Autrice, sempre sul tema della tutela della salute mentale degli autori di reato, si veda altresì in questa Rivista, 17 aprile 2021, La pazza gioia: il “cinema folle”, la società civile e il diritto penale.
[15] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
[16] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 1, 1 febbraio 2019, 405 ss. indica in 1.700-1.800 la media dei pazienti presenti negli OPG in epoca anteriore alla riforma.
[17] Tra le altre, può ricordarsi la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 18 luglio 2003, con la quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.
[18] Il tema risulta ampiamente sviscerato, tra gli altri, da A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[19] Recante “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”.
[20] I dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comprovano in effetti come, in netta controtendenza rispetto alle medie annuali precedenti, si sia passati dai 1.276 pazienti ospitati in O.P.G. nel 2011 ai 689 presenti al 31 marzo 2015.
[21] In questi termini si esprime G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit.
[22] Sempre dai dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento, risulta che al 14 dicembre 2015 erano già 96 provvedimenti giurisdizionali in attesa di esecuzione. Questo numero è aumentato esponenzialmente nel corso degli anni, passandosi a 265 provvedimenti in attesa di esecuzione al 31 dicembre 2016, a 457 al 28 novembre 2017, a 667 al 9 gennaio 2019, a 705 al primo aprile 2019, a 813 al 27 ottobre 2020 ed infine a 762 al 27 settembre 2021. È bene ad ogni modo rammentare che, sulla base della normativa vigente che prevede la gestione esclusivamente sanitaria delle REMS, la responsabilità istituzionale circa la corretta tenuta delle singole liste di attesa non può che ricadere sulle Autorità regionali.
[23] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento.
[24] In linea generale, una effettiva diversificazione delle misure sanzionatorie, quale strumento per alleggerire la pressione sulle REMS, viene invocata, tra gli altri, da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit., laddove è appunto definita “urgente” la “diversificazione delle misure sanzionatorie, in modo da rendere effettiva la natura residuale ed eccezionale delle misure custodiali”.
[25] In questi termini si esprime P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., il quale appunto segnala come, a fronte di un buon livello di turn-over attuato nelle Residenze nel periodo 31 marzo 2015-11 marzo 2019 (essendo stato dimesso il 65,1% dei complessivi 1.580 pazienti internati nel periodo in disamina), il 35% dei pazienti ospitati in REMS avrebbe commesso reati di scarso rilievo, nei cui confronti dovrebbero auspicarsi altre tipologie di intervento.
[26] Si veda, sul punto, sempre P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[27] Ci si riferisce alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, “Fasc. 37/PP/2016”, pubblicata nell’aprile del 2017, avente ad oggetto “Direttive interpretative e applicative in materia di superamento deli Ospedali psichiatrici giudiziari e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014”. Tra l’altro, nel documento si legge quanto segue:
“Per esigenze di sintesi non è possibile riportare integralmente la molteplicità di informazioni pervenute dai diversi uffici interessati, pur dovendosi dare atto che le problematiche evidenziate dalla maggior parte degli uffici attengono, principalmente, alla carenza di posti presso le nuove strutture REMS, con inevitabile formazione di liste di attesa per l’accettazione di nuovi pazienti e conseguente dilatazione dei tempi di esecuzione delle misure disposte; alla collocazione territoriale di alcune REMS, negativamente incidente sulla possibilità per le forze dell’ordine di intervenire tempestivamente nell’ipotesi in cui uno o più internati pongano in essere atti aggressivi o si diano alla fuga; all’individuazione dei soggetti deputati ad assicurare il trasferimento degli internati dalla Rems ai Presidi Sanitari Territoriali; nonché alla inadeguatezza della sorveglianza interna ed esterna alle strutture”.
[28] Tale valutazione è stata di recente espressa da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
[29] Al riguardo, M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit., evidenzia condivisibilmente quanto segue: “A ben vedere, in un mondo attento ed avveduto, il dibattito culturale intorno al tema avrebbe dovuto creare la condizione per un inevitabile e indispensabile intervento correttivo o integrativo del Legislatore (forse anche regionale) o almeno per l’impegno senza risparmio di risorse da parte della politica e delle amministrazioni regionali per il reperimento – quanto meno – di un numero di posti vagamente comparabile alle esigenze concrete, per la realizzazione di soluzioni architettoniche e immobiliari adatte alle diverse esigenze e per l’individuazione di una forza di polizia o di personale finalizzato a garantire la sicurezza interna”. Anche sul “fronte” della psichiatria, il tema della implementazione dei posti-letto in R.E.M.S. risulta preso in considerazione, per lo meno da parte di taluni esponenti; tra questi si segnala G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit. che, tra le soluzioni auspicabili per il superamento dei problemi connessi al sistema delle R.E.M.S., prospetta appunto “l’implementazione dei posti letto forensi adeguandoli agli standard europei ovvero di 1 ogni 15.000 abitanti. Non solo posti REMS, ma percorsi strutturati a gradiente di sicurezza progressivamente ridotto, come REMS attenuate fino a gruppi appartamento per chi conclude il percorso strettamente monitorate da equipe forensi. Ogni dipartimento di salute mentale dovrebbe avere delle equipe e dei percorsi dedicati con specifiche competenze forensi”.
[30] Decreto primo ottobre 2012 adottato dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, venivano delineati i “requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui si applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia”.
[31] Sul punto, si rinvia alle considerazioni di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[32] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[33] Le considerazioni sono di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit., il quale, a sua volta, sul punto, richiama P. Pellegrini, La chiusura degli OPG è vicina e quella delle REMS?, in www.quotidianosanità.it, 03/11/2016. Quest’ultimo Autore, nell’articolo da ultimo citato, a distanza di circa un anno e mezzo dalla entrata a regime della riforma, già ammoniva sui rischi connessi ad un uso troppo disinvolto della misura di sicurezza di sicurezza detentiva, declinata nel ricovero in REMS; segnatamente, da un lato, invitava ad introdurre metodiche volte a prevenire gli ingressi nelle Residenze, così da evitare la creazione di liste di attesa che già all’epoca contavano “circa 200” persone in attesa di internamento. E, sul punto, segnalava che, a suo avviso, “la magistratura che prima aveva remore verso la collocazione in OPG, oggi sembra non averne per il ricovero in REMS”. Ancora, esprimeva forti perplessità in merito alla possibilità di conciliare le funzioni della cura e quelle della custodia all’interno delle R.E.M.S., che, appunto, risultavano istituite in modo da rendere “fortemente presenti” le funzioni di custodia, “contrastando fino a soffocare quelle di cura”, posto che queste ultime hanno “bisogno di respiro, consenso, libertà o una prospettiva di libertà”. Il problema della sicurezza all’interno delle R.E.M.S. e della compatibilità con tali strutture di soggetti connotati da elevati tratti di pericolosità è affrontato anche da G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit., nei termini che seguono: “La ridotta capienza delle strutture al massimo 20 posti, fa sì che all’interno della stessa struttura si ritrovino utenti con necessità assistenziali completamente diverse e con livello di pericolosità completamente diversi. Quando in questi contesti capita un utente fisicamente dotato e con tratti psicopatici e antisociali per tutti, utenti e operatori, sarà un problema. Potrà serenamente minacciare operatori, personale e infrangere le poche regole di convivenza, difficilmente si ha la capacità di fermarlo. Sarà il boss della struttura inducendo una regressione totale dei processi di cura a danno di tutti. In alcuni casi, commetterà dei reati, e come è già successo, dovrà essere curato dagli stessi operatori che lo hanno denunciato, contro ogni buon senso e codice deontologico”.
[34] Ci si riferisce, tra l’altro, alla proposta di legge n. 2939, presentata l’11 marzo 2021 alla Camera dei Deputati, di iniziativa del deputato Magi, il cui testo è disponibile nel sito www.societadellaragione.it. La proposta si snoda attraverso plurime direttrici, tra le quali, anzitutto, l’eliminazione della non imputabilità e della semi-imputabilità per vizio di mente, con la conseguente abolizione delle misure di sicurezza correlate; logico presupposto di tale scelta è quello di riconoscere soggettività e responsabilità al malato di mente, anche autore di reato, valutando l’attribuzione della responsabilità, anche penale, come un atto che può rivestire anche una valenza terapeutica. Da tali premesse discende la sostanziale abolizione del sistema del doppio binario, con l’eliminazione dell’attuale divaricazione di trattamento tra soggetti capaci di intendere e di volere ed incapaci e prevedendo la soggezione alla sanzione penale anche nei confronti di questi ultimi. In tale contesto, si promuoverebbe l’introduzione di una nuova circostanza attenuante per le condizioni di svantaggio determinate da disabilità psicosociale e si delineano inoltre vari strumenti finalizzati a scongiurare l’ingresso in carcere dei soggetti affetti da patologie psichiatriche, così da indirizzarli verso misure dal più elevato contenuto terapeutico. In accordo con le sopra richiamate premesse, tuttavia, viene contemplata la possibilità che i pazienti psichiatrici autori di reato siano condannati ad espiare le pene detentive presso gli Istituti di pena ed a questo proposito si precisa nella relazione illustrativa che “all’esito di una lunga discussione, è emersa la necessità di non prevedere alcuna istituzione speciale per i detenuti con disabilità psicosociale, i quali dovranno essere curati dai dipartimenti di salute mentale, in locali ad esclusiva gestione sanitaria all’interno degli istituti penitenziari”. Infine, per quanto concerne le REMS, evidentemente non più utilizzabili quali luoghi di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, se ne propone la riconversione in “strutture ad alta integrazione socio-sanitaria quali articolazioni dei dipartimenti di salute mentale delle aziende sanitarie locali”. Sul tema, P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., evidenzia come, a suo avviso, per le persone con alta pericolosità, a prescindere dalla presenza o meno di un disturbo mentale, “sono possibili altre impostazioni, centrate sulla limitazione della libertà personale, sulla tutela della comunità sociale, sulla costrizione che vedono precise leggi e competenze. In questa ambiti la cura psichiatrica è quella possibile, talora quasi nulla o solo sintomatica”.
[35] È noto, in questo senso, che l’ordinamento italiano riserva agli infermi di mente socialmente pericolosi un percorso di sostanziale irresponsabilità penale – sancita anzitutto dall’art. 85, cod. pen. – tuttavia contemperato dall’applicazione della misura di sicurezza detentiva del manicomio giudiziario (in seguito denominato ospedale psichiatrico giudiziario) in ciò perseguendo almeno due finalità: da un lato, quella di contenere la pericolosità sociale dei soggetti incapaci resisi autori di reati e, d’altro lato, quella di promuoverne il trattamento psichiatrico, tanto più a seguito della introduzione dei principi di rango costituzionale che impongono allo Stato di perseguire la finalità rieducativa e trattamentale nell’ambito di qualsiasi percorso di tipo sanzionatorio. Al riguardo, pur senza pretesa di esaustività, pare utile richiamare F. Mantovani, Diritto penale – parte generale, Padova, 686 ss., il quale, in merito al soggetto non imputabile, fa riferimento alla categoria generale del “delinquente irresponsabile”, sottolineando come il problema della imputabilità vada risolto non solo sulla base dell’art. 85 del codice penale, “ma alla luce del superiore principio della responsabilità personale, la quale richiede per potersi punire sia l’imputabilità sia la colpevolezza”. Ancor più incisive appaiono al riguardo le parole di F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 2000, 614, parole a cui pare utile ed opportuno affidarsi: “A nostro avviso la ragione giustificatrice dell’istituto (l’imputabilità, n.d.r.) deve reperirsi nella concezione comune della responsabilità umana. Secondo l’opinione che nell’epoca attuale è profondamente radicata nella coscienza collettiva, affinché un uomo possa essere chiamato a rispondere dei propri atti di fronte alla legge penale è necessario che sia in grado di rendersi conto del valore sociale degli stessi e non sia affetto da anomalie psichiche che gli impediscano di agire come dovrebbe: si richiede, in sostanza, che egli abbia un certo sviluppo intellettuale e sia sano di mente. La pena è una sofferenza; implica una notevole restrizione dei beni della persona e importa degli effetti che ne ledono l’onore, ripercuotendosi anche sul suo avvenire. (…). In conseguenza la reazione psico-sociale che nasce dai delitti commessi dagli individui di cui trattasi è diversa da quella che si verifica nei casi ordinari: può sorgere, bensì, allarme e, quindi, il riconoscimento della necessità di provvedimenti cautelativi nell’interesse della comunità, ma non si ha quella riprovazione morale che giustifica l’inflizione di un castigo”.
[36] V., fra gli altri, M. Bortolato, La sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale: la pari dignità del malato psichico in carcere, in Cass. pen., 9/2019.
[37] Pare utile, sul punto, riportare testualmente le parole della Corte: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l’effettività. Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana”.
[38] Sul tema, è utile rinviare ai contenuti delle varie circolari emanate dall’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni e degli Accordi in materia di sanità penitenziaria stipulati in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, segnalando, tra le altre, la circolare 6 giugno 2007, n. 0181045-2007 avente ad oggetto “I detenuti provenienti dalla libertà: regole di accoglienza”, nonché l’Accordo del 19 gennaio 2012, relativo alle “Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidiario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” ed infine l’ulteriore Accordo, approvato dalla Conferenza il 27 luglio 2017, recante il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie nel sistema penitenziario per adulti”. Si rinvia altresì alle considerazioni svolte in questa Rivista, 7 luglio 2020, da F. Gianfilippi, Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
[39] Oltre al già citato disegno di legge “Magi”, e per limitarsi alle proposte più recenti, ci si riferisce ai lavori del Tavolo tematico n. 11, dedicato alle misure di sicurezza, nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale i cui documenti finali sono tuttora reperibili sul sito internet del Ministero della giustizia; alle previsioni contenute nelle lettere c) e d) del punto 16 dell’art. 1, della legge-delega 23 giugno 2017, n. 103, recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, attuata peraltro solo in parte e non nelle porzioni dedicate alle misure di sicurezza; ed infine ai lavori della “Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie”, istituita con D.M. 19.07.2017, presieduta dal Prof. Marco Pelissero, i cui elaborati finali sono rinvenibili, tra l’altro, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org. Proprio i lavori della Commissione “Pelissero” sono stati da ultimo ripresi ed esplicitamente condivisi dalla “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita con D.M. 13 settembre 2021 e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo, la cui relazione finale è attualmente disponibile sul sito internet del Ministero della giustizia.
[40] In questi termini si esprime, condivisibilmente, A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
Il concordato in bianco fra genesi della disciplina del “decoctor” e codice dei contratti pubblici (nota a Ad. Plen. n. 9/2021)
di Tania Linardi
Sommario: 1. Premessa: il tradizionale rapporto antitetico tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche - 2. Il caso in esame - 3. Evoluzione storico – normativa del diritto concorsuale italiano - 3.1 Analisi comparatistica del problema - 4. Le cause di esclusione ex art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 - 5. L’impatto del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sul diritto concorsuale e sul Codice dei contratti pubblici - 6. Il contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 - 7. L’Ordinanza di rimessione della V Sez. Cons. St., n. 309/2021 - 8. La posizione dell’Adunanza Plenaria sulla quaestio iuris oggetto del dibattito - 9. Osservazioni conclusive.
1. Premessa: il tradizionale rapporto antitetico tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche
Il convergere degli elementi connaturati alla struttura del concordato preventivo “in bianco” verso la possibilità della prosecuzione dell’attività aziendale comporta la necessità di intercettare le regole, processuali e sostanziali, in grado di disciplinare le modalità di partecipazione alle gare pubbliche, dovendosi ormai abbandonare la tralatizia impostazione che inquadrava i due istituti in chiave eminentemente antitetica attraverso l’interpretazione restrittiva delle norme del Codice del processo amministrativo in tema di cause di esclusione[1].
Tali rilievi costituiscono il nodo centrale del problema affrontato dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria che assume una portata di indubbia rilevanza in quanto interviene sulla nota querelle sorta in relazione al rapporto tra concordato in bianco e procedure di gara[2].
Invero, le difficoltà nel fornire soluzioni univoche alle questioni giuridiche in oggetto è possibile riscontrarle prima facie nell’attività del legislatore, che per decenni è intervenuto in materia riformulando le norme applicabili al rapporto tra i due istituti.
A fronte della complessità e della stratificazione nel tempo di detti interventi, in dottrina ed in giurisprudenza venivano, infatti, adottate soluzioni interpretative che talune volte qualificavano il concordato “in bianco” come causa di automatica esclusione delle imprese dalle procedure di evidenza pubblica; talaltre ne consentivano la partecipazione al ricorrere di specifici requisiti di legge.
Entrando in medias res, la statuizione dell’Adunanza Plenaria dirime il contrasto formatosi in materia ripercorrendo l’iter storico evolutivo della disciplina della crisi d’impresa e del codice dei contratti pubblici, prediligendo un metodo d’analisi sistematico delle relative disposizioni, anche alla luce dell’esperienza sovranazionale. Ciò, in particolare, tenuto conto del dibattito sviluppatosi fra i più autorevoli studiosi a margine della recente riforma del sistema concorsuale italiano, ove è emersa la necessità di predisporre un organico ammodernamento delle regole con l’introduzione di strumenti in grado di assicurare la conservazione dell’impresa.
Di talché, in linea con il percorso argomentativo adottato dal Supremo Collegio, il presente lavoro, prima di analizzare gli approdi cui è giunta la sentenza in commento, non potrà prescindere dalla disamina degli sviluppi storici della disciplina concordataria e dal coordinato raffronto di essa con il codice dei contratti pubblici, con particolare riguardo alle soluzioni adottate dai principali ordinamenti giuridici europei nel settore delle procedure concorsuali.
2. Il caso in esame
La vicenda da cui origina la pronuncia in commento attiene al ricorso presentato dalla società seconda classificata avverso l’aggiudicazione dell’appalto di lavori disposta in favore di un RTI, al cui interno la società mandante era coinvolta in una procedura di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, co. 6, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare).
Al riguardo, il Tribunale Amministrativo Regionale competente disponeva l’accoglimento del ricorso principale[3]. Diversamente, il ricorso incidentale proposto dalla società mandataria del RTI aggiudicatario veniva respinto, in quanto, ai sensi dell’art. 48, co. 19 ter, c.p.a., il primo giudice riteneva infondata la pretesa di procedere alla sostituzione della mandante, giacché, si precisava, la modifica della compagine del RTI non si sarebbe potuta esperire in pendenza della procedura di gara.
A suffragio dell’accoglimento del ricorso principale, il giudice di prime cure rilevava l’illegittimità dell’aggiudicazione per violazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), nonché dell’art. 80, co. 5 bis, Codice dei contratti pubblici.
Quanto alla violazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), si chiariva che la mandante del RTI aggiudicatario, avendo proposto nelle more della procedura di gara una domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 161, co. 6, legge fallimentare, doveva essere esclusa.
Invece, la violazione dell’art. 80, co. 5 bis, c.p.a. scaturiva dal ritardo in cui era incorsa l’impresa mandataria nel comunicare alla stazione appaltante la presentazione, da parte della mandante del raggruppamento, di un’istanza ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall.
Orbene, avverso la suesposta decisione interponevano appello dapprima la società mandante e, successivamente, quella mandataria del RTI aggiudicatario.
A seguito della riunione di detti gravami, la Sezione Quinta del Consiglio di Stato evidenziava la presenza di orientamenti contrastanti in materia e, per l’effetto, deferiva all’Adunanza Plenaria talune questioni giuridiche rilevanti al fine del decidere, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.
In particolare, il primo quesito attiene alle conseguenze derivanti dalla presentazione, da parte di un operatore economico, di un’istanza di concordato in bianco ex art. 161, co. 6, l. fall., dovendosi chiarire se tale ipotesi “debba ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, ovvero se la presentazione di detta istanza non inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di commesse pubbliche, quanto meno nell’ipotesi in cui essa contenga una domanda prenotativa per la continuità aziendale”.
Il secondo quesito riguarda, invece, la qualificazione dell’atto di partecipazione alle gare pubbliche in termini di ordinaria o straordinaria attività di impresa, tenuto conto del differente regime autorizzativo applicabile.
Ulteriormente, la Sezione remittente si chiede entro quale termine debba intervenire l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale ai fini della regolare partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.
Infine, è stata deferita la questione se, ai sensi dell’art. 48, commi 17, 18, 19 ter, d.lgs. n. 50/2016, debba ritenersi consentita la sostituzione della mandante coinvolta in una procedura concordataria ex art. 161, co. 6, cit. “con altro operatore economico subentrante anche in fase di gara, ovvero se sia possibile soltanto la mera estromissione della mandante e, in questo caso, se l’esclusione del RTI dalla gara possa essere evitata unicamente qualora la mandataria e le restanti imprese partecipanti al raggruppamento soddisfino in proprio i requisiti di partecipazione”.
3. Evoluzione storico - normativa del diritto concorsuale italiano
Come noto, il concordato preventivo è uno strumento che consente di evitare il fallimento dell’impresa, essendo finalizzato a perseguire una pluralità di interessi, tra i quali si annoverano, come evidenziato da autorevoli autori, la conservazione del valore economico dei complessi aziendali, la salvaguardia dei rapporti commerciali e, di riflesso, la tutela dell’interesse pubblico[4].
Diversamente, l’originaria struttura della legge fallimentare del 1942 aveva quale principale paradigma il fallimento[5] che, secondo una storica impostazione, era accostato alla figura del decoctor, soggetto che fuggiva con i propri beni al fine di sottrarsi al pagamento dei debiti assunti nell’ambito dell’attività di commercio esercitata[6]. Il riferimento appare esemplificativo del disvalore, anche personale, che caratterizzava l’imprenditore fallito che aveva causato il dissesto dell’impresa, analogamente alla struttura eminentemente liquidatoria e punitiva della legislazione previgente nei confronti di tali situazioni[7].
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, invece, essendo stata accertata l’inidoneità dei tradizionali strumenti normativi a fronteggiare la generale crisi dell’economia, emergeva il ruolo delle grandi imprese nel tessuto economico nazionale, considerate quale valore autonomo da tutelare in sé mediante procedure di risanamento o recupero[8]. Sul piano normativo, quindi, seguiva l’adozione di leggi in favore degli operatori economici insolventi[9], nonché la previsione di talune modifiche alla disciplina delle procedure concorsuali[10].
Sulla base delle spinte del processo di integrazione europea e dell’emersione dei valori liberistici del mercato e della concorrenza, a partire dagli anni Novanta si rafforzavano ulteriormente gli obiettivi della valorizzazione della figura dell’impresa, quale naturale centro di produzione di risorse e ricchezza nell’ottica del miglioramento della efficienza del mercato[11].
In tal contesto, una delle principali tappe dell’evoluzione normativa delle procedure concorsuali si rinviene nelle riforme degli anni 2005-2007, con le quali il legislatore ha favorito le tecniche di conservazione delle strutture produttive dell’impresa e del loro reinserimento, ove possibile, nel settore economico[12]. In particolare, occorre richiamare il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con la l. 14 maggio 2005, n. 80[13], che ha modificato alcuni aspetti del concordato preventivo abbandonando la previgente impostazione che imponeva, ai fini dell’ammissione alla procedura, la verifica del possesso di requisiti di natura personale nonché patrimoniale[14].
Con la l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha introdotto l’istituto del concordato con continuità aziendale, di cui all’art. 186-bis l. fall[15], diviene ancora più evidente il favor legislatoris nei confronti delle procedure finalizzate al recupero dei valori aziendali[16].
Tale intervento normativo ha, inoltre, disciplinato l’istituto del c.d. concordato in bianco o con riserva ex art. 161, co. 6, l. fall., permettendo al debitore di procrastinare la presentazione della proposta concordataria di sessanta o centoventi giorni e, al tempo stesso, consentendo il compimento degli atti di ordinaria amministrazione nonché, su autorizzazione del tribunale competente, anche quelli di natura straordinaria.
Più di recente, l’istituto de quo ha subito modifiche per effetto della introduzione di diversi correttivi ad opera della l. 9 agosto 2013, n. 98[17], tra i quali si annovera, per le finalità di contrasto al fenomeno di abuso del concordato in bianco, il decreto motivato del tribunale contenente la nomina di un commissario giudiziale che, ai sensi dell’art. 161, co. 6, ultima parte, l. fall., è provvisto di ampi poteri in tema di accertamento della sussistenza delle condotte di cui all’art. 173, l. fall.
Quanto alle modifiche apportate al concordato con continuità aziendale, l’art. 186 – bis, co. 4, l. fall., ai fini della partecipazione alle procedure di evidenza pubblica richiede una specifica autorizzazione del tribunale competente, acquisito il parere del commissario giudiziale, ove nominato[18].
3.1. Analisi comparatistica del problema
In ambito europeo, è stato adottato come principale modello di riferimento lo strumento statunitense della corporate reorganitation, introdotto verso la fine degli anni Settanta e disciplinato dal Chapter 11 delFederal Bankruptcy Code. Ai sensi di tale disposizione, tra gli altri, si è prevista la facoltà del debitore di attivare una procedura finalizzata alla riorganizzazione dell’impresa, anche nella fase antecedente all’insolvenza tout court, evidenziandosi quindi il favor verso la conservazione dei valori aziendali, soprattutto alla luce dell’interesse dei creditori[19]. In tal contesto, è stata inoltre introdotta la possibilità di ottenere taluni finanziamenti con il beneficio della prededuzione[20].
Il sistema normativo francese, sulla scorta degli obiettivi sanciti dal modello statunitense, ha subito importanti modifiche[21], superando la previgente concezione punitiva del fallimento (incentrata sul prevalente ricorso alla liquidazione del patrimonio del debitore) per aderire ad un approccio teso a valorizzare l’impresa e la sua conservazione nel tessuto economico. Il tutto, mediante la predisposizione di procedure di allerta e di prevenzione dell’insolvenza; nonché attraverso meccanismi in grado di conferire all’autorità giudiziaria un rilevante potere dirigistico (ad esempio, la procedura concorsuale denominata sauvagarde, paragonabile alla reorganization statunitense)[22].
Anche in Germania, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, si è innovata la disciplina della crisi d’impresa prediligendosi una concezione conservativa degli operatori economici[23] attraverso l’enucleazione di benefici per l’imprenditore in modo da incentivare una celere e tempestiva apertura della procedura concorsuale[24].
Nell’ambito dell’evoluzione del diritto europeo, assume, inoltre, un ruolo centrale la raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2014 contenente l’invito rivolto agli Stati membri ad approntare efficaci procedure preventive idonee in concreto a scongiurare l’insolvenza degli operatori economici virtuosi. Così, è stato adottato il c.d. Piano d’azione UE del 30 settembre 2015, nonché la Direttiva n. 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, quale primo strumento di armonizzazione delle legislazioni dei paesi membri dell’UE in relazione alla crisi d’impresa[25].
Elementi che, come più volte anticipato, assumono un ruolo decisivo ai fini della individuazione della ratio sottesa all’istituto del concordato preventivo “in bianco”, nonché della perimetrazione dei suoi effetti sulle procedure di gara.
4. Le cause di esclusione di cui all’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei Contratti pubblici
Secondo la disciplina previgente, l’ipotesi della presentazione di una domanda di concordato preventivo era disciplinata dall’art. 38, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 163 del 2006, disposizione che è stata oggetto di dubbi interpretativi sorti sia in dottrina[26] sia in giurisprudenza, tanto da richiedere numerosi interventi del legislatore[27].
Attualmente, invece, la fattispecie in esame è disciplinata dall’art. 80, co. 5, lett. b)[28], D. Lgs. n. 50/2016, che recepisce quanto sancito dall’art. 57 della direttiva 2014/24/UE in tema di riconoscimento, in capo agli Stati membri, della facoltà di qualificare come causa di esclusione dalla gara pubblica le imprese coinvolte nelle procedure concorsuali[29].
Orbene, la norma in commento contiene un elenco di situazioni che comportano l’esclusione dalle procedure di evidenza pubblica dell’operatore economico: il fallimento, la liquidazione coatta ed il concordato preventivo, anche laddove sia in corso un procedimento finalizzato a dichiarare una di tali situazioni. Il tutto, però, fermo restando quanto sancito dagli artt. 110 del Codice dei contratti pubblici, nonché dall’art. 186 - bis del r.d. 16 marzo 1942, n. 267[30].
Viene, inoltre, in rilievo l’art. 110, co. 4[31], Codice contratti pubblici, così come modificato dall’art. 2, co. 1, del d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019, che prevede l’applicazione dell’art. 186-bisl. fall. alle imprese che hanno presentato una domanda di concordato preventivo, anche “in bianco”[32]. Da ciò può, quindi, desumersi che anche in tali ipotesi gli operatori concorrenti possono partecipare alle procedure di evidenza pubblica, sempreché in possesso della prescritta autorizzazione giudiziale. In tema, il legislatore distingue l’ipotesi in cui un’impresa abbia presentato una mera domanda per l’ammissione alla procedura concordataria dalla differente ipotesi in cui essa ne abbia effettivamente ottenuto l’ammissione, ai sensi dell’art. 163 l. fall.: solo nel primo caso, infatti, viene prescritto il requisito necessario dell’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto.
Nel solco dei predetti interventi normativi, si profila interessante notare che l’art. 110 Cod. contratti pubblici non ha riprodotto il contenuto del previgente comma 3 ove si precisava che: (…) l’impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato, sentita l’ANAC, possono: a) partecipare a procedure di affidamento per di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto (…)”. Le ragioni di tale scelta legislativa potrebbero rinvenirsi, come evidenziato da autorevoli autori, proprio nella difficoltà degli interpreti di coordinare armonicamente la disciplina di cui all’art. 110, co. 3, cit., rispetto al contenuto dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, nonché dell’art. 186 - bisl. fall. Questi ultimi, infatti, nel caso della intervenuta ammissione al regime della continuità aziendale non prevedono analoghi oneri autorizzativi[33].
5. L’impatto del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sulla disciplina del diritto concorsuale e sul Codice dei contratti pubblici
Preliminarmente, occorre rilevare che il nuovo impianto procedimentale di accertamento della crisi e dell’insolvenza delle imprese ha assunto un vero e proprio carattere unitario, divenendo la sede nella quale far confluire le domande od istanze riferibili all’attivazione di strumenti regolatori (aventi natura conservativa ovvero liquidatoria)[34].
Nel particolare, tra di essi il Codice annovera l’istituto del concordato con continuità aziendale di cui all’art. 84, co. 2, distinguendo l’ipotesi diretta da quella indiretta: nel primo caso, è prevista la continuazione dell’attività da parte del medesimo imprenditore istante; nel secondo caso, invece, essa si verifica mediante la cessione dell’azienda ovvero la continuazione ad opera di un soggetto differente dall’originario imprenditore[35].
Il concordato c.d. “in bianco” (previsto all’art. 161, co. 6, l. fall.), invece, è destinato a confluire nell’art. 44, Codice della crisi d’impresa, assurgendo, come sostenuto da taluni autori, a vera e propria regola del sistema concordatario[36]. La riferita disposizione, in particolare, interviene dimezzando i termini concessi al debitore per la presentazione dei documenti[37], nell’ottica evidentemente di imprimere maggiore celerità alla definizione della procedura.
Nel delineato contesto, assume un ruolo centrale l’art. 372 del nuovo Codice, che modifica alcune norme del Codice dei contratti pubblici, in particolare gli artt. 48, 80, co. 5, lett. b), nonché l’art. 110[38].
A livello testuale, è anzitutto possibile notare che viene abbandonato il previgente riferimento al termine “fallimento” quale ipotesi di esclusione dalle gare sia nell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, sia nell’art. 110, ai sensi di quanto previsto rispettivamente dall’art. 372, co. 1, lett. b) e c) cit. Quindi, le cause di esclusione debbono individuarsi nelle ipotesi di liquidazione giudiziale, di liquidazione coatta, concordato preventivo, salvo quanto sancito dall’art. 95 Codice della crisi d’impresa e dall’art. 110 Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, l’art. 372, co. 4,[39] Codice della crisi d’impresa, dispone l’applicazione dell’art. 95 alle imprese che hanno presentato una domanda per l’accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ai sensi dell’art. 40, secondo il procedimento unitario previsto nella Sezione II, Capo IV.
Con particolare riferimento alla sentenza in commento, viene in rilievo l’art. 95, rubricato “disposizioni speciali per i contratti con le pubbliche amministrazioni”, il quale si profila rilevante per quanto precisato al comma 3, nella parte in cui richiede la sussistenza del requisito dell’autorizzazione del tribunale competente ai fini della partecipazione alle procedure di gara pubbliche per le imprese che abbiano presentato domanda ex art. 40. Quale ulteriore rafforzamento del controllo sulla idoneità dell’impresa alla partecipazione alle suddette procedure di gara, il successivo comma 4 prescrive il deposito di una relazione di un professionista che comprovi la conformità al piano, ove predisposto, e la ragionevole capacità di adempimento del contratto.
Infine, l’art. 95 cpv. riconosce, in capo all’operatore economico coinvolto in una procedura concordataria che non assuma la qualità di mandataria, la facoltà di partecipare alla gara anche mediante un RTI, purché nella compagine di riferimento non vi siano ulteriori operatori coinvolti in tali situazioni.
6. Il contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. b., d.lgs. n. 50/2016
Come anticipato nei precedenti paragrafi, le continue modifiche apportate dal legislatore all’art. 80, co. 5, lett., b), d.lgs. n. 50/2016, non hanno agevolato l’attività di interpretazione della relativa disciplina, specie per ciò che attiene alle conseguenze della proposizione di una domanda di concordato “in bianco” nell’ambito di una procedura di gara.
Secondo la tesi restrittiva, l’art. 80, co. 5, lett. b), dovrebbe essere interpretato nel senso di prevedere l’automatica esclusione dalla gara delle imprese che abbiano presentato una domanda di concordato in bianco.
Gli interpreti giungono a tale conclusione evidenziando, in particolare, la natura di atto di straordinaria amministrazione della fattispecie de qua, circostanza che impone di accertare la sussistenza del requisito della “urgenza” ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione da parte del Tribunale competente, ai sensi dell’art. 161, co. 7, l. fall.[40] In tal senso, si suole enfatizzare la contrapposizione tra l’istituto del concordato in bianco e quello del concordato in continuità aziendale. Si sostiene che il primo, oltre a richiedere molto tempo per la relativa definizione, risulterebbe caratterizzato da una procedura “incerta”, potendo sfociare non solo nel concordato con continuità aziendale, ma anche nel concordato liquidatorio[41].
Proprio per tali ragioni, si ritiene che la proposizione di una domanda di cui all’art. 161, co. 6, l. fall., debba comportare la perdita dei requisiti di ordine generale, ai sensi dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 1, co. 20, lett. o), n. 3) d.l. n. 32 del 2019), stante il riferimento espresso al concordato con continuità aziendale quale unica eccezione alla regola generale dell’esclusione[42].
Anche a seguito delle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019 all’art. 110, co. 4, Codice dei contratti pubblici[43], talune pronunce, al fine di aderire alla tesi restrittiva, valorizzano soprattutto la seconda parte della disposizione in commento, ove si richiede espressamente l’avvalimento dei requisiti di altro soggetto ai fini della partecipazione alle gare nella fase anteriore all’ammissione al concordato ex art. 163 l. fall. (anche se proposto ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall.)[44].
Ciò posto, una differente impostazione ermeneutica[45] propugna una lettura in termini “estensivi” dell’art. 80, co. 5, lett. b), del codice dei contratti pubblici, ritenendo applicabile anche alle ipotesi di concordato in bianco il regime derogatorio previsto per il concordato con continuità aziendale[46]. Alla luce della ratio che contraddistingue i due istituti, si prevede, anche per il concordato in bianco, l’applicazione del principio che consente alle imprese di partecipare alle gare nelle more tra la presentazione della domanda di concordato con continuità aziendale e la successiva ammissione[47]. A detta dell’orientamento in analisi[48], le medesime conclusioni si ricavano anche dalla formulazione dell’art. 110, co. 4, Codice dei contratti pubblici (come modificato dal d.l. n. 32 del 2019), ove è previsto espressamente che la disciplina di cui all’art. 186-bis l. fall. deve applicarsi anche alle fattispecie di concordato, di cui all’art. 161, co. 6, l. fall.
Quanto alla natura giuridica dell’attività di partecipazione delle imprese alle procedure di gara, si chiarisce che essa dovrebbe essere ricondotta nella categoria degli atti di ordinaria amministrazione, essendo parte integrante della normale gestione d’impresa in quanto potenzialmente idonea a migliorarne la situazione patrimoniale tramite l’aggiudicazione delle commesse pubbliche[49]. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 161, co. 7, l. fall., il debitore, a seguito della presentazione della relativa istanza e prima della decisione del tribunale ex art. 163, l. fall., può compiere gli atti di ordinaria amministrazione, occorrendo per quelli aventi natura straordinaria la sussistenza di due requisiti: il carattere urgente degli stessi e l’intervento di una specifica autorizzazione del tribunale competente.
Ulteriore questione problematica affrontata dagli interpreti in subiecta materia attiene alla natura ed agli effetti promananti dalla autorizzazione giudiziale de qua. Sul punto, sono state adottate soluzioni contrastanti: taluni ritengono che essa costituirebbe una condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione, potendo quindi intervenire anche in un momento successivo senza pregiudicarne la regolarità; talaltri evidenziano che, a maggior rigore, l’autorizzazione giudiziale ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., dovrebbe intervenire prima dell’aggiudicazione stessa[50].
7. L’Ordinanza di rimessione della V Sez. Cons. St., n. 309/2021
La Sezione remittente, a seguito della prioritaria disamina delle correnti interpretative che si sono contrapposte nel panorama giurisprudenziale, ha lasciato intendere di preferire le conclusioni cui giungono i sostenitori della tesi estensiva, ritenendo che la presentazione di una domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., non dovrebbe qualificarsi come un’ipotesi di automatica causa di esclusione dalle gare.
Le argomentazioni poste alla base di tale posizione si fondano, in particolare, sulla valorizzazione della ratio sottesa agli istituti del concordato con continuità aziendale e del concordato “in bianco”, essendo preordinata a consentire alle imprese in crisi di partecipare alle gare pubbliche, in deroga al divieto previsto dall’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici. Per tal ragione, l’autorizzazione giudiziale ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., naturalmente prevista per il concordato con continuità aziendale (nella versione applicabile ratione temporis anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 52/2019) si ritiene applicabile anche alle domande di concordato in bianco, essendo parte della più ampia categoria del concordato tout court.
In virtù della natura di atto di accertamento dell’autorizzazione de qua, è stato, inoltre, precisato che i relativi effetti debbano retroagire “al momento in cui la valutazione si riferisce, e non già a quella in cui essa è stata formalizzata nell’atto autorizzativo”.
8. La posizione dell’Adunanza Plenaria sulla quaestio iuris oggetto del dibattito
Il primo quesito affrontato dal Supremo Collegio concerne la qualificazione della domanda di concordato “in bianco” ex art. 161, co. 6, l. fall., in termini di causa di automatica esclusione o meno, dovendosi chiarire, nel dettaglio, la portata applicativa dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016[51].
Sul punto, si richiama in chiave critica la storica impostazione assunta dalla normativa sui contratti pubblici, in quanto tesa a valorizzare in modo prevalente l’esigenza della stazione appaltante di operare con imprese che non risultino coinvolte nelle procedure concorsuali, il tutto all’interno di un sistema normativo ispirato ai principi della esclusione obbligatoria ed automatica[52]. La critica muove dal fatto che, sul piano del diritto europeo, le direttive in tema di appalti annoverano le procedure concorsuali tra le possibili cause di esclusione ma non prescrivono l’adozione di un criterio di automatica esclusione, riconoscendo, invece, la facoltà degli Stati membri di disciplinare, in modo più o meno rigoroso, la fattispecie[53].
Quanto all’interpretazione delle norme del Codice dei contratti pubblici rilevanti nella vicenda de qua(nella versione applicabile ratione temporis), la sentenza in commento richiama la tesi restrittiva, a tenore della quale si enfatizza l’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (precedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019), nella parte in cui prevede l’operatività della causa di esclusione non solo nei confronti delle imprese in stato di fallimento, di liquidazione coatta o di concordato preventivo, ma anche rispetto agli operatori “nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”. Da tale ragionamento dovrebbe, quindi, conseguire che l’unica espressa eccezione a tale regime debba individuarsi solo nei confronti degli operatori già ammessi al concordato con continuità aziendale, anche ai sensi di quanto sancito dal previgente art. 110, co. 3.
Tuttavia, i Giudici amministrativi sostengono che tali rilievi ermeneutici mal si conciliano con la disciplina concordataria, in quanto una così ampia preclusione alla partecipazione alle gare[54]comporterebbe un’indebita limitazione dell’ambito di operatività dell’art. l’art. 186 bis, co. 4, l. fall. Quest’ultima disposizione, infatti, consente espressamente la partecipazione alle gare anche nell’intervallo di tempo che intercorre tra il deposito della domanda ed il decreto di apertura della procedura, in presenza dell’autorizzazione giudiziale, acquisito il parere del commissario, se nominato[55].
Ciò posto, la sentenza in commento valorizza, invece, la portata applicativa della recente normativa del Codice dei contratti, soprattutto alla luce delle modifiche intervenute in occasione dell’adozione del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
In primo luogo, dall’analisi testuale degli artt. 80, co. 5, lett. b) e 110, co. 4, modificati dal d.l. n. 32/2019, si evince expressis verbis che anche le ipotesi del concordato in bianco debbono essere disciplinate dall’art. 186 bis l. fall.
Inoltre, particolarmente rilevante si profila la posizione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione in subiecta materia, laddove precisa che l’istituto del concordato preventivo in bianco non rappresenta una procedura autonoma rispetto alla fattispecie del concordato ordinario ex art. 161 l. fall., dovendosi invece qualificare alla stregua di una delle fasi interne del medesimo[56].
Poste tali premesse, la sentenza in commento fornisce risposta al primo quesito, precisando che la proposizione di una domanda di concordato in “in bianco”, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., non configura una causa di automatica esclusione dalle procedure di gara e, per l’effetto, essa non appare idonea, in via generale ed astratta, a precluderne la partecipazione.
A suffragio di tale impostazione, si richiama la ratio dell’istituto del concordato “in bianco”, da individuarsi nella esigenza (predicata, come anticipato, anche a livello transnazionale) di fornire all’impresa una maggiore tutela mediante l’anticipazione degli effetti “conservativi”, specie ove il debitore decida poi di accedere al concordato con continuità aziendale. Circostanza rinvenibile anche nella relazione ministeriale all’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ove si enfatizza la stretta correlazione esistente tra l’istituto del concordato con riserva e le attività in grado di rafforzare gli obiettivi di prosecuzione della vita aziendale, tra le quali si annovera la partecipazione alle gare per l’aggiudicazione di commesse pubbliche[57].
Inoltre, il Supremo Collegio precisa che la riferita impostazione ermeneutica discende, in particolare, dall’art. 110, co. 4, d.lgs. n. 50/2016 e dall’art. 186 bis, co. 4, l. fall., il quale impone alle imprese che hanno presentato domanda ex art. 161 l. fall. di dotarsi di una specifica autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare. I Giudici aggiungono, al riguardo, che l’impresa deve richiedere detto provvedimento senza indugio, nel rispetto dei principi della buona fede oggettiva. Del pari, anche la circostanza relativa alla presentazione dell’istanza ex art. 161, co. 6, l. fall., deve essere prontamente comunicata alla Stazione appaltante che, in caso di condotte reticenti, è tenuta ad effettuare una valutazione delle relative conseguenze ai sensi dell’art. 80, co. 5. lett. c - bis, non già della lett. f -bis[58].
Ciò chiarito, la seconda questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria riguarda, invece, la qualificazione della partecipazione di un’impresa alle procedure di gara per l’aggiudicazione degli appalti pubblici in termini di ordinaria ovvero di straordinaria attività.
Si precisa che l’interrogativo non necessiterebbe di ulteriori chiarimenti, tenuto conto del fatto che è in ogni caso richiesto l’intervento dell’autorizzazione giudiziale, di cui all’art. 186-bis, co. 4, l. fall., ciò anche a prescindere dal carattere ordinario o straordinario attribuibile all’attività in questione.
Peraltro, ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie nell’una o nell’altra categoria, i Giudici amministrativi sostengono che occorre valutare gli elementi del caso concreto, non essendo possibile pervenire, in termini astratti, ad una definizione aprioristica.
Il terzo quesito di diritto concerne, invece, l’individuazione del termine entro il quale deve intervenire l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale ai fini della legittima partecipazione alla procedura di evidenza pubblica.
Il Collegio sostiene che non occorre fare riferimento all’autorizzazione ex art. 163, l. fall., per la quale la prassi richiede tempi incompatibili con l’esigenza di celerità nella definizione delle procedure di gara; dovendosi, al contrario, tenere in considerazione l’autorizzazione alla partecipazione alle gare di cui all’art. 186 bis, co. 4, l. fall. Conclusione, quest’ultima, che si ricava direttamente dalla riferita disposizione, tenuto conto che il legislatore qualifica il provvedimento giudiziale de quo come una condizione necessaria e sufficiente per la partecipazione delle imprese alle gare, dovendo intervenire prima dell’adozione da parte della P.A. dell’atto di aggiudicazione, quale momento conclusivo della fase dell’evidenza pubblica[59].
Si evidenzia, inoltre, che la tardiva autorizzazione rappresenta una circostanza valutabile discrezionalmente dalla Stazione appaltante in base alle peculiarità del caso di specie (in termini di efficacia integrativa) sempreché essa intervenga prima della stipula del contratto oggetto dell’affidamento pubblico. Nel caso di specie, quindi, si devolve alla Sezione remittente la valutazione delle conseguenze derivanti dal ritardo nell’acquisizione dell’autorizzazione da parte dell’impresa concorrente.
In via generale, i Giudici amministrativi sanciscono, poi, che nell’ipotesi in cui il tribunale non dovesse ammettere l’impresa istante alla procedura concordataria debbono applicarsi le norme relative ai casi di sopravvenienza del fallimento, ai sensi degli artt. 110 e 48 del Codice dei contratti pubblici.
Infine, viene in rilievo il quesito relativo all’interpretazione dell’art. 48, commi 17, 18 e 19 ter d.lgs. n. 50 del 2016, dovendosi chiarire se debbano essere interpretati nel senso di consentire la sostituzione, nel corso di una gara, di un’impresa mandante coinvolta nella procedura ex art. 161, co. 6, l. fall., con altro operatore estraneo alla procedura competitiva ovvero se, diversamente, occorra procedersi alla estromissione della mandante stessa[60].
Sul punto, il Collegio richiama l’art. 48, co. 19 ter, che estende l’operatività anche alla fase della gara delle modifiche soggettive di cui ai commi 17 e 18, che, invece, consentivano di derogare al principio della immodificabilità della composizione soggettiva di un RTI solo nella fase dell’esecuzione.
Al fine di individuare la portata applicativa di tale deroga, si è richiamata l’interpretazione “funzionale” offerta dalla stessa Adunanza Plenaria (anteriormente all’entrata in vigore del presente codice) in relazione al principio della immodificabilità della composizione soggettiva, consentendosi alle imprese di operare modifiche soggettive solo in riduzione, non anche mediante l’aggiunta di operatori esterni al raggruppamento.
I Giudici procedono poi a rilevare come, nel diritto dell’Unione europea, la stessa attività di “sostituzione” ovvero di aggiunta di nuovi operatori nell’ambito dei raggruppamenti rappresentano delle ipotesi ritenute in grado di ledere i principi di parità di trattamento e di trasparenza, essendo quindi previste solo in fase di esecuzione del contratto e con riferimento a “modifiche strutturali dovute, ad esempio, a riorganizzazioni puramente interne, incorporazioni, fusioni ed acquisizioni oppure insolvenza”[61].
Sulla base di tali rilievi, l’Adunanza Plenaria ha quindi concluso nel senso di ritenere che l’art. 48, specie il comma 19 ter, d.lgs. n. 50 del 2016, debba essere interpretato in modo conforme ai principi dell’Unione europea di parità di trattamento e di concorrenza, dovendosi escludere “la sostituzione esterna per la figura della mandante, come anche logicamente per quella della mandataria”. Di contro, potrebbero ammettersi esclusivamente le modifiche soggettive del RTI “c.d. per sottrazione ovvero per riduzione”.
9. Osservazioni conclusive
Come evidenziato nel corso dei precedenti paragrafi, l’Adunanza Plenaria è intervenuta a dirimere definitivamente il contrasto sorto in relazione agli effetti derivanti dalla presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., nell’ambito di una procedura di gara[62].
L’opzione ermeneutica propugnata dal Collegio si inserisce in un momento cruciale del diritto fallimentare, collocandosi a ridosso dell’entrata in vigore della riforma del diritto concorsuale italiano, come visto, caratterizzata da una radicale modifica della concezione della figura del “decoctor” nell’impianto codicistico[63].
Già nel corso del dibattito formatosi in occasione dell’adozione della nuova Riforma, sono stati gli stessi studiosi della materia concorsuale a rilevare l’inadeguatezza ed inefficienza della concezione “sanzionatoria” del fallimento, quale strumento finalizzato ad estromettere dal mercato le imprese inefficienti mediante un procedimento liquidatorio inteso in senso darwiniano[64]. All’uopo, si è, infatti, ritenuto preferibile individuare strumenti alternativi, in grado di consentire il superamento della crisi delle imprese nell’ottica della conservazione dei valori aziendali e della prosecuzione dell’attività imprenditoriale, facilitando il cosiddetto fresch start.
Nel solco di tali rilievi e superando le aporie interpretative sorte sull’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, il Supremo Collegio ha chiarito che la presentazione di una domanda di concordato “in bianco” non debba costituire una causa di automatica esclusione dell’impresa dalle procedure di evidenza pubblica per perdita dei requisiti di partecipazione, in tal modo rievocando quanto propugnato dai sostenitori della tesi cosiddetta “estensiva”. In particolare, ciò si è ricavato dalla circostanza che nemmeno la normativa dell’Unione europea impone un obbligo per gli Stati membri di adottare un criterio di automatica esclusione degli operatori coinvolti nelle procedure concorsuali, al contrario riconoscendo la facoltà di adottare anche soluzioni di minor rigore.
A sostegno delle riferite conclusioni, i Giudici hanno richiamato la formulazione del combinato disposto degli artt. 80, co. 5, lett. b) cit., 110, co. 4, così come modificati dal d.l. n. 32 del 2019, dai quali emerge che le ipotesi di concordato “in bianco” debbono essere disciplinate dall’art. 186 – bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, essendo quindi richiesto l’intervento di una specifica autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare[65].
Condivisibilmente la pronuncia in esame individua in detto provvedimento lo strumento atto a garantire una equilibrata composizione sia degli interessi alla certezza e celerità nella definizione delle procedure di gara sia della esigenza dell’imprenditore di continuare, ove possibile, l’attività aziendale con l’aggiudicazione di commesse pubbliche. Altresì, viene precisato come detta autorizzazione debba intervenire in un momento anteriore all’emanazione del provvedimento di aggiudicazione, senza che risulti necessaria, in questa fase, l’ammissione alla continuità aziendale. Sembrerebbe, inoltre, potersi desumere che il termine previsto per l’intervento dell’autorizzazione ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., non abbia una portata inderogabile ed assoluta, essendo riconosciuto, nel singolo caso concreto, un margine di discrezionalità in capo alla P.A. quanto all’eventuale efficacia integrativa o sanante da attribuire all’autorizzazione tardivamente intercorsa.
Di talché, gli approdi cui è giunta l’Adunanza Plenaria, con ben tre pronunce rese nella medesima data sul tema delle procedure concorsuali[66], sembra prefigurare l’avvio di un modello di indagine interpretativo orientato verso una concezione dinamica dei criteri di solvibilità delle imprese. Ciò prima facie testimonia come il giudice nazionale, valorizzando il principio del favor partecipationis alla luce degli interventi normativi più recenti, abbia attinto da fonti ispirate a tecniche di controllo e garanzia delle procedure di evidenza pubblica che non si traducano in automatismi preclusivi alla partecipazione degli operatori economici.
[1] Per approfondimenti in tema di cause di esclusione, cfr. R. Greco, L’evoluzione normativa delle “cause di esclusione”, in Trattato sui contratti pubblici, vol. II, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, 2019, 756 ss.
[2] Cfr. anche Cons. St., Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 10; nonché, nella medesima data, Ad. Plen. n. 11.
[3] A fronte dei quattro profili di censure dedotti dalla società ricorrente, il Tar Emilia Romagna, Bologna, con sentenza n. 76/2020, riteneva fondati i primi due motivi ed assorbiva i restanti.
[4] Cfr. A. Petteruti, Presupposti per l’ammissione alla procedura, in Il nuovo concordato preventivo, a cura di A. Caiafa, A. Salvi, Pisa, 2016, 17 ss.
[5] Accanto all’istituto del fallimento, e con l’intento di ridurne laddove possibile l’applicazione, la legge del 1942 inseriva anche ulteriori procedure: la liquidazione coatta amministrativa, l’amministrazione controllata ed il concordato preventivo.
[6] Per i profili storici, cfr. F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017, 37 ss.; N. Rondinone, Il mito della conservazione dell’impresa in crisi e le ragioni della “commercialità”, Milano, 2012, 9 ss,; G. Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013, 27 ss.; U. Santarelli, per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1965; C. Pecorella, U. Gualazzini, VOCE Fallimento (storia), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 220 ss.; G.B. Portale, Dalla pietra del vituperio alle nuove concezioni del fallimento, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Marzio, P. Macario, Milano, 2010, 3 ss.
[7] Cfr., R. Rossi, Insolvenza, crisi d’impresa e risanamento. Caratteri sistematici e funzionali del presupposto oggettivo dell’amministrazione straordinaria, Milano, 2003, 34 ss.; A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm., 1994, Vol. 21, fasc. 3, 512 ss.
[8] Cfr., A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2021, 27 ss.
[9] Cfr., F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., 38 ss.
[10] In particolare, ci si riferisce alla introduzione di talune modifiche alla disciplina dell’amministrazione controllata, la cui durata veniva estesa; nonché alla previsione di una nuova procedura concorsuale, denominata amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito dalla l. 3 aprile 1979, n. 95 e successive modifiche).
[11] Cfr., G. Ferri, L’impresa, oggi, in Mass. Giur. lav., 1978, 428 ss.; C. Angelici, Diritto commerciale, I, Bari, 2009, 11 ss.; F. Corsi, Crisi, insolvenza, reversibilità, temporanea difficoltà, risanamento: un nodo irrisolto?, in Fallimento, 2000, 948 ss.; S. Pacchi Pesucci, Dalla meritevolezza dell’imprenditore alla meritevolezza del complesso aziendale, Milano, 1989, 40, 202 ss.; V. Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, Napoli, 2006, 52, 257; T. Ascarelli, Il dialogo dell’impresa e della società nella dottrina italiana dopo la nuova codificazione, in Riv. soc., 1959, 409 ss.; F. Galgano, Le teorie dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, II, Padova, 1978, 1 ss.
[12] Cfr., F. D’Alessandro, la crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, 329 ss.; G.B. Portale, La legge fallimentare rinnovata: note introduttive (con postille sulla disciplina della società di capitali), in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, 368 ss.; A. Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Giur. comm., 1980, I, 559 ss.; L. Farenga, La riforma del diritto fallimentare in Italia: una nuova visione del mercato, in Riv. dir. comm., 2008, I, 251 SS.; M. Libertini, Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Di Marzio, F. Macario, Milano, 2010, 359 ss.
[13] Con tale intervento, quindi, emerge uno spostamento dell’angolo prospettico dalla figura personale dell’imprenditore a quella dell’impresa, come valore meritevole di tutela nell’ottica del miglioramento del comparto economico di riferimento e, quindi, della concorrenza del mercato inteso in senso più ampio.
[14] Per approfondimenti sul tema, cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 388 ss.
[15] Tale disposizione, in particolare, prevede che il debitore deve dare atto, nel piano concordatario, della prosecuzione dell’attività di impresa ovvero, in alternativa, deve prevedere la cessione o il conferimento dell’azienda.
[16] In tema, taluni autori osservano come tale obiettivo risulti valorizzato mediante una disciplina incentivante, ai sensi degli artt. 182 – quinquies e 186 – bis l. fall., nonché dalla previsione di cui all’art. 182 – sexies l. fall., ove si prevede la disapplicazione degli artt. 2446, co. 2 e 3, 2447, 2482 – bis, co. 4, 5, 6, 2482 – ter, 2484, n. 4) e 2545 – duodecies, c.c., sulla riduzione o perdita del capitale. In tema, vedasi, in particolare: F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., 49; C. Cavallini, Dalla crisi alla conservazione dell’impresa nelle ultime riforme fallimentari: uno sguardo d’insieme tra novità della legge e statuizioni della Suprema Corte, in Riv. soc., 2013, 762 ss.; C. Cincotti, F. Nieddu Arrica, La gestione del risanamento nelle procedure di concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, I, 1238 ss.; S. Ambrosini, I finanziamenti bancari alle imprese in crisi dopo la riforma del 2012, in Dir. fall., 2012, I, 469 ss.
[17] Significative, al riguardo, le modifiche all’art. 161, co. 6, l. fall., ove è prevista l’indicazione dell’elenco nominativo dei creditori e dei relativi crediti nella proposta presentata dal debitore; nonché all’art. 161, co. 7, l. fall., in tema di parere del commissario sugli atti urgenti di straordinaria amministrazione.
[18] Per approfondimenti, cfr. P. Montalenti, Il diritto concorsuale tra passato e futuro, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, a cura di P. Montalenti, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2018, 11 ss.; S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Tratt. dir. comm., diretto da G. Cottino, Padova, 2008; V. Calandra Buonaura, Concordato preventivo, in Enc. dir. – Annali, vol. II, tomo II, Milano, 2008; A. Jorio, La parabola del concordato preventivo: dieci anni di riforme e controriforme, in Giur. comm., 2016, I, 15 ss.; D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, Absolute Priority Rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm., 2014, II, 331ss.; S. Fortunato, Il commissario giudiziale nel concordato con riserva, in Giur. comm., 2015, I, 995 ss.; P.F. Censoni, Gli effetti sostanziali del concordato preventivo dopo la riforma del diritto fallimentare, in Giur. comm., vol. 33, fasc. 5, 2006, I, 765 ss.; G. Fauceglia, Disciplina concorsuale e art. 110 Codice degli appalti pubblici, in Dir. fall., 2017, I, 463 ss.
[19] Per approfondimenti sugli interessi che vengono in rilievo, cfr. V. Finch, The Measures of Insolvency Law, in 17 Oxford J. Leg. St., 1997, 227 ss.; R. Goode, Principles of Corporate Insolvency Law, IV ed., London, 2011, 75 ss.; E. Warren, J.L. Westbrook, Contracting Out of Bankruptcy: An Empirical Intervention, in 118 Harv. L. Rev., 2005, 1197 ss.
[20] Cfr., ex plurimis, G.G. Triantis, Theory of the Regulation of Debtor-in-Possession Financing, in 46 Vand. L. Rev., 1993. Nella letteratura italiana, cfr. F. Accettella, I finanziamenti alle imprese in regime di (pre)concordato dopo la legge n. 132/2015, in Dir. fall., 2016, I, 50 ss.
[21] Quanto alla evoluzione normativa in Francia, vengono in rilievo, in particolare, la l. n. 85-98 del 25 gennaio 1985, sulle procedure di redressement e liquidation judiciaires des entreprises; la l. n. 84-148 del 1 marzo 1984, sulle procedure di alert e prevenzione dell’insolvenza; la l. n. 2005-845 del 26 luglio 2005; il décret del 28 dicembre 2005; nonché le modifiche apportate dalla ordonnance n. 2008-1345, dalla l. n. 2012-346 del 12 marzo 2012 e dalla l. n. 2015-990 del 6 agosto 2015.
[22] In tema, cfr. C. Sant-Alary-Houin, Droit des entreprises en difficulté, 10 ed., Issy-lesMoulineaux Cedex, 2016, 15 ss.; F. Pérochon, R. Bonhomme, Entreprises en difficulté. Instruments de crédit et de paiement, 8 ed., Paris, 2009, 1 ss., A. Jorio, Legislazione francese, Raccomandazione della Commissione europea, e alcune riflessioni sul diritto interno, in Fallimento, 2015, 1070 ss.; L. Panzani, L’insolvenza in Europa: sguardo d’insieme, in Fallimento, 2015, 1013 ss.; M.-J. Campana, La prevenzione della crisi delle imprese. L’esperienza francese, in La legislazione concorsuale in Europa. Esperienze a confronto, a cura di S. Bonfatti, G. Falcone, Milano, 2004, 233 ss.
[23] Cfr. W. Uhlenbruck, Vom Konkurs zum ESUG – Betriebsfortführung als Sanierungsentscheidung, in Betriebsfortührung in Restrukturierung und Insolvenz, Hrsg. Mönning, 3. Aufl., Köln, 2016, 3 ss., 9 ss. Rn. 9 ss., 24 Rn. 46; S. Eickes, Zum Grundsatz des Unternehmensfortführung in der Insolvenz, Wiesbaden, 2014, 1 ss., 62; H. EidenmÜller, Die Restrukturierungsempfehlung der EU-Kommission und das deutsche Restrukturierungsrecht, in KTS, 2014, 401 ss., 416 ss. Nella letteratura italiana, vedasi, tra gli altri, L. Guglielmucci, La legge tedesca sull’insolvenza (Insolvenzordnung) del 5 ottobre 1994, Milano, 2000.
[24] Per approfondimenti sul punto, cfr. K. Schmidt, in Die GmbH in Krise, Sanierung und Insolvenz, Hrsg. K. Schmidt, W. Uhlenbruck, 4. Aufl., Köln, 2009, 421 Rn. 5.32, 427 s. Rn. 5.41.
[25] Cfr. F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Saggi di diritto commerciale, Milano, 2017, 36 ss.; A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 36 ss.
[26] Per approfondimenti, cfr. R. Greco, Requisiti di ordine generale, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Milano, 2019, 756 ss.; S.S. Scoca, Contratti pubblici: l’effettività della tutela tra formalismo e sostanzialismo, un Giur. it., 2015, n. 3, 699 ss.; F. Pignatiello, Le novità in tema di cause di esclusione, in Il correttivo al codice dei contratti pubblici. Guida alle modifiche introdotte dal d.lgs. 19 aprile 2017 n. 56, a cura di M.A. Sandulli, M. Lipari e F. Cardarelli, Milano, 2017, 2017 ss.; D. Villa, La selezione degli offerenti, in Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, diretto da F. Caringella, P. Mantini e M. Giustiniani, Roma, 2016, 273 ss.; C.E. Gallo, Le prescrizioni a pena di esclusione alla luce dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, in Foro amm.-Cds, 2011, n. 12, 3733 ss.; S. Foà, Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici, inUrb. App., 2014, n. 11, 1147; V. Capuzza, I requisiti di ordine generale (Commento all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006), in Codice commentato degli appalti pubblici, a cura di A. Cancrini, C. Franchini e S. Vinti, Torino, 2014, 236; G. PESCE, Requisiti di partecipazione, accesso alle gare pubbliche e riflessi sulla tutela della concorrenza tra le imprese (artt. 34 – 52), in Commentario al Codice dei contratti pubblici, a cura di M. Clarich, Torino, 2010, 300 ss.
[27] Tra gli interventi più significativi si possono citare il d.l. n. 70 del 2011, nonché il d.l. 24 giugno del 2014, n. 90, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 114.
[28] Si evidenzia che il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147), ha previsto, con l’art. 389, co. 1, la proroga dell’entrata in vigore della nuova formulazione della disposizione dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022. Conseguentemente, il nuovo testo dell’art. 80, co. 5, lett. b), reciterà: “l’operatore economico sia stato sottoposto a liquidazione giudiziale o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o sia in corso nei suoi confronti un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, fermo restando quanto previsto dall’art. 95 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155 e dall’art. 110”.
[29] Cfr. V. Di Iorio, Requisiti generali, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Milano, 2019, 823 ss.
[30] In dottrina, per approfondimenti, v. F. Aperio Bella, Requisiti di ordine generale, in Manuale di diritto amministrativo, IV, I contratti pubblici, a cura di F. Caringella e M. Giustiniani, Roma, 2014, par. 2 (Fallimento e procedure concorsuali), 507 ss.; G. Bergonzini, I requisiti di partecipazione agli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, in I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di R. Villata, M. Bertolissi, V. Domenichelli e G. Sala, Padova, 2014, 310; S. Ambrosini, La sorte dei contratti in corso di esecuzione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, a cura di F. Vassalli, F.P. Luiso e E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, 2014, 123 ss.
[31] Ai sensi del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147), ha previsto, con l’art. 389, co. 1, la proroga dell’entrata in vigore dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022 del nuovo testo dell’art. 110, co. 4, Codice dei Contratti pubblici, che avrà il seguente tenore: “Alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’art. 40 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, si applica l’art. 95 del medesimo codice. Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’art. 47 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”.
[32] In tema, cfr. R. DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recate dal D.L. n. 32/2019 “sblocca cantieri”, in Urb. app., 2019, n. 4.
[33] Cfr., V. DI IORIO, Requisiti generali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, Milano, 2019, 829 ss.
[34] Per alcune osservazioni critiche circa la parziale attuazione della “logica unificatrice” che connotata la riforma, cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 65 ss.
[35] Cfr. V. Calandra Buonaura, Il nuovo concordato preventivo, in La riforma delle procedure concorsuali, in ricordo di Vincenzo Buonocore, a cura di A. Jorio e R. Rosapepe, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2021, 171 ss., ove è evidenziato come l’innovato impianto normativo risulti finalizzato a valorizzare “l’oggettiva conservazione dell’efficienza dell’organismo produttivo a prescindere dal mantenimento della gestione e della titolarità dell’azienda in capo al debitore”.
[36] Cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 404.
[37] L’art. 44, co. 1, lett. a), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, prevede un termine compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi e in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale, fino a ulteriori sessanta giorni.
[38] Come anticipato nel precedente paragrafo, le nuove formulazioni di tali norme entreranno in vigore a partire dal 16 maggio 2022, non già dal 1 settembre 2021, per effetto della proroga introdotta dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (con l’art. 389, co. 1), come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147.
[39] Tale disposizione prevede, al secondo periodo, che: “Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’art. 47 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”.
[40] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3984; Tar Piemonte, Torino, Sez. II, 7 marzo 2019, n. 260; Tar Lazio, Roma, sez. II – ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[41] I sostenitori della tesi restrittiva richiamano anche i rilievi effettuati dalla Corte di Giustizia sull’interpretazione dell’art. 45, par. 2, c. 1, lett. b), Direttiva 2004/18/CE.
[42] Tale orientamento richiedeva, in particolare, la intervenuta ammissione giudiziale alla procedura del concordato con continuità aziendale, non ritenendo sufficiente la semplice proposizione della domanda da parte dell’operatore economico.
[43] Ai sensi dell’art. 110, co. 4, primo periodo, è sancito che: “Alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’art. 161, anche ai sensi del sesto comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, si applica l’art. 186 – bis del predetto regio decreto.
[44] Cfr., ex multis, Tar Lazio, Roma, Sez. II ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[45] Per approfondimenti giurisprudenziali sulla tesi estensiva, cfr., ex multis, Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328; Cons. St., Sez. III, 20 marzo 2018, n. 1772; Tar Lazio, Sez. III quater, 19 settembre 2019, n. 11143; Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 30 dicembre 2015, n. 2877; Cons. St., Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 426, in dejure.it.
[46] Ci si riferisce, in particolare, alla formulazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019, che ha espunto il previgente riferimento all’ipotesi del “concordato con continuità aziendale.
[47] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), 835 ss.
[48] Per approfondimenti sulla tesi estensiva, cfr. S. Francario, Autorizzazione alla continuità aziendale sopravvenuta in corso di gara, in l’Amministrativista.it, 26 febbraio 2021.
[49] Cfr. Cons. St., Sez. III, 8 maggio 2019, n. 2963.
[50] Cfr. Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328.
[51] Cfr. Cons. St., Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 11.
[52] Cfr., tra gli altri, l’art. 15 della l. 57/1962.
[53] Cfr., tra le altre, Direttiva 71/305/CEE del Consiglio del 26 luglio 1971, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici; nonché, più di recente, la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento e del Consiglio del 26 febbraio 2014, che abroga la direttiva 2004/18/CE.
[54] Laddove la preclusione debba riferirsi sia alle imprese coinvolte nella procedura di concordato in bianco sia a quelle in attesa dell’ammissione al concordato preventivo ex art. 161, l. fall.
[55] Cfr. Determinazione Anac n. 5 del 8 aprile 2015, ai sensi della quale l’utilizzo, da parte del legislatore, della forma ipotetica “se nominato” nell’art. 186 – bis, co. 4, l. fall., risulterebbe esemplificativo della riferibilità della norma anche alle ipotesi del concordato c.d. in bianco, giacché il concordato preventivo ordinario richiede necessariamente la nomina del commissario giudiziale.
[56] Cfr. Cass., Sez. I, n. 14713/2019; Cass., Sez. I, n. 7117/2020.
[57] La relazione illustrativa all’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sottolinea l’importanza di adottare un criterio interpretativo del concordato in bianco che si ponga in linea con la ratio dell’istituto, consentendo la partecipazione alle procedure di affidamento alle imprese istanti. In tal senso, si è precisato che:“ Lo scopo è quello di evitare che paradossalmente, tale domanda, da strumento di tutela per l’imprenditore, diventa un ostacolo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale”.
[58] Cfr. Ad. Plen., n. 16/2020.
[59] In tal senso, cfr. Cons. St., sez. V, n. 1328 del 2020; Delibera Anac n. 362 del 2020.
[60] Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 27 maggio 2021, n. 10.
[61] Cfr. Art. 72, Considerando n. 110, Direttiva n. 24/2014/UE.
[62] Per approfondimenti, cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, Milano, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), 834 ss.
[63] Per quel che interessa ai fini della presente trattazione, occorre dare atto di quanto sancito dal D.Lgs. n. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147, ove all’art. 389, co. 1, ha recentemente previsto la proroga dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022 dell’entrata in vigore delle norme contenute nel nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, specie con riferimento a quelle che incidono sulla portata applicativa degli artt. 48; 80, co. 5, lett. b); 110 D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
[64] Cfr. R. Rordordf, Le linee della riforma, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, Atti del convegno, Courmayeur, 23-24 settembre 2016, a cura di P. Montalenti, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Giuffrè, Milano, 2018, 177 ss.
[65] Quanto alle modifiche del D.lgs. n. 50/2016, cfr. le modifiche apportate dall’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
[66] Cfr. Ad. Plen. nn. 9, 10 e 11 del 27 maggio 2021.
Dilemmi vecchi e nuovi dell’espropriazione presso terzi, in cui sia parte un’amministrazione pubblica
di Pasquale Pucciariello*
Sommario: 1. La novellata competenza per le espropriazioni presso terzi, in cui sia debitore una pubblica amministrazione - 2. Dichiarazione di quantità e competenza delle tesorerie provinciali - 3. Estinzione del vincolo di pignoramento a seguito di mancata iscrizione a ruolo.
1. La novellata competenza per le espropriazioni presso terzi, in cui sia debitore una pubblica amministrazione
Con l’art. 1, comma 29 della legge 26 novembre 2021, n. 206 (recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”), il legislatore ha novellato l’art. 26-bis, comma 1, del codice di procedura civile prevedendo che le parole: «il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede» siano sostituite dalle seguenti: «il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
L’articolo 26-bis del c.p.c. – introdotto dall’art. 19, comma 1, lett. b), D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 – originariamente prevedeva che, «salvo quanto disposto dalle leggi speciali», fosse il luogo della residenza del terzo debitore (o domicilio, o dimora o sede) a determinare la competenza per l’espropriazione forzata di crediti “pubblici”[1]. Non è fuor di luogo ricordare che la dizione originaria dell’articolo 26-bis corrispondeva al criterio di competenza vigente per tutte le espropriazioni presso terzi, a mente dell’articolo 26 c.p.c. nel testo anteriore alla novella del 2014. A mente invece del secondo comma dell’art. 26-bis, la regola ordinaria per crediti non statali individua il criterio di collegamento nel luogo in cui il debitore ha la residenza (o domicilio, dimora o sede).
Un primo tema da indagare è quello della tenuta del coordinamento tra disposizioni.
L’articolo 26-bis c.p.c. si apriva (e si apre ancora) nel seguente modo: “Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’articolo 413, quinto comma”. Se i numeri ordinali non hanno subito una modifica legislativa (a noi ignota), il quinto comma dell’articolo 413 c.p.c. è quello che recita “Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto”. Dunque un rinvio a una norma che prescrive un altro criterio di competenza per crediti di lavoro[2] e che, lungi dall’individuare specifiche pubbliche amministrazioni, è talmente generico da rendere il rinvio stesso del tutto tautologico: esso letteralmente non può che riferirsi all’art. 1, comma 2 del d.lgs. 165/2001[3]. La Corte di Cassazione, dal suo canto, sembra aver avvalorato tale interpretazione con l’ordinanza 8172 del 4 aprile 2018, che è particolarmente importante in quanto ha altresì affermato che la salvezza delle leggi speciali, richiamata dall’articolo 26-bis c.p.c., deve intendersi riferita anche all’art. 1 bis della l. n. 720 del 1984 “nel senso che con esso si sia voluto far riferimento a detta previsione, sia in quanto individuatrice nel cassiere o tesoriere del soggetto (“debitor debitoris”) che deve pagare per conto delle P.A., cui detta norma si applica, sia in quanto individuatrice del luogo del pagamento in quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra P.A. ed il cassiere o tesoriere; sicché tale luogo si deve considerare in via esclusiva come il foro dell’espropriazione presso terzi di crediti a carico di tali pubbliche amministrazioni, restando esclusa, per il caso che cassiere o tesoriere sia una persona giuridica, la possibilità di procedere all’esecuzione alternativamente anche nel luogo della sua sede.”. Dunque, nei fatti, la Corte di Cassazione con detta ordinanza ha individuato per le amministrazioni di cui alla suddetta legge (che non concerne il servizio di tesoreria svolto per conto dello Stato), un criterio di competenza strettamente legato alla competenza territoriale che discenda dal luogo di quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra la P.A. e il cassiere o tesoriere. Dal momento che regole non dissimili sul luogo del pagamento sussistono anche per le amministrazioni dello Stato il cui servizio di tesoreria è svolto istituzionalmente dalla Banca d’Italia, appare gioco forza che il medesimo principio non possa non trovare applicazione ai pagamenti a valere sul bilancio dello Stato[4].
La previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 26-bis nel testo anteriore alla novella del 2021, come interpretato dalla Suprema Corte, infatti, fa chiaramente il paio con le regole disciplinanti la competenza amministrativa per i pagamenti effettuati dalle tesorerie dello Stato, di cui al D.M. 29.5.2007, che disegna il sistema di Tesoreria attraverso l’articolazione di Tesorerie provinciali (art. 4), le quali hanno il compito tra l’altro della “e) effettuazione, sulla base dei titoli di spesa pervenuti dagli uffici competenti, dei pagamenti a carico del bilancio dello Stato” nonché di “o) ricevimento degli atti intesi a sospendere o ad impedire il pagamento di somme dovute dallo Stato”.
Le regole relative al luogo dell’adempimento, infatti, laddove debitrice sia l’amministrazione dello Stato sono il frutto di una combinazione di disposizioni: in primis, l’art. 54 del r.d. 2440/1923, il quale dispone che “Il pagamento delle spese dello Stato si effettua, secondo le disposizioni di cui ai successivi articoli: a) con assegni a favore dei creditori, tratti sull’istituto bancario incaricato del servizio di tesoreria;”; poi sulla base dell’art. 278, co. 1 lett. d) del r.d. 827/1924, il quale dispone che il pagamento delle spese iscritte in bilancio viene ordinato “mediante ordinativi sulle tesorerie dello Stato”. Il luogo dell’adempimento è dunque quello della tesoreria della circoscrizione in cui è compresa la residenza del creditore e questo è già sufficiente, giusta la clausola di salvezza delle leggi speciali contenuta nell’articolo 26-bis, a costituire criterio di collegamento che determina la competenza giurisdizionale nel Tribunale del luogo ove ha sede la tesoreria competente (che è poi quella competente in relazione alla residenza del creditore).
Sennonché l’accentramento con funzioni di controllo della spesa pubblica del servizio di tesoreria dello Stato[5] e, contestualmente, l’intento di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della pubblica amministrazione, sotto l’apparente veste di un innocuo recepimento dei risultati interpretativi della Corte di Cassazione, in realtà finisce per scardinare i punti fermi che sembravano essere raggiunti.
Infatti, per un verso il riferimento al Tribunale del distretto di Corte di appello ove ha la sede l’Avvocatura dello Stato fa sorgere il dubbio che il criterio di competenza sia da riferirsi alle sole esecuzioni contro amministrazioni dello Stato: il dubbio si giustifica con il fatto che, diversamente opinando, apparirebbe ben poco razionale che il Tribunale competente per l’esecuzione contro un’amministrazione che non si avvale del patrocinio erariale venga individuato con riferimento alla sede dell’Avvocatura dello Stato[6]; per altro verso, in ogni caso viene meno – almeno per le espropriazioni presso terzi – il disegno originario del legislatore (descritto sin dall’art. 7 del r.d. 1611/1933) in cui si prevedeva che le cause di esecuzione forzata non fossero assoggettate al c.d. foro erariale, cioè quel foro individuato in base al distretto di Corte d’appello, sede di Avvocatura, cui apparteneva il Tribunale competente per la causa secondo le regole ordinarie (art. 25 c.p.c.).
Ma anche a voler ritenere che la disposizione sia rivolta solo alle amministrazioni dello Stato, ci si avvede che lo scopo di concentrazione e semplificazione è più apparente che reale. Infatti, mentre il sistema originario dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. prevedeva quale criterio di competenza per i debiti pubblici la residenza del terzo e quindi sembrava semplificare gli oneri incombenti su quest’ultimo (che non doveva essere gravato, non essendo egli parte del processo), con il nuovo testo dell’art. 26-bis il fatto che l’amministrazione sia debitrice diventa – bensì – criterio di collegamento di una specifica regola attributiva di competenza, ma, senza una ragionevole spiegazione, le esigenze di concentrazione che stanno alla base della regola del foro erariale cessano di avere rilievo allorché l’amministrazione sia soltanto terza. Pare quindi che il debitore esecutato sia trattato con maggior favore del debitor debitoris, pur essendo quest’ultimo estraneo alla lite: quando il terzo è un’amministrazione si applica il secondo comma dell’art. 26-bis c.p.c. che individua il criterio di collegamento nella residenza del debitore.
Inoltre, se si adotta un’interpretazione “ibrida” che faccia salvo il riferimento all’art. 413, comma 5, c.p.c. (inteso come riferito a tutte le amministrazioni pubbliche) allora tale foro erariale esecutivo troverebbe applicazione anche per amministrazioni, difese dall’Avvocatura dello Stato, ma in forza del c.d. regime dell’autorizzazione di cui all’art. 43 del r.d. 1611/1933[7], cui – notoriamente – non si applicano tutta una serie di disposizioni (tra cui il foro erariale per le cause di cognizione) proprie del c.d. patrocinio organico[8]. Con l’ulteriore paradosso per cui tale foro si applica in sede esecutiva, ma non in sede di cognizione.
La disciplina quindi sembra abbastanza confusa e il sistema che ne è venuto fuori è tutt’altro che chiaro: anzi palesa non pochi elementi di stridore con il fondamento costituzionale dei criteri di competenza, i quali dovrebbero essere espressione di un giudice “naturale” ai sensi dell’art. 25 Cost. Il tutto condito dalla costruzione di un doppio regime della individuazione del giudice competente per le esecuzioni nei confronti delle Amministrazioni dello Stato: quello delle esecuzioni mobiliari e immobiliari – che seguono le regole ordinarie di competenza (e dunque l’art. 26 c.p.c.) – e quello dell’espropriazione presso terzi (ma solo se la P.A. è debitrice e non anche se è terza), che segue le regole dell’art. 26-bis, comma 1, ossia la residenza del creditore.
2. Dichiarazione di quantità e competenza delle tesorerie provinciali
Il criterio di competenza individuato sul domicilio del creditore, peraltro, crea non pochi problemi in relazione all’operatività del riparto di competenze interno al servizio di tesoreria svolto dalla Banca d’Italia.
La portata del problema si coglie se si pone attenzione alle modalità di funzionamento del servizio di tesoreria. Per quanto riguarda il servizio di tesoreria dello Stato, affidato alla Banca d’Italia che lo esercita tramite la Tesoreria centrale e le Tesorerie provinciali ai sensi della legge di affidamento n. 104/91 e delle relative convenzioni stipulate con il Ministero dell’economia e delle finanze, il d.m. 29 maggio 2007, emesso dal Ministero dell’economia e delle finanze, nella versione attualmente vigente prevede che: a) spetta alla tesoreria provinciale il “ricevimento degli atti intesi a sospendere o ad impedire il pagamento di somme dovute dallo Stato e trasmissione di tali atti, a seconda dei casi, in originale o in copia, all'Avvocatura dello Stato o alle amministrazioni interessate;” (art. 4, co. 1, lett. p); b) che (art. 167, comma 1) “Ciascuna Tesoreria rende la dichiarazione di quantità con le modalità previste dal Codice di procedura civile esclusivamente con riguardo ai conti accesi presso la stessa, ai titoli di spesa e ai cespiti giacenti presso la medesima; c) (art. 167, co. 2) “La dichiarazione di terzo deve contenere tutte le indicazioni prescritte dall'articolo 547 del Codice di procedura civile, nonché l'esatta descrizione dei titoli di spesa o disponibilità di tesoreria colpite (specie, data, numero, creditore, importo, bilancio di esercizio, capitolo). Deve altresì specificare i pignoramenti ed i sequestri precedentemente eseguiti presso la medesima Tesoreria in danno del medesimo soggetto debitore”.
Allorché l’amministrazione sia debitrice esecutata, l’art. 165, co. 4, delle IST prevede che la Tesoreria vincola le eventuali disponibilità del debitore esecutato nella misura stabilita dalla legge e rende la conseguente dichiarazione di terzo. Ove non esistano ovvero siano insufficienti le disponibilità dell'Amministrazione centrale esecutata, la Tesoreria vincola le disponibilità eventualmente esistenti delle Amministrazioni periferiche da essa dipendenti. La regola di cui al sopra richiamato articolo 167, tuttavia, viene intesa come espressione del principio, costantemente applicato, in base al quale un pignoramento notificato a una Tesoreria non è ritenuto idoneo a far sorgere un obbligo di accantonamento in capo al restante sistema. Questa regola determina un primo rilevantissimo problema di conflitto tra principi: infatti, se lo Stato è persona giuridica unitaria, sia pur a “legittimazioni frazionate”, l’obbligo di pagamento del suo tesoriere (la Banca d’Italia, soggetto non meno unitario), sia che la PA sia debitrice o soltanto terza pignorata, viene frazionato in base alla disponibilità di tesoreria.
Il che – oltre ad apparire una regola decisamente anacronistica se si tiene conto delle potenzialità che la digitalizzazione delle operazioni contabili potrebbe apportare in termini di certezza e velocità – porta a interrogarsi su almeno due aspetti. Anzitutto, sulle conseguenze in tema di effetti sostanziali del pignoramento. Infatti, costituisce regola consolidata quella per cui l’obbligo di custodia da parte del terzo sorge con la notificazione del pignoramento e che gli atti di pagamento o dispositivi effettuati dopo del credito sono inefficaci a far data dalla notificazione dell’atto di pignoramento[9]. Ne consegue uno scollamento tra la realtà delle disponibilità complessive dell’amministrazione pignorata (direttamente dipendenti dalle disponibilità discendenti dal bilancio dello Stato), e le disponibilità di cassa della singola tesoreria che risiede nel luogo dove ha sede il Tribunale competente. Il problema che si manifesta inevitabilmente è dato dalla possibilità di insorgenza di pagamenti successivi, inopponibili al creditore procedente. Se, infatti, l’Amministrazione è debitrice esecutata, è chiaro che il criterio di competenza costituito dalla residenza del creditore (che radica anche la competenza della tesoreria per il pagamento) finisce per far operare il limite alla dichiarazione di quantità di cui al menzionato art. 167 IST, rendendo non peregrina l’eventualità che vi sia anche solo un pignoramento presso un altro tribunale, nei confronti della medesima amministrazione e afferente lo stesso capitolo di bilancio, che si conclude più rapidamente del precedente con un’ordinanza di assegnazione delle somme iscritte. Sotto altro profilo, la disposizione dell’articolo 26-bis impedisce di inseguire tutte le disponibilità sulle tesorerie dislocate sul territorio nazionale, dal momento che il criterio di competenza non è più la sede del terzo, ma il domicilio del creditore.
Dunque, mentre l’art. 167 IST è stato scritto allorché la competenza per il pignoramento presso terzi era data dal luogo di residenza del terzo, l’azione combinata della giurisprudenza e del legislatore che hanno spinto per l’individuazione del criterio del domicilio del creditore legato alla sezione di tesoreria (sfociata nella novella all’art. 26-bis), hanno finito per vincolare le possibilità di soddisfacimento del credito alle disponibilità non del bilancio dello Stato (e dunque del debitore esecutato) ma alle disponibilità della singola tesoreria. Con buona pace della disposizione dell’art. 2740 c.c., il quale prevede che la responsabilità è dell’intero patrimonio del debitore e non della “dotazione” della tesoreria che gestisce il singolo rapporto di credito.
Ulteriore aspetto che contribuisce a tratteggiare più vistosamente lo “gnommero” è costituito dalle vicende circolatorie del credito[10]. La cessione del credito, infatti, determina un mutamento soggettivo del rapporto, facendo sicuramente venir meno l’originario collegamento rispetto al quale si era determinata la tesoreria competente per il pagamento e quindi il luogo dell’adempimento.
Sembra legittimo chiedersi se il carattere esclusivo della competenza territoriale ex art. 26-bis possa determinare l’applicazione del foro legato alla tesoreria provinciale che ha preso in carico il rapporto originario. In linea generale, la giurisprudenza che si è occupata dei riflessi della cessione del credito sulla competenza territoriale ha affermato che la clausola attributiva della competenza territoriale esclusiva è opponibile dal debitore ceduto al cessionario del credito nascente dal contratto in cui detta clausola sia inserita, alla stregua di ogni altra eccezione opponibile all'originario creditore; essa pertanto prevarrebbe sul criterio di radicamento territoriale riferito al domicilio del cessionario quale luogo di adempimento dell'obbligazione pecuniaria[11]. Tuttavia, sul punto dovrebbe tenersi conto altresì di quanto previsto dall’articolo 1182, comma 3 del codice civile a mente del quale le obbligazioni liquide ed esigibili devono adempiersi al domicilio che ha il creditore alla scadenza[12], a meno di non ritenere che ci si trovi di fronte ad una competenza speciale stabilita dalla legge con conseguente applicazione del principio di diritto per cui il credito ceduto si trasferisce con tutte le sue caratteristiche, ivi compresa l'eventuale competenza speciale stabilita dalla legge per le controversie che lo abbiano ad oggetto (fattispecie decisa da Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 1118 del 26/01/2012, concernente controversie in materia di lavoro, e seguita di recente da Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15229 del 01/06/2021).
3. Estinzione del vincolo di pignoramento a seguito di mancata iscrizione a ruolo
L’articolo 1, comma 32 della legge 26 novembre 2021, n. 206 ha altresì previsto che “il creditore, entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l'avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l'avviso notificato nel fascicolo dell'esecuzione. La mancata notifica dell'avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell'esecuzione determina l'inefficacia del pignoramento.
Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l'inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l'avviso. In ogni caso, ove la notifica dell'avviso di cui al presente comma non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell'udienza indicata nell'atto di pignoramento”.
Il tutto al dichiarato fine di completare il disposto dell’art. 164-ter disp. att. c.p.c.[13] introducendo la sanzione del mancato adempimento dell’onere di iscrizione a ruolo e dunque altresì al fine di agevolare il terzo nello svincolarsi dall’obbligo di non disporre delle cose o delle somme di cui è debitore.
Tra i problemi che l’introduzione dell’onere di iscrizione a ruolo aveva suscitato si segnalava[14] il paradosso della necessità che il debitore esecutato il quale voglia proporre opposizione all’esecuzione debba prima curare l’iscrizione a ruolo della procedura esecutiva (ai sensi dell’art. 159-ter disp. att. c.p.c., rimasto invariato), iscrizione che – comunque – resta soggetta all’ulteriore attività di integrazione documentale di cui è onerato il creditore procedente (art. 159-ter, disp. att. c.p.c., ultimo periodo), a pena di inefficacia. La conseguenza, come è stato da più parti rilevato, è che l’iscrizione a ruolo effettuata dal debitore per poter proporre opposizione ex art. 615, secondo comma, c.p.c., conduca alla pendenza di un’opposizione a un’esecuzione che, a sua volta, potrebbe comunque non esistere in quanto il creditore non completa la fattispecie di cui all’art. 159-ter disp. att. c.p.c.).
La disposizione introdotta dall’art. 1, comma 32 non si è curata di provare a razionalizzare il farraginoso meccanismo. E anzi, non si è nemmeno preoccupata di chiarire come operi la suddetta inefficacia: nulla viene detto sull’automatismo della stessa o sulla necessità di un provvedimento del giudice. Il tutto con buona pace delle intenzioni semplificatorie e di liberazione di debitore e terzo dagli obblighi discendenti dal pignoramento.
*Avvocato dello Stato.
[1] Il nuovo testo dell’articolo 26-bis c.p.c. così dispone: “Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall'articolo 413, quinto comma, per l'espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”.
[2] Facendo così sorgere il dubbio in qualcuno che si trattasse di un rinvio diretto a disciplinare la competenza per le esecuzioni aventi ad oggetto i crediti di lavoro: v. Passannante, in Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 2018, sub art. 26-bis. L’opinione più diffusa pare, invece, nel senso che l’art. 26-bis intendesse riferirsi a tutte le ipotesi in cui sia debitrice esecutata una p.a., indipendentemente dalla natura del credito azionato: Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in www.judicium.it, 2015, p. 9; Tedoldi, Le novità in materia di esecuzione forzata nel d.l. 132/2014, in Corr. Giur., 2015, 3, 390 ss. Tale interpretazione, almeno sul piano letterale, appare condivisibile: infatti la disposizione dell’art. 26bis appare chiara nel richiamare le amministrazioni individuate dall’art. 413 comma 5 cpc e non il criterio di collegamento per individuare la competenza del giudice del lavoro.
[3] Il quale recita: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI.”. Dunque con chiaro riferimento alla nozione di amministrazione in senso formale ricomprendente sia amministrazioni statali che no.
[4] È quanto in sostanza ritenuto di recente da Trib. Roma, 18 marzo 2021, richiamata da Pacilli, La competenza per territorio nel pignoramento presso terzi quando il debitore esecutato sia un’amministrazione dello Stato, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2021, p. 1358 ss. e spec. nota 4.
[5] V. il Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 19 agosto 2021, in G.U. Serie Generale n. 225 del 20-09-2021 che ha come presupposto il progetto di riforma organizzativa del servizio di tesoreria statale svolto dalla Banca d'Italia, avente l'obiettivo di creare un unico punto di interlocuzione con l'utenza istituzionale, migliorare l'efficienza dei processi e ridurre i rischi operativi, anche grazie all'accentramento delle competenze specialistiche.
[6] Cioè né in base a un criterio di collegamento con l’Amministrazione debitrice (si immagini un ente pubblico che ha sede in un comune, anche capoluogo di provincia, in cui non vi sia una Corte d’appello e, dunque, nemmeno un’Avvocatura distrettuale) né con il luogo in cui si trova il terzo tesoriere tenuto al pagamento (che non è più menzionato come criterio di collegamento), né con la sede dell’Amministrazione debitrice.
[7] È il caso delle Agenzie fiscali.
[8] Sulla natura e caratteristiche del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, v. Bruni, A. – Palatiello, G., La difesa dello Stato nel processo, Torino, 2011, passim.
[9] Cfr. in termini, Cass. 9.3.2011, n. 5529, a mente della quale “il pignoramento presso terzi costituisce una fattispecie complessa, che si perfeziona non con la sola notificazione dell'atto introduttivo, ma con la dichiarazione del terzo circa l'entità del credito, con la sentenza di accertamento dell'obbligo del terzo di cui all'art. 549 cod. proc. civ..
Ne consegue che il credito pignorato può venire individuato e determinato nel suo preciso ammontare in data molto successiva a quella della notificazione dell'atto (Cass. civ. Sez. 3^, 9 dicembre 1992 n. 13021, Cass. civ. Sez. 3^, 27 gennaio 2009 n. 1949), senza che perciò lo si possa considerare sorto dopo il pignoramento, poichè l'indisponibilità delle somme dovute dal terzo pignorato al debitore e l'inefficacia dei fatti estintivi si producono fin dalla data della notificazione, ai sensi dell'art. 543 cod. proc. civ. (Cass. Civ. Sez. 3^, 18 gennaio 2000 n. 496; Cass. Civ. n. 1949/2009”
[10] Sul tema v. Capponi, Disorientamenti sul controllo preliminare della competenza nell’esecuzione forzata (in difesa dei giudici dell’esecuzione), in www.giustiziainsieme.it.
[11] Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 28490 del 29/11/2017, Rv. 647177 – 01; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 29261 del 28/12/2011, ma contra Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12396 del 24/06/2020 la quale afferma “In caso di cessione del contratto di concessione per effetto di alienazione di ramo d'azienda, la clausola derogatoria della competenza territoriale - che individua il foro esclusivamente competente nel luogo dove ha sede il concedente al momento dell'introduzione del giudizio - deve intendersi riferita alla diversa sede legale del contraente subentrato, trattandosi di rinvio mobile finalizzato alla conservazione dell'originario equilibrio negoziale”
[12] Con conseguente ulteriore distinzione tra cessione intervenuta prima o dopo la scadenza del debito. La disposizione è ritenuta applicabile dalla giurisprudenza anche in tema di cessione del credito: v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 2591 del 07/02/2006.
[13] Sulla cui introduzione v. Pilloni, l'iscrizione a ruolo nel processo esecutivo e l'inefficacia del pignoramento effettuato in violazione della relativa disciplina: le novità introdotte nel c.p.c. e nelle disposizioni di attuazione, in Nuove leggi civili commentate¸ 2015, 3, 481. Detta disposizione prevede che a seguito della mancata iscrizione a ruolo del pignoramento, che determina inefficacia del pignoramento, il creditore dia notizia al debitore del mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo, prevedendo altresì che gli obblighi di terzo e debitore cessano quando la nota non è stata depositata nei termini. Appare evidente, tuttavia, che tale disciplina onera debitore e terzo di verificare il rispetto del termine, se il creditore non provvede a darne notizia: e comunque nulla dice sulle modalità con cui dell’inefficacia si prenda atto.
[14] Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, VI ed., Torino, 2020 p. 227 ss.
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