ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti. 12) Il ponte di Piero Calamandrei (una storia fiorentina)
di Giuliano Scarselli
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Sommario: 1. La distruzione dei ponti fiorentini ad opera dei nazisti nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1944 e il ponte di Santa Trinita a Firenze - 2. Piero Calamandrei non era a Firenze quella notte, vi rientrerà il 28 agosto 1944 - 3. L’idea di una nuova rivista per la ricostruzione morale del paese - 4. L’idea di chiamare quella rivista Il Ponte - 5. Il dovere morale di ricongiungere la libertà individuale con la giustizia sociale attraverso la politica, l’economia, l’arte e la letteratura - 6. La ricostruzione del Ponte di Santa Trinita come era e dove era - 7. Una curiosità e gli auguri per le prossime feste.
1. La distruzione dei ponti fiorentini ad opera dei nazisti nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1944 e il ponte di Santa Trinita a Firenze
La notte tra il 3 e il 4 agosto del 1944 i tedeschi in fuga, per ritardare il sopraggiungere delle forze alleate e dei partigiani, fecero saltare tutti i ponti di Firenze.
Evitarono solo il bombardamento del Ponte Vecchio, ma egualmente distrussero tutte le vie adiacenti a quel ponte: Via Por Santa Maria, Via dei Bardi, Via Guicciardini, Borgo San Jacopo, “e le più antiche e care torri della Firenze di Dante”[1].
Cadeva, così, con le bombe naziste, il Ponte di Santa Trinita, tra Via Tornabuoni e Piazza Frescobaldi.
Su ordine di Cosimo I dei Medici, il Ponte di Santa Trinita veniva costruito da Bartolomeo Ammannati tra il 1567 e il 1571, su un disegno di Michelangelo.
Veniva costruito in pietra forte, di colore bruno giallogno, con una moderna linea a tre arcate, che Michelangelo aveva già avuto modo di mettere in pratica nelle tombe delle Cappelle medicee e nella scalinata del vestibolo della Biblioteca Laurenziana; una curva che costituiva da una parte una innovazione estetica, in grado di anticipare la successiva moda del barocco, e dall’altra una notevole resistenza statica, visto che in passato quel ponte, sotto la forza del fiume, era già più volte crollato: nel 1259, sotto il peso della folla che assisteva ad uno spettacolo sull’Arno, nel 1333 sotto la spinta di una grande piena, e ancora nel 1557, sempre a causa di una alluvione.
Il Ponte di Santa Trinita doveva poi la sua eleganza anche ai piloni di sostegno, e soprattutto alle quattro statue allegoriche aggiunte nei quattro angoli, che raffigurano le quattro stagioni, collocate sul ponte nel 1608, in occasione delle nozze tra Cosimo II dei Medici e Maria Maddalena d’Austria: un gioiello fiorentino.
Quella notte, fu una notte terribile per i fiorentini e la città.
Gli abitanti delle strade interessate dai bombardamenti furono avvertiti nelle 24 ore precedenti, e furono messi al riparo nel vicino Palazzo Pitti, già residenza dei Granduchi e del Re Vittorio Emanuele II.
Gli altri, terrorizzati e disperati, rimasero chiusi nelle loro case.
Tra questi, sia consentito il ricorso, mia madre, che abitava non lontano da ponte vecchio, e che era, nel ’44, una ragazzina di diciotto anni.
Fa parte delle immagini che ancora oggi io ho di lei, la sua narrazione di quella notte, fatta di rumori assordanti, di una paura fortissima e indescrivibile, e di una rabbia profonda, una rabbia vissuta come indelebile; la rabbia di una vecchia fiorentina, la quale, come tutti i vecchi fiorentini, considerava una ferita fatta a sé, una ferita fatta alla città.
2. Piero Calamandrei non era a Firenze quella notte, vi rientrerà il 28 agosto 1944
Quella notte, Piero Calamandrei non era a Firenze.
Il 12 settembre 1943 i tedeschi avevano requisito la sua casa del Poveromo, in Versilia, e Piero Calamandrei decideva allora, con la moglie Ada, di spostarsi a Treggiaia, un piccolo paese nella provincia di Pisa, esclusa l’idea di vivere a Firenze in un momento così drammatico e tumultuoso.
Successivamente, e precisamente il 17 ottobre 1943, Piero e Ada si spostavano di nuovo, e si trasferivano a Collicello, in Umbria, e rimanevano lì nove mesi, sino a luglio del 1944.
Successivamente, per raggiungere il figlio Franco, che nel frattempo, e in gran segreto, si era sposato a Roma il 13 giugno “con una fanciulla che si chiama Maria Teresa” (così nel diario del 1 luglio 1944)[2], Piero Calamandrei, sempre insieme alla moglie, raggiungeva Roma; ciò avveniva l’8 luglio 1944, e la permanenza romana si sarebbe protratta per quasi due mesi.
Quella notte, quindi, Piero Calamandrei si trovava a Roma.
Nel diario, al 3 agosto 1944, Piero Calamandrei niente annotava su Firenze; al 4 agosto scriveva: “Notizia che gli alleati sono nei sobborghi di Firenze”; al 5 agosto scriveva di aver avuto, in mattinata, un colloquio con il monsignor Barbieri del Laterano, e poi: “Gli alleati hanno occupato la parte sud di Firenze fino all’Arno. Saltati i ponti, compreso quello di Santa Trinita! Il ponte vecchio ostruito……..Crollato il palazzo Guicciardini per ostruire l’accesso al ponte vecchio…….Tutta la notte, nel dormiveglia, ho pensato a Firenze”; il 6 agosto di nuovo scriveva: “Sono andato a trovare Orlando a Montecitorio”.
Indiscutibilmente, dunque, in quei giorni, Piero Calamandrei si trovava a Roma, e Firenze era solo qualcosa che turbava i suoi sogni.
L’11 agosto iniziava la Battaglia di Firenze per la sua liberazione.
Piero Calamandrei scriveva nel suo Diario fatti relativi ai rischi di scissione del partito d’azione (“Colloqui con La Malfa per evitare la scissione del Partito d’azione”), e solo il 12 agosto annotava: “Notizie che vi sarebbe in città (Firenze) una vera e propria guerra civile tra fascisti e patrioti”; per poi aggiungere: “Ieri sera pareva che l’ing. Cidonio ci portasse oggi in auto ad Amelia (paese tra Umbria e Lazio): all’ultimo momento dice che la macchina si è guastata”.
Le ragioni di quel viaggio si scoprono in una lettera dell’agosto ’44, che Piero Calamandrei inviava a Egidia e Ciro Polidori: “Due giorni fa un tale mi aveva fatto sperare di portarci ad Amelia (quindi la lettera dovrebbe essere, esattamente, del 13 agosto 1944), così vi avremmo visto. A Firenze non credo che ci si potrà andare in auto altro che dopo due o tre settimane dopo la liberazione completa”[3].
Nel Diario, il 18 agosto annotava; “che a Firenze nella parte nord sono rientrati i tedeschi con carri armati uccidendo e facendo prigionieri molti patrioti. Intanto ricorro a Ruffini per avere il permesso di andare a Firenze dal colonnello Schmtt del Comitato di Controllo; mi risponde che in questo momento è assolutamente impossibile. Nel pomeriggio vado al Risorgimento Liberale a conferire con il giornalista Bruno Romani, tornato a Firenze il 13. Fa una descrizione terrificante di Firenze”.
Piero Calamandrei era dunque in pena per non poter raggiungere la sua città: “Vi era stata una manovra per avere sindaco il Corsini. Se avesse saputo il mio desiderio di andare a Firenze mi ci avrebbe portato”.
Poi il 21 agosto: “Sono avvilitissimo per l’impossibilità di trovare un mezzo per fuggire da Roma”; e il 22 agosto ricordava il dramma del ponte di Santa Trinita scrivendo: “Parla Scarfoglio, il tedescofilo, rimpiangendo la caduta del ponte Santa Trinita; dice: Quando lo vidi l’ultima volta, mi venne la voglia di inginocchiarmi lì sul ponte, per pregare Iddio che lo risparmiasse”.
Si arrivava al 26 agosto: “Pare che mi sia stato dato il permesso di tornare a Firenze colla macchina che ha portato Codignola: partenza domani”.
Sarebbe partito per Firenze, invece, il 28 agosto, a mezzogiorno.
Scriveva: “Viaggio Roma – Firenze. Viterbo rasa al suolo; Bolsena Radicofani: un autobus di Roma in cima. Carri armati rovesciati. Nei casolari deserti e crollati si vedono le macchine che trebbiano il grano”.
E poi infine, il 31 agosto, annotava: “Si torna dal Ponte S. Trinita: difficoltà a portar la bicicletta sulla passarella”.
3. L’idea di una nuova rivista per la ricostruzione morale del paese
La rivista Il Ponte, rivista di politica, economia e cultura, così recitava il sottotitolo, fu il frutto di una idea che a Piero Calamandrei venne dopo che la città fu liberata dei nazisti.
La ragione della nascita della rivista era quella di risalire dall’abisso nel quale il fascismo e il nazismo avevano fatto cadere l’uomo.
Il forte desiderio della creazione di questa nuova rivista Piero Calamandrei lo aveva infatti manifestato in più di una lettera dopo il suo rientro a Firenze.
Solo a titolo di esempio ricordo qui quanto scriveva a Pietro Pancrazi il 16 dicembre 1944: “La rivista bisogna farla a tutti i costi…….un nome che potrebbe andar bene: Il Ponte; bisogna infonderci dentro questa po’ di disperata vitalità che ancora ci rimane”; sempre a Pietro Pancrazi, 18 dicembre 1944: “Il Ponte, se ti piacesse, potrebbe significare non solo la continuità tra il passato e l’avvenire, non solo ricostruzione sul vuoto per passar di là, ma anche passaggio dalla regione all’Italia e all’Europa”.
Alla fine, Piero Calamandrei riusciva a realizzare il suo sogno; la rivista, infatti, vedeva la luce con il suo primo numero nell’aprile del 1945.
Piero Calamandrei, di nuovo, spiegava le ragioni e le ambizioni della nuova rivista nell’editoriale: “Il fascismo e il nazismo, con tutti i loro orrori, sono stati la espressione mostruosa dello spengersi nelle coscienze della fede dell’uomo……..e la sconfitta militare delle forze fasciste non è la conclusione, ma la premessa per la costruzione di una società libera”.
Su questa premessa, dunque, Piero Calamandrei: “invitava a collaborare al PONTE tutti coloro che sentono, come noi sentiamo, che la sorte del mondo dipende da questa ricostruzione morale. La nostra non sarà una rivista di partito o di scuola; ma in tutti gli articoli che vi saranno pubblicati, qualunque ne sia l’argomento, politico o economico, storico o giuridico, filosofico o letterario, il PONTE cercherà la presenza vivificatrice di questo interesse morale”.
E aggiungeva che ciò costituiva tributo doveroso di ognuno: “a migliaia di uomini coerenti che hanno testimoniato la verità delle loro idee coll’esser pronti a morire per esse, ed hanno rivendicato il valore della vita coll’esser pronti a sacrificarla”.
E poi un’immagine: “Chi si metta in cammino per le devastate campagne toscane incontra ad ogni passaggio di fiume o di torrente squadre di operai che lavorano a ricostruire arcate distrutte………..invitiamo gli amici che provano questo stesso angoscioso bisogno di sentirsi operai del lavoro che ricomincia, a portarci la loro pietra”.
4. L’idea di chiamare quella rivista Il Ponte
Parimenti, Piero Calamandrei, nell’editoriale di quel primo numero, spiegava altresì le ragioni per le quali la rivista prendeva il nome de Il Ponte.
Norberto Bobbio sosteneva che l’idea del ponte veniva a Piero Calamandrei “dalla pena per i ponti di Firenze distrutti dai tedeschi in fuga”[4].
Ciò è senz’altro vero, poiché rientrato a Firenze dopo la liberazione, e preso atto con sgomento e dolore della situazione nella quale la città si trovava, di cui la distruzione dei ponti ne era un momento centrale, Piero Calamandrei certamente immaginava che Il Ponte fosse il simbolo tra passato e futuro, tra distruzione e ricostruzione; e certamente il ponte di Santa Trinita, il principale ponte fiorentino distrutto dai tedeschi, costituiva la prima, e direi la fondamentale, immagine di quel costrutto.
Lo confessa lo stesso Piero Calamandrei riferendosi al ponte Santa Trinita: “Non posso dimenticare la prima visione di quella rovina, come mi apparve la mattina del 29 agosto, appena potei rientrare a Firenze”[5].
E in più di un momento, infatti, Piero Calamandrei manifestava preoccupazione per il ponte di Santa Trinita.
A Egidia e Ciro Polidori, il 13 agosto 1944 scriveva: “Il nostro ponte S. Trinita è ridotto ai tronconi dei pilastri”.
In uno scambio epistolare con Gaetano Salvemini egli poi si preoccupava soprattutto per la sua ricostruzione.
In una lettera del 9 novembre 1944: “Ho comunicato a Pieraccini (Gaetano Pieraccini, 1864 – 1957, il nuovo sindaco di Firenze, nominato dal Comitato toscano di liberazione nazionale) quanto mi domandi sui ponti straziati. E’ difficile dare una risposta, non dico precisa, ma anche approssimativa. Ai prezzi di oggi la ricostruzione del ponte S. Trinita potrebbe richiedere (dicono i tecnici) circa sessanta milioni”. E nella lettera del 2 febbraio 1945: “Spero che a quest’ora avrai ricevuto la risposta affermativa alla generosa proposta concernente la ricostruzione del ponte S. Trinita. Pieraccini, consultato l’ufficio tecnico, mi dice che è difficilissimo, quasi impossibile, calcolare ora con qualche esattezza ciò che la ricostruzione potrà costare; ma tutti sono convinti che un milione di dollari sarà sufficiente, forse più che sufficiente. Grazie, dunque, per Firenze, naturalmente alla cosa per ora non è stata data alcuna pubblicità”. E ancora, rivolgendosi alle università brasiliane quale rettore dell’Università di Firenze, il 20 maggio 1945 comunicava loro che: “La bestiale furia tedesca ha fatto saltare i ponti, che erano miracoli di leggiadria”, ma “Il ponte a Santa Trinita lo rifaremo”[6].
Da tutto questo, dunque, il nome da dare alla rivista: “Il nostro programma è già tutto nel titolo e nell’emblema della copertina; un ponte crollato, e tra i due tronconi delle pile rimaste in piedi una trave lanciata attraverso, per permettere agli uomini che vanno al lavoro di ricominciare a passare”.
Infine, accanto al dolore, anche la gioia di una vita nuova che si schiudeva, la speranza di un futuro che doveva essere luminoso.
Piero Calamandrei, nell’ultima annotazione del suo Diario, che porta la data del Maggio 1945, così infatti descriveva questi sentimenti: “Lo scampanio mi coglie in piazza del Duomo: la gente si ferma, ascolta un istante il campanone, e poi capisce. Tutti capiscono e si mettono a correre, ridendo, gesticolando. Anche il sole al tramonto, razzando dalle aperture delle strade, si mescola alla festa. Caro signor colonello Fuch, i ponti li avete fatti saltare, ma l’oro di queste sere, che in maggio non si trova che qui, non siete riuscito a rubarlo. M’avvio anch’io trascinato dal fiume di gente che ingrossa da tutte le porte. Dunque è finita: siamo arrivati, vivi, alla pace. LA PACE. Arrivo dove la gente sembra più in tripudio: dalle finestre bei ragazzoni ridenti salutano colle mani i dimostranti, e per ringraziarli lanciano qualcosa su di loro. In via del Proconsolo, tutti son fermi a capo all’insù, a guardare la Martinella che suona dalla torre del Bargello. Dalla soglia di una botteguccia un vecchio, in gabbanella da artigiano, guarda anche lui verso la torre, e commenta: “Ma chi ce li rende questi trenta anni?”
5. Il dovere morale di ricongiungere la libertà individuale con la giustizia sociale attraverso la politica, l’economia, l’arte e la letteratura
Il compito assegnato a Il Ponte da Piero Calamandrei credo debba riassumersi in due momenti: a) ricostruzione morale del paese; b) ricongiungimento delle libertà individuali alla giustizia sociale.
Questo obiettivo andava perseguito con gli strumenti della cultura; e la cultura, nello spirito della rivista, andava oltre la politica e il diritto, e doveva necessariamente investire anche l’economia, l’arte, la letteratura.
Dal 1946, infatti, la rivista divenne di “politica e letteratura”, secondo quegli intenti che Piero Calamandrei aveva non a caso annunciato a Piero Pancrazi anni prima anche nelle lettere sopra richiamate.
La letteratura, infatti, dopo il diritto e la politica, costituiva l’altro grande amore di Piero Calamandrei, e con la rivista Il Ponte egli meglio poteva così soddisfare e concretizzare questa sua passione, e dare alla letteratura quella funzione che, a suo parere, essa doveva avere.
Nella lettera del 5 dicembre 1945 ancora Piero Calamandrei scriveva a Piero Pancrazi che: “La letteratura deve riacquistare la dignità di un lavoro fatto sul serio, di una sofferenza dentro l’umanità, non di un sollazzo ozioso alla barba dell’umanità che soffre”.
Letteratura al servizio della politica (e politica intesa nel suo più alto significato), rivolta a quella borghesia fiorentina prima, e italiana poi, che, sensibile ad un rinnovamento morale e civile dell’Italia, era più di cultura umanistica che scientifica.
In fondo, Piero Calamandrei, nel pensare alla rivista, pensava a sé stesso, alla sua formazione, ai suoi piaceri dello spirito, alle sue esigenze di uomo di politica e di cultura; e non poteva essere altrimenti[7].
La rivista Il Ponte, in questi termini, quanto meno al suo sorgere, e per tutto il periodo in cui Piero Calamandrei ne fu il direttore, rappresentava un po’ la sua anima, e riuniva le persone che gli erano vicine nel Partito d’azione, al fine di divulgare quelle idee di libertà individuale e di giustizia sociale alle quali tanto Piero Calamandrei teneva.
Ancora nel primo editoriale egli diceva infatti di essere: “alla ricerca di archi politici che aiutino la libertà individuale a ricongiungersi con la giustizia sociale”.
Nella rivista, così, volle al suo interno Alberto Bertolino, un economista, poiché Piero Calamandrei aveva ben presente l’importanza dell’economia per una società più retta ed equa sotto il profilo sociale, e volle ovviamente a sé, oltre a Pietro Pancrazi, Vittorio Branca, Enzo Enriques Agnoletti e Corrado Tumiati per le sue battaglie sulle libertà e la letteratura.
Piero Calamandrei condurrà queste battaglie con la rivista fino alla sua morte, avvenuta nel 1956.
Dal 1957, e per successivi trent’anni fino al 1986, la rivista sarà poi diretta da Enzo Enriques Agnoletti, che la porterà avanti nel segno della continuità (seppur spostandola, a mio sommesso parere, un po’ a sinistra).
6. La ricostruzione del Ponte di Santa Trinita come era e dove era
Su idea di un antiquario fiorentino, Luigi Bellini, già nel 1948 fu creato a Firenze il comitato “Come era e dove era”.
Il comitato voleva la ricostruzione del ponte di Santa Trinita eguale a come Bartolomeo Ammannati lo aveva edificato, ed esattamente nello stesso punto e con le stesse caratteristiche, eguale financo nei minimi particolari.
Il comitato “Come era e dove era” avrebbe altresì svolto un ruolo economico poiché, a quelle condizioni, era disponibile ad aggiungere fondi privati a quelli previsti dallo stanziamento ministeriale per la ricostruzione del ponte.
In questo contesto, il Comitato Toscano di liberazione nazionale incaricava l’architetto Riccardo Gizdulich di dirigere le operazioni di recupero dei frammenti del ponte, un’attività che avrebbe impegnato tecnici e volontari per più di un anno; e parimenti l’amministrazione comunale affidava ad un ingegnere, Emilio Brizzi, lo studio della ricostruzione del ponte.
Un primo progetto di ricostruzione veniva redatto da Riccardo Gizdulich e da Piero Melucci tra il 1947 e il 1949; un ulteriore progetto veniva realizzato da Emilio Brizzi nel 1949.
Nel 1950 entrambi i progetti venivano però respinti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Si discuteva, soprattutto, sull’esigenza di utilizzare o meno il cemento armato per adattare il ponte alle necessità del traffico moderno; polemiche di rilievo addirittura internazionale, visto che nella discussione interveniva anche Andrè Chastel, con un articolo apparso su Le Monde nel 1951.
Nel febbraio del 1952 l’appalto veniva affidato alla ditta Fratelli Ragazzi di Milano, ma lo stesso veniva bloccato dopo qualche mese dal comitato “Come era e dove era”, che minacciava di ritirare i fondi raccolti se i lavori si fossero realizzati con l’uso del cemento armato.
Si arrivava, così, al giugno del 1952, quando il Comune di Firenze affidava definitivamente l’incarico della ricostruzione del ponte a Emilio Brizzi per gli aspetti strutturali e a Riccardo Gizdulich per quelli estetici e formali.
Il ponte di Santa Trinita doveva di nuovo essere quello di Bartolomeo Ammannati.
Il nuovo progetto veniva ultimato nel gennaio del 1954 e il 21 aprile del 1955 si apriva il cantiere.
I lavori duravano 3 anni, ovvero fino a gennaio 1958, e terminavano con la ricollocazione, dove erano e come erano, delle quattro statue tardo-cinquecentesche delle Stagioni, che, seppur danneggiate dalle esplosioni, si era riusciti a ricomporle interamente.
Il 16 marzo 1958 si teneva l’inaugurazione ufficiale del ponte di Santa Trinita,
Quello stesso giorno nel cinema Odeon, posto dietro Piazza del Duomo, veniva proiettato il film della ricostruzione del ponte, con il commento dello stesso architetto Riccardo Gizdulich.
Una festa per i fiorentini, alla quale, però, Piero Calamandrei non potè partecipare.
La sua vita, infatti, si fermava il 27 settembre 1956, a seguito di alcune complicazioni per un intervento chirurgico.
E pensare che solo due anni prima della sua morte, ovvero nel 1954, Piero Calamandrei aveva scritto ancora sul Ponte Santa Trinita[8]: “Dicevano che fosse il ponte più bello del mondo, certo è che a ripensarlo oggi com’era, a rivederne oggi la riproduzione su qualche vecchia stampa, ci accorgiamo che quei tre archi erano in realtà un’arcata sola. La flessuosa lievità di una linea unica; ma quale potenza di solidità statica. Gli altri ponti bastò minarli ai piloni, il ponte di Santa Trinità no, alla prima esplosione, scrollò appena le spalle, e restò in piedi. Allora quei manigoldi dovettero ricominciare da capo, lavorarono alla disperata tutta la notte ad avviluppare in una gabbia esplosiva l’intera arcata, e solo così, vicina all’alba, riuscirono a farlo saltare.
Il ponte di Santa Trinita umanizzato: “Questo affannarsi notturno di ombre spietate contro il ponte che resisteva, somiglia ad una scena di tortura: anche il più bel ponte del mondo, colpevole di aver resistito, fu condannato a perire di morte lenta, sotto i supplizi dei torturatori tedeschi”.
7. Una curiosità e gli auguri per le prossime feste
Un’ultima curiosità.
Al centro del ponte, sui due lati dello stesso, uno che guarda ed est, verso ponte vecchio, e l’altro che guarda ad ovest, verso le Cascine, sono state poste, sotto le spallette del ponte, le sculture di due teste di caprette.
A sporgersi, le due caprette si notano, ma impossibile sarebbe rilevare che le due caprette non sono affatto dello stesso umore, perché una è sorridente e l’altra è imbronciata; i loro musi sono infatti rivolti completamente verso l’acqua e gli unici che possono incrociare il loro sguardo sono i canottieri e i renaioli che attraversano l’Arno.
La capretta imbronciata è quella rivolta verso ponte vecchio, che sembra preoccupata a guardare l’arrivo del fiume, che con le sue piene ha creato in tanti momenti danni alla città e ai fiorentini; e l’altra capretta sorridente è invece quella che guarda a valle, sollevata e confortata dal fatto che ormai il fiume è invece passato senza fare danni.
Ebbene, è con questa immagine di speranza e serenità che credo la rivista Giustizia Insieme voglia fare gli auguri a tutti i suoi lettori per le prossime feste; auguri ai quali, ovviamente, mi permetto di aggiungere i miei personali.
[1] Così espressamente CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, Laterza, 2006, 136.
[2] Diario, 1933 – 1945, La nuova Italia editrice, Firenze, 1982, II.
[3] Lettere, 1915 – 1958, La nuova Italia editrice, Firenze, 1968, II.
[4] Il ponte, di aprile 1975, n. 4.
[5] CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, cit., 194.
[6] CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, cit., 143.
[7] Così l’attuale direttore de Il Ponte, MARCELLO ROSSI, Il ponte di Piero Calamandrei, in Processo e democrazia, Pisa, 2019, 158.
[8] Il Ponte del settembre 1954; Vedilo anche in CALAMANDREI, Uomini e città della resistenza, cit., 192 e ss.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 3) Migranti, ponti e muri dalla Polonia al continente latino-americano
di Tania Groppi
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Foto in copertina di Valentina Carlino
“Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”.
Le parole di Papa Francesco, pronunciate ormai diversi anni fa, nel maggio del 2016, nel ricevere il premio Carlo Magno, risuonano immediatamente di fronte ai muri che i governi innalzano, o desiderano innalzare, alle frontiere dell’Europa. Muri che, peraltro, si limitano a materializzazione quei confini “naturali” che, nel Mediterraneo, gli Stati proteggono, senza bisogno di costruire barriere, dalle fragili imbarcazioni dei migranti, con le loro navi da guerra o con l’intervento, pagato a caro prezzo, di utili paesi “amici”.
La dinamica è la stessa, ed è basata su distanze e divisioni. Da un lato, popoli in fuga: dalla miseria, dai raccolti perduti, dall’ingiustizia e dalla corruzione, a volte dalla repressione, persone che cercano una vita migliore, inseguono una speranza. In mezzo, trafficanti di esseri umani, o dittatori spietati, che li sfruttano e li strumentalizzano, per profitto economico o a scopi politici. Dall’altro lato, popoli impauriti: che mirano a difendere un benessere e una pace che considerano meritati, costruiti col sudore di intere generazioni, da godere per sé e i propri figli, senza doverli spartire con estranei, con i “lontani”. A questa spinta, involutiva ed egoistica, non è estranea la stessa Unione europea, che, essendo una proiezione degli Stati membri e continuando ad operare attraverso procedure che dipendono dalla volontà di questi, difficilmente potrebbe avere un diverso atteggiamento.
Ecco qua una miscela esplosiva, che da molti anni è sotto i nostri occhi, senza che si trovi soluzione. In Europa, in Nordamerica, e di recente anche in America latina, specie sotto la spinta delle vicende del Venezuela e di Haiti. Una miscela che svela le drammatiche carenze e contraddizioni della democrazia costituzionale che si è cercato di creare nel Secondo dopoguerra, come forma di Stato di carattere inclusivo, volta a dar voce, a livello nazionale e sullo scenario internazionale, a tutti gli esseri umani, anche a quelli considerati per secoli come privi di ogni valore e dignità, quali i lavoratori, le donne, i disabili, i bambini, i nativi e poi, via via, minoranze di ogni tipo.
La credibilità delle nostre democrazie si scontra, come un macigno, con i diritti di questi popoli in cammino. E con essa quella dell’ordinamento internazionale basato sulle Nazioni Unite, e dell’ordinamento europeo. Lo scontro, sempre visibile per chi vuole vedere, in ogni naufragio, in ogni assideramento, in ogni centro di detenzione di migranti, in ogni separazione familiare, diventa clamoroso quando coloro che vengono lasciati affogare, morire di freddo, suicidarsi in detenzione, coloro che vengono strappati alle loro famiglie e ai loro affetti, sono proprio quelli che, a parole, si vorrebbero difendere in quanto fedeli alleati dell’Occidente o adepti dei suoi valori: profughi afghani, bambini siriani, donne kurde o somale (già, ma chi si ricorda ancora della Somalia?).
È evidente che l’unica soluzione possibile, almeno alla luce dei principi che ispirano la democrazia costituzionale, è quella dell’accoglienza. È evidente che l’unico modo per superare questa tormentosa contraddizione, svuotando al tempo stesso il potere di ricatto degli intermediari dei traffici di vite umane, sarebbe un capovolgimento totale di prospettiva. Un capovolgimento che partendo dal valore infinito di ogni singola vita umana, spingesse gli Stati e le organizzazioni internazionali ad andare a cercare ogni singolo migrante in difficoltà, in mare o in terra, con scialuppe o autobus, e accoglierlo con bevande calde e abiti puliti, anzi, lavandogli i piedi stanchi, per avviarlo poi a un percorso di realizzazione umana.
Purtroppo, è anche evidente che il tempo di una simile “metanoia” non è giunto, e che la sovranità degli Stati - un ultimo lembo di sovranità, quando oramai è del tutto svanita riguardo alle altre grandezze, e finanza ed economia corrono su ben diversi binari - continua ad esercitarsi sul territorio impedendovi, in modo selettivo, l’accesso alle persone.
Che fare nel frattempo? Come continuare a gettare ponti, ponti che sollecitino soprattutto un cambiamento culturale all’interno delle nostre società, senza di che qualsiasi altra iniziativa, specialmente sul piano normativo, sarà vana? Penso che chiunque creda nella dignità di ogni persona umana abbia, ogni giorno, nella concretezza della vita e degli incontri, molteplici opportunità per contribuire a diffondere una cultura dell’accoglienza.
Vorrei cogliere l’opportunità di questo spazio per condividere due iniziative di cui ho fatto esperienza in questi mesi, iniziative accademiche, che lasciano sempre aperto l’interrogativo sulla effettiva capacità di seminare. Ma tant’è.
La drammatica situazione dei migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, ha spinto, il 18 novembre 2021, un gruppo di 77 professoresse e ricercatrici di diritto costituzionale a scrivere una lettera dura ed accorata ai presidenti delle istituzioni europee e dei governi degli Stati membri, invitandoli ad agire, nel rispetto dei valori fondanti dell’Unione europea e del diritto europeo. Alla lettera ha aderito, esprimendo il suo supporto, anche l’Associazione italiana dei costituzionalisti. Le studiose hanno deciso di non lasciare senza seguito le parole del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, pronunciate il 15 novembre proprio nell’ambito della inaugurazione di un anno accademico, quello della Università di Siena. «È sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e il non tener conto della fame e del freddo cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione», aveva detto il presidente. A questi principi si richiama la lettera, che esprime “sconcerto” di fronte alla “contraddizione tra i principi sui quali si fonda l’Unione europea e la mancanza di volontà politica di tradurli in azioni”. Sconcerto ancora più evidente se solo si comparano le “solenni affermazioni di solidarietà nei confronti di donne e uomini che perdono la libertà, come nel caso dell’Afghanistan, e il rifiuto di accoglierli”. La lettera chiede “alle istituzioni europee e ai governi degli Stati membri di rimanere fedeli alla volontà dei fondatori dell’Unione europea e di rispettare il diritto europeo, ponendo immediatamente in essere concrete misure di solidarietà ed accoglienza”, nonché “di incrementare gli sforzi politici per difendere i diritti umani universali laddove calpestati e fermare la tratta degli esseri umani”.
Inoltre, la sfida delle migrazioni, in Europa e in America latina, è stata al centro del primo incontro in presenza del Progetto REMOVE (Repensando la migración desde la frontera de Venezuela: nuevo programa académico en movilidad humana y convivencia en la Comunidad Andina) che si è svolto sulla frontiera tra Colombia e Venezuela, a Cucuta, il 2 e 3 dicembre 2021. REMOVE è un Capacity Builing finanziato dall’Unione Europea nel quadro delle azioni Erasmus “Key Action 2: Cooperation for innovation and the exchange of good practices. Capacity Building in the field of higher education”. Fanno parte del progetto, coordinato dall’Università di Bologna, le Università europee di Cadiz, Castilla La Mancha, Siena e Science Po-Paris e le Università latinoamericane del Rosario, Libre (Colombia), UASB, FLACSO (Equador), Nacional de Trujillo e PUCP (Perù). Si tratta di un progetto che mira principalmente a sviluppare un’offerta formativa interculturale e inclusiva che promuova la creazione di un quadro giuridico comune all’interno della Comunità andina a tutela dei diritti dei migranti. Proprio per sottolineare questa finalità, l’incontro di avvio del Progetto si è svolto a Cúcuta, una città nella parte nord-orientale della Colombia, al confine col Venezuela. Cúcuta rappresenta il primo canale di uscita della popolazione venezuelana che lascia il proprio Paese, la cui prima regione di approdo è proprio la provincia colombiana del Norte de Santander. Basti pensare che, secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, al 2020, erano circa 5,9 milioni i venezuelani in fuga. Colombia e Perù sono i Paesi che ospitano la maggioranza di essi.
Osservare la crisi migratoria venezuelana dalla frontiera della Colombia, uno Stato fragile, che, ciò nonostante, sta accogliendo al momento un numero smisurato di profughi (si pensi che nell’ospedale di Cúcuta, su 30 bambini che nascono ogni giorno, 27 sono venezuelani), getta una nuova luce anche sulla situazione europea. Nel senso che mostra come l’incontro/scontro con l’altro, con l’inatteso, con lo straniero, con l’extrasistemico, è una grande spinta per le società e gli Stati a guardarsi dentro, rivelando contraddizioni e debolezze. Così, l’arrivo di rifugiati che chiedono assistenza e lavoro, spinge i paesi latinoamericani a interrogarsi sull’effettività di questi stessi diritti per i propri cittadini e sui passi ancora da compiere per realizzare i luminosi principi iscritti nelle proprie costituzioni. Non solo spinta ad acquisire una consapevolezza, dunque: l’irrompere dell’extrasistemico è anche un potente vettore per innescare un cambiamento.
Quel cambiamento che, sempre, implica un esodo, una uscita da sé per andare incontro all’altro, nel riconoscimento di una comune umanità che non può essere imbrigliata da muri e barriere. Un lungo cammino. Come ha scritto Norberto Bobbio, un ideale come quello dei diritti dell’uomo rovescia completamente il senso del tempo, perché si proietta sui tempi lunghi, e solo alcuni “segni premonitori” possono farci presagire l’esito, secondo la kantiana visione profetica della storia (N. Bobbio, I diritti dell’uomo, oggi, in Id., L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 269). Segni anche piccoli. “Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani?”, si chiese Eleanor Roosevelt in uno dei suoi ultimi discorsi alle Nazioni Unite, il 27 marzo 1953. Per rispondere che iniziano “nei piccoli luoghi vicino casa – così vicini e così piccoli da non potersi individuare su nessuna mappa del mondo. Eppure, essi sono il mondo delle singole persone: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità” (citato da M. A. Glendon, Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani, trad. it. Liberilibri, Macerata, 2001, p. 408).
Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta
Nota a Trib. Milano 23.9.2021
di Rita Russo
Sommario: 1. Il caso - 2. Le possibili soluzioni - 3. Considerazioni conclusive.
1. Il caso
Il Tribunale di Milano affronta la complessa questione della trascrizione in Italia dell’atto di nascita formato all’estero a seguito di maternità surrogata[1].
La questione è di difficile soluzione perché, nonostante il chiaro arresto delle sezioni unite della Corte di Cassazione[2], secondo le quali questa tipologia di atti non è trascrivibile per contrarietà all’ordine pubblico, la Corte Costituzionale con le sentenze gemelle n. 32 e 33 del 9 marzo 2021 ha affermato che è necessario, in questi casi, tutelare l'interesse del minore al riconoscimento giuridico del legame con coloro che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale e che la possibilità di procedere alla adozione in casi particolari non è una tutela sufficiente ed adeguata[3]. Pertanto, il punto di equilibrio già individuato dalla giurisprudenza per tutelare in questi casi l'interesse del minore, e cioè il ricorso all’adozione ex art. 44 della legge 184/1983, è stato chiaramente ritenuto insoddisfacente.
Si tratta però di due sentenze che non modificano il quadro normativo vigente, poiché dichiarano la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento alle norme che non consentono, secondo l'interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l'ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero formatosi a seguito di surrogacy; la Consulta ha infatti affermato che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata spetta, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell'individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.
Poiché il legislatore non è ancora intervento e non sembra prossimo il suo intervento in questa materia, a tutt’oggi il diritto vivente presenta una vistosa lacuna nella tutela di un legame che può definirsi limping (zoppicante), vale a dire una relazione familiare che poggia su un titolo giuridico che, pur perfettamente legale nello Stato estero in cui si è formato, in Italia non avrebbe potuto formarsi, e di cui non possono riconoscersi gli effetti per contrarietà all'ordine pubblico.
I legami zoppicanti sono il risultato della diversità degli ordinamenti giuridici nazionali poiché i criteri di collegamento variano da paese a paese, così come la concezione di ordine pubblico; a ciò si aggiunga che mentre alcuni legami nascono zoppicanti per effetto del c.d. turismo procreativo, come avviene quando gli aspiranti genitori risiedono in uno Stato la cui legislazione proibisce una determinata pratica procreativa (come la gestazione per conto terzi) e si recano all’estero per aggirarla, altri legami si formano in perfetta armonia con la legislazione del paese di residenza abituale delle parti e diventano zoppicanti solo quando gli interessati decidono di trasferirsi in un altro paese con una legislazione più restrittiva.
È questo il caso esaminato dai giudici milanesi: una coppia di uomini, un cittadino italiano e un cittadino statunitense, dopo avere contratto matrimonio a New York, hanno fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita con gestazione per conto terzi, ed è nato un bambino che, secondo lo Stato della Pennsylvania è figlio di entrambi. Il problema sorge nel momento in cui uno dei due si trasferisce a Milano e, dopo il primo lockdown dovuto all’emergenza pandemica, vorrebbe far stabilire in Italia la sua famiglia; tenta quindi di ottenere un passaporto italiano per il minore, che risulta però solo cittadino statunitense (iure soli), perché non ha legame biologico con il genitore avente cittadinanza italiana, e l’ufficiale di stato civile italiano rifiuta la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero.
Quid iuris dunque? I genitori ricorrono al Tribunale di Milano e nelle more della pendenza del giudizio provano a formare un altro titolo legittimante la relazione familiare, adottando (negli USA) il bambino; questo atto di adozione viene trascritto in Italia come avente effetto di adozione in casi particolari, e ciò secondo i ricorrenti erroneamente, perché si tratta di un atto che dovrebbe produrre in Italia gli effetti dell’adozione piena, attribuendo lo status di figlio.
2. Le possibili soluzioni
L’adozione all’estero del minore è, in astratto, potenzialmente risolutiva della questione, dal momento che la circostanza che il minore sia stato adottato da una coppia same sex non osta di per sé al riconoscimento del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione piena[4]. La stessa legge italiana non subordina l'adozione piena dei minori in stato di abbandono al requisito della diversità di sesso della coppia adottante, bensì al requisito che gli adottanti siano uniti in matrimonio. Da ciò deriva, ma solo in via di fatto e non in virtù di una norma direttamente discriminatoria, l'esclusione delle coppie omoaffettive dall'accesso all'adozione piena, non già per la scelta di orientamento sessuale, ma perché nel nostro ordinamento le persone dello stesso sesso non possono unirsi in matrimonio, ma solo contrarre unione civile[5].
Anche la giurisprudenza di legittimità è netta nell’affermare che l'orientamento sessuale di per sé non incide sulla idoneità dell'individuo all'assunzione della responsabilità genitoriale. Il best interest of the child, coincidente con il diritto a mantenere la stabilità della vita familiare consolidatasi all'estero con entrambe le figure genitoriali adottive, deve guidare il giudice nella decisione. Vero è che nel nostro ordinamento l'unione matrimoniale così come prevista nell'art. 29 Cost. è una relazione eterosessuale e costituisce il modello di relazione familiare fornito, allo stato attuale, del massimo grado di tutela giuridica, ma in relazione agli status genitoriali essa non costituisce più, soprattutto dopo la riforma della filiazione, il modello unico o quello ritenuto esclusivamente adeguato per la nascita e la crescita dei figli minori e conseguentemente deve escludersi che ciò possa essere ritenuto un limite al riconoscimento degli effetti di un atto che attribuisce la genitorialità adottiva ad una coppia omoaffettiva, in particolare se unita in matrimonio[6].
Tuttavia la soluzione del caso non è così semplice perché, secondo il principio di diritto affermato dalle sezioni unite, il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia maschile non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale solo ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.
Su questo punto il Tribunale di Milano si arresta, peraltro rilevando che la legislazione della Florida (dove nel frattempo si è trasferito il minore con l’altro genitore), è assai peculiare poiché consente l’adozione di un minore da parte di uno dei genitori già risultanti tali dal suo atto di nascita. In ogni caso il Tribunale di Milano considera il fatto in sé, e cioè che alla base di questa complessa e per certi versi inspiegabile procedura vi è il ricorso alla maternità surrogata e che le parti hanno fatto ricorso all’adozione al fine di ovviare alla mancata trascrivibilità dell’atto di nascita, e pertanto respinge la richiesta di riconoscimento degli effetti della adozione come adozione piena.
La conclusione di questo complesso ed articolato discorso potrebbe essere che allo stato sussiste un vuoto normativo perché – a legislazione invariata – l'interesse del minore, nato da maternità surrogata e certamente incolpevole dei comportamenti dei genitori, può essere tutelato soltanto con l'adozione in casi particolari, tutela che nel frattempo le parti avevano comunque conseguito, pur se si tratta di una tutela non del tutto soddisfacente e coerente con i parametri costituzionali. Da ciò si può fare discendere la considerazione, in verità resa dalla stessa Corte costituzionale, che a questo sistema di tutela imperfetta deve rimediare il legislatore, perché ad esso spetta operare un bilanciamento dei contrapposti interessi e scegliere tra le varie opzioni possibili.
Il Tribunale di Milano invece sceglie una strada diversa e cioè ritiene che questo vuoto normativo, nell'inerzia del legislatore, possa e debba essere superato dal giudice, sa pure con effetti limitati al caso specifico, tramite una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 8 della legge 40/2004, sulla scorta dei rilevi contenuti nella sentenza n. 33/2021 della Corte Costituzionale.
Per superare l’impasse, il Tribunale di Milano opera in concreto il bilanciamento tra l'interesse del minore alla tutela della sua relazione familiare e la tutela della dignità della donna che si è prestata alla surrogacy, concludendo nel senso che nel caso di specie non vi è stata una concreta lesione della dignità della gestante, che possa prevalere sulla tutela dei diritti del nato. Reso questo giudizio, la trascrizione di questo specifico atto di nascita non viene considerata contraria all'ordine pubblico e se ne ordina all'ufficiale di Stato civile la trascrizione.
3. Considerazioni conclusive
Era ampiamente prevedibile, ed anche previsto dalla dottrina, che dopo le sentenze gemelle della Corte Costituzionale i giudici di merito si sarebbero ritrovati, fino all’auspicato intervento legislativo, di fronte ad un dilemma: applicare una regola iuris di cui la Corte ha già rilevato il contrasto con la Costituzione o rendere una interpretazione costituzionalmente orientata che garantisca in modo ottimale il diritto del bambino ad avere due genitori[7]?
La sentenza in esame sceglie coraggiosamente la seconda strada, e si fa carico di garantire una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, ma per altro verso sembra sottovalutare la chiara indicazione data dalla Corte costituzionale affinché intervenga il legislatore, in quanto tra i tanti interessi che vengono in considerazione non vi è soltanto il bilanciamento tra i diritti della madre surrogata e quelli del bambino, ma anche lo scopo legittimo perseguito dall'ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore, compito questo che non può assolversi tramite decisioni sul singolo caso, che tutelano l’interesse del minore, ma in esito ad un giudizio di bilanciamento di interessi parziale, perché necessariamente centrato sul caso concreto.
Attenta dottrina ha osservato che la pronuncia della Corte costituzionale n. 33/2021 ha ribadito la natura pubblicistica del divieto di maternità surrogata e non legittima alcun ripensamento della nozione di ordine pubblico fatta propria dalle sezioni unite, per il diverso bilanciamento tra i valori in gioco[8].
In assenza di ripensamento da parte delle sezioni unite sui principi affermati in materia di trascrizione dell’atto fondato sulla surrogacy, il giudice che ordina la trascrizione di un siffatto atto di nascita introduce una deroga a questi principi, fondata sull’analisi dei soli interessi individuali in evidenza, sia pure al meritevole fine di tutelare il best interest of the child, ma con uno strumento che risulta inappropriato perché sacrifica gli altri interessi di carattere generale in gioco.
Probabilmente, la questione dovrebbe essere rimessa nuovamente alla Corte Costituzionale, perché prenda atto del mancato attivarsi del legislatore nonostante l’esplicito invito rivolto con le sentenze gemelle del marzo 2021, e, pur mantenendo la posizione sul divieto di maternità surrogata, calibri l’intervento sulla esigenza di rendere concreta e attuale la scelta di fondo già tracciata dagli artt. 8 e 9 della legge 40/2004, scelta che non può essere rinnegata: chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo che un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”.
[1] Si veda, in questa Rivista, Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S. Stefanelli, a cura di R. Russo).
[2] Cass. sez. un. 08/05/ 2019 n. 12193.
[3] Si veda in questa Rivista, A.M. Pinelli La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33.
[4] Cass. sez. un. 31/03/ 2021, n. 9006
[5] Corte EDU 24/6/2010, Schalk e Kopf c. Austria; 19/2/2013 X e altri c. Austria in www.echr.coe.int; Corte Cost. 14/4/2010 n. 138 in www.cortecostituzionale.it
[6] Cass. sez. un 9006/2021 cit.
[7] Si veda in questa Rivista G. Ferrando, ll diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021.
[8] A.M. Pinelli La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata, cit.
Comunicazione del rinvio del convegno al 1 aprile 2022
Abbiamo immaginato il nostro secondo convegno come un Convegno in presenza.
Lo abbiamo pensato e organizzato avendo in mente non solo "la Giustizia e la comunicazione" ma anche quale essenziale momento di incontro collettivo come un segnale importante di ritorno alla normalità.
Insomma vorremmo invitarvi ad un convegno tradizionale fatto di dialoghi in presenza, di voci e di sguardi non veicolati da strumenti di trasmissione, vorremmo delle strette di mano.
L’impossibilità di dare corso all’organizzazione che avevamo predisposto per voi nella magnifica sala del Primaticcio dell’associazione Dante Alighieri ci impone il rinvio del convegno al primo giorno utile dopo il 31 marzo 22, che speriamo sia l'ultimo termine dell’emergenza.
L’ appuntamento è quindi posticipato al 1°aprile 2022, venerdì pomeriggio stesso luogo e stessa ora.
“Processo mediatico e presunzione di innocenza” è il titolo del secondo convegno organizzato dalla Rivista. Il primo convegno, dal titolo “Migliorare il Csm nella cornice costituzionale”, si è tenuto nell’ottobre del 2019.
Il convegno “Processo mediatico e presunzione di innocenza” si terrà a Roma il 1°aprile 2022 presso la Sala del Primaticcio della sede della società Dante Alighieri in Piazza di Firenze n. 27 e tutti i lettori della rivista sono invitati a partecipare (seguiranno indicazioni per la partecipazione da remoto - per informazioni redazione@giustiziainsieme.it).
Giustizia e comunicazione, un binomio centrale nel dibattito che anima Giustizia Insieme, al quale è già stata dedicata un’apposita rubrica ove sono pubblicati saggi di autori d’eccellenza - giustizia e comunicazione.
Si tratta di un binomio che può essere analizzato sotto un’innumerevole quantità di punti di vista in ragione delle possibili sfaccettature del diritto all’informazione, da un lato, e del diritto alla riservatezza, dall’altro. Assumono particolare interesse questioni quali: la rappresentazione della magistratura nella comunicazione di massa, rappresentazione destinata a cambiare di segno a seconda del gradimento popolare della decisione nonché per gli eccessi di protagonismo di questo o quel magistrato; la questione del diritto di critica e del rispetto della decisione; del rischio dell’ingerenza della comunicazione di massa sulla decisione del giudice; il complesso e multiforme articolarsi del diritto all’informazione e la naturale riservatezza delle situazioni coinvolte nel conflitto che il giudice è chiamato a risolvere; la spettacolarizzazione della giustizia che culmina con il processo mediatico che scalza l’unico vero e giusto processo.
Quali sono i limiti della comunicazione? Qual è il limite entro il quale lo sviluppo argomentativo in cui si articola la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali assume i toni della superfluità lesiva? Chi deve farsi paladino del rispetto dei confini?
Aspetto essenziale è, senz’altro, la modalità della comunicazione È imprescindibile la verità del dato oggetto dell’informazione e l’obiettività descrittiva. Eppure la veridicità e l’obiettività espositiva sono spesso tenute in second’ordine, tanto che si registra, sempre più massiccia, l’illustrazione morbosa di una “verità” soggettiva che è quella, di volta in volta, voluta dal comunicatore per compiacere il lettore nella prospettiva pirandelliana di verità molteplice, o utile a chi comunica e di soddisfazione per chi legge. Ma il fatto di cronaca non è un romanzo, i protagonisti della vicenda non sono personaggi della fantasia bensì sono donne e uomini che esistono nella loro fisicità, emotività e nel loro fascio di relazioni interpersonali. La correttezza della comunicazione dipende dall’etica soggettiva, e purtroppo, spesso la provenienza “ufficiale” della notizia non implementa la correttezza dell’informazione.
La suggestione pone a repentaglio la terzietà del giudice, oltre che l’immagine della giurisdizione.
Tra le molteplici possibili riflessioni in tema di Giustizia e comunicazione, in un’ottica di bilanciamento dei diritti coinvolti nel declinarsi della comunicazione di fatti sub judice, abbiamo scelto tre temi che saranno oggetto di altrettante sessioni del convegno, nella forma del dialogo in linea con la tradizione delle Interviste di Giustizia Insieme.
I discussant delle tre sessioni, in ciascuna delle quali sarà presente anche un giornalista, saranno Giuseppe Amara, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Modena, Donatella Palumbo, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Benevento, e Maria Cristina Amoroso, magistrato addetto all’Ufficio del massimario e del ruolo della corte di cassazione.
La prima sessione dal titolo “La rappresentazione del magistrato nell’ immaginario collettivo” sarà incentrata sul magistrato, giudice e pubblico ministero, nella proiezione della sua figura in ambito sociale e quale risolutore dei conflitti. La rappresentazione collettiva del magistrato muta in maniera sinodale in ragione dell’apprezzamento della funzione giurisdizionale, ma muta pure in ragione della rappresentazione del singolo magistrato, ove questi - nel bene o nel male - balzi agli onori della cronaca. Interverranno nel corso della prima sessione Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, e Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e consigliere di Cassazione.
La seconda sessione intitolata “La presunzione di innocenza, sostanza e forma” è un tema quanto mai attuale in ragione dell’entrata in vigore il 14 dicembre del d.lgs. n. 188 del 2021, di adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza indispensabile e improcrastinabile per orientare una comunicazione che sia rispettosa della presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza. Si tratta di un intervento normativo che, seppur diretto alle sole autorità pubbliche, dovrebbe impegnare non solo polizia giudiziaria, pubblici ministeri e giudici ma anche i giornalisti affinché la comunicazione della giustizia si faccia carico, nel bilanciamento dei diritti coinvolti, della tutela dell’intimità delle posizioni coinvolte. La presunzione di innocenza nella comunicazione dei fatti di cronaca dovrebbe costituire, pertanto, la linea da seguire non solo per i giornalisti ma anche per i magistrati affinché sappiano individuare, nel costrutto motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali, ciò che è lesivo della reputazione e dell’intimità individuale e, al tempo stesso, inutile e superfluo. Come ha scritto Federica Resta su questa Rivista in un articolo pubblicato il 14 dicembre dal titolo Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza: “Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura e organi di informazione, interpreteranno il loro ruolo” ( sul medesimo tema Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici? di Valentina Angela Stella, Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 di Armando Spataro).
Interverranno alla seconda sessione Valentina Stella, giornalista del Dubbio News e del Riformista, l’On. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario di Stato alla Giustizia e avvocato, e Raffaele Cantone, Procuratore della Repubblica di Perugia.
La terza sessione è intitolata “Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo”. Quest’ultima sessione affronterà il tema della suggestione della comunicazione di massa sull’esercizio del potere giurisdizionale. Il processo mediatico non solo condanna il presunto innocente con decisione inappellabile ma, nel dipanarsi del suo spettacolo, pone a repentaglio e stravolge l’ordinario svolgersi delle dinamiche processuali. Gli effetti emozionali inconsci della comunicazione di massa possono astrattamente influenzare le decisioni in tema di misure cautelari, di affermazione della responsabilità, di determinazione della pena ma anche le decisioni in tema di conflitti, rimessi alla tutela giurisdizionale, che coinvolgono diritti della persona. La domanda è allora: se questi sono i danni (violazione del principio di non colpevolezza) e questi sono i rischi (messa in pericolo del giusto processo), qual è la giustificazione del processo mediatico e quali sono i rimedi ? Interverranno alla terza sessione Rosaria Capacchione, giornalista, Marco Dell’Utri, consigliere della Corte di cassazione, e Alessandra Camassa, Presidente del Tribunale di Marsala.
Sono previsti interventi programmati nel corso del dibattito.
Introdurranno e chiuderanno i lavori i direttori scientifici della Rivista Roberto Conti e Paola Filippi.
Roma, Piazza di Firenze 27, Società Dante Alighieri,
Sala del Primaticcio
Venerdì 1 aprile 2022 ore 15:00/20:00
Ore 15:00 Saluti del Segretario Generale della società Dante Alighieri Prof. Alessandro Masi
Introduzione ai lavori: Roberto Conti e Paola Filippi - direttori scientifici di Giustizia Insieme
Ore 15:30 prima sessione - Il giudice nell’immaginario collettivo -
Giovanni Bianconi e Giuseppe Santalucia - discussant - Giuseppe Amara
Ore 16:30 seconda sessione - La presunzione di innocenza, sostanza e forma -
Valentina Stella, Francesco Paolo Sisto e Raffaele Cantone - discussant- Donatella Palumbo
Dibattito
18:00 Break
18:30 terza sessione - Effetti della comunicazione di massa sul giusto processo -
Rosaria Capacchione, Alessandra Camassa e Marco Dell’Utri - discussant - Maria Cristina Amoroso
Interventi programmati
19:30 chiusura dei lavori
Dalla “eccezione” al “miracolo”. Seguendo con il Dante di Steinberg i movimenti della geografia giuridica e politica
di Maura Caprioli*
Le riflessioni di Justin Steinberg sull’impalcatura di matrice legale che è sottesa all’opera di un Dante-giudice sono l’occasione per un ripensamento sui percorsi del pensiero giuridico e sulle argomentazioni che ne sorreggono le conclusioni.
Partendo così da Steinberg si deve dare oggi risposta, secondo l’autore, alle domande che vengono dal mercato globale e dall’espandersi dell’intelligenza artificiale che sembra aver tolto all’uomo il monopolio della volontà.
Un ripensamento che si muove sulla scia del pensiero speculativo novecentesco incentrato sui problemi dello spazio e del tempo popolato dagli eventi che modificano continuamente la realtà e il suo ordine.
Sulla base di queste premesse si approda ad una storicità che, concepita come sapere critico, tende a superare l’astrattezza dei concetti.
Dall’ordine giuridico come potere si passa all’ordine giuridico equilibrio di poteri, all’ordine giuridico come creazione di istituzioni. Il tutto in un quadro che si muove secondo nuove fonti ispirate all’efficienza e alla competitività economica e al superamento di ogni forma di tipicità.
Questo armamentario giuridico operando “nei grandi spazi” aperti al gioco delle grandi Potenze determinano una interdipendenza economica ai cui rischi tutti sono interessati.
Interdipendenza che dà un nuovo senso alla territorialità seguendone un nuovo concetto di effettività che deve essere sorvegliata. In un quadro normativo che riscopre il concetto del quasi costituzionale.
Come risposta a quel potere che sembra non raggiungibile da ogni responsabilità che solo lo legittima, reso invisibile da quel labirinto nel quale la stessa oggi sembra identificarsi.
Ogni tempo ha una responsabilità fondamentale: quella di darsi strumenti per risolvere i problemi che deve affrontare.
Sommario: 1. Dall’era di Prometeo a quella di Epimeteo passando per il pensiero politico e giuridico di Dante - 2. Alla ricerca di un “ordine del tempo”. L’accadere degli eventi ed il cambiamento del mondo. La storia del domandare infinito: la verità è nella risposta successiva. Il segreto della domanda - 3. La scelta della domanda come momento costruttivo del Sistema. Dall’ordine come “potere”, all’ordine come equilibrio di potere. Il ruolo conoscitivo della politica estera - 4. Che cos’è l’acqua? L’innominabile attuale nella storicità del diritto. La crisi delle fonti. L’eccezione come fatto duraturo - 5. È necessario tagliare la storia a pezzi? Dal cambiamento alla metamorfosi. I diversi ruoli e significati della natura e la necessità di una rifondazione assiologica - 6. Il logos si è fatto macchina. La ricerca dell’Umanesimo ai diversi confini della soggettività. 7.Ordine giuridico come costruzione di istituzioni. Fenomeni globali e fenomeni mondiali. L’uso della legge e del mercato - 8. I grandi spazi e le zone di influenza come strumento conoscitivo - 9. Dall’anomia all’atopia. Il ruolo e il significato geopolitico del “territorio”. Verso una nuova definizione di effettività - 10. Dal gioco delle regole al quasi costituzionale. La gomena di Bodei e la “responsabilità” del nostro tempo - 11. Quasi una conclusione. Le domande rimbalzano di continuo.
1. Dall’era di Prometeo a quella di Epimeteo passando per il pensiero politico e giuridico di Dante
Di grande interesse queste letture del pensiero di Dante che Justing Steinberg sottopone alla nostra attenzione, e con le quali stimola le reazioni che oggi suscitano il racconto di un “ viaggio”, nello spazio e nel tempo. Un viaggio popolato da storie che – raccontato con un nuovo linguaggio: il c.d. volgare evoca una visione profetica del mondo indirizzato verso nuovi equilibri politici e sociali, e verso nuove regole.
Letture raccolte in due saggi che affrontano, e valutano il tempo storico nel quale il Poeta ha vissuto, leggendolo con un linguaggio del tutto particolare: quello dell’esperienza giuridica e politica e dei suoi strumenti operativi e concettuali. Quello normativo.
In uno, affidando un ruolo centrale al caso limite, ed esplorandone le eccezioni per elaborare la sua geografia normativa (1). Nell’altro focalizzando l’attenzione sul miracolo – strumento a lungo proprio dei teorici politici- per discutere il problema della legittimazione dell’assolutismo papale, ed opporre ad una concezione assolutistica dei giuristi canonici del tempo una visione più “normativa” del miracolo (2).
L’orizzonte del discorso è di complessa profondità se, come penso, la sostanza che pone la domanda è quella di affrontare le problematiche della storia attraverso la quale costruire l’esperienza giuridica.
In questo senso – ci insegna Paolo Grossi che considera il diritto “ storia vivente” – la storia deve concentrare l’attenzione sul formarsi delle tipicità. E per questo deve “fondarsi su un sapere analitico, su una documentazione che aiuti la sua esplorazione volta a scegliere ( e comprendere) il groviglio esperenziale, ma deve ugualmente aprirsi a quelle intuizioni forti che vanno al cuore di una vita comunitaria dove la legge è una mal sopportata violenza legale mentre una realtà non scritta ma onnipresente, la mentalità, contribuisce in modo determinante a generare un costume ed una osservanza condivisa” (3).
Pensiero che è ancora più complesso se il richiamo al passato è un modo per parlare del presente, e mi chiedo se in questa logica l’ambizione non nascosta di Steinberg non sia quella di usare il passato per recuperarlo, ma di svegliare il presente ripensandone le radici (4).
Una riflessione che assume toni di alta suggestione quando, a chiusura del suo discorso, si affida all’immagine divina con una suggestiva analogia, la quale ai miei occhi unisce i due saggi qui analizzati.
Quella del Poeta, che, come Dio, per mezzo del suo angelo discende sulla sua creazione e con la sua mano ne modella l’opera.
Stimolante analogia che, quando solleva l’interrogativo su cosa veramente significhi, per l’artista umano, intervenire sulla sua creazione, trasferisce al rapporto tra creatore e creato l’inquietante domanda sulla natura e sulla responsabilità dell’essere. Domanda carica di notevoli implicazioni che si dirigono verso molteplici orizzonti.
Il nostro tema si collega all’orizzonte culturale che, dal secolo scorso, ha posto al centro del suo pensiero speculativo proprio il problema dell’essere – il quale vive nello spazio e nel tempo - contrapponendolo alla verità e al nulla. Contrapponendo la verità alla storia per arrivare alla post verità, ponendo così il pensiero speculativo davanti ad un interrogativo che costituisce uno dei bivi cruciali della nostra conoscenza e del nostro sapere. Quello se il percorso della nostra esperienza sia tracciato da una verità senza storia, o non sia invece tracciato da una storia senza verità.
Pensiero “questo di Steinberg” che, attraverso la sopradetta similitudine, restituisce alla nostra attenzione una figura non consueta del Poeta.
Il Dante che ci viene rappresentato appare distante da quello che ci ha consegnato la nostra cultura erede dell’insegnamento di Benedetto Croce, e più vicino a quella che Hegel ne ha intravisto nella sua Estetica. Infatti la sua “opera” è avvicinata, seguendo Hegel, a quella di un giudice che è allo stesso tempo – ed è questa particolarità ad essere motivo peculiare – ora narratore, ora artista, ora artigiano, ora creatore.
Un giudice singolare nella molteplicità di funzioni di cui partecipa, e che, con diversi linguaggi, ne costruiscono il ruolo.
Funzioni che, come nuovi angeli, da un lato lo distaccano dalla sua opera, dall’altro, lo accompagnano lungo un viaggio che lo porta a scavare il diritto canonico, e a dialogare con la cultura teologica e istituzionale per costruire una nuova geografia giuridica del potere umano nella sua dialettica con quello divino.
Una geografia che parla, come all’origine ha parlato lo stesso Dio, con la voce della legge, che è la voce dell’ordine. Che è la voce di ogni ordine (5).
Per questo la sua narrazione assolve al compito di definire i confini del potere, dei quali - ed è questo uno dei momenti più intensi del pensiero di Steinberg – con una terminologia moderna ( il riferimento alla costituzione) si ricerca la fonte e le sue conseguenze normative in un ottica che evoca quella che possiamo considerare oggi come una visione di sistema.
Una riflessione che se pure si confronti con il contesto politico del tempo e con gli strumenti teorici utilizzati – a lungo discutendo circa il peso del miracolo nella legittimazione dell’assolutismo papale, e sulla sentita necessità di pensare ad un contrappeso istituzionale – è indicativa degli spazi che possono essere utilizzati. Come è via via avvenuto, seguendo una dinamica che è arrivata al punto di rendere evanescente la distinzione tra interpretazione e creazione, tra legge e diritto.E sul cui sfondo aleggia l’incandescente tema della Giustizia (6).
Dove ci porta Steinberg quando ci invita a pensare? Il suo invito respira l’atmosfera che vive nell’occidente una crisi di civiltà non solo per quanto attiene al fondamentale concetto di “democrazia”, ma anche per quanto riguarda il tramonto dei termini chiave della sua civiltà identificati nella profezia ed utopia ad esso connessi (7). Che respira il rimpianto del passato, nella convinzione nostalgica che una volta il futuro era migliore (8).
Cosa dobbiamo cogliere del suo domandarsi in un tempo in cui sembra essersi chiusa l’età della potenza prometeica – la quale consentiva di credere nella sintesi di tempo e concetto, di progettare la storia organizzandone e contenendone energie e soggetti – superata dalla grandiosa rivincita di Epimeteo. Titano del quale ben poco c’è dato di sapere. Solo che – secondo l’efficace ed inquietante immagine di Massimo Cacciari – “Prometeo si è ritirato o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. Epimeteo scorrazza per il nostro globo scoperchiando sempre nuovi vasi di Pandora” (9).
2. Alla ricerca di un “ordine del tempo”. L’accadere degli eventi ed il cambiamento del mondo. La storia del domandare infinito: la verità è nella risposta successiva. Il segreto della domanda
Le forti sensazioni che queste immagini ci trasmettono impongono di attraversare il succedersi storico degli orizzonti dei fatti e delle idee e di ritornare sul terreno dei concetti per coglierli non nella usuale dimensione statica, ma, addentrandoci in quel processo dinamico che ne evidenzia la concretezza storica, la loro natura e funzione strumentale.
Cammino che ci costringe ad attraversare una strada accidentata, e sempre da esplorare.
Ci costringe ad entrare in quel mistero che è stato definito il problema dell’ordine del tempo (10), e cercarne una lettura.
Ordine che, da un lato, come è scritto nelle tante cattedrali della filosofia costruite attorno, è la misura del cambiamento tramite il quale studiare le metamorfosi del mondo. E che, dall’altro, nel suo porsi come mistero, riguarda ciò che noi siamo in quanto artefici di quegli eventi, che del suo divenire, ne segnano le strutture (11), riportandole indietro all’emozione del mito, al quale ancora guardiamo per dare oggi legittimità ai nostri giudizi. Al quale ci affidiamo con la forza persuasiva del pre-giudizio che così ne diventa l’a-priori il quale, esso stesso come potere e fonte, trasmette alle nostre argomentazioni la logica dei principi (12).
Da questa ottica discende un corollario che è utile, se non proprio necessario, sottolineare.
Il racconto del passato e il richiamo ad un sistema di “concetti” che Steinberg ci propone, risponde ad una esigenza: quella di parlare di noi, oggi e di parlare del cambiamento che si svolge attorno a noi e con noi.
E questo che dà senso e struttura istituzionale alla sua sollecitazione rivolta al pensare. Per raccoglierne l’invito non dobbiamo fare l’esegesi critica del suo ragionare sul diritto canonico, ma andare oltre e porci una serie di domande.
Dobbiamo chiederci con quali occhi noi guardiamo al “racconto” che viene sottoposto alla nostra attenzione.
Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo però capire con quali occhi, e allora con quali domande, lo stesso Steinberg ha guardato al pensiero di Dante.
Dobbiamo entrare in quel gioco senza fine diretto a svelare quello che, definito come il segreto della domanda, ci introduce nel profondo mistero dell’esperienza la quale sfugge ad ogni rete concettuale di comprensione, rispetto alla quale c’è sempre un fuori.
Non è certo un paradosso dire con Oscar Wilde che se hai trovato una risposta a tutte le tue domande vuol dire che le domande che ti sei posto non erano quelle giuste.
Come è illuminante l’insegnamento di Martin Heidegger quando, acutamente, prospetta alla nostra riflessione che non sempre una domanda chiede una risposta. Domanda che, a suo dire, secondo il grande filosofo, chiede di essere dispiegata, affinché ceda quello che ha di più essenziale e dischiuda i riferimenti che si aprono quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce.
Per questo, sempre per il grande filosofo la risposta è solo l’ultimissimo passo del domandare.
Infatti una risposta che congeda il domandare – ci avverte – annienta sé stessa come risposta, e non è quindi in grado di fondare alcun sapere, ma solo di consolidare il mero opinare (13).
Sulla scia di queste autorevoli affermazioni è ora Umberto Galimberti a riportare la nostra attenzione sul percorso tracciato dal domandare infinito.
La vera risposta – egli afferma – “non è quella che chiude il discorso, ma quella segretamente costituita dalla domanda successiva”, la quale, con l’ insistenza infinita dell’onda sulla stessa riva, modifica il profilo della terra. Per questo nessuna risposta è ultima perché così vuole l’essenza dell’uomo, che è quella di un viandante senza meta (14).
Portare l’attenzione sul continuo domandare, collegandolo al mutare delle cose, è certo una importante scelta di campo che, però, rischia di disperdere il suo significato specifico se, rimanendo a livello astrattamente speculativo non si entra nel concreto del domandare.
Se non si entra in quell’interminabile, e continuamente aggiornato campionario di domande, che, sollevandosi da una visione piatta, evidenzia tutta la sua profondità, ponendo davanti ai nostri occhi i diversi livelli di questo gioco, ed il loro convivere su molteplici orizzonti.
Ed è in questa prospettiva che vediamo i germi che sono all’origine del domandare ruotare, per un verso, attorno al io, al tu al noi coniugandosi con il mio, il tuo e il nostro, che, a loro volta, assumono ulteriori significati quando si riferiscono ad una molteplicità di oggetti. E che, per altri versi, concorrono a sollevare ulteriori interrogativi che alimentano a loro volta un evolversi di strutture, tutte condizionate dall’uso che le diverse forme di potere – modellato dall’esperienza che gli effetti hanno determinato – provocano.
Non ultimi quei troppo spesso trascurati effetti collaterali, che, uniti alle eccezioni prodotte dal frantumarsi della realtà, diversificano ad ogni livello la natura degli strumenti e delle strutture e le cui connessioni ne indirizzano le dinamiche verso storiche soluzioni istituzionali.
Anche questo però rischia di mettere in ombra un ulteriore aspetto della domanda.
Quello per cui possiamo dire che nella stessa domanda c’è già un momento decisionale.
Infatti non possiamo non rilevare che la domanda che si pone è il risultato di una scelta tra diverse domande possibili. Non possiamo non rilevare che la stessa domanda non è mai neutra.
Sarebbe il caso di dire che è il risultato di una “lotta” tra diverse opzioni per scegliere come orientare la soluzione dei problemi che i fatti generano, e che assumono una loro logica interpretata dagli attori sociali, i quali ne sono gli interlocutori, e i fautori politici delle domande.
Domande che ispirano quelle dicotomie che si pongono poi alla base di ogni ragionamento costruttivo.
Di questo discorso troviamo esempio significativo ed emblematico quando, negli anni ‘70 del secolo scorso, ci si interrogava sul primato della politica sull’economia e dell’economia sul diritto, e se questo comportasse la riforma dell’impresa o la riforma dello Stato (15), e sul modo di essere all’altezza dei tempi mantenendosi “ sistematicamente in contatto con i problemi” (16).
Per affrontare le sfide conoscitive dei tempi è quindi indispensabile individuare le domande che gli stessi tempi pongono, e rispetto ai quali si danno “risposte “ le cui premesse non sembrano oggi misurabili, come nel passato, da una verità assoluta, ma soggette a congetture e confutazione prodotte dai diversi effetti che, con la loro scelta, si determinano nel mondo delle cose e nella storia delle idee. Di qui la centralità del Politico, debole o forte che sia nei cui” specchi “vediamo riflettersi il formarsi e trasformarsi del Potere. E le strutture nelle quali questo si organizza.
3. La scelta della domanda come momento costruttivo del Sistema. Dall’ordine come “potere”, all’ordine come equilibrio di potere. Il ruolo conoscitivo della politica estera
Entrati in questa logica si deve necessariamente prendere atto che la stessa “domanda” è, a sua volta, risultato di una costruzione alla quale si arriva per diverse vie.
Vie che percorrono le esperienze più svariate calpestando sentieri modellati da continue deviazioni che si diramano in una crescente complessità di architetture e di orizzonti e che poggiano su
architravi rese variabili dalle atmosfere culturali determinate dalla natura dei fatti, i cui semi disegnano il paesaggio e lo modificano.
In questa prospettiva trovo significativa la digressione che spinge Gustavo Zagrebelsky a suggerirci, nel suo stimolante saggio su Antigone, la necessità dell’interdipendenza – oggi tutt’altro che pacifica- tra legge e diritto (17).
Necessità questa non contestabile se, come si argomenta, si entra nella logica che il diritto senza legge diventa cieca conservazione, e che la legge senza diritto si riduce ad un puro potere dispotico.
È in questo clima che il citato autore riprende la lettura che ha fatto Walter Benjamin dell’Angelus Novus di Klee, vedendo in Antigone la figura rappresentativa della frattura dell’unità e dell’affermazione della duplicità dell’essere umano e delle sue opere. Quelle opere con le quali, riprendendo la tragica storia occidentale fatta da Heidegger, “ cambia il mondo ma lo divide e dalla divisione scaturiscono le tragedie di cui è fatta la sua storia, il suo progresso “. È questa la tragedia che viene raccontata dall’Angelus della storia che ha il viso, rivolto al passato, impietrito e impotente per le cose che ha il potere di contemplare tutte in una volta. Che è inarrestabilmente sospinto verso il futuro da una tempesta che noi chiamiamo “progresso”, mentre un cumulo di rovine, alzandosi fino al cielo, ne sono l’ infranto che non si può ricomporre (18).
A questo punto non sorprende certo se, ispirati dalla dotta citazione sopra riportata, la nostra memoria si inerpica sugli spalti di Duino dai quali Rilke con il terribile angelo, delle sue immortali Elegie- affacciandosi in quella “solitudine mossa solo dalle passioni dello spazio cosmico”, nella quale era stato gettato l’uomo della modernità –, vedeva con Kafka e Musil, l’inarrestabile disgregazione dell’età della sicurezza (19).
Disgregazione della quale l’angelo è il terribile simbolo in quanto funzione e segnale di una energia di trasformazione. Trasformazione nella quale si è compiuta poeticamente la metamorfosi del visibile nell’invisibile, e attraverso la quale è lo stesso angelo a garantire il riconoscimento nell’invisibile di un rango più alto di realtà (20).
Lascio al lettore il piacere di cogliere i sottintesi di questa costruzione poetica. Mi preme però rilevare e chiedermi se a una visione inconoscibile tra visibile e invisibile non finisca con il richiamarsi lo stesso Thomas Eliot, quando si chiedeva: “dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? / dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo ? / dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione”? (21).
Versi che ispirati evidentemente anch’essi ad un mondo perduto, aprono la strada alla necessità di affrontare queste domande servendosi delle categorie della storia.
Ad essi non a caso si è richiamato Henry Kissinger per disegnare un affresco che ci riporta al fondamentale tema del fatto, del quale evidenzia le nuove dimensioni sottoposte, da un lato, alla pressione di quella frantumazione della cristianità che ha cambiato il corso della storia e, dall’altro, alle successive guerre di religione alla cui chiusura si ricollega il nascere della stessa idea di modernità. Modernità identificata poi nella crescente autorità dello Stato e nel conseguente monopolio della legge come punto di riferimento di un ordine la cui frantumazione affidava – come ben mette in risalto il grande politologo- la sentita necessità di ricomposizione globale, ad un inedito strumento.
Strumento identificato non tanto nella politica ma in un suo particolare aspetto: quello della Politica estera.
“I fatti – ci avverte- di rado si spiegano da soli: la loro analisi e la loro interpretazione – almeno nel mondo della politica estera – dipendono dal contesto e dalle reciproche relazioni” di conseguenza, si osserva criticamente, se un numero sempre crescente di questioni è trattato come se fosse di natura fattuale si consolida il presupposto che per ogni domanda debba esserci una risposta da cercare, e che problemi e soluzioni non devono tanto essere analizzati, quanto cercati (22).
L’osservazione critica legata al problema domanda / risposta sottintende una importante riflessione metodologica. Infatti ponendo il suo centro di riferimento non in una astratta idea di politica ma nella concreta politica estera il discorso assume una portata di carattere istituzionale. Il concetto di ordine sul quale stiamo riflettendo trascende il suo più stretto legame con la legge per assumere una portata ben caratterizzata.
In questo senso la politica estera, e in ragione del suo oggetto, apre le porte al concetto di ordine mondiale. Ordine che, frantumato nella sua originaria unità si veste di un nuovo contenuto, che porta il terreno di analisi su un piano diverso: non quello di affermazione e imposizione di un potere sugli altri, ma quello di equilibrio di potere tra le forze.
Su questo particolare discorso ci accompagna Kissinger ritornando nelle sue analisi ai problemi posti dalla pace di Westfalia, e alla fine delle guerre di religione e alla frantumazione della cristianità nelle sue molteplici forme.
Infatti il monopolio della sovranità, nella sua dimensione territoriale che ne seguiva, lasciava lo scacchiere internazionale, per dirla con le parole Hobbes, allo stato di natura e soggetto all’anarchia.
A questa situazione, e alla luce delle sue cause si poteva ovviare istituzionalizzando un ordine internazionale sulla base di regole e limitazioni concordate da una molteplicità di potenze e non dal dominio di una singola forza.
Quello che Kissinger ci descrive è un concetto di ordine mondiale soggetto, per sua natura, ad un precario equilibrio, quella che racconta è una storia di fratture che si susseguono, nell’ambiguità e nell’opacità dei comportamenti degli attori politici.
Comportamenti che non a caso nei fatti, non trovavano il consenso su alcuni punti fondamentali rispetto a quelle che dovrebbero essere le strutture dell’ordine.
Concetti quali democrazia, diritti umani e diritti internazionali – afferma Kissinger – vengono interpretati in modo talmente divergente che le parti in conflitto le invocano regolarmente l’uno contro l’altra come grida di battaglia (23).
Le regole del sistema sono state promulgate ma si sono dimostrate inefficaci in assenza di una imposizione attiva: il sistema Westfaliano non forniva il verso della direzione in cui procedere, ma consentiva di utilizzare i momenti di forza delle singole potenze, e di utilizzare gli spiragli normativi – si pensi alla gestione degli accordi di Bretton Woods – per affermare la logica e gli interessi delle potenze dominanti e dei sistemi economici emergenti.
Il risultato è stato quello di dare spazio ad una continua modificazione attraverso i fatti delle strutture giuridiche governata dalla spinta che non viene solo da una trasparente officina delle cose.
Ma che ha qualcosa di ben più inquietante: una spinta invisibile ma di fondamentale incidenza.
Lo spazio si è riempito di materia e antimateria provocando una preoccupazione di cui si è fatto interprete Noberto Bobbio descrivendo il nostro sistema di potere nella sua realtà.
Sistema del quale, affermava, nulla si capisce se non si è disposti ad ammettere che al di sotto del governo visibile che agisce nella penombra e ancor più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità esiste un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme, dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente sotto altri connivente, che si avvale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo.
Del resto, aggiunge, chi promuove forme di potere occulto e chi vi aderisce vuole proprio questo: sottrarre le proprie azioni al controllo democratico, non sottostare ai vincoli che una qualsiasi costituzione democratica impone a chi detiene il potere (24).
Preoccupazioni alle quali Remo Bodei – consapevole, con Sorrentino, che il potere reale comincia dove inizia la segretezza (25) – si richiama per metterci in guardia entrando in un nuovo percorso e su un nuovo piano dell’esperienza, contro l’uso dell’intelligenza artificiale al servizio delle possibili dittature e dei big data da parte dei poteri militari, finanziari e politici, per spiare potenzialmente tutti i cittadini, per influenza le elezioni, e per favorire gli interessi di ristrette oligarchie (26).
Il Logos che si fa macchina -secondo l’efficace immagine di Bodei- è oggi uno degli strumenti decisivi per aprire ad un nuovo ordine, a nuove forme di volontà e, determinare le gerarchie del potere e delle potenze in campo.
A tutto questo lucidamente si ispirava Kissinger avvertendo che “ogni ordine internazionale deve prima o poi affrontare l’impatto di due tendenze che ne mettono in dubbio la coesione: la ridefinizione della legittimità, oppure un significativo cambiamento nell’equilibrio di potere” (27).
Per questo, il grande politologo ci dice che la sfida fondamentale al giorno d’oggi è una ricostruzione del sistema internazionale.
Una sfida che, per quanto necessaria è disperatamente ricercata, appare di difficilissima praticabilità.
Il fatto è – afferma Calasso riprendendo la problematica posta da Kissinger che coniuga il linguaggio vestfaliano a quello del ciberspazio che sfugge a ogni dimensione- che non esiste più uno spazio circoscritto e sommariamente regolamentato entro cui si svolge la politica (28).
A questo punto mi chiedo se non ci si congiunga, in qualche modo, al pensiero di Gadamer, ad una filosofia per la quale tirare le file di quanto accade intorno a noi è importante per scoprire, più che il tessuto di cui è fatto il reale, la tela di ragno in cui siano impigliati ”(29).
4. Che cos’è l’acqua? L’innominabile attuale nella storicità del diritto. La crisi delle fonti.
L’eccezione come fatto duraturo
Alla luce di un discorso che comincia ad apparire in tutti i suoi molteplici orizzonti non può certo destare stupore se, per rimanere nel campo delle autorevoli testimonianze di quanti vivono ogni giorno nella prima linea operativa, un giurista di grande esperienza e di responsabilità come Pietro Curzio sia stato colpito da un aneddoto raccontato da Wallace, utilizzandolo per porre un interrogativo angosciante, non solo per i giuristi.
A due giovani pesci – ci racconta – viene chiesto da un pesce anziano che nuota in senso contrario come fosse l’acqua. I due giovani pesci nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e gli chiede: che cavolo è l’acqua?
Il senso di questo racconto – commenta Curzio (30) – è che le realtà più ovvie, onnipresenti ed importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere.
Il che è certamente vero. Quello che però a me colpisce del citato racconto, che pure sento essere presente nella stessa riflessione di Curzio, è un altro elemento, il quale per certi aspetti, riguarda l’ordine del tempo.
Tra i pesci giovani ed il pesce anziano quello che maggiormente rileva è lo scontro fra generazioni: il pesce anziano mostra di conoscere l’acqua mentre i pesci giovani non sanno più cosa sia.
I pesci più giovani hanno perso la consapevolezza dell’ambiente da loro abitato.
La distanza tra le generazioni è il risultato del divenire dell’essere, e del cambiamento. È la conseguenza del fatto che, come ben coglie la sensibilità del giurista appena citato, la vita è tale perché non può essere ridotta in categorie ed in elenchi, e pertanto non può essere tipizzata in soluzioni preconfezionate.
Di questo è corollario, da un lato, il ricorso ad una tecnica legislativa non più caratterizzata da fattispecie rigide e ben identificate dal legislatore ma a clausole generali o a norme elastiche. Dall’altro, il richiamo al pensiero di Gino Giugni ricordandone l’importante insegnamento ricevuto che invitava “a non studiare solo il diritto perché chi conosce solo il diritto non conosce il diritto”.
Stupendo paradosso dal quale non è facile uscire, e che, come un’ombra, accompagna la riflessione del giurista che nel suo conoscere e fare scienza, non può non interrogarsi su come fa il non diritto a diventare diritto.
Domanda che induce a non limitarsi alla filosofia ma ad allargare la fonte di conoscenza per approdare alla storia.
Storia che è “sapere”, nella misura in cui non ne perde il suo significato speculativo, e che si pone come modo di filosofare dal momento che si ha la consapevolezza che le filosofie, anche le più strane, si generarono e dettero voce a esigenze reali e risposero a precise richieste. Che chiarirono gli uomini a se stessi e le svincolarono da illusioni, e dettero ad essi ideali, e mezzi di convivenza e li aiutarono a foggiarsi più adeguati strumenti d’indagine e di lavoro (30 bis).
In questo senso è necessario entrare negli avvenimenti che popolano la storia, e dai quali emergono ora il prevalere di culture religiose, ora di culture politica, ora di culture economiche, ora di culture tecniche.
Ognuna delle quali si sviluppa imponendo una logica che ne ispira le reti di connessione e i loro intrecciarsi.
Uno storicismo che attraverso il sapere critico è sottoposto all’affascinante e tormentata arte dello sguardo con la quale “ogni età e ogni generazione mette i diritti alla prova” (31). E questo secondo conflitti dei quali il ricorso alla natura delle cose, alla natura dei fatti, alla natura degli eventi dimostra la tipologia dei cambiamenti espressa dalla discussione sulle fonti.
Un maestro come Paolo Grossi, così tralascia la ricerca di una definizione ontologica del diritto per seguire la comprensione della storicità nei suoi complessi processi che sono caratterizzati, da un lato, da perenni trasformazioni e, dall’altro, e allo stesso tempo, dal permanere di radici sotterranee.
Ogni giurista – afferma P.Grossi – ha un disperato bisogno di categorie ordinanti perché i dati nella loro analiticità atomistica sono muti; così come – affidando il suo pensiero ad una suggestiva immagine – le pietre ammucchiate dal manovale sono una realtà informe in attesa delle capacità cognitive ed intuitive dell’architetto che le trasformeranno in una costruzione.
Pertanto, se il diritto è storia vivente sarà la storia il laboratorio più idoneo all’ invenzione di categorie le quali debbono essere ordinanti, debbono essere capaci di ordinare il magma del reale, e lo potranno con efficacia solo se si misureranno su quanto quel magma pretende” ( 32).
Immagini significativamente allusive di una storia che racconta un arco temporale che, sempre nella riflessione del grande storico, cerca la sua” fertilità” nella dialettica moderno – post moderno.
Termine quest’ultimo che, pur definito “generica qualificazione”, assolve alla funzione di richiamare l’attenzione su quello che è considerato il tratto peculiare del difficile tempo che stiamo vivendo.
Tempo il cui segno, a suo dire, “è la transizione, il transito cioè da una sponda solida ma ormai inservibile, la modernità, verso un approdo altrettanto solido ma diverso, che non abbiamo ancora raggiunto” distanziandoci sempre più dal luogo dell’imbarco per diventare sempre più post moderni, o il che è lo stesso meno moderni.
Questo non vuol dire però che ci troviamo davanti ad una crisi del diritto. Ci troviamo davanti ad una crisi delle fonti che oggi si caratterizzano – ed è questo uno dei punti più ricorrenti del pensiero del citato autore- nel dover considerare strumenti spesso inservibili quei caratteri della legge che si sostanziavano nell’astrattezza, generalità e rigidità. Mentre al contrario ci offrono un indispensabile servizio fonti che esprimono il particolare ed il concreto e che sono dotate di una ormai necessaria elasticità (33).
Queste immagini e queste affermazioni meritano una considerazione.
Infatti il passaggio da una sponda ad un’altra, dalla modernità alla post modernità, assume un significato di straordinario rilievo che il richiamo al passaggio fra le due sponde forse non esplicita a sufficienza, mettendo paradossalmente in ombra la concretezza fattuale del suo divenire, che ne è la storia.
Problema questo, del divenire, che ha un fascino straordinario, e che consiste nel dare un nome al presente il quale, stretto tra il passato ed il futuro (come ci mostra Carlo Rovelli nell’opera prima citata) sembra sfuggire ad ogni definizione. Quasi a dire che il presente universalmente non esiste.
Difficoltà di cui è testimone la liquidità che lo stesso Paolo Grossi non sembra evitare quando risolve il problema richiamandosi al passaggio tra due sponde rispetto alle quali il passeggero appare senza un preciso confine che separi il più moderno dal meno moderno.
Significativamente un raffinato studioso, come Roberto Calasso, sembra tradurre questa equivalenza con un'altra immagine, anch’essa carica di implicazioni sistematiche.
Per chi vive in questo momento – ci dice – “la sensazione più precisa e più acuta è di non sapere ogni giorno dove sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee di sdoppiano, i tessuti si sfilacciano.
Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’innominabile attuale”.
Un mondo – secondo il citato autore- divenuto informe, grezzo e sempre più potente, e che, “elusivo in ogni singola parte” è l’opposto di quello che Hegel intendeva stringere nella morsa del concetto.
È “un mondo frantumato anche per gli scienziati. Non ha un suo stile e li usa tutti” (34).
Dare un “nome” che abbia un suo “profumo” e non rimanendo solo un nome, è quindi estremamente difficile. E non può non esserlo se all’origine ci troviamo davanti ad un paradosso, se è vero, come dice Cacciari che “ogni stato si configura secondo i suoi principi materiali e formali, come stato di eccezione; nessuno potrebbe mai ergersi a paradigma, pretendere di contenere l’inarrestabile farsi mondo (…).
Eccezione in quanto nella sua forma attuale, non dovrà mai ripresentarsi.
“Ciò che eternamente si ripete” – conclude il filosofo – “sarà l’eccezione stessa, ciò che eternamente dura è il continuo cambiamento” (35).
Non possiamo peraltro non rilevare che anche il cambiamento è concetto destinato inevitabilmente, quando la riflessione si fa più sofisticata, ad assumere significati diversi, e ad aprire così nuovi sentieri e nuove riflessioni costruttive.
5. È necessario tagliare la storia a pezzi? Dal cambiamento alla metamorfosi. I diversi ruoli e significati della natura e la necessità di una rifondazione assiologica
Un grande sociologo, quale è stato Ulrich Beck, ponendosi la domanda su quale fosse il significato degli eventi globali che scorrono davanti ai nostri occhi, si è detto costretto ad ammettere che “non c’era nulla – nessuna idea-teoria- in grado di esprimere in termini concettuali il tumulto di questo mondo, come richiedeva il filosofo tedesco Hegel” (36).
Questo tumulto – ci ha spiegato- non si può concettualizzare con le nozioni di cambiamento di cui dispone la sociologia, ossia in termini di evoluzione, rivoluzione o trasformazione.
Noi viviamo infatti in un mondo che non sta semplicemente cambiando, ma che è nel bel mezzo di una metamorfosi.
Cambiamento, precisa, significa che alcune cose mutano mentre altre rimangono uguali.
Metamorfosi, invece, implica una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo.
Con l’idea di metamorfosi si apre un nuovo campo di riflessione. Un campo nel quale si rappresenta lo “stato” di un mondo la cui conflittualità ad ogni livello frantuma e fa appassire ogni certezza. Che
peraltro non può non essere governata cercando sempre concetti ordinatori.
In questo senso la periodizzazione (moderno-post moderno) – altro non è se non un modo di padroneggiare il tempo terreno e come tale costituisce uno dei più affascianti temi di storia in quanto non è mai un atto neutro o innocente.
E non lo è perché non è un mero fatto cronologico ma esprime” l’idea di un passaggio”, di una svolta se non un vero e proprio disconoscimento nei confronti della società e dei valori del periodo precedente.
E per questo costituisce un oggetto di riflessione essenziale per lo storico.
La difficoltà di stabilire e di giustificare l’inizio di un periodo – considerando che, da un lato alcuni lunghi periodi sono stati caratterizzati da fasi di cambiamento importanti ma non fondamentali, e dall’altro, che si tratta di una operazione complessa e carica di soggettività relativamente alle diverse maniere di concepire le continuità, le fratture e i modi di pensare la memoria della storia – non è certo priva di dolori. Al punto da chiedersi se davvero è necessario tagliare la storia a pezzi.
Domanda che comprensibilmente si pone anche chi è convinto della sua importanza scientifica, almeno perché “grazie ad essa possiamo chiarire come si organizza e si evolve l’umanità nella durata e nel tempo” (37).
Anche se a ben vedere i chiarimenti della storia non bastano per capire le metamorfosi, se è vero che adesso rispetto ad esse – come ci ha indicato Beck – si deve fare un altro passo “si deve puntare lo sguardo su ciò che sta emergendo dal vecchio, (e) cercare di intravedere, nel tumulto del presente, le strutture e le norme future” (38).
A queste domande arriviamo forti di una consapevolezza, quella di non doverci fermare alle astratte definizioni ma di dover scendere sui fatti. E in questo senso far tesoro dei suggerimenti di Carlo Rovelli sul ruolo degli eventi, attraverso i quali ci è dato conoscere il mondo nel leggere l’evolversi del tempo.
Su questa linea mi sembra si muova anche Paolo Grossi quando, con riferimento al passaggio tra le due sponde, giunge ad una conclusione importante: quella secondo cui, è bene ripeterlo, siamo davanti ad una crisi delle fonti e degli strumenti giuridici che ne derivano (39).
Mi sono ripetuta su queste conclusioni perché da queste affermazioni dobbiamo ripartire per ricollegarsi, come fa il nostro storico, alle origini della frantumazione del sistema che oggi viviamo.
Durante il secolo XIV – racconta Grossi (40) – si sgretolavano i pilastri portanti e fondamentali che garantivano il benessere ; motivo per cui serpeggiava l’esigenza che si dovesse dar mano alla costruzione di una nuova civiltà maggiormente antropocentrica e maggiormente individualista.
Anche a livello politico, si aggiunge, quelle cerchie concentriche che, nel medioevo si descrive in comunità sempre più ampie che si risolvevano in organizzazioni a livello universale, cominciano a cedere ad un nuovo particolarismo e a un nuovo protagonista: lo Stato accentratore, e tendenzialmente nel suo territorio, onnicomprensivo.
Una civiltà che pertanto necessita di essere letta a livello antropologico.
In questa direzione si è mosso recentemente Rodotà, ribadendo che il diritto ha sempre contribuito alla creazione di antropologie e quando lo ha fatto ha conferito loro persistenze che andavano al di là della valenza originale.
Ogni grande operazione giuridica, prima che ancora questo ruolo fosse reso manifesto dalle carte costituzionali, ha disegnato, come ci viene ricordato, un modello di persona che non era mai la semplice registrazione di una natura umana, ma un gioco sapiente di pieni e di vuoti, di selezione di ciò che poteva trovare accoglienza nello spazio del diritto e quella che doveva restarne fuori, di ciò che poteva rientrare in quello spazio del diritto e di quello che doveva restarne fuori, di ciò che poteva rientrare in quello con i suoi connotati naturali e quello che esige una metamorfosi resa possibile proprio dall’artificio giuridico (41).
Problemi tutti oggi sollevati dal vivere e dal convivere l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo algoritmico in un divenire che fa apparire l’uomo antiquato aprendo le porte, con il post moderno al post umano.
E questo come conseguenza del diritto all’uso di tutte le opportunità che l’innovazione scientifica e tecnologica mette a disposizione delle persone.
L’interrogativo che queste libertà umane consentono ha inevitabilmente portato alla ribalta il problema di una rifondazione assiologica.
Per aprirsi alla sfida dell’era storica che stiamo vivendo,-osserva il filosofo con una riflessione nella quale si sente il respiro umano di una teologia cosmica aperta alle diverse culture storiche- gli attuali concetti di natura e di naturalezza devono rivestirsi di una semantica nuova diretta ad integrarsi in una dimensione interna, e non esterna all’uomo.
“Il concetto di natura è dilatato, ma più che in senso estensivo in senso comprensivo. Per connettere tutto ciò che circonda l’uomo ed è nell’uomo ed è da lui prodotto, che ne costituisce l’ambiente vitale e sociale, il tessuto ed il contesto ecologico, il micro e macro cosmo che gli sta dentro e attorno”.
In questo senso si riporta l’uomo come orizzonte ineludibile della riflessione filosofica, espressione di una “armonia pluricontestuale nelle sue dimensioni sociali e cosmiche” (42).
Vero è che la necessità della conclusione assiologica non può far sottovalutare la complessità di un problema dal quale non si può sfuggire. Problema che deriva dalla presa d’atto del modificarsi della forma di pensare e di volere. Volontà che costituisce, nelle sue forme umane e ora anche artificiali, uno dei temi più angoscianti del nostro tempo. Alla sponda indicata da Paolo Grossi arriviamo utilizzando lo strumento di una tecnica che sembra destinata a conoscere per l’uomo, a studiare le strategie per l’ uomo, ad agire per conto di soggetti non umani.
Lo ha descritto bene Natalino Irti: “Il cammino o la manipolazione del mondo, in che si fa consistere l’essenza o l’immagine della tecnica, abbraccia anche i rapporti fra volontà regolatrici e volontà regolate. Queste sono chiamate (quando riluttanti costrette) a prendere forma da quelle, a subirne il dominio, ad accogliere in se stesse il loro contenuto.
Il mondo esterno su cui cala e si dispiega la volontà di potenza, è composta da volontà umane, le quali si trovano così dinnanzi ad un’altra volontà, e possono soggiacervi o aprire la lotta e correre l’incognita del vincere o soccombere” (43).
6. Il logos si è fatto macchina. La ricerca dell’Umanesimo ai diversi confini della soggettività
Per dare la dimensione del problema si è ricorsi a parafrasare uno dei passaggi più significativi del vangelo di Giovanni, e a fermare che “il Verbo si è fatto macchina”.
Parafrasi con la quale Remo Bodei ci prospetta un mondo nel quale “lo spirito soffia anche nell’inorganico e la ragione e il linguaggio, oggettivati in forme di algoritmo, abitano in corpi non umani” (…).
Il pensiero umano, disincarnandosi, è emigrato nelle macchine e si è annidato in esse”.
L’individuo moderno del quale abbiamo visto celebrare la solitudine, “ora si congeda dall’illusione tolemaica di avere il monopolio della conoscenza” (44).
A questo punto viene facile, se non proprio naturale, spingersi ad immaginare l’evolversi genetico degli algoritmi, sino a considerare concreta la loro possibilità di cambiare le strutture del sistema, ed essere in grado di trascendere i fini che a questa forma di intelligenza assegnano gli umani, e di agire, di conseguenza, secondo una logica propria per noi diventata insondabile (45).
Una logica che porta a calarci, con Thomas Mann, nel profondo pozzo del passato per cercare di evitare che il diritto non sia più in grado di contribuire a dare la giusta misura alla costruzione e alla rappresentazione dell’identità, all’essere e all’apparire (46).
Per chiederci ancora una volta se l’aver considerato i diritti umani non appartenenti per natura all’uomo ma il frutto della storia che li ha salvati dalla sopraffazione non finisca ora, paradossalmente con il diventare il simbolo della sopraffazione dell’umanità. E a prendere atto che si è costruito un altro uomo che non è più soggetto di comunità.
È difficile non vedere in tutto questo un momento in cui la storia si curva oltre ogni immaginazione.
Come frenare questa corsa ed evitare quello che è stato definito un finale di partita, l’ultimo spasmo del tempo?
Un tempo del quale il processo di secolarizzazione, nel quale si confonde anche quello di progresso, costituisce una delle tante diverse anime che ne descrivono l’articolato dialogo con il potere (47).
Un dialogo con le categorie del tempo che ha portato Musil a constatare che la vita che ci circonda è priva di concetti ordinatori, e che ormai, dominato dall’incertezza, il mondo moderno è un labirinto dove l’uomo si smarrisce (48).
Nascosto nel profondo di “ un umanesimo notturno “ del quale, nella notte che lo avvolge, si racconta la storia di un paradosso di un umanesimo ormai antiumanesimo (49).
La dimensione e la profondità del problema – occasionata, come detto, dall’invasione pervasiva dell’intelligenza artificiale, dalla dittatura degli algoritmi che condizionano la conoscenza trasformando in informazioni dati apparentemente senza significato – inducono a proseguire nell’aforisma di Giovanni richiamato da Bodei ed interrogarsi se possa dirsi che l’uomo è stato fatto per il sabato e non viceversa. Come sin qua abbiamo creduto di pensare.
Dove ci condurrà tutto questo? Una cosa è certa, ed è preoccupante una nuova arma è ora a disposizione dei soggetti che non sono più l’uomo ma tutti i soggetti artificiali, dagli Stati alle società multinazionali, che chiamiamo “ grandi potenze”. Un ‘arma tale da rendere possibile la modifica dell’intero sistema dando forza ulteriore a chi ha già forza.
Tutto questo non poteva non sfuggire all’attenzione dello studioso e costringerlo ad interrogarsi se e come sia possibile governare questo armamentario.
Su questo tema ha riportato la sua attenzione Natalino Irti il quale, dopo aver intessuto un appassionato dialogo sul ruolo della tecnica con Severino (50), ha rivolto la sua attenzione alla riflessione autorevolissima di Benedetto XVI che, nel suo discorso berlinese, prendeva atto “ che l’uomo è in grado di distruggere il mondo; può manipolare se stesso; può, per così dire, creare esseri umani, ed escludere altri essere umani dall’essere umani (51).
E davanti a questo si era chiesto come trovare la legge della verità (52), con argomentazioni che dall’autorevole giurista sono state considerate l’estremo confine della soggettività (53).
Legge della verità che, nel pensiero di Benedetto XVI trovava nel rapporto fra natura e ragione le vere fonti del diritto, le quali rimandano al linguaggio dell’essere. La natura parla un linguaggio a cui la ragione deve aprirsi e prestare ascolto: il diritto naturale nasce, al di là di ogni richiamo teologico, da questa correlazione fra ragione e natura.
Questa conclusione è destinata a porre, come ha posto, una delicata domanda., sostituendo, come abbiamo visto fare da Heidegger, al che cosa? il chi? è deputato all’ascolto della natura, a rilevarne le indicazioni e tradurle in norme giuridiche? (55).
In questi termini il discorso torna al diritto al quale chiede se lo sviluppo della tecnica consenta ancora di parlare di umanesimo una volta che l’uomo abbia perso il monopolio della conoscenza e la volontà nel suo processo formativo nel quale si è identificato lo stesso diritto espressione del valore dell’identità del soggetto (56).
L’immensa costruzione della forza che sembra costituire il punto decisivo della storicità del diritto positivo se ne dimostra il momento di debolezza. Forza che davanti agli effetti cui si perviene la dura realtà degli ordinamenti positivi, insegnava infatti Capogrossi, è destinata a sparire: nel senso che il principio costitutivo dell’azione, brutalmente respinto dal concreto si trasforma in ideale che sopravvive indicando profeticamente il significato e la funzione del diritto, che si oppone al “al fatto compiuto” e contesta il potere politico restando fuori dalla tenda del sistema (57).
In questo senso può dirsi che l’ordine giuridico si realizza comunque nei movimenti della volontà, che la volontà è azione e che, l’azione sono i fatti che provocano gli eventi e i problemi.
Ancora una volta debbo rilevare che la volontà non è esperienza astratta ma dipende dai fatti che ha prodotto e dai problemi che questi hanno sollevato. Esattamente è stato detto che l’uomo ha costruito e tutt’ora costruisce il mondo e l’insieme degli oggetti che gli stanno attorno con la tecnica, e che in questo senso appartiene agli uomini. Mi chiedo se anche questa costruzione non sia, in maniera diversa, da quella di Benedetto XVI, una ulteriore forma di soggettivismo del quale cambia il linguaggio.
È lo stesso Irti a suggerirci che non si può più parlare di umanesimo in senso tradizionale ma di umanitarismo (58).
Inutile dire che la modificazione del linguaggio è di grande significato.
L’umanitarismo non è il surrogato moderno e aggiornato dell’umanesimo classico, ma piuttosto una forma di volontà che persegue scopi in accordo o in disaccordo con la tecnica secondo le direzioni espresse dalla volontà, e che tutto, legittimando così per altra via l’estremo confine della soggettività, dipende dalla volontà umana (59).
Vero è che la sua disincarnazione, il suo produrre fatti e generare interessi caratterizzati da logiche e finalità proprie a rompere l’astrattezza dei conflitti e degli strumenti. A indurre lo studioso a entrare nella complessità della frantumazione per cogliere le linee di sviluppo che danno un nuovo volto all’ordine giuridico in considerazione degli effetti diretti che producono, e di quelli collaterali che ne determinano l’evoluzione delle strutture stesse (60).
Con riferimento a queste osservazioni deve proseguire il nostro racconto nella concreta storicità dei suoi fatti.
In una storicità che peraltro costituisce l’enigma della vita nello spazio e nel tempo ma la cui soluzione, a seguire l’esercizio rigoroso della ragione verso la quale ci indirizza Wittgstein,” è fuori dello spazio e del tempo” (61).
Affascinante sfida ad ogni concetto di realtà.
7. Ordine giuridico come costruzione di istituzioni. Fenomeni globali e fenomeni mondiali. L’uso della legge e del mercato
Alla luce di quanto sin qui detto –, e ritornando al problema sollevato da Paolo Grossi circa la crisi non delle fonti, e relativamente al mutamento dei dati che caratterizzano la legge – ritengo che dette considerazioni, ancorché non ne discuta la verità, meritino di essere lette secondo una logica che ne espliciti il significato sia nella funzione che ad esse si chiede di svolgere, sia negli effetti strutturali che ne conseguono.
Ritengo infatti che detto problema debba essere colto nel contesto delle dinamiche che ne hanno ispirato, se non reso proprio necessario, le trasformazioni degli strumenti, rendendoli funzionali ai loro nuovi usi e ordinanti rispetto alle logiche dell’energie che si generano.
A chiarimento di questa prospettiva di analisi trovo illuminanti due diverse riflessioni di Ralf Dahrendorf che, riportate nella loro estrema sintesi, penso sia utile richiamare all’attenzione dello studioso in considerazione del loro carattere esplicativo di una realtà disarticolata della quale recupera il senso istituzionale.
Mi riferisco in primo luogo alla sua importante ricerca sul concetto di ordine nel suo stretto rapporto con quello di legge.
Ed è in questa sede che a chiusura di una riflessione- la quale ruota attorno al fenomeno di anomia, e che si confronta, solo per citare alcuni dei più grandi maestri, con Rousseau e con Hobbes, spaziando da Habermas a Rawls sino a Nozick – il citato autore pone l’accento sulla necessità di cercare quelle molteplici legature che saldano l’individuale con il collettivo e l’economico con il sociale e il politico, per dirci che “la risposta al problema legge-ordine possa riassumersi in due sole parole: costruire istituzioni” (62). Perché solo grazie ad un’opera consapevole di continua costruzione e ricostruzione delle istituzionali, possiamo sperare di proteggere la nostra libertà di fronte all’anomia.
Anomia considerato il luogo sulla terra più vicino all’inferno, e il cui percorso deve essere invertito in quanto è solamente caos, è soprattutto un vuoto che attrae le forze i poteri più brutali (63).
Ed è nel divenire delle istituzioni, nel loro contrapporsi o concatenarsi o svilupparsi che si recupera quella funzione ordinante (64) nella quale si sostanza la formazione di quei vettori dell’ordinamento ai quali Ascarelli affidava il fondamentale compito di essere la chiave di interpretazione della realtà, traducendone l’evolversi ed il disegnarsi di tipologie che ne riflettono la natura dei problemi e dei rischi (65).
E in quest’ottica che si sente il respiro istituzionale di Dahrendorf quando, con riferimento alle crisi finanziarie del 2009 (66), esamina il passaggio da un capitalismo di risparmio ad un capitalismo di debito e di azzardo, per distinguere ciò che è globale da ciò che è mondiale e vederne le conseguenze a livello normativo. E questo nel presupposto, che per molti aspetti si collega alle legature sopra richiamate, che le norme non solo vivono nelle istituzioni, ma “non nascono da una negoziazione libera e senza vincoli di tutti gli interessati. Esse richiedono una potenza di garanzia che sia in grado di sostenere i meccanismi sanzionatori (67).
E questa affermazione che dà alla norma un carattere istituzionale del quale, ad ogni fine valutativo e operativo, è bene avere consapevolezza.
La domanda che a tal fine quindi ci pone è se i fenomeni di crisi finanziaria provocate dal capitalismo di debito o di azzardo sono un fenomeno globale o mondiale e, se è possibile accertarne le differenze, quali ne sono le conseguenze.
Sono globali – secondo l’autore che pensa al problema climatico- solo quei problemi che riguardano tutte le persone della terra e che quindi possono essere dominate solo da un’ azione comune.
Solo mondiali, e proprio in ragione del loro impatto, le crisi finanziarie. I loro effetti sono osservabili in molte parti del mondo ma non sono identici, ed il loro superamento se può essere aiutato da un coordinamento, in realtà richiede soluzioni essenzialmente nazionali.
In questa prospettiva si introduce il concetto di potenza di garanzia che dà un senso alle norme e al sistema istituzionale che le lega. “Il mondo di Bretton Woods – ci spiega nell’opera appena citata - con la Banca Mondiale è il Fondo Monetario Internazionale (e almeno indirettamente anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio) erano comunque un mondo americano. Non era un architrave normativa globale, ma una regolamentazione a carattere mondiale garantita dagli Stati Uniti”.
Di questo è corollario che davanti ai fenomeni globali è necessario predisporre norme vincolanti per tutti pena il disastro globale.
La crisi finanziaria richiede invece un certo numero di misure strategiche, probabilmente soprattutto in alcuni paesi il cui effetto a catena di diffonde ad ampio raggio.
A chiarimento di questa logica, che lega le scelte strategiche delle Potenze garanti alla destrutturazione del sistema, è importante ricordare le diverse soluzioni adottate dai differenti Paesi per rispondere al problema provocato dalla crisi petrolifera del 1975 sulle loro bilance dei pagamenti.
Evento fondamentale per capire l’evoluzione della struttura del sistema verso la nuova forma di capitalismo finanziaria (68), i suoi riflessi istituzionali e le conseguenze su uno strumentario giuridico che affina le sue armi in funzione di una efficienza competitiva. Efficienza garantita dalla possibilità che viene data agli operatori protagonisti dei mercati di innovare i tradizionali istituti, resi liquidi e a disposizione dei diversi tipi dei competitori, che sempre in maggior numero entrano nel campo di gioco (69).
È un dato di fatto difficilmente contestabile, in quella che appare la nuova stagione del capitalismo, che non necessariamente le economie di mercato presuppongono società di mercato. Così come non può prendersi atto che alcune delle economie capitalistiche di maggior successo hanno operato in condizioni sociali autoritarie. Che nessuna società storica presenta i tratti della crescita solo ad iniziativa di mercato. Che per quanto attiene al delicatissimo punto strutturale dell’intervento dello Stato nell’economie quello che conta – come si è detto di recente- non è la sua quantità bensì in che modo e con quali fini questo viene applicato (70).
Il paradosso del sistema capitalistico – ci ripete con autorevole schiettezza Guido Rossi è diventato così quello di una economia soffocata da un numero pressoché inimmaginario di norme legislative, ma in realtà governato da regole che i principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della libertà contrattuale. E la prima vittima di questo paradosso è il cuore stesso del sistema: il mercato.
Ed è così che alle regole del gioco si sostituisce il gioco delle regole (71).
8. I grandi spazi e le zone di influenza come strumento conoscitivo
Il discorso sin qui fatto (caratterizzato, ed è questa una delle più forte sollecitazioni che mi vengono da Steinberg, da un continuo domandarsi i cui effetti sono il crearsi di una seria infinita di orizzonti, che si intrecciano a diversi piani conoscitivi) ci porta a collocare il problema sul quale riflettiamo non seguendo la logica dettata da astratti principi generali, dei quali pur si deve tenere conto, ma in una prospettiva di concreti eventi che portano alla ribalta sempre nuovi fatti, della più svariata natura.
Una prospettiva che, senza essere prigioniera di una agenda imposta da un assillante contingente (che peraltro sarebbe sbagliato ignorare), è diretta a misurarsi e confrontarsi con quelle grandi tendenze che hanno tracciato i solchi più profondi della nostra esperienza storica. Che le hanno disegnate adattandole, di volta in volta alla luce delle trasformazioni sociali e tecniche, ai problemi che si imponevano all’attenzione, e modellato gli strumenti ereditati dal passato a nuove finalità.
Laddove il nuovo – e penso a quanto volte si è fatto riferimento nella nostra cultura ad un ordine nuovo – vive l’ambiguità di un momento nel quale convivono continuità e frattura.
In questo senso il racconto si sostanzia in una descrizione di fratture che, hanno dato vita a strumenti, ognuno dei quali sprigiona la dinamica che è racchiusa in essi. Dinamiche che sollecitano nuove aggregazioni seguendo le spinte che vengono dalle dimensioni territoriali dei soggetti che occupano la scena politica, e dalle utilizzazioni che consentono le continue invenzioni tecnologiche.
Soffermiamoci per un momento su queste considerazioni.
Si è partiti dall’idea del tutto ovvia, che per intervenire sugli eventi – mi astengo dall’usare il termine realtà che, come è noto, non è di facile individuazione -, bisogna comprenderne la natura, la portata e gli effetti.
Comprenderle vuol dire munirsi di strumenti concettuali capaci di affrontare i problemi in modo efficace, osservandoli come istituzioni e strumenti di cui noi ci dotiamo per realizzare un preciso obbiettivo.
Espressione che ci riporta – e oggi che siamo lontani da un passato che ci condizionava ideologicamente possiamo essere più liberi nei nostri giudizi – alla contestata riflessione di Carl Schmitt che lo ha portato ad osservare i fenomeni dall’angolatura dei “grandi spazi”, che ne sono il fatto.
Una teoria che -coniugando il suo farsi come scienza ad una visione teologica della politica, ed allora del potere nella sua funzione di espansione territoriale come nomos, prendendo realisticamente atto che i singoli Stati non sono più in grado di garantire l’ordine mondiale - auspica una divisione del mondo in zone di influenza controllate dalle grandi potenze, in un rapporto amico- nemico (72).
Fenomeno al quale ci è dato di assistere, anche dopo la fine dei due blocchi politici ed economici che si confrontavano, e che oggi vediamo popolato da Stati continenti, non ultime le c.d. tigri asiatiche che si fronteggiano quali protagonisti di un conflitto di civiltà, allargando le zone di influenza ai modelli istituzionali che se ne fanno portatori.
È naturale chiedersi se e quanto quello dei grandi spazi non possa e non debba essere uno strumento di conoscenza sul quale tornare a riflettere.
Anche perché, in questo spirito mi viene da domandare se in questa logica di governo delle grandi dimensioni e dei grandi spazi si possa veder congiungersi il Dante- giudice di Steinberg ( in quanto fautore di un sistema giuridico che è creazione di norme, di strumenti e di istituzioni con il Dante profeta di Cacciari che affronta il problema del potere riflettendo “sulle due città” e sui “due soli” che convivono all’interno del grande spazio dell’impero e che per questo si proietta, attraverso le norme e i principi elaborati, verso la creazione di Istituzioni) (73).
Istituzioni che, teniamolo ben presente, riflettono i problemi e gli interrogativi di un tempo storico.
Un Dante profeta che pensa cristianamente ad un impero, totalmente secolarizzato.
“Solo una chiesa che confessando apertamente di non essere la città di Dio rinunci ad ogni potere terreno, potrà essere ascoltata e valere nel secolo. Solo un impero che rigetti ogni compromesso con la Chiesa sulla gestione del potere politico, avrà il dovere di riconoscerne la paternitas e aiuterà in uno, la Chiesa a ritrovare sé stessa.
Due Soli, allora, che “tanto più provvidenzialmente insieme, guidano la nostra natura ferita quanto più autonoma e inconfondibile brilla la luce di ciascuno” (74).
In Dante si afferma la legge, e al suo interno si svolgono i problemi dell’unità che va salvaguardata e dell’autonomia che va perseguita.
Problemi questi tipici della costruzione di Istituzioni.
9. Dall’anomia all’atopia. Il ruolo e il significato geopolitico del “territorio”. Verso una nuova definizione di effettività
L’aver assunto a nostro punto di riferimento l’ordine del tempo è stato importante per far emergere
non solo la molteplicità di percorsi che l’esperienza ha costruito, ma anche l’orizzonte, o gli orizzonti nei quali gli eventi si collocano ; e a mettere in risalto come gli orizzonti si compenetrano, e come e perché – dando rilievo ad un aspetto o ad un altro- i percorsi si arrestano, o cambiano direzione, o formano intricati ingorghi.
È molto difficile, riconosce Guido Rossi che il diritto segua un andamento armonico aggiungendo che “In molti casi ha una genesi sporca e, nella sua vita utile, affronta aporie che ne rendono quantomeno opinabile la presunta purezza” ( 75).
Il richiamo che in questa prospettiva viene fatto allo storico e suggestivo tema delle lacune è di grande importanza teorica, e non meno che pratica. Al punto da costituire – sempre secondo il citato autore – la cartina di tornasole per tutte le teorie giuridiche, il cui percorso ci porta a scoprire come da un certo momento in poi le norme, sempre più elastiche e sempre più vaghe, non coprono più alcuna fattispecie e perciò devono essere abbandonate, modificate, riscritte.
Momento in cui seguendo quel pragmatismo che ha caratterizzato il pensiero di Keynes il quale consigliava di riaprire il libro della saggezza, le cui teorie diventano di giorno in giorno meno vere, e cercare una nuova saggezza, non facendosi impaurire dal ricorso a quelli che il grande studioso chiamava espedienti, che forse meglio di ogni altra cosa ci consentono di risolvere i problemi (76).
Ed è inoltrandosi in questi percorsi, talvolta imprevedibili, che possiamo scoprire le loro deviazioni attraverso i grandi della letteratura che, con grande efficacia speculativa – e Guido Rossi nell’opera citata ce ne sottopone un vasto campionario- si sono interessati al complesso problema della frantumazione e della composizione raccontando con suggestive immagini “come gli accidenti di carattere psicologico, sociale e politico influenzino il giudizio molto più dei fatti puri, inoppugnabili, assoluti.” Fatti dei quali pertanto, non si può neanche parlare (77).
Un ruolo che peraltro non si limita al pur fondamentale esame dei fatti, ma assurge a livello di sistema, traducendoli in visioni istituzionali.
Di questo è esempio il significato che Emanuele Severino ha attribuito all’opera di Leopardi.
Opera la cui grandezza è motivata ai suoi occhi dall’aver pensato, mezzo secolo prima di Nietzsche, che per vivere si deve vincere la verità; rovesciando così in termini netti e consapevoli il modo di intendere quel rapporto fra verità e vita sino ad allora seguito dalla grande tradizione filosofica.
Ed è per questo che – a giudizio di Severino- si deve incominciare a riconoscere che la grandezza del pensiero filosofico di Leopardi sta molto più in alto di quanto si sia comunemente disposti ad ammettere.
Infatti il Leopardi che “ sta alla svolta che conduce fuori dalla tradizione della nostra civiltà non si limita ad osservare il curvarsi della strada: appartiene a coloro che producono la curvatura. E vede già la strada – percorsa nel 900 da Wittgenstein – della filosofia come terapia contro la filosofia. Ma la vede sbarrata (78).
Anche in questo senso, quello di osservare e di partecipare alle curvature della storia, che collegherei la grandezza di Dante- giudice – che Steinberg oggi ci propone, al quadro suggestivamente descritto da Cacciari sulla figura del fiorentino.
Quella di un Dante caratterizzato da una poesia sapiente e filosofica, una poesia divina che anticipa
per molti aspetti i nodi filosofici affrontati dall’umanesimo, anch’esso epoca di crisi ; anch’esso passaggio d’epoca segnato da catastrofici avvenimenti (79).
Una poesia il cui linguaggio straordinario viene posto, come per Leopardi, al centro di una curvatura che investe la geografia giuridica costruendo in una prospettiva istituzionale nuova quei confini che normativamente segnano i limiti del potere. Distinguendone le diverse tipologie e indicandone la legittimità dell’uso e l’illegalità dell’abuso.
Un linguaggio volgare anticipatore del mutamento dei valori – ed è appena il caso di ricordare che lo stesso Ascarelli definirà come volgare, contrapponendolo ad un antico latino, l’affacciarsi nella nostra realtà del linguaggio economico (80) – il quale peraltro tende, nei suoi sviluppi più recenti a far perdere alle stesse parole che usa “il loro significato.”
Linguaggio normativo – afferma Guido Rossi- che può, paradossalmente diventare il motore della disgregazione (81).
Di questo mi sembra essere esempio significativo la discussione su uno dei principi cardine della nostra cultura giuridica, quello della legalità.
Principio al quale ci rivolgiamo quasi quotidianamente, ma che da molti autorevoli studiosi è considerato “ una sorta di contenitore vuoto suscettibile di subire profonde differenziazioni “ ( 82).
Con quanto questa affermazione comporta sia in ordine alla sua funzione nell’identificazione del c.d. Stato di diritto, sia nella prospettiva del soggetto che, abilitato a riempire di contenuti il contenitore, diventa legislatore, sia con riguardo alla formulazione della fattispecie sempre più indefinita e carica di ambiguità descrittive.
Problemi di non poco conto sistematico se ad essi si aggiungere che la disgregazione da noi vissuta ha una significativa particolarità.
“Se fino ad ora – e sempre Guido Rossi che ci parla- alla nascita di una situazione economica nuova si accompagnava quella di un nuovo diritto, ora accade esattamente il contrario: alla distruzione dell’ordine preesistente sembra non far seguito nulla “ (83).
Particolarità che assurge a livello filosofico – istituzionale quando induce Cacciari ad definirla come nuovo Nomos, e a considerare l’anomia come un nuovo ordine. Un Ordine che non è però il Nomos del mondo, ma la cui “ norma giuridica dovrà adeguarsi a quel centaurico giusnaturalismo artificiale, al quale ci si riferisce quando si invocano le leggi delle economia e del mercato” (84). Che sono poi anche le leggi della tecnica che guida l’economia e sostituisce la politica.
Politiche e diritto che, nella visione di Natalino Irti, restano chiusi entro il territorio dello Stato o delle Unioni di Stati, mentre quelle che definisce le potenze del quadrilatero – (scienza, tecnica, economia, mercati) – si trovano dovunque (….). Atopici e perciò non suscettibili di avere casa e dimora sulla terra. Dal fatto che queste potenze si agitano e lottano in spazi privi di diritto, si trae il corollario che “l’atopia si congiungerebbe all’anomia e anzi la genererebbe per intima e logica necessità” (85).
Quello che questa riflessione ci lascia – a dire del suo stesso autore – “sembra un caos selvaggio, un disordine infinito e illimitato” (86).
Si arriva così a dipingere un quadro nel quale la competenza politica non ha più senso e deve cedere il passo a quella degli esperti. Il Diritto, cioè le procedure di produzione legislativa diventano vecchie e stanche forme di cui si vestono le decisioni dei competenti.
Le potenze della tecnoeconomie hanno una pretesa globale che non permetterebbero la formazione di regioni autonome separate, rendendo improbabile che il pianeta si divida nei due o nei più grandi spazi teorizzati da Carl Schmitt.
Tutto questo lascia un punto interrogativo che lo stesso giurista sopra citato a sollevare. Alla prospettazione che sancisce la morte del vecchio diritto si può opporre che “nulla può escludere che quelle potenze si compongano fra di esse, e abbandonino noi inermi ed impotenti nelle vecchie dimore degli Stati” (87).
L’interrogativo che così si pone dall’aver legato anomia e atopia merita una riflessione.
Una riflessione che si chieda che cosa legittima la pretesa delle grandi potenze tecnoeconomiche, dalle quali non penso debbano essere esclusi gli Stati e le imprese che si muovono nei grandi spazi.
Per rispondere a questo interrogativo ci dà gli strumenti Sabino Cassese, quando indaga sulla rivincita dei territori che oggi, con le loro aperture e chiusure agli strumenti economici e finanziari e all’ingresso dei capitali, caratterizza il nuovo essere della realtà economica e politica.
Grandioso è il compito che, dice Cassese (88) aspetta la scienza giuridica: quello di pensare e riconcettualizzare ancora una volta lo Stato alla luce delle trasformazioni che ne hanno suggerito ed imposto nuovi ruoli e nuovi strumenti.
Anche e soprattutto con riferimento all’attività svolta dalle singole imprese, dei privati e dello Stato, che assurte a dimensioni di attività globale operano modifiche dell’economia nello sviluppo e nella crescente interdipendenza.
In questo senso si è parlato di Politica oltre lo Stato e, ora di sovranità oltre lo Stato (89).
Ma penso che l’oltre altro non sia se non un modo diverso di essere dello Stato, e non uno spazio vuoto di diritto. Un modo di essere reso necessario dall’incessante imperativo che spinge alla produzione, alla ricerca di mercati, alla ricerca di risorse, alla formazione di strumenti che innovino per realizzare l’efficienza competitiva. Un modo di essere che ha dato un diverso volto alla centralità della sovranità estera come riflesso del sempre più esteso panorama di integrazione economica e di frantumazione dell’organizzazione dell’attività produttiva.
La cassetta degli attrezzi si è arricchita di nuovi e potenti strumenti – e in questo senso sarebbe utile ripensare ad una teoria del contratto aperta a nuove dimensione- del quale di può fare un uso in ogni direzione non facilmente controllabile.
Dobbiamo forse pensare che queste realtà, almeno per chi guarda le istituzioni con approccio evolutivo, altro non siano che i cocci di antiche costruzioni della scienza del diritto, e che quella che chiamiamo multilateral global governance sia solo una vuota formuletta? O non invece che il pluralismo giuridico al quale tanti si richiamano non sia altro se non un modo di porsi il problema dell’effettività a livello di strutture globali in funzione della geo politica.
Vero è che tradurre la geopolitica in geo diritto è tutt’altro che agevole; ancorché sia forte l’esigenza che spinge la riflessione a non scivolare in una deriva anarchica.
Sullo sfondo di ogni costruzione aleggia una aspettativa neovestfaliana.
Un’aspettativa nella quale si mettono a confronto, rendendo qualsiasi discorso sempre più complesso, una miriadi di organizzazioni difficilmente qualificabili come sovrane, molte ad iniziativa assolutamente private, ma comunque agenti ed influenti sulla scena politica mondiali (…).
L’azione globale si presenta come uno schema complesso di interazione tra attori misti, e ai soggetti tradizionali se ne aggiungono altri, ugualmente o maggiormente potenti, portatori di interessi diversi (90).
Interessi che costituiscono la sfida alla normatività oggi delineata da molteplici livelli di effettività e di organizzazione. Interessi volti alla ricerca di un ordine costituzionale che deve sfuggire alle difficoltà di uscire dai contrasti delle conflittuali positività.
Una normatività il cui punto di riferimento sembra perciò essere quell’effettività dalla quale desume
il suo organizzarsi su molteplici piani il limite di effettività del diritto – si è detto – oggi è malleabile, poroso, impregnato di prassi fattuali che non possono essere considerate veramente attuazioni della norma, ma solo adattamento, compromesso della sua forma (91).
Una Effettività che per riprendere un’ immagine di Cacciari non ha un centro ma può averne molteplici, ciascuno magari dotato di una sua legittimità e di una sua legalità.
Ciascuno partecipe di una logica di sviluppo e di trasformazione secondo un regime di eccezione che è incessante e, allo stesso tempo circoscritto. Mi riferisco all’immagine di arcipelago che, secondo il filosofo, è la possibile forma di un nuovo ordine nel quale è la pluralità degli elementi che lo compongono a sollecitare, come essenziale momento di comprensione e di conoscenza, lo studio delle reti di connessioni che i bisogni e gli interessi impongono.
“Nello spazio mobile e cangiante del coordinarsi e del coabitare – dice Cacciari con riferimento alla costruzione europea ma che ritengo ben possa essere adattato a diverse e più vaste esperienze- le singolarità dell’Arcipelago si appartengano l’un l’altra perché nessuna in sé dispone del proprio centro, perché il centro non è in verità che quell’impeto che obbliga ciascuna a trascendere navigando una verso l’altra e tutte verso la patria assente” (92). Che è il senso dei sentieri che le necessità e l’interesse al dialogo tracciano, e sul quale ci hanno portato gli eventi della Storia, lasciandoci tante domande.
10. Dal gioco delle regole al quasi costituzionale. La gomena di Bodei e la “responsabilità” del nostro tempo
In questa prospettiva appare chiaro, ed il discorso di Steinberg ne è una conferma, che la direzione della riflessione non può prescindere, a dispetto delle frantumazioni, da una ricerca che recuperi l’esperienza geopolitica nei suoi diversi riflessi.
Ponendoci il problema del diritto – non spazio siano entrati in una prospettiva di riflessione sull’interdipendenza planetaria che propone un diverso modo di essere del territorio.
E questo, secondo una dimensione che mette al centro dei suoi interrogativi, in modo inusitato il tema del diritto effettivo, del diritto reale, dei fatti- evento e dei fatti compiuti.
Territori nei quali si svolge quella interdipendenza della quale non conosciamo i confini ma della quale cogliamo il determinarsi di effetti che producono una catena che lega gli interessi.
Una forma nella quale disseminate sovranità riflettono disseminati interessi dai quali emergono conflitti che dobbiamo conoscere per dissodare il terreno di una effettività geopolitica (93).
Non discutiamo solo del potere attraverso i poteri, né della sovranità attraverso le sovranità.
Discutiamo sullo sfondo dantesco delle due città che si rinnovano e dei due soli che li illuminano sotto un solo cielo.
Discutiamo delle potenze che oggi si configurano secondo una nuova geografia territoriale; ognuna portatrice di una sua legittimità, di un ordine di valore, di un modello di comunità.
L’Occidente che ha percorso un cammino di secolarizzazione e di indebolimento dello Stato fondato sulla democrazia, è minoranza in un mondo nel quale la teocrazia ha riacquistato peso politico ed economico, in un mondo in cui un nuovo Stato forte che viene dall’Oriente è strutturato per affermare ed imporre la supremazia di una civiltà forte di una cultura millenaria.
Potenze senza diritto internazionale che ne stabilisca e governi l’equilibrio, ma che si incontrano nel terreno del mercato del quale ognuno usa il potere ai propri fini anche attraverso le imprese che ne sono gli strumenti di penetrazione, ed impongono fatti che mettono in discussione i diritti storicamente conquistati affermando ora la legalità economica ora il potere politico.
A livello globale si fronteggiano Stati, Mercati e Imprese, con quelle imperfezioni di cui ci ha parlato Keynes, e nelle quali solo “apparentemente ” troviamo l’anomia - l’atopia.
Apparentemente nel senso che troviamo quello che Guido Rossi ha chiamato, il gioco delle regole e che si sostituisce alle regole del gioco. Ma che è pur sempre una regola da penetrare nella sua logica.
Un gioco la cui posta in palio è altissima. Dobbiamo affrontare il problema dell’uso delle regole, rendendo visibile questa forma di invisibile.
Una rete invisibile che congiunge quanto ha frantumato. È stata frantumata l’organizzazione di impresa nel suo profilo produttivo attraverso la moltiplicazione dei soggetti e la loro delocalizzazione nella ricerca di una efficienza che ne favorisca la competitività a condizione inevitabile del rischio che comporta. Una frantumazione dell’attività che si riflette nella teoria degli atti e dei fatti incidendo su diversi ordinamenti che ne determinano le convenienze e i rischi del “gioco”.
Elementi tutti che tanto più sono efficaci quanto più diventa irraggiungibile l’abuso ed il controllo degli effetti collaterali anch’essi parte del gioco.
Vero è che anche la frantumazione è, come tutti gli altri strumenti che conosciamo, keinesianamente incompleto. Uno dei suoi effetti è l’integrazione e l’interdipendenza economica che rende tutti partecipi, in maggiore o minore misura del risultato finale.
Siamo in quella che Ulrick Beck ha chiamato la società del rischio.
La catena dell’impresa con i suoi anelli ha determinato un rischio che può essere incontrollabile e che finisce per creare una rete che salda, secondo nuove logiche, quanto aveva frantumato e che apre ad una riflessione sull’essere coinvolti da un interesse comune dal quale nessuno può più prescindere.
Ed è in questa direzione che mi piace cogliere il senso o un senso dell’affermazione di Zagrebelsky secondo cui “non sono i maestri a cercare i discepoli, ma i discepoli a scovare i maestri” (94); perché come Umberto Eco ha lucidamente preconizzato “forse nell’ombra già si aggirano i giganti che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi nani” (95).
Noi nani che avezzi ad affrontare i problemi attorno ai quali viviamo, e la coerenza degli strumenti ad essi idonei, non possiamo non essere colpiti – o almeno io lo sono particolarmente da quello che mi sembra essere uno dei motivi di maggiore interesse del pensiero di Dante che Steinberg ci trasmette che non è tanto l’uso dell’eccezione o il richiamo alla legalità o alla legittimità.
Del Dante – giudice – creatore mi colpisce il tipo di giuridicità che trasmette.
Mi riferisco a quella vagheggiata Atene celestiale a quel quasi costituzionale che, sostituendosi al “sacro” ne ispira il sistema giuridico traducendone contro l’assolutismo quell’umanesimo del quale esprime la nuova voce che si alza dalla società. Categoria non sconosciuta, che cerca nella realtà dei fatti il formarsi del respiro del diritto.
Come non ricordare che nel 1956 Ascarelli metteva al centro della sua riflessione sulla realtà giuridica la disciplina privatistica delle società per azioni dicendo che la stessa “ può un po’ considerarsi come il diritto costituzionale dell’economia attenendo alla struttura giuridica più importante e caratteristiche dell’economia attuale (96).
Quel quasi che, come l’esperienza giuridica romana ci ha insegnato, è uno dei motori della storia del diritto che lega i fatti alle norme e agli istituti per trasferirlo così nella costruzione delle istituzioni e ritornare in questo modo alla legge ed al governo dei fatti.
Quasi costituzionale che è un modo per parlare dell’uomo e dei diritti umani.
Un umanesimo che si svolge nell’orizzonte di quegli eventi, quale è l’intelligenza artificiale, che hanno reso l’umanità artefice della creazione.
E allora, ad ogni livello, responsabile della stessa.
Un modo per aprire le porte del diritto alla grandezza dell’utopia, al novum che dobbiamo far crescere e custodire. Magari pensando di poter far irrompere “il vento che ci viene dall’avvenire”, il deus adveniens di Cacciari (97) quale umanesimo globale in quella “speciale dimensione metafisica” ipotizzata da Levon Zekiyan (98).
Ed è in questo senso che collegando la riflessione sul miracolo all’idea di quasi costituzione Steinberg sembra cogliere l’incancellabile bisogno che, unendo il relativo all’assoluto, viene dalla base della comunità nella sua ansia di valori costituzionali.
Il post moderno cui tanti studiosi oggi si richiamano, non significa necessariamente post umano.
Ed è a tal fine che, come suggerisce la grande sensibilità di Remo Bodei (99) dobbiamo pensare ad una” “nuova meditazione” che abbia come oggetto una “ gomena composta dall’annodamento di molti fili costituiti dai rapporti dell’io con noi e con gli altri”.
Confidando non solo sul fatto che la storia è astuta ma anche sulla saggezza che ci trasmette Seneca quando ci ricorda “(100) quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante che erano aspettate, non sono avvenute”.
Ma meditare sulla gomena, che sarà tanto più robusta quanti più fili si sarà riusciti a intrecciare e quanto meglio si sarà riusciti ad annodarli, non è forse un modo per meditare sulla legge nei suoi tanti volti? o sul diritto? O sul loro cammino, che è quello della conoscenza nelle sue molte forme e dell’uso che di essa ne viene fatto?
Quell’uso che implica una scelta la quale discende dalla consapevolezza che la lega indissolubilmente alla responsabilità, considerata come lo strumento che accompagna e legittima il potere, a qualunque livello. Seguire il cammino della responsabilità ci aiuta quindi a conoscere in profondità il potere, e affina le nostre antenne per accorgersi se disponiamo di strumenti capaci di evitarne gli abusi.
Se questo cammino diventa un labirinto, come sempre più ci è dato di constatare, ogni forma di controllo sarà impossibile.
La responsabilità sembra esistere, ma non la si può raggiungere. Siamo alla anomia invisibile? Il terribile angelo di Rilke che ispira la sua invisibilità la protegge dai miracoli di ogni normativizzazione, di quasi costituzionalizzazione che aveva immaginato di poter fare il Dante di Steinberg.
Ad ogni tempo è stata data in sorte la responsabilità di costruire la propria gomena e a questa responsabilità nessuno può sottrarsi. Ciascuno di noi è l’artista che concorre a modellare l’opera con la quale affrontiamo le tempeste.
11. Quasi una conclusione. Le domande rimbalzano di continuo
Racconta Senofonte nei Memorabili (1,2, 40- 46) che un giovanissimo Alcibiade abbia chiesto a Pericle, l’indiscusso principe della democrazia, “che cos’è la legge ?”.
Alla fine di sempre più incalzanti e più stringenti interrogativi Pericle avrebbe detto: “certo Alcibiade, anche io, quando avevo la tua età ero bravissimo in questo genere di discussione: facevo pratica di arte sofistica a questi stessi temi ai quali, a quanto vedo, tu ti applichi. E Alcibiade: “magari ti avessi conosciuto allora Pericle, quando su questi temi superavi te stesso”.
Curzio che oggi si chiede a nome di tutti “che cos’è “l’acqua” è Alcibiade o Pericle? O forse da quasi saggio è tutti e due.
La vera risposta – come si è detto – è sempre nella domanda successiva, e bisogna svelare quanto segretamente custodisce.
Il discorso pertanto non può chiudersi e non vuole chiudersi.
Mi preme ricordare che il grande tragico Eschilo ne Le Eumenidi aveva dato voce alla stessa Athena per metterci in guardia contro i “torbidi vortici” che inquinano le leggi, e sentenziava che “chi contamina con il fango l’acqua lucente non ne potrà più bere.”
Che cosa stiamo bevendo?
Chi ha trasformato l’acqua diventando arbitro dell’evoluzione della vita?
A cosa pensi tu cittadino del mondo che sogni la dignità dell’uomo?
A cosa pensi tu legislatore che sogni la saggezza?
A cosa pensi tu, come me, che sei chiamato a giudicare e sogni la giustizia?
Non so se questi interrogativi corrispondano all’esercizio spirituale meditativo vagheggiato da Bodei.
Sono consapevole che con essi ho fatto rimbalzare le domande, ma esse, nel loro protendersi all’infinito partecipano di quel gioco del dialogo con il quale si tesse la tela della sapienza.
E se fosse questo quello che Steinberg si aspettava dal lettore?
*Consigliere della Corte di Cassazione
Note:
1. J Steinberg, Dante e l’eccezione in questa Rivista;
2. J Steinberg, I miracoli costituzionali di Dante (Monarchia 2.4 and Inferno 8.9) in questa Rivista;
3. Così per Paolo Grossi (op. cit.,loc. cit.) la fine della modernità non significa ritorno all’esperienza medievale dalla quale la modernità è nata. In proposito P. Grossi, Il Diritto in una società che cambia. A colloquio con Orlando Rosselli, Bologna, 2018 pag. 55 arrivando ad identificare la storicità con la carnalità e l’esserci di Heidegger. In questo quadro ritengo utile richiamare la recente recensione di Mario Serio all’ultimo saggio di Paolo Grossi – in questa Rivista – Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi, Grossi e Timoteo, sempre recensito da M. Serio su questa Rivista – Ancora oggi “history involves comparison” e viceversa. Marina Timoteo in dialogo con Paolo Grossi in “Grammatiche del diritto” ;
4. Sull’unità del tutto si veda N.Irti, L’uso giuridico della natura, Roma-Bari 2013, pag. 5; ed ivi un significativo richiamo al pensiero di Cassirer e sulla sua ansia, esule dalla Germania per l’avvenire, pag. 7;
5. Sui diversi percorsi di questi temi si vedano le approfondite riflessioni di M Cacciari – N.Irti, Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano, 2019;
6. Sul punto si vedano le stimolanti riflessioni di M.Cacciari-P.Prodi, Occidente senza utopia, Bologna, 2016;
7. La prospettiva che riguarda il futuro è esaminata da S.Cassese, Una volta il futuro era migliore, Solferino, Milano, 2021;
8. M. Cacciari, Il potere che frena, Milano, 2013, pag 126;
9. La dimensione del problema è colta da M. Heidegger che, nella sua conferenza del 1924 affronta la domanda sul tempo che sarà poi sviluppata Essere Tempo del 1927 avendo cura di avvertire che la sua trattazione non è teologica né filosofica. E non è filosofica “nella misura in cui non pretende di offrire una visione sistematica del tempo universalmente valida, la quale dovrebbe tornare ad interrogarci su quanto sta dietro al tempo e sulla sua connessione con le altre categorie” (Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1989,pag 24);
10. “Il crescere della nostra conoscenza ha portato ad un lento sfaldarsi della nozione di tempo. Ma nel mondo senza tempo, nel quale le cose “accadono” ed è popolato da avvenimenti discordanti, deve comunque esserci qualcosa che dia poi origine al tempo che noi conosciamo, con il suo ordine, il passato diverso dal futuro, il dolce fluire. Il nostro tempo deve in qualche modo emergere intorno a noi per noi.” Così C.Rovelli, L’ordine del tempo, Milano, 2017,pag 16;
11. Sino a diventare, attraverso la tragedia l’alfabeto con il quale si sarebbe scritto in tutte le lingue e in tutte le epoche il conflitto fra coscienza individuale e ragione di Stato tra la legge morale e la legge positiva, tra la legge ancestrale e la legge della città, tra verità e giustizia. Così le profonde riflessioni di M. Cartabia, Edipo re, in M. Cartabia – L.Violante, Giustizia e Mito, Bologna, 2018, pag. 29 e ss;
12. È interessante rilevare come proprio nella sopra citata riflessione sul tempo Heidegger abbia osservato che “se si insiste a chiedere cos’è il tempo, non bisogna aggrapparsi affrettatamente ad una risposta (il tempo è questo e quell’altro) che dice sempre un “che cosa”. Ed è in quest’ottica ci dà un esempio come attraverso una analisi la domanda si trasformi e nel nostro caso diventi “chi è il tempo?” (Id Il concetto di tempo, citato pag. 50);
13. U. Galimberti, Il segreto della domanda, Milano, 2011, pag. 13 e seg.;
14. G.Rossi Riforma dell’impresa o riforma dello Stato ? in Riv. soc., 1976, pag 451;
15. L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, pag. 3 e seg.;
16. Anche su questo tema è utile meditare sulle diverse letture che ne fanno M. Cacciari - N. Irti, Elogio del diritto, op. cit.;
17. G. Zagrebelsky, il Diritto di Antigone e la legge di Creonte, in AA.V.V,, La legge sovrana, Milano 2006, pag. 21 e seg.);
18. “In quella solitudine, mossa solo dalle passioni dello spazio cosmico, iniziai il lavoro forse più grande e più puro del mio cuore ( …) e il fiume dello spirito, baciato dalla grazia eruppe così potente in me”. Così suggestivamente R.M. Rilke, Opera omnia, XXIV, a cura di Lucia Morro, editrice Morcelliana, Roma 2020, pag. 688 e seg.;
19. “Chi, si io gridassi, mi vedrebbe mai dalle sfere / degli angeli? / e se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua forte esistenza. Poiché del terribile il bello / non è che il principio (…). Ogni angelo è tremendo”. Così l’inquietante ed affascinante incipit nella prima delle regie duinesi;
20. T.S. Eliot, Opere ( 1904-1939, Bompiani, Milano 2001 pag. 1231);
21. H.Kissinger, Ordine mondiale, Milano 2015, pag. 347;
22. “Le regole del sistema sono state promulgate, ma si sono dimostrate inefficaci in assenza di una imposizione attiva” è questo il giudizio critico di H Kissinger, op. cit. pag. 362;
23. N. Bobbio La democrazia ed il potere invisibile, ora in democrazia e segreto, Torino 2001 pag. 175;
24. V. Sorrentino, Il potere invisibile; il segreto e la menzogna nella politica contemporanea, Bari 2011;
25. R. Bodei, Dominio e sottomissione, Bologna, 2019 pag. 337;
26. H.Kissinger Ordine mondiale cit. pag. 363;
27. R. Calasso, L’innominabile attuale, Milano 2017 pag. 35;
28. R.Calasso op loc. cit.
29. R. Dottori – H.G. Gadamer, Un secolo di filosofia, La nave di Teseo 2019 pag. 21 e seguenti;
30. P. Curzio, Quasi saggi, Cacucci, 2017 pag. 17;
30bis. Mi riferisco alle profonde ed illuminanti riflessioni di E.Garin, La filosofia come sapere storico, ora in La terza Roma- Bari,2009 pag. 27 e seguenti;
31. Così con grande efficacia G. Rossi Perché filosofia, Ed. San Raffaele, Milano 2015,pag 15 e seg. Guardando nell’ottica suggerita da J. Berlin, l’evolversi dell’esperienza con una particolare attenzione, ignorata dal pensiero illuministico e rivolta al momento economico e ai rischi del capitalismo;
32. P.Grossi, Il diritto in una società che cambia, cit. pag. 85;
33. P.Grossi pag 113;
34. R. Calasso, L’innominabile attuale, cit., pag. 13;
35. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano 2020, pag. 17 e seg.;
36. U. Beck, La metamorfosi del mondo, Bari-Roma 2016, pag. 3;
37. J. Le Goff Il tempo continuo della storia, Bari-Roma 2014, pag. 4;
38. U. Beck La metamorfosi del mondo op. cit., pag. 136;
39. P. Grossi, Il diritto in una società che cambia, cit., pag. 57. Ed è seguendo questa logica che l’autore può dire criticamente che il giusnaturalismo e l’illuminismo avevano ripugnanza per la fattualità di cui si intesse la vita degli uomini; il che diventava incomprensibile per la dimensione della storicità, giacché i fatti quotidiani- assai più che battaglie, trattati, rivoluzioni- costituiscono il momento genetico della storia ed il suo nucleo più riposto”( P.Grossi, L’invenzione del diritto, Roma –Bari 2017, pag. 11 e seg.);
40. P. Grossi, Il diritto in una società che cambia, cit. pag. 57;
41. S. Rodotà Vivere la democrazia, Bari- Roma 2018 pag. 40 e seg.;
42. B.L. Zekiyan, La dialettica fra valore e contingenza, La Citta del Sole 1997 pag. 132;
43. N. Irti, L’uso giuridico della natura, Bari-Roma 2013 pag. XV;
44. R.Bodei Dominio e sottomissione cit., pag. 316 e 297 ss.;
45. R.Bodei Dominio e sottomissione cit., pag. 316 e ss.;
46. M. Cacciari, Il potere che frena cit., pag. 124;
47. Su questo aspetto rimando alle dense riflessioni di G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma 1983;
48. R. Musil, L’Europa moderna ( 1921),Bergamo 2015, pag 3;
49. Su questa forma di “umanesimo notturno” si veda A. Conte, Viandante del novecento, Thomas Mann in storia, Roma 2018;
50. Sul quale dialogo rimando ai saggi relativi in N. Irti, L’uso giuridici della natura, cit., pagg. 45-59;
51. N. Irti, Diritto e linguaggio nel discorso berlinese di Benedetto XVI, in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 37 e ss.;
52. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;
53. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;
54. Sono queste le conclusioni di Benedetto XVI in N.Irti, op. cit., pag. 39;
55. N. Irti, op. ult. cit., pag. 38;
56. N.Irti, Umanesimo e tecnica, ora in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 71 e ss.;
57. Da meditare su questo punto le riflessioni di S. Satta Il diritto, questo sconosciuto ( 1954), ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, pag. 62 e ss; sul pensiero di Capogrossi in questo senso mi richiamo alle suggestive considerazioni di S. Satta, Il giurista Capogrossi (1960), ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., pag. 442; mi piace collegare il pensiero del filosofo alla visione storica del profeta in P. Prodi, Profezia, utopia e dissocrazia, in Cacciari-Prodi, Occidente senza utopie, Bologna, 2016, pag. 13;
58. N.Irti Umanesimo e tecnica, cit., pag. 90;
59. N.Irti Umanesimo e tecnica, cit., pag. 91;
60. Prospettiva questa che mi piace collegare alle illuminanti affermazioni di P. Grossi, Ritorno al diritto, Bari-Roma, 2016 parte seconda il quale “ il diritto, anche se nella vita quotidiana ci appare come norma, come imperativo, è invece essenzialmente ordinamento ( p. X);
61. Così la lapidaria sintesi di L. Wittgenstein,Tractatus logicus- philosophicus (1921),Torino,1998,pag 107;
62. R. Dahrendorf, Legge e ordine, Milano, 1991, pag. 133;
63. R. Dahrendorf, Legge e ordine cit. pag. 164;
64. Problema delicatissimo quello del carattere ordinato della creazione di istituzioni sui quali si veda ancora R. Dahrendorf, Legge e ordine, cit., pag. 134;
65. Fondamentale per la profondità degli orizzonti sui quali si muove la lettura di T. Ascarelli, introduzione a Problemi giuridici, Milano 1959 sulle quali invita il lettore a “ rendersi conto di indagini che non mettono capo affatto alle presentazione o difesa di questa o quella teoria dogmatica, ma che invece cercano di cogliere i procedimenti con i quali viene raggiunta una soluzione, gli elementi che concorrono in una formulazione interpretativa e le loro diverse relazioni (pag. VI);
66. R. Dahrendorf, Dopo la crisi, Roma Bari, 2015;
67. R. Dahrendorf, Dopo la crisi, cit., pag. 165;
68. Su questi processi, in una prospettiva che si accompagna alla storia delle idee, C.Fois, E rimetti a noi i nostri debiti… Il debito come problema delle società di oggi, in AA.VV, Giustizia e misericordia, Cleup, Padova, pag. 95 e ss.;
69. C.Fois, Il “giardiniere” di Pugliatti e la scienza giuridica nel tempo dell’economia, in Giur. Comm., 2006, I, pag. 321, ed ivi una riflessione sull’ingegneria costruttiva in un orizzonte dominante dall’impresa che investe tutti i piani della scienza giuridica;
70. Così in un’ottica di superamento delle astrattezze concettuali, B. Harcourt, L’illusione del libero mercato, Neri Pozza, 2021;
71. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 37;
72. C. Schmitt, Stato, grande spazio, nomos ( 1916), Milano 2005;
73. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pag. 89;
74. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pag. 99;
75. G. Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 35 e ss.;
76. J.M. Keynes, Prosperità, Milano, 2019, pag. 24 e 86;
77. G. Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 111;
78.E. Severino, Il dito e la luna, Milano, 2021, pag. 82 e ss.;
79. M. Cacciari, La mente inquieta, Torino, 2019;
80. T. Ascarelli, Norma giuridica e realtà sociale, in Problemi giuridici, cit., pag. 1085;
81. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 118;
82. P.Grossi, L’invenzione del diritto, Roma- Bari, 2017, pag. 3 e ss.;
83. G.Rossi, il gioco delle regole, cit., pag. 61;
84. M. Cacciari, il potere che frena, cit., pagg. 81-125;
85. N. Irti, Fine del diritto? in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 97 e ss.;
86. N. Irti, Fine del diritto? in L’uso giuridico della natura, cit., pag. 100;
87. N. Irti, Fine del diritto? In L’uso giuridico della natura, cit., pag. 100;
88. S. Cassese, Territorio e potere, Bologna,2016 pag. 92;
89. Di grande interesse nella prospettiva della sovranità estera E. Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato, Bologna, 2020;
90. A. Catania, Effettività e modello normativo, Torino, 2013, pag. 174;
91. Così A. Catania, Diritto positivo e effettività, Editoriale scientifica Università Suor Orsola Benincasa, 2009, pag. 55, muovendo dalla necessità, in una prospettiva di interdipendenza planetaria di problematizzare la coppia di concetti effettività – normatività, considerata centrale del diritto positivo moderno;
92. M. Cacciari, L’arcipelago, Milano 1997, pag. 23;
93. In questa direzione di “ domande dissonanti” trovo stimolante il dialogo fra R. Conti e E. Cannizzaro che prende spunto dal citato La sovranità dello Stato, in questa Rivista – Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità con Enzo Cannizzaro. Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro ;
94. G. Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Bologna, 2019 pag. 148;
95. U. Eco, Sulle spalle dei giganti, La Nave di teseo,2017, pag. 36;
96. T. Ascarelli, I problemi delle società anonime per azioni, in Riv. soc., 1956, pag. 311;
97. M. Cacciari, Grandezza e tramonto dell’utopia, in M. Cacciari- P. Prodi, Occidenti senza utopie, Bologna, 2016, pag. 125 e ss.;
98. L.Zekijan, la dialettica tra valore e contingenza, cit., pag. 135 e ivi alla nota nr. 80;
99. R. Bodei, Dominio e sottomissioni, cit pag 381;
100. R. Bodei, Dominio e sottomissioni, cit pag 387.
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