ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ucraina 24-02-2022, “Il nemico è la nostra domanda a cui è stata data una forma” di Tommaso Manzon
Queste brevi riflessioni su quanto sta accadendo al momento in Ucraina vogliono essere fatte secondo lo spirito di una celebre citazione di Hegel: “la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero”. Qualunque altra cosa quest’ affermazione significhi, essa indica che il pensare è prima di tutto un pensiero del presente, un meditare con intensità su ciò che accade; qualunque altra cosa la filosofia possa essere è sicuramente almeno questa cosa qui, poiché ogni pensare è fatto qui e ora, in un presente e sul presente. Questo significa che se fatta bene, la filosofia ci consente di comprendere con maggiore chiarezza il nostro tempo ed è così in grado di equipaggiarci meglio per poterlo navigare. Quindi seguire l’indicazione di Hegel non significa fare della filosofia un passatempo che si nutre della notizia del giorno. Piuttosto, significa pensare sul nostro tempo come parte del nostro continuo tentativo di orientarci al suo interno.
Stiamo quindi sul fatto presente che ci s’impone di dover pensare: la Russia ha dichiarato guerra all’Ucraina. Vorrei cominciare citando una tra le tante voci ufficiali che oggi si sono espresse, Larysa Gerasko, ambasciatrice ucraina in Irlanda, la quale durante un’intervista ha espresso la sua incredulità per il fatto che un’invasione come questa possa accadere ancora oggi nel XXI secolo. Di fronte a queste parole bisogna farsi una domanda: il nostro tempo è veramente così diverso dal passato? Per quanto mi riguarda non riesco a trovare nessun motivo a favore di una risposta positiva. Eppure, si sentono abbondare affermazioni basate su una mentalità di questo tipo. “Ma come, ancora la guerra?” si chiede un intero coro di voci, come se questa fosse ormai una cosa relegata ai libri di storia come le locomotive a vapore. Mi sembra che questa visione delle cose non faccia i conti con un fatto, ossia che la differenza tra pace e guerra è essenzialmente una questione di gradi. In altri termini, dovremmo pensare alla pace non come una condizione assolutamente diversa dalla guerra, ma semplicemente come all’assenza di conflitto. Questo significa che per quanto un periodo di pace possa protrarsi nel tempo gli elementi della guerra sono sempre presenti in potenza: è sufficiente che le componenti sociali in pace tra loro si agitino al punto di causare un conflitto; dove ci sono delle persone è in linea di principio possibile che quelle persone a un certo punto litighino.
Ci tengo a sottolineare che non scrivo queste cose per fare sfoggio di un vano cinismo da quattro soldi; che nell’universo imperversi una “guerra intestina” (Dionigi l’Areopagita) e che pertanto il potenziale di un maggior conflitto tra gli esseri umani sia sempre in linea di principio a disposizione, è un fatto basilare dell’esistenza che colora la vita di un tono tragico. Questo non è qualcosa di cui gioire in alcun modo, e che discutere con un disincanto vissuto è solo indice di superficialità intellettuale. Se mi concentro su quest’aspetto della condizione umana è perché ritengo che molti di noi, incluse diverse voci pubbliche, sembrano essersene dimenticati. Quindi “sì, ancora la guerra” bisogna purtroppo rispondere al coro dei perplessi, degli scandalizzati, dei sorpresi e degli sconsolati. Una guerra che, anche se restringiamo il campo alla nostra area geografica, non ci ha mai abbandonato completamente. Del resto, per citare fatti noti a tutti, l’Ucraina è in uno stato di conflitto sin dal 2014 e se risaliamo più indietro troviamo le crisi balcaniche. Poi abbiamo effettivamente un lungo iato fino all’ultimo conflitto mondiale, ma anche questo giudizio si potrebbe complicare se allargassimo la visuale a fenomeni di conflitto sociale che non chiamiamo guerra ma che ne riportano alcuni tratti distintivi (per esempio, pensiamo al terrorismo).
Certo la guerra tra Russia ed Ucraina è per noi diversa da altri eventi analoghi perché ci riguarda più da vicino. Non tanto da un punto di vista geografico, in fondo l’Ucraina è più distante dall’Italia del Kosovo e della Libia, ma perché ci sentiamo chiamati in causa come cittadini europei e come parte di uno stato membro della NATO. Del resto, è stato detto esplicitamente da entrambe le parti: quello che è in discussione in questo scontro va ben oltre le mire della Russia sul suo vicino occidentale e ha a che fare con assetti di potere continentali e intercontinentali. Inoltre, la Russia è la Russia, un colosso sotto tutti i punti di vista, una “nazione apocalittica” (Jacob Taubes) che rievoca memorie culturali vicine e distanti. Questa volta quindi siamo inevitabilmente chiamati in causa nel nostro modo di vivere, nel nostro assetto politico ed ideologico in un grado che probabilmente non si verificava sin dalle grandi crisi della Guerra Fredda. Vedremo in che modo nei prossimi giorni si svilupperà il coinvolgimento del nostro paese in queste vicende ma è un fatto che noi come Italia e come Unione Europea ci siamo – già da tempo – schierati. Ma chi o cosa ci chiama in causa? La risposta è evidente da sé, perché in una guerra ciò che ti chiama in causa è il nemico. In questo caso il nemico è la Russia come nazione che assume per noi soprattutto il volto del suo leader, Vladimir Putin. Sebbene sia chiaro che non si può risolvere un intero popolo e le sue azioni in quelle del suo esponente più noto, rimane il fatto che il suo è lo sguardo che ci si rivolge attraverso le trasmissioni televisive e in rete, e sono soprattutto i suoi comunicati che ci comunicano le intenzioni ufficiali della nazione a noi nemica.
Putin ci chiama in causa in un modo molto specifico che, al netto della propaganda, bisogna cercare di ascoltare con attenzione. Carl Schmitt, essendo appena sopravvissuto ai processi di Norimberga, ebbe modo di scrivere che “Il nemico è la nostra domanda a cui è stata data una forma”. Ebbene, quale domanda, quali domande prendono forma in Vladimir Putin? In un articolo molto discusso pubblicato il 12 luglio del 2021, Putin affermava che il popolo russo ed ucraino erano in realtà due parti di un singolo intero, diviso nel corso di una storia politica avversa. Lasciando da parte l’ovvia funzionalità di una tale ricostruzione al fine di giustificare quanto è avvenuto in seguito, vorrei concentrarmi su di una frase tratta da quel testo. In esso infatti troviamo una citazione di Oleg il Profeta, membro della dinastia dei rurikidi, Principe di Kiev tra l’VIII e il IX secolo DC e fondatore del regno dei Rus di Kiev. Disse Oleg in riferimento alla sua capitale: “che [Kiev] sia la madre di tutte le città russe”. Nello stesso testo, Putin ricorda anche il battesimo del principe Vladimir avvenuto nel 988 nel Chersoneso. Primo principe di Kiev e di Novgorod ad abbracciare la fede cristiana, discendente di Oleg e antenato degli Zar, Vladimir contestualmente al suo battesimo sposò Anna, figlia dell’imperatore bizantino Basilio II. Di ritorno a Kiev fece piazza pulita dei monumenti pagani e condusse il suo popolo nel Dnepr per un battesimo di massa. Questa è la storia di cui Putin afferma di essere erede e che intende affermare con le sue azioni.
Ovviamente, non è tutto così semplice. In primo luogo, le cose da un punto di vista storico sono più complicate di come Putin ce le vuole propagandare; in secondo luogo, sappiamo bene che a motivi di ordine ideale si uniscono sempre altri elementi dettati dal calcolo strategico, economico o dal semplice timore di avere gli eserciti Nato alle porte. Tolto però tutto ciò, le vicende riportate qui sopra ci danno il quadro di riferimento all’interno del quale Putin e la cultura che egli rappresenta vede le proprie azioni e concepisce la propria missione. Sicuramente quest’impostazione non rappresenta tutta la cultura russa, né l’unico modo di declinare la storia di questo paese; ma per ora la cultura di Putin è chiaramente l’opzione egemone in Russia ed è quella che detta il corso degli eventi. Ed è comunque innegabile, al netto di tutto, che esiste un filo che parte dai re di Roma, passa per Costantino il Grande e Giustiniano, si mischia con un altro filo che si muove da Oleg e dalla dinastia dei rurikidi e che arriva oggi a Vladimir Putin – passando per i Romanov e l’URSS. Il punto di arrivo è la già plurisecolare idea di Mosca come terza Roma, e della Russia come baluardo della civiltà cristiana in lotta contro la degenerazione dei paesi occidentali con cui pure condivide un’affinità culturale di fondo. Putin questo lo ha visto fin da ragazzo nella sua San Pietroburgo: città che sintetizza in versione ciclopica l’architettura olandese e veneta insieme a motivi imperiali romani; città che venne costruita ad occidente come una nuova capitale in un luogo dove prima non vi era nulla – e con un grande costo di vite umane – per volontà di uno Zar modernizzatore e filo-occidentale che però fu nemico e invasore dei suoi vicini ad ovest; città sui quali elementi architettonici esteri troneggia la più grande chiesa dell’ortodossia che, con la sua russissima pianta quadrata, è dedicata a Sant’Isacco, protettore dei Romanov.
Non più tardi dell’ora di pranzo di oggi (24/02/2022) ho ascoltato un frammento di un intervento del nostro primo ministro e poi di Putin stesso. La cosa che mi ha colpito è che per un Mario Draghi che batte su come la Russia abbia infranto le regole internazionali, vi sia un Putin che dichiara di agire secondo le regole stabilite dalle Nazioni Unite e dal diritto russo; non solo, la motivazione dietro l’invasione sarebbe quella di “smilitarizzare e de-nazificare” l’Ucraina. Ora, credo che si possa affermare con certezza che Putin non creda veramente alle sue parole quando parla di un’aggressione Ucraina sulle repubbliche separatiste, o quando dipinge questo paese come un covo di neonazisti. Se però ancora una volta cerchiamo di aggirare la propaganda e affianchiamo queste parole a quelle di Draghi (e di Biden, e degli altri leader europei) recuperando quanto detto sulla storia russa, allora appare chiaramente qual è la domanda che il nemico Putin fa prendere forma di fronte a noi. Perché il nemico Putin non solo afferma che quello che egli sta facendo si può comprendere come l’atto più recente di una missione storica e in definitiva sacra; egli afferma anche che le regole e l’etica sono dalla sua parte e che noi non solo siamo nel torto, ma che non siamo mai riusciti ad emergere dagli errori del passato (punto espresso attraverso il travestimento del fantomatico neonazismo degli ucraini). Io credo che Putin abbia torto su ognuno di questi punti; credo però anche che non ci troviamo di fronte né ad un folle (cosa che è stata detta, ma che è irresponsabile dire), né di fronte a un individuo puramente cinico e calcolatore; credo che ciascuno di questi punti evochi un problema serio, una domanda che va discussa.
La linea che emerge da Roma e che arriva a Putin non è sola ma corre in parallelo ad altre linee, una delle quali porta a noi e all’attuale assetto sociale delle nazioni dell’Unione Europea e dei paesi all’interno della sua area d’influenza; la domanda che emerge con Putin è se noi siamo in grado di fare fronte a questa sfida storica, di dimostrare che la storia che ha condotto fino a noi è meglio situata nel mondo della sua e che ha veramente il giusto dalla sua parte. Non possiamo rispondere affermativamente a questa domanda con troppa fretta; dobbiamo resistere al riflesso di scattare con un altisonante “sì!” solo perché a scuola ci hanno spiegato che l’arco del progresso storico porta a noi e che prima o poi tutti finiranno per assomigliarci. Questa è la stessa forma di favola che ci fa stupire che la Russia nel XXI secolo possa ancora spedire i propri carri armati in Ucraina. Questa è una domanda a cui potremo rispondere affermativamente solo sulla base di quello che succederà nei prossimi giorni e se saremo o meno capaci di attraversare questo conflitto con saggezza.
Nel frattempo, che Dio protegga il popolo ucraino e che ci dia presto una pace duratura.
Referendum e art. 274, comma 1, lett. c, c.p.p.: meglio un intervento del Parlamento
di Giorgio Spangher
Se c’è una parte della Costituzione che è in qualche modo datata è sicuramente – seppure parzialmente – quella dove sono regolati i diritti e doveri dei cittadini, ed in questo contesto, quella dei rapporti civili, che risentono profondamente dell’impianto ordinamentale e di quello processuale dell’epoca in cui fu redatta.
Soffermandosi sul tema della libertà personale, in relazione alla specificità del tema qui affrontato il riferimento va ad alcuni profili dell’art. 13 Cost.
In primo luogo, lo stesso riferimento alla libertà appare riduttivo dovendosi ormai fare il più ampio riferimento “alle libertà” in quanto capaci di coprire più ampi spazi rispetto a quella più strettamente personale.
In secondo luogo, va evidenziato il superato riferimento all’autorità giudiziaria quale soggetto garante della libertà e legittimato alla riduzione della libertà. Invero, il riferimento era riconducibile alla struttura ordinamentale, che accumunava giudici e pubblici ministeri, capaci di funzioni spesso fungibili, oggi largamente superate nel nuovo modello processuale che vede una titolare dell’iniziativa tesa alla restrizione delle libertà, l’altra titolare del potere decisorio.
Nel contesto del modello processuale del 1930 e di quello costituzionale del 1948, la restrizione della libertà prima della condanna prevedeva, come risulta dal comma quinto dell’art. 13 Cost., la carcerazione preventiva di cui il legislatore doveva fissare solo i termini di durata massima. Era evidente, in un sistema inquisitorio nel quale, dopo l’archiviazione, già iniziava il processo (morte del reo; art. 150 c.p. e morte dell’indagato/imputato: art. 69 c.p.p.) che potesse esserci l’anticipazione della restrizione (preventiva) della libertà con la misura del carcere (unica misura prevista). Il provvedimento era obbligatorio o facoltativo (a discrezionalità vincolata) disposto – come detto – dal p.m. e dal giudice istruttore, in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza.
Addirittura anticipata rispetto alla riforma processuale (l. n. 330 del 1988), la disciplina della libertà personale prima della condanna nel nuovo processo risulta modificata radicalmente e subisce progressivamente assestamenti in senso garantista che ne modificano gli assetti: essendo peraltro questi elementi noti, non richiedono particolari notazioni ed approfondimenti.
Il riferimento si indirizza alle correzioni delle distorsioni del c.d. rito ambrosiano, all’anticipazione ed estensione delle garanzie difensive, alla rimodulazione dei presupposti delle esigenze cautelari, al rafforzamento della disciplina del riesame, attuate progressivamente con le ll. n. 332 del 1995 e n. 47 del 2015.
Nel nuovo modello trovano così collocazione le esigenze cautelari, superando quel “vuoto dei fini”, dell’art. 13 Cost., giustificato dalla funzione anticipatrice della condanna, cui si è fatto cenno. Con la l. n. 517 del 1955 per la cattura facoltativa si faceva riferimento alle qualità morali della persona e alle circostanze del fatto.
Si recupera a tal fine quanto la Corte costituzionale ebbe a sottolineare in alcune pronunce così da divenire oggetto delle modifiche di cui all’art. 254, comma 2, introdotto dalla l. n. 532 del 1982, con l’art. 4.
Va sottolineato, del resto, che per effetto della direttiva n. 59 della l. delega, in qualche modo, le misure cautelari si sarebbero dovute applicare dopo l’esercizio dell’azione penale, il che giustifica gli originali riferimenti dell’art. 274 c.p.p. (sintomatico il riferimento non chiaro al pericolo di fuga dell’”imputato”: dalla pena, dalla prova o dal processo).
Ricalibrata la lett. a dell’art. 274 c.p.p., con il rafforzamento (attualità e concretezza, nonché con l’esclusione di implicazioni della mancata collaborazione, con tempi determinati della durata della misura), anche dell’invalidità motivazionale, già presente nell’ordinanza ex art. 292 c.p.p., la dottrina (almeno una parte di essa) non ha mancato di evidenziare la precarietà di quanto previsto dalla lett. c dell’art. 274 c.p.p., sotto il profilo della presunzione di innocenza.
Invero, la condizione di un soggetto gravemente indiziato di delitto si sostanzia a fini cautelari nel pericolo attuale e concreto di reiterazione di “delitti” (la lett. c contiene l’unico riferimento del codice alle parole “criminalità organizzata”).
Il dato risulta deducibile dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla pericolosità del soggetto desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti, senza che i citati elementi possano essere desunti esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede. L’inserimento di quest’ultima precisazione (l. n. 47 del 2015, pure alla lett. b dell’art. 274 c.p.p.) è stato previsto anche in considerazione del fatto che questo si innesta nella ricostruzione che ne prospetta il pubblico ministero, seppur con il controllo del giudice, peraltro sulla base del solo materiale d’accusa, spesso frutto della informativa di p.g.
L’elemento della criticità, nella prospettiva indicata, è quello relativo all’ampia categoria dei “reati della stessa specie”.
Anche se i presupposti soggettivi e fattuali del pericolo, pur discutibili, sono precisati, anche se le situazioni di esclusione sono delineate, anche se l’ambito della quantità e qualità delle misure da applicare sono definite (in coerenza con il sistema ex art. 280 c.p.p., pur con l’eccentricità dell’unica presenza espressa del finanziamento illecito ai partiti politici), resta una certa fluidità del concetto di reato della stessa specie, definito dalla giurisprudenza non solo in termini di offensività al medesimo bene giuridico, ma anche di identità della natura in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive ma soprattutto resta la sua estraneità alla dimensione endoprocessuale del pericolo sotteso alla cautela, in favore di una valutazione prospettica di possibili comportamenti tesi alla protezione (anticipata) della collettività rispetto ad una premessa (ancora da verificare) di una prognosi non certa. Sotto questo profilo, si giustifica la riferita tensione con l’art. 27, comma 2, Cost. senza considerare ulteriormente che l’art. 5, comma 1, lett. c della Cedu fissa in termini più stringenti (motivi fondati per ritenere necessario di impedirgli di commettere un reato) il presupposto di operatività della cautela.
Alle Sezioni Unite la motivazione delle cartelle di pagamento. Verso un obbligo di motivazione differenziato?
di Christian Califano*
Sommario: 1. Il caso in oggetto. - 2. I precedenti della Corte di Cassazione. - 3. L’ordinanza interolocutoria e la necessità di differenziare l’obbligo di motivazione delle cartelle. - 4. Osservazioni conclusive.
1. Il caso in oggetto
La questione oggetto dell’ordinanza interlocutoria di rimessione n. 31960 del 5 novembre 2021 attiene all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento, ai sensi dell'art. 7, L. n. 212 del 2000, relativamente agli interessi richiesti per ritardato pagamento di tributi.
Nel caso sottoposto al vaglio della Corte, la cartella non avrebbe recato indicazioni sufficienti (ovvero giorni, tassi d'interesse, imponibile, aliquote, ecc.) al fine di verificare la correttezza delle somme iscritte a ruolo, riportando, invece, l’importo totale degli interessi applicati e non anche un prospetto che chiarisse modalità e criteri seguiti nella loro determinazione.
Il Giudice del merito sul punto aveva affermato che, corrispondendo le somme riportate in cartella a quelle indicate nel prodromico avviso di liquidazione, maggiorate solo degli interessi dovuti per legge al tasso legale, la cartella di pagamento era da considerarsi pienamente legittima, attesa la circostanza che la liquidazione degli accessori risultava agevolmente verificabile dal contribuente, nel corretto presupposto secondo cui, essendo la misura degli interessi applicati predeterminata dalla legge, la quantificazione si risolveva, nel caso di specie, “in una operazione matematica, di natura tipicamente riscossiva”. Veniva altresì posto alla base della decisione della CTR che la cartella di pagamento riversata in atti e riproduttiva del ruolo di riscossione, richiamava l’avviso di liquidazione prodromico che, a sua volta esplicitava le ragioni della pretesa (nel caso di specie “revoca benefici fiscali ex L. n. 604/1954”) e “l’indicazione dell’atto notarile presentato alla registrazione”), in tal modo rendendone conoscibili i presupposti di fatto e di diritto.
Le ulteriori indicazioni contenute nella cartella e relativi al computo di mora, spese di notifica e aggio di riscossione, completavano, secondo il Giudice di merito, il “quadro motivazionale”, posta l’incontestabilità, per effetto della definitività di giudicato del prodromico avviso di liquidazione.
2. I precedenti della Corte di Cassazione
Con tale decisione, il giudice di appello si è conformato a quell’indirizzo espresso dalla S.C. in tema di riscossione delle imposte sul reddito, secondo cui “la cartella di pagamento deve ritenersi congruamente motivata, quanto al calcolo degli interessi, mediante il richiamo alla dichiarazione dalla quale deriva il debito di imposta ed al conseguente periodo di competenza, essendo il criterio di liquidazione degli stessi predeterminato ex /ege e risolvendosi, pertanto, la relativa applicazione in un'operazione matematica (Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8508; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236).
La Cassazione aveva già ritenuto, infatti, che “il richiamo (contenuto nella cartella) all’atto impositivo divenuto definitivo svolge la stessa funzione della "dichiarazione" quanto alla "condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale", anche ai fini del controllo (meramente aritmetico) della esattezza delle somme richieste (come nel caso) per "interessi.., per ritardato o omesso pagamento" sulle imposte indicate in detto atto impositivo” (Cass., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8613). Il tasso inoltre, viene determinato ex lege sulla base del’'ultimo decreto pubblicato, che resta efficace fino alla deliberazione del nuovo provvedimento (Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778), “così consentendo in ogni caso al contribuente di controllare quale sia il tasso di interesse applicato”. (Cass. n. 9764/2021).
Dall’analisi della legislazione vigente si trae, secondo il Giudice di legittimità, che il tasso annuo degli interessi è noto e conoscibile perché determinato con provvedimento generale, e che i limiti temporali di riferimento (dies a quo e dies ad quem), necessari per il calcolo, sono anch’essi determinati in elementi ben individuati; viene dunque ribadito il principio, con riferimento all’obbligo di motivazione previsto per la cartella di pagamento dagli articoli 12 e 25 del DPR 602/1973, secondo cui nell’ipotesi “in cui vengano richiesti gli interessi e le sovrattasse per ritardato o omesso pagamento il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima”. (Cass. n. 8613/2011).
In tema di riscossione delle imposte sul reddito, la Corte ha altresì espresso il principio per cui qualora “vengano richiesti interessi e sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima”. (Cass. 26671/2009).
Ad un orientamento più rigoroso in tema di motivazione della cartella, invece, la Corte giunge nei casi in cui mediante la stessa venga anche “richiesto per la prima volta il pagamento di crediti diversi da quelli oggetto dell’atto impositivo oggetto del giudizio, come quelli afferenti gli interessi per i quali deve essere indicato, pertanto, il criterio di calcolo seguito” (Cass. n. 21851/2018, n. 28276/2013). In tali ipotesi altre pronunce hanno ribadito che il richiamo ad un giudicato menzionato in cartella o all’atto impositivo su cui la stessa è intervenuta, risulta idoneo ad assolvere l’onere motivazionale “solo limitatamente alla parte relativa al credito erariale, “ma non anche alle altre ulteriori voci di credito che non sono state in precedenza richieste”; in questo senso, la quantificazione degli interessi, deve invece essere “motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev'essere messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi medesimi” (cfr. Cass., ord., 22 giugno 2017, n. 15554; Cass. 21 marzo 2012, n. 4516; Cass. 9 aprile 2009, n. 8651; Cass. n. 21851/2018).
Nello stesso senso si è espressa recentemente la S.C. (Cass. n. 15554/2017, Cass. n. 17767/2018 e, da ultimo, Cass. n. 5416/2021), relativamente al principio secondo cui la semplice pubblicazione dei tassi d’interesse non sempre consente al contribuente di comprendere i diversi metodi di calcolo applicati negli anni relativamente al periodo considerato; la stessa ratio decidendi, secondo cui il computo degli interessi non è sempre conprensibile in ragione del lungo periodo considerato, trova precedenti anche più risalenti (Cass. n. 8611/2009).
3. L’ordinanza interolocutoria e la necessità di differenziare l’obbligo di motivazione delle cartelle
Il punto di rilevo sistematico contenuto nell’ordinanza parte dalla considerazione che l’obbligo di motivazione va rapportato e differenziato a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto impositivo. E’ in questa prospettiva ed in relazione all’esigenza di “rendere effettiva ed incisiva la funzione nomofilattica della Corte”, rispetto a questione variamente risolta dalla Sezione V, in quanto “destinata a riproporsi in numerose controversie”, che la Cassazione motiva l’ordinanza interlocutoria.
Partendo dal profilo riguardante il perimetro dell’obbligo di motivazione e volendo valorizzare quell’orientamento secondo cui la necessità di un’adeguata motivazione deve sempre sussistere in relazione ai presupposti ed alle finalità dell’atto con cui si fa valere una pretesa impositiva, devono valere per la cartella le medesime considerazioni già svolte dall’indirizzo più “garantista” della S.C., soprattutto se i presupposti in tema di “quantum” della pretesa non sono direttamente ricavabili dall’atto impositivo, come nel caso del calcolo degli interessi. In tale ipotesi, il ruolo in essa incartato deve contenere una congrua, sufficiente e comprensibile motivazione[1].
L’art. 17 dello Statuto del contribuente specifica che le prescrizioni contenute nel precedente art. 7 in punto di obbligo di motivazione si applicano anche nei confronti degli enti e dei soggetti riscossori che esercitano l’attività di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di qualunque natura[2].
Rimane a questo punto da definire in quali termini occorre ottemperare all’obbligo di motivazione della cartella, considerando che, come è stato già evidenziato in alcune pronunce della Cassazione riportate nell’ordinanaza interlocutoria, le norme sulla riscossione prevedono, in mancanza di un precedente atto di accertamento, la motivazione del ruolo[3] e, quindi, della cartella, che lo contiene e che gli assicura rilevanza esterna.
Il dibattito, in quest’ottica, muove dalla distinzione tra cartelle meramente riproduttive di un atto precedente e ruoli che, invece, sono connotati da un contenuto “impositivo” (quali, ad esempio, quelle formate a seguito al controllo formale della dichiarazione), ravvisandosi per la prima categoria la necessarietà e sufficienza dell’atto a monte da cui trae origine l’iscrizione a ruolo, e, per la seconda tipologia, l’esigenza che siano esplicitate le ragioni dell’iscrizione al fine di consentire al contribuente l’esercizio di un controllo sulla causale della pretesa impositiva[4].
Anche quella parte della dottrina per cui l’esigenza di motivazione risulta più avvertita, accentua il profilo della necessità che siano evidenziate e motivate le ragioni che hanno fondato l’iscrizione a ruolo[5], incentrando l’attenzione sull’atto impositivo piuttosto che sul mezzo medinate il quale viene notificato. La posizione in passato espressa dalle Sezioni Unite della Cassazione si era attestata nell’affermare che una motivazione idonea della cartella doveva sussistere solo nelle ipotesi in cui essa costituisca il primo ed unico atto con il quale il contribuente viene a conoscenza della pretesa impositiva[6].
Sul punto vale la pena di evidenziare che, mentre in passato la cartella di pagamento era un atto proprio dell’Agente della riscossione, il quale si limitava a recepire il ruolo emesso dall’Ente impositore che aveva svolto i controlli, oggi queste funzioni riscossive sono svolte direttamente dall’Agenzia delle Entrate Riscossione; pertanto, identificandosi oggi nello stesso soggetto ente accertatore e riscossore, con gli stessi ampi poteri, è superato il limite secondo cui Equitalia non poteva in alcun modo svolgere attività accertativa sulla base del principio, normativamente cristallizzato, dell’immutabilità del ruolo[7] che le veniva trasmesso dall’Agenzia delle Entrate.
Il punto in questione attiene al fatto che, normativamente, l’obbligo di motivazione è previsto per il ruolo, nei termini e con le modalità anzidette; Agenzia delle Entrate - Riscossione non è più, rispetto a quanto avveniva prima, soggetto estraneo alla conoscenza dei presupposti di fatto e delle ragioni di diritto che hanno originato la pretesa impositiva in base alle risultanze emerse dall’istruttoria.
Se da un lato, infatti, la motivazione del ruolo indicato nella cartella assolve alla funzione di correlare l’accertamento effettuato dall’Ufficio alla pretesa contenuta nell’atto impositivo, dall’altro rimane fermo che oggi l’Agenzia esegue anche la fase esattiva. In altri termini, il riconoscimento dei poteri finalizzati alla realizzazione effettiva del soddisfacimento della concreta pretesa impositiva in capo allo stesso ente che ha il potere di indagare sui fondamenti dell’atto impositivo, che, nel nostro caso è il ruolo, obbliga oggi la stessa Agenzia a dimostrarne, attraverso la motivazione, i presupposti.
L’atto che deve contenere la giustificazione della pretesa tributaria non è, infatti e con tutta evidenza, la cartella di pagamento, ma il ruolo[8] e ciò in coerenza con le disposizioni di legge che prevedono per la notifica dei ruoli, ai sensi del D.P.R. 602/1973.
In ogni caso, la necessità di rendere più comprensibile la cartella, fornendo al contribuente tutti gli elementi necessari a evidenziare i motivi che hanno determinato l’iscrizione a ruolo, impone l’indicazione degli elementi sulla base dei quali è stata disposta l’iscrizione a ruolo[9]. Le successive modifiche al modello di cartella di pagamento, inoltre, richiamano l’art. 3 della legge 241/1990 solo in relazione al comma 4, ossia con riferimento ai termini ed alle modalità attraverso cui è possibile ricorrere all’Autorità giurisdizionale.
Il presupposto secondo cui la formazione del ruolo si fonda sulle risultanze dell’istruttoria si riflette sul contenuto della motivazione dell’atto, nel senso che essa si colloca nell’ambito della funzione che assume il ruolo nella riscossione, a seconda che quest’ultimo sia meramente riproduttivo del titolo che fonda la pretesa o che rappresenti l’atto in cui si possa compendiare un’attività impositiva. Quando, infatti, il ruolo è usato solo per riscuotere un credito relativo ad una pretesa determinata con un precedente atto non è richiesta la motivazione, bensì la sola indicazione del predetto atto[10], sufficiente a giustificare e legittimare la riscossione. Nel caso in cui, invece, manchi un atto impositivo presupposto integrante il titolo di iscrizione, occorre una vera e propria motivazione[11].
4. Osservazioni conclusive
Le considerazioni che precedono si innestano, sebbene tangenzialmente, sull’ampio dibattito sorto a seguito dell’introduzione, ad opera del D.l. 146/2021, del comma 4 bis in seno all’art 12, DPR 602/1973[12], a mente del quale l’estratto di ruolo non è atto autonomamante impugnabile e il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio.
Sul punto le Sezioni Unite, peraltro, saranno chiamate, sulla base di un’altra e più recente ordinanza interlocutoria (n. 4526 dell’11 febbraio 2022), anche a pronunciarsi proprio in riferimento all’art. 12, DPR 602/1973, così come modificato dal D.l. 146/2021. Il delicato tema della tutela anticipata si inserisce, dunque, nel più ampio tema relativo all’effettività della tutela di tipo cautelare nel processo tributario.
Il riconoscimento normativo secondo il quale l’estratto di ruolo non può esssere impugnato, lo distingue nettamente dal ruolo (cfr. Cass. 19704/2015), che è strutturalmente finalizzato a consentire l’avvio della fase e esecutiva e deve quindi, per ciò stesso, evidenziare e rendere comprensibile al contribuente quali siano, anche sotto il profilo del quantum, i fondamenti della pretesa e i termini in cui essa è stata calcolata, soprattutto laddove, come nel caso degli interessi, tale computo non è (e non può essere) contenuto e rinvenibile nell’atto determinativo del tributo.
È, infatti, solo nella cartella di pagamento che gli interessi vengono quantificati: se il contribuente deve essere messo in grado di verificare la correttezza di calcolo degli interessi medesimi richiesti per la prima volta solo con tale atto, allora è necessaria la motivazione in ordine (e limitatamente) al criterio utilizzato.
* Professore Associato di Diritto Tributario presso l’Università Politecnica delle Marche – Ancona
[1] Sia qui consentito il richiamo a C. CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, 331 ss.
[2] Sul tema dell’estensione dell’obbligo di motivazione anche agli atti della riscossione, sin da epoca più risalente c’è stata una certa identità di vedute in dottrina:. cfr. A. VOGLINO, Lineamenti definitivi dell’obbligo di motivazione, degli atti tributari, in Boll. Trib., 2001, 11; L. FERLAZZO NATOLI – G. INGRAO, La motivazione della cartella di pagamento: elementi essenziali, in Riv. Dir. Trib, II, 2005, 542 ss.
[3] Art. 12, comma 3, D.P.R. 602/1973: “nel ruolo devono essere indicati […] il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione anche sintetica della pretesa; in difetto di tali condizioni non può farsi luogo all’iscrizione”.
[4] Per tutti, F. TESAURO, Istituzioni di Diritto tributario, Torino, 2019, 247 ss.; Cfr. sul punto Cass., Sez. Trib., 16712/2011,n. 27140, la quale ha affermato che, nel caso di imposte dichiarate ma non versate, la cartella non deve essere motivata.
[5] Per una ricostruzione completa dei profili del ruolo d’imposta, v. M. BASILAVECCHIA, Ruolo d’imposta, in Enc. Giur., Milano, XLI, 1989, 179 ss. Più di recente A. CARINCI La riscossione a mezzo ruolo nell'attuazione del tributo, 2009, 215 ss.; ID., La concentrazione della riscossione nell'accertamento, Padova, 2011, 45 ss.
[6] Cass., Sez. Un., 14/05/2010, n. 11722.
[7] In relazione all’immutabilità del ruolo ed ai poteri dell’esattore nel previgente sistema si v. l’ampia ricostruzione operata da L. DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 347 ss., ove l’A. affronta approfonditamente la problematica dell’efficacia soggettiva del ruolo.
[8] Lo Statuto del Contribuente, sebbene non indichi il ruolo fra gli atti assoggettati ad obbligo di motivazione, fa tuttavia proprio riferimento al “titolo esecutivo” quando impone di riportare “il riferimento all’eventuale precedente atto ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria” (Art. 7, comma 3, l. 212/200).
[9] Cfr. D.M. del 28 giugno 1999, così come modificato dal Provvedimento del 22 febbraio 2001 e successive modificazioni.
[10] Non sono mancate in passato tuttavia, orientamenti della Cassazione eccessivamente restrittivi, ove la S.C. ha ritenuto legittima una cartella di pagamento in cui era stata omessa l’indicazione di tutti gli avvisi di accertamento a cui faceva riferimento il credito oggetto di riscossione, ritenendo sufficiente ad identificare la pretesa e a soddisfare l’obbligo di motivazione, l’indicazione dei contenziosi inerenti tutti gli atti impositivi, a cui, peraltro, il contribuente aveva partecipato svolgendo attivamente le sue difese; così Cass., Sez. Trib., 25/5/2012, n. 11466.
[11] Così A. CARINCI, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, cit., 217, il quale afferma che, “si deve dare atto che oggi il ruolo risulta arricchito di un contenuto motivazionale”, con ciò rinviando (nota 194) alle tesi affermate, sulla scorta di Cass., 12/04/2004, n. 15638, da C. CALIFANO, La motivazione della cartella di pagamento non preceduta da avviso di accertamento, Dir. Prat. Trib., 2005, 497.
[12] Su cui da ultimo F. RASI, Il canto di natale del Legislatore: la non impugnabilità dell’estratto di ruolo, in Giustizia Insieme, 3.02.2022.
Recensione a Giuliano Scarselli, In devoto omaggio. Ricordo dei processualisti del passato, Pisa, 2021, pagg. 184
di Bruno Capponi
Giuliano Scarselli è un apprezzato processualcivilista, ma soprattutto un avvocato. Ciò spiega l’immagine di copertina, che vede un difensore in toga (forse lo stesso Scarselli) camminare, da solo e con passo che sembra spedito, in un corridoio deserto del Palazzaccio. Chiunque di noi, recandosi verso una delle rare udienze pubbliche con la toga sulle spalle, ha avvertito il senso di isolamento e di superfluità che comunica attualmente la Corte al difensore, e che quell’immagine di copertina restituisce con l’efficacia fulminante di una tavola di Daumier. Nel risvolto di destra, Scarselli è anzitutto un avvocato (cassazionista dal 1999), e poi professore ordinario di diritto processuale civile a Siena.
Il risvolto di sinistra avverte che abbiamo tra le mani non un «testo giuridico» ma un «libro di lettura», nel quale Scarselli ha raccolto le notizie «che è riuscito a riassumere» su alcuni grandi processualisti del passato (ma anche del presente: l’ultimo omaggio è al suo maestro Andrea Proto Pisani) che evidentemente Scarselli ha scelto, fra tanti altri, per affinità elettiva. Chiarissima nel caso di Andrioli e Proto Pisani perché frutto di esperienza diretta, non meno visibile nel caso di Calamandrei, figura che occupa tre capitoli del libro, di Carnelutti – forse il meno simpatico dei processualisti del passato, anche per quello che ci hanno tramandato le cronache – e poi nel caso dei due grandi che Franco Cipriani aveva chiamato affettuosamente Patres: Mattirolo e Mortara. Il secondo più celebrato anche dai contemporanei (rammentiamo il convegno del maggio 2019 tenutosi in Cassazione su Mortara, un padre del diritto e la bella relazione di Carmelo Sgroi, La «missione» del magistrato nella concezione di Lodovico Mortara, in questa Rivista dal 27 febbraio 2020 e in Riv. dir. proc., 2019, 1172 ss.), il primo sconfitto invece dalla Storia, perché esponente di una scuola e di un metodo che non avrebbero superato la prova “germanista” di Chiovenda. E, certo, nel volume compare (non poteva non comparire) anche il padre per eccellenza della materia (qualcosa anzi di più remoto per Scarselli, posto che Andrioli è stato l’ultimo allievo di Chiovenda e poi il maestro di Proto Pisani): ma con un risalto che certamente non lo pone al vertice della personale classifica dell’A.
Dopo i notissimi studi di Cipriani, molti processualisti si sono ingegnati a ricostruire le vite dei vari colleghi del passato e questi contributi (ricordiamo, tra gli altri, quelli sempre ben documentati di Enzo Vullo, editi sulla Processuale) hanno spesso la caratteristica di presentare al lettore quante più notizie (e addirittura curiosità) si possano rinvenire nelle fonti, che ovviamente non sono soltanto quelle classiche del giurista. Non è questo il metodo adottato da Scarselli, al quale non interessa tanto la completezza dei dati quanto il riscontro tra i valori attuali (o forse più che di valori occorrerebbe parlare di esigenze) e quelli ancora vivi del più o meno recente passato, dei quali i maestri onorati sono stati interpreti: di Mattirolo viene esaltato il «liberalismo processuale» (altri direbbe il garantismo), di Mortara il valore dell’uguaglianza e della modernità, con le battaglie a favore delle donne e delle classi sociali meno abbienti, di Chiovenda i prezzi pagati per il suo essere antifascista, di Carnelutti la sua vasta esperienza di giurista (commercialista, processualista, penalista) ma soprattutto la sua «vita da avvocato», lasciando intendere che proprio l’avvocatura era stata la sua vera maestra di vita (come lo stesso Carnelutti ammetteva nella visione retrospettiva della sua esperienza). Quanto a Calamandrei (fiorentino come Scarselli), basta la nota che si estende da pag. 87 a pag. 89 per dar conto delle affinità che l’A. sente di avere col grande giurista e, direi, umanista e scrittore del passato recente, il cui nome è del resto ben noto anche oltre gli specialistici confini degli addetti ai lavori.
Così, chi si accinge a leggere il libro di Scarselli comprenderà presto di non trovarsi dinanzi a una silloge di voci enciclopediche sulle vite di taluni grandi giuristi del passato (e del presente); si trova piuttosto tra le mani una viva testimonianza che parla dei valori propugnati da quegli illustri giuristi che tuttora riescono utili a noi, anche perché lasciano intravedere il fil rouge che lega l’esperienza del passato a quella presente. Percepisce il lettore che per Scarselli il massimo valore, la massima qualità del giurista è quella di essere una persona libera, che ragiona con la sua testa senza condizionamenti; è quella di avere la stessa indipendenza, assai spesso scomoda e abrasiva, che l’A. ha riscontrato nel suo protomaestro Andrioli (anti-diplomatico per eccellenza) e poi nel suo maestro Proto Pisani.
Il libro di Scarselli, che si legge con grande facilità e immediatezza, induce anche a chiedersi perché – non mi sembra che ciò avvenga in altre discipline – i processualisti del presente mostrino tanto interesse per i colleghi del passato. A una simile domanda non può che darsi una risposta personale, rispetto alla quale il libro di Scarselli costituisce poco più di un’occasione. Provo a dare la mia: negli anni ’90, allorché apparvero i primi scritti di Cipriani (risalgono al 1991 le Storie di processualisti e di oligarchi), ebbi l’impressione di un interesse un poco eccessivo, introspettivo e tutto sommato non troppo producente rispetto alle opere e soprattutto alla vita (comprese le alterne vicende concorsuali, che sono patrimonio di tutte le epoche) dei grandi del passato. Ora capisco, e il libro di Scarselli è certamente tra quelli che mi hanno indotto a cambiare opinione, che attraverso l’esame delle esperienze dei Patres l’obiettivo che si intende perseguire è risalire alle radici essenziali di una materia, i cui valori tuttora faticano a venire recepiti nell’esperienza delle giurisdizioni. Credo che molti giuristi, di varia estrazione, percepiscano il diritto processuale civile come un insieme astruso, stantio e di scarsa utilità, col quale occorre misurarsi soprattutto per fugare il rischio di commettere errori. Al tempo stesso, fin dagli anni ’90 – e quindi in casuale concomitanza con l’inizio delle ricerche di Cipriani – sulle sue povere spalle è stato scaricato tutto il peso delle possibili riforme del nostro asfittico sistema di tutela dei diritti sul presupposto, la cui avventuristica erroneità è oramai a tutti nota, che cambiando qui e là qualche regola del processo quel sistema potesse magicamente rimettersi in moto per raggiungere uno standard “europeo”. Ciò non poteva certo avvenire e puntualmente non è avvenuto, e tale fallimento ha finito per moltiplicare le scarse simpatie per la materia, del resto ostica di per sé, e di tali scarse simpatie è dato oramai di vedere testimonianza non soltanto nel Foro ma addirittura nelle Accademie. Le cattedre sono rimaste poche, i dipartimenti su di esse non investono: altri sono gli insegnamenti di tendenza, sui quali puntare per le speranze dei giovani laureati. Del processo non ne parliamo: il c.d. diritto giudiziario, soprattutto in sede di legittimità, ha spesso fatto strame della legge processuale, sino al punto di affermare – qui e là vediamo ora qualche piccolo ripensamento, ma ci vorrà molto per risalire la china – che la stessa sua violazione è indifferente perché non esiste un diritto astratto al rispetto delle regole del processo e chi ne denunzia le violazioni deve anche dimostrare lo specifico pregiudizio che da quelle violazioni gli sia derivato. Non parliamo poi delle norme “processuali” la cui funzione è quella di respingere i contenziosi o consentirne la definizione con pronunce non di merito: qui la scarsa simpatia non può che essere corrisposta, perché norme di tal fatta finiscono per tradire quello che è il fine ultimo e più nobile del processo civile.
Credo quindi che il libro di Scarselli, nel ricordarci l’opera di grandi processualisti del passato (e del presente), e di ricordarcela sul presupposto «che nel pensiero e nella vita di questi giuristi vi siano non solo alti valori di civiltà, bensì insieme temi e aspirazioni ancora attuali» (così si legge nella bandella sinistra), sia in realtà una difesa dei valori alti e nobili del diritto processuale civile, che sono sempre stati gli stessi ma che da qualche tempo risultano offuscati per responsabilità diffuse, non ultime proprio di quei “processualisti” che hanno voluto indulgere in troppo involuti tecnicismi; valori tuttavia che un giorno, che ci auguriamo non troppo lontano, dovranno pur tornare a risplendere.
La motivazione della cartella di pagamento sugli interessi e il valore dell’effettività giuridica
di Rossella Miceli
Sommario: 1. Premessa - 2. La motivazione della cartella di pagamento nella fase di riscossione coattiva dei tributi - 3. Il calcolo degli interessi nella procedura di riscossione tributaria - 4. Gli orientamenti contrastanti della giurisprudenza di legittimità sull’obbligo di motivazione della cartella applicato agli interessi - 5. Le questioni poste dalla pronuncia in commento - 6. La necessità di una interpretazione conforme al principio di effettività da parte delle Sezioni Unite - 7. La motivazione degli interessi nel caso di specie - 8. Conclusioni.
1. Premessa
Con l’ordinanza n. 31960 del 5 novembre 2021, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, una questione di massimo rilievo nella fase di attuazione del tributo, rappresentata dall’obbligo di motivazione della cartella di pagamento in relazione al calcolo degli interessi richiesti per il ritardato adempimento dei tributi.
La questione si inserisce nel solco del più ampio dibattito inerente all’ampiezza dell’obbligo motivazionale, notoriamente fondato sul combinato disposto degli artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), nell’ambito degli atti amministrativi afferenti alla procedura di riscossione coattiva dei tributi[1].
La peculiarità della cartella di pagamento, quale atto prodromico all’esecuzione coattiva tributaria, pone infatti peculiari problematiche di tutela per il contribuente che ne è destinatario, il quale dovrebbe trarre da tale atto sufficienti elementi utili ad apprezzare il contenuto della richiesta avanzata dall’Agente della riscossione, così da paralizzare ex ante, ove rilevi conclamati profili di illegittimità, la successiva procedura esecutiva, potenzialmente lesiva della sua sfera patrimoniale[2].
Nel caso di specie, la vicenda processuale in esame trae origine da una cartella esattoriale notificata a tre contribuenti, coobbligati solidali, avente ad oggetto la richiesta di pagamento di una somma a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale, nonché dei relativi interessi di mora e di ritardato pagamento, in forza di una sentenza passata giudicato per sopravvenuta revoca di una agevolazione fiscale risalente al 1980.
In particolare, i contribuenti rilevavano un grave vizio motivazionale nella cartella impugnata poiché questa procedeva a quantificare la somma dovuta a titolo di interessi omettendo qualsivoglia spiegazione in ordine alle modalità di calcolo adottate.
L’eccezione sollevata dai ricorrenti veniva disattesa dai giudici di merito, così ponendo la Suprema Corte nella condizione di dover risolvere una questione di grande delicatezza sistematica, espressione della persistente tensione dialettica tra fondamentali principi dell’ordinamento tributario, consacrati agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Carta Costituzionale[3].
Invero, la motivazione della cartella di pagamento e, più in generale, di ogni atto emesso dall’Amministrazione finanziaria, deve assicurare la difesa contribuente e, contestualmente, garantire la celerità e la trasparenza della funzione impositiva, rifuggendo da schemi argomentativi ridondanti o pletorici.
Facendo chiarezza sui contrapposti orientamenti giurisprudenziali sorti sul tema, posti alla base della ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite qui in esame, il presente contributo vuole indagare in ordine all’ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella di pagamento, con specifico riferimento alle modalità di calcolo degli interessi ivi recati, tentando di suggerire la soluzione interpretativa che, alla luce dei rilevanti valori assiologici in gioco, appare connotata da un maggiore rigore sistematico.
2. La motivazione della cartella di pagamento nella fase di riscossione coattiva dei tributi
Al fine di porre nella corretta prospettiva il contrasto giurisprudenziale oggetto della pronuncia in commento, si rende opportuno soffermarsi sui due temi che si trovano al centro della stessa: la motivazione della cartella di pagamento e la determinazione degli interessi di mora per i tributi iscritti a ruolo.
In relazione al primo profilo si evidenza che l’obbligo motivazionale degli atti amministrativi tributari, rinvenibile nei citati artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, involge direttamente anche la cartella di pagamento emessa dall’agente della riscossione[4].
Ciò discende dalla funzione di questo obbligo che, da un lato, impone all’Amministrazione finanziaria di palesare le ragioni che hanno condotto alla emissione dell’atto (sia esso afferente alla fase di accertamento o di riscossione), consentendo - in tal modo - al contribuente di esercitare il suo diritto di difesa e, dall’altro lato, funge da parametro di legittimità volto a giustificare la fondatezza sostanziale della pretesa avanzata, in relazione ai profili dell’an e del quantum debeatur,[5].
Va però precisato che, con riferimento alla cartella di pagamento, l’obbligo motivazionale deve essere debitamente graduato, valorizzandone la funzione espressa in seno alla fase di attuazione del tributo.
Più precisamente, come noto, la cartella di pagamento può talvolta valere quale atto impositivo in senso sostanziale, assimilabile ad un ordinario atto di accertamento (si pensi, a titolo di esempio, alla cartella di pagamento emessa nell’ambito della procedura di accertamento automatizzato ai sensi dell’art. 36 bis del d.p.r. n. 600/1973) ovvero, in alternativa, quale atto meramente liquidatorio, avente duplice natura di comunicazione dell’estratto di ruolo e di intimazione ad adempiere, corrispondente al titolo esecutivo e al precetto del rito esecutivo ordinario[6].
Nel primo caso, pare evidente, si tratta dell’unico atto, notificato dall’Amministrazione finanziaria, a mezzo del quale il contribuente apprende dell’esistenza di una pretesa impositiva avanzata nei suoi confronti, non essendo mai stato emesso, in precedenza, un avviso di accertamento.
In questa prospettiva, la cartella di pagamento manifesta, su di un piano ontologico, la natura di atto impositivo in senso sostanziale, la quale richiede una motivazione completa ed esaustiva, dovendo rendere note al contribuente – conformemente a quanto disposto dall’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 – tutte le parti della pretesa (oggetto, contenuto e destinatari) che ne permettono di apprezzarne la legittimità e valutare, di riflesso, le chances difensive eventualmente esperibili[7].
Di converso, ove la cartella di pagamento svolga la funzione precipua di avviare la fase di riscossione coattiva dei tributi in quanto già preceduta dalla notifica di un atto impositivo, l’ampiezza dell’obbligo motivazione risulterà circoscritto, come peraltro desumibile dagli artt. 12, comma 3, e 25 del d.p.r. n. 602/1973, agli elementi “propri” dell’atto, rappresentati dalla esposizione del ruolo, del titolo costitutivo della pretesa, dell’entità del debito fiscale nonché della relativa ripartizione degli importi (quota di imposte, sanzioni ed interessi), così dando luogo ad una sorta di motivazione per relationem[8] rispetto agli altri profili in rilievo.
In tale circostanza, tuttavia, se è pacifico che la motivazione della cartella di pagamento non dovrà avere una ampiezza tale da ripercorrere l’iter logico-giuridico che ha condotto l’Amministrazione finanziaria ad avanzare la pretesa fiscale ivi recata, essendo tale funzione già stata svolta dalla motivazione dell’atto presupposto, è altrettanto certo che essa dovrà veicolare informazioni sufficienti per valutare la fondatezza sostanziale del credito vantato dal Fisco e del suo ammontare, soprattutto ove siano sopravvenuti elementi nuovi, non esposti nell’atto previamente notificato, ed in grado di incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente.
Si tratta, in sostanza, di adeguare l’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo (nel caso di specie, la cartella esattoriale) al grado di effettiva conoscenza che il contribuente possiede rispetto ai vari elementi che vanno a comporre il credito vantato dal Fisco.
3. Il calcolo degli interessi nella procedura di riscossione tributaria
La questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite impone, quale secondo passaggio logico, un cenno alle modalità di determinazione degli interessi correlati alle somme iscritte a ruolo nella materia tributaria.
A questo proposito, si intende non già fornire una rappresentazione esaustiva delle problematiche sottese al calcolo degli interessi, che esula dalle finalità del presente contributo, quanto evidenziare, in poche battute, la profonda disorganicità del panorama normativo ad oggi vigente.
Invero, ai sensi dell’art. 1224 c.c., l’obbligazione di interessi è una obbligazione accessoria a quella principale, fungendo da risarcimento per il mancato pagamento di una somma di denaro, rappresentata – per ciò che interessa ai presenti fini – dal maggior tributo da corrispondere al Fisco[9]. Sennonché, a fronte di una rigorosa disciplina di diritto civile, segue una normativa estremamente frammentata sul versante tributario, variabile in relazione alla diversa tipologia di tributo, alla fase del procedimento di accertamento o riscossione, ovvero alla tipologia di adempimento (spontaneo o coattivo)[10].
Circoscrivendo l’attenzione alle principali regole in tema di calcolo degli interessi nella procedura di riscossione coattiva dei tributi, si evidenzia che le norme di riferimento sono rinvenibili negli artt. 20 e 30 del d.p.r. n. 600/1973, per le imposte dirette, e nell’art. 55 del d.p.r. n. 131/1986 (TUR), per le imposte sui trasferimenti di ricchezza (imposta di registro, imposte ipocatastali e imposta di successione e donazione).
Le principali difficoltà ricostruttive nell’ambito delle imposte dirette sono riconducibili alla farraginosa disciplina di aggiornamento dei tassi di interesse nel corso del tempo, la quale risulta non facilmente accessibile da parte del contribuente.
Basti pensare, nell’ambito del d.p.r. n. 602/1973, che l’art. 20, sugli interessi di mora relativi alle maggiori imposte dovute in base a liquidazione formale, controllo e accertamento operati dall’Ufficio, e l’art. 30, sugli interessi relativi a somme iscritte a ruolo, prevedono che il quantum esigibile vada determinato, avendo riguardo alla media dei tassi bancari attivi, sulla scorta delle diverse aliquote definite periodicamente da decreti del Ministero dell’Economia e delle finanze, tenendo conto dei diversi termini di decorrenza temporale rilevanti nei singoli casi di specie[11].
Parimenti, con riferimento alle imposte sui trasferimenti di ricchezza, che rilevano nella fattispecie oggetto della sentenza qui annotata, l’art. 55, comma quarto, TUR dispone che, per la determinazione degli interessi, debbano applicarsi le disposizioni di cui alla L. 26 gennaio 1961, n. 29, L. 28 marzo 1962, n. 147 e L. 18 aprile 1978, n. 130.
Soprassedendo sulla opportunità della tecnica normativa prescelta - che rimanda ad una complessa serie di rinvii normativi l’individuazione della disciplina concretamente applicabile - si evidenzia che, in forza dell’art.1 della L. 26 gennaio 1961, n. 29, gli interessi di mora sono fissati nella misura del 2,5% per ogni semestre compiuto. A seguito delle modifiche apportate al predetto testo normativo dalla L. 30 dicembre 1993, n. 557 e dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, che ne hanno permesso l’emendabilità ad opera di atti amministrativi, il tasso d’interesse relativo al ritardato pagamento dell’imposta di registro dovrebbe essere invece determinato conformemente al D.M. 21 maggio 2009 che, all’art. 6, comma 2, lett. b), stabilisce un tasso al 3,5% annuo.
Il tema si complica poi ulteriormente se si presta attenzione ai termini di decorrenza degli interessi relativi alle imposte sui trasferimenti di ricchezza atteso che, dalla lettura delle disposizioni sopra richiamate e dal coordinamento di queste con il D.M. 21 maggio 2009, emerge una tipica fattispecie di superfetazione normativa, risolvibile solo distinguendo il lasso temporale di decorrenza in ragione della natura principale, complementare o suppletiva dell’imposta da corrispondere al Fisco[12].
In definitiva, il quadro che emerge dalla precedente ricostruzione appare segnato da una disciplina disorganica e frammentata che, evidentemente, risulta del tutto inidonea a porre il contribuente nella condizione di comprendere, con sufficiente grado di consapevolezza, il calcolo degli interessi eseguito dall’Amministrazione finanziaria.
Il debitore, dopo aver distinto tra interessi di mora ovvero interessi da ritardato pagamento in ragione della tipologia di tributo, dovrebbe infatti identificare da sé la tecnica aritmetica di calcolo adottata nel caso di specie nonché individuare il dies a quo e la base imponibile del tasso di interesse, affidandosi a molteplici fonti normative e regolamentari, più volte mutate negli anni e connotate da frequenti rinvii ad altri provvedimenti legislativi.
4. Gli orientamenti contrastanti della giurisprudenza di legittimità sull’obbligo di motivazione della cartella applicato agli interessi
La Suprema Corte, negli anni, è stata a più riprese chiamata a pronunciarsi sull’ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella esattoriale notificata al contribuente, in relazione alle modalità di calcolo degli interessi maturati sulle somme iscritte a ruolo.
La giurisprudenza di legittimità, come noto, non è tuttavia pervenuta ad una linea interpretativa comune e condivisa, tale da definire in maniera netta il perimetro del citato obbligo.
Le numerose pronunce che si registrano sul tema - ora disconoscendo la necessità di una puntuale esplicitazione del criterio di calcolo adottato, essendo quest’ultimo rigidamente stabilito dalla legge, ora valorizzando il diritto di difesa del contribuente e l’imprescindibilità di una motivazione completa in relazione ai vari elementi accessori al tributo – danno luogo a ricostruzioni antitetiche e difficilmente conciliabili, tradendo una diversa sensibilità giuridica nella percezione dei valori costituzionali in gioco.
Invero, secondo un primo indirizzo, fautore di una interpretazione restrittiva dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, la determinazione degli interessi sulle somme iscritte a ruolo non soggiacerebbe ad alcuno stringente obbligo motivazionale giacché non sarebbero rinvenibili elementi fattuali o giuridici, diversi da meri calcoli matematici, da dover essere esplicitati al contribuente[13].
In specie, l’elemento che i giudici di legittimità hanno ritenuto fondamentale per accedere a tale ricostruzione ermeneutica è rappresentato dalla predeterminazione legislativa delle modalità di calcolo degli interessi, come enucleata nel d.p.r. n. 602/1973 (o nell’art. 55 TUR), tale da escludere, alla radice, ogni forma discrezionale di valutazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
La determinazione degli interessi sarebbe frutto di un procedimento automatico (più precisamente, aritmetico) e, in quanto tale, l’obbligo di motivazione risulterebbe assolto in re ipsa, mediante il rinvio alle varie norme di legge o alle fonti secondarie che disciplinano, nella fase di riscossione tributaria, gli interessi di mora o da ritardato pagamento[14].
In questa prospettiva, è sufficiente che la base imponibile su cui applicare il tasso di interesse sia già nota al contribuente, essendo ogni altro elemento dell’operazione matematica già preordinato a monte dalla legge.
Tale linea interpretativa è stata principalmente sostenuta in relazione a fattispecie nelle quali gli interessi erano calcolati nell’ambito di una attività di liquidazione dell’imposta, eseguita in sede di controllo automatizzato ai sensi dell’art. 36 bis del d.p.r. n. 600/1973, e quindi fondata su dati ed informazioni esposti nella dichiarazione dei redditi da parte del contribuente medesimo. Quest’ultimo si sarebbe così trovato nella condizione di poter immediatamente applicare i tassi d’interessi previsti dalla legge alle somme indicate in dichiarazione, senza necessità di ulteriori specifiche indicazioni, che sarebbero risultate ridondanti[15].
L’orientamento esaminato mostra di prediligere una interpretazione formalistica dell’obbligo di motivazione, secondo un approccio che attribuisce rilievo non già alla concreta comprensione delle modalità di calcolo adottate nella fattispecie concreta, quanto alla loro potenziale ed astratta conoscibilità in forza di legge[16].
Su di un piano opposto si colloca altra giurisprudenza di legittimità, per la quale l’obbligo motivazionale deve assumere maggiore effettività, dovendo sempre porre il contribuente nella condizione di pervenire ad una conoscenza non meramente teorica, ma reale, circa il metodo di calcolo applicato per la determinazione degli interessi e, quindi, circa la bontà del credito complessivo fatto valere dal Fisco nella cartella di pagamento[17].
Non a caso, l’orientamento di cui si discute è sorto in relazione a talune fattispecie in cui il contribuente, soccombente nel giudizio tributario avente ad oggetto l’impugnazione di un atto impositivo, era poi risultato destinatario di una cartella esattoriale, emessa in forza della sentenza passata in giudicato.
Tale cartella, evidentemente, recava un credito fiscale più ampio di quello esposto nell’atto impositivo, giacché l’Agente della riscossione aveva provveduto a computarvi anche gli interessi medio tempore maturati, nonché altre voci di costo (si pensi all’aggio da riscossione), non quantificati in sede di accertamento[18].
Pertanto, l’obbligo motivazionale di cui all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, volto a rendere trasparente l’agire amministrativo nonché a stimolare la difesa del contribuente, doveva ritenersi rispettato solo ove quest’ultimo fosse stato posto nella condizione di ripercorrere in maniera puntuale il metodo seguito dal Fisco nella determinazione dei maggiori importi richiesti, illustrando le modalità di calcolo, la provenienza e la percentuale del tasso applicato, nonché la decorrenza temporale degli interessi.
Invero, sebbene sia innegabile che il contribuente possa astrattamente ricostruire i calcoli eseguiti dall’Amministrazione finanziaria, è altrettanto vero che sul piano materiale ciò si tradurrebbe in una defatigante operazione che, contraria ai principi di trasparenza dell’agire amministrativo, condurrebbe quest’ultimo a ricercare aliunde elementi che dovrebbero essere invece già presenti nell’intimazione ad adempiere.
Ne consegue che le sentenze di legittimità aderenti a quest’ultimo orientamento paiono offrire una interpretazione del citato art. 7 in termini nettamente più garantisti e favorevoli al contribuente, non potendosi ritenersi soddisfacente un impianto motivazionale che, ineccepibile nella forma, si riveli del tutto inadeguato, nella sostanza, a veicolare le informazioni di cui il debitore necessità per valutare la legittimità del credito vantato dal Fisco.
In definitiva, si ritiene che le considerazioni precedenti permettano di pervenire ad un unico punto fermo. A distanza di oltre venti anni dalla introduzione dello Statuto dei diritti del contribuente, il perimetro dell’obbligo di motivazione, punto di convergenza tra valori assiologici contrapposti dell’ordinamento tributario, mostra contorni ancora indefiniti ed esposti alle diverse sensibilità degli interpreti.
5. Le questioni poste dalla pronuncia in commento
La pronuncia annotata si pone esattamente al centro del contrasto giurisprudenziale dinanzi illustrato atteso che la Suprema Corte è stata chiamata a decidere sulla legittimità di una cartella di pagamento priva di motivazione in relazione agli interessi richiesti ai contribuenti.
Si è già detto che i contribuenti erano stati destinatari di un avviso di liquidazione con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva revocato un’agevolazione fiscale legata alla piccola proprietà contadina, di cui alla L. 6 agosto 1954, n. 604, fruita nel 1980, in costanza di un rogito notarile avente ad oggetto la compravendita di un terreno.
La vicenda processuale, conclusasi sfavorevolmente per i contribuenti nell’anno 2009, conduceva alla successiva emissione di una cartella di pagamento da parte dell’Agente della riscossione.
Tale cartella, in relazione agli interessi richiesti ai sensi dell’art. 55 TUR, non recava, tuttavia, alcun prospetto volto a ricostruire il percorso seguito dal Fisco per la determinazione dell’importo esposto nell’atto.
I contribuenti, impugnando la cartella di pagamento, rilevavano così la violazione degli artt. 24 Cost. e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, ritenendo di fatto impossibile ricostruire i calcoli compiuti dall’Ufficio nella quantificazione delle somme richieste a titolo di interessi nell’arco di tempo di oltre quarant’anni[19].
I giudici di merito sceglievano tuttavia di aderire all’orientamento giurisprudenziale meno garantista, ritenendo sufficiente che la motivazione della cartella rinviasse all’avviso di liquidazione e all’atto notarile presentato per la registrazione. Nella prospettiva di tali giudici, invero, l’impianto motivazionale non avrebbe necessitato di alcun dettaglio in ordine alle modalità di calcolo degli interessi giacché la predeterminazione degli stessi ad opera del legislatore (nel caso di specie, dall’art. 55 TUR) avrebbe permesso ai contribuenti, in ogni circostanza, di eseguire i relativi conteggi aritmetici, così da verificarne la correttezza.
La risoluzione della controversia veniva pertanto affidata ad una interpretazione meramente formalistica dell’obbligo di motivazione, sul presupposto che tutti i fattori determinanti per il calcolo degli interessi si sarebbero già trovati nella sfera astratta di conoscibilità dei contribuenti.
La Suprema Corte, anziché avallare la ricostruzione proposta nella sentenza impugnata, ha correttamente colto l’occasione per riflettere sull’ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella di pagamento in relazione al calcolo degli interessi, riconoscendo l’esistenza di un acceso contrasto giurisprudenziale sul tema, da doversi risolvere in un orizzonte di nomofilachia.
In questa prospettiva possono, pertanto, essere avanzate talune importanti considerazioni di sistema.
6. La necessità di una interpretazione conforme al principio di effettività da parte delle Sezioni Unite
La risoluzione della querelle giurisprudenziale, rilevata dalla ordinanza in commento, impone di attuare una riflessione sui valori assiologici che permeano l’attività amministrativa tributaria e che vedono nell’obbligo di motivazione un canone imprescindibile di civiltà giuridica.
Invero, la motivazione dell’atto idoneo ad incidere sulla sfera dei destinatari è stato un tema da sempre avvertito come coessenziale allo sviluppo del moderno modello di ordinamento fiscale, in cui l’agire amministrativo deve essere improntato ad un massimo grado di trasparenza, così da permetterne il controllo da parte del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria[20].
L’impianto motivazionale dell’atto deve consentire al contribuente di comprendere, in punto di fatto e di diritto, se l’esercizio della potestà pubblica sia rispondente allo schema normativo che la definisce, non essendo tollerabile che il Fisco agisca, violando i parametri costituzionali, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., oltre il perimetro concesso dalla legge.
Sulla scorta di queste considerazioni, la funzione cruciale svolta dalla motivazione è quella di esplicitare e rendere intelligibili all’esterno gli elementi tecnici e sostanziali che hanno condotto alla formazione del credito vantato dal Fisco, così da agevolare l’interpretazione dell’atto e permetterne, contestualmente, l’eventuale sindacato in sede processuale.
Mettendo a fuoco il fatto che la motivazione funge da parametro di legittimità dell’atto, consegue che tale funzione potrà essere espletata solo ove il suo contenuto sia effettivamente idoneo ad esprimere le informazioni di cui il contribuente necessita e, quindi, a tutelare la pluralità di interessi in gioco.
L’intelligibilità del credito fiscale espresso nell’atto - sia esso un avviso di accertamento o una cartella di pagamento - assume così una valenza assorbente atteso che la motivazione può ritenersi esistente, e quindi adeguata allo scopo assegnatole dalla legge, solo ove sia in grado di porre nella sfera di conoscenza del soggetto passivo, non in astratto ma in concreto, tutti gli elementi necessari per vagliare la correttezza della prestazione patrimoniale cui deve adempiere.
Si ritiene che l’obbligo di motivazione debba, quindi, essere ancorato ad un criterio di effettività giuridica[21], dovendosi rigettare ogni diversa interpretazione, meramente formalistica e di facciata.
L’effettività costituisce un canone generale dell’ordinamento che impone una adeguatezza sostanziale di ogni disciplina agli interessi cui è preposta, determinando la necessaria valutazione di tutti i valori che sottendono ad ogni istituto giuridico.
In tal senso la motivazione deve essere effettiva e, come tale, rispondere ai principi generali ed ai valori di fondo che hanno presieduto la sua introduzione e che la governano la sua funzione.
Applicando queste considerazioni al caso posto all’attenzione delle Sezioni Unite, è necessario chiedersi se, alla luce del quadro normativo vigente, il contribuente possa realmente ricostruire da sé il quantum di interessi che l’Amministrazione finanziaria è legittimata a pretendere, ovvero se tale operazione, sebbene astrattamente possibile su di un piano teorico, si riveli poi irrealizzabile sul piano pratico, per ineliminabili complessità tecniche.
Si ritiene che la motivazione relativa ad interessi di mora o di ritardato pagamento nella cartella di pagamento, in ragione dell’elevato tecnicismo della materia e della sedimentazione di plurime fonti normative e regolamentari nel tempo, non possa, quale regola generale, ridursi alla mera indicazione dell’importo totale dovuto dal contribuente, soprassedendo alla analitica indicazione degli elementi costitutivi di tale credito (giorni, tassi d’interesse, base imponibile, aliquote, etc.).
Invero, sulla scorta dei principi che si sono dinanzi richiamati, è irragionevole ritenere che il contribuente abbia la capacità, in via autonoma, di ripercorrere i calcoli aritmetici posti in essere dall’Amministrazione finanziaria – la quale, preme evidenziare, si avvale allo scopo di appositi software – così da poter appurare la legittimità della pretesa fatta valere dal Fisco.
In questa prospettiva, la necessità di un obbligo motivazionale effettivo e sostanziale per la determinazione delle somme pretese a titolo di interessi appare imprescindibile in ogni caso, tanto ove la cartella esattoriale sia motivata per relationem, come nel caso dell’accertamento ex art. 36 bis, quanto ove essa giunga all’esito di una vicenda più complessa, venendo ad esempio emessa in forza di una sentenza passata in giudicato.
In tale ultima fattispecie, la necessità di una motivazione adeguata appare ancor più evidente se sol si pensa che la cartella di pagamento potrebbe richiedere, per la prima volta, delle somme a titolo di interesse, di cui il contribuente non poteva ovviamente avere contezza nelle precedenti fasi amministrative o processuali che lo hanno coinvolto.
In tale circostanza, la quantificazione dell’importo può risultare ostico o financo impossibile, in specie ove il debito fiscale, da cui gli interessi traggono origine, afferisca ad un periodo d’imposta risalente nel tempo.
In sostanza, a fronte della alternativa posta all’attenzione delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la soluzione che si impone è quella di sancire un l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare una motivazione della cartella di pagamento completa ed esaustiva in relazione ad ogni elemento del credito fiscale che possa risultare, per plurime ragioni, di difficile o impossibile comprensione per il soggetto debitore.
Appare invece lesiva dei principi costituzionali consacrati agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., la condotta dell’Amministrazione finanziaria che, lungi dal mostrarsi trasparente, preferisca celare le modalità di calcolo degli interessi dietro ad una astratta possibilità di conoscenza allorquando, in punto di fatto, sia del tutto pacifico che il contribuente non si trovi nelle condizioni di poter da sé provvedere, agevolmente, a tale ricostruzione.
7. La motivazione degli interessi nel caso di specie
Si ritiene che la cartella esattoriale oggetto della pronuncia annotata non possa ritenersi rispettosa dei principi enunciati e dovrebbe pertanto essere annullata giacché, a fronte della facilità con cui il Fisco potrebbe esplicitare i calcoli alla base delle somme richieste, non corrisponde una analoga e simmetrica condizione dei contribuenti percossi.
Invero, gli interessi recati dalla cartella esattoriale impugnata mostrano una natura composita, ai sensi del combinato disposto dell’art. 55 TUR e della L. 26 gennaio 1961, n. 29, essendo costituiti sia da interessi di mora che da interessi da ritardo pagamento, rispetto ai quali sussistono differenti tassi applicabili alla base imponibile da corrispondere al Fisco nonché diverse regole per l’individuazione del relativo dies a quo.
Tali interessi, peraltro, sono maturati in un lasso temporale assai divaricato – dal 1980 al 2009 – con la conseguenza di essere variamente determinabili in ragione delle aliquote applicabili in ciascun periodo (dalla registrazione della compravendita sino alla notifica della cartella di pagamento) [22].
Stante il tempo trascorso, gli interessi pretesi dal Fisco risultano poi di importo ben superiore ai tributi dovuti, con la conseguenza che il credito vantato è composto, per un importo considerevole, da somme che non si trovano esposte o giustificate in alcun atto pregresso posto nella sfera di conoscibilità del contribuente, essendo maturate ex post.
Se è quindi vero che la cartella esattoriale presenta una motivazione dai contenuti variabili in ragione delle circostanze in cui essa viene emessa, è altrettanto certo che tale elasticità non sia tale da elidere la rappresentazione del metodo di calcolo degli interessi, ponendo in capo al contribuente l’onere di ricostruire una componente essenziale del credito vantato.
Le considerazioni che precedono permettono così di mettere debitamente a fuoco i termini reali del problema.
L’obbligo di motivazione nella fase di riscossione coattiva deve condurre ad una tutela piena dei valori assiologici in gioco, dando luogo ad una cartella di pagamento che, secondo una prospettiva di pragmatismo giuridico, proceda ad una esposizione chiara e puntuale della posizione attiva vantata dal Fisco circa le somme pretese a titolo di interesse, conformemente al coacervo di valori costituzionali che regolano la fase di attuazione del tributo.
Si tratta, come detto, di un passaggio oggi imposto in nome dei canoni generali del principio di effettività giuridica al quale ogni disciplina giuridica deve essere oggi informata.
8. Conclusioni
L’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, quale norma generale sulla motivazione degli atti per la materia tributaria, rappresenta una conquista fondamentale del moderno ordinamento fiscale, avendo tradotto in termini positivi le prerogative di difesa del contribuente e l’esigenza di trasparenza e di correttezza dell’agire amministrativo.
L’obbligo di motivazione involge anche la cartella di pagamento emessa dall’Agente della riscossione giacché il contribuente, a mezzo di questo atto, si deve trovare nella condizione di verificare la legittimità del credito fiscale, in ragione del quale potrebbe subire, in assenza di celere liquidazione degli importi dovuti, atti esecutivi pregiudizievoli per la sua sfera patrimoniale.
In questa prospettiva, se è evidente che la motivazione dell’atto esattivo non debba essere ridondante e quindi ripercorrere argomentazioni o elementi già noti al contribuente, dovrà almeno fornire una rappresentazione esaustiva di ogni componente del credito di cui egli non abbia, per diverse ragioni, potuto acquisire in precedenza piena ed effettiva conoscenza.
Gli interessi di mora o di ritardato pagamento - che si connotano per una disciplina notoriamente ipertrofica e frammentata, al punto da renderne ardua l’esatta quantificazione senza l’ausilio di appositi software - non possono essere semplicemente enunciati e non spiegati nella cartella esattoriale, a maggior ragione ove essi siano richiesti per la prima volta e si originino da un credito tributario risalente nel tempo.
Ogni opposta ricostruzione, che fa leva sulla predeterminazione degli interessi ad opera della legge e quindi sulla astratta possibilità per il contribuente di adoperarsi in calcoli complessi e defatiganti, predilige il rispetto solo apparente dei principi suggellati nel citato art. 7 e non già la loro effettiva implementazione sul piano sostanziale.
Al contrario, la trasparenza e la chiarezza dell’agire amministrativo assurgono ad irrinunciabili canoni di civiltà giuridica, non sacrificabili dinanzi a paventate esigenze di celerità ed economicità della fase di riscossione coattiva.
La questione in esame deve, pertanto, essere risolta alla luce dei canoni dell’effettività giuridica, dai quali la motivazione degli atti tributari non si deve mai allontanare.
[1] L’obbligo di motivazione degli atti impositivi e, più in generale, degli atti amministrativi costituisce un principio cruciale e di trasversale applicazione nell’ordinamento contemporaneo, espressione di molteplici valori espressi dalla Carta Costituzionale (art. 3, 24, 97, 111, 113 Cost.), tanto da trovare applicazione in relazione ad ogni atto che sia in grado di produrre effetti giuridici idonei ad incidere sulla sfera di un soggetto terzo, esterno all’Amministrazione procedente. Si tratta, come noto, di un profilo in cui appare evidente la tangenza tra il diritto tributario e i principi che innervano il procedimento amministrativo generale. I temi in esame sono trattati diffusamente dalla dottrina amministrativa e tributaria. Tradizionalmente, per una disamina sul senso dell’obbligo di motivazione, ex pluribus, M. S. Giannini, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XVII, 1977, pag. 257. Nella materia tributaria, ex pluribus, L. Del Federico, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, 206 ss.; Id., L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 851 ss.
[2] La Corte di Cassazione, con le note sentenze a Sezioni Unite, nn. 8279/2008 e 8770/2016, ha riconosciuto alla cartella di pagamento (nonché all’avviso di mora e all’intimazione di pagamento) natura di atto prodromico all’esecuzione forzata e, in quanto tale, devoluto alla giurisdizione del giudice tributario, se autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D. lgs. n. 546/1992.
[3] La funzione sostanziale della motivazione dell’atto amministrativo è stata ripetutamente ricondotta dalla Consulta ad un articolato coacervo di interessi costituzionalmente rilevanti, costituiti, da un lato, dalla conoscibilità, proporzionalità e trasparenza dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, dalla tutela effettiva del consociato, che si reputi leso dall’esercizio del potere autoritativo espresso dalla Pubblica Amministrazione. In questo senso, ex multis, Corte Cost., sent. 23 giugno 1956; Corte Cost., sent. 19 dicembre 1973, n. 177; Corte Cost, sent. 22 novembre 2000, n. 256. Si veda per la materia tributaria, ex pluribus, F. Gallo, Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione del pensiero della Corte, in Rass. Trib., 2001, 1088.; M. Beghin, Osservazioni in tema di motivazione dell’avviso di accertamento ex art. 42 d.p.r. n. 600/1973, alla luce dell’art. 7 dello “Statuto dei diritti del contribuente”, in Riv. dir. trib., I, 2004, 711.
[4] Ciò è peraltro desumibile dall’art. 17 dello Statuto dei diritti del contribuenti, il quale, rubricato “Concessionari della riscossione”, dispone espressamente che “le disposizioni della presente legge si applicano anche nei confronti dei soggetti che rivestono la qualifica di concessionari e di organi indiretti dell'amministrazione finanziaria, ivi compresi i soggetti che esercitano l'attività di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di qualunque natura”, così estendendo l’obbligo di motivazione, espresso dal precedente art. 7, anche agli atti amministrativi emessi dall’agente della riscossione.
[5] In questo senso la dottrina è solita attribuire alla motivazione dell’atto impositivo la funzione precipua di garantire la difesa del contribuente, ponendolo nella condizione di ripercorrere l’iter logico-giuridico che ha condotto l’Amministrazione finanziaria ad avanzare la pretesa fiscale e così valutare l’opportunità di avviare un contenzioso dinanzi al giudice tributario, il cui perimetro non potrà che essere circoscritto al contenuto sostanziale espresso dall’impianto motivazionale dell’atto impugnato. Cfr. S. Muleo, La motivazione dell’accertamento come limite della materia del contendere nel processo tributario, in Rass. Trib., 1999, 509 ss.; R. Miceli, Motivazione per relationem: dalle prime elaborazioni giurisprudenziali allo Statuto del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, 1171 ss.; Id. La motivazione degli atti tributari, in AA. VV., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi – G. Fedele, Milano, 2005, 296 ss.
[6] Cfr. Corte Cass., Sez. III, 20 luglio 2021, n. 20694; Corte Cass., Sez. V, 24 ottobre 2019, n. 27271; Corte Cass., Sez. V, 12 aprile 2016, n. 7157; Corte Cass., Sez. V, 13 marzo 2015, n. 5057; Corte Cass., Sez. V, 03 febbraio 2010, n. 2439.
[7] In questa circostanza, secondo Corte Cass., Sez. V, 24 ottobre 2019, n. 27271, la cartella esattoriale rappresenta a tutti gli effetti un atto impositivo che deve essere congruamente motivato, trattandosi del primo ed unico atto mediante il quale la pretesa fiscale è esercitata nei confronti del dichiarante, conseguendone la sua impugnabilità anche per contestare il merito della pretesa impositiva.
La dottrina, su questo specifico tema, ha debitamente evidenziato come la procedura di liquidazione del tributo si intersechi, a mezzo della funzione ambivalente svolta dalla cartella di pagamento, con la procedura di riscossione coattiva. Cfr. A. Carinci, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2008, passim e G. Boletto, Il ruolo di riscossione nella dinamica del prelievo delle entrate pubbliche, Milano, 2010, 98.
[8] Così, ad esempio, se la cartella di pagamento consegue ad una vicenda processuale complessa, all’esito della quale sono mutati, in tutto o in parte, uno o più elementi che compongono il credito ivi cristallizzato, la cartella di pagamento dovrà recare una motivazione certamente sintetica ma, al contempo, adeguata ed intelligibile in relazione a tali elementi nuovi, dovendo garantire al contribuente una conoscenza effettiva di ogni pretesa fatta valere nei suoi confronti.
[9] In questo senso, tra la dottrina più autorevole, si rimanda a P. Zatti, V. Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 2020, 340 ss.: F. Galgano, Diritto privato, Padova, 2019, 221 ss. i quali ricordano come si debba distinguere tra interessi corrispettivi e interessi moratori. I primi, disciplinati agli artt. 1282 c.c. ss. sono a carico del debitore e corrispondono al corrispettivo maturato dal creditore il quale ha mutuato al primo una somma di denaro, avente natura fruttifera ai sensi dell’art. 820 c.c. I secondi, disciplinati agli artt. 1224 c.c. ss., rilevano anche a fini tributari e attengono all’inadempimento di una obbligazione pecuniaria.
[10] Al fine di uniformare la determinazione degli interessi nella materia tributaria nelle fasi di liquidazione, accertamento e riscossione, il legislatore ha tentato di operare, in tempi recenti, alcuni interventi di sistematizzazione che, tuttavia, non hanno ad oggi condotto ad alcuna modifica sostanziale dello stato dell’arte. In specie, l’art. 13 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159 ha affidato al Ministro dell'Economia e delle Finanze il compito di fissare, con decreto, la misura e la decorrenza dell'applicazione del tasso di interesse per il versamento, la riscossione e i rimborsi di ogni tributo. Tale determinazione sarebbe dovuta avvenire in misura unica, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, e compresa nell'intervallo tra lo 0,5 per cento e il 4,5 per cento. Il predetto decreto non è stato tuttavia emanato.
In tempi recenti, il D.l. 26 ottobre 2019, n. 124, all’art. 37, comma 1-ter, ha stabilito che il tasso di interesse per il versamento, la riscossione e i rimborsi di ogni tributo fosse determinato, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, in misura compresa tra lo 0,1 per cento e il 3 per cento. Ai sensi del comma 1-quater, con decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze dovevano essere stabilite misure differenziate, sempre nei limiti predetti, per altre tipologie di interessi, quali, ad esempio, interessi per pagamenti rateali, interessi per ritardata iscrizione a ruolo, etc. Anche in tal caso la normativa di attuazione non è mai stata introdotta.
[11] Il tasso degli interessi di cui all’art. 20, ad oggi, è fissato nella misura del 4% annuo dal D.M. 21 maggio 2009, con effetto a valere dal 1ottobre 2009. Tale misura è ripetutamente variata negli anni. L'originaria misura del 5% è divenuta pari al 2,75%, a decorrere dal 1° luglio 2003, ex art. 3, comma 1, D.M. 27 giugno 2003.
Al contrario, il tasso degli interessi di cui all’art. 30 è stabilito, attualmente, dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, sulla scorta delle modifiche introdotte dall’art. 13 del D. lgs. 24 settembre 2015, n. 159
[12] In questa prospettiva, ai sensi degli artt. 1, 2 e 3 della L. 26 gennaio 1961, n. 29, per quanto attiene agli interessi sull’imposta principale non versata, emerge che essi devono essere calcolati a partire dal giorno successivo alla data di scadenza prevista per la richiesta di registrazione, sia nel caso in cui essa sia stata presentata, ma non si sia poi corrisposto il tributo, sia nel caso in cui essa non sia stata presentata.
In ordine agli interessi di mora sull’imposta complementare, come chiarito dalla L. 28 marzo 1962, n. 147, è necessario distinguere il caso in cui la maggiore imposta accertata derivi da comportamento colposo del contribuente o meno. Nella prima ipotesi gli interessi devono essere calcolati dal giorno in cui era dovuto il tributo principale, ovverosia dal giorno successivo al termine per la richiesta di registrazione; nella seconda ipotesi, quella per cui l’imposta complementare sia stata richiesta senza che sia ravvisabile una colpa del contribuente, il termine iniziale è quello dell’avvenuta liquidazione dell’imposta stessa.
Da ultimo, con riferimento all’imposta suppletiva, ossia derivante da errori od omissioni dell’Ufficio, il termine di decorrenza risulta chiarito dalla Circolare Ministeriale del 2 agosto 1961 n. 124623 ove si legge che gli interessi decorrono dal giorno successivo alla scadenza del termine per pagare a seguito dell’avviso di liquidazione.
[13] Cfr. Corte Cass., Sez. V, 14 aprile 2021, n. 9764; Corte Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778; Corte Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8505; Corte Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Corte Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236, Corte Cass., Sez. V, 22 ottobre 2014, n. 22402; Corte Cass., Sez. V, 18 dicembre 2009, n. 26671.
[14] Cfr. Corte Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8505.
[15] Cfr. Corte Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236 ove si legge che “nel caso di mera liquidazione dell’imposta sulla base dei dati forniti dal contribuente medesimo nella propria dichiarazione, nonché qualora vengano richiesti interessi o sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla motivazione medesima”.
[16] Si tratta di una linea interpretativa che privilegia l’astratta conoscibilità del diritto secondo un approccio formale e non sostanziale circa l’effettiva conoscenza e comprensibilità della legge. Su tali questioni, M. Corsale, La certezza del diritto, Milano, 1970, passim.
[17] In questo senso, Corte Cass., Sez. VI, 3 maggio 2018, n. 10481; Corte Cass., Sez. V, 7 settembre 2018, n. 21851; Corte Cass., Sez. VI 6 luglio 2018, n. 17767; Corte Cass., Sez. VI, 22 giugno 2017, n. 15554; Corte Cass., Sez. V, 6 dicembre 2016, n. 24933; Corte Cass., Sez. V, 21 marzo 2012, n. 4516; Corte Cass., Sez. V, 9 aprile 2009, n. 8651. Tale orientamento è peraltro ampiamente diffuso nella giurisprudenza tributaria di merito. Cfr. Comm. Trib. Prov. Roma, 24 ottobre 2017, n. 22734, Comm. Trib. Reg. Piemonte, 1 ottobre 2012, n. 96 e Comm. Trib. Reg. Lazio, 16 febbraio 2021, n. 969.
[18] Cfr. Corte Cass., Sez. V, 7 settembre 2018, n. 21851.
[19] Giova evidenziare che il valore degli interessi applicati dall’Agente della riscossione risultava nella misura di €. 35.168,21, a fronte di una pretesa impositiva di €. 17.258,29, a titolo di imposta di registro e imposte ipo-catastali.
[20] Come noto, la motivazione dell’atto di accertamento tributario è stata prevista ben prima della codificazione dell’obbligo di motivazione nella materia amministrativa. Cfr., ex pluribus, M. S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, op. cit., 257 ss.; F. Tesauro, Ancora sulla motivazione degli avvisi di accertamento (nota a Cass., Sez. I, 11 luglio 1985, n. 4129), in Boll. trib., 1985, 1511 ss. e C. Glendi, Accertamento e processo, in Boll. Trib., 1986, 771. Quest’ultimo, in particolare, osserva che “in ragione della accresciuta varietà dei tipi di accertamento, la motivazione rivela la sua vera natura e funzione, che non consiste più sicuramente in un progetto impositivo in cerca di conferme o in una provocatio ad opponendum e neppure può dirsi limitata a facilitare la difesa del contribuente, ma costituisce elemento essenziale dell’atto e misura, anzitutto, dell’esercizio del potere impositivo”.
[21] L’effettività è un valore fondamentale dell’ordinamento giuridico, teorizzato da alcuni studi classici sul tema. Cfr. P. Piovani, Effettività (principio di), in Enc. Dir. Vol., XIV, Milano, 1965, pag. 431; G. Gavazzi, Effettività (principio di), in Enc. Giur. Treccani, Vol. XII, Roma, 1988, pag. 420; A. Catania (a cura di), Dimensioni dell’effettività. Tra teoria generale e politica del diritto, Milano, 2005, Passim.
È stato l’ordinamento europeo a ridare centralità a questo valore, ponendolo a fondamento dell’integrazione giuridica tra gli Stati. A fronte di tale esperienza, il valore in esame ha assunto il ruolo di parametro di coerenza ed efficacia di ogni disciplina giuridica formale e sostanziale. Cfr. R. Miceli, Il principio comunitario di effettività quale fondamento dell’integrazione giuridica europea (in AA. VV., Scritti in onore del prof. Vincenzo Atripaldi, Napoli, 2010, sezione Europa, pp. 1623; id., Indebito comunitario e sistema tributario interno: contributo allo studio del rimborso d’imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, cap. 1
[22] L’elemento temporale della vicenda è già stato ritenuto dalla Suprema Corte come fondamentale per stabilire l’esatta ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella di pagamento in relazione agli interessi di mora e di ritardato pagamento. Invero, in una vicenda analoga a quella in esame, ove il credito tributario si era originato nel 1976, i giudici di legittimità avevano concluso per la necessità di una puntuale spiegazione delle modalità di calcolo adottate dall’Amministrazione finanziarie in quanto “l’operato dell’Ufficio era ricostruibile attraverso difficili indagini dovute alla vetustà della questione, che non competevano al contribuente che vedeva, così, violato il suo diritto di difesa”. Così Corte Cass., Sez. VI, 22 giugno 2017, n. 15554.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.