ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le cause di incompatibilità a presidio dell’imparzialità del giudice amministrativo (nota a Cons. St., sez. V, 6 aprile 2021, n. 2759)
di Vinicio Brigante
Sommario: 1. La vicenda processuale. Rapporti di parentela, persistenza e decadenza dei profili di incompatibilità. - 2. Il Consiglio di Stato 2759/2021. A presidio dell’imparzialità della giustizia amministrativa. - 3. L’immutabile attualità dei profili di incompatibilità. Brevi note conclusive su obblighi motivazionali (ingiustificatamente) differenziati.
1. La vicenda processuale. Rapporti di parentela, persistenza e decadenza delle cause di incompatibilità
La sentenza in commento si pone quale occasione di riflessione sul regime delle cause di incompatibilità poste a presidio dell’imparzialità[i] del giudice amministrativo[ii], tema che non smarrisce ma accresce il suo fascino con l’evolversi del sistema di giustizia amministrativa[iii].
La compiuta strutturazione del processo amministrativo operata dal codice del processo amministrativo e l’attenuazione della distinzione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa rafforzano l’esigenza di assicurare il rispetto del principio del giusto processo[iv] e sottolineano, come strutturale e coerente corollario, la necessità di garantire e preservare il ‘giudice giusto’.
Nel caso del giudice amministrativo, il profilo si rivela particolarmente problematico se solo si considera che è comune l’osservazione per cui l’indipedenza della giurisdizione intesa in termini di principio fondante, di cui all’art. 104 Cost., deve essere graduata, poiché il modello elaborato dalla Costituente prevede un’indipendenza ‘forte’ per la magistratura ordinaria, e una ‘sufficiente’ per le altre magistrature[v] (amplius, v. infra par. § 3).
Preliminarmente, si rende necessaria la ricostruzione storico-processuale della vicenda, al fine di poter apprezzare le specifiche caratteristiche del caso e, in che modo e con che intensità le stesse incidano sulla fondatezza dell’emergere di cause di incompatibilità del giudice amministrativo.
La vicenda dedotta in giudizio ha ad oggetto un profilo di incompatibilità legato alla sussistenza della relazione familiare di un magistrato - nelle more della sua partecipazione, come istante, a diversi interpelli, tra cui quello a presidente di un ufficio giudiziario mono sezionale - con la figlia, avvocato nello stesso foro in cui è sito l’ufficio giudiziario, titolare di diverse cause pendenti dinanzi all’unica sezione del T.A.R. per la quale è presentata la domanda.
Il magistrato in questione ha partecipato agli interpelli per il conferimento degli incarichi di presidente del T.A.R. Marche, ufficio mono sezionale - circostanza che ha un suo autonomo rilievo operativo rispetto ai profili di incompatibilità, come intuibile - e di presidente della Terza sezione del T.A.R. Lazio, esprimendo preferenza per la prima soluzione di interpello.
La competente Commissione consiliare, dopo aver respinto la proposta del relatore di accertare la causa di incompatibilità[vi], connessa alla circostanza che la figlia dell’appellante svolgesse la professione di avvocato nel foro di pertinenza del T.A.R. Marche - con nove liti pendenti dinanzi allo stesso plesso giurisdizionale - ha proposto in ogni caso al Plenum la nomina, che lo stesso Plenum, tuttavia, respingeva.
In primo grado, si deduceva l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per travisamento dei fatti e vizio della motivazione, poiché, in precedenza, rispetto ad altre vicende, il C.G.P.A. aveva escluso la persistenza dell’incompatibilità, allorquando emergesse in maniera chiara l’impegno a rimuovere la causa di incompatibilità, quindi, nel caso di specie, in presenza dell’impegno della figlia ad astenersi da ogni attività dinanzi al T.A.R. Marche- impegno che era stato formalizzato e reso conoscibile dalla stessa figlia - si sarebbe dovuti giungere alla medesima soluzione. Come si vedrà, la peculiarità ambientale della vicenda non consentiva di percorrere tale strada interpretativa.
Il T.A.R. ha accolto il ricorso, con relativo annullamento, per difetto di motivazione e di istruttoria, del decreto di nomina. Per il giudice di prime cure, il C.G.P.A. ha esaminato il profilo di incompatibilità ambientale, ma con evidenti lacune istruttorie; nello specifico, ha omesso di considerare l’impegno della figlia del ricorrente a non esercitare, in alcuna forma, attività legale o di consulenza, rispetto a liti pendenti dinanzi all’ufficio giudiziario di interesse per la vicenda, ossia il T.A.R. Marche.
Per il giudice di prime cure, il C.G.P.A., a fronte di un impegno di astensione come quello palesato, avrebbe dovuto ritenere rimossa la causa di incompatibilità, fermo restando che qualora lo stesso C.G.P.A. ravvisi la reviviscenza dello stato di incompatibilità, è tenuto ad accertarlo con adeguata istruttoria e a legittimarne la relativa persistenza con specifica motivazione.
Si deve osservare che l’incompatibilità di sede per i rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione legale rinviene il proprio fondamento, in termini di razionalità della previsione, nel carattere di indipendenza[vii] della giurisdizione, che non tollera neppure ‘apparenze di condizionamenti’, poiché si pone quale presidio di carattere preventivo, diretto a preservare il profilo dell’imparzialità in tutti i suoi aspetti, anche solo potenziali.
Inoltre, la circolare adottata dal C.G.P.A. il 12 ottobre 2006 sul tema si propone di operare un bilanciamento tra interessi confliggenti, con una graduazione che si basa su diversi parametri e fattori, tra cui la dimensione dell’ufficio e del foro locale, la funzione esercitata dal magistrato e il settore d’esercizio dell’avvocato; per il T.A.R. emerge il regime di incompatibilità più severo e serrato proprio per i dirigenti degli uffici giudiziari - posizione per la quale è presentato interpello - ma, per mitigare ciò, si impone la necessità di adeguare e graduare tale regime alle dinamiche proprie e peculiari della giurisdizione amministrativa, specie per ciò che riguarda gli uffici mono sezionali.
Il giudice di prime cure ha pertanto escluso che il regime giuridico così delineato si presenti in termini assolutamente ostativi rispetto al conferimento dell’incarico direttivo, poiché si rende necessario indagare concretamente lo stato concreto delle dinamiche relazionali e proprio il C.G.P.A. è obbligato a esprimere, dopo adeguata e motivata istruttoria, la sussistenza nel tempo delle cause di incompatibilità.
Per tale ragione, il T.A.R. ha ritenuto che il C.G.P.A. abbia esaminato il profilo dell’incompatibilità ambientale rispetto alla procedura generata dall’istanza per l’interpello, senza istruire adeguatamente la vicenda e, nello specifico, senza considerare adeguatamente l’impegno del familiare che esercita la professione forense di non esercitare attività di consulenza legale, anche stragiudiziale, così da rifuggire anche dalle apparenze di condizionamenti cui si è fatto cenno.
Rispetto a tale impegno, radicale poiché comprende anche la rinuncia alle cause pendenti, l’incompatibilità non può essere rilevata, se non in casi specifici e eccezionali e, in ogni caso, dopo adeguata istruttoria e motivazione.
Tale dichiarazione di volontà e di intenti da parte del parente del magistrato, anche qualora si tratti di uffici mono sezionali, impone che il C.G.P.A. lo consideri alla stregua della rimozione dello stato di incompatibilità ambientale. La persistenza di un pericolo per l’imparzialità dell’ufficio giudiziario deve essere - a giudizio del T.A.R. - in ogni caso, adeguatamente oggetto di istruttoria e deve essere specificatamente e dettagliatamente motivato, al fine di palesare l’iter logico motivazionale del bilanciamento in concreto operato[viii].
2. Il Consiglio di Stato 2759/2021. A presidio dell’imparzialità della giustizia amministrativa
L’appello presentato avverso la sentenza di primo grado, oltre a porre una interessante questione circa i c.d. effetti demolitori ‘domino’ con conseguente e necessaria distinzione tra conseguenzialità organizzativa e diacronica, si basa sull’asserita erronea e falsa applicazione, da parte del giudice di prime cure, dell’art. 18, 3° e 4° comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, che avrebbe portato ad attribuire un’impropria efficacia ‘scriminante generalizzata’ rispetto al tema dell’incompatibilità parentale, basandosi sulla semplice dichiarazione di astensione rilasciata dal familiare che svolge la professione forense, inoltre in forma individuale.
Proprio questa dichiarazione di impegno comporta l’emergere di una presunzione di compatibilità, che onera, in ogni caso, il C.G.P.A. ad operare un supplemento istruttorio, volto a escludere la persistenza di cause contrarie; si tratta, a ben vedere, di una presunzione che richiede un’istruttoria, non solo supplementare, ma autonoma, che, come tale, non solleva il C.G.P.A. dall’accertamento concreto della vicenda.
La sentenza di primo grado avrebbe, in altri termini, svalutato la portata incondizionata dell’art. 18 citato, rispetto alle ipotesi di applicazione della norma agli uffici mono sezionali e ai ruoli direttivi.
Per il Consiglio di Stato, l’appello è fondato, poiché la dichiarazione di impegno del familiare atipica ed espressa in forma privata, a rinunciare formalmente al mandato in tutti i giudizi pendenti e a non assumere futuri incarichi, anche stragiudiziali, per tutto il lasso di tempo in cui il genitore rimanga in carica nel ruolo di presidente dell’ufficio giudiziario comporta una semplice presunzione di superamento dell’incompatibilità, ma non il superamento in sé, subordinato ad adeguata istruttoria che deve essere condotto dal C.G.P.A., al fine di dimostrare concretamente la sussistenza di profili di incompatibilità ambientale.
La disposizione in tema di incompatibilità di sede, quindi di carattere territoriale, rispetto ai rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense, ha carattere generale e provvede ad indicare i criteri di verifica della ricorrenza delle cause, che tengono in considerazione, tra gli altri, la dimensione dell’ufficio giudiziario - con riguardo ai profili di organizzazione tabellare - la materia trattata dal magistrato e dall’avvocato con cui sussiste il rapporto di parentela e la funzione specialistica dell’ufficio giudiziario.
A corredo di tali criteri, il C.G.P.A, come osservato, rimette la scelta discrezionale all’organo di autogoverno[ix], rispetto a dimensioni di ufficio e foro locale, alle funzioni direttive del magistrato e altri fattori utili alla valutazione.
Le regole più rigorose in tema di incompatibilità, tuttavia, fissate dalla norma - art. 18 cit., 3° comma - ricorrono rispetto agli uffici giudiziari mono sezionali - la cui ratio è evidente, poiché non vi sarebbero opportunità di sostituzione a seguito di astensione[x] - che comporta una riduzione del margine di valutazione discrezionale in capo all’organo di autogoverno, poiché si palesa la presunzione iuris et de jure dell’incompatibilità in tali uffici giudiziari.
Inoltre, il 4° comma dello stesso art. 18 citato comporta la presunzione della sussistenza della situazione di incompatibilità per i magistrati preposti a incarichi direttivi dell’ufficio giudiziario.
Entrambe le situazioni ricorrono nella ipotesi in esame.
Il combinato disposto delle due disposizioni nega, a priori, il carattere di idoneità della soluzione prospettata dal T.A.R., ossia valorizzare l’impegno personale del parente che svolge la professione forense a rinunciare ai carichi pendenti e futuri, anche relativi all’attività stragiudiziale. Tale impegno non è adeguato a rimuovere lo stato di incompatibilità previsto dalle disposizioni, non solo a tutela imparzialità in quanto tale, ma anche rispetto alla ‘semplice apparenza dell’imparzialità e della terzietà del magistrato’.
Emerge un’anticipazione della soglia della tutela, diretta non solo a rimuovere strutturalmente la causa di incompatibilità, ma anche a evitare che permangano dubbi, anche solo apparenti o percepiti, sull’imparzialità dell’ufficio giudiziario. È valorizzato e perseguito il più persistente grado di fiducia che deve intercorrere tra cittadini e potere giudiziario, peraltro rispetto a ipotesi nelle quali i profili che minano l’imparzialità sono percepiti come insuperabili.
Si tratta, in altri termini, di garantire e preservare il necessario rapporto di affidamento che sussiste tra cittadini e plesso giurisdizionale, esigenza che emerge anche dall’analisi di disposizioni sovranazionali, rispetto all’elemento distintivo del c.d. diritto al giudice (art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 6 CEDU)[xi].
Si osserva l’esistenza di un regime di incompatibilità assoluto, legato alle circostanze menzionate dai commi 3° e 4° dell’art. 18, e, come tale, si palesa una preclusione rispetto a eventuali prove contrarie, poiché è un regime che opera per categorie e non sulla base dell’istruttoria, che non può sovvertire tale assetto.
Tale circostanza è assorbente ai fini del decidere, ma appare opportuno svolgere qualche breve riflessione rispetto agli altri motivi di appello, diretti a contestare la configurabilità dei difetti di motivazione e istruttoria della delibera del C.G.P.A.
Il diniego di proposta di nomina è motivato, pur nella forma sintetica che caratterizza strutturalmente le delibere collegiali, poiché sia l’ufficio mono sezionale del T.A.R. Marche, sia il relativo foro, sono di contenute dimensioni e, pertanto, l’incompatibilità è, come notato, anche rispetto all’affidamento ingenerato nei cittadini, tendenzialmente insuperabile.
Un ufficio così piccolo - e un corrispondente foro analogamente piccolo nelle dimensioni - palesa una situazione nella quale la decisione del Plenum non richiede l’assolvimento di un onere motivazionale specifico e dettagliato, poiché non vi è un margine di scelta, di esercizio di ponderazione, da richiedere tale sforzo motivazionale.
Per tali ragioni, il Consiglio di Stato accoglie l’appello delle amministrazioni e riforma la sentenza di primo grado, affermando, in concreto, la sussistenza e la non superabilità delle cause di incompatibilità.
3. L’immutabile attualità dei profili di incompatibilità. Brevi note conclusive su obblighi motivazionali (ingiustificatamente) differenziati
La decisione in commento si lascia apprezzare per diversi aspetti, specie rispetto alla vicenda concretamente dedotta in giudizio, ma si rendono necessarie sintetiche notazioni su alcuni profili critici emersi e, di fatto, irrisolti nella loro complessiva portata problematica.
Le disposizioni a presidio dell’imparzialità della giurisdizione nel suo complesso sono deputate a una funzione ineludibile, ossia salvaguardare il grado di fiducia che intercorre tra cittadini e uno dei tre poteri dello Stato moderno. Si tratta di disposizioni, che hanno ovviamente mutato veste, adattandosi ai tempi, ma che mirano in ogni caso a preservare il tratto che connota la legittimazione del giudice rispetto alle parti in causa, l’equidistanza dagli interessi dedotti in giudizio.
Il tema deve essere calato nel contesto della giustizia amministrativa, in base al relativo, ma sempre discusso[xii], carattere di specialità, come noto, non ritenuto unanimemente necessario e vantaggioso[xiii].
L’elemento maggiormente critico, meritevole pertanto di apposita analisi, riguarda il tema della motivazione e le difformità degli obblighi relativi che incombono, con diverso grado precettivo, su giurisdizione ordinaria[xiv] e amministrativa, rispetto alle cause di incompatibilità, poiché emerge un evidente divario che persiste tra concezioni garantiste e riduzioniste della motivazione[xv].
Rispetto alla vicenda in commento, si osserva una ipotesi di declino di decisione motivata[xvi], poiché le disposizioni concernenti i profili di incompatibilità assorbirebbero in sé la scelta amministrativa e renderebbero superflua una motivazione dettagliata. Su tale profilo occorre svolgere almeno una breve considerazione.
La motivazione, come noto, rappresenta elemento posto a presidio della legittimazione del potere, ma pare che, rispetto a ragioni pratiche di un peculiare modo di interpretare il buon andamento e il principio di efficienza - per quanto di interesse, rispetto alle vicende processuali - anche degli organi di autogoverno della giustizia, la stessa debba avere carattere regressivo.
Corredare con apposita e adeguata motivazione il provvedimento con il quale si attesta l’esistenza o meno delle cause di incompatibilità poste a presidio della legittimazione del potere giudiziario sarebbe auspicabile, in primo luogo, per garantire la certezza nel tempo del provvedimento, e per consentire di valutare, in un secondo momento, la attualità o la necessità di sottoporlo a riesame. Solo un’adeguata motivazione può palesare i singoli elementi di fatto della circostanza concreta, a tutela non solo del destinatario, ma del valore che il provvedimento intende perseguire, l’imparzialità degli uffici giudiziari per quanto di interesse.
In secondo luogo, intuitivamente, la motivazione veicola l’attività amministrativa e consente di attivare un sindacato reale sull’attività svolta[xvii].
Da questo punto di vista non si apprezzano ragioni sufficienti a giustificare tale scollamento tra la motivazione dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa e quello preposto al medesimo ruolo per la giustizia ordinaria, posto che il valore presidiato dal provvedimento è il medesimo[xviii]. Ci si deve, pertanto e in termini preliminari, chiarire rispetto al connotato stesso di specialità del diritto amministrativo e della giurisdizione a presidio della relativa azione; se tale carattere viene meno, devono scongiurarsi deroghe e regimi giuridici differenziati.
Si deve garantire che “la giurisdizione si esplichi con serenità e senza condizionamenti da invincibili pregiudizi[xix]”, ma si deve assicurare, analogamente, che tale obiettivo sia oggetto di adeguata motivazione, per evitare di incorrere in disposizioni che si tramutino in insuperabili petizioni di principio.
L’amministrazione e la giustizia amministrativa moderna dovrebbero tollerare di mal grado tutte le ipotesi di svilimento della motivazione, poiché allo stesso potrebbe associarsi un pericolo che andrebbe in ogni caso a detrimento dell’amministrato[xx].
Il tema è troppo ampio e articolato e richiede analisi accurate che si premurino di analizzare il tema in un contesto di contemporaneità e di consapevole complessità.
La motivazione diretta a palesare la persistenza o il venir meno delle cause di incompatibilità concorre a legittimare la decisione degli organi di autogoverno delle diverse giurisdizioni e si pone, in via mediata, a presidio dello stesso canone di imparzialità, stretto, a sua volta, tra esigenze di legalità e di giustizia sostanziale[xxi].
L’imparzialità non dovrebbe ammettere graduazioni, poiché si pone a presidio dell’ultimo baluardo di tutela avverso il potere pubblico; l’attività giurisdizionale, solo qualora sia scevra da qualsiasi tipo di condizionamento, anche solo apparente e potenziale, può garantire un sindacato deputato alla tutela dell’obiettività dell’attività amministrativa e, di conseguenza, come effetto indiretto, alla difesa degli amministrati.
[i] Sul tema, insuperata è l’analisi di A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia non amministrativa (Sonntagsgedanken), Milano, 2005, 73 ss.; M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., 2010, 143 ss.
[ii] Si v. M. Protto, Le garanzie di indipendenza ed imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata, A, Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, 2012, 95 ss., 98.
[iii] In chiave diacronica su tale evoluzione, cfr. F. Francario, Riflessioni a margine del sistema di giustizia amministrativa di Umberto Borsi, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, IV, Padova, 2007, 167 ss., 170.
[iv] M. Chiaviario, Giusto processo ad vocem, in Enc. giur., XVII, Roma, 2001, 3 ss.
[v] G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in Dir. proc. amm., 2003, 343, 346; di recente, A. Police, Lezioni sul processo amministrativo, Napoli, 2021, 7 ss.
[vi] Le cause di incompatibilità di cui all’art. 18, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, ‘Ordinamento giudiziario’, sono applicabili, in via estensiva, anche ai magistrati amministrativi, in virtù dell’art. 28, l. 27 aprile 1982, n. 186, ‘Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali’, rubricato ‘Incompatibilità di funzioni’, che stabilisce che “Ai magistrati amministrativi si applicano, anche per quanto riguarda l’esercizio di compiti diversi da quelli istituzionali e l'accettazione di incarichi di qualsiasi specie, le cause di incompatibilità e di ineleggibilità previste per i magistrati”; sul tema, di recente, in termini generali, P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. it., 2020, 697 ss.
[vii] Sul profilo della razionalità del requisito in esame nell’ambito delle disposizioni costituzionali, cfr. A. Travi, Rileggendo Orsi Battaglini. Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia ‘non amministrativa’, in Dir. pubbl., 2006, 91 ss., 93., l’A., rispetto alla nota opera di Orsi Battaglini, conferma la necessità di perseguire la tesi, invero radicale ma condivisibile, per la quale la specialità del giudice amministrativo non sia foriera di deroghe di nessun genere che possano minare i principi generali posti a presidio del potere giurisdizionale.
[viii] La soluzione sarebbe coerente con il tema della distribuzione ‘a sorte’ dei fascicoli, come osservato da B. Tonoletti, Il giudice naturale e l’organizzazione della giustizia amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2013, 375 ss., mentre, come nel caso di specie, perde efficacia rispetto agli uffici mono sezionali.
[ix] Cfr., sul punto, F. Francario, Autogoverno della magistratura e tutela giurisdizionale. Brevi cenni sui profili problematici della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, in questa Rivista, 2018, il quale osserva una disarmonia tra giustizia amministrativa e ordinaria che incide sui principi informatori del sistema complessivamente considerato.
[x] Si v. N. Pignatelli, Profili costituzionali dell’astensione e della ricusazione del giudice amministrativo, in Quad. cost., 2013, 635.
[xi] Diffusamente, B. Randazzo, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2002, 1303 ss., 1310 (spec. par. § 1.4).
[xii] Ex multis, G. Berti, La giustizia nell’amministrazione pubblica, in Studi economico-giuridici (Vol. LIX), In memoria di Franco Ledda, I, Torino, 2004, 119, “l’amministrazione non è un ordinamento speciale, secondo le antiche ed ora ripudiate visioni della dottrina, ma l’altra faccia dell’ordinamento generale fondato sui diritti. La giustizia amministrativa si ripresenta dunque come struttura giustiziale appropriata al versante giuridico della responsabilità nell’ambito del generale ordinamento costituzionale”.
[xiii] Emblematicamente, S. Satta, Giurisdizione. Nozioni generali ad vocem, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 226, la giustizia amministrativa svela il suo carattere di specialità - e le relative deviazioni rispetto al modello del processo civile - solo per la presenza della pubblica amministrazione; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2013, 102.
[xiv] Si v. la Circolare del CSM, n. P-12940, 25 maggio 2007, modificata con delibere del 1° aprile 2009 e 9 aprile 2014; si v., con riferimento al tema dell’autovincolo, M.R. Spasiano, Nomina dei componenti togati del Comitato Direttivo della Scuola superiore della magistratura: è l’auto-vincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo, in questa Rivista, 2021, il quale analizza anche il tema del sindacato del g.a. sugli atti del CSM; si v., rispetto al controverso tema della individuazione della apposita giurisdizione, E. Zampetti, Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio del consigliere C.S.M. la decisione spetta al giudice ordinario, in questa Rivista, 2021, il quale analizza la portata discrezionale delle delibere del CSM. In tema v. anche Il Consiglio di Stato (e la) nomina (del) Presidente e (del) Presidente aggiunto della Corte di Cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 01 2022 nn. 267 e 268), in questa Rivista, 15 gennaio 2022.
[xv] Si v. G. Tropea, Conferimento di incarichi del CSM e giudice amministrativo: il lungo addio all’ineffettività della tutela (Nota a Cons. St., sez. V, 15 luglio 2020, n. 4584), in questa Rivista, 2020, sul tema, controverso, del conferimento degli incarichi direttivi o semidirettivi; rispetto a una delle conseguenze plausibili in tema di incompatibilità, ossia il trasferimento, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 5 agosto 2021, n. 9277, l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che giustificano i trasferimenti per incompatibilità ambientale, i quali, proprio per questa ragione, non necessitano nemmeno di una particolare motivazione; ne consegue che il giudice chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti che dispongono questa misura deve limitarsi al riscontro dell'effettiva sussistenza della situazione di incompatibilità venutasi a creare ad avviso dell'amministrazione (e costituente presupposto del provvedimento) nonché della proporzionalità del rimedio adottato per rimuoverla. Infatti, in tali tipi di controversie il sindacato del giudice amministrativo deve limitarsi ad una valutazione di legittimità ab extrinseco, non essendo ammissibile una valutazione sull'opportunità delle scelte dell'amministrazione.
[xvi] Si riprende il titolo dell’analisi svolta da M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 2017, 896, che osserva che si tratta di “un processo generale, in quanto riguarda sia gli atti amministrativi vincolati, sia gli atti amministrativi discrezionali (e in quest’ultimo caso risulta maggiormente criticabile); un processo complesso, in quanto investe la mai risolta dialettica tra legislazione, amministrazione pubblica e giurisprudenza; un processo articolato, in quanto assume manifestazioni concrete diverse, che spaziano da un particolare modo d’intendere la motivazione per relationem al reputato grado di sufficienza della stessa, dall’inquadramento del difetto di motivazione tra i vizi formali all’ammissibilità dell’integrazione della motivazione nel corso del processo; un processo inedito, in quanto va tenuto distinto dalla c.d. dequotazione della motivazione del provvedimento”.
[xvii] R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativoIIed, Torino, 2017, 269 ss.
[xviii] Sul tema, per apprezzare le ragioni di fondo, si condivide l’analisi di L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni. Annotazioni brevi, in Dir. pubbl., 2014, 561 ss.
[xix] M. Chiaviario, Giusto processo, cit., 8.
[xx] Particolarmente puntuali, come sempre, sono le parole di G. Berti, Le trasformazioni della giustizia amministrativa, ora anche in Scritti scelti, Napoli, 2018, 577 ss., 583, la giustizia amministrativa è una faccia necessaria dell’esserci e dell’agire secondo una visione altamente sociale dell’uomo e della collettività.
[xxi] Cfr. F. Pinto, Il giudice amministrativo di fronte ai diritti fondamentali tra legalità e giustizia, in Amministrativamente, 2019, “nel chiuso della camera di consiglio, sollecitato da istanze che, sempre più, cercano di trascinare nelle aule giudiziarie conflitti, che forse andrebbero risolti altrove, il giudice appare oggi sempre più tentato dall’assumere il ruolo di chi fa giustizia, di chi risponde, cioè, a bisogni sostanziali, sentendo di incarnare - e forse è - l’espressione di un potere legittimato direttamente dalla legge”; G. De Giorgi Cezzi, Interessi sostanziali, parti e giudice amministrativo, in Dir. amm., 2013, 401 ss., 422, “ruolo attivo del giudice e centralità del contraddittorio vanno dunque nella stessa direzione e rispondono a un’esigenza logico-pratica del processo che utilizza la dialettica processuale come metodologia della rilevanza e teoria della confutazione secondo il punto di vista di un giudice imparziale”.
Vulnerabilità delle donne vittima di tratta: la Cassazione riconosce lo status di rifugiato in virtù dell’appartenenza ad un gruppo sociale discriminato
di Domenico Gaspare Carbonari
Con la sentenza n. 676/2022, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla rilevanza e sulle conseguenze del fenomeno della tratta di esseri umani, evidenziandone, in particolare, la complessità e il carattere sistematico fondato sull’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità. Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, nella specie dello status di rifugiato, è opportuno accertare, da un lato, la riconducibilità del caso concreto ad un contesto di tratta di esseri umani e, dall’altro, la ricorrenza di un rischio attuale di ulteriori atti lesivi o persecutori, sotto diverse modalità e contenuti, anche prescindendo dall’accertamento penale.
Sommario: 1. La vicenda decisa dalla Corte. – 2. L’evoluzione normativa e giuridica sul tema della tratta di esseri umani. – 3. Riconoscimento della protezione internazionale e accertamento penale: due percorsi alternativi. – 3.1. Status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria: diverse intensità di tutela. – 4. I cc.dd. indicatori di tratta e atti persecutori: l’appartenenza ad un gruppo sociale quale condizione di vulnerabilità – 4.1. La vittima di tratta assurge alla qualifica di rifugiato: dichiarazioni del richiedente, onere probatorio e iura novit curia. – 5. Conclusioni
1. La vicenda decisa dalla Corte
Con la sentenza n. 676/2022[1] la Cassazione Civile sezione I si è pronunciata sulla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, con riguardo alla richiesta presentata da una donna vittima di tratta a scopo di meretricio.
Nella specie la ricorrente, di origine nigeriana, deduceva dinanzi alla Commissione territoriale competente e al Tribunale una serie di circostanze, tra cui l’essere stata obbligata a prostituirsi in Libia, indicative dell’inserimento della stessa in una rete criminale dedita allo sfruttamento sessuale. La domanda veniva, tuttavia, rigettata e la ricorrente proponeva appello, anch’esso respinto sulla scorta delle seguenti argomentazioni: la non credibilità del racconto, l’insussistenza del rischio di violenza indiscriminata ex art. 14, lett. c), D.lgs. 251/2007, e la non ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.
Con ricorso per Cassazione, la donna rilevava la violazione o falsa applicazione degli artt. 3 D.lgs. 251/2007 e 8 D.lgs. 25/2008, i quali impongono al giudice, rispettivamente, di provvedere all’esame individuale dei fatti o delle circostanze poste a fondamento della richiesta di protezione internazionale e, in particolare, per il riconoscimento dello status di rifugiato (art. 8), dovendo valorizzare “le informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine” o nei Paesi di transito. Lamentava, inoltre, la violazione di ulteriori norme del D.lgs. 251/2007 e 4 e 5 CEDU per il mancato riconoscimento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, laddove il giudice di secondo grado aveva ritenuto i fatti allegati dalla donna non annoverabili nel concetto di azione persecutoria per assenza delle condizioni normativamente richieste.
2. L’evoluzione normativa e giuridica sul tema della tratta di esseri umani
Prima di esaminare le questioni giuridiche connesse al riconoscimento della protezione internazionale, è opportuno soffermarsi sul fenomeno della tratta di esseri umani e, in particolare, sulle implicazioni di ordine giuridico e sociale derivanti da tale “moderna forma di schiavitù” fondata sullo sfruttamento sessuale o lavorativo o sul prelievo e traffico di organi.
A fronte della complessità del sistema criminale, l’ordinamento giuridico italiano ha apprestato un’articolata disciplina penalistica[2] e civilistica, deputata alla prevenzione, alla repressione e alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive delle vittime, anche in termini di protezione internazionale o umanitaria[3].
La suddetta complessità deriva da due fattori, rispettivamente, uno spaziale-temporale e uno sociologico.
Il primo è rappresentato dall’articolata gestione operativa ed economico-finanziaria della tratta, espressione di un sistema criminale transnazionale frutto delle interazioni tra diversi gruppi criminali internazionali con ramificazioni in altri Paesi, tali da costituire in genere un vero e proprio network criminale[4]. Il fattore di tipo sociologico, invece, attiene alla relazione trilaterale tra le figure del trafficante, dello sfruttatore e della vittima, anche perché, proprio con specifico riferimento a quest’ultima figura, l’esperienza giudiziaria ha dimostrato che talvolta una originaria vittima può diventare a sua volta trafficante o sfruttatore e, viceversa, un soggetto sfruttatore (anche inconsapevolmente) può divenire a sua volta vittima.
Questi dati sono il risultato di una stratificazione delle conoscenze acquisite nel tempo, tenuto conto anche della stretta connessione intercorrente tra il fenomeno in oggetto e le dinamiche migratorie: non a caso, infatti, la diffusione dei casi di tratta di esseri umani è direttamente proporzionale all’incremento del numero degli individui che, per vari fattori e condizioni, decidono di migrare verso l’Europa. Conseguenza di questa rapida evoluzione è stata la difficoltà di delineare una nozione unitaria e completa di tratta e di vittima di tratta, assistendo, di volta in volta, al susseguirsi di interventi legislativi nazionali e sovranazionali, quest’ultimi di tipo c.d. soft law, più completi e puntuali[5].
Il sistema della prevenzione, repressione e tutela si è articolato in diverse fasi sin dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e dalla successiva Convezione EDU, quest’ultima sottoposta a successivi aggiornamenti ed ampliamenti per il tramite dei Protocolli addizionali[6]. Nel tempo, a fronte del dilagare del fenomeno, anche gli ordinamenti nazionali si sono dotati di ulteriori strumenti normativi, anche attraverso la implementazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata del 2000 e della Convezione di Varsavia del Consiglio d’Europa del 2005, nelle quali la tratta viene definita, sotto il profilo assiologico, quale “violazione dei diritti umani e un’offesa alla dignità e all’integrità dell’essere umano”.
Sotto il profilo oggettivo, e in particolare ai fini della repressione penale, viene adottata una nozione di tratta di esseri umani ampia e sistematica, che tiene conto delle forme e delle modalità per mezzo delle quali, in concreto, si perviene alla violazione dei diritti umani, tra cui l’impiego della violenza, della minaccia o dell’inganno per ottenere la prestazione di servizi o altre attività a scopo di sfruttamento[7].
Dal percorso normativo sopra succintamente descritto emerge l’attenzione del legislatore, sia nazionale che europeo, agli elementi del consenso della vittima, dell’abuso di potere e dell’approfittamento della posizione di vulnerabilità. A quest’ultimo l’art. 600 c.p. e la Direttiva europea 2011/36/CE attribuiscono un significato pregnante, perché, secondo le comuni regole di esperienza, i trafficanti si servono proprio della condizione di chi «non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima». Non è un caso, infatti, che l’elemento del consenso alla violazione è ritenuto irrilevante, dovendo le autorità e il giudice necessariamente tenere conto della etero-induzione della decisione causata sia da fattori interni, quali l’età e la maturità psicofisica, sia esterni come le circostanze nelle quali si è materialmente realizzato il fatto lesivo (ad esempio, l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico dedito, per tradizione, a questo tipo di attività[8]).
3. Riconoscimento della protezione internazionale e accertamento penale: due percorsi alternativi
I suddetti momenti evolutivi hanno consentito di delineare un sistema multi-livello di tutela che, per quanto attiene all’ordinamento italiano, si articola lungo due direttrici autonome ma parallele: da un lato, quella civilistica fondata sulla prevenzione di ulteriori violazioni e sulla riparazione dei danni arrecati alle vittime di tratta; dall’altro, quella penalistica relativa alla repressione delle relative condotte criminose.
L’autonomia tra i due piani assume rilievo ai fini dell’analisi dell’istituto della protezione internazionale, ex art. 2, lettera a), d.lgs. n. 251/2007, consistente nel riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
La protezione internazionale è un istituto che ha matrice internazionale e costituzionale (ex art. 10 Cost.), assurgendo a categoria generale cui ricondurre tutte le fattispecie astratte fondate sul riconoscimento di una tutela allo straniero vittima di atti di persecuzione o violenza.
La legislazione nazionale, oltre a disciplinare le fattispecie applicative dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, individua anche i presupposti e le regole di valutazione e di esame delle richieste di protezione e degli elementi dedotti dal richiedente (rispettivamente artt. 3 D.lgs. n. 251/2007 e 8 D.lgs. n. 25/2008).
Invero, ai sensi dell’art. 6, comma 2, D.lgs. n. 251/2007 il contenuto giuridico della protezione “è effettiva e non temporanea e consiste nell'adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l'altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e nell'accesso da parte del richiedente a tali misure”. Le misure adottate, quindi, sono ispirate ai principi dell’equivalenza e dell’effettività delle tutele, anche se la legge impone alle autorità amministrative e al giudice civile di operare una valutazione dei fatti e delle circostanze su base individuale. Non può trascurarsi, inoltre, il riferimento alle violazioni subite dalla vittima, di cui all’art. 3, comma 4, il quale pone in sede giudiziale la dimostrazione che “il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni [che] costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi”.
La lettura combinata di queste due disposizioni induce a riflettere sul possibile nesso tra l’oggetto del giudizio ai fini della protezione internazionale e l’eventuale accertamento in sede penale del reato di tratta di essere umani. Se, sovente, la vittima collabora con le Autorità dopo essere stata individuata quale persona offesa in sede penale, tuttavia, accade anche il contrario, ossia che la vittima medesima richieda tutela in presenza della sola violazione reiterata dei diritti umani. Ciò accade, principalmente, nelle ipotesi in cui dalle indagini di polizia non sono emersi elementi sintomatici di tratta o quando le vittime non hanno denunciato i propri trafficanti o, ancora, quando dall’ingresso nel territorio italiano al momento della presentazione della domanda di protezione è trascorso un certo lasso temporale, nel quale la vittima è magari riuscita ad affrancarsi dal controllo degli schiavisti.
Va osservato, in premessa, che sarebbe erroneo subordinare il riconoscimento della protezione internazionale all’identificazione del richiedente quale vittima di tratta in sede penale: in violazione dei principi dell’equivalenza e dell’effettività della tutela, verrebbe negata tutela ad un soggetto che per altra via, quella della protezione internazionale, riuscisse a dimostrare di aver subito delle violazioni dei propri diritti.
Milita in tal senso un triplice ordine di argomentazioni: la prima, di ordine ontologico si sostanzia nella natura della situazione giuridica soggettiva, di rilievo costituzionale, di cui è portatore lo straniero che ha subito la suddetta violazione. Ed infatti, posto che il richiedente la protezione internazionale lamenta la lesione di diritti costituzionalmente rilevanti, quali la vita, l’integrità psico-fisica, la libertà personale, l’ordinamento italiano è chiamato ad apprestare, anche a prescindere da un procedimento o processo penale, la tutela necessaria per inibire o ristorare i pregiudizi subiti[9]. Ciò in considerazione anche della ritrosia che, sovente, manifestano le vittime di tratta nel denunziare i fatti di reato subiti o nell’agevolare la individuazione dei trafficanti per il timore di subire ritorsioni alla propria persona o ai familiari nei Paesi di origine.
Il secondo argomento è di ordine letterale, consistente nella mancata previsione legislativa di un nesso di collegamento logico-giuridico tra la disciplina civilistica e quella penalistica[10]: infatti, pur se le risultanze di un procedimento o processo penale non figurano necessariamente tra gli elementi che l’autorità amministrativa e il giudice devono possedere ai fini dell’esame (art. 3 D.lgs. n. 251/2007), tuttavia, ove ricorrenti, potranno essere poste a fondamento dell’accoglimento della richiesta.
Connesso è il terzo argomento di ordine sistematico per il quale, ove il legislatore avesse voluto creare un legame necessario tra i due tipi di accertamento, lo avrebbe espressamente previsto come è avvenuto all’art. 18 del T.U. Immigrazione.
La Corte di Cassazione è pervenuta alla medesima conclusione, ribadendo che ai fini della protezione internazionale non è indispensabile la verifica della sussistenza di un reato perseguibile ai sensi dell’art. 600 ss. c.p., quanto la verifica in concreto degli elementi sintomatici della tratta e dei rischi ad essa connessi[11]. Invero, il riconoscimento della protezione internazionale si fonda, oggi, anche sull’impiego dei c.d. indici di tratta, i quali non necessariamente coincidono con le risultanze di un procedimento o processo penale[12].
3.1. Status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria: diverse intensità di tutela
Come anticipato, la tratta viene annoverata tra le fattispecie lesive dei diritti umani fondamentali, in particolare della libertà personale, dell’integrità psicofisica e della dignità umana, quale conseguenza della natura asimmetrica delle relazioni tra le vittime e gli schiavisti. Ed infatti, premessa «la complessità […] con cui si articolano le relazioni asimmetriche di sfruttamento di esseri umani», non solo non può vincolarsi il riconoscimento della protezione internazionale all’accertamento penale, ma si impone di non frapporre ulteriori limiti normativi ed interpretativi alla tutela richiesta.
La giurisprudenza di legittimità traccia la linea di confine tra i rimedi dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, da un lato, e della protezione umanitaria dall’altro (artt. 5, comma 6, e 18, D.lgs. n. 286/1998)[13]. Premesso che l’art. 2 D.lgs. n. 251/2007 indica il beneficiario della protezione internazionale nel cittadino straniero cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria; in particolare, si definisce “rifugiato” lo straniero che chiede tutela al ricorrere del timore fondato di essere perseguitato, ex art. 7 D.lgs. n. 251/2007, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore non vuole farvi ritorno.
La protezione sussidiaria, invece, ha natura residuale e concerne il caso dello straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno, da individuarsi, ex art. 14: nella condanna a morte o nell'esecuzione della pena di morte; nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, nella minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Diverso regime è previsto per la protezione umanitaria, la quale non attribuisce uno status ed è una misura residuale[14] mirata ad apprestare tutela ai soggetti che versano in una condizione di vulnerabilità, assurgendo a presupposto del rimedio i gravi motivi umanitari[15]. Il rimedio è disciplinato dall’art. 5, comma 6, T.U. Immigrazione, in materia di permesso di soggiorno, la cui lettura va combinata con l’art. 19 e con il principio per il quale il richiedente allontanato o respinto quando ricorre il rischio di persecuzioni o torture (c.d. principio del non-refoulement).
4. I c.d. indicatori di tratta e atti persecutori: l’appartenenza ad un gruppo sociale quale condizione di vulnerabilità
Preso atto delle differenze ontologiche e strutturali tra i diversi strumenti previsti, i giudici di legittimità optano, in via principale, per il riconoscimento dello status di rifugiato alla vittima di tratta, ammettendo in via residuale la possibilità di ricorrere alla protezione umanitaria.
In tal senso, la Corte si attesta lungo due direttrici: da un lato, invoca il c.d. processo di specificazione dei diritti umani nell’età moderna, valorizzando la progressiva evoluzione dei diritti fondamentali dell’uomo e l’affermazione di un sistema multilivello di tutela[16]. L’attenzione dell’interprete si rivolge, infatti, alla collettivizzazione dei diritti, nel senso di una titolarità posta in capo a gruppi sociali in condizione di particolare fragilità e vulnerabilità, tra questi si colloca anche il gruppo “donne” e il relativo sistema di tutela incentrato sulla ampia nozione di “violenza di genere”[17]. Quest’ultima viene intesa «violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, comprese le violenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica»; nozione che non può non essere integrata dalle aggressioni che le donne subiscono nell’ambito del fenomeno della tratta di essere umani, specie se a scopo di meretricio.
Dall’altro lato, invece, sussume le modalità operative della tratta e le relative violazioni nell’ambito dei requisiti di cui agli artt. 7, 8 e 14 D.lgs. n. 251/2007. Invero, accerta la ricorrenza di un fatto lesivo e di un rischio concreto ed attuale ai fini dell’adozione delle misure necessarie per impedire atti persecutori o danni gravi. Viceversa, difettando un rischio concreto ed attuale – rileva la Corte - si prospetta solo una generica esigenza di riparazione dei danni già subiti, funzione questa che esula dall’ambito della protezione internazionale. Ed infatti, non è sufficiente un rischio generico, posto che le persecuzioni richieste dalla legge devono assurgere, ex art. 3, comma 4, a “serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio di subire danni gravi”.
Orbene, la riconduzione ad un gruppo sociale o etnico vulnerabile, da un lato, e l’accertamento di un rischio concreto ed attuale di persecuzione o di danno, dall’altro, impongono al giudice di merito una valutazione congiunta dei fatti e degli elementi dedotti dalla richiedente, in quanto gravata dall’onere di allegazione c.d. semplificato.
In alcuni casi, tuttavia, la vittima non è in grado di fornire elementi circostanziati oppure, a causa di un processo di vittimizzazione secondaria in atto, non riesce a collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie.
Si pone, allora, la questione della corretta e celere identificazione della vittima di tratta[18], gli interpreti interrogandosi sulla tipologia di meccanismi cui far ricorso. Oltre alle fonti e ai documenti normativi e internazionali, specie di soft law, si fa ricorso ai c.d. indicatori di tratta, definiti dalla giurisprudenza di legittimità quali «elementi e circostanze sintomatiche di una determinata situazione e condizione della persona» e che assurgono, specie sotto il profilo probatorio, ad informazioni di carattere generale fornite da organismi nazionali ed internazionali (c.d. procedura di referral).
Tali indicatori, il cui impiego è congiunto all’accertamento circa il rischio di ulteriori atti persecutori, sono strumenti funzionali alla qualificazione giuridica di determinati fatti in termini di tratta di esseri umani: il giudice viene messo nelle condizioni di ricostruire la vicenda personale della vittima, senza tuttavia sostituirsi ad essa. Ed infatti, come sostenuto anche dalla dottrina, gli indici di tratta assurgono ad elementi sintomatici dedotti dall’evoluzione del fenomeno, con particolare riguardo «alle modalità di sfruttamento, [a]l tipo di sfruttamento, [al]le nazionalità dei/delle richiedenti asilo potenzialmente coinvolti/e nella tratta di esseri umani»[19].
La duttilità di tale strumento ha fatto di sì che di esso si facesse frequente impiego in materia di protezione internazionale, consentendo il riconoscimento dello status di rifugiato anche a soggetti vittime di violenza di genere, tanto nell’ambito di contesti familiari quanto criminali.
Va rilevato, inoltre, che la funzione ulteriore degli indicatori di tratta, sotto il profilo probatorio, è quella di superare la eventuale contraddittorietà e scarsa credibilità delle dichiarazioni della vittima, in quanto le stesse possono essere sintomatiche di uno stato di soggezione o timore. Questa modalità di accertamento viene osservato anche nel caso in cui la richiedente neghi la propria condizione o ometta di fornire elementi utili all’accertamento, dovendo il giudice ugualmente seguire la procedura di referral ed adottare tutte le misure che si rendono necessarie.
Ciò premesso, gli artt. 3, 7 e 8 D.lgs. n. 251/2007 e 8 D.lgs. n. 25/2008 impongono al giudice una valutazione su base individuale delle circostanze fattuali dedotte dalla richiedente, in particolare degli atti di persecuzione, i quali devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali.
Tali violazioni assumono diverse forme, tra le quali spiccano anche gli “atti specificamente diretti contro un genere sessuale” che, per la relativa natura sistematica, sono riconducibili ai motivi di appartenenza ad un particolare gruppo sociale.
Orbene, se la tratta a scopo di meretricio è finalizzata allo sfruttamento della donna, posta in essere per il tramite di condotte che vanno dal reclutamento forzato alla riduzione in schiavitù, passando dalla negazione della libertà personale, allora non può negarsi che tali condotte assurgono a violazioni dei diritti umani fondamentali di un gruppo sociale particolarmente vulnerabile, ossia il genere femminile. La vulnerabilità deriva, infatti, non solo dalla sistematicità e dalla asimmetria delle relazioni tra vittime e schiavisti, ma anche dall’approfittamento di una «particolare condizione di debolezza in cui si trovano le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere» (art. 8, lettera d), D.lgs. 251/2007); situazione di debolezza alimentata anche dagli effetti della discriminazione cui possono essere soggette le donne che hanno esercitato l’attività di meretricio.
È evidente come il mancato riconoscimento della protezione internazionale esporrebbe la richiedente ad una palese violazione dei diritti umani fondamentali per il rischio concreto e attuale di esposizione ad atti persecutori, nonché per il pericolo di re-trafficking.
La Corte, infatti, opina per il riconoscimento dello status di rifugiato che meglio si attaglia alla condizione di vulnerabilità[20] e all’esigenza di evitare ulteriori pregiudizi alla vita, alla libertà e alla dignità della richiedente.
4.1. La vittima di tratta assurge alla qualifica di rifugiato: dichiarazioni del richiedente, onere probatorio e iura novit curia
Qualificata la vittima di tratta come rifugiato, ed integrata la condizione di vulnerabilità con l’appartenenza al genere femminile, è necessario soffermarsi sugli aspetti processuali, in particolare sulla valutazione delle dichiarazioni della richiedente e sul dovere di collaborazione del giudice.
Con riguardo alla valutazione delle domande di protezione internazionale, trova applicazione l’art. 3 D.lgs. 251/2007 nella parte in cui pone sulla richiedente l’onere di allegare “tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda” in modo tempestivo e diligente, senza, tuttavia, richiedere la qualificazione dei fatti. Delle dichiarazioni della vittima è opportuno valutare sia la coerenza interna, in base alle informazioni fornite (art. 3, comma 1, D.lgs. n. 251/2007), sia la credibilità estrinseca in virtù di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d'origine al momento della decisione giudiziaria, della dichiarazione e della documentazione presentate, della situazione individuale e delle circostanze personali della richiedente, con particolare attenzione alla condizione sociale, al sesso e all'età.
A tale attività di qualificazione è tenuto il giudice in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, dovendo egli «analizzare i fatti allegati e compararli con tutte le in formazioni disponibili al fine di inquadrarli giuridicamente in modo corretto».
I limiti intrinseci ed estrinseci di questo dovere collaborativo vengono esplicitati in relazione alla natura transnazionale della tratta di esseri umani, al punto da indurre la Corte a sostenere che il giudicante non deve limitarsi alle sole informazioni provenienti dal Paese di origine, ma deve rivolgersi anche a quelle fornite dai Paesi di transito e alle «informazioni sulla struttura del fenomeno, pertinenti ed adeguate ad una corretta ricostruzione dei fatti».
Il fondamento giuridico di tale dovere di collaborazione ufficiosa deve rinvenirsi nel principio iura novit curia, il quale impone al giudice, anche in presenza di dichiarazioni contraddittorie o poco chiare e/o credibili, di operare l’accertamento dei requisiti e di avvalersi delle fonti normative nazionali ed internazionali e degli studi elaborati dalle Agenzie per i diritti umani (come, ad esempio, le Linee guida dell’UNHCR).
Con riguardo ai limiti estrinseci del suddetto dovere, invece, è opportuno osservare che l’intervento del giudice è condizionato dal grado di collaborazione della richiedente: se il narrato è viziato da numerose deficienze probatorie, il giudicante non può supplirvi attraverso l’esercizio dei poteri ufficiosi, essendo rimesso alla richiedente l’onere di indicare i fatti costitutivi per l’individualizzazione del rischio.
Tuttavia, il giudice interviene per contestualizzare i fatti di tratta nel giudizio, nel quale spesso non sono sufficienti le dichiarazioni della richiedente ma è necessario anche il rinvio a fonti esterne, idonee a fornire una spiegazione logica al narrato che appare, prima facie, contraddittorio o poco credibile. Non a caso, infatti, vengono valutate sia le implicazioni di ordine giuridico, sociale ed economico della tratta, sia le condizioni personali della richiedente, anche in applicazione del canone dell’id quod plerumque accidit e delle massime di esperienza[21].
5. Conclusioni
Alla luce del bene giuridico tutelato e della natura preventiva del rimedio, può concludersi che la protezione internazionale è un istituto duttile ed adattabile alle diverse situazioni che si pongono all’interprete. Tali connotati fanno sì che, nell’applicazione della suddetta disciplina, si possa tenere conto di nuove esigenze ed istanze di tutela, riconducibili ai requisiti previsti dalla legge in virtù di una corretta attività ermeneutica.
L’interprete non tralascia l’analisi delle condizioni personali della richiedente, perché costituisce indice di tratta anche l’assenza di capacità di autodeterminazione a causa della condizione di vulnerabilità che la riguarda. I fatti lesivi della vittima assurgono, infatti, a presupposti oggettivi del rimedio quando integrano gli estremi della «grave deprivazione dei diritti della persona afferenti la sfera della dignità personale e dell’autodeterminazione nelle scelte che incidono in modo primario nello sviluppo della personalità individuale».
La capacità di adattamento dell’istituto si riscontra, in particolare, con riferimento alle ipotesi di aggressioni originariamente non considerate dal legislatore, quali quelle ai danni di soggetti omosessuali perseguitati per il proprio orientamento sessuale, i quali accedono alla tutela per soddisfare il proprio diritto a socializzare conformemente alle proprie preferenze e a frequentare un gruppo sociale omosessuale[22]. Rileva, altresì, nell’impiego di una nozione di vulnerabilità flessibile e non rigida e predeterminata, che tiene conto delle condizioni specifiche della vittima[23].
Va osservato, tuttavia, che l’esigenza di calibrare la tutela in questione ha posto ulteriori interrogativi, tra questi se l’allegazione dei fatti costitutivi della domanda debba essere effettuata dalla sola vittima o se sia sufficiente la deduzione del solo difensore, anche se in discordanza con le dichiarazioni della vittima; se, sotto il profilo temporale, il giudice debba tenere in considerazione l’evenienza che la vittima di tratta rappresenti per la prima volta la sua situazione in sede di audizione giudiziale. Ancora, con riferimento al giudizio di credibilità della richiedente, ci si chiede se il giudice, in caso di dichiarazioni inverosimili, incoerenti o contraddittorie, debba dare prevalenza agli indici di tratta e non all’atteggiamento non collaborativo della richiedente; oppure, se la valutazione di credibilità possa essere effettuata solo in modo intrinseco o anche estrinseco, in considerazione del contesto sociale e culturale in cui i fatti si sarebbero verificati[24].
[1] Cass. Civile, Sezione I, del 04.11.2021, n. 676.
[2] Per un approfondimento della disciplina penalistica del delitto di tratta di esseri umani, con particolare riferimento alla differenza tra smuggling e trafficking, V. Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica della distinzione con il traffico di migranti, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1/2018, pp. 86 ss.; F. Urban, La legislazione penale italiana quale modello di attuazione della normativa sovranazionale e internazionale anti-smuggling e anti-trafficking, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1/2018, pp. 121 ss.
[3] Per un approfondimento degli strumenti di tutela cfrr. https://temi.camera.it/leg17/post/la_tratta_di_esseri_umani__quadro_normativo_e_statistiche.html?tema=temi/tutela_delle_vittime_dei_reati.
[4] In tal senso, A. Annoni, Gli obblighi internazionali in materia di tratta degli esseri umani, contributo in S. Forlati (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp.1 e ss.
[5] Cosciente di questo percorso, la stessa Corte di Cassazione sostiene che le prime fonti di diritto internazionale hanno dettato una nozione di tratta fondata «sull’osservazione di un fenomeno proprio di alcune epoche storiche, - alcune non troppo remote -, in cui l’acquisto o la cessione di esseri umani era una pratica legale, o comunque tollerata dall’ordinamento».
[6] La Convenzione, in particolare, pone agli Stati parte l’obbligo di adottare misure atte a garantire il rispetto del divieto di riduzione in schiavitù, servitù e lavori forzati, ex art. 4 CEDU, condotte queste riconducibili all’«obbligo, imposto con mezzi coercitivi, di fornire a taluno un determinano servizio, cui si accompagnano una notevole restrizione della libertà personale e la sottoposizione a forme penetranti di controllo». In tal senso, Corte EDU, 7 gennaio 2010, Rantsev c. Cipro, ricorso n. 25965/04. Per Corte EDU, 7 marzo 2000, Seguin c. Fracia, ricorso n. 42400/98.
[7] Esaustiva è la definizione di cui all’art. 3, lettera a), Protocollo Addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale.
[8] Per una valutazione delle tradizioni culturali di un certo gruppo etnico nell’ambito del giudizio, si richiama D. G. Carbonari, Riduzione in schiavitù e costrizione o induzione al matrimonio: la Cassazione esclude la successione di leggi penali nel tempo, 14 gennaio 2022, in questa rivista.
[9] Corte Cost., 19 giugno 1969, n. 104, e da Corte Cost., 8 giugno 2000, n. 198.
[10] Non rileva neppure il neo introdotto comma 3 bis dell’art. 32 D.lgs. n. 25/2008, il quale prevede un meccanismo di valutazione rimesso all’intervento del Questore nel caso in cui emergano fondati motivi di ritenere che il richiedente sia stato vittima dei delitti di cui agli artt. 600 e 601 c.p.
[11] Conferma la posizione anche Corte EDU, 25 giugno 2020, ric. n. 60561/14.
[12] Diversamente, anche in virtù dell’evoluzione giurisprudenziale e della prassi del settore, si ritiene che i suddetti indicatori possano essere impiegati anche in ambito penale, nella specie quando il giudice è chiamato ad interpretare i fatti a lui sottoposti e a sussumerli in una delle fattispecie penali previste. In tal senso, M. G. Giammarinaro e F. Nicodemi, Aggiornate le linee guida per l‘identificazione delle vittime di tratta, in Rubrica “Diritti senza confini”, 19.05.2021.
[13] Le differenze attengono anche alla durata della misura: lo status di rifugiato ha natura permanente, mentre la protezione sussidiaria ha durata quinquennale ed è rinnovabile. Le suddette misure possono essere revocate al ricorrere di seri motivi. Quanto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, la misura ha durata annuale ed è anch’essa rinnovabile. Diversa è, inoltre, l’autorità che riconosce la tutela.
[14] Ex multis, Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29459; Cass. Sez. III, 27 luglio 2021, n. 21522. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito, infatti, che «la protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica ("status" di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità».
[15] Nella prassi, si evincono le ipotesi dei minori stranieri non accompagnati o soggetti in fuga da conflitti armati.
[16] Descrivono questa fase della tutela dei diritti umani N. Bobbio, Dalla priorità dei doveri alla priorità dei diritti, in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, p. 437. L. Baccelli, Una rivoluzione copernicana: Norberto Bobbio e i diritti, in Jura Gentium - Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2009.
[17] Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con legge 27 giungo 2013, n. 77.
[18] Lo Stato deve assolvere all’obbligo di adottare tutte le misure idonee all’identificazione delle vittima, in conformità alla Direttiva europea 2011/36/CE, art. 11, paragrafo 4.
[19] M. G. Giammarinaro e F. Nicodemi, Aggiornate le linee guida per l‘identificazione delle vittime di tratta, cit. Per un approfondimento del tema, v. la nuova edizione delle Linee Guida del 2020.
[20] Per un approfondimento sulla declinazione della nozione di condizione di vulnerabilità, in dottrina E. Rigo, La vulnerabilità nella pratica del diritto d’asilo: una categoria di genere?, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XXI, 2019, 3, pp. 343-360.
[21] Da ultimo, Cass., Sez. I , 10.03.2021, n. 6738 discute di “procedimentalizzazione legale della decisione”, nel senso di richiamare una «valutazione che non affidata alla mera opinione del giudice», esulando, quindi, dalle convinzioni personali fondate solo su canoni di plausibilità/implausibilità o inverosimiglianza. Il ricorso alle fonti esterne al giudizio, proprio perché procedimentalizzato, impone al giudice di dare atto nella motivazione del provvedimento del tipo di autorità o ente da cui promanano le informazioni, della data di pubblicazione e della pertinenza, quest’ultima intesa come idoneità delle fonti a rappresentare l’attualità di un rischio di atti persecutori già subiti o diversi da questi (nello stesso senso anche Cass., Sez. III, 03.02.2021, n. 2466).
[22] Cass., Sez. I, 02.12.2021, n. 38101.
[23] Corte edu, sentenza del 25 giugno 2020, ricorso n. 60561/14. In dottrina, F. Nicodemi, l’identificazione delle vittime di tratta e i confini per il riconoscimento delle diverse forme di persecuzione, in Diritti senza confini, 24.12.2021. In giurisprudenza, Cass., Sez. I, 28 ottobre 2021, n. 30402.
[24] Interrogativi, questi, sollevati da Cass., ord. Sez. I, 30.04.2021, n. 11495.
Ricordo di Liliana Ferraro
di Livia Pomodoro
Con Liliana Ferraro ci lascia un altro grande protagonista di quella irripetibile stagione, il biennio 1991-1993, che qualcuno ha definito del “coraggio di Stato” e che lei aveva contribuito a preparare, al fianco di Giovanni Falcone, proprio curando la logistica di allestimento dell’aula bunker del cosiddetto maxi-processo (475 imputati) a cosa nostra, iniziatosi il 10 febbraio 1986 e terminato con la sentenza finale della Corte di Cassazione, il 30 gennaio 1992.
Ma il profilo istituzionale di Liliana, dopo la laurea in Giurisprudenza a Napoli, si delinea assai presto. Entrata in magistratura nel 1970 e assegnata al Tribunale di Lodi, approda ben presto al Ministero di Grazia e Giustizia (1973): qui segue la riforma dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale. Tra il 1974 e il 1980 rivestirà poi l’incarico di responsabile del coordinamento tra il Ministero di Grazia e Giustizia ed il Nucleo Antiterrorismo del Generale Dalla Chiesa. In questa veste cura anche i profili normativi previsti dagli accordi internazionali e le relazioni con il Consiglio d’Europa per la Convenzione per la lotta al terrorismo.
Dal 1980 al 1983 una nuova esperienza: presso la Corte Suprema di Cassazione. E poi di nuovo al Ministero di Grazia e Giustizia: collabora con il pool antimafia di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino al quale fornisce mezzi e strutture per la lotta alla criminalità. È in questa sua nuova veste che sovrintenderà, come sopra ricordato, alla costruzione dell’aula bunker, una futuristica “astronave” blindata in grado di contenere in sicurezza migliaia di persone tra imputati, avvocati, giornalisti da tutto il mondo, il pubblico.
Nel 1991 poi è nominata Vice Direttore Generale del Ministero di Grazia e Giustizia, al fianco di Giovanni Falcone. Con il ministro Claudio Martelli daremo il via ad una stagione di fortissimo impulso, nella legislazione e nella nuova architettura di contrasto al crimine organizzato transnazionale, che neppure la strage di Capaci riuscirà a fermare. Dopo l’assassinio di Falcone, nell’agosto del 1992, Liliana ne prenderà il testimone con la nomina a Direttore Generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Sarà il settembre nero degli arresti di mafia, sarà la cattura di Totò Reina. Quello stesso anno riceverà il premio di “Europeo dell’anno”, per l’attività svolta in Europa.
Nel 1994 sarà, a Napoli, Coordinatore Nazionale per la preparazione e l’organizzazione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale. Dal 1996 al 2003 è Consigliere di Stato. È stata poi socio fondatore e Segretario Generale della Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”. Per molti anni Liliana, nel segno dell’amicizia con Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro, ha seguito le attività del Centro Studi Americani, del cui Consiglio di Amministrazione ha fatto parte. E nel 2001 è nominata Assessore alle Politiche per la Sicurezza, alla Polizia Municipale ed Avvocatura del Comune di Roma. Dal 2015 ricopriva il ruolo di Presidente dell’Organismo di Vigilanza della Società Aeroporti di Roma.
Liliana è stata sempre una protagonista anche contro e in mezzo a tanti pericoli e minacce. Da ultimo, nonostante la malattia e le sofferenze che ha patito, non ha mai smentito il suo essere una forte donna dedita al bene comune, con una concezione del suo ruolo istituzionale che è stata e sarà di esempio per le future generazioni.
Se ne va con lei un’amica. Insieme, penso, siamo state capaci di interpretare un percorso di cambiamento negli organismi giudiziari ancora oggi presidio di legalità. Combattenti e combattute abbiamo insieme affermato una prima presenza delle donne nell’universo giudiziario di questa Italia, senza retorica e con l’orgoglio di poter affermare che solo il merito ci avrebbe potuto premiare.
Sono certa che il testimone che Liliana ci ha consegnato ha e avrà un altissimo valore morale e noi lo conserveremo come il suo dono più prezioso.
Veto al reingresso dello straniero: nel ventaglio di Cons. St. 21/3886 dura 15 anni, oltre l’ostracismo dell’antica Atene del 5° sec. a.C.
di Carlo Morselli
Sommario: 1. L’istituto dell’espulsione: la sua essenziale identità. Espulsione e detenzione quali addendi di un’operazione binaria - 2. Espulsione e respingimento: la linea securitaria - 3. Il provvedimento del respingimento - 4. Gli effetti del respingimento: divieti e delitti per lo straniero (art. 10 co. 2-ter T.U.I.) - 5. Il decreto ministeriale. Cenno all’ostracismo - 6. Espulsione ministeriale per motivi di prevenzione del terrorismo: la forbice ratione personarum. Cons. St., sez. III, 19 maggio 2021, n. 3886 - 7. Certezza senza accertamento dell’atto impositivo ex suppositione riferibile ad una “misura non conservativa” - 8. Il pendolo o ventaglio della misura espulsiva a “largo compasso”, che supera perfino i tempi dell’ostracismo dell’antica Atene.
Abrégé. L’atto di “spoglio”
In una recente decisione del 2021 del Consiglio di Stato n. 3886 si è fissato un divieto di reingresso per 15 anni (implicitamente stimato in armonia, coerente e non in conflitto con l’imprinting democratico dello Stato). Lo si è ritenuto legittimo pure in presenza in Italia di familiari (anche cittadini italiani) e di un figlio minore residente in Italia, ciò che non costituisce un impedimento assoluto all’espulsione atteso che, in una società democratica, il fine legittimo della tutela dell’ordine pubblico può giustificare una deroga al diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) quando l’allontanamento dello straniero è misura necessaria e proporzionata a tale scopo.
Ma un allontanamento per quindici anni, dalla famiglia di origine con prole, equivale, oltre alla disintegrazione del nucleo familiare costituito e ad uno sradicamento individuale permanente, a segnare agli occhi e alla sensibilità dell’espulso un “atto di spoglio”, quel termine finale quasi usque ad mortem e, dum pendet, emerge un trattamento quasi disumano.
L’ostracismo era l’istituzione giuridica che colpiva, con un bando che allontanava l’ostracizzato dalla città (dalla polis), il cittadino ritenuto pericoloso per la sicurezza dello Stato. Per esempio («a Cimone venne dato l’ostracismo per dieci anni; a Temistocle venne dato l’ostracismo ed anche l’esilio» (B. Vickers).
1. L’istituto dell’espulsione: la sua essenziale identità. Espulsione e detenzione quali addendi di un’operazione binaria
L’espulsione dello straniero in Italia [1] è una misura impositiva, uguale e contraria all’accoglienza[2], diretta a neutralizzare e rendere reversibile l’ingresso e la circolazione interna, nel territorio nazionale dello straniero irregolare, tale per le ragioni fissate dalla legge (c. d. principio di legalità). Il mezzo prescelto si concentra nell’allontanamento coattivo che provoca la fuoriuscita del destinatario dai confini del suolo italiano (a loco ad locum). L’espulsione c.d. amministrativa dello straniero si articola, nelle ipotesi previste, attraverso l’accompagnamento alla frontiera con l’ausilio della forza pubblica e si traduce in un “atto di desistenza” locativa e in una forma di limitazione individuale. Accompagnamento manu militari e atto di desistenza sintetizzano la dinamica dell’istituto.
Questo è incardinato e disciplinato nel Testo unico dell’immigrazione, ma viene in rilievo “sotto le due specie”, ciò che evoca il suo carattere intrinsecamente privativo. Pur avendo, infatti, identità amministrativa (art. 13 Espulsione amministrativa), l’espulsione eseguita incide, certamente, sulla libertà personale, garantita all’art. 13 Cost. (v. Corte cost., 105/2001). Di qui la sua essenza afflittiva[3]: tocca un bene costituzionalmente protetto.
Si scrive espulsione amministrativa, si legge [4] provvedimento analibertario, d’“interdizione” dello straniero, potrebbe riassumersi con una formula ad effetto descrittivo dell’andamento ancipite.
La forbice segnala che alla natura amministrativa dell’espulsione[5] corrisponde una sanzione non amministrativa, come risulta quasi plasticamente dall’art. 16 comma 5 T. U. I., che pure ha subito modifiche da parte del d.l. n. 130/2020 (conv. con modif. in L. n. 173/2020), inteso all’interno del diritto dell’Unione europea e al di fuori della circolarità applicativa[6]: “Nei confronti dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni, è disposta l’espulsione”. Ad onta dell’apparente automatismo applicativo, rileva la condizione ostativa del vincolo familiare[7], fermo restando lo «scopo di deflazionare le carceri»[8].
Così, detenzione ed espulsione seguono il regime della proprietà commutativa, se al posto della prima può disporsi la seconda per un sottoprincipio di equivalenza: entrambe vengono allineate al pari di addendi nell’operazione binaria. Stato reclusivo e stato extradentivo, status detentionis ed expulso status sono perfettamente permutabili, ed è su tale presupposto implicito che in luogo della
detenzione si innesta l’espulsione, in alternativa[9]. L’idem factum accomuna detenzione ed espulsione.
Anche la giurisprudenza ha avvertito che l’espulsione, pur essendo di natura amministrativa, ha sicuramente un notevole grado di afflittività, incidendo ed interferendo nella materia regolata dall’art. 13 della Costituzione[10].
2. Espulsione e respingimento: la linea securitaria
L’espulsione, d’altra parte, può inquadrarsi all’interno dell’unitaria classe della politica securitaria[11], dopo il respingimento: espulsione e respingimento[12] sono accomunati, ad esempio all’art. 19 T.U.I. e il secondo potrebbe intendersi quale figura protoespulsiva. Il respingimento rientra, per omogeneità di contenuto e funzioni, nella più ampia categoria dell’espulsione, che l’art. 13 T.U.I. demanda alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria[13].
Un dispositivo di polizia, quella di frontiera (art. 10 co. 1 T.U.I.[14]) o diversamente “guardia di frontiera”[15], sanziona lo straniero irregolare presente ai valichi, appunto senza titolo d’ingresso nel territorio dello Stato. L’esigenza è quella di attestare una linea securitaria in uno spazio nevralgico,
cioè garantire la sicurezza e il controllo dei confini, di gestire la pressione sulle frontiere esterne, di governare, e “fronteggiare”, i flussi migratori. Si tratta di un presidio inibitorio calato nelle cruciali zone di transito o di “passo” e di un meccanismo di contrasto, ma anche di deterrenza, verso gli ingressi clandestini.
L’art. 10 cit. contrasta la presenza dello straniero ai valichi, «senza avere i requisiti richiesti dal presente testo unico per l‘ingresso nel territorio dello Stato», (co.1) e non ammette il comportamento elusivo dei controlli di frontiera (co. 2)[16]. Riassuntivamente: presenza e accesso sine titulo (carente quello del visto d’ingresso) nel territorio dello Stato sono vietati e contrastati. In questo modo, la linea securitaria diventa plasticamente linea di interdizione, di sbarramento ostativo attraverso l’istituto del c.d. respingimento. Questo permette il ripristino della legalità, attraverso l’allontanamento forzoso, sempre secundum ius però[17].
Al riguardo, il co. 2-bis dell’art. 10 T. U. I. prevede, con una diposizione estensiva, che «al provvedimento di respingimento di cui al comma 2 si applicano le procedure di convalida e le disposizioni previste dall’art. 13, cc. 5-bis, 5-ter, 7 e 8» (in materia di espulsione). E l’art. 13, co. 5-bis, T. U. I. con una breve previsione ad hoc stabilisce: «il giudice provvede alla convalida, con decreto motivato, entro le quarantotto ore successive… sentito l’interessato, se comparso».
L’istituto del respingimento risulta sdoppiato (immediato e differito), poiché al c. 2 art. 10 cit. è prevista una precisa addizione della competenza a ordinarlo[18].
Primo e secondo comma dell’art. 10 cit. (ove confluiscono tre distinte ipotesi, una risalente alla polizia di frontiera motu proprio e due appartenenti al questore) hanno in comune testualmente l’elemento dell’allontanamento forzoso ma compongono atti cc.dd. riservati e attuati con modalità diverse: nell’ordine, della polizia di frontiera e questorile. La modalità attuativa o esecutiva è quella
dell’«accompagnamento alla frontiera» (art. 10 co. 2 T.U.I.), atto uguale e contrario a quello censurato.
L’istituto del respingimento, in questa sua latitudine, si conferma quale presidio e strumento di controllo territoriale (alla “fonte”) degli stranieri, affidato all’autonomia di esercizio della polizia di frontiera e del questore[19], e diretto ad inserire un dispositivo inibitorio alla libertà di circolazione individuale[20]. Analogamente, «l’espulsione è eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica» (art. 13, co. 4, T.U.I., ma per la procedura di convalida v. il relativo co. 2-bis).
3. Il provvedimento del respingimento
Il respingimento alla frontiera deve risultare da un provvedimento scritto e motivato, quello adottato dall’ufficio di polizia di frontiera. Al riguardo, l’art. 13, par. 2 del Codice frontiere Schengen prevede che il respingimento possa essere disposto esclusivamente con un provvedimento motivato che ne espliciti le ragioni puntualmente e che debba essere notificato all’interessato. L’art. 3, co. 3 del Regolamento di attuazione del T.U.I. (d. P. R. 31 agosto 1999, n. 394) stabilisce che il provvedimento che dispone il respingimento sia comunicato allo straniero attraverso consegna a mani proprie o notificazione del provvedimento scritto e motivato, che contempli l’indicazione delle eventuali modalità di impugnazione, assicurando la riservatezza del contenuto dell’atto (e la traduzione, se lo straniero non comprende la lingua italiana).
4. Gli effetti del respingimento: divieti e delitti per lo straniero (art. 10 co. 2-ter T.U.I.)
Il provvedimento di respingimento ha effetti ulteriori, rispetto a quello proprio: al destinatario è vietato fare rientro nel territorio nazionale, «senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno» (art. 10 co. 2-ter e la trasgressione integra un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni e provoca l’espulsione dello straniero con accompagnamento immediato alla frontiera[21]). Circa la latitudine temporale del divieto di cui al citato art. 10 co. 2-ter, il suo orizzonte è abbastanza ampio: «opera per un periodo non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni» (art. 10 co. 2-sexies T. U. I.).
I respingimenti, specialmente quale linea distintiva risalente ai passati Governi, all’analisi pongono l’ineludibile interrogativo se possono considerarsi legittimi quando hanno “la forza” di ostacolare l’esercizio del diritto di asilo (l’asilo politico di cui all’art. 10 co. 3 Cost.) e il riconoscimento dello status di rifugiato[22].
Un postulato è stato dettato all’art. 2 (Diritti e doveri dello straniero) T.U.I.: 1. Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti[23].
Esiste, precisamente, un principio di non respingimento (refoulement [24]) adeguatamente elucidato
da una recente decisione del Tribunale di Roma, che sottopone a vaglio due coordinate e di cui una ritenuta poziore: gli obblighi internazionali assunti dall’Italia in forza di un accordo bilaterale con un altro Stato sono recessivi rispetto al diritto fondamentale d’asilo e al principio del non respingimento garantiti a livello internazionale, sovranazionale e costituzionale (artt. 33 Convenzione di Ginevra, 18 e 19 Carta di Nizza e 10 Cost.). Di conseguenza può qualificarsi antigiuridica ai sensi dell’art. 2043 c.c. la condotta delle autorità nazionali che respingono i migranti verso la Libia, non potendo ignorare che questi potranno ivi verosimilmente incorrere in trattamenti contrari ai diritti fondamentali[25].
Al riguardo, la Convenzione di Ginevra (28 giugno 1951, modificata dal Protocollo addizionale di New York del 31 gennaio 1967), si occupa dei rifugiati che praticano ingressi e soggiorni illegali, all’art. 33 (Divieto di espulsione)[26].
5. Il decreto ministeriale. Cenno all’ostracismo
L’espulsione è disposta osservando la forma del decreto motivato immediatamente esecutivo, ma giustiziabile. Contro il decreto ministeriale, previsto dal co. 1, la tutela giurisdizionale, davanti al giudice amministrativo, è regolata da codice del processo amministrativo (art. 13 co. 11 TUI)[27].
Al termine dell’esposizione dell’istituto, notiamo come l’ampio potere impositivo di cui dispone il Ministro dell’interno è ancora più ampio (amplius), quello saldamente ancorato all’art. 3, co. 1, d.l. n. 144/2005, nel filtro interpretativo e amplificativo dei giudici ove riemerge quasi senza confini (e senza interrogarsi in modo plausibile circa il rispetto e l’osservanza dei parametri di ragionevolezza e proporzionalità del potere usato, per non essere all’origine di una deminutio per l’espulso e d’altra parte di una specie di protagonismo del giudice), superando di gran lunga quelli temporali dettati dall’antica Atene per l’ostracismo, valido per 10 anni, in vigore nel 5° sec. a. C.
Infatti, in una recente decisione del 2021, del Consiglio di Stato, si è fissato un divieto di reingresso di 15 anni.
6. Espulsione ministeriale per motivi di prevenzione del terrorismo: la forbice ratione personarum. Cons. St., sez. III, 19 maggio 2021, n. 3886
Questa species del genus[28] espulsione è regolata dall’art. 3, d.l. 144/2005, convertito, con modificazioni, in l. 155/2005.
Il caso è (tratto e) trattato da Cons. St., sez. III, 19 maggio 2021, n. 3886,riguarda il coniuge di cittadina italiana (familiare di cittadina dell’UE non avente la cittadinanza di uno Stato membro) e riferibile all’art. 20, co. 2, d.lgs. 30/2007 (Limitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno per motivi di ordine pubblico)[29].
A un cittadino tunisino, coniugato con italiana, è stato applicato il provvedimento di espulsione ministeriale – con accompagnamento immediato alla frontiera e divieto di reingresso in Italia per la durata di 15 anni – in quanto ritenuto inserito in un circuito di connazionali noti per avere assunto posizioni “adesive”, in favore del radicalismo islamico e, in particolare, per avere consultato e condiviso contenuti web inerenti al teatro di guerra siriano ed iracheno da cui si evinceva la vicinanza all’autoproclamato Stato islamico, nonché per avere espresso profondi sentimenti di avversione nei confronti dei praticanti il cristianesimo.
L’espulso impugna avanti al Consiglio di Stato la sentenza con cui il Tar Lazio, sede di Roma, ha respinto il ricorso, in forza di plurimi motivi di gravame, riassuntivamente indicati. In primo luogo, a) lamenta la violazione dell’art. 20, co. 4, d.lgs. 30/2007, ritenendo e segnalando al giudice che i comportamenti individuali dell’interessato non si traducano per lo Stato in una minaccia concreta ed effettivamente enucleabile, sufficientemente grave nei settori dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza, e, pertanto, sono inidonei a giustificare e legittimare l’adozione di siffatta misura; inoltre b) il ricorrente censura la violazione dell’art. 8 CEDU per avere il provvedimento troncato la sua vita privata e familiare e, in specialmente, il suo rapporto con la prole, il figlio minore; ancora c) considera illegittima la durata del divieto di reingresso nella misura di 15 anni, rispetto al divieto massimo di dieci anni tracciato dall’art. 20, co. 10, d.lgs. 30/2007 nei casi di allontanamento per motivi di sicurezza dello Stato, e, pertanto, in violazione della previsione del principio di proporzionalità in generale stabilito per tutte le tipologie di allontanamento al comma 4 della stessa disposizione.
Il Consiglio di Stato, sez. III, con sentenza n. 3886/2021, del 19 maggio 2021, respinge il ricorso, nel solco di una parziale continuità con la giurisprudenza consolidata in materia di espulsioni ministeriali.
Innanzitutto, si statuisce che il pericolo per la sicurezza dello Stato non deve essere accertato con assoluta certezza, essendo sufficiente la sussistenza di fondati motivi per ritenerlo esistente, che, nel caso in esame, si ricavano dalla documentazione in atti proveniente dall’amministrazione resistente con classificazione «riservata e riservatissima». Trattandosi di una misura preventiva, la sufficienza dei «fondati motivi» a tutela della sicurezza dello Stato, desunta dai fatti cristallizzati nella documentazione in parola, non pare colpita da manifesta irragionevolezza, travisamento o difetto d’istruttoria che rappresentano gli unici vizi soggetti a sindacato dal giudice amministrativo nel quadro di una valutazione meramente esteriore, conseguente all’alta discrezionalità amministrativa che caratterizza tale tipologia di espulsione.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 8 CEDU, il Collegio osserva come la tutela della vita privata e familiare non è assicurata incondizionatamente, posto che – a ai sensi dell’art. 2 della stessa Convenzione – l’ingerenza dell’autorità pubblica è consentita ove sia prevista dalla legge quale misura necessaria per garantire la sicurezza nazionale.
Fin qui la motivazione della sentenza in analisi si pone in linea con la consolidata giurisprudenza, smentita da una recente decisione di merito secondo cui va annullato il decreto di allontanamento per motivi di ordine pubblico adottato dal Prefetto ai sensi dell'art. 20 del d.lgs. n. 30/2007 in assenza di un circostanziato giudizio [30]. Il quid novi è invece dato dagli argomenti impiegati per riaffermare la legittimità del divieto di ingresso nel territorio italiano per 15 anni, in contrasto con l’art. 20, co. 10, d.lgs. 30/2007 che fissa in dieci anni il termine massimo nei casi di allontanamento disposto per motivi di sicurezza dello Stato. Nel filtro interpretativo del Collegio tale disposizione deve essere collegata con la Direttiva 2008/115/CE che, all’art. 11, par. 2, prevede che la durata del divieto di reingresso «è determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera di norma i cinque anni…può comunque superare i cinque anni se il cittadino di un Paese terzo costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale». Dunque, per il tramite della fonte normativa della Direttiva rimpatri sarebbe possibile apportare una deroga alle disposizioni del d.lgs. 30/2007, che si attesta come una proiezione o attuazione della Direttiva 2005/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Il corollario della postulata impostazione è che il termine massimo decennale può essere disapplicato qualora l’amministrazione non lo stimi sufficiente a fronteggiare le esigenze di tutela della sicurezza dello Stato.
Però emerge una forbice, ratione personarum: la Direttiva 2008/115/CE si applica ai cittadini di Paesi terzi e non ai familiari di cittadini comunitari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, come definiti all’art. 2, d.lgs. 30/2007 [31], per i quali trova posto il citato decreto legislativo attuativo della Direttiva 2004/38/CE, in cui risaltano l’incisività dei limiti dettati nei precetti 23 e 24[32].
L’art. 20, co. 2, d.lgs. 30/2007 (sulla «minaccia concreta e attuale tale da pregiudicare l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica»), che regola l’istituto dell’allontanamento per motivi di sicurezza
dello Stato, prevede espressamente un limite temporale al comma 7[33].
In sede di analisi della citata decisione di Cons. St., sez. III, 19 maggio 2021, n. 3886, si è obiettato: «si dovrebbe pertanto ritenere che le ipotesi di allontanamento del familiare di cittadino dell’Unione non avente la cittadinanza di uno Stato membro, siano disciplinate dal citato art. 20 che attribuisce la loro adozione al Ministro dell’interno e, al comma 10, stabilisce in dieci anni il temine massimo di divieto di reingresso. La motivazione della sentenza in commento sul punto non pare pertanto convincente»[34] [35].
7. Certezza senza accertamento dell’atto impositivo ex suppositione riferibile ad una “misura non conservativa”
Scrive il Consiglio di Stato nella citata sentenza: «6.3. Il Tribunale ha anzitutto, e opportunamente, ricordato che, ai fini dell’emanazione del provvedimento ministeriale di espulsione, non è necessario che sia stata appurata con assoluta certezza la sussistenza del suindicato pericolo, essendo sufficiente che vi siano fondati motivi di ritenerlo esistente».
Il Collegio così sposta e in una direzione non garantistica il perno della fonte del convincimento del giudice, dal saldo terreno storico al sottile piano argomentativo considerando e ritenendo il “fatto” a base del giudizio di pericolosità esistente solo ex suppositione. Ma l’impostazione è poco adeguata se non fuorviante, considerando che non è neppure richiesta o pretesa una «assoluta certezza», né noi la postuliamo nella fattispecie analizzata. Il passaggio è tecnicamente inesatto e tautologico: non è richiesta l’ostentata assolutezza (evocata solo per negare una solida base fattuale) ma che il convincimento del giudice poggi non su comportamenti solo sintomatici, bensì che il pericolo risulti concretamente sulla base di circostanze di tempo, di luogo e di persone, e tale piattaforma si imponga maggiormente in rapporto e in considerazione del carattere totalmente ablativo della misura dell’allontanamento, sicuramente afflittiva e d’impatto sul nucleo familiare dell’espulso, nonché sulla enorme durata del distacco territoriale e personale: 15 anni[36]. Il sacrificio degli interessi e delle prerogative dello straniero sarebbe assai elevato ed anche ingiustificato, se l’atto coattivo viene formulato su base sintomatica [37] o affidate a mere “clausole di stile”. Piuttosto troverebbe posto il paradigma dell’alta probabilità confinante con la certezza e sarebbe utile mantenerlo per scongiurare un risultato del tutto sbilanciato o negativo. L’atto impositivo finirebbe per sacrificare oltremisura la conservazione dei valori familiari, personali, territoriali dello straniero ponendo la materia sul piano inclinato dell’astrattismo dello scrutinio del tutto filoministeriale, non più rigoroso ma poggiante su elementi solo estrinseci[38].
Diversamente, il giudizio dell’alto Collegio ricaverebbe una “certezza senza accertamento”[39]. Emergerebbe una possibile mala gestio di uno spazio di libertà associata alla discrezionalità, riferibile ad una misura che possiamo appellare “non conservativa” ma privativa. Infatti si legge in altro passaggio della decisione: «8.5. Trattandosi di atto rimesso all’organo di vertice del Ministero dell’Interno e che investe la responsabilità del Capo del Governo, nonché l’organo di vertice dell’amministrazione maggiormente interessata alla materia dei rapporti con i cittadini stranieri, esso costituisce senza dubbio, come ha osservato il primo giudice, espressione di esercizio di alta discrezionalità amministrativa».
È la più recente giurisprudenza di merito che si incarica di circoscrivere il giudizio dell’organo responsabile del procedimento e del provvedimento, stabilendo che va annullato il decreto di allontanamento per motivi di ordine pubblico adottato dal Prefetto ai sensi dell'art. 20 del d.lgs. n. 30/2007 in assenza di un circostanziato giudizio circa la attitudine del cittadino europeo a rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società, non potendo mere clausole di stile assolvere a tale funzione, aggiungendo che «la Corte di Giustizia UE ha già avuto modo di osservare che le regole di ordine pubblico e di pubblica sicurezza che gli Stati membri determinano conformemente alle loro necessità nazionali, proprio in quanto legittimanti una deroga al principio fondamentale della libera circolazione delle persone, devono “essere intese in senso restrittivo, di guisa che la loro portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione europea” (cfr. CGUE, 22 maggio 2012, C-348/09)».[40].
8. Il pendolo o ventaglio della misura espulsiva a “largo compasso”, che supera perfino i tempi dell’ostracismo dell’antica Atene
L’espulso si duole, con il terzo motivo del ricorso, di un eccesso applicativo ratione temporis (che ha una fonte solo parziale nella prescrizione di legge [41]), deducendo violazione dell’art. 20, co. 10, del d. lgs. n. 30 del 2007, sul presupposto che dovrebbe trovare posto nella fattispecie, in quanto (l’appellante è) familiare di persona italiana, la richiamata disposizione, la sua previsione secondo cui il provvedimento che dispone l’allontanamento per motivi di sicurezza dello Stato non può avere durata superiore a dieci anni [42], mentre si è “praticata” una espulsione della durata di quindici anni.
Emergono tre profili concomitanti, nello scarto tra diritto codificato ed applicato: a) un elemento ostensivo (che deve essere) espressamente dettato nel corpo del provvedimento, quale proiezione di legge, è che l’imposizione espulsiva di divieto di reingresso non può superare il limite cronologico di dieci anni: quindi doppio divieto, di reingresso e di valicare il confine temporale decennale fissato nella norma di sbarramento o esclusione; b) l’espulsione pressoché permanente (così può assimilarsi una latitudine temporale estesissima, ultradecennale) si traduce in un trattamento più che afflittivo, tipicamente di matrice penalistica (le pene nascoste) e non amministrativa (sottotesto del provvedimento applicativo, criptopenale al pari di una “pena nascosta” ed espressione di una sanzione punitiva[43]), che limita la libertà personale e di circolazione[44] (che acquista la figura di un obbligo di non facere[45]), e recide i legami e le radici familiari; c) queste dinamiche tracciano un andamento “a fisarmonica”, disegnato “a compasso largo”[46] che tradisce il saldo canone di proporzionalità della misura adottata[47].
Un allontanamento per quindici anni, dalla famiglia di origine con prole, equivale, oltre alla disintegrazione del nucleo familiare costituito e ad uno sradicamento individuale permanente, a segnare agli occhi e alla sensibilità dell’espulso un termine finale quasi usque ad mortem e, dum pendet, un trattamento disumano (v. 3 Cedu, che sancisce il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»)[48].
Quanto precede ha carattere evocativo: l’ostracismo era l’istituzione giuridica che colpiva, con un bando che allontanava l’ostracizzato dalla città (dalla polis), il cittadino ritenuto pericoloso per la sicurezza dello Stato. Per esempio (celebre), «a Cimone venne dato l’ostracismo per dieci anni; a Temistocle venne dato l’ostracismo ed anche l’esilio»[49].
Nella recente decisione del 2021 del Consiglio di Stato n. 3886 si è “precettato” un divieto di reingresso per un tempo molto lungo, di 15 anni ritenuto adeguato pure in presenza in Italia di familiari (anche cittadini italiani) e di un figlio minore, ciò che non rappresenta un ostacolo assoluto all’espulsione atteso che, in una società democratica, il fine legittimo della tutela dell’ordine pubblico può inserire una deroga alla prerogativa del rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) quando l’allontanamento dello straniero rappresenti una misura necessaria e proporzionata a tale finalità[50].
Con tale decisione l’ostracismo non è più protostoria e sembra di rivedere alcune tracce materiali.
[1] L. Chiara-G. Moschella, Italia paese d’immigrazione. Storia e legislazione, Roma, 2020; A. Ruggeri, Cittadini, immigrati e migranti al bivio tra distinzione e integrazione delle culture (note minime su una spinosa e ad oggi irrisolta questione), in Dirittifondamentali.it, 20 novembre 2021, n.3.
In giurisprudenza, ad esempio v. Cass. pen., sez. I, sent. 6 maggio 2019, n. 18901: l'espulsione dal territorio dello Stato di uno straniero o l'allontanamento di un cittadino appartenente ad uno Stato membro dell'Unione europea, di cui all'art. 235, primo comma, cod. pen., costituisce una misura di sicurezza personale facoltativa la cui mancata applicazione non richiede una specifica motivazione quando la pericolosità sociale del condannato non risulti da concreti e rilevanti elementi relativi al condannato che siano esplicitati in motivazione.
[2] P. Bonetti, Accoglienza nell’emergenza: la recente evoluzione, in Modelli di disciplina dell’accoglienza nell’“emergenza immigrazione”. La situazione dei richiedenti asilo dal diritto internazionale a quello regionale, a cura di J. Woelk, F. Guella e G. Pelacani, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016; F. Cortese, La crisi migratoria e la gestione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2, 2019; da ultimo, v. L. Trucco, Luci e ombre nel decreto legge 130/2020, in Immigrazione, protezione internazionale e misure penali. Commento al decreto legge n. 130/2020, a cura di M. Giovannetti, N. Zorzella, Pisa, 2021; F. Biondi dal Monte, Il sistema di accoglienza e integrazione e i diritti dei minori stranieri. Riflessioni sulla disciplina introdotta dal d.l. n. 130/2020, in Forum Quad. Cost., 1, 2021; M. Giovannetti, Giro di boa. La riforma del sistema di accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione internazionale, in Dir. imm. citt., n. 1, 2021, 28 s.
In giurisprudenza, v. T.A.R Emilia Romagna, sez. I, 13 gennaio 2022, n. 32, in Immigrazione.it, 2022: sono illegittimamente revocate le misure di accoglienza allo straniero che abbia fatto ricorso contro il diniego di protezione internazionale, anche se ha presentato la rinuncia alla protezione presso un commissariato avendo ottenuto il permesso temporaneo ai sensi dell’art. 103, co. 2, d.l. 34/2020. La presentazione dell’istanza del permesso temporaneo, infatti, non comporta la perdita della protezione internazionale, status garantito dalla legge e irrinunciabile, né rileva la rinuncia redatta presso il commissariato, ed essendo sospesa, per effetto del ricorso, l’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego della protezione.
Per l’integrazione sociale nel paese di accoglienza, v. Cass., sez. un., sent. 9 settembre n. 24413 2021 (Rv. 662246 - 01), in foroeuropeo.it., 2021.
[3] Per l’afflittività della misura, v. la decisione di Corte cost., ord.15 luglio 2004, n. 226: «sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte dal Magistrato di sorveglianza di Cagliari (r.o. n. 207 del 2003), il giudice a quo ritiene che l'espulsione a titolo di sanzione alternativa abbia un evidente contenuto afflittivo».
[4] Al riguardo, da ultimo v. C. Morselli, Manuale di diritto dell’immigrazione. Profili di diritto penale e procedura penale, Pisa, 2022, 61 s. Può inserirsi, dunque, uno scarto fra testo e il suo significato. V., per uno spunto, M. Di Francesco, Premessa. Pensare il pensiero, in F. L. Gottlob Frege, Ricerche logiche, Introd. Di M. Dummett, Milano, 1988, 9: «leggendo delle parole scritte su un foglio di carta. Da un certo punto di vista non vi è dubbio che questo è un processo percettivo…Ma, nello stesso istante, voi state comprendendo delle parole, o meglio degli enunciati: capite cioè cosa significa quello che state leggendo…In altre parole voi comprendendo il senso degli enunciati».
[5] La situazione in cui si trova lo straniero che, avendo richiesto alla scadenza il rinnovo del permesso di soggiorno se lo sia visto rifiutare, non rientra tra le ipotesi di espulsione amministrativa di cui all’art. 13, co. 2, TUI. Ne consegue che non può essere disposta nei suoi confronti nemmeno l’espulsione ex art. 16, co. 5, TUI che ha i medesimi presupposti dell’espulsione amministrativa (Cass., sez. I pen,, 16 gennaio 2020, n. 1630, in Immigrazione,it., 2020). L’espulsione dello straniero condannato e detenuto, prevista dall’art. 16, comma 5, del TUI non è qualificabile come misura di sicurezza, trattandosi di misura di natura sostanzialmente amministrativa, giudizialmente applicata, finalizzata ad evitare il sovraffollamento penitenziario. Di conseguenza, sono irrilevanti il comportamento tenuto dallo straniero e i permessi premio di cui ha usufruito nel corso della detenzione (Cass., sez. VII, 24 settembre 2019, n. 38975, ivi, 2019). L’espulsione dello straniero, identificato, il quale sia stato condannato e si trovi detenuto in esecuzione di pena anche residua non superiore ad anni due per reati non ostativi, prevista dal d.lgs. n. 286 del 1998, art. 16, comma 5, ha natura amministrativa e costituisce un’atipica misura alternativa alla detenzione, finalizzata ad evitare il sovraffollamento carcerario, della quale è obbligatoria l’adozione in presenza delle condizioni fissate dalla legge art. 16, comma 5, secondo quanto si ricava dall’interpretazione letterale della norma, che introduce, quale clausola derogatoria, la condanna per uno o più dei delitti disciplinati dall’art. 407 cod. proc. pen., comma 2, lett. a), ovvero per i delitti previsti dal testo unico in materia di immigrazione. Pertanto, l’esaurimento del rapporto esecutivo preclude l’adozione del provvedimento espulsivo (Cass., sez. I, 19 luglio 2018, n. 33738,ivi 2018).
[6] In materia di espulsione come misura alternativa alla detenzione, le modifiche normative all’art. 19, TUI, da parte del d.l. n. 130/2020 (conv. con modif. in L. n. 173/2020) determinano l’illegittimità del decreto di espulsione che ha per destinatario il detenuto straniero presente da dodici anni in Italia, dove vivono stabilmente anche moglie e figlio. La novella – applicabile alla fattispecie in quanto norma sopravvenuta più favorevole – impone infatti al giudice di sorveglianza di tenere conto delle conseguenze che l’allontanamento produrrebbe sulla vita privata e familiare del condannato e, pertanto, riconosce rilevanza anche ai legami affettivi che esulano dalle ipotesi tipizzate dall’art. 19, co. 2, lett. c), TUI (Cass., sez. I pen., 7 ottobre 2021, n. 36513, in Immigrazione.it., 2021). In tema, v. Cass. pen., sez. I., 19 luglio 2021, n. 27872, ivi. V. Cass. pen., sez. I, sent.. 13 gennaio 2020, n. 915: ha stabilito che l’art. 16, comma 5, TUI interpretato conformemente al diritto dell’Unione europea dev’essere inteso nel senso che osta ad automatismi espulsivi nei confronti dello straniero coniugato con una cittadina dell’Unione regolarmente soggiornante in Italia, dovendosi invece procedere ad una valutazione individualizzata in analogia a quanto previsto per l’allontanamento dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari dall’art. 20 d.lgs. n. 30/2007.
[7] In materia di espulsione come misura alternativa alla detenzione, la necessità di rispettare i principi di rango costituzionale e sovranazionale e, in particolare, quelli attinenti al superiore interesse del minore (cfr. art. 5, co. 1, lett. a), c.d. “Direttiva rimpatri”), implica che, oltre ad escludere la sussistenza delle cause ostative di cui all’art. 19 TUI, il giudice di sorveglianza debba bilanciare la concreta ed attuale pericolosità sociale dello straniero con la natura e l’effettività dei suoi vincoli familiari, nonché la durata del soggiorno in Italia e i suoi legami con il Paese d’origine. Ne discende che, a prescindere da una situazione di convivenza, rileva quale condizione ostativa anche il vincolo familiare dell’interessato con il cittadino italiano (art. 13, co. 2 bis, TUI) e in specie col figlio minore residente in Italia, in un’ottica di protezione del suo sviluppo psico-fisico e del pregiudizio che subirebbe dall’interruzione della continuità affettiva e relazionale col proprio genitore, in caso di espulsione di quest’ultimo (Cass., sez. I pen., 6 maggio 2020, n. 13764, in Immigrazione.it., 2021). In materia di espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione, il giudice deve valutare l’esistenza di concreti legami affettivi con persone conviventi e regolarmente residenti in Italia ex art. 13, co. 2-bis, TUI. Non è censurabile tuttavia il provvedimento che dispone l’espulsione dello straniero coniugato con una cittadina extra-UE regolarmente soggiornante in Italia se non risulta comprovato il requisito della convivenza (Cass., sez. I pen., 13 novembre 2019, n. 45972, ivi, 2019).
[8] Corte cost., 2 marzo 2018, n. 41 – Stralcio – Pres. E est. G. Lattanzi, in Guida dir., 2018, n. 13, 62.
[9] Espulsione dello straniero quale sanzione alternativa alla detenzione e salvaguardia delle relazioni familiari, v. Cass. pen., sez. I, sent., 8 novembre 2021, n. 40087, in Ondf, 9 novembre 2021: ai fini dell'applicazione dell'espulsione dello straniero quale sanzione alternativa alla detenzione, il giudice di sorveglianza non può limitarsi alla verifica della sussistenza di una delle condizioni impeditive di cui all'art. 19, d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ma deve operare, acquisendo, ove occorra, le necessarie informazioni, un giudizio di contemperamento tra le esigenze poste a fondamento del provvedimento e quelle di salvaguardia delle relazioni familiari, con particolare riguardo alle necessità di cura di figli minori conviventi, ancorché di nazionalità non italiana.
In materia di espulsione come misura alternativa alla detenzione, le modifiche normative all’art. 19, T.U.I, da parte del d.l. n. 130/2020 (conv. con modif. in L. n. 173/2020) determinano l’illegittimità del decreto di espulsione che ha per destinatario il detenuto straniero presente da dodici anni in Italia, dove vivono stabilmente anche moglie e figlio. La novella – applicabile alla fattispecie in quanto norma sopravvenuta più favorevole – impone infatti al giudice di sorveglianza di tenere conto delle conseguenze che l’allontanamento produrrebbe sulla vita privata e familiare del condannato e, pertanto, riconosce rilevanza anche ai legami affettivi che esulano dalle ipotesi tipizzate dall’art. 19, co. 2, lett. c), T .U. I. (Cass., sez. I , 7 ottobre 2021, n. 36513, in Immigrazione.it, 2021; in tema v. Cass., sez. I, 19 luglio 2021, n. 27872,ivi). In dottrina, v. G. Flora, Misure alternative alla pena detentiva, in Noviss. Dig. it., App., Torino, 1984, V; E. Dolcini, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1999; A. Marscheselli, L’efficacia rieducativa delle misure alternative alla detenzione, in Diritto&Diritti, 2003; M.D'onofrio, M. Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, Milano, 2004; L. Degl’innocenti, L’improcedibilità dell’azione penale per espulsione amministrativa dello straniero non è applicabile alla espulsione disposta a titolo di misura alternativa alla detenzione dal Magistrato di Sorveglianza, in Riv. pol., 2016, fasc. VI, 541 s. Cfr. M. D’Onofrio, Cittadini extracomunitari clandestini e misure alternative alla detenzione, in Riv. pen., 2005, n.12, 1281; E. Lanza, Stranieri e misure alternative alla detenzione carceraria. Considerazioni sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 78 del 2007, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2007, n. 2; E. Rubolino, Riflessioni sull'espulsione dallo Stato come sanzione alternativa alla detenzione (Art. 15 l. 189/02) alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale n. 226/2004, ivi, 2008, n. 3; F. Falzone, Commento, ivi, 2012, n.1; nonché XVII rapporto sulle condizioni di detenzione. Misure alternative, in Antigone, 2021; G. Savio, Misure alternative al trattenimento e garanzie difensive: commento alla sentenza n. 280/2019 della Corte costituzionale, in Dir. imm. citt., 2020, n.2, 232 s.
[10] Così, Cass., sez. I, sent. 4 gennaio 2011, Arjani, in Guida dir., 2011, n. 7, 101. Per l’afflittività della misura, v. la decisione di Corte cost., ord.15 luglio 2004, n. 226, nel tratto evocativo: «sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte dal Magistrato di sorveglianza di Cagliari (r.o. n. 207 del 2003), il giudice a quo ritiene che l'espulsione a titolo di sanzione alternativa abbia un evidente contenuto afflittivo».
[11] Sulla indicata “forbice”, v. Cass. pen., sez. I, 2 febbraio 2006, n. 4439, Ismaili [RV233196], in Codice dell’immigrazione, Piacenza, 2016, 144, mentre Cass. pen., sez. I, sent. n. 13 gennaio 2020, n. 915 ha stabilito che l’art. 16, co. 5, T.U.I. interpretato conformemente al diritto dell’Unione europea dev’essere inteso nel senso che osta ad automatismi espulsivi nei confronti dello straniero coniugato con una cittadina dell’Unione regolarmente soggiornante in Italia, dovendosi invece procedere ad una valutazione individualizzata in analogia a quanto previsto per l’allontanamento dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari dall’art. 20 d.lgs. n. 30/2007.
[12] Vim vi repellere licet:è la direzione di un conflitto innescato dallo straniero che vorrebbe forzare i controlli alla frontiera, che simboleggia, con i suoi valichi, la porta d’ingresso del Paese. Il respingimento rappresenta una misura di allontanamento (v. art. 8 Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, 16 dicembre 2008) individuale, in personam e l’art. 11 TUI prevede, in rubrica, Potenziamento alla frontiera. Per la Consulta «l’ordine di accompagnamento coattivo, che assiste il respingimento…deve per la sua natura di atto urgente essere eseguito con immediatezza, e per questa ragione fondatamente il giudice rimettente ha ritenuto che il provvedimento dia luogo, con la sua emissione ad una restrizione della libertà personale dello straniero, tutelata dall’art. 13 Cost.» (Corte cost, 20 dicembre 2017, n. 275). In dottrina v. Cfr. R. Ricciotti-M.M. Ricciotti, Espulsione degli stranieri, in Dig. pen. Agg., Torino, 2000, 266, però, osservandosi che dal contesto normativo «risulta… che il respingimento non è un’operazione materiale intesa ad impedire fisicamente sbarchi o altre forme di ingresso nel territorio dello Stato. È invece un provvedimento amministrativo».
[13] T. A .R. Lazio, sez. I ter, 29 aprile 2020, n. 4359, in Immigrazione.it., 2000.
[14] “La polizia di frontiera respinge gli stranieri ai valichi di frontiera in violazione dell’art. 4 del presente testo unico per l’ingresso nel territorio dello Stato”: ecco il testo alternativo proposto, meno verboso e più preciso di quello dettato all’art. 10 T. U. I.
[15] Al riguardo, v., sull’agenzia comune per rafforzare i confini esterni dell’Unione Europea, assicurare la protezione delle frontiere esterne dell’UE, B. Romano, Nascono le guardie di frontiera Ue. L’intervento sarà possibile soltanto dopo l’autorizzazione del Paese membro coinvolto, in Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2016, n. 152, 27: «Dopo sei mesi di trattative, Consiglio e Parlamento hanno approvato ieri la proposta comunitaria di creare un nuovo corpo europeo di guardie di frontiera…la nuova Frontex».
[16] Per quanto d’interesse nella presente analisi, v. comma 2-ter, art. cit.: «Lo straniero destinatario del provvedimento di respingimento di cui al comma 2 non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell'interno. In caso di trasgressione lo straniero è punito con la reclusione da uno a quattro anni ed è espulso con accompagnamento immediato alla frontiera. Si applicano altresì le disposizioni di cui all'articolo 13, comma 13, terzo periodo».
[17] L’allontanamento dal territorio dello Stato dello straniero extracomunitario in generale, scheda a cura di G. Savio e P. Bonetti (aggiornata al 28 febbraio 2012), in ASGI, 2012, 4: «Il respingimento alla frontiera è l’atto con il quale la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera privi dei requisiti richiesti dal T.U. per l’ingresso nel territorio dello Stato (art. 10, c. 1, T.U.). L’esecuzione di questo tipo di provvedimento di respingimento è immediata, nel senso che il competente ufficio di polizia di frontiera dopo il controllo al valico di frontiera rinvia immediatamente lo straniero respinto nello Stato da cui proviene, così impedendogli l’ingresso nel territorio dello Stato». Al riguardo, per la giurisprudenza territoriale, v. Corte d’appello di Roma, ordinanza 20 luglio 2020, in Immigrazione.it, 2020: è respinta l’istanza della Presidenza del Consiglio e del Ministero della difesa di sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale di Roma che: (i) ha accertato il carattere illecito della condotta della PA consistita nel respingimento immediato n Libia (in applicazione di un accordo internazionale) di un gruppo di migranti soccorsi da una nave della Marina militare in acque internazionali che, trasferiti a bordo della stessa, avevano rappresentato di voler richiedere asilo; ha riconosciuto, in conseguenza, (ii) il diritto di accesso di tali migranti al territorio italiano al fine di poter inoltrare la domanda di protezione, nonché (iii) il diritto al risarcimento del danno. Cfr. L. Tria, Gli accordi con la Libia e la lotta ai trafficanti, in Quest. giust., 11 giugno 2018.
[18] É stabilito che il respingimento con accompagnamento alla frontiera è, pure, disposto dal questore nei confronti degli stranieri e in due ipotesi: «a) che, entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo; b) che, nelle circostanze di cui al comma 1, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso». Cfr. R. Cherchi, L’allontanamento dall’Italia dello straniero e del cittadini europeo, in Manuale breve di diritto dell’immigrazione, a cura di P. Morozzo della Rocca, Repubblica di San Marino, 2013, 215, in ordine ai «due tipi di respingimenti…alla frontiera e il respingimento differito…deciso con un provvedimento del questore, in forza del quale è accompagnato alla frontiera lo straniero che sia stato fermato mentre cercava di entrare in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera…al momento dell’ingresso oppure “subito dopo” …Differito è altresì il respingimento dello straniero che sia stato temporaneamente ammesso sul territorio nazionale per necessità di pubblico soccorso (art. 10, c. 2, T.U.I.)».
Sul respingimento differito, v., in dottrina, V. Carlino, Il respingimento differito dello straniero, tra profili di incostituzionalità e occasioni mancate di rettifica (nota a Corte cost., sent. n. 275/2017), in federalismi.it, 12 settembre 2018; R. Cherchi, Respingimento alla frontiera e respingimento differito: presupposti, tipologie ed effetti, in Dir. imm. citt., 2019, n. 3, 37 s.; S. Rossi, Respingimento alla frontiera e libertà personale. Il monito della Corte e le scelte del legislatore, in Rivista A.I.C., 1/2019, www.rivistaaic.it, 149-150 e, in giurisprudenza, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. II, 1° settembre 2015, ric. n. 16483/12, Karaks c. Italia, in Giur. it., 2015, I, 2311. Da ultimo, v. J. Di Giovanni, G. Savio, Rassegna di giurisprudenza italiana: Allontanamento e trattenimento, in Dir. imm. citt., 2021 e, in giurisprudenza, Cass. civ., sez. un., 9 settembre 2021, n. 24413; Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2021, n. 25734, in Immigrazione.it., 2021.
[19] Trib. Palermo, ord. 20 gennaio 2020, G.O.T. A. Dell’Utri, RG. n. 9376/2019, in Progetto Melting Pot Europa, 2020.
[20] V. GdP di Bari 2021, il quale, riferendosi alla prima ipotesi dell’art. 10 co.1 TUI di respingimento immediato, ritiene che «il provvedimento non ha contenuti coercitivi sulla persona ma incide sulla libertà di circolazione dell’individuo nel momento in cui si presenta all’ingresso, che non è ancora avvenuto».
V., da ultimo, appunto, l’importante ordinanza n.199/2021, cron. n. 67/21, Giudice di Pace di Bari, 19 febbraio 2021, dep. 23 febbraio 2021 (giudice avv. G. Di Nubila), in Dir. imm. citt., 2021, che (sul ricorso in tema di respingimento differito ribadisce, preliminarmente, la propria competenza, del «Giudice ordinario e non già il Tar, disquisendosi in tema di libertà personale dell’individuo e quindi di diritti soggettivi») distingue esplicitamente, nell’analisi dell’art. 10 cit., tra ingresso non avvenuto (prima ipotesi in base al c. 1 art. 10 cit.) e ingresso avvenuto (c. 1 art. 10 cit.), concludendo per l’accoglimento dell’istanza formulata dal tunisino «avverso il provvedimento di respingimento emesso dal Questore di Bari, in data 9 ottobre 2020, e per l’effetto annulla il suddetto provvedimento». V. anche Trib. Milano 17 aprile 2021, ivi.
Altresì, v. P. Bonetti, Il respingimento differito disposto dal questore dopo la sentenza 275/2017 della Corte costituzionale, in Dir. imm. citt., 2018, f. 1, nonché G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia costituzionale. II. Oggetti, procedimenti, decisioni, Bologna, 2018, 119 s.
[21] Il provvedimento di respingimento ha effetti ulteriori: al destinatario è vietato fare rientro nel territorio nazionale, «senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno» (art. 10 c. 2-ter e la trasgressione integra un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni e provoca l’espulsione dello straniero con accompagnamento immediato alla frontiera). Circa la latitudine temporale del divieto di cui al citato art. 10 c. 2-ter, il suo orizzonte è abbastanza ampio: «opera per un periodo non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni» (art. 10 c. 2-sexies TUI).
[22] Da ultimo, cfr. C. Cecchella, Sulla inammissibilità del ricorso in Corte di cassazione del rifugiato politico o da proteggere sussidiariamente privo di certificazione della data di rilascio della procura, in Giust. ins., 27 luglio 2021; P. Bonetti, Art. 10 cost., in Clementi, Rosa, Vigevani, La Costituzione italiana, Commento articolo per articolo, Bologna, 2021, I, 76 spec. 83; C. Belcastro, Osservatorio L’Italia e la Cedu, n.1/2021 1. L’illegittimità dei respingimenti verso la Slovenia secondo la giurisprudenza nazionale e i precedenti della Corte europea dei diritti dell’Uomo, in Ordine internazionale e diritti umani, 2021; S. Tomasi, Retorica e giudizio di credibilità del richiedente asilo: le emozioni necessarie alla decisione, in dirittifondamentali.it, 29 settembre 2021, n.3.
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, co. 13, sesto periodo, del d.lgs. n. 25/2008, sollevate in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 117, co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 28 e 46, paragrafo 11, della direttiva procedure (dir. 2013/32/UE), agli artt. 46, 18 e 19, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali UE, nonché agli artt. 6, 13 e 14 della CEDU. L’onere del difensore di certificare la data di conferimento della procura speciale a ricorrere per cassazione – il quale è strumentale al rispetto della regola processuale generale di necessaria posteriorità della procura speciale – non pregiudica il richiedente protezione nell’esercizio dei propri diritti, né, alla luce della finalità antielusiva perseguita, integra un’irragionevole disparità di trattamento e, infine, non determina una sanzione processuale sproporzionata, essendo definito chiaramente nella sua portata e nei suoi effetti (Corte cost., 20 gennaio 2022, n. 13, in Immigrazione.it, 2022). È intervenuta Cass. civ., sez. VI-1, Pres. Scotti, Rel.Meloni, ord. 4 febbraio 2022, n. 3553, in Norme & Trib., 4 febbraio 2022, in ordine al riconoscimento dello status di rifugiato per il cittadino cinese perseguitato per la sua fede cristiana.
[23] Proprio in materia di diritti fondamentali, notoriamente lo Stato italiano è stato condannato al risarcimento del danno patito da immigrati somali ed eritrei per i respingimenti degli stessi effettuati verso la Libia senza esaminare i singoli casi. In tal modo essi sono stati privati della possibilità di ottenere una valutazione individuale delle loro situazioni al fine di beneficiare della protezione accordata dal diritto internazionale e comunitario ai rifugiati, in violazione dell’art. 13 CEDU. Inoltre essi sono stati esposti al rischio di maltrattamenti in Libia e al rimpatrio in Somalia ed Eritrea, in violazione dell’art. 3 della CEDU che proibisce trattamenti inumani e degradanti. Infine la condotta dell’Italia ha rappresentato un’espulsione collettiva in violazione dell’art. 4 del IV Protocollo aggiuntivo CEDU Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande sezione, 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in ASGI, 2012: La Grand Chamber della Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il respingimento verso Tripoli dei 24 ricorrenti operato dalle navi militari italiane costituisce violazione dell’art. 3 (tortura e trattamento inumano) della Convenzione europea dei diritti umani, perché la Libia non offriva alcuna garanzia di trattamento secondo gli standard internazionali dei richiedenti asilo e dei rifugiati e li esponeva anzi ad un rimpatrio forzato.
Cfr. R. Russo, I diritti fondamentali sono diritti di tutti? La tutela dei soggetti vulnerabili nel fenomeno migratorio, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 10 gennaio 2020; A. Ruggeri, I diritti fondamentali degli immigrati e dei migranti, tra la linearità del modello costituzionale e le oscillazioni dell’esperienza, in Aa.Vv., Immigrazione e diritti fondamentali, a cura di F. Astone - R. Cavallo Perin - A. Romeo - M. Savino, Univ. Torino, Torino 2019, 10 s.
[24] A. Lanciotti, D. Vitiello, L’articolo 3 della Cedu come strumento di tutela degli stranieri contro il rischio di refoulement, in L. Cassetti (a cura di), Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, Napoli, 2012, 223 s. In giurisprudenza, v. Cons. St., sez. IV, 1 luglio 2021, n. 5019, in Immigrazione.it, 2021; Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 19 giugno 2018, C-181/16, ivi, 2018 e la lunga e articolata decisione di Cass, sez. I, 26 ottobre 2017, n. 49242, ivi, 2017. Trib. civ. V. Il principio di non refoulement ai tempi del Covid-19 di M. Marchegiani, Dir. imm. citt., n. 3, 3 novembre 2021.
V. Circolare del Ministero dell'Interno n. 1 del 12 gennaio 2022: “Nulla osta per lo straniero rifugiato che intenda contrarre matrimonio in Italia”, in Melting Pot Europa, 24 gennaio 2022.
[25] Trib. civ. Roma, sez. I, 28 novembre 2019, n. 22917, in Immigrazione.it, 2019. L’art. 14 della direttiva 2011/95 stabilisce i casi di revoca, cessazione o rifiuto del rinnovo dello status di rifugiato e, specificamente, ai paragrafi 4 e 5, prevede la possibilità di respingimento o espulsione quando vi sono fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova o, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità dello Stato membro. La norma è coerente con la Convenzione di Ginevra, secondo la quale le persone che rientrino in una delle ipotesi descritte dal citato articolo 14 possono essere colpite, in forza dell’articolo 33, paragrafo 2, della stessa Convenzione, da una misura di respingimento o di espulsione verso il loro paese di origine, e ciò persino quando la loro vita o la loro libertà siano ivi minacciati. Però, la direttiva 2011/95 dev’essere interpretata e applicata nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta, in termini categorici, la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, e l’allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tal genere. Certamente, queste persone possono costituire oggetto, nello Stato membro interessato, di una decisione di revoca dello status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, o di una decisione di rifiuto di concessione di tale status, ma l’adozione di decisioni siffatte non può incidere sulla loro qualità di rifugiato quando esse soddisfano le condizioni materiali richieste per essere considerati rifugiati, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), di detta direttiva, letto in combinato disposto con le norme di cui al capo III di quest’ultima e, quindi, di cui all’articolo 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra (Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, sent. 14 maggio 2019, nelle cause riunite C 391/16, C 77/17 e C 78/17, ivi). Sulla Convenzione di Ginevra, recentemente, v. T.A.R. Lazio, sez. I, 31 dicembre 2020, n. 14188, ivi, 2020.
V. Direttiva n. 2008/115/Ce, art. 4, 4 lett. b), sul rispetto del «principio di non-refoulement». V. Sent. Corte (Quinta Sezione) 24 febbraio 2021, Direttiva 2008/115/CE – Principio di “non‑refoulement” (non respingimento), nella causa C‑673/19.
V. Sciarabba, La tutela dei diritti fondamentali nella Costituzione, nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in Riv. A.I.C, 2017, fasc. 1; V. Zagrebelsky-R. Chenal-L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, II ed., Bologna, 2019, 49 s.
[26] Art. 33 Divieto d’espulsione e di rinvio al confine 1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
2. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.
In giurisprudenza, v. Cass, sez. I, 26 ottobre 2017, n. 49242, cit.; Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, 7 marzo 2017, C‑638/16, in Immigrazione.it, 2017; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, Sent. 9 novembre 2010, Bundesrepublik Deutschland – B., D. (Germania), ivi, 2010. La CEDU sul principio di non respingimento dello straniero e sul divieto di espulsioni collettive (CEDU, sez. I, sent. 23 luglio 2020, ric. nn. 40503/17, 42902/17, 43643/17), in dirittifondamentali.it, 2020.
In dottrina, v. F. Munari, Lo status di rifugiato e di richiedente protezione temporanea. La visione europea del «diritto di Ginevra», in Collana di diritto dell’immigrazione, Aa.Vv., Le garanzie fondamentali dell’immigrazione in Europa, a cura di S. Amadeo e F. Spitaleri, Torino, 2015, 47 s.; A. Lang, Il divieto di refoulement tra CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ivi, 211: «In ambito europeo, il divieto di refoulement è affermato come parte dei diritti fondamentali della Corte di Strasburgo, pur in assenza di un’espressa previsione nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (e che richiama, in nota 5, Corte EDU 28 febbraio 2008, ric. n. 37201/06 Saadi c. Italia, par. 138, secondo cui il divieto di refoulement garantito dall’art. 3 CEDU è più ampio di quello disciplinato dall’art. 3 della Convenzione di Ginevra del 1951). Più recentemente, v. M. Frigo, I Paesi sicuri alla prova del diritto internazionale, in Quest. giust., 2020, n. 1, che mettendo a confronto le due citate fonti, scrive: «Di diverso respiro – la Corte europea dei diritti umani (Corte Edu) direbbe “di protezione più ampia” – è invece il principio di non-refoulement secondo il diritto internazionale sui diritti umani, che ha portata assoluta, non ammettendo eccezione alcuna»; S. Marchisio, Nessuna eccezione ai respingimenti e rimpatri di rifugiati e richiedenti asilo: la sentenza della CGUE del 14 maggio 2019 conferma che il diritto Regola dell’UE ha esteso la garanzia di non refoulement prevista dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, 21 maggio 2019, in www.masterdirittiumanisapienza.it/nessuna-eccezione-ai-respingimenti-erimpatri-di-rifugiati-e-richiedentiasilo-la-sentenza-della; L. Aleni, Revoca dello status di rifugiato e principio di non refoulement: in margine a una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’UE, in Osserv. costit., fasc. 5/2019, 220-236; da ultimo, v. C. Di Stasio, Esternalizzazione delle frontiere: violazione dei diritti umani dei migranti e responsabilità dello stato, in dirittifondamentali.it,15 febbraio 2021.
[27] Il provvedimento ministeriale è assoggettato al rito abbreviato (artt. 119, c. 1, lett. m-sexies, c. p. a.), in relazione alla modifica normativa operata dall’art. 6 del decreto-legge 17 febbraio 2017, n.13, secondo T. A. R. Lazio, sez. I ter, 12 aprile 2018, n. 4019, in Immigrazione.it, 2018.
[28] «Quinque voces. Sono i cinque concetti generali, o cinque tipi di predicato universale (perciò detti anche “predicabili”) della Logica classica: genere, specie, differenza, proprio, accidente» (Dizionario di Filosofia, di N. Abbagnano, agg. G. Fornero, Torino, 1998, 889).
[29] Art. 20 2. I provvedimenti di cui al comma 1 sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità ed in relazione a comportamenti della persona, che rappresentino una minaccia concreta e attuale tale da pregiudicare l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica. La esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l'adozione di tali provvedimenti.
[30] T. A. R Lazio, sez. I ter, 27 dicembre 2021, n. 13531, in Immigrazione.it., 2021 (altresì, v., sul giudizio di pericolosità, T. A. R Lombardia, sez. I, 5 novembre 2021, n. 2442, ivi; nonché Cons. St., sez. III, 20 maggio 2021, n. 3896, ivi). Cass., sez. I, sent. 6 maggio 2020, n. 13764, ha stabilito che a prescindere da una situazione di convivenza, rileva quale condizione ostativa all’espulsione anche il vincolo familiare dell’interessato con il cittadino italiano (art. 13, co. 2 bis, TUI) e in specie col figlio minore residente in Italia.
Per sorreggere una motivazione sono sufficienti “ circostanze idonee “, stabilisce Cass., sez. lav., ord. 26 gennaio 2022, n.2246, in Guida dir., 12 febbraio 2022, n.5, 63.
[31] Decreto Legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
Art. 2 Definizioni 1. Ai fini del presente decreto legislativo, si intende per: a) “cittadino dell'Unione”: qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro; b) “familiare”: 1) il coniuge; 2) il partner che abbia contratto con il cittadino dell'Unione un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante; 3) i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b); 4) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera b); c) “Stato membro ospitante”: lo Stato membro nel quale il cittadino dell'Unione si reca al fine di esercitare il diritto di libera circolazione o di soggiorno.
[32] (23) L'allontanamento dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari per motivi d'ordine pubblico o di pubblica sicurezza costituisce una misura che può nuocere gravemente alle persone che, essendosi avvalse dei diritti e delle libertà loro conferite dal trattato, si siano effettivamente integrate nello Stato membro ospitante. Occorre pertanto limitare la portata di tali misure conformemente al principio di proporzionalità, in considerazione del grado d'integrazione della persona interessata, della durata del soggiorno nello Stato membro ospitante, dell'età, delle condizioni di salute, della situazione familiare ed economica e dei legami col paese di origine.
(24) Pertanto, quanto più forte è l'integrazione dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari nello Stato membro ospitante, tanto più elevata dovrebbe essere la protezione contro l'allontanamento. Soltanto in circostanze eccezionali, qualora vi siano motivi imperativi di pubblica sicurezza, dovrebbe essere presa una misura di allontanamento nei confronti di cittadini dell'Unione che hanno soggiornato per molti anni nel territorio dello Stato membro ospitante, in particolare qualora vi siano nati e vi abbiano soggiornato per tutta la vita. Inoltre, dette circostanze eccezionali dovrebbero valere anche per le misure di allontanamento prese nei confronti di minorenni, al fine di tutelare i loro legami con la famiglia, conformemente alla Convenzione sui diritti del fanciullo delle Nazioni Unite, del 20 novembre 1989.
[33] 7. Il provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale di cui ai comma 1, 4 e 5 è adottato dal Ministro dell'interno con atto motivato, salvo che vi ostino motivi attinenti alla sicurezza dello Stato, e tradotto in una lingua comprensibile al destinatario, ovvero in inglese. Il provvedimento di allontanamento è notificato all'interessato e riporta le modalità di impugnazione e della durata del divieto di reingresso sul territorio nazionale, che non può essere superiore a 3 anni.
[34] Così, J. Di Giovanni, G. Savio, Rassegna di giurisprudenza italiana: Allontanamento e trattenimento, in Dir. imm. citt., 2021.
[35] Il presupposto per l’espulsione di cui all’art. 3, co. 1, d.l. n. 144/2005 è costituito dalla sussistenza di fondati motivi per ritenere che la presenza dello straniero nel territorio dello Stato possa agevolare organizzazioni o attività terroristiche ovvero mettere comunque in pericolo, anche con azioni di proselitismo, la sicurezza della Repubblica. Si tratta di un provvedimento, assimilabile alle misure di sicurezza, che ha finalità di prevenzione, con la conseguenza che la legittimità dell’espulsione dello straniero ritenuto vicino all’estremismo islamico non richiede né l’accertamento né il compimento di alcun reato. In tale contesto, la presenza in Italia di familiari (anche cittadini italiani) non costituisce un impedimento assoluto all’espulsione atteso che, in una società democratica, il fine legittimo della tutela dell’ordine pubblico – in particolare in caso di minaccia terroristica – può giustificare una deroga al diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) quando l’allontanamento dello straniero è misura necessaria e proporzionata a tale scopo, non essendo altrimenti scongiurabile la minaccia reale di un attentato alla sicurezza pubblica e all’ordine costituito.
Infine, un divieto di reingresso di 15 anni è legittimo anche nel caso in cui interessi un soggetto familiare di cittadino italiano. Infatti, la normativa speciale italiana (art. 13, co. 14, TUI), che non pone un limite massimo al tempo di espulsione del cittadino straniero per motivi di terrorismo, è conforme a quanto previsto dalla direttiva n. 115/2008/CE, che indica solo orientativamente e non tassativamente il termine di 5 anni, superabile qualora lo straniero costituisca una minaccia grave per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale. Con la conseguenza che, in tali circostanze, il termine decennale previsto dall’art. 20, co. 10, d.lgs. n. 30/2007 va disapplicato (Cons. di Stato, sez. III, 19 maggio 2021, n. 3886, in Immigrazione.it, 2021).
[36] Un termine così ampio si richiede per “beni”, di diritto privato, come l’usucapione, per la cui maturazione (per giustificare la perdita della proprietà) l’art. 1158 cod. civ. richiede il termine lunghissimo di venti anni.
[37] V. Cass. civ., sez. I, 4 gennaio 2022, n. 65, in Immigrazione.it., 2022: il senso complessivo della disciplina di cui ai commi 1 e 5 dell’art. 20 d.lgs. n. 30/2007 è quello di indirizzare la valutazione di pericolosità, conformemente agli artt. 27 dir. 2004/38/CE e 8 CEDU, in modo che essa si articoli su vari aspetti della persona interessata che possono avere rilievo, quali elementi tali da mitigarne gli esiti in quanto espressione di una possibile integrazione nel tessuto sociale del Paese eventualmente anche in ragione di particolari situazioni familiari che impongano adeguata valutazione.
[38] V. Cass. civ., sez. trib., 10 febbraio 2016, n. 2633, Accertamento parziale: il notevole grado di certezza non è richiesto ai fini dell'avviso, in il Tributario, 15 febbraio 2016: anche senza un “notevole grado di certezza” in merito agli elementi segnalati dalla Guardia di Finanza, è possibile e legittimo notificare al contribuente l'avviso di accertamento per recuperare la maggiore IVA. Nella sentenza i Giudici hanno accolto il ricorso delle Entrate: rispetto all'accertamento ordinario, quello parziale si avvale di una sorta di “automatismo argomentativo”.
[39] Tratto da C. Morselli, Eco di un mito e un romanzo: Atlante, da solo, regge l’intero processo penale (hapax della prova cardinale) e Kafka (dal suo labirinto) lo contempla immoto (unus testis per una condanna e difesa senza garanzie), in Arch. pen., 2017, n. 3,5: «Una certezza senza accertamento giudiziale”: questa formula brachilogica aspira a fotografare quell’esperienza processuale di primo grado in cui il convincimento del giudice, più che libero, ha soppiantato l’elaborazione della prova nel pubblico dibattimento».
[40] T. A. R Lazio, sez. I ter, 27 dicembre 2021, n. 13531, cit.: « Per quanto osservato e considerato il carattere assorbente delle censure di difetto di motivazione, di istruttoria e di violazione dell’art. 20 del d.lgs. 30/2007, il ricorso va accolto e, per l’effetto, annullato il decreto di allontanamento adottato dal Prefetto di Napoli ».
[41] In dottrina, v. O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G.Ubertis e G.P. Voena, 1, Milano,1999, 2, sulle «diverse forme di efficacia temporale che possono assumere le prescrizioni normative». Cfr. R. Guastini, Disposizione vs. norma, in Giur. cost., 1989, II, 3 s.
[42] «Il provvedimento indica anche la durata del divieto di reingresso che non può essere superiore a dieci anni nei casi di allontanamento per i motivi di sicurezza dello Stato e a cinque anni negli altri casi» (è il dettato di ult. periodo del comma 10, cit.).
V. Legge 31 luglio 2005, n. 155 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale", Art. 3.Nuove norme in materia di espulsioni degli stranieri per motivi di prevenzione del terrorismo - 1. Oltre a quanto previsto dagli articoli 9, comma 5, e 13, comma 1, del decreto legislativo n. 286 del 1998 il Ministro dell'interno o, su sua delega, il prefetto può disporre l'espulsione dello straniero appartenente ad una delle categorie di cui all'articolo 18 della legge 22 maggio 1975, n. 152, o nei cui confronti vi sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali.
[43] Così, F. Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, in Itinerari di diritto penale, Torino, 2017, che insiste sulla «necessaria preesistenza di una norma giuridica rispetto al singolo provvedimento (amministrativo o giurisdizionale) al fine di scongiurare l’arbitrarietà». In tema, v.,fra gli altri, A. Gargani, Sanzioni pecuniarie civili e sanzioni amministrative quali alterative alla tutela penale: problemi e prospettive, in Leg.pen., 2018, 1 s.; P. Cerbo, Le sanzioni amministrative punitive, in Aa.Vv., La ‘materia penale’ tra diritto nazionale e diritto europeo, a cura di M. Donini e L. Foffani, Milano, 2018, 117; Funzioni punitive e funzioni ripristinatorie Combinazioni e contaminazioni tra sistemi, a cura di D. Bianchi e M. Rizzuti, Torino, 2020; A. Pisaneschi, La sentenza 68 del 2021. Le sanzioni amministrative sostanzialmente penali ed il Giudicato, in A. I. C., n. 4, 6 luglio 2021, 262 s.; B. Lavarini, Illegittimità costituzionale di sanzioni amministrative “sostanzialmente penale” e rimodulazione del giudicato, in Legisl. pen., 15 luglio 2021. Scrive D. Cimadomo, Sanzioni amministrative (sostanzialmente penali) dichiarate costituzionalmente illegittime e flessibilità del giudicato penale, in Proc. pen. giust., 20 novembre 2021, fasc. 6 che analizza Corte cost., sent. 16 aprile 2021, n. 68, Pres. Coraggio - Rel. Modugno, leggendosi: «Successivamente alla sentenza n. 43 del 2017, il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative “punitive” alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha…conosciuto nuovi e rilevanti sviluppi, tali da rendere non più attuali le affermazioni contenute in tale pronuncia. Superando precedenti decisioni di segno contrario, questa Corte ha ormai esteso alle sanzioni amministrative a carattere punitivo - in quanto tali (indipendentemente, cioè, dalla caratura dei beni incisi) - larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali: sia quello basato sull’art. 25 Cost. - irretroattività della norma sfavorevole (sentenze n. 96 del 2020, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017; nonché, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019), determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018) - sia quello basato su altri parametri, e in particolare sull’art. 3 Cost. - retroattività della lex mitior (sentenza n. 63 del 2019), proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (sentenza n. 112 del 2019) −». Per Corte cost., sent. 2021/68, cit.,v. pure Sist. pen., 20 aprile 2021.
[44] In tema, specificamente, v. F. Viganò, Art.2 Prot. n. 4 – Libertà di circolazione, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, a cura di G. Ubertis e F. Viganò, Torino, 2016, 353-354: «L’art. 2 Prot. n. 4 Cedu tutela, al primo comma, la “libertà di circolare” all’interno del territorio nazionale...La disposizione in commento non riconosce invece allo straniero alcun diritto ad entrare e a risiedere nel territorio dello Stato contraente, che resta libero di disporre ed eseguire l’espulsione dello straniero il cui soggiorno sia irregolare», citandosi, ad esempio, C.edu, grande camera, sent. 15 dicembre 1996, Chahal c. Regno Unito, § 73. Pari riconoscimento, riguardante il cittadino, si trova all’art. 16 Cost.
A partire dagli anni ’80 si è aperto un dibattito sul concetto di libera circolazione delle persone (al riguardo, in dottrina, v. C. Zanghì, Libertà di circolazione, in La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Torino, 2013, 303 s.). In tema, v. Corte di giustizia dell’Unione europea, 10 marzo 2021, causa C-949/19, Konsul Rzeczypospolitej Polskiej w N, in Immigrazione.it, 2021. Da ultimo, v. T. Cerruti, Libertà di circolazione e pandemia: servirà un passaporto-COVID per attraversare i confini dell’Unione europea?, in Rivista A.I.C., 28 marzo 2021, n. 2, 1 s. V. Corte di giustizia Unione europea, 6 ottobre 2021, causa C-35/20, A, in Immigrazione.it, 2021, sul diritto dei cittadini dell’Unione alla libera circolazione (art. 21 TFUE e dir. 2004/38/CE), interpretato alla luce delle disposizioni del “codice frontiere Schengen” (reg. CE n. 562/2006).
[45] P. Virga, Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, 2, Milano,1997, 18: «divieti: che impongono al soggetto una prestazione di non facere e cioè di astenersi da determinati comportamenti».
[46] L’immagine è mutuata, in materia di protezione umanitaria, da Cass. civ., sez. I, 30 giugno 2021, n. 18667, in Immigrazione.it, 2021: «le basi normative dell’istituto sono “a compasso largo”, giacché l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, con il sostegno dell’art. 8 della Convenzione E.D.U., promuove l’evoluzione della norma sulla protezione umanitaria, di natura elastica, a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e radicarne l’attuazione».
[47] Su detto canone, v. ad esempio Cass. pen., sez. I, sent. 23 marzo,2010, n. 11038 e, in dottrina, L. Fidelio, Custodia in carcere e prognosi sanzionatoria: la proporzionalità delle misure tra predizione e realtà, in Quest. giust., 10 maggio 2021.
[48] Sulla Carta di Nizza (2000/C 364/01), v., solo da ultimo, F. Medico, Il ruolo della Carte di Nizza e la questione sociale: ci può essere solidarietà senza integrazione politica, in A.I.C., 16 luglio 2021, n. 3, 236 s. e, già, G. Scaccia, Proporzionalità e bilanciamento tra diritti nella giurisprudenza delle corti europee, ivi, 2017, n. 3, 24 s.; B. V. Di Gregorio, Diritti umani e traduzione interculturale, in Dirittifondamentali.it, 2022, n. 1; Trattamenti inumani e degradanti nei confronti di un detenuto psichiatrico: la Corte Edu condanna l’Italia, in il Penalista, 25 Gennaio 2022.
V. Corte e.d.u., 22 luglio 2021, Badalyan c. Azerbaijan, in Proc. pen. giust., a cura di R.Neri, 2021, f. 6.
Ma, per Corte Edu, 1 aprile 2021, ric. n. 70896/17, A.I. c. Italia (Immigrazione,it, 2021), proibendo ogni contatto tra una cittadina nigeriana vittima di tratta e le figlie in tenera età in pendenza della procedura di adozione senza tenere in debita considerazione l’importanza del mantenimento dei legami famigliari, e senza valutare la capacità genitoriale della madre naturale alla luce della sua particolare vulnerabilità e del differente modello di genitorialità proprio del Paese di origine, l’Italia ha violato l’art. 8 CEDU. In precedenza, v. Cass. pen., sez. IV, sent. 25 novembre 2014, n. 50379, cit.: al giudice è vietata l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione nei confronti del cittadino straniero durante il periodo di gravidanza della moglie convivente ovvero entro i sei mesi successivi alla nascita del figlio, valendo «il principio secondo il quale le norme che disciplinano la valutazione di pericolosità sociale quale presupposto fondante l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione devono essere applicate senza tralasciare l’esame comparativo, con gli altri criteri di valutazione». Il divieto di reingresso dello straniero nel territorio dello Stato ha durata differente a seconda dei presupposti dell’espulsione e è di cinque anni per l’espulsione disposta in via amministrativa ovvero come sanzione alternativa alla detenzione ai sensi dell’art. 16, c. 1, TUI; dieci anni per l’espulsione disposta a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione ai sensi dell’art. 16, c. 5, TUI.
Il divario è giustificato dal fatto che il giudice può applicare l’art. 16, c. 5, per quei reati la cui maggiore gravità legittima l’ordinamento a volersi assicurare l’assenza del soggetto espulso per un periodo più lungo di tempo (Cass., sez. I, 18 giugno 2019, n. 26873, in Immigrazione.it, 2019). V. Circolare del Ministero dell’interno, 4 febbraio 2020, n. Prot. 4225, Autorizzazione speciale al rientro per gli stranieri espulsi ex art. 13, c. 13 d.lgs. 286/1998 e art. 19-bis d.P.R. 394/1999; Divieto di reingresso per gli stranieri espulsi ex art. 19 d.P.R. 394/1999. Secondo Cass., sez. I, sent. I, sent. 27 febbraio 2017, n. 9636, apporre semplicemente un like a video inneggianti il martirio islamico può configurare il reato di propaganda dell’Isis.
[49] B. Vickers, Storia della retorica, trad. R. Coronato, Bologna, 1988, 134.
[50] Su un giudizio che controlla la proporzionalità di una previsione, v. Corte cost., 20 gennaio 2022, n. 13, sulla esclusione di un pregiudizio per il richiedente protezione nell’esercizio dei propri diritti.
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