ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il principio di consumazione del potere di impugnazione nel processo amministrativo al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a CdS Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il principio civilistico di consumazione del potere di impugnazione. – 3. L’applicazione del principio nell’ambito del processo amministrativo. – 4. Il contrasto giurisprudenziale all’origine del deferimento. – 5. Le riflessioni della Sezione rimettente sul potere di consumazione e sulla decorrenza del termine per il deposito. – 6. I quattro quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria. – 7. I limiti temporali della consumazione del potere di impugnazione: il discrimen del deposito. – 8. Alcuni spunti di riflessione in attesa della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
1. Il caso di specie.
Con l’ordinanza in commento[1] la Sezione Quarta del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza Plenaria la questione relativa al c.d. principio di consumazione del potere di impugnazione, domandandosi se esso trovi applicazione nel processo amministrativo e, nel caso, quale sia il suo perimetro applicativo.
Il caso di specie origina dalla reiterazione della notifica di un atto di appello da parte dell’amministrazione soccombente in primo grado[2]. Più precisamente, la sentenza di primo grado veniva impugnata con un primo atto di appello notificato (in data 23 dicembre 2020) ma mai depositato, a cui poi seguiva un secondo atto di appello notificato (in data 19 gennaio) e questa volta depositato (in data 29 gennaio 2021)[3].
L’appellato nelle sue difese eccepisce preliminarmente l’irricevibilità (o comunque l’improcedibilità) del proposto appello in considerazione dell’asserito tardivo deposito del ricorso. Secondo detta eccezione, ai fini della verifica della ritualità dell’impugnazione, sarebbe necessario mettere in relazione, ai sensi degli artt. 94 e 45 c.p.a., la prima notifica dell’atto di appello con il deposito presso la Segreteria del giudice adito, senza che possa in alcun modo riconoscersi effetto alla successiva e volontaria rinnovazione della notificazione effettuata dalla parte. In caso contrario, la ripetizione della notificazione – pur se avvenuta entro il termine previsto dalla legge per proporre l’appello – avrebbe l’unico scopo di eludere il termine perentorio previsto per il deposito, il quale non potrebbe che decorrere dalla prima notificazione andata a buon fine.
Secondo l’impostazione dell’appellato una siffatta interpretazione si porrebbe in contrasto con il principio di consumazione del potere di impugnazione, applicato sia dalla giurisprudenza civile che da quella amministrativa.
2.- Il principio civilistico di consumazione del potere di impugnazione.
Il principio di consumazione del potere di impugnazione è quel principio secondo il quale, tendenzialmente, la presentazione di un mezzo di gravame preclude la possibilità di proporne un altro (identico o ampliativo) al di fuori di alcune tassative ipotesi[4].
Il disposto del principio di consumazione è desumibile dagli articoli 358 e 387 c.p.c. i quali, rispettivamente per il giudizio di appello e per il giudizio in Cassazione, escludono la possibilità di reiterare il gravame dichiarato inammissibile o improcedibile anche se non sia ancora decorso il termine per la sua proposizione[5]. Quindi, da un’analisi letterale delle citate disposizioni, si evince che solo l’impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non può essere riproposta, non rimanendo preclusa una sua reiterazione negli altri casi, sempreché non sia ancora scaduto il termine decadenziale per l’esercizio del potere di impugnazione.
La Sezione rimettente, nell’ordinanza in commento, ricostruisce quali sono le coordinate interpretative enucleate dalla Corte di cassazione relativamente all’applicazione di detto principio, le quali si possono sintetizzare nei seguenti punti cardine: a) perché si verifichi la consumazione è necessario che la seconda impugnazione sia della stessa specie della prima; b) la seconda impugnazione può basarsi anche su motivi diversi dalla prima; c) la riproponibilità della seconda impugnazione deve essere limitata ai soli casi in cui la medesima verta sugli stessi motivi della prima con l’esclusione della possibilità di integrare o dedurre nuovi motivi; d) l’ammissibilità della seconda impugnazione deve essere subordinata all’esistenza di un vizio formale o sostanziale della prima che sia idoneo a decretarne l’irricevibilità ovvero l’improcedibilità e che, dunque, possa essere conseguentemente emendato; e) anche qualora la sentenza non sia stata oggetto di notificazione, la possibilità di riproporre l’impugnazione è ancorata, in ogni caso, al termine breve decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, la quale è idonea a determinare la conoscenza legale del provvedimento medesimo[6].
In alcuni casi, però, la giurisprudenza (insieme a parte della dottrina) è arrivata anche ad estendere ulteriormente i confini di detto principio, escludendo che la parte soccombente, dopo aver proposto l’impugnazione, possa successivamente integrarla con la proposizione di ulteriori motivi entro il termine previsto per l’impugnazione[7].
3. L’applicazione del principio nell’ambito del processo amministrativo.
La Sezione rimettente evidenzia come nel processo amministrativo il principio di consumazione del potere di impugnazione abbia da tempo trovato applicazione e come sia operante anche attualmente[8].
La giurisprudenza amministrativa ha interpretato detto principio sin da subito in senso ampliativo, non consentendo la proposizione da parte del medesimo soggetto di appelli successivi al primo anche indipendentemente dall’inammissibilità o dall’improcedibilità del precedente atto. Secondo la giurisprudenza amministrativa, cioè, il diritto di impugnazione di una sentenza sfavorevole si consuma con il suo valido esercizio, per cui l’avvenuta proposizione del gravame preclude la possibilità di dedurre successivamente ulteriori motivi di impugnazione, anche qualora il termine decadenziale non sia ancora scaduto[9].
Il principio di consumazione del potere di impugnazione, infatti, va coordinato con il principio del divieto di frazionamento dell’impugnazione, secondo il quale la parte non può presentare diverse impugnazioni, pur nella pendenza del termine, dovendo concentrare tutte le sue censure nel primo atto di gravame. Una limitata eccezione a tali principi è prevista nel solo caso in cui il primo atto di impugnazione sia stato proposto in modo irrituale e ad esso segua un secondo atto diretto a sostituire il precedente viziato, nel rispetto dei termini perentori previsti dalla normativa e antecedentemente alla dichiarazione di inammissibilità o di improcedibilità della prima impugnazione[10].
Come ci ricorda la Sezione rimettente, però, nel codice del processo amministrativo è prevista un anche una deroga a questo divieto con riguardo alla possibilità di proporre motivi aggiunti in appello qualora una parte venga successivamente a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti amministrativi impugnati[11].
Non è questa la sede per effettuare una valutazione critica del citato principio di consumazione così come applicato dalla giurisprudenza civile e amministrativa[12]. In tale breve commento si proverà esclusivamente ad enucleare quali sono i nodi che l’Adunanza Plenaria avrà il compito di sciogliere e che, come si avrà modo di illustrare, vanno anche al di là della mera applicazione del principio di consumazione, riguardando alcuni aspetti inerenti alla corretta instaurazione del rapporto processuale.
4. Il contrasto giurisprudenziale all’origine del deferimento.
Il deferimento all’Adunanza Plenaria viene motivato dal riscontro di un contrasto giurisprudenziale nell’applicazione del suddetto principio di consumazione. Più precisamente, la Sezione Quarta si interroga in merito alla necessità che la duplicazione dell’impugnazione debba essere motivata dall’esigenza di riparare a vizi di nullità dell’atto di appello idonei a condurre ad una sua declaratoria di irricevibilità o di improcedibilità.
I due poli del rilevato contrasto giurisprudenziale vengono individuati: da un lato nella giurisprudenza della Sezione rimettente che ammetterebbe la possibilità di riproporre la stessa impugnazione solo per emendare un vizio dell’appello presentato (rectius notificato), sostituendo un atto valido ad uno invalido[13]; dall’altro nella diversa impostazione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana secondo la quale sarebbe ammessa la reiterazione dell’impugnazione anche a prescindere dal fatto che la prima presentata sia viziata, purché la seconda sia proposta entro il termine decadenziale e antecedentemente ad una pronuncia giudiziale in rito sulla stessa[14].
Oltre alla fattispecie sulla quale è chiamata a pronunciarsi, la Sezione Quarta richiama anche un proprio precedente nell’ambito del quale l’amministrazione appellante aveva notificato tre atti di appello avverso la medesima sentenza depositando, però, solamente il terzo atto notificato. Il Collegio, in quell’occasione, ha giudicato inammissibili tutti e tre gli atti di appello notificati: i primi due in quanto mai effettivamente depositati ai sensi dell’art. 94 c.p.a., mentre il terzo in applicazione del principio di consumazione del potere di impugnazione, rilevando che la (terza) notifica non fosse stata effettuata per sanare alcun vizio delle precedenti impugnazioni (rectius notifiche dell’atto di appello)[15].
A ben vedere, però, il caso deciso dal C.G.A.R.S. riguarda una fattispecie diversa da quelle considerate dalla Sezione Quarta, nelle quali a più atti di notifica è seguito (in entrambi i casi) un solo deposito.
Nel caso esaminato dal Giudice siciliano, infatti, la sentenza di primo grado è stata appellata per due volte dalla medesima parte con due autonomi ricorsi che, depositati entrambi nei termini di cui all’art. 94 c.p.a., hanno dato vita a due autonome iscrizioni nel registro di Segreteria. Il C.G.A.R.S., dopo aver preso atto che la parte si era determinata a questo comportamento processuale senza evidenziare le ragioni di tale duplicazione, ha riunito le due impugnazioni proposte (perché aventi identico contenuto) e le ha accolte entrambe, riformando la sentenza impugnata[16].
Al Collegio, nell’ordinanza di rimessione in commento, non sfugge la circostanza che nel citato caso deciso dal C.G.A.R.S. entrambe le impugnazioni sono state ritualmente (notificate e) depositate, ma pur in presenza di questa rilevante distinzione fattuale, qualifica tale decisione del Giudice siciliano come idonea ad aprire una riflessione sul contenuto e sui limiti applicativi del principio di consumazione.
5. Le riflessioni della Sezione rimettente sul potere di consumazione e sulla decorrenza del termine per il deposito.
Evidenziato detto contrasto, la Sezione Quarta effettua alcune considerazioni propedeutiche all’enucleazione dei quesiti da deferire all’Adunanza Plenaria.
La riflessione del Collegio parte dal dato testuale delle disposizioni prevedenti il principio di consumazione (i citati artt. 358 e 387 c.p.c) che fanno discendere l’effetto consumativo non dalla mera proposizione del primo gravame, ma dalla decisione di inammissibilità o di improcedibilità della prima impugnazione. Alla luce di tale interpretazione letterale viene evidenziato come, rispetto al diritto di agire in giudizio tutelato dall’art. 24 cost., sarebbe coerente sostenere che non sia la prima impugnazione, ma la decisione su di essa, ad impedire la riproposizione dell’impugnazione medesima[17]. Infatti, le disposizioni che escludono, limitano o introducono condizioni più restrittive per l’esercizio dei diritti (anche in sede processuale) di per sé andrebbero interpretate in senso restrittivo e, comunque, col divieto di applicazione analogica, a maggior ragione nei casi come questo in cui il principio in questione non è sancito in maniera espressa dalla legge ma è perimetrato, quanto al suo contenuto e ai suoi limiti di estensione, dall’esegesi giurisprudenziale.
Da tali riflessioni sembrerebbe che la Sezione rimettente, melius re perpensa, stia rimeditando il proprio orientamento precedente che era, invece, propenso ad un’ampia (e forse eccessiva) applicazione del principio di consumazione.
Un ulteriore elemento di riflessione evidenziato dalla Sezione in questa direzione è costituito dal richiamo all’art. 96 c.p.a. che regola nel processo amministrativo le diverse impugnazioni avverso una medesima sentenza. Infatti, se è vero che tale articolo è fisiologicamente destinato a regolare la riunione delle impugnazioni proposte dalle diverse parti avverso un’unica pronuncia, lo stesso potrebbe essere anche letto come una conferma dell’ammissibilità di più impugnazioni di una stessa parte avverso una medesima sentenza, in assenza di un esplicito divieto in tal senso[18].
Infine, l’ultima questione su cui si sofferma la Sezione rimettente riguarda la corretta interpretazione da dare all’art. 45, comma 1, c.p.a. secondo il quale l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella Segreteria del giudice dell’atto soggetto a preventiva notificazione entro il termine decadenziale di trenta giorni. Secondo il Collegio, a tal proposito va chiarito se la rinnovazione della notificazione, eseguita entro il termine e anteriormente alla declaratoria giudiziale di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, si possa qualificare come elusiva, poiché comporta lo spostamento in avanti del termine perentorio di deposito del ricorso rispetto alla prima notificazione non andata a buon fine; ovvero se, trattandosi di notificazione valida rispetto al termine di impugnazione, non sia ravvisabile il suddetto effetto elusivo e il termine di deposito vada calcolato dall’ultima notificazione. Detta questione interpretativa ha un’importanza dirimente nel caso di specie ove, a differenza del citato precedente del C.G.A.R.S., vi è stato un solo deposito del gravame effettuato entro il termine decadenziale calcolato rispetto alla seconda notifica effettuata dall’appellante.
Ad ogni modo, nonostante queste riflessioni sembrerebbero preludere ad un cambio di rotta nella giurisprudenza della Sezione Quarta in merito alla precedente applicazione piuttosto estensiva del principio di consumazione, il Collegio decide di non provvedere in autonomia ad un proprio revirement, preferendo investire l’Adunanza Plenaria della questione (rectius delle questioni).
6. I quattro quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria.
La Sezione Quarta deferisce all’Adunanza Plenaria quattro distinti quesiti: i primi tre direttamente concernenti l’applicazione del principio di consumazione, mentre il quarto attinente alle tempistiche del deposito dell’atto presso la Segreteria del Giudice in presenza di più notifiche dell’atto medesimo. Quest’ultimo quesito, come si avrà modo di argomentare, costituisce una problematica distinta dall’applicazione del succitato principio (pur se ad esso strettamente collegata), il quale presuppone l’effettiva instaurazione di plurime impugnazioni avverso la medesima pronuncia giudiziale.
Procedendo con ordine, individuiamo quali sono i quattro quesiti che vengono deferiti all’Adunanza Plenaria[19].
Col primo quesito viene richiesto genericamente se il principio di consumazione dei mezzi di impugnazione debba essere applicato nell’ambito del processo amministrativo e, in caso affermativo, entro quali limiti. Tale genericità viene bilanciata dai successivi due quesiti che si appalesano maggiormente specifici, andando a toccare le due questioni più dibattute relativamente a detto principio nell’ambito del processo amministrativo.
Col secondo quesito, infatti, viene posto il problema se ad una parte processuale sia consentito rinnovare la notificazione al solo scopo di emendare i vizi dell’atto oppure se il rinnovo in questione sia consentito anche a prescindere dall’eliminazione di un vizio e senza altra apparente ragione. Questo è il tema della reiterabilità del medesimo atto già presentato quando la riproposizione non sia finalizzata all’emenda di vizi formali, ma sia dovuta ad altre motivazioni.
Col terzo quesito, invece, viene indagato se alla medesima parte processuale sia consentito presentare nuovi motivi di impugnazione al di là dei casi normativamente previsti per la proposizione di motivi aggiunti. Si tratta, sostanzialmente, della questione del divieto di frazionamento dei mezzi di impugnazione, divieto in base al quale l’impugnativa avverso un provvedimento giurisdizionale dovrebbe essere esercitata unitariamente (accludendo tutti i motivi di gravame) e non essere frazionata in diversi atti, pur se tutti tempestivi rispetto al termine decadenziale per l’impugnazione[20].
Col quarto quesito, infine, si pone l’interrogativo su quale sia la corretta interpretazione da dare al combinato disposto degli artt. 94 e 45, comma 1 c.p.a.[21]. Più precisamente, il dubbio interpretativo riguarda i limiti in cui un’impugnativa, notificata una prima volta, possa essere oggetto di ulteriori notifiche, ovviamente entro i termini decadenziali per la proposizione dell’azione e prima di una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità della stessa. Ci si domanda, cioè, se una successiva notificazione possa essere effettuata solo per emendare vizi dell’atto, della sua notifica o del suo deposito, ovvero se, al contrario, sia possibile per la medesima parte rinnovare la notificazione per altri motivi, prescindendo dalla suddetta emenda.
I primi tre quesiti, come anticipato, riguardano propriamente il perimetro applicativo del principio di consumazione e del collegato divieto di frazionamento dell’impugnativa. Il quarto motivo, invece, riguarda la rilevante tematica del corretto perfezionamento dell’iter notificatorio nel processo amministrativo e rappresenta una questione preliminare all’applicazione di detto principio al caso di specie.
Quindi, si può affermare che il principio di consumazione del potere di impugnazione costituisce il “perno” su cui ruota l’intera ordinanza di rimessione, ma rappresenta anche l’occasione per il deferimento all’Adunanza Plenaria di questioni processuali ulteriori, strettamente collegate a tale principio, le quali attengono alla corretta instaurazione del processo amministrativo e ai limiti temporali entro i quali essa debba perfezionarsi[22].
7. I limiti temporali della consumazione del potere di impugnazione: il discrimen del deposito.
Analizzati i quesiti formulati dalla Sezione rimettente, pare opportuno tornare a soffermarsi sulla vicenda dalla quale essi originano, al fine di enucleare una distinzione preliminare. La Sezione, nel trattare la consumazione del potere di impugnazione, si riferisce genericamente alle impugnazioni “proposte” quando in verità, nel caso di specie, l’impugnazione “compiutamente proposta” (ossia quella notificata e depositata) è soltanto una (la seconda).
Nel processo amministrativo, infatti, la sola notificazione del ricorso non basta a radicare la pendenza del giudizio amministrativo[23]. Si dubita, pertanto, di poter parlare di vera e propria consumazione di un potere di impugnazione quando detto potere non sia stato compiutamente esercitato, non essendosi ancora instaurato un vero e proprio giudizio.
La Sezione rimettente, pur dimostrando di tenere in considerazione la circostanza che «nel caso all’esame la prima impugnazione difetta del deposito dell’atto» e il fatto che «l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella segreteria del giudice del ricorso e degli atti soggetti a preventiva notificazione», non enuclea compiutamente la differenza tra la consumazione del potere di impugnazione compiutamente esercitato attraverso un atto notificato e depositato (che si potrebbe definire come “consumazione propria”), dalla preclusione del potere di (ri)notificare un atto per il sol fatto di averne già notificato un altro in precedenza (che si potrebbe definire come “consumazione impropria”).
La tematica, che costituisce l’oggetto del quarto quesito, consiste nello stabilire se sia (o meno) legittimo anticipare una sorta di effetto consumativo del potere di impugnazione già al momento della notifica dell’atto, ossia, se sia possibile considerare una prima notifica ostativa ad una seconda (successiva ma) nel rispetto del termine decadenziale.
Nell’ordinanza viene attribuita alla reiterazione della notifica un possibile effetto elusivo nei confronti del termine decadenziale previsto per il deposito dell’atto. Ma a ben vedere pare quantomeno dubbio il configurarsi di tale effetto elusivo: se la legge consente alla parte di esperire un’impugnazione entro dei termini decadenziali, un’eventuale elusione dovrebbe comportare l’aggiramento (rectius il superamento) di detti termini che, nel caso di specie, non sussiste[24].
Quindi, pare opportuno distinguere due diverse situazioni: la concorrenza di due impugnazioni ritualmente presentate (notificate e depositate) e la concorrenza di due atti di notifica di una medesima impugnazione che risulti depositata una sola volta. Sarebbe auspicabile che l’Adunanza Plenaria distinguesse le due ipotesi nell’interrogarsi sui limiti di applicazione del principio di consumazione, verificando se possa parlarsi di consumazione anche solo con riferimento alla notifica di un ricorso (la c.d. consumazione impropria) o se, per esserci consumazione del potere di impugnazione, ci voglia per forza anche il deposito dello stesso (c.d. consumazione propria).
8. Alcuni spunti di riflessione in attesa della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
È fuori di dubbio che l’applicazione del principio di consumazione del potere di impugnazione nel processo amministrativo sia un argomento denso di problematiche applicative. Accanto alla vexata quaestio relativa ai presupposti in presenza dei quali opera il c.d. effetto consumativo, si aggiunge anche l’ulteriore problematica connessa alla possibile reiterazione della notifica dell’atto, di particolare rilevanza nel processo amministrativo in cui la pendenza del rapporto processuale si radica con la c.d. vocatio judicis e, quindi, con il deposito del ricorso[25].
Sull’interpretazione dei limiti applicativi del principio di consumazione si concorda con le riflessioni della Sezione rimettente, le quali sembrano suggerire un ripensamento della sua precedente interpretazione estensiva del principio di consumazione. Comprimere la libertà di presentare un’impugnazione entro un limite temporale antecedente a quello imposto dalla legge, oltre a porsi in contrasto con la disciplina positiva dei termini decadenziali, costituisce un possibile vulnus all’art. 24 cost., prevedente la garanzia di ciascuno di poter agire in giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.
Sarà compito dell’Adunanza Plenaria, nel caso in cui decidesse di accogliere tale impostazione maggiormente garantista del diritto all’azione, specificare se tale possibilità di reiterazione debba spingersi sino ad ammettere anche la proposizione di nuovi motivi di gravame, comportando in tal modo pure un ripensamento in merito al divieto di frazionamento delle impugnazioni. Sul punto un chiarimento dell’Adunanza Plenaria sarà quantomai opportuno, visto che la giurisprudenza amministrativa ha spesso fatto proprio anche questo divieto[26].
Ammettere la possibilità di frazionare le impugnazioni, inoltre, potrebbe destare qualche incertezza sul calcolo del termine per la proposizione dell’appello incidentale. Visto il tenore letterale dell’art. 96, comma 3 c.p.a., pare prudenzialmente opportuno far decorrere il termine per proporre l’appello incidentale dalla “prima notificazione” tra quelle ricevute, anche se dette notifiche provengano dallo stesso soggetto appellante[27].
Con riferimento alla questione della notifica dell’atto di appello non depositato, invece, non si ritiene che si possa parlare di consumazione vera e propria. La consumazione del potere di impugnazione in senso proprio, infatti, si realizza quando il mezzo di gravame viene depositato, perché la litispendenza nel processo amministrativo si realizza solo al momento del deposito (telematico) dell’atto notificato presso la Segreteria del Giudice adito. Ciò non toglie che sarà l’Adunanza Plenaria, investita dello specifico quesito, a fugare i dubbi sollevati sia sul possibile effetto elusivo di una doppia notifica ai fini di ottenere uno spostamento in avanti del termine per il deposito del ricorso, sia sulla possibile configurazione di una sorta di effetto consumativo anticipato antecedentemente alla formale instaurazione di un giudizio di impugnazione.
Quindi, non resta che attendere il pronunciamento dell’Adunanza Plenaria per definire con maggiore precisione il perimetro applicativo del principio di consumazione del potere di impugnazione, anche con riguardo ad una possibile anticipazione di effetti lato sensu consumativi già al momento della notificazione dell’atto; pronunciamento che, auspicabilmente, fornirà pure alcuni opportuni chiarimenti nell’identificare le regole di corretta instaurazione del giudizio di impugnazione e del regolare svolgimento dell’iter notificatorio del suo atto introduttivo.
***
[1] Cons. St., Sez. IV, ordinanza, 25 ottobre 2021, n. 7138, riportata in calce alla nota .
[2] La sentenza impugnata è T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 24 luglio 2020, n. 8693, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Giova precisare che la seconda notifica dell’atto di appello (19 gennaio) è stata effettuata tempestivamente rispetto al termine per l’impugnativa della sentenza di primo grado e che il deposito (29 gennaio) è avvenuto tempestivamente rispetto alla seconda notifica (19 gennaio), ma non rispetto alla prima (23 dicembre). Inoltre, si consideri che la seconda notifica (19 gennaio), proposta mentre ancora pendeva il termine per impugnare, è stata effettuata in data anteriore rispetto al termine per il deposito dell’appello calcolato in base della prima notifica (22 gennaio 2021).
[4] Sul principio di consumazione delle impugnazioni vedasi il lavoro monografico di S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, Napoli, 2011, a cui si rinvia per un approfondimento del tema e per i riferimenti bibliografici in esso contenuti.
[5] Si riporta il testo delle due citate disposizioni: art. 358 c.p.c. (Non riproponibilità di appello dichiarato inammissibile o improcedibile) «L’appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge»; art. 387 c.p.c. (Non riproponibilità del ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile) «Il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge».
[6] Per i riferimenti giurisprudenziali si rinvia al paragrafo n. 13 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.), ove viene citata copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione a supporto di questa impostazione interpretativa.
[7] S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, cit. p. 9. In tal senso vedasi pure G. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2010, II, p. 323. Tra le sentenze della Corte di cassazione secondo le quali non sarebbe possibile presentare motivi aggiunti che integrino o modifichino quelli originariamente proposti né, a maggior ragione, proporre una nuova impugnazione che possa sostituirsi alla prima validamente proposta, si segnalano ex multis: Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2016, n. 9993, in Guida al diritto, 2016, 36, p. 79 ss.; Cass. civ., Sez. lav., 31 maggio 2010, n. 13257, in Giust. civ. Mass., 2010, 5; Cass. civ., SS. UU., 10 marzo 2005, n. 5207, in Giust. civ. Mass., 2005, 3.
[8] Tra le più coeve sentenze citate vedasi Cons. St., Sez. V, 19 aprile 1991, n. 606, in Foro Amm., 1991, p. 1134. Tra le sentenze del corrente anno, invece, vengono citate Cons. St., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4266 e C.G.A.R.S., 8 luglio 2021, n. 654, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it, tra le quali la Sezione rimettente rileva il contrasto da cui origina l’ordinanza di rimessione in commento.
[9] Cons. St., Sez. IV, 14 settembre 2004, n. 5915, in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1570, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] L’art. 10 c.p.a. prevede la regola generale del divieto di nuovi motivi e di nuovi mezzi di prova in appello, temperato dalla facoltà per la parte di proporre motivi aggiunti nel caso in cui vi sia una sopravvenienza documentale da cui si evincano vizi relativi agli atti impugnati. Sulla tematica dei motivi aggiunti in appello si segnalano: G. MIGNONE, Motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984; M.P. VIPIANA, Motivi aggiunti e doppio grado nel processo amministrativo in una recente decisione dell’Adunanza Plenaria, in Dir. proc. amm., 1998, p. 91 ss.; S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Milano, 2011, p. 259 ss.
[12] Sul punto si rinvia a S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, cit., in particolare a p. 311 e seguenti dove vengono condensate le considerazioni critiche sull’applicazione di detto principio che non pare condivisibile «nella misura in cui ammette soltanto la proposizione di una seconda impugnazione in sostituzione della prima, allo scopo di emendare, ove possibile, i vizi da cui quest’ultima sia affetta. È evidente che questa lettura non solo penalizza l’impugnante che ha validamente esercitato il proprio potere, ma, per di più, non tiene in debito conto il fatto che il vizio che inficia l’impugnazione possa essere successivo alla sua proposizione, come accade nel caso di improcedibilità, e che quindi non riguardi l’esercizio (in sé perfettamente valido) del potere di impugnazione».
[13] Oltre al caso oggetto dell’ordinanza di rimessione in commento, viene anche citato un altro precedente conforme della stessa Sezione, costituito dalla sentenza Cons. St., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4266, cit.
[14] C.G.A.R.S., Sez. giur., 8 luglio 2021, n. 654, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Per usare le parole del Collegio (paragrafo n. 17 dell’ordinanza Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.) «la ratio – che giustificherebbe (pendente il termine per l’appello e in assenza di una declaratoria giudiziale di irricevibilità o improcedibilità) la possibilità per la medesima parte di riproporre la stessa impugnazione – sarebbe quella di emendare un vizio, sostituendo un atto valido ad uno invalido».
[16] Il Collegio evidenzia che «Il Consiglio di giustizia amministrativa non ha dichiarato sic et simpliciter inammissibile la seconda impugnazione, sebbene identica e ripetitiva rispetto alla prima, e senza la benché minima efficacia sanante o sostitutiva di vizi della prima» (paragrafo 22 dell’ordinanza Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.).
[17] In tal senso pare andare anche Cons. St., Sez. VI, 24 luglio 2017, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Va, di poi, evidenziato che la giurisprudenza della Sezione (Cons. Stato;VI, 6-12-2013, n. 5861) ha chiarito che la consumazione del potere di impugnare, giusta l’art. 358 del codice di procedura civile, applicabile al procedimento amministrativo, presuppone necessariamente l’intervenuta declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo gravame, potendo altrimenti essere proposto un secondo atto di appello».
[18] Prescindendo dalla disciplina delle impugnazioni incidentali, per quel che interessa in tal sede, si rammenta che l’art. 96, comma 1 c.p.a. prevede che «Tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo», mentre il comma 6 della medesima disposizione stabilisce che «In caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l'improcedibilità delle altre».
[19] I quattro quesiti vengono elencati alle lettere a), b), c), d) del paragrafo 24 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.).
[20] Ovviamente, in entrambe le succitate ipotesi di cui al secondo e al terzo quesito, la conditio sine qua non è costituita dal fatto che sia ancora pendente il termine per impugnare e che, medio tempore, non sia intervenuta una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione.
[21] Secondo l’art. 45, comma 1 c.p.a. «Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell'atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario...».
[22] A tal proposito si richiama il paragrafo n. 12 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.), ove viene precisato che «La Sezione ritiene di dovere deferire all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla corretta interpretazione delle disposizioni e dei principi che regolano le impugnazioni, tra cui quello della cd. consumazione del relativo potere», a comprova del fatto che la questione relativa al potere di consumazione è solo una delle problematiche su cui l’Adunanza Plenaria dovrà fornire i propri chiarimenti.
[23] Cons. St., Ad. Plen., 28 luglio 1980, n. 35, in Foro it., 1980, III, p. 532 ss. In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «nel processo amministrativo i due momenti della notificazione e del deposito del ricorso hanno caratteristiche e fini diversi: il primo rivela soltanto la volontà di agire in giudizio e costituisce il preliminare atto dell’introduzione del processo; il secondo invece concretamente realizza la presa di contatto tra il ricorrente e l’organo di giurisdizione che deve pronunciare sul processo e postula la partecipazione pure delle controparti al giudizio. Pertanto i suoi effetti, correlati alla consegna dell’originale del ricorso notificato alla segreteria del Giudice adito, non possono retroagire alla fase precedente, che è stata meramente introduttiva e prodromica all’istaurazione del processo. Quindi, nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR».
[24] Infatti, la parte che potendo legittimamente attendere fino all’ultimo giorno per provvedere alla notifica vi provveda anticipatamente e poi, per qualsiasi altro motivo ulteriore all’emenda di eventuali vizi, decida di ripetere la notifica “riprendendosi” la facoltà di effettuarla sino al termine previsto dalla legge (e, conseguentemente, di effettuare il deposito entro il termine collegato alla notifica), non pare francamente commettere alcuna violazione o elusione della disciplina dei termini.
[25] Cons. St., Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, cit., ci ricorda che «nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR. L’individuazione della pendenza del rapporto processuale, in altri termini, mentre nei giudizi che iniziano con citazione va fissata nel momento della notificazione di essa (vocatio in jus), in quelli, come nel caso in esame, introdotti con ricorso si ha nel momento del relativo deposito (vocatio judicis, cfr. Cons. St., VI, 25 maggio 2006 n. 3129; id., IV, 8 gennaio 2013 n. 40)».
[26] Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1570, cit., prevede che «il divieto di frazionamento dei mezzi di impugnazione, sotteso al principio di consumazione delle impugnazioni sancito dagli artt. 358 e 387 c.p.c. (che connota qualsiasi processo retto, come anche quello amministrativo, dal principio della domanda e da quello dispositivo), impedisce alla parte che abbia proposto un primo gravame di proporne un secondo, pur quando siano ancora pendenti i relativi termini».
[27] L’art. 96, comma 3 c.p.a. prevede che «L’impugnazione incidentale di cui all’articolo 333 del codice di procedura civile può essere rivolta contro qualsiasi capo di sentenza e deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione».
L’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. Chiarezza definitoria e concettuale - 2. Le situazioni “arate” e... - 3. ...gli orientamenti in via di consolidamento - 4. I profili controversi.
1. Chiarezza definitoria e concettuale
Di fronte alla nuova formula di definizione del processo, appare necessario distinguere anche formalmente, oltre che sostanzialmente, le tre situazioni attorno alle quali spesso ruota il dibattito, evitando di cambiarne la letteralità, con il rischio di inquinarne gli effetti, anche perché nel pronunciarle il giudice deve precisarne i presupposti nel dispositivo (artt. 529 e 531 c.p.p.).
L’estinzione del reato opera solo in primo grado; l’improcedibilità per mancanza di querela, o di altra condizione di procedibilità, opera in ogni stato e grado; l’improcedibilità per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione opera solo nel giudizio di impugnazione dopo la sentenza di primo grado e d’appello. Quindi, netta distinzione, evitando sovrapposizioni tra le ipotesi di improcedibilità, e tra l’improcedibilità (a volte definita prescrizione processuale o cronologica) e l’estinzione del reato per prescrizione.
In questa prospettiva, due punti sembrano anche da considerare ulteriormente significativi: la differenza tra prescrizione sostanziale e improcedibilità, stante almeno la previsione differenziata dell’art. 578, comma 1 bis, c.p.p., altrimenti non giustificabile; la diversità anche con le altre situazioni di improcedibilità in relazione all’esercizio dell’azione penale, nel caso dell’art. 344 bis c.p.p., invece, regolarmente esercitata.
Per queste ragioni trova piena giustificazione la tesi per la quale l’art. 344 bis c.p.p. non opera in relazione alle impugnazioni ex art. 428 c.p.p. della sentenza di non luogo di cui all’art. 425 c.p.p., alle impugnazioni per i soli interessi civili, alle impugnazioni cautelari ed a quelle straordinarie.
2. Le situazioni “arate” e...
Il confronto di opinioni sulla decisione di improcedibilità dell’art. 344 bis c.p.p. introdotta dalla l. n. 134 del 2021 sta registrando alcune convergenze su alcuni profili della relativa disciplina, pur non mancando, naturalmente, i dissensi, anche autorevoli e motivati.
La prima questione – che invero sembrava definita, riguarda gli effetti della declaratoria di improcedibilità sulle decisioni oggetto di impugnazione.
Secondo un convincimento solidamente diffuso si affermava che la sentenza di improcedibilità, conseguente all’impugnazione, supera la decisione emessa nel grado precedente.
In particolare, si ritiene che con la declaratoria di improcedibilità, non c’è né condanna né proscioglimento; sono assorbite le precedenti decisioni sia di condanna, sia di assoluzione; si caducano le misure cautelari personali (anche quelle a tutela della vittima) e quelle reali; l’imputato perde il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione; vengono meno i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi nonché le decisioni di confisca; non c’è nessuna decisione sul querelante; la sentenza non ha autorità di giudicato in sede civile o disciplinare; si prospettano questioni sul valore probatorio del materiale in un altro procedimento; in caso di annullamento con rinvio per la determinazione della pena viene meno il giudicato sulla responsabilità; forse l’imputato può avvalersi della legge Pinto.
La conclusione proposta non esclude la presenza di alcune questioni “aperte”.
Fra queste non possono non segnalarsi – mancando a differenza della estinzione del reato ogni indicazione sul punto – le possibili implicazioni sulla responsabilità delle persone giuridiche ex l. n. 231 del 2001; le patologiche implicazioni ex art. 604, comma 6, c.p.p., di una errata decisione di prescrizione in primo grado, stante l’impossibilità di dichiarare l’estinzione del reato, eventualmente maturato, nel giudizio di appello; la fissazione del termine in caso di sviluppo dell’impugnazione della decisione di inammissibilità; l’indicazione del termine massimo in caso di plurimi annullamenti con rinvio e quello in caso di conversione in appello, il valore delle prove assunte nel procedimento di cui al gravame.
Recentemente si è affermato che l’art. 344 bis c.p.p. costituisce una causa di inammissibilità sopravvenuta con effetti soltanto nel grado in cui si è verificato l’esaurimento del tempo per il relativo giudizio, lasciando sopravvivere la sentenza impugnata, sia essa di condanna, sia essa di proscioglimento.
La tesi, che non trova nessun riferimento testuale, è contraddetta in primo luogo dagli effetti che essa determinerebbe.
Il dato non solo è smentito, come riconosciuto pure da chi avanza questa tesi, anche se ipotizza un suo superamento in attuazione della delega (art. 1, comma 13, lett. d, l. n. 134 del 2021), da quanto previsto dall’art. 578, comma 1 bis, c.p.p. (di nuovo conio), ma soprattutto dalle ricadute negative della “conservazione” della sentenza impugnata.
Si sostiene, infatti, che in caso di proscioglimento questa opererebbe a favore dell’imputato, senza conferire verosimilmente al p.m. nessun potere negativo o interdittivo, come nel caso in cui la decisione fosse viziata da nullità ovvero fosse basata su prove inutilizzabili (che, conseguentemente, diverrebbe irrevocabile).
Nel caso della condanna, si afferma che all’imputato sarebbe consentito il diritto di rinuncia alla improcedibilità rectius, la richiesta di prosecuzione del processo (art. 344 bis, comma 7, c.p.p.).
I riferiti effetti della declaratoria di improcedibilità hanno prospettato il problema della possibilità di riavviare il percorso processuale per il medesimo fatto.
Dopo aver chiarito quale rapporto possa prospettarsi con la possibilità che il decorso della prescrizione sia o meno cessato con la sentenza in primo grado (ex art. 161 bis c.p.), una volta sopravvenuta la declaratoria di improcedibilità è necessario interrogarsi sull’operatività di quanto previsto dall’art. 649 c.p.p. ove è disciplinato il divieto di un secondo giudizio (ne bis in idem).
Fatta salva la possibilità di una diversa qualificazione del fatto (da ritenersi ipotesi remota), le situazioni derogatorie di cui all’art. 649 c.p.p., riferite a quanto previsto dall’eccezione di cui all’art. 345 c.p.p., non sembrano attagliarsi al caso qui considerato che, pertanto, sembrano suggerire che non sia possibile avviare un nuovo procedimento.
La soluzione interpretativa proposta prospetta anche non poche questioni legate alle sue implicazioni sotto il profilo della legittimità costituzionale.
Invero, in termini estremamente pregnanti, la previsione prospetta una questione sotto il profilo del possibile contrasto con l’art. 101 Cost. in relazione al pregiudizio per l’esercizio della funzione giurisdizionale che è pregiudicata dal decorso del tempo massimo delle fasi di impugnazione, con conseguente pregiudizio sia delle iniziative dell’accusa sia delle aspettative difensive.
In altri termini, si tratta di riflessi indiretti sugli artt. 112 e 24 Cost.
Il dato ha ricadute anche in relazione all’effettività della giurisdizione di cui all’art. 47 del Trattato dell’Unione europea, nonché dell’art. 6 della Cedu.
Si sono prospettate anche violazioni dirette con il principio di obbligatorietà dell’azione penale; invero, la richiesta del pubblico ministero di una decisione sull’ipotesi accusatoria risulterebbe preclusa dalla decisione di improcedibilità.
Il dato non è convincente, considerato che a differenza delle situazioni di mancanza di una condizione di procedibilità, dove difetta l’elemento dell’esercizio dell’azione penale, nel caso di specie l’azione è stata validamente esercitata.
La disciplina dell’art. 344 bis c.p.p. prospetta, tuttavia, ulteriori possibili questioni di incostituzionalità. Il primo dato è ricollegabile alla irrazionabilità delle cadenze cronologiche dei possibili percorsi processuali (es.: in primo grado otto anni; due anni in appello e uno in cassazione: perfettamente legittimo, ed un anno in primo grado, tre anni di appello con declaratoria di improcedibilità).
Inoltre, non possono non essere segnalate, da un lato, la forte criticità del conferimento al giudice di determinare con la sua iniziativa (seppur impugnabile) la durata o meno del processo (impugnabile in caso di sua determinazione ed esclusa in caso di rigetto di una parte che l’abbia richiesto), dall’altro, la irragionevolezza della diversa durata delle fattispecie criminose non tutte pienamente giustificate, nonché la possibilità (escluse le ipotesi per i reati puniti con l’ergastolo, dichiarate non improcedibili) di proroghe illimitate.
L’incostituzionalità del sistema integrato (art. 161 bis c.p. e art. 344 bis c.p.p.) aprirebbe la strada ad altre soluzioni, fra le quali si segnalano quella del parallelo decorso dall’inizio dei due orologi, cioè, delle due procedure “estintive” ovvero quella di trasformare la durata ragionevole delle fasi di impugnazioni, prima dei tempi assolutamente irragionevoli, in situazioni suscettibili di risarcimenti (per il prosciolto o riduzioni di pena (per i condannati).
3. ...gli orientamenti in via di consolidamento
Sin dalla introduzione dell’art. 344 bis c.p.p. si è prospettata la questione della sua possibile applicazione retroattiva, cioè della sua operatività anche ai procedimenti relativi ai reati commessi prima del 1° gennaio 2021.
Si sono confrontate sul punto le opinioni sulla natura della sentenza, prospettandosi le varie opzioni in relazione al fatto che si possa trattare di norma sostanziale, processuale, ovvero processuale con effetti sostanziali.
L’impostazione – come è emerso anche dai primi orientamenti giurisprudenziali - appare non correttamente impostata.
Invero, con la riforma il legislatore ha predisposto un sistema integrato tra la prescrizione (sostanziale) ex art. 161 bis c.p. operante in primo grado e l’improcedibilità dell’azione ex art. 344 bis c.p.p. operante in grado d’impugnazione. Invero, il suo smembramento con recupero dell’improcedibilità anche nel grado precedente affiancherebbe questa ipotesi di definibilità del processo con quella che vedrebbe contestualmente correre il tempo della prescrizione che risulta regolata dalle leggi antecedenti la riforma della l. n. 3 del 2019.
In altri termini, ci si troverebbe in una situazione di palese incompatibilità, anche in considerazione della ragione posta a fondamento della riforma, cioè, quella di definire tempi adeguati al giudizio di impugnazione, per effetto della sospensione del decorso della prescrizione, con il timore di processi di gravame non governati da definizioni in tempi adeguati.
Va, del resto, sottolineato, come i riferimenti costituzionali spesso evocati (C. cost. n. 32 del 2020 e C. cost. n. 183 del 2021) a supporto della tesi contraria, arrivavano dalla mancanza di una disciplina transitoria che, invece, la riforma esplicitamente indica (1.1.2020) e che appare razionalmente motivata (l’operatività della l. n. 3 del 2019).
Una questione di costituzionalità sull’operatività dell’art. 344 bis c.p.p. in relazione a reati antecedenti al 1° gennaio 2021, potrebbe prospettarsi sotto un diverso profilo.
Il riferimento potrebbe indirizzarsi a quella situazione per la quale siano proposte nello stesso giorno, per la stessa fattispecie di reato un appello per un fatto antecedente il 1° gennaio 2021 ed un appello per la stessa fattispecie di reato commesso successivamente al 1° gennaio 2021, con disparità di trattamento, operando solo per quest’ultimo il tempo massimo di definizione del giudizio (mentre per il primo varrebbe la prescrizione).
Al profilo qui considerato vanno collegate anche le questioni relative al regime transitorio regolato dai commi 3, 4 e 5 dell’art. 2 della cit. l. n. 134.
Com’è noto, il comma 3 dell’art. 2 cit., dopo aver previsto che la nuova disciplina operi per i reati commessi successivamente al 1° gennaio 2021, stabilisce al comma 4 dello stesso art. 2 che nel caso in cui gli atti siano già pervenuti al momento dell’entrata in vigore della legge (19 ottobre 2021) decorrono i termini di cui all’art. 2, comma 1 e 2, cioè quelli ordinari, mentre tempi più lunghi sono previsti nel caso in cui gli atti, sempre per i reati successivi al 1° gennaio 2021, pervengano entro il 31 dicembre 2024.
Si è prospettata una lettura sistematica dei commi 4 e 5 cit. che non trova giustificazione stante la sua ragionevolezza, che sembrerebbe escludere anche la possibilità di prorogare i termini che dall’entrata in vigore della legge sono già in corso.
La previsione, oltre la sua chiara letteralità, appare pienamente giustificata dal fatto che nella prima ipotesi non appare necessario l’arrivo degli atti (già presenti) per i quali la decisione può quindi seguire i termini fisiologici.
Nonostante alcune diverse opinioni non pare suscettibile di operare il cpv. dell’art. 129 c.p.p., in mancanza di adeguata copertura normativa.
Va sottolineato che in questo caso il problema non sembra prospettarsi in caso di reati puniti con l’ergastolo, nonché per i reati che consentono numerose proroghe (fatta salva l’ipotesi in cui le proroghe non vengano disposte).
Negli altri casi è evidente la mancanza di una previsione sul punto, non potendo essere applicata analogicamente quella del cpv. dell’art. 129 c.p.p. (comunque ancora operate solo in primo grado) e comunque confliggente con i poteri del giudice del gravame.
Non sarebbe possibile, come si tenta di sostenere, far leva sul mantenimento della sentenza di prima istanza, da porre in comparazione con quella di improcedibilità, né in caso di doppio conforme, ipotizzando la rinuncia all’improcedibilità, invero, definita dal comma 7 dell’art. 344 bis c.p.p. come richiesta di “prosecuzione del procedimento” (quindi precedente la dichiarazione della sentenza che non verrebbe pronunciata).
Nel primo caso di ipotizza che la sentenza di primo grado o d’appello, pur se invalida manterrebbe efficacia; nel secondo andrebbero considerati, dalla difesa, gli esiti del ricorso del pubblico ministero e comunque del giudizio di impugnazione.
Si consideri che si applicherebbe l’intero ventaglio delle ipotesi di cui al cpv. dell’art. 129 c.p.p., non tutte del tutto favorevoli, seppur di proscioglimento.
Va sottolineato che “l’apertura” all’operatività del cpv dell’art. 129 c.p.p. apre la strada a non secondari effetti collaterali, anche a prescindere dalla conseguente chiara prevalenza della inammissibilità sulla improcedibilità.
Invero, appare chiaro che, di fronte a questa possibilità, si aprirebbe la strada per l’impugnabilità della declaratoria di improcedibilità (certamente possibile per la mancanza dei presupposti della sua pronuncia) anche per il difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione del cpv. dell’art. 129 c.p.p., ovvero per una formula migliorativa della precedente.
Inoltre il riconoscimento di un potere decisorio in favor significherebbe al contrario una decisione implicitamente negativa per l’imputato.
4. I profili controversi
Il profilo attualmente più controverso riguarda il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione proposta e la decisione di improcedibilità. Si tratta di un aspetto teorico, dai risvolti significativamente pratici; l’improcedibilità - come detto – travolge le decisioni impugnate; l’inammissibilità, le fa diventare irrevocabili ed esecutive (con i limiti, di cui si dirà, della impugnabilità).
Va sottolineato che non essendo possibile dichiarare la prescrizione in fase di impugnazione anche in Cassazione, non trova più alcun riferimento tutta la giurisprudenza delle Sezioni unite sul rapporto tra inammissibilità e prescrizione.
Conseguentemente, il tema – in relazione alla improcedibilità – va riconsiderato, a parte la considerazione che la questione non si pone nei casi di proroghe illimitate nel tempo (salvo il caso in cui le proroghe non siano disposte) o nel caso di reati puniti con l’ergastolo, stante la mancata applicabilità dell’art. 344 bis c.p.p.
La questione si prospetta nel caso in cui il giudice deve dichiarare l’improcedibilità, essendo scaduti i tempi del giudizio a fronte di una impugnazione inammissibile, ancorché qualche problema – come si dirà – potrebbe porsi anche nel caso in cui l’inammissibilità sia pronunciata prima della scadenza dei termini, la relativa decisione venga impugnata, con effetti decisori diversificati (rigetto/accoglimento).
A tempi brevi – nel regime transitorio – la questione potrebbe essere agevolmente superata nei fatti, sicuramente ai sensi del comma 5 dell’art. 2 l. n. 134 del 2021, stante gli ampi tempi di smaltimento, ma anche nel caso del comma 4, se pur solo in cassazione, in sede di esame preliminare di ammissibilità, ovvero con meccanismi organizzativi tesi ad escludere il superamento dei tempi.
Tuttavia, restando la questione comunque prospettabile, è necessario indicare una possibile soluzione al problema, in ordine al quale tuttavia, un punto fermo, alla luce dell’art. 648 c.p.p. può dirsi raggiunto in relazione all’impugnazione proposta fuori termine: il giudicato non permette una declaratoria di improcedibilità.
Fermo restando, per le riferite diversità strutturali, le differenze con estinzione del reato per prescrizione e della conseguente inapplicabilità della giurisprudenza delle Sezioni Unite che ha progressivamente regolato il relativo rapporto con l’inammissibilità, facendo prevalere quest’ultima, fatta salva l’ipotesi della pena illegale, così definita dalla Corte costituzionale, le tesi contrapposte possano essere così delineate.
La soluzione che fa prevalere l’improcedibilità sull’inammissibilità considera che il decorso del tempo delinei lo spazio decisorio del giudice, esaurito il quale non gli residuerebbe nessun potere deliberativo (anche l’art 578,comma 1 bis, c.p.p. si configurerebbe solo per una mera trasmissione degli atti). Confermerebbe questo dato l’irrilevanza dell’atto di impugnazione al quale non si fa alcun riferimento nell’art. 344 bis c.p.p.
Questo dato è vero e si evidenzia nel caso in cui l’atto di gravame pervenga sia prima, sia dopo il tempo astrattamente previsto dal legislatore per il decorso del tempo massimo per la sua “definizione”.
Se nel primo caso, il giudice dovrebbe poter decidere anche anticipatamente, fermo il limite massimo, ove non ritenesse di attendere, escludendosi la possibilità di scorporare quel periodo, nel caso dell’arrivo tardivo, potrebbero determinarsi le condizioni per la proroga del tempo massimo, se non già scaduto.
In ogni caso, a prescindere da questi elementi, pur significativi, non può negarsi che il tempo per la “definizione”, rileva solo se c’è un atto di gravame da valutare; diversamente, esso opera inutilmente. In altri termini, senza un atto di impugnazione, quel tempo non rileva: scorre inutilmente e non ci sarà nessuna declaratoria di improcedibilità ex art. 344 bis c.p.p. e nessuna decisione intermedia.
Invero, il riferimento alla “definizione” del giudizio, nonché al “giudizio di impugnazione” (complessità, per numero delle parti, delle imputazioni e delle questioni), ed anche agli sviluppi processuali dell’impugnazione, figura in molte previsioni dell’art. 344 bis c.p.p..
Ci sono, invero, molti elementi che, seppur ai fini del tempo a disposizione del giudice dei gravami, fanno riferimento all’atto di impugnazione.
La sentenza non impugnata o tardivamente impugnata diventerà definitiva ed il trascorrere di quel tempo sarà stato irrilevante.
È per effetto della presenza nel processo dell’atto di impugnazione che rilevano quei tempi che il legislatore ha fissato per la definizione del giudizio di gravame entro l’arco temporale che intercorre fra quello di cui al comma 3 dell’art. 344 bis c.p.p. ed il giorno antecedente per la definizione: in questo spazio temporale il giudice ha pienezza di poteri (merito e inammissibilità), eccettuata la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione.
Diversamente si devono considerare gli effetti di una impugnazione che sia stata proposta e che abbia investito il giudice dell’impugnazione e che abbia visto decorrere i tempi assegnati per la sua definizione. Problema che non si pone con riferimento ai reati che non consentono l’improcedibilità. Invero, l’inammissibilità dell’atto costituisce un prima, rispetto alla declaratoria temporale che precluderebbe il suo stesso decorso. Il tempo della decisione fissato dal legislatore nella prospettiva di un atto di gravame sarebbe condizionato dall’atto proposto in relazione al quale ha fissato il tempo della definizione, con la conseguenza di valutarne anche la validità.
Il discorso, anche alla luce della diversa opinione, forse potrebbe essere considerato nella prospettiva dei poteri che il decorso del tempo conserva al giudice. Sembra doversi riconoscere al giudice, anche a termini scaduti, alcuni poteri non esauritisi con il passare del tempo assegnatogli.
Al di là di quanto previsto dall’art. 578, comma 1 bis, (ed inoperatività dell’art. 622 c.p.p.), non può escludersi che il giudice debba valutare la qualificazione del fatto in relazione al tempo massimo a sua disposizione.
Va sottolineato che nel caso in cui si acceda alla tesi della prevalenza della declaratoria di inammissibilità su quella di improcedibilità questa ultima decisione se non condivisa sarà suscettibile di impugnazione, come per l’ipotesi opposta sarà gravata la sentenza di improcedibilità che non abbia dichiarato l’inammissibilità.
Il discorso si salda con le situazioni nelle quali la declaratoria di inammissibilità dichiarata entro i termini ordinari, sia impugnata.
Con riferimento all’appello, in caso di ricorso contro la decisione, in caso di rigetto, la decisione diventerebbe definitiva (art. 648 c.p.p.), in caso di accoglimento da parte del Supremo Collegio, bisognerebbe vedere se il giudice d’appello sia in tempo per decidere, altrimenti si riprospetta, salva la possibilità di ritenere i termini sospesi, proprio il tema del rapporto tra inammissibilità e improcedibilità.
Non può escludersi che sia la Cassazione, nel contesto di un ricorso ammissibile a riconoscere (d’ufficio o su istanza di parte) l’inammissibilità dell’appello, non dichiarata in precedenza (in via ordinaria, cioè, entro i termini) con conseguente definizione del processo.
Il tema prospetta risvolti diversi in caso di inammissibilità dichiarata dal Supremo Collegio, anche in questo caso considerando le ipotesi di un ricorso con possibile declaratoria di accoglimento o di rigetto.
Al riguardo, è necessario considerare quanto previsto dall’art. 610, comma 5 bis, c.p.p.
Invero, se la Cassazione decide entro il termine massimo, si prospettano due ipotesi: la prima vede la questione definita; la seconda riguarda l’operatività dell’art. 610 c.p.p. e l’esito di un eventuale ricorso, di rigetto o di accoglimento, riproponendosi le soluzioni già indicate.
Il tema riguarda, pertanto, le ipotesi delle possibili declaratorie esauriti i tempi massimi che, tuttavia, sono definite nei contenuti decisi dal Supremo Collegio, non essendo le sue decisioni ordinariamente impugnabili.
Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura
di Ernesto Fabiani e Luisa Piccolo
Sommario: 1. Premessa. - 2. Le modifiche dirette della legge n. 206/2021 apportate nell’ambito dell’espropriazione presso terzi. - 3. Segue: Il foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni. - 4. Segue: La notifica, a pena di inefficacia, da parte del creditore pignorante al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi. - 5. L’abrogazione della spedizione in forma esecutiva. - 6. La riduzione dei termini ex art. 567 c.p.c. - 7. Le modifiche in tema di delega delle operazioni di vendita forzata. - 8. Il controllo sugli atti del professionista delegato e in particolare l’impugnazione degli atti del delegato (la previsione del rimedio dell’art. 617, in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.). - 9. La distribuzione del ricavato. -10. La custodia: l’anticipazione della nomina del custode terzo e la sinergia con l’esperto stimatore. - 11. La liberazione dell’immobile pignorato. - 12. La «vendita diretta»: un inedito istituto, alla luce della Relazione illustrativa. - 13. L’estensione degli obblighi antiriciclaggio nell’ambito delle vendite forzate e concorsuali. - 14. Le misure coercitive. - 15. L’istituzione, presso il Ministero della Giustizia, della “Banca dati per le aste giudiziali”.
1. Premessa
Siamo all’inizio di una nuova stagione di riforma della giustizia civile: nella seduta del 25 novembre 2021, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, nonché una serie di misure urgenti per la razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie e in materia di esecuzione forzata[1].
Al fine di comprendere il contesto di riferimento della riforma in atto, va ricordato che l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha drammaticamente evidenziato le criticità della disciplina processuale attualmente vigente, imponendo interventi legislativi nell’immediato, onde far fronte alle esigenze postesi nelle differenti fasi dell’emergenza[2]. Non sempre, però, l’opera del legislatore è stata contraddistinta: per un verso, da un adeguato bilanciamento tra diritti contrapposti, con conseguente necessità di intervento da parte della Corte costituzionale[3]; per altro verso, da un reale effetto risolutore dei nodi irrisolti della disciplina vigente (si pensi, su tutti, alle norme in materia di liberazione dell’immobile, oggetto di esecuzione immobiliare, abitato dal debitore).
Al contempo, si è imposta l’esigenza di riforme che trascendano la fase emergenziale per superare la crisi che da ormai troppo tempo affligge la giustizia civile, con le note ricadute negative anche in ordine alla competitività del nostro Paese. Non è un caso che nell’ambito del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (c.d. PNRR), diretto ad acquisire risorse per superare i devastanti effetti economici dell’epidemia, un ruolo cruciale è stato riservato alle questioni relative alla amministrazione della giustizia e, in particolare, all’esecuzione forzata[4].
Da un punto di vista contenutistico, la legge delega presenta una prima peculiarità: per un verso, delega il Governo alla riforma del processo civile, dettando specifici principi e criteri direttivi; per altro verso, modifica direttamente alcune disposizioni sostanziali e processuali (relative ai procedimenti in materia di diritto di famiglia, esecuzione forzata e accertamento dello stato di cittadinanza) destinate a trovare applicazione a decorrere dal 180° giorno successivo all’entrata in vigore della legge stessa.
Una seconda peculiarità attiene al merito degli istituti su cui il legislatore interviene. Alcune modifiche costituiscono il frutto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che da tempo sollecitavano interventi legislativi: ne costituiscono esempio le proposte in tema di rafforzamento dell’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata, restando impregiudicata, naturalmente, ogni valutazione in ordine alle disposizioni attuative della legge delega. Altre modifiche, invece, mirano ad introdurre nel nostro ordinamento nuovi istituti, alla luce di quanto previsto in ordinamenti stranieri: ne costituisce un esempio la previsione in tema di “vendita diretta da parte del debitore”.
Non sempre, però, come avremo modo di evidenziare meglio più avanti, il contenuto della legge delega sembra fissare i necessari principi e criteri direttivi alla stregua del rapporto, di matrice costituzionale, che deve intercorrere tra legge delega e decreto delegato. Al contempo, in altri casi giunge sino a conformare l’attività del legislatore delegato in ordine agli elementi procedurali nell’assenza di una effettiva cornice di principi direttivi.
In estrema sintesi, ci troviamo di fronte ad una legge delega caratterizzata dall’estrema eterogeneità: per un verso, sul piano dei contenuti e delle tipologie di intervento, talvolta legati alle contingenze del peculiare momento storico in cui si colloca e talaltra a ben più consolidate riflessioni ed elaborazioni dottrinali; per altro verso, sul piano strutturale, posto che, se talvolta è effettivamente strutturata nei termini della legge delega (ancorché con talune criticità sotto il profilo dei rapporti che, al livello costituzionale, dovrebbero intercorrere fra legge delega e decreti delegati), talaltra, invece, è strutturata nei termini di una legge avente contenuto ed efficacia immediatamente precettivi.
Di grande interesse è l’art. 1, comma 12, della legge in commento, relativo all’adozione di misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di esecuzione forzata, il quale, in estrema sintesi, prevede:
- l’abrogazione delle disposizioni che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva, nonché la sostituzione dell’iter di rilascio della formula esecutiva con la mera attestazione di conformità della copia al titolo originale;
- con riguardo al pignoramento, la sospensione dei termini di efficacia dell’atto di precetto che consenta al creditore, munito di titolo esecutivo e di atto di precetto, di predisporre un’istanza, rivolta al presidente del tribunale, per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare nonché la riduzione dei termini previsti per la sostituzione del custode nominato in sede di pignoramento;
- la riduzione del termine per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale;
- l’accelerazione nella procedura di liberazione dell’immobile quando è occupato sine titulo o da soggetti diversi dal debitore;
- la riforma dell’istituto della delega delle operazioni di vendita al professionista delegato, individuando: un termine di durata (annuale) della delega, rinnovabile dal giudice; l’obbligo per il professionista di svolgere – in questo periodo – almeno tre esperimenti di vendita e di presentare una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi; il corrispondente obbligo del giudice di vigilare sull’operato del professionista, e sul rispetto dei tempi; l’obbligo del giudice di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento;
- la riforma dell’istituto della delega attribuendo al professionista delegato anche il potere di approvazione del progetto di distribuzione del ricavato;
- la riforma della disciplina del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso gli atti del professionista delegato, attraverso l’introduzione di un termine di venti giorni per la proposizione dello stesso e della proponibilità dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza con cui il giudice decide il reclamo;
- l’introduzione di un nuovo istituto avente ad oggetto la “vendita privata” del bene, nel procedimento di espropriazione immobiliare, “direttamente” ad opera del debitore, previa autorizzazione del giudice in tal senso;
- l’individuazione di criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata, delle misure di coercizione indiretta;
- l’estensione degli obblighi antiriciclaggio anche agli aggiudicatari e l’introduzione dell’obbligo per il giudice di verificare l’avvenuto rispetto di tali obblighi ai fini dell’emissione del decreto di trasferimento;
- l’istituzione presso il Ministero della Giustizia della “Banca dati per le aste giudiziali”, dove confluiscono tutti i dati identificativi degli offerenti, del conto corrente usato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, le relazioni di stima. Tali informazioni sono destinate ad essere messe a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria.
Il contenuto del d.d.l. recepisce molte delle buone prassi che sono state riscontrate dal “gruppo di lavoro esecuzioni” del CSM, nominato con delibera del 30/12/2020, specie in tema di: dovere di collaborazione del custode per il controllo della documentazione ipo-catastale; nomina del custode col decreto che dispone l’udienza di cui all’art. 567 c.p.c.; pronuncia dell’ordine di liberazione al più tardi al momento dell’autorizzazione alla vendita; redazione di schemi di atti per la perizia e l’avviso di vendita; durata limitata della delega; delega della fase della distribuzione[5].
Come detto, non mancano, nell’ambito della legge in comento, ipotesi in cui il legislatore non delega al governo, dettando le direttive, ma modifica direttamente la disciplina vigente. Si tratta del:
- comma 29 dell’art. 1, il quale modifica direttamente l’art. 26 bis c.p.c., in tema di competenza per l’espropriazione di crediti della pubblica amministrazione;
- comma 32 dello stesso articolo 1, il quale modifica l’art. 543 c.p.c., in ordine alla notifica da parte del creditore pignorante dell’avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi.
Al fine di consentire al lettore di comprendere, al meglio, quale sia l’effettiva portata innovativa dell’intervento legislativo in esame, nonché di effettuare anche una valutazione delle novità introdotte, l’esame di queste ultime sarà sempre preceduto da quello della disciplina vigente e delle relative criticità, nonché del modo in cui le stesse sono state affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Ciò consentirà, peraltro, anche di evidenziare se, ed eventualmente in quale misura, l’intervento legislativo in esame sia in linea con gli auspici della dottrina per superare de iure condendo dette criticità e/o con le prassi instauratesi presso gli uffici giudiziari per farvi fronte.
2. Le modifiche dirette della legge n. 206/2021 apportate nell’ambito dell’espropriazione presso terzi
La legge di riforma prevede alcune norme di applicazione diretta in materia di espropriazione di crediti al fine di intervenire su due peculiari problemi emersi nella prassi con riguardo: per un verso, al foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni; per altro verso all’inefficacia del pignoramento presso terzi per mancata o tardiva iscrizione a ruolo.
3. Segue: Il foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni
È noto come il regime dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione sia stato interessato da un’evoluzione storica cui sono sottese le esigenze di tutela, non solo del diritto di credito, ma anche dell’interesse pubblico perseguito dalle pubbliche amministrazioni. Questo spiega le normative speciali, sia in ordine ai profili procedimentali, sia in ordine ai profili dell’oggetto dell’azione esecutiva[6].
In particolare, la legge di riforma in commento non affronta i tanti profili dubbi emersi nel panorama interpretativo[7], ma interviene sul foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in conseguenza della scelta di accentrare a Roma, con funzioni di controllo della spesa pubblica, il servizio di tesoreria dello Stato e, contestualmente, di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della p.a.
3.1. Evoluzione della disciplina vigente
Fin dall’entrata in vigore del vigente codice di rito, l’art. 26 c.p.c. disciplinava, al suo secondo comma, la competenza territoriale per l’espropriazione di crediti, attribuendola al giudice del luogo di residenza del terzo debitore ovvero del terzo detentore dei beni pignorati.
Questa regola è stata abbandonata dal legislatore del 2014, che ha abrogato la relativa previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 26 c.p.c., introducendo, per disciplinare la materia, il nuovo art. 26 bis c.p.c., rubricato “foro relativo all’espropriazione forzata dei crediti”. In particolare, il legislatore del 2014, completando la più ampia riforma dell’espropriazione presso terzi compiuta con la legge 24 dicembre 2012, n. 228, ha inteso rafforzare la tutela del credito favorendo il cumulo presso un unico foro del pignoramento di più crediti dello stesso debitore nei confronti di terzi residenti presso fori diversi: la competenza, infatti, viene attribuita al giudice del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore principale. Quando, però, il debitore principale sia una pubblica amministrazione indicata dall’art. 413, c. 5, c.p.c., il foro è radicato in base alla residenza (domicilio, dimora o sede) del terzo debitor debitoris[8].
Nondimeno, come rilevato in dottrina[9], la previsione di cui all’art. 26 bis c.p.c. non è di agevole interpretazione.
La ragione giustificatrice, come enunciato nella relazione illustrativa, è di carattere pragmatico e risiede nella esigenza di evitare che i tribunali di alcune grandi città, tipicamente sedi di pubbliche amministrazioni, siano gravati da un eccessivo numero di procedure espropriative presso terzi. Più in particolare, collegando la competenza per territorio dei processi esecutivi promossi ex art. 543 c.p.c. nei confronti di una parte pubblica non alla residenza del debitore, bensì a quella del terzo, si scongiura il rischio che essi debbano essere incardinati prevalentemente a Roma.
Nondimeno, parte della dottrina[10] ha rilevato che nella gran parte dei casi l’espropriazione forzata di crediti, quando eseguita ai danni di soggetti pubblici, non può che essere compiuta presso il tesoriere. Alla luce della ratio deflattiva della norma, ha pertanto proposto che in caso di pignoramento di crediti vantati da enti sottoposti al servizio di tesoreria unica, territorialmente competente sia il giudice del luogo dove si trova la filale dell’istituto presso il quale è localizzato il servizio di tesoreria, poiché detta filiale, ove dotata di autonomia, è l’unica abilitata a compiere le operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e ad assumere la veste di terzo. In questa prospettiva, la corte di legittimità, con riferimento all’ipotesi di contenzioso instaurato per accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., ha affermato che, ove il terzo pignorato sia una persona giuridica che si avvalga di un servizio di tesoreria unica, è territorialmente competente il giudice ove il terzo pignorato abbia una filiale dotata di autonomia organizzativo-gestionale, essendo l’unica ad essere abilitata a compiere le operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e retta da un preposto autorizzato a stare in giudizio[11]. Muovendosi nell’ambito di questo ordine di idee, la competenza alternativa e concorrente del giudice del luogo della sede principale e di quello della struttura decentrata varrebbe solo per la determinazione del foro generale delle persone giuridiche nei giudizi in cui le stesse siano convenute, ma sarebbe inestensibile alle ipotesi di pignoramento di credito, altrimenti uno stesso credito potrebbe essere pignorato presso giudici diversi[12].
Quanto all’ambito applicativo, si è posto il problema di verificare quale significato rivesta il riferimento all’art. 413, comma quinto, c.p.c., il quale potrebbe indurre a ritenere che resti competente a conoscere della espropriazione presso terzi il giudice del luogo di residenza del terzo quando il pignoramento venga eseguito ai danni delle pubbliche amministrazioni per la soddisfazione dei crediti vantati dai dipendenti in forza di un rapporto di lavoro.
Nondimeno, come osservato in dottrina[13], questa interpretazione non sembra plausibile se si considera che i processi esecutivi promossi in relazione a crediti per emolumenti retributivi fondati su rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione sono minori rispetto a quelli promossi ai danni delle pubbliche amministrazioni debitrici dei privati in caso di inadempimento di obbligazioni sorti a vario titolo.
Pertanto, parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità ritengono che l’ambito operativo di questa norma debba riguardare tutte le esecuzioni forzate promosse ai danni delle pubbliche amministrazioni per la soddisfazione di uno qualunque dei crediti da esse non onorati[14]. In questa prospettiva non occorre considerare dirimente la natura del credito staggito, ma la qualità di pubblica amministrazione, considerando quanto dispone l’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
3.2.La modifica diretta dell’art. 26 – bis, comma primo, c.p.c.
Il comma 29 prevede la riscrittura dell’art. 26-bis, comma 1, cpc sul «Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti» come segue: «Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’art. 413, quinto comma, per l’espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
3.3.Valutazione della riforma
Come spiegato dalla relazione illustrativa, la modifica è conseguenza della scelta di accentrare, con funzioni di controllo della spesa pubblica, a Roma il servizio di tesoreria dello Stato e, contestualmente, di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della pubblica amministrazione.
Si tratta di una scelta ragionevole, che considera l’esigenza di distribuire i carichi di lavoro tra gli uffici.
Nondimeno, secondo parte della dottrina[15], frutto di lapsus calami appare il richiamo alla «dimora» del creditore, in alternativa alla residenza o al domicilio. Per le persone fisiche il criterio della dimora è solo sussidiario, essendo invocabile solo quando residenza o domicilio siano ignoti (cfr. l’art. 18 c.p.c.). Conseguentemente, ritenere che il creditore possa procedere in executivis in qualunque luogo abbia una dimora, magari una seconda casa di vacanza, significa consegnare il criterio di competenza al più assoluto arbitrio e ripetere le gravi incertezze che abbiamo conosciuto in questo periodo di limitazioni pandemiche, avuto riguardo ai trasferimenti da e verso le seconde case.
4. Segue: La notifica, a pena di inefficacia, da parte del creditore pignorante al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi
La legge di riforma interviene su un tema che ha suscitato diversi problemi applicativi; uno di questi è rappresentato dal rischio di non ottenere l’immediato svincolo delle somme a causa della mancata comunicazione del creditore al terzo debitor debitoris in seguito alla sopravvenuta inefficacia del vincolo.
4.1. La disciplina vigente in merito alla comunicazione dell’inefficacia del pignoramento al debitore e al terzo debitor debitoris
Il legislatore del 2014, apportando rilevanti modifiche alla fase iniziale dell’espropriazione forzata, ha fatto leva sul “principio dell’impulso di parte” per la prosecuzione dell’iter esecutivo dopo il compimento delle formalità del pignoramento, ponendo in capo al creditore procedente l’onere di provvedere all’iscrizione a ruolo della procedura esecutiva nei termini e nelle forme stabilite dalla legge, pena l’inefficacia del pignoramento, che ai sensi del 1° comma dell’art. 164 ter disp. att. c.p.c. opera di diritto.
Alla luce degli innovati artt. 518, 6° comma, 521, 5° e 6° comma, 543, 4° comma, e 557 c.p.c., in ciascuna delle diverse forme dell’espropriazione forzata, dopo il compimento delle operazioni di pignoramento, l’ufficiale giudiziario, infatti, non deve più provvedere al deposito dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione, ma è chiamato a consegnarli senza ritardo al creditore procedente, affinché quest’ultimo proceda all’iscrizione a ruolo, lasciando così ad esso la scelta di coltivare o meno l’intrapresa esecuzione[16].
Il legislatore, con la richiamata riforma del 2014, ha peraltro stabilito che gli effetti del pignoramento inefficace a causa della mancata o intempestiva iscrizione a ruolo vengano meno a prescindere dalla declaratoria giudiziale di estinzione, evidentemente al fine di scongiurare il rischio che il debitore subisca le conseguenze di una espropriazione inutile ed insuscettibile di sanatoria.
Nondimeno, anche se la cessazione degli effetti del pignoramento costituisce una conseguenza ope legis della scadenza del termine perentorio di cui agli artt. 518, 543 e 557 c.p.c., l’art. 164 ter disp. att. c.p.c. impone al creditore di redigere e notificare al terzo e al debitore apposita dichiarazione di mancata iscrizione a ruolo.
Più in dettaglio, con specifico riferimento al pignoramento presso terzi: per un verso, l’art. 543, comma quarto, c.p.c., prevede un’ipotesi di inefficacia per omessa o intempestiva iscrizione a ruolo del processo a cura del creditore pignorante; per altro verso, l’articolo 164-ter disp. att. c.p.c., prescrive che il creditore, entro cinque giorni dalla scadenza del termine per l’iscrizione a ruolo, provveda a fare, mediante notifica, apposita dichiarazione di mancata iscrizione a ruolo al debitore e all’eventuale terzo debitor debitoris affinché siano edotti della chiusura della procedura esecutiva, a causa della sopravvenuta inefficacia del pignoramento derivante dal tardivo o mancato deposito.
La ragione sottesa a questa norma è di impedire un’inerte pendenza sine die del pignoramento, consentendo una rapida liberazione dei beni già sottoposti a pignoramento, evitando il ricorso al giudice dell’esecuzione per sbloccare somme o cespiti non più vincolati alla soddisfazione del creditore in ragione dell’automatica cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo.
Nondimeno, considerata l’assenza di una sanzione relativa a questa disposizione, nella prassi è stato frequentemente constatato che la mancata informazione al terzo impedisca a quest’ultimo di avvedersi della già verificatasi liberazione dei beni. In tal guisa il terzo pignorato, non conoscendo l’esito della procedura, mantiene il vincolo sulle somme pignorate.
Si tratta di un fenomeno diffuso, che comporta, non solo conseguenze dannose per il debitore, ma anche per l’amministrazione della giustizia, costretta a sopportare i costi di contenziosi derivanti da pignoramenti inutilmente pendenti.
4.2. La notifica della avvenuta iscrizione a ruolo da parte del creditore al debitore e al terzo prevista dalla legge di riforma
L’art. 1, comma 32 aggiunge all’articolo 543, comma 4 del c.p.c., i seguenti commi: «Il creditore, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso di cui al precedente comma o il suo mancato deposito nel fascicolo della esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento. Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non è effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
4.3. Valutazione della riforma
Secondo la Relazione illustrativa, la previsione testé riportata mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. c.p.c., primo comma. In effetti, si introduce la sanzione in correlazione all’adempimento relativo all’iscrizione al ruolo, posto che proprio la mancanza della sanzione ha comportato i problemi applicativi sopra considerati. Lo scopo della modifica normativa, che grava il creditore pignorante, a pena di inefficacia del pignoramento, di un ulteriore onere, è, dunque, di consentire al terzo di conoscere con certezza quale sia stato l’esito del pignoramento e di liberare le somme pignorate quando il vincolo non ha più ragione di essere.
È quanto mai opportuno che il legislatore abbia considerato[17], in via prioritaria, la posizione del terzo debitor debitoris e, con essa, la tutela del debitore, sebbene dubbi possano avanzarsi in ordine alla ragionevolezza del rapporto individuato dal legislatore, tra mezzo e scopo, nella previsione normativa in esame. Sembrerebbe, infatti, eccessivamente punitiva, come già rilevato dal parere formulato dal CSM in ordine alla riforma in commento[18], la sanzione dell’inefficacia del pignoramento.
5. L’abrogazione della spedizione in forma esecutiva
La legge di riforma in esame prevede l’abrogazione dell’istituto della spedizione in forma esecutiva, che, sia pur spesso oggetto di affermazioni contrastanti in ordine alla sua perdurante utilità nell’ambito del nostro ordinamento, rappresenta, come si è già avuto modo di evidenziare ampiamente in altra sede [19], non solo l’attività necessaria a far sì che il titolo giudiziale o quello notarile esplichino la funzione di titolo esecutivo, ma anche la sede in cui il pubblico ufficiale all’uopo deputato esercita un controllo che, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, non può essere qualificato come un mero controllo formale, svolgendo, invece, un ruolo ben più significativo e pregnante.
È alla luce della consapevolezza delle funzioni che la spedizione in forma esecutiva assolve nel nostro ordinamento che va analizzato l’intervento previsto dalla legge di riforma in commento, analogamente a quanto avvenuto in merito a recenti interventi legislativi legati all’emergenza sanitaria da Covid -19, con riguardo alle copie telematiche delle copie esecutive.
5.1. La disciplina vigente
Gli artt. 475, 476 c.p.c. e 153 e 154 disp. att. c.p.c., c.p.c. disciplinano la cd. spedizione in forma esecutiva, formalità prevista per i titoli di formazione giudiziale nonché per gli atti pubblici, non invece per i titoli di credito e - stando al dettato normativo - per le scritture private autenticate il cui originale è di regola in possesso delle parti [20]. Per questi titoli, la spedizione in forma esecutiva è, i«nfatti, sostituita dall’obbligo di trascrizione integrale nell’atto di precetto ai sensi dell’art. 480, comma 2, c.p.c.
Di recente quest’istituto è stato fatto oggetto di attenzione da parte del legislatore alla luce di quanto previsto dal comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020, con il quale, al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto, si è prevista la possibilità che la copia esecutiva dei titoli giudiziali di cui all’articolo 475 c.p.c. possa essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico, previa istanza, da depositare in modalità telematica, della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento [21].
5.2. La funzione della spedizione in forma esecutiva secondo la dottrina e la giurisprudenza
È controverso quale sia la funzione della spedizione in forma esecutiva e, soprattutto, l’effettiva rilevanza della stessa nell’ambito del nostro ordinamento.
In dottrina[22], in più occasioni, e talvolta anche in giurisprudenza[23], si è ritenuto che l’apposizione della formula esecutiva rappresenti un relitto storico, anche facendo leva sulle origini di quest’istituto, afferenti ad epoca in cui l’esecuzione non era attribuita al potere giurisdizionale, bensì a quello amministrativo[24].
Nondimeno, non sono mancate voci autorevoli che conferiscono all’istituto in esame un ruolo particolarmente pregnante, ritenendo che «prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio»[25]. Recentemente queste voci hanno trovato eco, ancorché in modo tanto parziale da non rispecchiarne il senso, in una pronuncia della Corte di legittimità[26], la quale, da un canto, ha conferito fondamentale rilievo alla spedizione in forma esecutiva quale istituto che assegna efficacia esecutiva al titolo, d’altro canto ha qualificato i vizi come motivi di opposizione agli atti esecutivi.
A fronte di queste due impostazioni contrapposte, si riscontra, infine, un’ulteriore impostazione dottrinale che, pur non riconoscendo alla spedizione in forma esecutiva il ruolo di conferire esecutività al titolo, ritiene comunque che la stessa riveste «tuttora importanti funzioni» [27]. Si è ritenuto, in particolare, che la «funzione della spedizione in forma esecutiva è estremamente importante: tale funzione non risiede nella solenne formula esecutiva richiesta dall’art. 475, comma 3, c.p.c. (alla quale la dottrina concordemente riconosce valenza di “residuo storico”, privo ormai di ogni effettivo significato), ma piuttosto nell’esigenza di “contrassegnare” il documento al quale si attribuisce la funzione di attivare l’esecuzione forzata, e che - secondo un’incisiva metafora – “incorpora” l’azione esecutiva, alla stessa stregua del titolo di credito che incorpora il diritto di credito»[28].
5.3. Le incertezze interpretative registratesi nel corso del tempo in merito alla tipologia e al controllo in sede di spedizione in forma esecutiva
Non sussiste uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza, neanche in ordine alla tipologia e ai confini del controllo esercitabile da parte del pubblico ufficiale in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva.
Più in particolare, non risulta pacifico quale sia esattamente l’ambito del controllo richiesto al pubblico ufficiale in sede di rilascio della copia esecutiva, né tantomeno è chiaro se sussista una piena uniformità fra il controllo che compete al cancelliere con riferimento ai titoli esecutivi giudiziali[29] e quello che compete al notaio con riferimento agli atti dallo stesso ricevuti[30].
Significative incertezze si registrano in giurisprudenza.
Secondo l’orientamento più volte affermato dalla Corte di legittimità, l’apposizione della formula esecutiva attiene ai requisiti di regolarità formale del titolo esecutivo in senso documentale e non costituisce, al contrario, elemento essenziale per il dispiegarsi di un’efficacia esecutiva che è già interna al titolo[31]. Ulteriore funzione della spedizione in forma esecutiva, sottolineata in altra pronuncia, è quella di assicurare che un pubblico ufficiale eserciti il controllo, nel momento della spedizione del titolo, sulla legittimazione all’azione esecutiva da parte di colui a favore del quale è richiesta l’apposizione della formula esecutiva[32].
Più in dettaglio, alla luce della lettura congiunta della norma di cui all’art. 153 disp. att. c.p.c. con le norme sulle opposizioni esecutive, la giurisprudenza, nel corso del tempo, ha ritenuto che il pubblico ufficiale debba verificare se l’atto abbia i requisiti indicati nella formula, senza sindacarne il contenuto o l’efficacia[33]. Si tratterebbe, pertanto, di un controllo dal carattere meramente formale, come confermato dal fatto che la denuncia dell’errata apposizione della formula esecutiva configura un’ipotesi di opposizione ex art. 617 c.p.c. allorquando si faccia riferimento solo alla correttezza della spedizione del titolo in forma esecutiva, richiesta dall’art. 475 c.p.c., poiché in tal caso l’indebita apposizione della formula può concretarsi in una irregolarità del procedimento esecutivo o risolversi in una contestazione della regolarità del precetto ai sensi del primo comma dell’art. 617 c.p.c.[34]
Viceversa, allorché la denuncia sia motivata dalla contestazione dell’inesistenza del titolo esecutivo ovvero dalla mancata soddisfazione delle condizioni perché l’atto acquisti l’efficacia di titolo esecutivo, l’opposizione deve qualificarsi come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.[35]. Anche i profili relativi all’adempimento dell’obbligo consacrato nel titolo esecutivo trovano la loro sede nell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.
In senso singolare, rispetto a questi orientamenti, si è posta una recente pronunzia della Corte di legittimità, secondo la quale non è condivisibile la tesi dell’irrilevanza della spedizione in forma esecutiva affinché un atto possa valere come titolo esecutivo, ma è preferibile la tesi per cui la spedizione è una delle condizioni dell’azione esecutiva[36]. Questa pronuncia, benché sembri evocare (soltanto) testualmente una nota concezione[37] sulla spedizione in forma esecutiva, in verità ne muta il senso e i confini nella parte in cui articola il controllo da effettuarsi in sede di spedizione esecutiva e qualifica il vizio relativo alla irregolarità della spedizione in forma esecutiva.
5.4. L’acuirsi delle incertezze interpretative, sul versante della spedizione in forma esecutiva, derivanti dall’affermarsi del documento informatico
L’esigenza di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata è stata messa in crisi, negli ultimi anni, dall’affiancarsi al tradizionale documento cartaceo - su cui è incentrata la disciplina del codice di rito civile in tema di titolo esecutivo -, del documento informatico.
Inevitabilmente, una disciplina incentrata sulle tradizionali figure di documento e di copia cartacea solleva problematiche, tanto di ordine sistematico, quanto di ordine pratico-operativo, ove sia trasfusa in un differente contesto contraddistinto dal ricorso anche a documenti e copie non cartacei, che, a differenza del documento cartaceo, non nascono come esemplari unici.
Non a caso, si è ritenuto che, dopo l’entrata in vigore del cd. codice dell’amministrazione digitale e del processo telematico, la distinzione fra originale e copia «perde la tradizionale rilevanza … in quanto la copia di un file è di fatto identica all’originale» e che l’impossibilità di distinguere fisicamente l’originale dalla copia rischia di «rendere ormai residuali anche adempimenti formali tradizionali, quali, ad esempio, quelli relativi alla apposizione della formula esecutiva»[38].
Questa problematica è stata acuita dall’introduzione, nel nostro ordinamento, di una norma di carattere generale avente ad oggetto le copie informatiche di atti processuali (ossia l’art. 16-bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012) nonché dalle relative prassi applicative diffusesi presso i Tribunali specie in seguito all’insorgenza della emergenza epidemiologica.
La delicatezza di questa problematica è stata però accresciuta in modo dirompente dall’intervento del legislatore di cui al comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020, sopra richiamato, con il quale, al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto, si è prevista la possibilità che la copia esecutiva dei titoli giudiziali di cui all’articolo 475 c.p.c. possa essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico previa istanza, da depositare in modalità telematica, della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento.
Si tratta, come precedentemente evidenziato[39], di una norma circoscritta ai soliti titoli giudiziali, in forza della quale non viene meno la competenza esclusiva del cancelliere in tema di controllo e spedizione del titolo in forma esecutiva, che ha carattere transitorio (essendo stata introdotta dal legislatore per fronteggiare l’emergenza epidemiologica) e non già una portata di ordine sistematico e stabile nel tempo.
Ciò nonostante, non è mancato chi, nel commentare la disposizione in esame, ha ritenuto che «l’opportunità introdotta dall’art. 23 “Decreto Ristori” non è, in ultima analisi, legata alla contingenza, ma scandita dall’evoluzione stessa dell’ordinamento e del processo»[40].
Indubbiamente, come già precisato in altra sede[41], esiste un’esigenza di lungo periodo di contestualizzare la disciplina del codice di rito civile in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva, chiaramente incentrata sulla tradizionale figura di documento cartaceo, nell’ambito di un rinnovato contesto (anche) processuale in cui, accanto al documento cartaceo, ha trovato sempre più spazio il documento informatico.
Nondimeno, non sussiste in via di principio un’incompatibilità di fondo fra l’attuale disciplina del codice di procedura civile nella parte in cui vuole evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice che siano tali da scongiurare il suddetto rischio.
Una cosa è, in altri termini, l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, detta disciplina debba essere necessariamente rivista nel senso di ridimensionare o eliminare radicalmente l’istituto della spedizione in forma esecutiva.
5.5. La rilevanza del controllo esercitato in sede di spedizione in forma esecutiva
In forza di un’ampia indagine di recente condotta [42], prendendo le mosse proprio dalla suddetta evoluzione (dottrinale, giurisprudenziale e normativa) e dalle relative incertezze determinatesi sia sul piano teorico – sistematico, sia sul piano pratico – operativo, è possibile sinteticamente evidenziare quanto segue con riferimento alle funzioni che la spedizione in forma esecutiva assolve nel nostro ordinamento e al controllo in tal sede esercitato dal pubblico ufficiale.
L’analisi effettuata ha consentito di contestualizzare e ridimensionare il significato delle affermazioni talvolta effettuate dalla dottrina più risalente nel tempo nel senso di considerare la spedizione in forma esecutiva un mero relitto storico. Trattasi, infatti, di affermazioni che trovano spesso la loro ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali.
Al fine di cogliere la funzione della spedizione in forma esecutiva, in questa prospettiva di ricerca, si è rimarcata la necessità di considerare la scelta effettuata dal nostro ordinamento il quale, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, non subordina l’instaurazione del processo esecutivo ad un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo esecutivo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata, essendo, invece, previsto (artt. 475 c.p.c. e 153 disp. att. c.p.c.) solo un controllo rimesso al cancelliere o al notaio (a seconda che a fondamento della pretesa esecutiva sia posto un titolo giudiziale o stragiudiziale), cui si affianca un ulteriore controllo attribuito all’ufficiale giudiziario, che (in forza del combinato disposto degli artt. 60, n. 1, c.p.c. e 108, 2° co., d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229 t.u. sull’ordinamento degli ufficiali giudiziari) può legittimamente rifiutare l’esecuzione forzata richiestagli.
Queste brevi considerazioni: per un verso, implicano che il nostro ordinamento considera come fisiologica la possibilità che il diritto di procedere ad esecuzione forzata non sussista al momento dell’instaurazione del processo esecutivo e che ciò possa essere accertato in sede giurisdizionale solo a fronte di un’apposita iniziativa in tal senso del soggetto a ciò interessato nelle forme dell’opposizione (all’esecuzione o agli atti esecutivi); per altro verso, manifestano l’importanza del controllo esercitato (o esercitabile) in sede di spedizione in forma esecutiva, nel senso di deflazionare il contenzioso, sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo.
L’indagine storica, sistematica e teleologica della spedizione in forma esecutiva ha consentito di sottolineare che la spedizione del titolo in forma esecutiva, non svolge nel nostro ordinamento la sola funzione di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata, e dunque di evitare la possibile instaurazione di una pluralità di processi esecutivi in forza del medesimo titolo, rappresentando anche la sede istituzionalmente deputata a consentire l’effettuazione di un controllo da parte del cancelliere o del notaio a seconda della differente tipologia di titolo esecutivo che venga in rilievo. Un controllo che si inserisce oggi in uno scenario mutato rispetto a quello vigente al tempo della codificazione, contraddistinto dall’accresciuta importanza dei titoli esecutivi stragiudiziali, e nella specie notarili, oltre che dalla complessità delle relazioni economiche, che acuisce la complessità dell’indagine richiesta ai fini della spedizione del titolo in forma esecutiva: dal punto di vista oggettivo, sotto il profilo sussistenza di un’obbligazione suscettibile di essere eseguita nelle forme dell’esecuzione forzata; dal punto di vista soggettivo, sotto il profilo della legittimazione ad ottenere la copia esecutiva ex art. 475 c.p.c. Conseguentemente, ogni valutazione in ordine all’attuale rilevanza nel nostro ordinamento dell’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva è inscindibilmente legata al ruolo effettivamente svolto da questo controllo nel nostro ordinamento.
All’esito di tale indagine è, dunque, parso evidente come ci troviamo dinanzi, non ad un mero relitto storico, bensì ad un istituto che, così come attualmente disciplinato ovvero adeguatamente riformato, costituisce o può costituire una preziosa risorsa per circoscrivere il rischio di instaurazione di processi esecutivi illegittimi o infondati, a tutto beneficio del soggetto altrimenti destinato a subire un’esecuzione illegittima o “ingiusta” e della deflazione del carico giudiziario (che si coglie, nel caso di specie, non solo sotto il profilo della instaurazione del processo esecutivo, ma anche delle invitabili parentesi cognitive destinate ad ospitare l’accertamento della fondatezza delle doglianze del debitore esecutato).
Più in particolare, quanto meno con riferimento al controllo rimesso al notaio, non ci troviamo di fronte ad un controllo meramente formale, sia dal punto di vista soggettivo, sia dal punto di vista oggettivo del diritto cristallizzato nel titolo.
Dal punto di vista soggettivo del diritto consacrato nel titolo appare difficilmente contestabile che il controllo di cui si discute:
- per un verso, non sia un mero controllo formale, essendosi da più parti evidenziato come ci troviamo di fronte ad un controllo penetrante, o che non si può comunque esaurire in un mero controllo cartolare nell’ipotesi in cui la spedizione del titolo venga effettuata in favore (non della parte ma) del successore, specie laddove si ritenga necessario fornire la prova della successione;
- per altro verso, elevi la certezza del diritto consacrato nel titolo in quanto, in tal caso, con l’apposizione della formula si integrano i riferimenti del titolo, attraverso l’individuazione di un diverso soggetto avente diritto di procedere all’esecuzione a seguito di un evento che determina una successione nel diritto e nel titolo.
Dal punto di vista oggettivo del diritto consacrato nel titolo, ci troviamo di fronte ad un controllo che non si è mai esaurito in un mero controllo formale, circoscritto cioè alla sola forma dell’atto. Si è, invece, sempre trattato di un controllo esteso anche al contenuto dell’atto. Più in dettaglio, pur escludendosi dai più che detto controllo debba spingersi sino a verificare la sussistenza di un diritto certo, liquido ed esigibile (cd. esecutività in concreto), è stato comunque sempre effettuato un penetrante controllo sulla conformazione dell’obbligazione. Inoltre, in relazione a fattispecie particolarmente controverse si è elevata la certezza del diritto consacrato nel titolo ricorrendo al cd. titolo esecutivo complesso.
È alla luce di queste riflessioni che si è considerato come l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva, proprio in quanto strettamente connesso al controllo preventivo esercitabile rispetto all’instaurazione del processo esecutivo, non può essere semplicisticamente archiviato come un relitto storico, così come non si può ritenere che si tratti di un istituto superato in quanto inscindibilmente legato alla natura cartacea del titolo o della copia, essendo piuttosto ben compatibile anche con un documento non avente consistenza cartacea.
In definitiva, ci troviamo di fronte ad un controllo che, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo, non può essere qualificato come un mero controllo formale e che svolge, invece, un ruolo ben più significativo e pregnante nel nostro ordinamento in quanto, pur muovendosi sul piano del contenuto dell’atto, contribuisce ad elevare il livello di certezza di esistenza del diritto consacrato nel titolo e, dunque, anche a ridurre il rischio che questo sia contestato attraverso l’instaurazione di un giudizio oppositivo. In altri termini, svolge un ruolo di “filtro di accesso” alla tutela esecutiva e di deflazione del contenzioso nell’ambito di un ordinamento come il nostro che, a differenza di altri ordinamenti, è privo di un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata.
5.6. L’intervento previsto dalla legge di riforma
L’art. 12, lett. a) prevede che per valere come titolo per l’esecuzione forzata le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti dal notaio o da altro pubblico ufficiale, devono essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e le altre disposizioni legislative che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva.
Nelle “proposte normative e note illustrative” della “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” si invocano, a fondamento della proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva:
- la dottrina secondo la quale “la formula esecutiva è un requisito la cui utilità è scarsamente comprensibile”;
- la giurisprudenza di legittimità che interpreta l’art. 475 c.p.c. nel senso di “escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo” e che ha di recente ulteriormente indebolito la rilevanza della formula esecutiva ritenendo da un lato, che “l’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina un’irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 c.p.c.”; dall’altro lato, che il debitore non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato”;
- la disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – che renderebbe “vieppiù superflua la normativa codicistica”.
5.7. Valutazione della riforma
La legge di riforma suscita molte perplessità, sia per l’epilogo cui giunge, sia per le motivazioni ad esso sottese.
Le motivazioni di cui alla Relazione illustrativa appaiono del tutto censurabili.
In primo luogo, non può assolutamente dirsi pacifica l’affermazione che tende a svalutare l’importanza della spedizione in forma esecutiva.
Come già evidenziato, è assai controversa, in dottrina e giurisprudenza, la funzione della spedizione in forma esecutiva e l’affermazione secondo cui ci troveremmo di fronte ad un “relitto storico”: è spesso ripetuta in modo tralaticio nel corso del tempo; trova, in realtà, la sua ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali, con particolare riguardo all’evento rivoluzionario relativo all’introduzione della cambiale e al fenomeno della cd. alla interiorizzazione della forza esecutiva[43].
Invero, spesso le obiezioni della dottrina a quest’istituto sono state talvolta incentrate, non sull’istituto in sé e sul controllo che può essere deputato a salvaguardare, bensì sulle modalità di attuazione dello stesso e, in particolare, sulla formula di cui all’art. 475 c.p.c.
In secondo luogo, la pronuncia della corte di legittimità invocata a fondamento dell’abrogazione dell’istituto, non solo si inserisce in un panorama giurisprudenziale che non può dirsi pacifico, ma soprattutto è apparsa intrinsecamente contraddittoria nella parte in cui: da un canto, ha conferito fondamentale rilievo alla spedizione in forma esecutiva quale istituto che assegna efficacia esecutiva al titolo - riprendendo quasi testualmente la nota impostazione dottrinale che attribuisce alla spedizione del titolo in forma esecutiva la rilevanza di condicio iuris per l’esercizio dell’azione esecutiva -; d’altro canto ha sminuito la rilevanza della spedizione del titolo in forma esecutiva sotto il profilo della sua eventuale omissione e della tipologia del vizio deducibile in sede di opposizione (oltre che delle condizioni cui sarebbe subordinata detta deducibilità).
In terzo luogo, non sussiste alcuna incompatibilità di fondo fra la disciplina del codice di rito civile nella parte in cui mira ad evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie, rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice, tali da scongiurare il suddetto rischio (così come si è tentato di fare in sede di riforma della legge notarile, con l’art. 68 bis, in relazione al possibile rilascio in via telematica della copia esecutiva da parte del notaio); una cosa è l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, l’istituto della spedizione in forma esecutiva sia stato sostanzialmente abrogato o debba essere comunque necessariamente abrogato
Da quanto osservato emerge il rischio evidente della scelta di abrogare l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva al fine di semplificare l’iter che precede l’instaurazione del processo esecutivo: pagare un prezzo molto alto in termini di aumento dei giudizi oppositivi, posto che detto controllo, quanto meno con riferimento ai titoli di formazione stragiudiziale - e, segnatamente, con riferimento a quelli di formazione notarile -, non è stato mai inteso come un mero controllo formale circoscritto alla sola forma dell’atto, bensì come un controllo ben più penetrante che, seppur incentrato sul contenuto dell’atto, ha sempre contribuito ad accrescere la certezza del diritto consacrato nel titolo.
Né si può immaginare che il controllo attualmente effettuato dal notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva possa essere effettuato dall’ufficiale giudiziario in sede di legittimo rifiuto a procedere all’esecuzione forzata richiestagli, ossia l’unico controllo antecedente rispetto all’instaurazione del processo esecutivo che sopravvivrebbe all’esito della suddetta riforma[44].
In definitiva, per i motivi già ampiamente evidenziati in altra sede [45], non appare azzardato ritenere che, de iure condendo, la direzione corretta da imboccare non sarebbe stata quella di eliminare la spedizione del titolo in forma esecutiva, ma quella di valorizzare detto istituto facendolo divenire la sede per un controllo più penetrante sul titolo esecutivo, così eliminando, per un verso, i dubbi attualmente esistenti in ordine alla delimitazione dei confini del controllo esercitabile in detta sede e così accrescendo, per altro verso, la certezza del diritto consacrato nel titolo, con evidenti effetti in termini di deflazione del contenzioso (sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo).
6. La riduzione dei termini ex art. 567 c.p.c.
La legge di riforma prevede una generale riduzione dei termini per il deposito della certificazione ipocatastale, nonché del certificato notarile sostitutivo[46], con l’intento di rendere più celere la fase introduttiva della procedura esecutiva immobiliare.
6.1. La disciplina vigente
La disciplina in materia di termini per il deposito della documentazione suddetta, necessaria ai fini di ottenere l’autorizzazione alla vendita, ha subito diverse modifiche nel corso del tempo.
La legge 3 agosto 1998, n. 302 aveva previsto il termine di sessanta giorni per il deposito della documentazione ipocatastale o del certificato notarile sostitutivo, ritenuto allora troppo breve ad opera di parte della dottrina[47].
In forza delle innovazioni apportate dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, il termine in questione era stato fissato in centoventi giorni decorrenti dal deposito dell’istanza di vendita, prorogabili per un sola volta fino a ulteriori centoventi in presenza di “giusti motivi”, su richiesta dei creditori o dell’esecutato[48].
La disciplina attualmente vigente costituisce il frutto dell’intervento novellatore attuato con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (convertito in L. n. 132/2015), che ha dimezzato i termini relativi sia al deposito del ricorso e alla documentazione sopra indicata, sia alla proroga richiesta che diviene, in entrambi i casi, di sessanta giorni.
In caso di mancato deposito o mancata integrazione, il giudice, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza, dopo aver sentito le parti, l’inefficacia del pignoramento limitatamente a tali beni, ordinando, altresì, la cancellazione della trascrizione; è, invece, dichiarata l’estinzione dell’intera procedura nei soli casi in cui non vi siano altri beni pignorati.
6.2. L’intervento previsto in ordine all’art. 567 c.p.c. dalla legge di riforma
La lett. c) del comma 12 richiede al legislatore delegato di attuare una riduzione del termine per depositare la documentazione ipotecataria e catastale di cui al comma secondo dell’art. 567 c.p.c., riduzione che viene quantificata in quindici giorni, decorrenti dal deposito dell’istanza di vendita.
Per l’effetto si allineerebbe detto termine a quelli previsti dagli artt. 497 c.p.c., in tema di cessazione di efficacia del pignoramento, e 501 c.p.c., in tema di termine dilatorio del pignoramento.
A questo profilo è correlata la previsione di cui alla lett. d) dell’art. 12, che prevede la collaborazione del custode con l’esperto nominato ex art. 569 c.p.c. per meglio effettuare le verifiche sulla completezza della documentazione ipotecaria e catastale.
Questa previsione trova un significativo riscontro nelle linee guida elaborate dal CSM[49], ove viene rimarcata la rilevanza, nell’interesse della procedura esecutiva, di una stringente collaborazione tra esperto stimatore e custode. Come si osserverà analizzando le previsioni della legge di riforma in tema di custodia, infatti, alla luce delle distinte professionalità tanto del custode quanto dell’esperto, secondo le richiamate linee guida, «il controllo della documentazione appare più esauriente nella misura in cui stimatore e custode sommino i rispettivi angoli di visuale nella prospettiva di una verifica coordinata e simultanea»[50].
6.3. Valutazione dell’intervento previsto nella legge di riforma
Nei circoscritti confini del presente contributo basti evidenziare come, nonostante l’emergere negli ultimi anni di talune problematiche, anche significative, in tema di contenuti e funzione della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., la scelta del legislatore di cui alla l. n. 206/2021 è quella di effettuare solo un intervento minimale, ossia la suddetta riduzione del relativo termine di deposito. Peraltro, secondo il richiamato parere del CSM[51], la norma rischia di imporre al creditore un termine difficile da rispettare per gli adempimenti previsti dall’art. 567, co. 2, c.p.c., ed è prevedibile che i creditori ricorreranno spesso all’istanza di proroga del termine per giusti motivi ai sensi dell’art. 567 c.p.c. Occorrerebbe, secondo detto parere, valutare la possibilità di introdurre un termine più lungo o, quantomeno, di far decorrere lo stesso dalla ricezione, dal creditore, dell’atto di pignoramento notificato.
7. Le modifiche in tema di delega delle operazioni di vendita forzata
La legge di riforma in esame presenta diverse modifiche in relazione all’istituto della delega delle operazioni di vendita, che ha già subito, nel corso degli ultimi anni, già svariati interventi modificativi, talvolta anche di grosso impatto, per lo più accomunati dall’intento di potenziare un istituto (estendendone l’ambito di applicazione, sia da punto di vista dei soggetti delegabili, che delle attività delegabili) che ha indubbiamente contribuito, sin dai primi riscontri applicativi, a rendere più efficiente il processo di espropriazione forzata.
Ciò nonostante, come segnalato in dottrina[52] con riguardo alle prospettive de iure condendo, ancora residuano diversi margini di intervento per potenziare ancor di più l’istituto in esame, solo alcuni dei quali, come si vedrà, sembrano essere stati considerati dalla legge di riforma in commento.
Per una migliore lettura ed analisi delle modifiche contenute nella legge di riforma si esamineranno, in successione, le previsioni attinenti:
- all’istituto della delega;
- al controllo sugli atti del professionista delegato;
- al progetto di distribuzione.
7.1. Evoluzione dell’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata
L’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata ha subito una straordinaria evoluzione normativa.
Le sue origini si devono all’elaborazione scientifica di autorevole dottrina[53], fatta oggetto di un significativo dibattito dottrinale soprattutto in occasione di un importante convegno promosso ed organizzato dal Consiglio Nazionale del Notariato[54], i cui lavori costituirono il punto di riferimento del progetto di legge da cui scaturì la legge 3 agosto 1998 n. 302. Ancor prima di quest’espresso riconoscimento legislativo, peraltro, l’istituto della delega delle operazioni di vendita aveva già trovato riscontro nella prassi di taluni Tribunali [55], seppur con una portata più circoscritta di quella che sarebbe stata poi fatta propria dal legislatore di cui alla legge n. 302/98.
Nel sistema della legge 3 agosto 1998, n. 302 si inquadrava l’istituto nella nozione di delegazione intersoggettiva ad efficacia esterna nel diritto pubblico[56]. Sotto la vigenza della predetta legge, la tesi prevalente, peraltro, inquadrava il notaio delegato quale sostituto, non solo del giudice dell’esecuzione ma dell’ufficio giudiziario nel suo complesso, che continuava a svolgere la propria funzione notarile, nella quale è insita una funzione latamente processuale, con conseguente necessità di fare applicazione delle norme sulla legge notarile e non di quelle sugli ausiliari del giudice ai fini di una serie di problematiche[57].
I benefici che questo istituto ha arrecato al processo espropriativo, sia in ordine ai tempi dello stesso sia in ordine ai risultati conseguiti, hanno indotto il legislatore, con le riforme del 2005, ad ampliare tanto le attività quanto le categorie di soggetti delegabili. In tal guisa, tuttavia, è stato configurato un istituto diverso da quello ab origine disciplinato dalla legge 3 agosto 1998, n. 302: questo istituto, infatti, ha attualmente ad oggetto un’intera fase del processo di espropriazione forzata e comporta l’attribuzione al professionista delegato anche di attività riconducibili nell’attività di ius dicere. Inoltre, per effetto di questa riforma[58], il legislatore ha compiuto un decisivo passo verso un progressivo e sempre più esteso trasferimento all’esterno degli uffici giudiziari di funzioni lato o stricto sensu giurisdizionali.
Più in particolare, le riforme del 2005 hanno profondamente mutato la natura dell’istituto in esame, determinando, da un canto, un ampliamento delle categorie di soggetti delegabili (non più solo notaio, ma anche avvocati e commercialisti) e, conseguentemente l’impossibilità di invocare l’impianto normativo riferito solo al notaio; d’altro canto, un ampliamento delle attività delegabili, ritenute non più solo di giurisdizione in senso lato, ma anche di giurisdizione in senso stretto (si pensi, in particolare, alla valutazione delle offerte di cui all’art. 572 c.p.c.)
Si è in particolare osservato che l’operare della figura della cd. «delegazione intersoggettiva ad efficacia esterna» di diritto pubblico sia stato messo in crisi dalla riforma dell’istituto della delega del 2005, la quale avalla, invece, la riconduzione nell’ambito della differente figura della cd. delegazione di giurisdizione[59]. In quest’ottica si qualifica detto istituto, non più in termini di attribuzione di un’attività (sostitutiva e non di mero ausilio di quella del giudice) di mera giurisdizione in senso ampio, ma come attribuzione di un’attività (pur sempre sostitutiva e non di mero ausilio rispetto a quella del giudice) di giurisdizione in senso stretto.
Nel corso del tempo il legislatore ha ancor di più rafforzato l’istituto in esame.
Nel 2015, con il d.l. n. 83, ha disposto l’obbligatorietà della delega ai professionisti delegati delle operazioni di vendita, salvo che il giudice, sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti[60].
Nel 2016, con il d.l. n. 59, ha voluto assicurare la qualità del servizio reso dai professionisti delegati mediante un percorso di qualificazione professionale specifico, novellando in modo significativo la disciplina della selezione e formazione dei professionisti delegabili[61].
7.2. Le prospettive de iure condendo
In dottrina[62] sono stati in più occasioni evidenziati ulteriori margini di intervento, de iure condendo, per rendere l’istituto in esame ancor più funzionale rispetto alle esigenze del processo esecutivo. Ciò, fondamentalmente, in una duplice direzione: da un lato, quella volta a sgravare la magistratura da ulteriori incombenze che potrebbero essere attribuite al professionista delegato nel pieno rispetto del dettato costituzionale; dall’altro lato, quella volta ad assicurare un maggiore controllo sui tempi della procedura, soprattutto facendo leva sulla revoca del professionista che non rispetti (ovviamente per causa a lui imputabile) i termini «intermedi» assegnatigli dal giudice e non solo quello «finale» per il compimento delle operazioni delegate nel suo complesso.
Al fine di conseguire detti obiettivi, si è ritenuto che si dovrebbe intervenire, tanto sui tempi, quanto sui contenuti della delega.
Dal primo angolo prospettico, si è ritenuto che dovrebbe essere anticipato il momento processuale della delega, prevedendo l’obbligo del giudice, a fronte del deposito della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., di nominare immediatamente con decreto non solo l’esperto, ma anche il professionista delegato, il quale dovrebbe interfacciarsi con l’esperto, anche ai fini della determinazione del valore dell’immobile, predisporre l’ordinanza di vendita e l’avviso di vendita ovvero una relazione (al giudice) in ordine ai motivi che ostano alla possibilità di procedere alla vendita.
Dal secondo angolo prospettico, si è ritenuto che dovrebbe essere ampliato il perimetro delle operazioni delegate, riservando al giudice solo taluni snodi essenziali della procedura, assicurando sempre alle parti di avvalersi del reclamo di cui all’art. 591 ter c.p.c. In particolare, si è ritenuto che al professionista delegato dovrebbe essere attribuito in modo espresso il potere di: pronunciare la perdita (in tutto o in parte) della cauzione a causa della mancata partecipazione alla vendita senza documentato e giustificato motivo e di approvare il progetto di distribuzione; disporre l’amministrazione giudiziaria o una nuova vendita (per un prezzo inferiore) ex art. 591 c.p.c.; dichiarare la decadenza dell’aggiudicatario e pronunciare la relativa perdita della cauzione di cui all’art. 587 c.p.c., riservando al giudice la sola pronuncia della condanna al pagamento della differenza tra il prezzo da lui offerto e quello minore per il quale è avvenuta la vendita di cui all’art. 177 disp. att. c.p.c.
Nondimeno, la medesima dottrina[63] ha puntualizzato come, detto ampliamento dei contenuti della delega, comunque conforme al dettato costituzionale, dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione di una più compiuta disciplina, rispetto a quella attuale (sul punto in parte lacunosa ed in parte totalmente assente), in ordine: ai presupposti per la revoca della delega; al relativo iter procedimentale; all’iter procedimentale relativo alla conseguente irrogazione della «sanzione» (della cancellazione dall’albo per il triennio in corso e per quello successivo) e ai possibili rimedi latamente impugnatori esperibili dal professionista «sanzionato», le cui sorti dovrebbero comunque essere mantenute distinte da quelle della procedura esecutiva da cui sono scaturiti, in modo tale che questa non subisca per l’effetto significativi rallentamenti.
7.3. L’intervento riformatore
La lett. i) del comma 12 dell’art. 1 della legge di riforma in commento stabilisce che il legislatore delegato debba rispettare i seguenti principi direttivi:
- «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare ha durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione»;
- «in tale periodo il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi»;
- «il giudice dell’esecuzione esercita una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per esse stabiliti, con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
7.4. Valutazione della legge di riforma
I principi e i criteri previsti dalla legge n. 206/2021 solo in minima parte soddisfano le esigenze di riforma dell’istituto in esame appena più sopra sinteticamente richiamate.
È senz’altro da condividersi la prospettiva di fondo perseguita dal legislatore di potenziare l’istituto della delega, nel solco già tracciato dalle previgenti riforme e novelle.
In particolare, va accolto con favore l’intervento in ordine ai tempi della delega e delle relative operazioni, nonché alla vigilanza da parte del giudice dell’esecuzione con riguardo alle attività delegate.
La revoca della delega e, specularmente, i possibili rimedi esperibili dal professionista delegato, rappresentano profili delicatissimi. Sotto questo profilo, prima di esprimere ogni valutazione di sorta, non può che attendersi l’intervento dei decreti attuativi. Pare però criticabile che la legge di riforma non contempli in modo espresso modifiche in tema di revoca della delega, limitandosi a prevedere la sostituzione del professionista delegato inadempiente.
In ogni caso, giova ribadire la necessità che le sorti della procedura esecutiva, per la migliore funzionalità della stessa, debbano rimanere distinte da quelle relative al procedimento finalizzato alla revoca del professionista delegato, in guisa da evitare significativi rallentamenti della procedura medesima.
Infine, non manca un’obiezione in quanto il legislatore (di là da quanto previsto con riguardo al progetto di distribuzione, su cui vd. infra) potrebbe ancora incidere sull’arricchimento delle funzioni delegate al professionista, nei termini appena più sopra evidenziati. Ciò in quanto, evidentemente, si tratta di prospettiva ancor più significativa e d’impatto, rispetto a quella già fatta oggetto di intervento da parte del legislatore, non solo al fine di rendere le procedure esecutive ancor più celeri ed efficienti, ma anche per sgravare ulteriormente la magistratura dallo svolgimento di determinate attività giurisdizionali che costituiscono parte integrante del processo di espropriazione forzata.
8. Il controllo sugli atti del professionista delegato e in particolare l’impugnazione degli atti del delegato (la previsione del rimedio dell’art. 617, in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.)
Uno dei profili nevralgici dell’istituto della delega attiene ai rapporti tra giudice e professionista delegato e alla stabilizzazione degli atti di quest’ultimo, fondamentale per la stessa stabilità (e dunque appetibilità) della vendita forzata [64].
La disciplina attualmente vigente, malgrado tutti gli sforzi dottrinali e giurisprudenziali, non agevola, però, all’indomani delle riforme del 2015, una rapida definizione delle controversie relative allo svolgimento dell’attività delegata. Con forza, conseguentemente, la dottrina ha auspicato, in più occasioni, un intervento riformatore.
La legge n. 206/2021 prevede una modifica tendente a favorire la stabilizzazione degli effetti degli atti del professionista delegato, anche se non mancano le note critiche.
8.1. La disciplina vigente
Il professionista delegato ha un’ampia autonomia nell’esecuzione della delega e, nel rispetto dei limiti e delle direttive impartite dal giudice dell’esecuzione, risolve tutte le questioni inerenti sia alle difficoltà materiali, sia a quelle di diritto, insorte nel corso dell’esecuzione.
Può tuttavia chiedere l’emanazione di specifiche istruzioni al giudice dell’esecuzione, a norma dell’art. 591 ter c.p.c. ove insorgano difficoltà nel corso delle operazioni di vendita. Ai sensi della stessa norma, inoltre, sia le parti che gli interessati possono proporre reclamo avverso gli atti del professionista delegato. In entrambe le ipotesi, sul reclamo proposto dalle parti, il giudice provvede con ordinanza, a sua volta impugnabile con il reclamo ex art. 669 terdecies. Il ricorso non sospende le operazioni di vendita, a meno che il giudice, concorrendo gravi motivi, disponga la sospensione.
Più in dettaglio, quanto all’ipotesi in cui il delegato chiede istruzioni al giudice dell’esecuzione, il delegato risolve tutte le questioni attinenti alle modalità di svolgimento dell’esecuzione, salvo che non ritenga opportuno chiedere istruzioni al giudice dell’esecuzione[65]. In tal caso il giudice adotta decreto impugnabile con reclamo, dalle parti e dagli interessati, prima che abbiano avuto attuazione le istruzioni impartite, dopodiché esse divengono non più impugnabili [66].
Quanto all’ipotesi in cui le parti e gli interessati propongano reclamo avverso gli atti del delegato, possono farsi valere profili sia di legittimità sia di merito.
8.2. In particolare, il dibattito relativo alla stabilizzazione degli effetti degli atti del delegato e la novella del 2015
Nell’assenza di una previsione legislativa specifica, sono stati profusi sforzi ermeneutici al fine di individuare il termine ultimo per la proposizione del reclamo avverso gli atti del professionista, nell’ottica di una stabilizzazione degli effetti degli atti del delegato[67]. Quest’ultima esigenza, però, risulta trascurata dalla novella del 2015, intervenuta solo sul regime impugnatorio del provvedimento del giudice che decide il reclamo[68].
Prima di questa riforma, sulla scorta del tenore letterale dell’art. l’art. 591 ter c.p.c., si riteneva che detto provvedimento potesse essere impugnato con l’opposizione agli atti esecutivi e che, in caso di mancata proposizione del reclamo, gli interessati potessero impugnare con l’opposizione agli atti esecutivi il decreto di trasferimento, quale atto con cui il giudice dell’esecuzione, recepiti i risultati del procedimento liquidatorio, portava a compimento la vendita forzata; gli atti esecutivi potevano così ritenersi stabilizzati nel momento in cui i potenziali interessati fossero decaduti dal potere di impugnare il decreto di trasferimento[69].
La riforma del 2015[70] ha però stabilito, all’art. 591 ter c.p.c., che avverso il provvedimento del giudice è ammesso il reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies, suscitando notevoli perplessità tra gli interpreti.
La dottrina si è tanto interrogata in merito alla natura di quest’istituto, aspetto di rilievo dirimente per ricostruire la disciplina applicabile[71]. Malgrado gli sforzi profusi, il rimedio prescelto dal legislatore, presumibilmente in ragione della volontà di apprestare un mezzo di gravame più celere[72] che comunque garantisse l’imparzialità[73], si è rivelato inadeguato (anche) a garantire una più sollecita definizione delle controversie afferenti alle attività delegate, oltre a suscitare non poche problematiche di ordine sistematico a fronte del ricorso in ambito esecutivo ad un rimedio introdotto e disciplinato dal legislatore nel differente contesto del cd. procedimento cautelare uniforme.
Le incertezze e le problematiche sollevate dall’intervento del legislatore sono state tali da suscitare anche l’intervento della Corte di cassazione [74].
La Suprema Corte ha ritenuto che l’ordinanza pronunciata dal collegio, ai sensi dell’art. 591 ter c.p.c., ultimo periodo, non ha contenuto decisorio e che questa conclusione è «imposta dall’interpretazione finalistica, da quella letterale e da quella sistematica».
Secondo la S.C., il subprocedimento incidentale di cui si discute, «per il modo in cui è disciplinato, non può che essere ordinatorio e non decisorio. Esso ha la funzione di evitare incagli pratici o vincere le perplessità del professionista delegato, ma non quello di risolvere con efficacia di giudicato questioni di diritto[75]. La natura degli atti “reclamabili” dinanzi al giudice dell’esecuzione e la previsione d’un meccanismo snello e deformalizzato per il controllo del collegio sui provvedimenti del giudice dell’esecuzione rendono evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita». In conformità con questa ratio del meccanismo previsto dall’art. 591 ter c.p.c., è coerente ritenere che «i decreti e le ordinanze pronunciati dal giudice dell’esecuzione ai sensi di tale norma, su istanza del professionista delegato o su ricorso delle parti, costituiscono esercizio di un’attività ordinatoria di impulso, coordinamento e controllo (e non un’attività decisoria finalizzata a risolvere con efficacia di giudicato una questione controversa), giustificata dalla particolare natura del rapporto tra giudice delegante e professionista delegato». Di conseguenza, «anche il controllo del collegio sulle ordinanze emesse del giudice dell’esecuzione in esito al ricorso ex art. 591 ter c.p.c. costituisce un controllo su un’attività ordinatoria, e ne mutua tale natura», così che «anche l’ordinanza collegiale … sarà insuscettibile di statuire su diritti con efficacia di giudicato».
8.3. Problematiche che si acuiscono all’indomani della novella del 2015: stabilità del provvedimento pronunziato in sede di reclamo e possibilità di impugnare l’ordinanza che conclude il relativo procedimento
Le maggiori difficoltà interpretative acuitesi all’indomani della novella del 2015, tuttavia, riguardano la stabilità del provvedimento pronunziato in sede di reclamo e la possibilità di impugnare l’ordinanza che conclude il relativo procedimento.
Secondo parte della dottrina, anche quando la decisione del giudice dell’esecuzione, resa all’esito del reclamo proposto avverso gli atti del delegato, sia stata impugnata con il reclamo di cui all’art. 669 terdecies c.p.c., la successiva decisione del collegio non si stabilizza: il decreto di trasferimento resta impugnabile ai sensi dell’art. 617 c.p.c., non solo per far valere vizi in precedenza non denunziati, ma anche per riproporre doglianze già svolte in sede di reclamo. Questa soluzione interpretativa è motivata, sia in base al regime di impugnabilità del decreto di trasferimento, sia in base alla natura del provvedimento reso dal collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.[76]
Secondo altra dottrina, considerando che la disposizione sul reclamo cautelare è richiamata solo quoad formam, il regime impugnatorio va ricostruito alla stregua della sostanza che la decisione assume in concreto e della sua incidenza o meno su diritti soggettivi: ove incida su diritti soggettivi, acquisterebbe autorità di giudicato, costituendo una sentenza in senso sostanziale, con l’ulteriore risultato di preludere le questioni già sollevate e decise ex art. 669 terdecies[77].
La Corte di legittimità[78], nell’arresto sopra richiamato, alla stregua di un’interpretazione finalistica, letterale e sistematica del rimedio previsto dall’art. 591 ter, ha ritenuto che l’ordinanza collegiale pronunciata all’esito del reclamo avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sia priva di natura decisoria, nonché del carattere della definitività e, dunque, della idoneità a passare in giudicato; pertanto, eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista, e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c., potranno essere fatte valere impugnando ai sensi dell’art. 617 c.p.c. il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Alla luce di questa evoluzione, si è osservato[79] che, vigente l’art. 591 ter c.p.c.:
- la definizione del reclamo di cui all’art. 591 ter c.p.c. che sia stato proposto per contestare la irregolarità formale degli atti del professionista delegato non preclude la successiva impugnabilità dei medesimi atti per le stesse ragioni;
- quantunque il giudice dell’esecuzione o il Tribunale in composizione collegiale abbiano accolto o rigettato il predetto reclamo, gli interessati (parti o altri terzi) possono impugnare il decreto di trasferimento, che sia stato nel frattempo emanato, per far valere i medesimi vizi in precedenza rilevati, quantunque la questione sia stata già esaminata;
- solo la mancata proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi avverso il decreto di trasferimento a cura dei soggetti legittimati realizza la definitiva stabilizzazione degli atti in cui si è articolato il subprocedimento di vendita delegato.
8.4. L’intervento previsto in ordine all’art. 591 ter c.p.c. dalla legge di riforma
La legge di riforma relativa all’art. 591-ter c.p.c. tende a rimediare ai problemi aperti dalla illustrata novella del 2015, che, sebbene animata dallo scopo di velocizzare la procedura, in realtà, come già evidenziato, non solo non ha conseguito detto obiettivo, ma ha al contempo aperto le delicate problematiche interpretative appena più sopra evidenziate.
L’intervento di cui alla legge n. 206/2021 si traduce, più in dettaglio, nella previsione:
- di un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista ai sensi dell’art. 591-ter c.p.c.;
- dell’impugnazione dell’ordinanza con cui il giudice decide il reclamo con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c.
8.5. Valutazione della legge di riforma
Per quanto possa essere destabilizzante per l’operatore del diritto trovarsi di fronte ad un nuovo cambiamento di rotta da parte del legislatore (che continua a legiferare “per tentativi”), la scelta effettuata in tal caso dallo stesso è indubbiamente da salutare con favore, posto che, nell’eliminare in radice tutte le incertezze dottrinali e giurisprudenziali appena più sopra segnalate alimentate dalla novella del 2015 (con la previsione della impugnabilità del provvedimento di decisione del reclamo di cui all’art. 591- ter con il reclamo di cui all’art. 669-terdecies), mira a risolvere al contempo due problemi di fondo che aveva aperto già l’originaria formulazione dell’art. 591-ter con un intervento più chiaro e lineare di quello della novella del 2015; infatti, si prevede: per un verso, un termine per la proponibilità del reclamo di cui all’art. 591-ter; per altro verso, l’impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice decide questo reclamo con l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c., ossia con un rimedio tradizionalmente proprio del processo esecutivo, rispetto al quale è dunque anche più agevole avvalersi di ormai consolidate impostazioni dottrinali e giurisprudenziali.
La scelta effettuata dalla legge delega in esame ha già trovato positivo riscontro nei primi commenti dottrinali intervenuti sul tema.
In particolare, v’è chi ha posto in rilievo come, per effetto del suddetto intervento di cui alla legge n. 206/2021: per un verso, viene salvaguardato il controllo della procedura in capo al giudice dell’esecuzione che – indipendentemente dall’esperimento dell’art. 591 ter c.p.c. – potrà, fino alla pronuncia del decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., revocare l’aggiudicazione per tutti quei vizi capaci di trascendere il singolo segmento del processo esecutivo (e dunque lo sbarramento di fase)[80]; per altro verso, la stabilizzazione degli atti del professionista delegato si realizza in misura analoga a quanto avviene con riferimento agli atti posti in essere dal giudice dell’esecuzione: entrambi, rimarrebbero sanati dal decorso del termine preclusivo di cui all’art. 617 c.p.c. e non potrebbero nel nuovo regime riflettersi più sul decreto di trasferimento, invalidandolo, al di fuori dello schema e dei termini individuati dal legislatore.
Si è finanche ritenuta opportuna, in dottrina[81], l’adozione di una qualifica espressa di perentorietà del termine di venti giorni per la proposizione del ricorso, per allineare – a tutti gli effetti - il regime del futuro art. 591 ter c.p.c. a quello proprio dell’art. 617 c.p.c., evitando così le incertezze segnalate.
Non manca, tuttavia, anche una critica di segno negativo: nulla di nuovo è stato previsto in relazione all’omologo rimedio regolato dall’art. 534-bis c.p.c. per la vendita forzata mobiliare; sarebbe, pertanto, auspicabile che il legislatore, sia per soddisfare analoghe esigenze di stabilità che interessano queste procedure, sia per ragioni di coerenza e di sistema, provvedesse a novellare anche la formulazione dell’ultima disposizione ora richiamata[82].
9. La distribuzione del ricavato
La legge di riforma in esame si propone anche di potenziare lo strumento della delega con una pluralità di interventi fondamentalmente volti:
- ad ampliare i poteri del delegato in sede di distribuzione del ricavato;
- a rendere, in via più generale, più celere ed efficace l’attività del delegato, facendo leva: per un verso, sull’introduzione di un termine per lo svolgimento delle attività delegate (oltre che di un numero minimo di esperimenti di vendita che devono compiersi entro detto termine); per altro verso, sull’introduzione di un obbligo del delegato di presentare una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascun esperimento di vendita; e di un obbligo del giudice di vigilare sull’operato del professionista e sul rispetto dei tempi, nonché di provvedere immediatamente alla sostituzione dello stesso in caso di mancato o tardivo adempimento.
9.1. Disciplina vigente
In sede di riforma del processo esecutivo il legislatore era intervenuto, nel 2005, in modo significativo sull’istituto della delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata e, per quanto interessa in questa sede, anche sulla formazione ed approvazione del progetto di distribuzione.
La tecnica normativa utilizzata è stata, però, così poco felice da sollevare non pochi dubbi interpretativi sulla reale portata delle innovazioni introdotte.
Da un lato, infatti, si sono modificati gli artt. 596 e 598 c.p.c. aggiungendo, nel corpo del testo di entrambi, l’inciso «o il professionista delegato a norma dell’articolo 591-bis» subito dopo il riferimento al giudice dell’esecuzione, così lasciando intendere che si sono voluti attribuire anche al primo quei poteri che in precedenza costituivano prerogativa esclusiva di quest’ultimo.
Dall’altro lato, però, si è lasciato inalterato il disposto dell’originario art. 591-bis n. 7, in forza del quale il professionista provvede «alla formazione del progetto di distribuzione ed alla sua trasmissione al giudice dell’esecuzione che, dopo avervi apportato le eventuali variazioni, provvede ai sensi dell’art. 596»; disposto che sembrerebbe presupporre, all’opposto, che sia ancor oggi riservato in capo al solo giudice dell’esecuzione il potere di approvazione del progetto di distribuzione.
Chiaro il difetto di coordinamento, ed il conseguente contrasto, fra l’art. 591-bis c.p.c. e gli artt. 596 e 598 c.p.c. [83], con il conseguente ricadere sull’interprete il compito di ricondurre a razionalità la materia a fronte di un quadro normativo che, quanto meno astrattamente, apre la via a due possibili opzioni interpretative, e cioè:
a)attribuzione al professionista del (nuovo) compito di (non solo predisporre ma anche) approvare il progetto di distribuzione, in forza dei nuovi artt. 596 e 598 c.p.c.;
b)mantenimento, all’opposto, in capo al professionista del solo potere di predisporre il progetto riservando al giudice quello di approvazione, in forza dell’art. 591-bis (originariamente n. 7 ed ora) n. 12 c.p.c.
Entrambe le suddette opzioni interpretative sono state sostenute in dottrina, la quale dunque, com’era prevedibile, a fronte del contraddittorio quadro normativo in precedenza descritto, si è divisa [84]. Altrettanto dicasi per la giurisprudenza, avendo i giudici adottato ordinanze di delega tendenti a valorizzare l’una o l’altra delle due prospettive di cui sopra.
9.2. Intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Nell’ambito del contesto appena più sopra sinteticamente evidenziato si inserisce l’intervento del legislatore in esame.
L’art. 1 comma 12 lett. m) della legge n. 206/2021 reca testualmente: «prevedere che il professionista delegato procede alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista delegato lo dichiara esecutivo e provvede entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimette le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Chiaro è l’intento del legislatore: sciogliere i dubbi interpretativi aperti dalla riforma del 2005 nel senso di attribuire al professionista delegato, non solo il potere di predisporre il progetto di distribuzione, ma anche di approvarlo, previa audizione delle parti dinanzi allo stesso (e non dinanzi al giudice) così come già attualmente previsto dall’art. 596 c.p.c.
Viene, invece, chiaramente riservata al giudice la risoluzione delle eventuali contestazioni insorte fra le parti.
9.3. Valutazione della legge di riforma
Ci troviamo dinanzi ad un intervento del legislatore quanto mai opportuno, non solo perché tende a superare definitivamente il riferito contrasto dottrinale e giurisprudenziale – come già auspicato in più occasioni [85] -, ma anche perché lo fa nella direzione indicata come preferibile sin dalla riforma del 2005 [86].
Ferma restando la necessità di verificare quanto disporrà il legislatore in sede di attuazione della suddetta disposizione di carattere generale, sulla base di quest’ultima, e di quanto già attualmente previsto dagli artt. 596 e 598 del codice di rito civile, sembrerebbe poter trovare pienamente attuazione quanto già a suo tempo sostenuto [87], seppur sulla base di un impianto normativo non univoco - per i motivi in precedenza evidenziati -.
Il nuovo testo degli artt. 596 e 598 c.p.c. già attribuisce, infatti, al professionista delegato il potere di approvazione del progetto di distribuzione.
Altrettanto dicasi con riferimento al potere attribuito al professionista dal nuovo testo dell’art. 596 c.p.c. di fissare l’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore, previa formazione e deposito in cancelleria del progetto di distribuzione contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano affinché possa essere consultato dai creditori stessi e dal debitore.
Il professionista delegato ben potrà, dunque, procedere a (non solo predisporre ma anche) approvare il progetto di distribuzione ai sensi di quanto previsto dai nuovi artt. 596 e 598 c.p.c., e dunque, più analiticamente:
a) se non può provvedere ai sensi dell’art. 510, primo comma (ossia, nell’ipotesi in cui vi è un solo creditore pignorante, disporre, sentito il debitore, il pagamento in favore del creditore di quanto gli spetta), fissa l’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore, che si terrà dinanzi al medesimo professionista (e non al giudice), ove, ai sensi di quanto previsto dall’art. 598 c.p.c., dovrà:
a1) se il progetto è approvato, anche per effetto della mancata comparizione [88] di cui all’art. 597 c.p.c. [89], o si raggiunge l’accordo tra le parti, darne atto nel processo verbale ed ordinare il pagamento delle singole quote;
a2) se insorgono controversie, ai sensi dell’art. 512 c.p.c., tra creditori concorrenti o tra creditore e debitore circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di diritti di prelazione rimettere la procedura al giudice cui è riservata, secondo le modalità di cui al citato art. 512 c.p.c., la risoluzione di queste controversie.
b) potrà avvalersi eventualmente, in sede di approvazione del progetto, della possibilità di distinguere la graduazione dei creditori dalla liquidazione delle quote ai sensi di quanto disposto dall’art. 179 disp. att. c.p.c., in forza del quale il giudice dell’esecuzione (ed ora anche il professionista delegato) «quando lo ritiene opportuno … può limitare il progetto di distribuzione della somma ricavata di cui all’art. 596 alla sola graduazione dei creditori partecipanti all’esecuzione, salva la liquidazione delle quote spettanti a ciascuno di essi dopo che sia approvata la graduazione».
Al contempo, se si valorizza quella impostazione dottrinale tendente fondamentalmente ad evidenziare una possibile funzione conciliativa svolta dal giudice dell’esecuzione all’udienza di cui all’art. 598 c.p.c., nel senso che l’espressione «si raggiunge l’accordo tra tutte le parti» si riferisce «all’ipotesi nella quale le contestazioni all’inizio sorte siano poi composte» [90], l’intervenuta attribuzione di questa nuova attività al professionista delegato ben può acquisire un significato ancora più pregnante, nel senso che quest’ultimo, non dovrebbe limitarsi a constatare l’eventuale presenza di contestazioni, ma dovrebbe tentare una composizione conciliativa delle stesse, solo all’esito negativo della quale dovrebbe rimettere la procedura al giudice dell’esecuzione affinché questi possa fissare l’udienza di cui all’art. 512 c.p.c. e risolvere le relative controversie secondo le modalità previste da questa norma [91].
10. La custodia: l’anticipazione della nomina del custode terzo e la sinergia con l’esperto stimatore.
La legge di riforma prevede interventi anche in merito al delicato e nevralgico istituto della custodia, il quale, come noto, è stato profondamente modificato nel corso del tempo. In particolare, rispetto all’impostazione originaria del codice di rito, a tale istituto sono state conferite nuove funzioni, al fine di garantire più proficui e solleciti risultati delle procedure esecutive, a vantaggio non solo del ceto creditorio ma anche dello stesso debitore.
10.1. La custodia del bene immobile pignorato: l’evoluzione della disciplina vigente
La custodia del bene immobile pignorato costituisce elemento indefettibile del pignoramento, in ragione della perdita dell’amministrazione del bene da parte del debitore[92].
Secondo il tradizionale insegnamento, alla luce della originaria disciplina codicistica, mentre il pignoramento determina l’insensibilità del bene sub executione agli atti di disposizione compiuti sulla res pignorata, la custodia determina il regime di godimento materiale di questa[93].
Nel corso del tempo, specialmente all’indomani delle riforme attuate con le leggi n. 80 e n. 263 del 2005[94], l’istituto in esame è stato profondamente innovato, con l’obiettivo di rendere la vendita forzata più trasparente, competitiva e aperta al mercato[95]. In particolare, la richiamata riforma, alla luce delle cd. prassi virtuose diffuse presso taluni tribunali[96], ha inteso valorizzare questo istituto attribuendogli anche finalità ulteriori rispetto a quelle tradizionali di mera “conservazione” del bene[97], fondamentalmente riconducibili ad una migliore e più agevole collocazione del bene oggetto di custodia sul mercato [98].
Secondo l’originaria impostazione codicistica, nella gran parte dei casi, il debitore, custode ex lege dei beni pignorati, non veniva sostituito nell’espletamento di tale attività in difetto di una norma che imponesse di procedere in tal senso. Ai sensi dei primi due commi dell’art. 559, rimasti peraltro immutati nel corso del tempo, «col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori, comprese le pertinenze e i frutti, senza diritto a compenso»; nondimeno, in base al secondo comma, primo periodo della medesima norma, «su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, può nominare custode una persona diversa dallo stesso debitore».
Come a suo tempo rilevato in dottrina, però, anche laddove la lettera delle disposizioni in questione è stata conservata identica, ne è mutato profondamente il senso e la portata[99].
In particolare, il legislatore della riforma del 2005-06, da un canto, ha definito le ipotesi in cui occorre disporre la sostituzione del debitore nella custodia dell’immobile e, d’altro canto, ha regolamentato le attività che il custode è tenuto a svolere nell’adempimento della sua funzione.
Più in dettaglio, ai sensi del secondo periodo del secondo comma, aggiunto con le riforme del 2006, «il giudice provvede a nominare una persona diversa quando l’immobile non sia occupato dal debitore»[100].
Ancor più incisivamente dette riforme hanno introdotto due ipotesi espresse di nomina d’ufficio del terzo custode.
Un’ipotesi di nomina d’ufficio riguarda la sostituzione del debitore nella custodia prima dell’autorizzazione della vendita e ricorre allorquando il custode si renda inadempiente agli obblighi che gravaano su di lui[101].
Altra ipotesi di nomina d’ufficio del terzo custode ricorre quando si giunga alla fase di vendita[102]. In tal caso, infatti, il debitore/custode deve essere obbligatoriamente sostituito con l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione autorizza la vendita e dispone la delega. Come rimarcato in dottrina, con l’apertura della liquidazione, la custodia di un soggetto terzo in sostituzione del debitore va sempre disposta d’ufficio (e salvo casi particolari e residuali in cui non sia ritenuta utile), in quanto è in questa fase che si esplica il cuore dell’attività tipica della custodia in espropriazione immobiliare, volta ad agevolare la migliore vendita possibile in funzione della maggiore soddisfazione del credito[103].
L’articolo 559 c.p.c. si chiude prevedendo che i provvedimenti relativi alla nomina (o revoca o sostituzione) della custodia non sono impugnabili.
Può concludersi questo excursus rilevando che, come a suo tempo rilevato in dottrina, all’esito delle riforme del 2006, «la disciplina della custodia dei beni immobili pignorati appare profondamente diversa da quella tradizionale; ma, in realtà, essa rispecchia una diversa concezione della vendita forzata, intesa non più come strumento sanzionatorio del debitore, ma come valida via per realizzare la garanzia patrimoniale»[104].
10.2. Le buone prassi come caldeggiate dalle linee guida del Consiglio Superiore della Magistratura
Nel corso del tempo, in tema di custodia, si sono diffuse delle prassi presso i Tribunali, recentemente caldeggiate dal Consiglio Superiore della Magistratura[105], finalizzate a valorizzare al massimo grado le risorse umane e materiali concretamente adoperabili.
Si è sperimentata la possibilità di ricorrere in via sistematica alla delega al perito e al custode, nominati entrambi già al momento della fissazione dell’udienza, ex art. 569 c.p.c., affinché si occupino, in sinergia, dell’esame della documentazione, che riveste assoluto rilievo.
In particolare, in dette linee guida è stata ritenuta condividibile la prassi, invalsa in diversi uffici giudiziari, tesa ad anticipare la nomina del custode giudiziario al momento della designazione dell’esperto, salvaguardando la contestualità delle investiture nei due incarichi e la susseguente sinergia nell’espletamento delle relative attività. Detta opzione operativa si mostra, in rapporto alle alternative praticabili, idonea a produrre il miglior rapporto tra risultati ottenuti e mezzi impiegati, posto che ad un incremento limitato di costi (per i compensi del custode ausiliario per il quale si accelera la assegnazione dell’incarico) fa da contraltare la maggior fluidità impressa alla procedura, nella quale si isolano, a monte, le possibili criticità e si predispone la strada per le successive fasi.
Le linee guida elaborate dal CSM hanno altresì rimarcato, come si è già avuto modo di anticipare, l’importanza di una stringente collaborazione tra esperto stimatore e custode in quanto «il controllo della documentazione appare più esauriente nella misura in cui stimatore e custode sommino i rispettivi angoli di visuale nella prospettiva di una verifica coordinata e simultanea». La ragione di quest’assunto si coglie nelle distinte professionalità che connotano le figure in questione: mentre - si legge in detta circolare - l’esperto è il soggetto maggiormente avvezzo ai risvolti dell’inventariazione, della classificazione e della descrizione estimativa, censuaria, planimetrica dei beni, il custode ha la professionalità adeguata onde cogliere le implicazioni legali salienti della connotazione catastale e urbanistica dei beni e dei diritti che prima facie vi insistano[106].
10.3. La previsione della legge di riforma
La legge di riforma, alla lett. e) stabilisce che, nell’esercizio della delega, si debba prevedere che: «il giudice dell’esecuzione provvede alla sostituzione del debitore nella custodia nominando il custode giudiziario entro quindici giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile, contemporaneamente alla nomina dell’esperto di cui all’articolo 569 del medesimo codice, salvo che la custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o amministrazione del bene ovvero per la vendita».
La lettera d) prevede che: «il custode di cui all’articolo 559 del codice di procedura civile collabori con l’esperto nominato ai sensi dell’articolo 569 del codice di procedura civile al controllo della completezza della documentazione di cui all’articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile».
10.4. Valutazione della riforma
Emerge con evidenza, alla luce di quanto appena più sopra anticipato, che la riforma prevista recepisce le cd. “buone prassi” di cui alla delibera del CSM del 2017, tanto in ordine alla nomina anticipata del custode, quanto in ordine alla stretta collaborazione tra custode ed esperto stimatore.
Salve naturalmente le valutazioni relative alle disposizioni attuative della legge delega, può osservarsi che la legge di riforma continua il percorso, iniziato con le riforme del 2005-06, volto a far leva sull’istituto della custodia onde conseguire risultati migliori nell’ambito delle procedure esecutive immobiliari. L’anticipazione della nomina del custode, infatti, consente una più efficacia conservazione ed amministrazione dei beni pignorati al fine della migliore fase liquidativa possibile.
A tal fine, e nell’ottica dell’arricchimento delle funzioni del custode, va letta anche la sinergia tar esperto e custode in ordine all’esame della documentazione richiesta dall’art. 567 c.p.c.
11. La liberazione dell’immobile pignorato
La liberazione dell’immobile costituisce uno snodo fondamentale per perseguire obiettivi di efficienza ed efficacia del processo esecutivo poiché incide sull’appetibilità del bene oggetto di vendita forzata e, pertanto, sull’esito della stessa.
La legge n. 206/2021 (all’art. 1, comma 12, lett. f) e h) prevede un nuovo intervento sull’art. 560 del codice di rito[107], ossia la norma destinata a contemperare due esigenze in contrasto: i bisogni meritevoli di protezione propri del debitore che abita l’immobile oggetto di esecuzione forzata e quelli propri della procedura esecutiva, tendenti ad ottenere l’anticipazione della liberazione dell’immobile al fine di renderlo più appetibile in sede di vendita.
11.1. Le modifiche nel corso del tempo all’art. 560 c.p.c.: il delicatissimo punto di equilibrio tra esigenze in perenne conflitto
Siamo di fronte ad una delle norme del processo esecutivo più tormentate, essendo stata fatta oggetto di plurimi interventi modificativi negli ultimi anni, a testimonianza della difficoltà di individuare un corretto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di cui sopra [108], oltre che dell’ormai purtroppo consueto modo di procedere del legislatore contraddistinto dall’intervenire più volte sul medesimo istituto anche a distanza di tempo molto ridotta (quello che abbiamo già qualificato, in altre occasioni, come il legiferare “per tentativi”).
Giova in questa sede richiamare, seppur in estrema sintesi, taluni passaggi di un excursus normativo che, intervenendo tanto sui tempi quanto sui modi della liberazione (specie negli ultimi anni), si caratterizza, oltre che per la disorganicità, anche per l’eccessivo sbilanciamento, a seconda dei casi, in favore del debitore o del creditore. In altri termini, non si può dire che sia stato sinora pacificamente individuato quello che dovrebbe essere il corretto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di cui sopra.
L’intervento del legislatore in esame mira a contemperare tali opposti interessi, anche se resta tutto da verificare se detto obiettivo verrà effettivamente conseguito, sulla base di quanto già previsto dalla legge delega e sulla base di quanto verrà previsto nei prossimi mesi in attuazione della stessa.
L’ordine di liberazione del compendio pignorato ha trovato espresso riconoscimento legislativo con le riforme del 2005[109].
All’indomani di queste riforme, che avevano recepito alcune indicazioni provenienti dalle prassi, il giudice dell’esecuzione disponeva la liberazione dell’immobile pignorato qualora non ritenesse di autorizzare il debitore a continuare ad abitare l’immobile pignorato o qualora revocasse l’autorizzazione precedentemente concessa; oppure, in ogni caso, allorquando provvedesse all’aggiudicazione o all’assegnazione del bene.
Mentre con la riforma del 2005 l’ordine di liberazione era qualificato come titolo esecutivo ed era suscettibile di esecuzione nelle forme di cui agli artt. 605 ss. c.p.c., nel 2016, il legislatore interviene sull’art. 560 c.p.c. (con il d.l. 3.5.2016, n. 59, convertito con l. 30.6.2016, n. 119) prevedendo che l’attuazione dell’ordine di liberazione debba avvenire, invece, nell’ambito di un sistema de-formalizzato, ossia senza la necessità di seguire la procedura delineata dal codice per l’esecuzione per consegna e rilascio. La non felice formulazione della norma da parte del legislatore ha sollevato, però, non pochi dubbi interpretativi, risolvibili, secondo una parte della dottrina, solo ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata[110].
Il d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 è nuovamente intervenuto sull’art. 560 c.p.c. stabilendo che il debitore, qualora all’udienza ex art. 569 sia in grado di documentare la titolarità di crediti, aventi i requisiti previsti[111], nei confronti della pubblica amministrazione, il giudice dell’esecuzione, con il decreto di cui all’articolo 586, dispone il rilascio dell’immobile pignorato per una data compresa tra il sessantesimo e novantesimo giorno successivo a quello della pronuncia del medesimo decreto.
Come osservato in dottrina[112], la portata applicativa di questa norma era circoscritta, in quanto ancorata ad un presupposto soggettivo definito in dottrina “singolare”, in quanto legato alla titolarità di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni certificati e risultanti dalla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, per un ammontare complessivo pari o superiore all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.
Questa previsione relativa al cd. periodo di tolleranza è stata però soppressa dalla l. n. 12 del 11-2-2019, di conversione del d.l. 135/2018[113].
L’art. 560 c.p.c., nella versione conseguente alle modifiche introdotte dal decreto legge 14 dicembre 2018, n. 135, convertito dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12[114] (mantenuta ferma anche a seguito della successiva novella del 2020[115]), prevede che, per tutta la durata della liquidazione giudiziale, l’ordine di liberazione non possa essere emesso ai danni del debitore che, a far data dal pignoramento, abbia utilizzato l’immobile pignorato come abitazione principale senza violare gli obblighi di custodia previsti dalla legge a suo carico.
Più in dettaglio, secondo l’attuale formulazione dell’art. 560 c.p.c., qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento ai sensi dell’art. 586 c.p.c., salvo condotte abusive dell’esecutato. Il giudice ordina, sentito il custode ed il debitore, la liberazione dell’immobile pignorato solo qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, ovvero l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare.
Come rilevato[116], la novella del 2020, da un lato, ha superato taluni dubbi emersi dalla precedente formulazione della norma, d’altro lato, è apparsa di difficile inquadramento sistematico, agevolando, conseguentemente, il formarsi di contrapposti indirizzi in ordine ai modi e ai tempi della liberazione.
Prima della novella, era dibattuto, in particolare, se l’ordine di liberazione potesse essere emanato, contestualmente al decreto di trasferimento, nei confronti del debitore che avesse destinato il bene sottoposto ad esecuzione ad abitazione principale.
Si è ritenuto che il legislatore, con la novella del 2020, abbia superato queste incertezze, prevedendo che il custode possa procedere alla liberazione dell’immobile pignorato mediante l’attuazione forzosa del provvedimento di cui all’art. di cui all’art. 586 c.p.c., da espletarsi in un tempo definito. Tanto si è dedotto dal tenore dell’art. 560, comma sesto, c.p.c., secondo il quale, dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento, il custode, su istanza dell’aggiudicatario (o dell’assegnatario), provvede all’attuazione forzosa del provvedimento ex art. 586, secondo comma, c.p.c. Nondimeno, si è rilevato[117] come questa disposizione non sia, però, di agevole inquadramento sistematico, non essendo chiaro come il custode possa essere legittimato ad uno “sgombero informale” al fine di realizzare l’attuazione coattiva di un ordine di rilascio contenuto in un provvedimento giudiziale che, avendo la natura di titolo esecutivo (posto che il decreto di trasferimento è titolo esecutivo in favore dell’acquirente), dovrebbe, di regola, essere eseguito nelle forme di cui agli artt. 605 c.p.c. In via di interpretazione del suddetto quadro normativo, si è ritenuto che l’emanazione di un decreto di trasferimento recante il contestuale ordine di liberazione del bene pignorato consenta la liberazione a cura del custode giudiziario, ma non possa fondare contestualmente un’esecuzione forzata per rilascio forzoso (ex artt. 605 e seguenti c.p.c.) [118].
11.2. Intervento riformatore di cui alla legge n. 206/2021
L’art. 1, comma 12, lett. f stabilisce che il giudice debba ordinare, sin dal momento in cui viene disposta la vendita, la liberazione dell’immobile ove questo non sia abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero sia occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura; invece, ove l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, la liberazione dovrà essere disposta con l’emissione del decreto di trasferimento. Nondimeno, resta ferma la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di «impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
D’altro canto, l’art. 1, comma 12, lett. h prevede che «sia il custode ad attuare il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano».
11.3. Valutazione della legge di riforma
È indubbio che l’ordine di liberazione sia funzionale agli scopi della procedura esecutiva. Più si anticipa rispetto all’ordinanza di vendita o di delega il momento della liberazione, più si salvaguardano gli scopi della procedura esecutiva, favorendo, in realtà, non solo il ceto creditorio ma, per taluni versi, anche lo stesso debitore, il quale ha interesse a che il bene venga venduto al prezzo più alto. Al contrario, più si individua il termine della liberazione nell’aggiudicazione o finanche nel decreto di trasferimento, più si lascia che prevalgano altre esigenze del debitore.
L’excursus normativo delineato testimonia quanto sia difficile bilanciare le opposte esigenze in conflitto. Come rilevato in dottrina[119], un punto di equilibrio può trarsi dai principi enunciati dalla Corte costituzionale[120], la quale ha posto l’accento sulla necessità di contemperare, alla luce del principio di proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze e finalità perseguite, il diritto di abitazione – quale “diritto sociale ed inviolabile” – con il diritto dei creditori ad agire in executivis.
Secondo il parere del CSM, si tratta di una legittima opzione legislativa che dà rilevanza alle esigenze abitative del debitore. La novella, in ogni caso, trasferisce l’onere delle esigenze abitative di persone “bisognose” dallo Stato al ceto creditorio a beneficio dello Stato[121].
Nei circoscritti confini del presente contributo basti evidenziare come la legge di riforma non stravolge gli equilibri raggiunti con l’ultima novella, pur ampliando l’ambito applicativo della liberazione anticipata; infatti, l’omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione dà luogo alla liberazione anticipata, senza che occorra la colpa o il dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare.
Per ogni altra valutazione sembrerebbe opportuno attendere le specifiche disposizioni dei decreti delegati, soprattutto in ordine:
- al quomodo della liberazione, stante la scelta di prevedere l’eseguibilità senza l’osservanza delle forme di cui agli art. 605 ss. c.p.c.;
- al possibile superamento o meno delle incertezze scaturite all’indomani della novella del 2020, specie in ordine alla eventuale configurabilità di un decreto di trasferimento a contenuto complesso.
Anche se, giova evidenziarlo, in dottrina [122] non è mancato chi ha già avanzato una valutazione di segno negativo sulla base di quanto previso dalla legge delega, stante l’ingiustificato trattamento differenziato di situazioni analoghe; infatti, secondo il tenore letterale della norma, è presa in considerazione la sola esigenza abitativa «dell’esecutato convivente col nucleo familiare», così pregiudicando situazioni altrettanto meritevoli di tutela, quali quelle del debitore che occupi da solo l’immobile, del nucleo familiare del debitore che lo occupi senza il debitore, etc.
12. La «vendita diretta»: un inedito istituto, alla luce della Relazione illustrativa
La legge n. 206/2021 prevede anche l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto processuale assolutamente nuovo, ossia l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione al debitore di procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima.
Come si legge nella Relazione illustrativa alle proposte di emendamento, «l’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione “virtuosa” e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori».
La formulazione della modifica come contenuta nella legge delega (all’esito della correzione dell’originario articolo 8 d.d.l. AS 1662 con l’emendamento approvato in Senato) si è resa necessaria al fine di: evitare che «lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive; impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione; assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti; rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 c.p.c.)».
Per perseguire questi scopi - si legge ancora nella Relazione illustrativa - «si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore il 1° marzo 2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte»[123].
12.1. Il contesto di riferimento: modelli di vendita ed evoluzione della vendita forzata
In linea astratta, onde favorire una liquidazione virtuosa potrebbero essere considerati, dal legislatore della riforma, differenti modelli di vendita forzata, alla luce del trend evolutivo che ha caratterizzato la vendita forzata negli ultimi lustri, tanto in ambito di esecuzione individuale, quanto in ambito di esecuzione concorsuale.
Infatti, a fronte della crisi in cui versa la giustizia civile, e in particolare la tutela esecutiva, nel corso del tempo il legislatore, grazie agli impulsi provenienti dalla dottrina, dalla giurisprudenza e, in particolare dalle cd. prassi virtuose, ha modificato la disciplina della procedura esecutiva in controtendenza rispetto alla riforma della vendita forzata di cui alle leggi 80 e 263 del 2005 e 52 del 2006[124], di cui si è denunciato, ad opera di parte della dottrina, il «dirigismo» che «si manifesta nella stessa redazione delle norme, in un tessuto normativo caratterizzato dall’estremo descrittivismo di ogni azione e/o attività realizzata dagli attori del processo»[125].
Con specifico riguardo ai modelli di vendita, può cogliersi nell’introduzione delle cd. vendite competitive un’apertura significativa del legislatore verso modelli i cui tratti caratterizzanti prescindano dal dato procedimentale rigidamente inteso al fine di trovare il proprio referente in alcuni principi essenziali.
I connotati essenziali di detta vendita – riproposta anche nel CCI - sono stati individuati: nel sistema incrementale di offerte, nell’adeguata forma di pubblicità, nella trasparenza endoprocessuale, nelle regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell’offerente e, infine, nella completa ed assoluta apertura al pubblico[126].
Si è ritenuto, peraltro, che la forma notarile dell’atto di vendita – ove sussistano i presupposti testé richiamati – sia idoneo a surrogare nel prezzo versato il diritto reale sul bene in guisa che il bene oggetto della vendita venga trasferito all’acquirente libero da vincoli pregiudizievoli[127]. In altri termini, la forma negoziale nell’atto non esclude il carattere coattivo della vendita alla luce dei profili strutturali, procedurali e funzionali delle vendite competitive[128].
Non sono neanche mancati progetti di riforma tendenti ad introdurre il modello di vendita competitiva anche in sede di esecuzione forzata[129].
Non a caso, in dottrina, si è già da tempo rilevato[130] che il trend evolutivo della vendita forzata, anche in sede di espropriazione forzata, sia quello di ricorrere a modalità di vendita forzata meno rigide sul piano procedimentale rispetto a quelle attualmente disciplinate dal codice di procedura civile, con conseguente attribuzione al giudice di maggiori poteri discrezionali, tali da consentirgli di modellare la vendita nel modo più possibile aderente alle esigenze del singolo caso di specie. Questa discrezionalità troverebbe, però, il suo limite nei principi fondamentali predeterminati dal legislatore. Se si vuole, dunque, recuperare una maggiore duttilità della vendita forzata, al fine di renderla il più possibile efficace, non si può che abbandonare la prospettiva della rigida procedimentalizzazione delle modalità attraverso cui la stessa deve trovare attuazione, facendo leva inevitabilmente su una maggiore discrezionalità giudiziale, seppure temperata, a garanzia di tutti i soggetti interessati e del buon esito della procedura stessa, da alcuni “principi” fondamentali cui il giudice dovrà uniformare il suo operato nel singolo caso di specie.
Su un versante assolutamente diverso si pone un’ulteriore tendenza legislativa, sempre legata alla necessità di rafforzare la tutela del credito, relativa all’introduzione da parte del legislatore, accanto a forme di tutela esecutiva, di numerosi strumenti di autotutela esecutiva, che fanno leva sulla vendita della cosa concessa in garanzia, direttamente a cura del creditore, sul libero mercato o sul trasferimento della proprietà della stessa al creditore medesimo, ma secondo lo schema del patto marciano, ossia previa stima del bene, effettuata da un esperto terzo e imparziale al tempo dell’inadempimento e salva restituzione dell’eventuale eccedenza al debitore[131]. In ipotesi siffatte, si pone il problema della qualificazione della natura giuridica della vendita e, conseguentemente, della ricostruzione della disciplina giuridica applicabile per quanto non espressamente disposto.
L’analisi del nuovo istituto della “vendita privata” va condotta proprio considerando questo quadro evolutivo, al fine di verificare se sussistano, in detta ipotesi, gli elementi che la dottrina e la giurisprudenza hanno ricondotto nel tempo alla nozione di vendita coattiva.
12.2. Autorizzazione del debitore a procedere direttamente alla vendita
La legge n. 206/2021 prevede, come detto, l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto processuale completamente nuovo: l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione al debitore di procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima.
Più precisamente, l’art. 1 comma 12 lett. n) reca testualmente: «prevedere:
1) che il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, può chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima, prevedendo che all’istanza del debitore deve essere sempre allegata l’offerta di acquisto irrevocabile per centoventi giorni e che, a garanzia della serietà dell’offerta, è prestata cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto;
2) che il giudice dell’esecuzione, con decreto, deve: verificata l’ammissibilità dell’istanza, disporre che l’esecutato rilasci l’immobile nella disponibilità del custode entro trenta giorni a pena di decadenza dall’istanza, salvo che il bene sia occupato con titolo opponibile alla procedura; disporre che entro quindici giorni è data pubblicità, ai sensi dell’articolo 490 del codice di procedura civile, dell’offerta pervenuta rendendo noto che entro sessanta giorni possono essere formulate ulteriori offerte di acquisto, garantite da cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto, il quale non può essere inferiore a quello dell’offerta già presentata a corredo dell’istanza dell’esecutato; convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti a un’udienza da fissare entro novanta giorni per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti;
3) che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione aggiudica l’immobile al miglior offerente devono essere stabilite le modalità di pagamento del prezzo, da versare entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile;
4) che il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, alla deliberazione sulle offerte e allo svolgimento della gara, alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta riscosso interamente il prezzo, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile;
5) che, se nel termine assegnato il prezzo non è stato versato, il giudice provvede ai sensi degli articoli 587 e 569 del codice di procedura civile;
6) che l’istanza di cui al numero 1) può essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità».
12.3. Considerazioni critiche delle previsioni contenute nella legge di riforma
Dalla lettura della norma appena più sopra richiamata emerge con chiarezza come ci troviamo di fronte ad un istituto i cui tratti essenziali e caratterizzanti sono già delineati, ancorché nell’ambito di una legge delega, che, nel caso di specie, va bel al di là della mera enunciazione di un “principio di carattere generale” o di una “direttiva” la cui attuazione sia rimessa a successivi interventi legislativi.
Ciò consente di effettuare già in questa sede una serie di osservazioni su questo nuovo istituto, così come già delineato dalla legge n. 206/2021 nei suoi tratti fondamentali.
Conformemente a quanto sembrerebbe emergere anche dalla Relazione illustrativa in precedenza richiamata, il legislatore si è ispirato alla vendita privata presente in altri ordinamenti, così come accade, ad esempio, in Francia, con la “vente privée”.
Il risultato conseguito, però, è in realtà ben distante da quanto previsto in altri Paesi.
Così come la dottrina ha già avuto modo di evidenziare, con la legge delega in esame il legislatore «non introduce un meccanismo di vendita privata sul modello di quello previsto dalla legislazione di altri Paesi quanto un ulteriore modello di vendita interno alla procedura, che si pone in alternativa con quelli già previsti, come ulteriore esito dell’udienza ex art. 569 c.p.c.» [132].
Secondo la medesima dottrina, «l’innovazione finisce per introdurre solo un procedimento che viene introdotto su istanza del debitore e garantisce, all’esito di una vendita pubblica, che l’immobile sia alienato a un prezzo non inferiore al valore di stima, superando quindi l’ipotesi di vendita a prezzo ridotto attualmente prevista dall’art. 572 c.p.c. Non vi è alcun profilo privatistico, se non quello preliminare della ricerca di un potenziale offerente»[133].
Come appena più sopra evidenziato, non appare dubitabile che il legislatore, pur ispirandosi alla vendita privata presente in altri Paesi, ha in realtà introdotto nel nostro ordinamento qualcosa di diverso.
Appare, però, eccessivamente riduttivo ritenere che, nel caso di specie, «non vi è alcun profilo privatistico, se non quello preliminare della ricerca di un potenziale offerente».
A ben vedere, infatti, se vuol darsi un senso all’autorizzazione del debitore, da parte del giudice dell’esecuzione, «a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato», sembrerebbe corretto ritenere che la vendita, nel caso di specie, sia altresì caratterizzata dal fatto che, a differenza di quanto avviene tradizionalmente, non si estrinseca nell’emissione del decreto di trasferimento da parte del giudice, ma nel ricevimento di un atto di vendita da parte di un notaio.
Questo è quanto sembrerebbe emergere, a ben vedere, anche dalla lettera della previsione di cui al n. 4 dell’art. 1 comma 12 lett. n) – appena più sopra riportato – nella parte in cui dispone che «il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368» esclusivamente al compimento delle seguenti attività: «deliberazione sulle offerte … svolgimento della gara … riscossione del prezzo … operazioni di distribuzione del ricavato».
La disposizione non reca, infatti, alcun riferimento alla vendita e, segnatamente, alla predisposizione del decreto di trasferimento da parte del professionista. Ciò si spiega proprio in quanto, nel caso di specie, trattandosi di “vendita diretta” del debitore “autorizzata” dal giudice, non vi sarà un decreto di trasferimento e non vi potrà conseguentemente essere, in parte qua, neanche una delega ad un professionista; vi sarà un atto di vendita che potrà essere ricevuto solo da un notaio, in quanto notaio e non in quando professionista delegato dal giudice.
Altrimenti ritenendo, dovrebbe concludersi che nulla abbia di privato (neanche la forma, per intendersi) la vendita nel caso di specie, quanto meno sotto il profilo della conclusione dell’iter procedimentale.
In definitiva, muovendoci nell’ordine di idee appena più sopra evidenziato, il nuovo istituto introdotto dal legislatore con riferimento al processo di espropriazione forzata sembrerebbe presentare talune affinità con la vendita competitiva di cui alle procedure concorsuali e, segnatamente, con l’ipotesi in cui detta vendita si estrinseca, per l’appunto, nel ricevimento di un atto pubblico di vendita da parte di un notaio[134].
Senza voler entrare in questa sede sulla controversa natura (forzata o privata) della nuova ipotesi di vendita disciplinata dal legislatore, in relazione alla quale è auspicabile che ulteriori indicazioni vengano fornite dal legislatore in sede di attuazione della delega, basti nei circoscritti confini del presente contributo evidenziare come, quanto appena più sopra evidenziato con riferimento alla forma del trasferimento, non è incompatibile con la natura forzata (e non privata) della vendita di cui si discute, così come sembrerebbe emergere da quanto previsto da talune delle disposizioni appena più sopra richiamate, quali, su tutte, quelle che prevedono, sostanzialmente, il prodursi, nel caso di specie, del cd. effetto purgativo (proprio, per l’appunto, della vendita forzata e non di quella privata).
Non a caso, infatti, con riferimento alla vendita competitiva che si conclude con atto di vendita ricevuto da notaio, parte della dottrina ha ritenuto pienamente compatibile la forma “privata” della vendita con la natura sostanziale di vendita forzata della stessa [135].
Anche se, giova evidenziarlo, si tratta di questione complessa, meritevole di essere esaminata alla luce delle indicazioni che perverranno dal legislatore in sede di attuazione della delega, posto che sarebbe semplicistico ritenere che la stessa sia già risolta dalla suddetta disposizione avente ad oggetto il cd. effetto purgativo della vendita.
Basti a tal proposito evidenziare come, nel tentativo di individuare quelli che sono i tratti essenziali ed imprescindibili della coattività della vendita, si è ritenuto che gli stessi siano rappresentati, essenzialmente, dall’assenza della (o contrarietà rispetto alla) volontà del debitore e dallo scopo teso a realizzare la responsabilità patrimoniale [136]. È peraltro noto come qualificare una vendita come coattiva o meno incide, non solo sul riconoscimento del potere purgativo (che in tal caso è previsto), ma anche su una serie di discipline speciali applicabili alla vendita negoziale e non (quanto meno dal punto di vista sanzionatorio) alla vendita forzata[137].
Ciò posto, e indipendentemente dalla natura che voglia riconoscersi alla vendita di cui si discute, resta comunque da chiedersi se il legislatore abbia effettivamente introdotto un istituto che, in linea con il trend evolutivo della vendita forzata appena più sopra illustrato, soddisfi le esigenze di emancipazione della vendita forzata da rigidi schemi procedimentali [138], così come auspicato da una parte della dottrina [139].
Sotto il profilo da ultimo segnalato l’analitica disciplina già contenuta nella legge delega suscita qualche perplessità, ma, anche sotto questo profilo, prima di esprimere ogni valutazione di sorta, pare corretto attendere l’intervento dei decreti attuativi, che dovrebbero consentire di comprendere fino in fondo quale sia l’esatta fisionomia del nuovo istituto introdotto nel nostro ordinamento.
Nondimeno, dal punto di vista procedimentale, ulteriori rilievi critici sono stati evidenziati dal parere del CSM, più volte richiamato[140], secondo il quale l’istituto: si presta ad essere utilizzato dal debitore a fini dilatori, prevede un accertamento dai confini indefiniti e, infine, non distingue tra categorie di creditori ai fini del consenso relativo all’istanza di vendita.
Dal primo angolo prospettico, si rimarca che l’istanza può essere depositata fino a dieci giorni prima dell’udienza di cui all’art. 569 c.p.c., nella quale normalmente viene disposta la vendita del compendio. Invece, secondo detto parere, «al fine di garantire che l’offerta sia reale, sarebbe opportuno prevederne la redazione in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata con elezione di domicilio ai fini delle comunicazioni di cancelleria e del contraddittorio previsto dall’articolo in esame, nonché chiarire che la cauzione resti definitivamente acquisita alla procedura nel caso di mancata stipula dell’atto di trasferimento nel termine stabilito dal giudice»[141]. Inoltre, con lo scopo di scongiurare le finalità dilatorie, sarebbe probabilmente opportuno valorizzare la serietà dell’offerta prevedendo una cauzione più elevata rispetto a quella di 1/10 prevista nel caso di vendita competitiva dall’art 571 c.p.c., stabilendo contestualmente che, in caso di inadempimento, trovino applicazione le sanzioni previste dall’art 587 c.p.c.
Dal secondo angolo prospettico, si evidenzia la previsione in base alla quale il giudice, nel contraddittorio tra le parti, può assumere sommarie informazioni sulla “effettiva capacità di adempimento dell’offerente”. Tale previsione, secondo detto parere, «appare eccessivamente generica introducendo nel procedimento esecutivo un accertamento dai confini non definiti».
Dal terzo angolo prospettico, si puntualizza che il D.d.l. prevede che l’istanza di vendita del debitore è condizionata al consenso dei creditori. La norma sembra far riferimento a tutte le categorie di creditori, mentre, sempre secondo detto parere, andrebbero effettuate talune distinzioni tra le diverse categorie di creditori.
Anche sotto questi profili non resta che attendere l’intervento dei decreti attuativi, auspicando che il legislatore tenga conto, nei limiti del possibile, dei rilievi critici evidenziati, tanto sul piano sostanziale, quanto sul piano procedimentale.
12. L’estensione degli obblighi antiriciclaggio nell’ambito delle vendite forzate e concorsuali
La legge di riforma contiene una modifica in relazione ai rapporti tra vendita forzata e normativa antiriciclaggio, tematica sino ad ora caratterizzata dalla totale assenza di disposizioni normative.
Come si vedrà, l’esigenza di fondo, emersa nella prassi e recentemente indagata in dottrina, attiene al contrasto del riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita anche in sede espropriativa e concorsuale, considerando però le peculiarità della natura e della disciplina delle procedure esecutive e concorsuali.
13.1. La disciplina vigente
La totale assenza di disposizioni normative specifiche con riferimento alla vendita forzata nell’ambito della cd. normativa antiriciclaggio ha sollevato un delicato problema interpretativo, di grosso impatto sul piano pratico-operativo e del contrasto al riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita [142].
Ci si è chiesti, infatti, se, pur in assenza di disposizione espressa, detta normativa possa trovare comunque applicazione nelle ipotesi in cui l’acquisto di un determinato bene venga effettuato nell’ambito di una procedura espropriativa (o concorsuale), nonostante le indubbie peculiarità di una fattispecie fondamentalmente contraddistinta dalla natura coattiva (e non volontaria) della vendita [143].
Per quanto, infatti, in tal caso ci troviamo di fronte ad una vendita indipendente dalla volontà del titolare di beni pignorati nell’interesse dei creditori, e dunque ad una fattispecie che – complessivamente considerata – non integra quella di riciclaggio, non può, d’altro canto, disconoscersi la concreta possibilità che l’intento perseguito dall’acquirente del bene [144], ancorché oggetto di una vendita coattiva, sia proprio quello che la normativa antiriciclaggio intende contrastare [145].
La rilevanza della problematica è tale da aver catalizzato anche l’attenzione della stampa[146].
Nella prassi l’attenzione si è concentrata soprattutto sui conti correnti della procedura esecutiva.
Ci si è chiesti, in particolare, se siano applicabili o meno ai conti correnti della procedura esecutiva ed al professionista delegato, da parte degli intermediari bancari, gli oneri di adeguata verifica introdotti dalla disciplina antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21-11-2007, n. 231 (e successive modificazioni).
Più precisamente, presso gli operatori del settore, ciò che ha catalizzato l’attenzione, nell’ipotesi in cui la procedura espropriativa sia delegata ad un professionista (notaio, avvocato o commercialista), è l’intestazione/titolarità dei suddetti conti correnti. Infatti, si è fatta strada l’idea, soprattutto in ambito bancario, che la titolarità effettiva dei suddetti conti correnti sia del professionista delegato, anziché del presidente del tribunale (in ragione della pretesa necessità - ancorché controvertibile - di individuare in ogni caso una persona fisica come titolare effettivo ai sensi dell’art. 1, lett. pp del d.lgs. 21-11-2007 n. 231) o, in via più generale, della procedura, con conseguente assoggettamento degli stessi alla normativa antiriciclaggio.
Come già ampiamente evidenziato in altra sede, si tratta di prospettiva assolutamente erronea e fuorviante [147].
In giurisprudenza sussiste, a quanto consta, solo una pronuncia di merito, secondo la quale «gli oneri di adeguata verifica introdotti dalla disciplina antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21-11-2007, n. 231 e successive modificazioni non si applicano ai professionisti delegati e, più in generale, agli ausiliari del giudice, non potendo definirsi né clienti né esecutori degli stessi, nel senso indicato dall’art. 1, 2° co., lett. p), d.lgs. 231/2007, né infine effettivi titolari del rapporto bancario acceso quale conto della procedura esecutiva» [148].
Nel pervenire alla suddetta conclusione, detta pronuncia opera un riferimento, in motivazione, alla risposta a quesito n. 15 del 21-6-2006 dell’Ufficio Italiano Cambi, secondo la quale: «l’attività svolta dal professionista a seguito di incarico da parte dell’Autorità giudiziaria, quale ad esempio quella di curatore fallimentare o di consulente tecnico d’ufficio, è esclusa dall’ambito di applicazione delle disposizioni antiriciclaggio. In questi casi il professionista agisce in qualità di ausiliario del giudice e non si ravvisa nella fattispecie né la nozione di cliente né quella di prestazione professionale».
La suddetta risposta ha ad oggetto, in via più generale, gli ausiliari del giudice, ma il principio dalla stessa affermato è stato ritenuto applicabile, dal suddetto Tribunale, anche ai professionisti delegati al compimento delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata in quanto considerati anch’essi, evidentemente, ausiliari del giudice o comunque parificabili a questi ultimi ai fini della individuazione della soluzione più corretta da dare alla problematica in esame.
In dottrina si è esclusa l’applicabilità alla vendita forzata della vigente normativa antiriciclaggio per lo più argomentando in tal senso dall’assenza di una disposizione espressa, dalla natura giurisdizionale dell’attività di cui si discute – anche ove posta in essere dal professionista delegato e non dal giudice -, nonché dalle peculiarità proprie di questa attività [149].
Argomentando, per un verso, dal modo in cui sono formulate le disposizioni vigenti in materia e, per altro verso, dalle peculiarità proprie dell’acquisto che si realizza nell’ambito di un processo di espropriazione forzata, la dottrina ha sottolineato altresì l’estrema difficoltà - se non anche l’impossibilità – di colmare detta lacuna in via di interpretazione analogica o estensiva e la conseguente esigenza di intervenire, da parte del legislatore, con l’introduzione di una disciplina espressa che tenga conto proprio delle suddette peculiarità [150].
Giova, infine, evidenziare come la medesima dottrina non ha mancato neanche di evidenziare il peculiare atteggiarsi della problematica di cui si discute con riferimento alle procedure concorsuali, rimarcando la necessità di un intervento del legislatore anche in questa sede, che tenga conto, anche in tal caso, delle peculiarità proprie di questo contesto, oltre che delle differenti tipologie di vendita che possono venire in rilievo in questa sede [151].
13.2. L’intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Il legislatore della riforma interviene nel contesto appena più sopra sinteticamente delineato con una disposizione del seguente tenore.
L’art. 1 comma 12 lett. p) reca testualmente: «prevedere che, nelle operazioni di vendita dei beni immobili compiute nelle procedure esecutive individuali e concorsuali, gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi».
La scelta è, dunque, evidentemente nel senso di colmare il suddetto vuoto normativo estendendo l’ambito di applicazione della normativa antiriciclaggio di cui al decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 anche all’acquisto effettuato nell’ambito di procedure esecutive individuali o concorsuali.
Più precisamente, a detto risultato si intende pervenire prevedendo che «gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi».
13.3. Valutazione della legge di riforma
In ragione di quanto appena più sopra evidenziato in ordine al vuoto normativo esistente e della indubbia esigenza di contrastare il riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita anche in sede espropriativa e concorsuale, ci troviamo di fronte ad un intervento riformatore che effettua una scelta di fondo pienamente condivisibile.
La formulazione della suddetta disposizione desta, però, talune perplessità.
La generica equiparazione del cliente all’aggiudicatario, sotto il profilo degli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, nonché la conseguente generica subordinazione della possibilità per il giudice di emettere il decreto di trasferimento al rispetto di tali obblighi, infatti, ben potrebbero indurre a ritenere che la normativa vigente non necessiti di alcun adattamento di sorta per poter trovare applicazione anche nell’ambito di un differente contesto – contraddistinto da non indifferenti peculiarità – qual è quello della vendita (non volontaria ma) forzata.
Come si è già avuto modo di evidenziare più ampiamente in altra sede, invece, l’attuale impianto normativo necessita inevitabilmente di taluni adattamenti per poter trovare applicazione sia nell’ambito del processo di espropriazione forzata che in quello concorsuale [152].
Nonostante la suddetta formulazione della norma, è, dunque, auspicabile che il legislatore, in sede di attuazione della delega, non si limiti a procedere ad una meccanica estensione della vigente normativa antiriciclaggio al processo di espropriazione forzata e alle procedure concorsuali, ma preveda, piuttosto, specifiche disposizioni parametrate alle peculiarità proprie del contesto in cui queste saranno chiamate ad operare.
14. Le misure coercitive
La legge di riforma contiene interventi anche in ordine a uno degli istituti cruciali per l’effettività della tutela giurisdizionale: le misure coercitive. Come si vedrà, per un verso, i principi direttivi fissati nella legge delega recepiscono quanto segnalato in dottrina ma, per altro verso, non intervengono su taluni profili critici del vigente testo dell’art. 614 bis c.p.c., censurati, da autorevole dottrina, finanche sotto il profilo della legittimità costituzionale.
14.1. La disciplina vigente
Le cd. misure coercitive costituiscono indubbiamente uno degli istituti processuali che ha conosciuto un’evoluzione più significativa nel corso degli ultimi anni nel nostro ordinamento.
Un primo significativo risultato, nella direzione della effettività della tutela di condanna, si è avuto grazie a quella dottrina che, nel propugnare il superamento della correlazione necessaria fra condanna ed esecuzione forzata, ha sottolineato l’esigenza di porre la tutela di condanna in correlazione anche con le misure coercitive [153].
Ciò posto, però, per lungo tempo il nostro ordinamento è stato comunque contraddistinto dalla presenza solo di specifiche disposizioni contenenti misure coercitive tipiche, tanto è vero che, la medesima dottrina di cui sopra, al fine di ampliare il perimetro applicativo delle misure coercitive, ha tentato di valorizzare talune disposizioni del codice penale (artt. 388 e 650), nonostante i limiti che le stesse presentavano o sotto il profilo dell’ambito di applicazione o sotto quello dei presupposti richiesti per la loro applicabilità.
Solo nel 2009[154] il legislatore ha introdotto, sulla scia di quanto già fatto da tempo da altri ordinamenti, un sistema atipico di misure coercitive.
Più precisamente è stato introdotto, nel codice di procedura civile, l’art. 614-bis c.p.c.
Si tratta di una norma che, pur con taluni difetti di formulazione che hanno indotto il legislatore ad intervenire nuovamente sulla stessa nel 2015[155], ha indubbiamente rappresentato un significativo passo avanti nella direzione della effettività della tutela di condanna.
In forza di quanto attualmente disposto dall’art. 614-bis c.p.c. (recente “misure di coercizione indiretta”), infatti: «con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409. Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni latra circostanza utile».
14.2. L’intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Il legislatore interviene nuovamente in materia con la legge delega in esame.
L’art. 1 comma 12 lett. o) reca testualmente: «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Due sono, dunque, le tipologie di intervento previste dalla l. n. 206/2021.
Il primo ha ad oggetto uno dei profili applicativi più delicati della vigente disciplina, essendosi da più parti evidenziato [156] come la stessa attribuisca al giudice un’eccessiva discrezionalità o, quanto meno, una discrezionalità estremamente ampia sotto diversi profili.
L’intento del legislatore è, evidentemente, quello di circoscrivere detta discrezionalità sotto il profilo della durata e della determinazione dell’ammontare della misura di coercizione indiretta.
Il secondo mira, invece, ad intervenire su una scelta di fondo effettuata dal legislatore in sede di introduzione, nel nostro ordinamento, di un sistema atipico di misure coercitive, ossia l’attribuzione al giudice della cognizione (e non al giudice dell’esecuzione [157]) del potere di pronunciare la misura coercitiva.
In forza di quanto disposto dall’art. 614-bis c.p.c., spetta, infatti, al giudice della cognizione, in sede di emissione della pronuncia di condanna, il potere di condannare il soggetto soccombente (anche) al pagamento di una somma di danaro «per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».
Detta scelta non viene sovvertita, in quanto resta ferma, ma si attribuisce analogo potere al giudice dell’esecuzione con riferimento alle ipotesi in cui «il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
14.3. Valutazione della legge di riforma
Sotto entrambi i profili appena più sopra indicati l’intento del legislatore appare condivisibile.
Nel primo caso, infatti, si vogliono arginare possibili sconfinamenti del potere discrezionale attribuito dalla norma al giudice in potere arbitrario o comunque evitare un distorto utilizzo dell’istituto. Resta, però, da valutare come verrà assolto il compito più difficile, ossia l’individuazione dei criteri per la determinazione dell’ammontare della misura coercitiva.
Nel secondo caso, siamo di fronte ad una previsione che mira a rendere ancor più effettiva la tutela giurisdizionale di condanna, posto che, con la stessa, si estende l’ambito di applicazione delle misure di coercizione indiretta anche a titoli esecutivi differenti da un provvedimento giurisdizionale di condanna. Anche in questo caso, però, ogni altra valutazione non può che rimanere sospesa in attesa di vedere come il legislatore darà attuazione a questo principio di carattere generale, soprattutto sotto il profilo procedimentale, posto che, pur seguendo gli auspici di una parte della dottrina [158] nel senso di attribuire al giudice dell’esecuzione il potere di liquidare l’astreinte con un procedimento sommario in cui sia salvaguardata la garanzia del contraddittorio, si tratta pur sempre di disciplinare un’ipotesi assai peculiare rispetto all’attività tipicamente rimessa al giudice dell’esecuzione.
Criticabile appare, invece, la scelta del legislatore di non intervenire su altro profilo critico del vigente testo dell’art. 614 bis c.p.c. [159], tacciato anche di incostituzionalità da parte di autorevole dottrina [160].
Il riferimento è alla esclusione dall’ambito di applicazione delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c. dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c.
15. L’istituzione, presso il Ministero della Giustizia, della “Banca dati per le aste giudiziali”
La legge di riforma prevede anche l’istituzione presso il Ministero della Giustizia della “Banca dati per le aste giudiziali”, contenente «i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, nonché le relazioni di stima».
Al contempo si prevede altresì che «i dati identificativi degli offerenti, del conto e dell’intestatario devono essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale».
Le aste giudiziarie, e, in via più generale le procedure di espropriazione forzata e concorsuali, costituiscono indubbiamente un contenitore ricco di informazioni utili per una pluralità di fini.
Non è questa la prima volta che il legislatore interviene sul punto, anche se, come avremo modo di evidenziare di qui a breve, i pregressi interventi legislativi in materia sembrerebbero avere un differente perimetro applicativo e differenti finalità rispetto a quelle di cui al presente intervento del legislatore.
15.1. I pregressi interventi legislativi: il registro delle procedure espropriative, di insolvenza nonché degli strumenti di gestione delle crisi
Con il d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, nella L. 30 giugno 2016, n.119, recante “Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché di investitori in banche in liquidazione”, è stato istituito (art. 3) il “Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti di gestione delle crisi” [161].
Questa disposizione è stata introdotta nel nostro ordinamento in attuazione di quanto disposto in materia di pubblicità delle procedure d’insolvenza transfrontaliere dal Reg. UE 2015/848 approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’UE in data 20 maggio 2015, anche se si tratta di disposizione che non è ancora divenuta operativa in quanto necessitante, a tal fine, di un Decreto del Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, che, nonostante il decorso del relativo termine, non è stato ancora adottato.
Più precisamente, si tratta di un registro elettronico istituito presso il Ministero della Giustizia nel quale saranno pubblicate tutte le informazioni e i documenti relativi:
a) alle procedute di espropriazione forzata immobiliare;
b) alle procedure di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa;
c) ai procedimenti di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti, nonché ai piani di risanamento quando vengono fatti oggetto di pubblicazione nel registro delle imprese;
d) alle procedure di amministrazione straordinaria;
e) alle procedure di accordo di ristrutturazione dei debiti, di piano del consumatore e di liquidazione dei beni ex legge n. 3/2012.
Il registro si compone di due sezioni:
1) una ad accesso pubblico e gratuito;
2) l’altra ad accesso limitato [162].
Per le informazioni relative alla sezione del registro ad accesso pubblico vi è un rinvio all’art. 24, par. 2, del Reg. UE 2015/848 ove si fa riferimento alle seguenti informazioni:
- data di apertura della procedura;
- tipo di procedura aperta;
- giudice e numero della stessa;
- fondamento giuridico che ne giustifica l’apertura;
- nome e natura giuridica del debitore;
- nominativo del soggetto incaricato di gestire la procedura;
- termine per l’insinuazione dei crediti;
- data di chiusura della procedura;
- giudice competente per l’impugnazione.
Fermo restando, comunque, per quanto in questa sede maggiormente interessa – ossia le procedure di espropriazione forzata immobiliare -, il rinvio, sia per la sezione ad accesso pubblico che per quella ad accesso limitato, al decreto dirigenziale del Ministro della giustizia di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.
Per lo più si è ritenuto [163] che detto registro miri fondamentalmente a conseguire una duplice finalità:
1) la prima, meramente informativa e di portata generale, consistente nel consentire ai soggetti interessati, che sino ad oggi non ne hanno beneficiato, di disporre di una serie di informazioni utili tali da rendere al contempo più trasparenti sia le procedure esecutive individuali e collettive, sia le procedure e gli strumenti di risanamento;
2) la seconda, più circoscritta, consistente nel favorire la creazione di un mercato di non performance loans, consentendo ai soggetti interessati al loro acquisto di disporre di un adeguato set informativo, senza dover sopportare costi eccessivi e difficoltà spesso insuperabili, così da metterli in condizione di stimare il valore di tali crediti ed identificare i titolari da cui eventualmente acquistare.
Il registro in esame costituisce anche uno strumento per un’efficace vigilanza sugli intermediari bancari e finanziari e sulla stabilità dello specifico mercato in cui operano. Da ciò, la previsione dell’accesso al registro da parte della Banca d’Italia.
15.2. La valutazione dell’intervento della legge di riforma
Ferma restando, per effettuare valutazioni più approfondite, la necessità di verificare i contenuti dei decreti di attuazione della disposizione in esame, alla stregua del tenore della stessa è possibile comunque sin d’ora evidenziare come ci troviamo di fronte ad un intervento legislativo avente un oggetto più circoscritto di quello di cui sopra (posto che reca un riferimento ai soli dati relativi alle aste giudiziarie e, più specificamente, ai soli dati identificativi degli offerenti, del conto corrente bancario o postale usato per versare la cauzione, al prezzo di aggiudicazione e alle relazioni di stima) e con finalità indubbiamente differenti.
Basti a tal proposito rimarcare come, al di là dell’oggetto più circoscritto, si tratta di dati che, così come testualmente previsto dalla suddetta previsione normativa, potranno essere messi a disposizione, su richiesta, della sola autorità giudiziaria, civile e penale. Non è dato comprendere, sulla base dell’attuale testo della norma, per quali finalità. In astratto potrebbe trattarsi di una disposizione funzionale anche al conseguimento degli obiettivi che il legislatore intende conseguire con l’altra disposizione, in precedenza commentata, volta ad estendere l’applicabilità della normativa antiriciclaggio alle procedure esecutive e concorsuali. Ma, per comprendere se sia effettivamente così e, soprattutto, quali siano effettivamente le finalità perseguite dal legislatore con l’istituzione della banca dati in esame, occorrerà attendere la fase di attuazione della legge delega, con l’auspicio, evidentemente, che in questa sede vengano fugati tutti i possibili dubbi.
La sensazione, comunque, è che, alla luce di quanto sinora evidenziato con riferimento agli interventi normativi in tema di dati e informazioni di vario genere in tema di procedure esecutive e concorsuali, il legislatore si stia muovendo in modo estemporaneo e senza alcuna visione d’insieme. Sarebbe quanto meno auspicabile un maggior coordinamento, non solo sul piano normativo, ma anche operativo.
[1] Al Senato il disegno di legge A.S. 1662 (recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata») è stato presentato dal “Governo Conte” II il 9 gennaio 2020; successivamente, con la formazione del Governo Draghi, il Ministro della giustizia Cartabia, nel mese di marzo 2021, ha insediato una Commissione di studio per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi, attraverso la formulazione di puntuali proposte emendative al d.d.l. 1662 (c.d. Commissione Luiso). Sulla base dei lavori di questa Commissione, il 16 giugno 2021 il Governo ha presentato una serie di emendamenti al testo originario. La Commissione giustizia ha concluso l’esame del provvedimento il 14 settembre 2021. In Assemblea il Governo ha presentato un maxiemendamento, che ha recepito le modifiche approvate in sede referente, sulla cui approvazione ha posto la questione di fiducia. Per questa ragione il disegno di legge giunto all’esame della Camera si compone di un unico articolo suddiviso in 44 commi.
[2] Cfr., per un esame delle previsioni normative introdotte dal legislatore per fronteggiare le distinte fasi dell’emergenza epidemiologica Covid-19, anche per ulteriori riferimenti: con riferimento alla giustizia civile, E. Fabiani –L. Piccolo, La giustizia civile nell’era dell’emergenza epidemiologica, in Giusto proc. civile, 4/2020, 1027 s.; con riferimento all’esecuzione forzata, E. Fabiani – L.Piccolo, Le misure per fronteggiare l’emergenza epidemiologica Covid-19 in tema di processo esecutivo, in Rass. esec. forz., 2020, 359 s.
[3] Su tutte cfr. Corte costituzionale, sentenza del 22 giugno n. 2021, n. 128, che ha dichiarato l’illegittimità della seconda proroga della sospensione di ogni attività nelle esecuzioni aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore, che era stata stabilita dal 1° gennaio al 30 giugno 2021 (art. 13, comma 14, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 2021, n. 21).
[4] Cfr. CSM Pratica num. 533/VV/2020. Buone prassi nel settore delle esecuzioni – Aggiornamento Linee guida
(delibera 6 -7 dicembre 2021), ove si evidenzia che la materia delle esecuzioni è oggetto di specifica riforma (in particolare richiamando il d.d.l. di riforma del processo civile n. 1662), con obiettivo espressamente inerente all’attuazione del PNRR, tanto più che appare di palese evidenza come l’esecuzione delle pronunce giurisdizionali e, in generale, la realizzazione dei crediti costituisca uno degli aspetti fondamentali su cui verrà valutata l’efficienza del sistema giustizia.
[5] Il Consiglio Superiore della magistratura, con delibera del 7 dicembre 2021, proseguendo nella sua attività di rilevazione delle best practices, ha proceduto all’aggiornamento e alla semplificazione delle prassi operative più significative nel settore delle esecuzioni immobiliari, in continuità rispetto all’attività svolta dal precedente Osservatorio permanente sulle buone prassi nelle esecuzioni immobiliari (Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni –Aggiornamento Linee guida. Delibera 6/7 dicembre 2021, cit.).
[6] Cfr. A.Auletta, Aspetti problematici dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, in www.inexecutivis.it
[7] Su cui cfr., anche per i richiami, A.Auletta, Aspetti problematici dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, cit.; Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in judicium.it; Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2019, 1072 s.
[8] Sulla disciplina in commento, così incisa dalle modifiche nel corso del tempo, cfr., anche per i riferimenti, Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, cit.; Bove, La nuova disciplina in materia di espropriazione del credito, in Nuove leggi civ., 2015, 2 s.; Longo, Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti, in Misure urgenti per la funzionalità e l’efficienza della giustizia civile a cura di Dalfino, Torino, 2015, 149 ss.
[9] Cfr. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1073 s.
[10] Cfr. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1073.
[11] Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
[12] Cfr. anche per i richiami Soldi, Manuale, cit., 1075.
[13] Cfr. anche per i richiami Soldi, Manuale, cit., 1075, in senso adesivo alla tesi affermata da Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
[14] Cfr., anche per i riferimenti, Soldi, Manuale, cit., 1075. Adde, in quest’ottica Leuzzi, Espropriazione forzata dei crediti nei confronti degli enti pubblici e competenza per territorio, in www.inexecutivis.it.
[15] Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustizia insieme.it
[16] Cfr. sulla riforma in commento, anche per gli ulteriori riferimenti, Moretti, Novità in materia di esecuzione forzata (II parte) - il nuovo art. 631 bis c.p.c. e le altre ipotesi di definizione dell’esecuzione, in Giur. it., 2016, 8-9, 2045 s.
[17] In dottrina, in senso non sfavorevole alla previsione normativa in commento, cfr. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questionegiustizia.it., secondo il quale «se è vero che la soluzione adottata comporta un ulteriore adempimento per il creditore pignorante, onerandolo della notifica al debitore e al terzo dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e del deposito dell’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione, è, però, ragionevole che il terzo sia posto in condizione di conoscere con certezza quale sia stato l’esito del pignoramento e di liberare le somme pignorate quando il vincolo non ha più ragione di essere».
[18] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[19] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, in www.notariato.it e in corso di pubblicazione in Rass. dell’esecuzione forzata.
[20] cfr. E. Astuni, Novità in materia di titolo esecutivo, in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, 1/2006, 188 s.
[21] Cfr. E. Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, in Notariato.it; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, in Rassegna dell’esecuzione forzata, 2/2021, 355 s.
[22] Cfr., tra gli altri, Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli 1960 (ristampa), vol. I, 284. Diversamente cfr. Grasso, voce Titolo esecutivo, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 695 s., secondo il quale prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio. In argomento, adde, anche per i riferimenti Majorano, sub. art. 475 c.p.c., in L.P. Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Commentario del codice di procedura civile, vol. VI, Torino, 2013, p. 86 ss.
[23] Cass., 5 giugno 2007, n. 13069, la quale, dando atto delle origini della spedizione in forma esecutiva e del dibattito dottrinale in merito, afferma che la spedizione in forma esecutiva non accerta l’inefficacia del titolo esecutivo, né l’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi dell’azione esecutiva, ma rappresenta un elemento di consapevolezza per il debitore dell’esistenza del titolo esecutivo. In questa prospettiva può ascriversi, tra le altre, Cass. 5 luglio 1990, n. 7074.
[24] Cfr. Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv.esecuzione forzata, 2007, 1 s.
[25] Cfr. Grasso, voce Titolo esecutivo, cit., 695-696; Andolina, Profili dogmatici dell’esecuzione forzata, Milano, 1962, 120 ss; Arieta, in Codice commentato delle esecuzioni civili, 2016, 67-68.
[26] Cfr. Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, secondo la quale è preferibile l’opinione di chi osserva che, per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva, occorre considerare che la stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva. Quest’indirizzo interpretativo è stato recentemente ribadito da Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967. Nondimeno, in dottrina si obietta che la ricostruzione circa la natura e la funzione della spedizione in forma esecutiva operata dalla sentenza in discorso si ponga in manifesto contrasto con la tesi dalla medesima sentenza riaffermata per cui la mancanza della formula esecutiva configura una mera irregolarità formale deducibile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi: cfr. M. Farina, Contraddittorio negato e dottrina giudiziaria in una recente pronuncia “nomofilattica” della Suprema Corte in materia di spedizione in forma esecutiva, cit.; M.Di Marzio, Omessa spedizione in forma esecutiva di copia del titolo esecutivo e opposizione agli atti esecutivi, in Riv. esec. forzata, 2019, 4, 899 s.; le note di S. Rusciano, F. Auletta, M. Farina E B. Capponi, in Rass. es. forz., 2019, 385 s.
[27] Così B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2017, 174; ma vedi anche, tra gli altri Satta - Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 585; nonché, anche per ulteriori riferimenti: Majorano, sub art. 475 c.p.c., cit., 86 ss.
[28]Così Petrelli, Atto pubblico, scrittura privata autenticata e titolo esecutivo, in Notariato, 2005, 5, 542, secondo cui la spedizione del titolo in forma esecutiva ha quindi l’ufficio di contrassegnare la copia rappresentativa della azione esecutiva, ed è proprio tale funzione che giustifica una serie di conseguenze di disciplina.
[29] Con riguardo al controllo estrinseco e formale del cancelliere cfr.: Cass. 5 giugno 2007 n. 13069; Cass. 3 settembre 1999, n. 9297; Cass. 5 luglio 1990 n. 7074; Trib. Napoli 4 dicembre 2003; contra, Pret. Legnano 19 ottobre 1982 (Foro it., 1984, I, 3041, con nota di richiami) che ha sottolineato come il cancelliere non debba limitarsi ad una indagine meramente formale sulla completezza del titolo dovendo altresì «verificare se una sentenza è esecutiva (o perché passata in giudicato, o perché resa in grado d’appello, o perché resa in unico grado, o perché dichiarata provvisoriamente esecutiva, o perché intrinsecamente esecutiva».
[30] In giurisprudenza appare consolidato l’orientamento secondo il quale il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all’atto ricevuto da notaio, relativamente all’obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l’indicazione degli elementi strutturali essenziali dell’obbligazione, indispensabili per la funzione esecutiva: cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 27 agosto 2015, n. 17194, Foro it., 2016, I, 196; Cass. 26 marzo 2015, n. 6083, Foro it., 2015, I, 2809; Cass. 19 settembre 2014, n. 19738; Cass. 31 agosto 2011, n. 17886; Cass. 19 luglio 2005, n. 15219; Cass. 18 gennaio 1983, n. 47; Cass. 19 luglio 1979, n. 4293. Nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Latina-Terracina 18 maggio 2010, Foro it., 2010, I, 2550; Trib. Rossano 15 maggio 2007; Trib. Salerno 15 marzo 2007; Trib. Brindisi 10 ottobre 2005; Trib. Mantova 22 settembre 2004; Trib. Napoli 2 febbraio 2002; Trib. Cassino 14 marzo 2000. in Giur. merito, 2001, 662, con nota di Russillo). La giurisprudenza ha peraltro puntualizzato che il riconoscimento del valore di titolo esecutivo all’atto pubblico deriva dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce e non dall’efficacia probatoria dell’atto medesimo: cfr. Cass. 19 settembre 2014, n. 19738; Cass. 19 luglio 2005, n. 15219.
[31] Pertanto, ove si contesti la mancanza della formula esecutiva sul titolo notificato ai sensi dell’art. 479 c.p.c., il rimedio esperibile è l’opposizione agli atti esecutivi. Invece, ove si contesti l’esistenza stessa del titolo esecutivo in senso sostanziale, il rimedio esperibile è l’opposizione all’esecuzione (cfr. tra le altre, Cass. 14 novembre 2013, n.25638; Cass. 5 giugno 2007, n. 13069; Cass. 26 ottobre 1992, n. 11618).
[32] Cass. 18 novembre 2014, n. 24548. In argomento, per i richiami di giurisprudenza cfr. F. De Stefano, agg. da Belle’, in Processo di esecuzione, a cura di Cardino – Romeo, Padova, 2018, 85 s.
[33] Cfr. in particolare Cass. 5 giugno 2007 n. 13069; Cass. 5 luglio 1990, n. 7074.
[34] Cass. 18 novembre 2014 n. 24548, che ha aggiunto che, non trattandosi di nullità, si deve escludere la sanatoria ai sensi dell’art. 156 c.p.c., anche a seguito della proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi; adde Cass.3 settembre 1999, n. 9297. Con l’opposizione agli atti esecutivi va contestata la regolarità sulla competenza al rilascio della copia (Cass. 6 aprile 1990, n. 2899), oppure la regolarità delle sottoscrizioni (Cass. 3 giugno 1993, n. 6221).
[35] Cass. 14 novembre 2013, n. 25638; Cass. 5 giugno 2007, n. 13069.
[36] Si tratta di Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, la quale puntualizza che secondo la dottrina più risalente - formatasi già sotto il codice del 1865 - l’apposizione della formula esecutiva (che costituisce un unicum inscindibile con la spedizione in forma esecutiva) è non altro che un’affermazione esteriore e solenne d’una efficacia che già è inerente al titolo esecutivo in sé considerato. Si tratterebbe, quindi, di un residuo storico, di un requisito più formalistico che formale. È, tuttavia, preferibile l’opinione di chi osserva che per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva occorre considerare che la stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva (a tal proposito è stato affermato che il diritto a procedere ad esecuzione forzata sarebbe soggetto ad una condicio iuris impropria - l’apposizione della formula - il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio).
[37] Si tratta della tesi di Grasso, voce Titolo esecutivo, cit., 695 s., secondo il quale prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio.
[38] Cfr. P.Comoglio, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim., 2015, 956.
[39] Cfr., anche per ulteriori riferimenti, E. Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, cit.; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, cit., 355 s.
[40] Leuzzi, Considerazioni sulla spedizione del titolo in forma esecutiva alla luce dell’art. 23 del c.d. “decreto ristori”, in www.inexecutivis.it
[41] E.Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, cit.; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, cit., 355 s.
[42] E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[43] Cfr. sul fenomeno dell’interiorizzazione della forza esecutiva, Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv.esecuzione forzata, 2007, 1 s.
[44] Vd. amplius, anche per i richiami, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[45] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[46] Sulla funzione della documentazione ex 567 c.p.c., che dovrebbe rivestire cruciale importanza anche per l’individuazione del regime applicabile, prima delle riforme del 2005-06, cfr.: Tarzia, L’oggetto del processo di espropriazione, Milano, 1961, 344 s.; Tarzia, Il bene immobile nel processo esecutivo, Riv.dir.proc., 1989, 343 s.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1965, 359 s.; Ricci, L’omesso deposito dei documenti nel procedimento di vendita immobiliare, Riv.dir.proc., 1966, 543 s.; Vittoria, Ancora sugli effetti della mancata produzione dei documenti di cui all’art. 567 cpv. c.p.c. nel termine di efficacia del pignoramento immobiliare, Giust.civ., 1966, I, 1207 s.. Dopo le riforme suddette cfr., anche per i riferimenti, Montanaro, C’era una volta la funzione della documentazione ipo-catastale (e del certificato notarile sostitutivo) di cui all’art. 567, 2° co., c.p.c., in Riv. esec. forz. 2006, 1 s. Da ultimo cfr. Brunelli, La documentazione ipocatastale, in Espropriazione forzata immobiliare e attività notarile, a cura di F. Di Marzio – M. Palazzo, Milano, 2021, 117 s.
[47] Cfr. Capponi, Storto, Prime considerazioni sul d.d.l. Castelli recante «Modifiche urgenti al codice di procedura civile», in relazione al processo di esecuzione forzata, in Riv.esec.forz., 2002, 182 s.; Vaccarella, La vendita forzata immobiliare tra delega al notaio e prassi giudiziarie «virtuose», in Riv.esec.forz, 2001, 291 s.
[48] Cfr. Corsini, Commento all’art. 567 c.p.c., in Chiarloni (diretto da), Le recenti riforme del processo civile, I, Bologna, 2007, 900 s.
[49] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida (delibera 11 ottobre 2017).
[50] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida (delibera 11 ottobre 2017).
[51] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[52] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 2014, V, 53 s.; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, in Foro it., 2020, V, 317 s.
[53] Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nella espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 1992, V, 444 s.; Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari. Normativa vigente e prospettive di riforma, in Atti del Convegno di Roma del 22/23 maggio 1993, a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 1994, 13 s.
[54] Cfr. Aa.Vv., Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari. Normativa vigente e prospettive di riforma, Atti del convegno di Roma del 22-23 maggio 1993, Milano, 1994, 349 ss.
[55] Cfr. per tutte Trib. Prato, 4 giugno 1997, in Foro it., 1997, I, 3406, e in Riv. not., 1998, II, 191, che motivava la legittimità della delega al notaio delle operazioni di incanto sia in base alla natura non strettamene giurisdizionale delle attività delegate, sia in base alla norma di cui all’art. 1, comma 2°, b, 4, lett. c dell l. 89/2013, che consente ai notai di procedere agli incanti su delegazione dell’autorità giudiziaria. Cfr. sulla prassi di alcuni tribunali - oltre, quello Prato, quelli di Lucca e Livorno - di ricorrere allo strumento della delega prima ancora della legge 302/1998, F.Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare, Milano, 1999, 14 s.; Mondini - Terrusi, La soluzione giurisprudenziale in materia di delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare alla luce della l. 3 agosto 1998, n. 302, in Giust. civile, 1998, II, 509 s. Per una critica alla possibilità di delega al notaio sostenuta, in quel tempo, de iure condito cfr. Cardarelli, Legge 3 agosto 1998 n. 302, Funzioni e limiti dell’attività notarile delegata nei procedimenti esecutivi, Rivista del notariato, 2000, 566 s.
[56] Cfr. F. Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare, cit., 48; Luiso –Miccoli, Espropriazione forzata immobiliare e delega al notaio, Milano, 1999, 49.
[57] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2010; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, 2007, 1, 534 s.
[58] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2010, 500 s.; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, cit., 562 s.
[59] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 500 s.; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, cit., 562 s.
[60] Cfr. in merito all’esame di questa disposizione E.Astuni, in AA.VV., La nuova espropriazione forzata, diretto da C. Delle Donne, Torino, 2017, 550; Soldi, Manuale, cit., 1566.
[61]Sull’evoluzione qui tracciata cfr., da ultimo, anche per ulteriori richiami, L.Piccolo, Il notaio delegato, in Espropriazione forzata immobiliare e attività notarile, a cura di F.Di Marzio-Palazzo, Milano, 2021, 411 s.
[62] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 2014, V, 53; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, in Foro it., 2020, V, 317 s.
[63] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, cit., 53; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, cit., 317 s.
[64] Cfr. i fondamentali contributi di R. Oriani, Regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), in Foro it., 1998, V, 397 ss.; Id, Ancora sul regime degli atti del notaio delegato nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), in Foro it., 1999, V, 97.
[65]Autorevole dottrina ha rappresentato diversi problemi interpretativi che il professionista delegato può porre al giudice dell’esecuzione: R.Oriani, Regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), cit., 397 s.; Id, Ancora sul regime degli atti del notaio delegato nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), cit., 97; da ultimo sul concetto di difficoltà cfr., anche per i richiami, Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, in Demarchi Albengo, La nuova esecuzione forzata, Bologna, 2018, 1421 s.
[66] Soldi, Manuale, cit., 1593. In giurisprudenza cfr. Cass. 18 aprile 2011, n. 8864, in Foro it., 2013, I, 1664, secondo cui il reclamo ex art. 591 ter c.p.c. avverso il decreto con cui il giudice dell’esecuzione impartisce istruzioni al professionista delegato è proponibile finché tali istruzioni non siano eseguite, ferma restando la facoltà di proporlo avverso gli atti successivi del delegato, che siano affetti da illegittimità derivata, o di impugnare ex art. 617 c.p.c. il primo atto del giudice conclusivo della relativa fase.
[67] Cfr., anche per i richiami, E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 562 s.; Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, cit., 1425.
[68] Da ultimo, su questa tematica, anche per ulteriori riferimenti, cfr. L.Piccolo, Il notaio delegato, cit., 422 s.
[69] Soldi, Manuale, cit., 1595.
[70] Cfr., anche per i riferimenti, M. Marchese, Aggiudicatario: una tutela imperfetta. Parte processuale, in Riv.esec.forzata, 4/2020, 946 s.
[71] Cfr., tra gli altri, A.Saletti, commento all’art. 591 ter, in A. Saletti, M.C. Vanz, S. Vincre, Le nuove riforme dell’esecuzione forzata, Torino, 2016, 312 s.; P.Farina, L’ennesima espropriazione immobiliare “efficiente” (ovvero accelerata, conveniente, rateizzata e cameralizzata, in Riv.dir.proc., 2016, 1, 127; Soldi, Manuale, cit., 1596 s.
[72] Cfr. A. Saletti, commento all’art. 179-ter disp. att. codice di procedura civile, in Saletti, Vanz, Vincre, Le nuove riforme dell’esecuzione forzata, Torino, 2016, 312; Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, cit., 1427.
[73] Cfr. Soldi, Manuale, cit., 1597.
[74] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238.
[75] La Corte nella sentenza in esame (Cass. 9 maggio 2019, n. 12238) puntualizza che questa funzione del subprocedimento incidentale previsto dall’art. 591 ter c.p.c. si desume da due indici normativi. In primo luogo, la collocazione della norma: essa è inserita nel paragrafo dedicato alla delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare. Ciò dimostra che la procedura ivi prevista ha un perimetro applicativo limitato ai dubbi sollevati, alle incertezze incontrate od agli errori commessi dal professionista delegato. Essa serve, dunque, a dirigere le operazioni delegate, e qualsiasi attività endoprocessuale di impulso, coordinamento o controllo sugli atti delle parti o dell’ausiliario da parte del giudice è, per definizione, insuscettibile di passare in giudicato. In secondo luogo, il primum movens del procedimento di cui all’art. 591 ter c.p.c. può essere costituito solo da un atto del professionista delegato: o perché questi si sia rivolto al giudice avendo incontrato “difficoltà”, o perché abbia compiuto un atto ritenuto viziato dalle parti, che l’abbiano perciò reclamato dinanzi al giudice dell’esecuzione. La natura degli atti “reclamabili” dinanzi al giudice dell’esecuzione e la previsione d’un meccanismo snello e deformalizzato per il controllo del collegio sui provvedimenti del giudice dell’esecuzione rende evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita.
[76] Cfr. Soldi, Manuale, cit., 1597 s. Adde, sulla persistente impugnabilità del decreto di trasferimento ex art. 617 c.p.c., in relazione a profili già oggetto di decisione dinanzi al collegio del reclamo, Leuzzi, Il controllo dell’attività del delegato e il nuovo meccanismo della reclamabilità “diffusa”, www.inexecutivis.it
[77] Cfr. Saletti, commento all’art. 591 ter, cit., 314 ss..
[78] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238.
[79] Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., in www.notariato.it
[80] Sui presupposti di “stabilità” del decreto di trasferimento: la decorrenza del termine perentorio per la sua impugnazione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. cfr. Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit.
[81] P. Farina, Riforma processo civile: espropriazione forzata, in Il processo civile.it; F.Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit.
[82] P. Farina, Riforma processo civile: espropriazione forzata, cit.
[83] Alla cui eliminazione non ha provveduto la legge n. 263/2005, che ha lasciato immutato tanto il nuovo testo (di cui alla legge n. 80/2005) degli artt. 596 e 598 c.p.c., quanto la previsione di cui al n. 7 dell’art. 591-bis c.p.c., solo “spostata” al n. 12 della medesima norma. Conseguentemente il segnalato contrasto permane, sia pur fra gli artt. 596 e 598 c.p.c., da un lato, e l’art. 591-bis (ora) n. 12, dall’altro.
[84] Cfr. anche per ulteriori rifermenti dottrinali E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, Padova, 2007, 87 ss.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit. 490 s.
[85] Cfr. per tutte E. Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, cit., 53 s.; E. Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, cit., 317 s.
[86] Cfr. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 490 s.
[87] Cfr. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., spec. 490 s.
[88] A differenza di quanto accade per l’ipotesi di delega al notaio delle operazioni di divisione (e del relativo progetto), quanto meno stando all’impostazione (dottrinale e giurisprudenziale) prevalente in materia, secondo la quale il silenzio o la mancata comparizione della parte non equivalgono ad approvazione del progetto di divisione ex art. 791 c.p.c. ed il notaio deve rimettere gli atti all’istruttore: cfr. per tutti in tal senso: E. Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, 426; G. Pavanini, voce Divisione giudiziale, in Enc. dir., Milano, 1964, 479; G. Tomei, voce Divisione. III) Divisione giudiziale, in Enc. giur., XI, Roma, 1989, 9-10; C. Ripepi, voce Procedimento divisorio, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1996, 648; nonché E. Astuni, La delega al professionista delle operazioni di vendita, in AA.VV., Il nuovo rito civile. III: Le esecuzioni civili, a cura di P.G. Demarchi, Bologna, 2006, 536. Ipotesi rispetto alla quale potrebbe, dunque, apprezzarsi, anche sotto questo profilo, l’attribuzione di maggiori poteri al delegato in sede di espropriazione forzata immobiliare.
[89] Norma che rinvia peraltro, ai fini della fissazione di una nuova udienza, all’art. 485, ult. comma, c.p.c. e che attribuisce, dunque, al delegato anche la relativa valutazione in ordine al «se risulta o appare probabile che alcuna delle parti non sia comparsa per cause indipendenti dalla sua volontà».
[90] Così Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1967, 289.
[91] Cfr. più ampiamente E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; Id., voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 490 s.
[92]Satta, Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 676.
[93]Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1967, III, 225.
[94] Cfr. per tutti sul punto, anche per gli ulteriori richiami, Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, Riv. esec. forz., 2006, 66 s.; Bove in Balena- Bove, Le riforme più recenti del processo civile, cit., 163 s.; D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, in Riv.esec.forzz., 2006, 1 ss; De Stefano, Il nuovo processo di esecuzione. Le novità della riforma, Milano, 2006, 108 s.; De Stefano, Il nuovo processo di esecuzione, 2° ed., Milano, 2006, 162 s.; Astuni, in Demarchi (a cura di), Il nuovo rito civile. III. Le esecuzioni, cit., 308 s.
[95] Cfr. E. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, in notariato.it
[96] Cfr. per tutti sul punto P. Liccardo, La ragionevole durata del processo esecutivo: l’esperienza del Tribunale di Bologna negli anni 1996-2001 ed ipotesi di intervento, cit., 560 s.; Miele-Roda-Fontana, La prassi delle vendite immobiliari nel Tribunale di Monza, in Riv. esecuzione forzata, 2001, 510 s.; Saletti, La prassi di fronte alle norme e al sistema, in Riv. dell’esecuz. forz., 2001, 487 s.; Berti Arnoaldi Veli, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna, in Riv. dell’esecuz. forz., 2003, 59 s. Adde, anche alla luce della legge 80/2005, Miele, La prassi del Tribunale di Monza in tema di espropriazione immobiliare e la l. n. 80 del 2005, in Foro it.., 2005, V, 145 s.; D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, in CNN Notizie del 11 agosto 2006, 7 s.
[98] Cfr., anche per i richiami, sulle funzioni svolte dall’istituto della custodia dei beni immobili pignorati nell’ambito delle cd. best practices proprie di taluni tribunali cui si è ispirato il legislatore della riforma del 2005, D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, cit., 7 s.; Fontana, La gestione attiva del compendio immobiliare pignorato, in Riv. dell’esecuz. forz., 2005, 571 s.
[99] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, in Riv. dell’esecuz. forz., 2006, 66 s.
[100] Si ritiene all’uopo necessaria la istanza del creditore vista la collocazione della norma: cfr. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, in www.notariato.it
[101] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit., 2006, 66 s. secondo cui la previsione in questione non fa riferimento al solo caso del debitore, ma ha valenza generale, per tutti coloro che, essendo incaricati della custodia, non osservino i conseguenti obblighi: quindi, anche agli altri soggetti, diversi dal debitore, cui la custodia sia stata successivamente affidata. Cfr. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, cit., la quale segnala, in senso critico, le prassi instauratesi in ordine a questa norma, utilizzata per sostituire nella custodia il debitore anche prima del provvedimento di autorizzazione alla vendita, in funzione di una anticipata liberazione dei beni e immissione nella loro detenzione da parte del custode.
[102] Testualmente, ai sensi del quarto comma, se custode dei beni pignorati è il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi ritenga che la sostituzione non abbia utilità, dispone, al momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o disposta la delega delle relative operazioni, che custode dei beni medesimi sia la persona incaricata delle dette operazioni o l’istituto di cui al primo comma dell’articolo 534 c.p.c.
[103] Cfr. E. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c.. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, cit.
[104] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit.
[105] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, (delibera 11 ottobre 2017).
[106] Testualmente secondo le linee guida richiamate del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, delibera 11 ottobre 2017), «i compiti del custode e dell’esperto stimatore potrebbero auspicabilmente essere descritti in un provvedimento generale del giudice dell’esecuzione (o dei giudici dell’esecuzione del singolo ufficio di concerto tra loro), pubblicato sul sito internet del tribunale, in guisa che l’attività che gli ausiliari espleteranno si palesi in linea di principio uniforme, conoscibile e standardizzata. Tali indicazioni potranno essere recepite, con pari livello di dettaglio, nei provvedimenti di interesse, ovvero ad essi allegate come parte integrante. Si regoleranno, tra gli altri aspetti, anche i tempi e i modi per l’immediato avvio della collaborazione tra esperto stimatore e custode, ove contestualmente designati».
[107] Sulla evoluzione nonché sulla ratio e sulla disciplina dell’ordine di liberazione cfr. Fanticini, La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18 giugno 2009, n. 69, a cura di Demarchi, Bologna, 2009, 630 ss.; Id., La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata, a cura di Demarchi, Bologna, 2018, 921 s.
[108] Cfr. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questionegiustizia.it, il quale rileva che gli interventi succedutisi in questi anni sul tema della liberazione dell’immobile hanno finito per esasperare una disputa, da qualcuno ritenuta ideologica ma piuttosto caratterizzata da un contrapposto «furore» normativo, tra chi ritiene illusoriamente di realizzare la sacrosanta e generale esigenza di tutela del diritto alla casa, con la posticipazione di qualche mese del rilascio di un immobile magari già alienato a terzi, che vantano una analoga esigenza abitativa, e chi ritiene che la liberazione anticipata dell’immobile abbia effetti taumaturgici sulla efficienza delle procedure esecutive.
[109] Parte della dottrina (Cavuoto, Sull’impugnazione dell’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, in Foro it., 2011, 3391, 12, 1) rileva però come, sebbene solo con la modifica dell’art. 560 c.p.c., ad opera delle l. 14 maggio 2005 n. 80 e 28 dicembre 2005 n. 263, l’ordine di liberazione sia stato oggetto di un’espressa previsione normativa, anche prima della novella, sussistevano ben pochi dubbi sul fatto che il giudice dell’esecuzione potesse emanare il provvedimento di rilascio come conseguenza diretta dell’avvenuta sostituzione del debitore nella custodia dell’immobile ai sensi dell’art. 559 c.p.c. Sull’ordine di liberazione all’indomani delle riforme del 2005-06 cfr. Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit., 66 s.; Bove, in Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 163 ss.; De Santis, in Didone, Il processo civile competitivo, Torino, 2010, 890 s.
[110] La ricostruzione e l’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina operata ha consentito di rilevare nello studio a cura di Calderoni, Esecuzione forzata, d.l. n. 59/2016 e ordine di liberazione dell’immobile pignorato, in www.notariato.it, come l’intento del legislatore di semplificare non porti ad una diminuzione delle garanzie giurisdizionali. In particolare, nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata, in detto studio si è ritenuto che la apparente riduzione di garanzie per l’esecutato - derivante dalla eliminazione di un apposito processo esecutivo - trovi nel nuovo sistema adeguato bilanciamento, da un lato, nella previsione espressa del rimedio della opposizione agli esecutivi e, dall’altro, nella circostanza che la legge, sia pur in un regime di notevole semplificazione, riserva al giudice – e non al custode – il potere di disporre l’intervento della forza pubblica, che prima era invece rimesso, senza controllo giurisdizionale diretto, all’ufficiale giudiziario.
[111] Ossia doveva trattarsi di crediti certificati e risultanti dalla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, per un ammontare complessivo pari o superiore all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.
[112] A. Auletta, Commento a prima lettura alla novella di cui all’art. 4, d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, in InExecutivis.
[113] Vd. Angelone, Il nuovo «modo» della custodia dopo la l. 12/2019, in Riv. esecuzione forzata, 2019, 3, 506.
[114] In argomento v., Crivelli, L’ordine di liberazione dopo la L. 11 febbraio 2019, n. 12, in Riv. esec. forz., 2019, 4, 760; Giorgetti -Fedele, La liberazione dell’immobile pignorato: il nuovo art. 560 c.p.c. come modificato dalla L. n. 12/2019, in Imm. e Prop., 2019, 8-9, 506; Angelone, Il nuovo «modo» della custodia dopo la L. 12/2019, cit., 3, 506; Vittoria, Modi della custodia e tutele del debitore che abita l’immobile pignorato, dopo le recenti modifiche dell’art. 560 c.p.c., in Riv. esec. forz., 2019, 2, 243; Perago, La conclusione del subprocedimento di vendita: la pronuncia del decreto di trasferimento, in Riv. esec. forz., 2019, 2, 303; Farina, Le modifiche apportate dalla L. 11-2-2019, n. 12 alla conversione del pignoramento ed all’ordine di liberazione, in Riv. esec. forz., 2019, 1, 149.
[115] E. Gasbarrini, Modalità attuative dell’ordine di liberazione e nuova disciplina transitoria del nuovo articolo 560 c.p.c. (osservazioni all’art. 18 quater del D.L. 162/2019, convertito in L. 8/20201), in Notariato.it
[116] Cfr., anche per i richiami, Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., in www.notariato.it
[117] Cfr., anche per i riferimenti, Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit., la quale ricostruisce il dibattito scaturito a seguito della novella del 2020, che ha previsto che il custode debba attuare il decreto di trasferimento nelle forme previste per l’attuazione dell’ordinanza di liberazione ponendo in rilievo: la tesi secondo cui il legislatore avrebbe esteso al decreto di trasferimento il regime previsto per l’ordine di liberazione ex art. 560 c.p.c., affidando, in entrambe le ipotesi, al custode la fase attuativa, ferma restando, comunque, la possibilità per l’aggiudicatario di agire esecutivamente nelle forme ordinarie in forza del decreto di trasferimento; e la tesi secondo cui il custode potrebbe dare attuazione all’ingiunzione ex art. 586, 2° comma, c.p.c. non già in forza del decreto di trasferimento stesso, ma in forza di un autonomo ordine di liberazione da pronunciarsi, al più tardi, contestualmente al decreto di trasferimento stesso.
[118] Cfr. Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit., ove si dà conto del dibattito e si ritiene che la tesi preferibile appare quella che propende per la eventuale configurabilità di un decreto di trasferimento a contenuto complesso. Tuttavia – precisa l’A. - che non pare neppure astrattamente ipotizzabile che l’acquirente possa promuovere la esecuzione per rilascio forzoso ai sensi degli artt. 605 e seguenti c.p.c. e, nel contempo, instare affinché il custode giudiziario proceda coattivamente allo sgombero in forma libera. In questa prospettiva, è ragionevole sostenere che l’art. 560 c.p.c. preveda due modalità alternative per ottenere il rilascio. Il decreto di trasferimento in quanto titolo esecutivo può legittimare l’instaurazione di un procedimento di rilascio forzoso ai sensi degli artt. 605 e seguenti c.p.c. Tuttavia, se l’aggiudicatario ne fa richiesta, il contenuto ordinario del decreto di trasferimento va integrato con l’inserimento anche di un ordine di liberazione in virtù del quale il custode giudiziario può procedere allo sgombero informale del bene. La richiesta di integrare il decreto di trasferimento con l’ordine di liberazione autorizza il custode giudiziario al compimento delle attività funzionali alla sua attuazione coattiva ma impedisce all’acquirente di promuovere contestualmente la esecuzione forzata per rilascio.
[119] Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza, cit.
[120]Cfr. Corte cost. sentenza n. 128/2021: il «diritto all’abitazione, che costituisce «diritto sociale» (sentenze n. 106 del 2018 e n. 559 del 1989) e «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 44 del 2020). Esso, benché non espressamente menzionato, deve ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili (sentenze n. 161 del 2013, n. 61 del 2011 e n. 404 del 1988) e il suo oggetto – l’abitazione – deve considerarsi «bene di primaria importanza» (sentenze n. 79 del 2020 e n. 166 del 2018)». D’altro canto, rileva il Giudice delle leggi che: «l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore», deve però sussistere un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite. In particolare, «il dovere di solidarietà sociale, nella sua dimensione orizzontale, può anche portare, in circostanze particolari, al temporaneo sacrificio di alcuni a beneficio di altri maggiormente esposti» sempreché sia rispettato, però, il principio di proporzionalità. Nella giurisprudenza di legittimità, sulla rilevanza dell’ordine di liberazione per l’effettività della tutela esecutiva, cfr. Cass., 3 novembre 2011, n. 22747, secondo cui la liberazione del bene pignorato è corollario «del principio … generale della necessaria effettività dell’azione giurisdizionale esecutiva, indispensabile per lo stesso corretto funzionamento delle istituzioni, sul quale si basa l’innovazione legislativa dell’ordine di liberazione obbligatorio».
[121] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[122] Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza, cit.
[123] Cfr. A.Didone, Il processo esecutivo nel prisma degli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza (PPNRR), in Riv. esec.forzata, 2021, 2, 454 s., sembra far propria tale qualificazione dell’istituto così come operata dalla relazione illustrativa.
[124] E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, in il giusto processo civile, 3/2015, 720.
[125]P.Liccardo, I modelli decisionali della vendita coattiva nelle leggi 14-5-2005, n. 80, 28-12-2005, n. 263 e 24-2-2006, n. 52: ovvero della qualità delle leggi o delle leggi senza qualità, in Riv. esec. forz., 2006, 1 s. Peraltro, l’eccessiva rigidità procedimentale del modello di vendita coattiva di cui al codice di rito era stato denunciato anche da remoti progetti di riforma del codice di procedura civile quali il “Testo del disegno di legge delega elaborato dalla Commissione Tarzia”: cfr. sul punto, anche per ulteriori riferimenti, E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 722.
[126] Sui dati strutturali e funzionali delle vendite competitive cfr. E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 ss.; D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, in Studi e Materiali, 2008, 3, 1226 s.; Id, Il trasferimento d’azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, in Studi e Materiali, 2011, 4, 1399 s.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, in Studi e Materiali, 2011, 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, in Studi e Materiali, 2012, 4, 1265 s.; E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, in www.notariato.it.; L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, in Rass. esec.forz., 1/2020, 27 s.
[127]L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[128] Cfr. Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., il quale ha osservato, sotto il profilo strutturale e procedurale, che la vendita fallimentare è un atto ricompreso in uno specifico iter procedimentale, dipendente perciò dal corretto espletamento di una procedura cronologicamente e logicamente presupposta, e sul quale si basano ulteriori atti consequenziali; il trasferimento del bene, sia che avvenga all’esito di atto negoziale, sia che consegua ad un atto giudiziario, si colloca necessariamente ad un determinato punto di un iter procedimentale. Sotto il profilo funzionale, nello stesso studio, si è posto in evidenza che i trasferimenti nell’ambito della liquidazione fallimentare, sia che avvengano per effetto di un decreto di trasferimento, sia che avvengano per effetto di un atto negoziale, sono necessitati dalla funzione liquidatoria, sottoposti ad un peculiare regime di legittimazione dell’alienante e ad un regime di scelta dell’acquirente, sulla base di una procedura competitiva; al contempo, sono assoggettati a controlli e poteri autoritativi tanto forti che ne possono legittimare la caducazione in base a valutazioni di maggior convenienza di altra offerta. In senso adesivo cfr. E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, in www.notariato.it, ove si è in particolare sottolineato che la forma dell’atto di trasferimento, con il quale si conclude il subprocedimento di vendita, non determina il venir meno della natura coattiva della vendita competitiva. Trattasi, in altri termini, di differenza di ordine “formale” o comunque non tale da incidere sulla natura coattiva della vendita.
[129] Cfr. il progetto di riforma della Commissione ministeriale costituita con d.m. 28 giugno – 4 luglio 2013, per elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione presieduta da R. Vaccarella.
[130] E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, in Il giusto processo civile, 3/2015, 723.
[131] A questo schema rispondono, a titolo esemplificativo, i contratti di garanzia finanziaria di cui al d.lgs. n. 170 del 2004 (in attuazione della direttiva 2002/47/CE); il pegno non possessorio (art. 1 d.l. n. 59 del 2016); il finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato (art. 48 bis T.U.B., Testo Unico Bancario, d. lgs. n. 385 del 1993, introdotto sempre nel 2016); il credito immobiliare ai consumatori (v., in particolare, l’art. 112 quinquiesdecies T.U.B., d.lgs. n. 385 del 1993, introdotto con d.lgs. n. 72 del 2016).
[132] Così F. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 13.
[133] Così F. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 13 secondo il quale, «peraltro, a rendere più improbabile l’utilizzazione del procedimento, vi è, anche in questo caso, la previsione dell’immediata liberazione dell’immobile, soluzione difforme da quelle previste nelle altre disposizioni del ddl delega, e particolarmente controindicata in un procedimento che sembrerebbe finalizzato anche a consentire l’aggiudicazione a favore di un soggetto che abbia intenzione (per legami familiari o di amicizia) di consentire al debitore di continuare a utilizzare l’immobile».
[134] Cfr. per tutti su questa ipotesi, anche per gli ulteriori riferimenti, D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, cit., 1226 ss.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, cit., 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., 1265 s.
[135] All’indomani dell’introduzione dell’istituto della “vendita competitiva”, secondo la tesi prevalente, ci troveremmo di fronte ad una vendita avente natura coattiva, in ragione di una pluralità di indici che depongono in tal senso, quali, segnatamente: l’identità della funzione liquidatoria, il particolare regime di legittimazione dell’alienante (id est la mancanza del consenso del fallito alla vendita), l’attuazione dell’interesse (di natura pubblicistica) di soddisfacimento dei creditori, il particolare regime di scelta e selezione dell’acquirente. Cfr. in tale prospettiva, ex multis: M. Fabiani, Natura della vendita forzata. Traslazione del rischio da “bene a norma”, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, a cura di Capponi, Sassani, Storto, Tiscini, Torino, 2014, 1461 ss.; C.Ferri, La liquidazione dell’attivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 2006, 3, 963; Liccardo- Federico, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, diretto da Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2007, 1805; Castagnola, La natura delle vendite fallimentari dopo la riforma delle procedure concorsuali, Giur. comm., 2008, I, 372 ss.; E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 ss.; D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, cit., 1226 ss.; ID, Il trasferimento d’azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, cit., 1399 ss.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, cit., 2011, 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., 1265 s.; E.Fabiani-Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, cit.; L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[136] Cfr. anche per i riferimenti E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 s. (spe. 724-725), scritto in cui l’A. pone in luce, al di là delle obiezioni solevate nel corso del tempo, l’attualità del pensiero di S.Pugliatti, nella parte in cui Questi aveva colto la profonda essenza pubblicistica della vendita forzata. In particolare, nel richiamato contributo, l’A. pone dunque l’accento sull’importanza di considerare il nucleo imprescindibile della vendita forzata, soprattutto in un momento storico come quello attuale in cui questo istituto sta subendo una evoluzione caratterizzata dalla progressiva perdita di taluni dei suoi tratti caratterizzanti, sia di ordine soggettivo (stante il ricorso alla figura del professionista delegato) che oggettivo (stante il ricorso alle vendite competitive e la tendenza a denunciare l’eccessiva rigidità del modello procedimentale di vendita di cui al codice di rito, rispetto alla tradizionale impostazione podistica. Adde, sugli elementi di coattività in relazione ad ipotesi in cui non può dirsi che la vendita sia effettuata contro la volontà del debitore L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[137] E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, cit.
[138] Critico appare Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustiziainsieme.it, secondo il quale il «‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative, qui persino dei principii e dei criterî direttivi del d.d.l. delega, già apparecchiati per i decreti delegati e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici». Inoltre, secondo l’A., può peraltro dubitarsi dubitare «che sia necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vente privée, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 3/2012 e, poi, CCI di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale. Insomma, non vorremmo che la disciplina della ‘vendita privata’ – o vente privée che dir si voglia – fosse «inutil precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
[139]Cfr. anche per i riferimenti E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 s.
[140] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[141] Così vd. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021), il quale, nell’auspicare che la cauzione resti definitivamente acquisita alla procedura nel caso di «mancata stipula dell’atto di trasferimento nel termine stabilito dal giudice», sembrerebbe ritenere, in conformità con quanto si è già avuto modo in precedenza di evidenziare nel testo, che una peculiarità del nuovo istituto della “vendita diretta” introdotto dal legislatore nel nostro ordinamento risieda nel fatto che detta vendita non si estrinseca nell’emissione di un decreto di trasferimento da parte di un giudice, ma nel ricevimento di un atto pubblico di vendita da parte di un notaio.
[142] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, in Rass. esecuz. forz., n. 1/2021, 5 s.; Id., Vendita forzata e normativa antiriciclaggio in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, n. 1/2020, 261 s.
[143] Cfr. più ampiamente sui tratti caratterizzati della coattività della vendita E. Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 703 s.
[144] Il quale, a differenza del venditore/debitore non “subisce” la vendita ma sceglie liberamente di procedere all’acquisto di un bene oggetto di una alienazione coattiva.
[145] E possa, se del caso, anche integrare la fattispecie di reato di cui all’art. 648 bis c.p.c. (recante “riciclaggio”) in forza del quale è punibile (con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 e euro 15.493), «fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa».
[146] Il Sole 24ore del 29 febbraio 2020 pag. 17 “Tribunali, aste a rischio riciclaggio”.
[147] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 s.
[148] Così Trib. S.M. Capua Vetere, 7 novembre 2019 (pubblicata in Riv. dell’esecuz. forz., n. 1/2020, 260 ss. nell’ambito dell’osservatorio sulla giurisprudenza di merito a cura di D. Capezzera - A. Farolfi) nel ritenere, conseguentemente, «illegittimo il rifiuto della banca di dare esecuzione al piano di riparto predisposto dal professionista delegato ed approvato dal G.E.».
[149] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 s.
[150] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., spec. 10 s.
[151] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., spec. 20 s.
[152] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 ss.
[153] Cfr. A. Proto Pisani, Condanna (e misure coercitive), in Foro it., 2007, V; Id., voce Sentenza di condanna, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino 1998, 300 s.
[154]Cfr. all’indomani dell’introduzione dell’art. 614 bis, per tutti, L. Barreca, l’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (art. 614-bis c.p.c.), in Riv. esec.forzata, 2009, 4 s.; Bove, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it; F. De Stefano, l’esecuzione indiretta: la coercitoria, via italiana alle “astreintes”, in Corr. merito, 2009, 12, 1181 s.; F. De Stefano, note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme sul processo esecutivo ed in particolare dell’art. 614-bis c.p.c., in Riv. esec.forz., 2009, 4 s.; Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella l. 69/09, in Riv. dir. processuale, 2009, 1546 s.; Saletti, sub art. 614 bis c.p.c., in Saletti, Sassani (a cura di), Commentario alla riforma del codice di procedura civile (L. 18.6.2009, n. 69), Torino, 2009, 194 s.
[155] Sulle novità della novella del 2015 cfr. per tutti: Gambioli, Novità in materia di esecuzione forzata(I parte) -Le misure di coercizione indiretta ex art. 614 bis c.p.c., Giur. it., 2016, 5, 1264 s.; Mazzamuto, L’astreinte all’italiana si rinnova: la riforma della comminatoria di cui all’art. 614-bis c.p.c., in Europa e Diritto Privato, 1, 2016, 11 s.;; Mazzamuto, La coercizione indiretta, in Europa e Diritto Privato, 3, 2021, 465 s. Sull’iter della riforma cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, Misure coercitive fra condanna e tutela esecutiva, Riv. trim. dir. e proc. civ., 1, 2014, 389 s.
[156] Cfr. per tutti Recchioni, L’attuazione forzata indiretta dei comandi cautelari ex art. 614-bis c.p.c., in Riv.trim.dir.proc.civ., 4, 2014, 1477; Chiarloni, L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614-bis cod. proc. civ.: confini e problemi, Giur. it., 2014, 7; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino 2013, III, 101; Consolo – Godio, sub art. 614 bis in Comm. del codice di procedura civile VII, t. 1, diretto da L.P. Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Torino, 2013, 175 – 176; Gambineri, Attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare, Foro it., 2009, V, 323; Tiscini, Prime osservazioni sulla l. 18.6.2009, n. 69, in www.judicium.it. Ma vd. anche Mazzamuto, La coercizione indiretta, in Europa e Diritto Privato, 3, 2021, 465 s., il quale osserva che nonostante le obiezioni mosse da parte della dottrina processualista al criterio della manifesta iniquità, il medesimo «oggi sembra godere per fortuna di ottima salute se il legislatore l’ha posta a presidio della nuova comminatoria amministrativistica di cui all’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a. e non mancano neppure in dottrina e giurisprudenza rilevanti guadagni interpretativi sulla base di essa».
[157] Cfr. Luiso, Diritto processuale civile, III, 2019, Milano, 247, secondo cui un corretto inquadramento sistematico avrebbe consentito di affidare il compito di determinare la sanzione pecuniaria al giudice dell’esecuzione, come accade per l’esecuzione degli obblighi di fare: dopo aver notificato il titolo esecutivo e precetto, in analogia a quanto prevede l’art. 612 c.p.c., il creditore avrebbe potuto proporre ricorso al giudice dell’esecuzione. Questi, convocate le parti, avrebbe determinato la misura della sanzione pecuniaria dovuta. Invece, avendo il legislatore ritenuto che è compito del giudice della cognizione concedere la misura coercitiva, l’avente diritto – beneficiario di un titolo esecutivo stragiudiziale – sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria. Invece, avendo il legislatore stabilito che è compito del giudice della cognizione concedere la misura esecutiva, l’avente diritto - beneficiario di un titolo esecutivo stragiudiziale – sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria.
[158] Cfr. Capponi, Perché in Italia l’astreinte non si ama, in Giustizia insieme, 20 aprile 2021; Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c. in Judicium 29 aprile 2010.
[159] Cfr. in tal senso Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 14.
[160] Cfr. Proto Pisani, Note personali e no a margine dell’art. 614 bis c.p.c., in Rass. esecuz. forz., n. 1/2019, 3 s.
[161] Su cui cfr. P. Liccardo, Il sistema dei registri delle procedure concorsuali e il formante giudiziario nel terzo millennio, in Riv. dell’esecuzione forzata 2018, 2, 340 ss.; P.P. Ferraro, Il registro delle espropriazioni immobiliari, della procedura d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi, in Dir. fall., 2017, 2, 355 s.
[162] Sui vari profili distintivi di queste due sezioni cfr. P. Liccardo, Il sistema dei registri delle procedure concorsuali e il formante giudiziario nel terzo millennio, cit., 340 s.
[163] Cfr. P.P. Ferraro, Il registro delle espropriazioni immobiliari, della procedura d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi, cit., 355 s.
Soggettività delle persone di età minore e allontanamento forzato dei figli*
di Maria Giovanna Ruo**
Ringrazio per l’invito all’audizione sul tema “Soggettività dei minori e allontanamento forzato dei figli dal loro precedente contesto relazionale”, affrontato dal gruppo di lavoro coordinato dalle Professoresse Assunta Morresi, Tamar Pitch e Grazia Zuffa, nell’ambito dell’assemblea plenaria del CNB per la giornata del 27 gennaio 2022.
È un grande onore e una grande responsabilità, di cui sono grata, riferire in questo contesto sulla base dell’esperienza professionale e di studio che ho potuto maturare negli anni di esercizio della professione forense nel settore persone, relazioni familiari e minorenni.
Ringrazio in particolare il Prof. Lorenzo D’Avack al quale sono legata da gratitudine personale per essere sempre stato Maestro e punto di riferimento; la Prof.ssa Laura Palazzani, ricordando sempre con piacere i tanti stimoli ricevuti e maturati alla LUMSA, anche in fugaci incontri ma sempre preziosi, e che tanto mi hanno arricchito.
CAMMINO-Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni, che è l’associazione che rappresento e presiedo da circa 20 anni e che ho contribuito a fondare ormai 23 anni fa, nel variegato panorama delle associazioni specialistiche familiaristiche riconosciute dal CNF tra le più rappresentative, ha da sempre scelto come propria cifra la promozione e la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili, partendo proprio da quelli delle persone di età minore. Conta attualmente 65 sedi territoriali.
L’odierna audizione si svolge all’indomani dell’approvazione da parte della Camera in via definitiva della riforma sul processo civile con l. 206/2021 che riguarda anche specificamente, con un intervento ampio, articolato e approfondito, il settore persona, minorenni, famiglie, e che richiamerò quindi spesso, premettendo che in parte si tratta di interventi di legge delega, e bisognerà quindi attendere i decreti legislativi per valutare l’incisività su varie tematiche, in parte invece prevede norme immediatamente efficaci che entreranno in vigore 180 giorni dopo l’entrata in vigore della legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 dicembre 2021.
1. Soggettività della persona di età minore, quadro costituzionale, percorso di adeguamento interno: the best interest of the child
La soggettività giuridica delle persone di età minore potrebbe dirsi scontata: ma se teoricamente e astrattamente è da tempo così, non lo è stato nell’applicazione pratica delle norme e nella tutela dei diritti per il diffuso pregiudizio socio-culturale che i figli fossero -e siano- sostanzialmente sprovvisti di una propria reale e concreta autonoma soggettività, quasi appendici dei genitori e delle famiglie. La normativa codicistica riservava loro tutela sostanzialmente per gli aspetti patrimoniali del patrimonio personale.
È portato di un lungo percorso, dagli ultimi decenni del secolo scorso, la considerazione delle persone di età minore come soggetti autonomi, titolari di diritti personalissimi la cui tutela può non solo non essere garantita dai genitori (cui è principalmente affidata dal nostro sistema costituzionale ai sensi degli artt. 2, 3, 30, 31 Cost.), ma persino esserne compromessa. I genitori infatti si possono trovare in conflitto di interesse con loro o non essere in grado, anche incolpevolmente e inconsapevolmente, di tutelarli. In tali casi la famiglia non è più la formazione sociale in cui i loro diritti fondamentali sono attuati e in cui si svolge la loro personalità, ma può divenire il luogo della loro negazione. La casistica è ampia e mi riservo di tornare successivamente su alcune fattispecie che riterrei di segnalare per il loro particolare rilievo.
Nell’ordinamento interno lo snodo è costituito dalla ratifica della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (l. 176/1991), che pone all’art. 3 il criterio di the best interest of the child come determinante e preminente di giudizio: da quel momento inizia una diversa considerazione delle persone di età minore come dotate di una piena soggettività personale e portatrici di diritti personalissimi la cui tutela viene affidata ai genitori, ma può essere anche da loro indipendente e anzi lo deve essere se da questi compromessa,. Il principio è penetrato sempre più grazie ai plurimi interventi della Consulta che lo hanno reso clausola generale dell’ordinamento.
Nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco, secondo la giurisprudenza anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella tutela dei contrapposti diritti dei figli minorenni e dei genitori, deve prevalere la tutela dei primi; tra i diritti delle persone di età minore deve ricevere tutela prioritaria la sua salute, intesa in una prospettiva de futuro come tutela delle migliori condizioni possibili di sviluppo psico-fisico.
2. Centralità del diritto alla salute della persona di età minore e condanne CEDU all’Italia in materia minorile
La salute della persona di età minore va difatti intesa e salvaguardata su un piano dinamico, volto al futuro, per consentire il miglior sviluppo psico-fisico nel concreto, a quella persona di età minore, nella condizione storica, relazionale sociale in cui si trova, eliminando gli ostacoli che vi si frappongono.
Il sistema demanda prima di tutto ai genitori tale compito: sono ritenuti, sulla scorta delle indicazioni delle scienze mediche e sociali, le persone che meglio possono garantirlo come meglio possono garantire quello alla formazione della sua identità personale e sociale. Rilevante in questa prospettiva anche il sistema delineato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,, e in particolare del dettato dell’art. 8: in uno Stato democratico, nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco, deve prevalere sempre the best interest of the child. In questa prospettiva, incombono allo Stato doveri negativi di non ingerenza nella relazione figli minori-genitori: deve essere rispettata la vita privata e familiare di genitori e figli, nel senso che vivere insieme, godere dell’apporto gli uni degli altri, ne costituisce contenuto essenziale e lo Stato non deve intervenire. Tuttavia se i genitori non sono in grado di garantire il miglior sviluppo psico-fisico dei figli, allora incombe alle Autorità nazionali invece intervenire celermente e tempestivamente, a tutela del best interest di questi ultimi, anche allontanandoli in casi estremi, in cui non sia possibile altro provvedimento a loro tutela, ma sempre attuando contestualmente interventi volti al potenziamento della genitorialità per il ricongiungimento genitore-figlio, che costituisce traguardo ineliminabile salvo che poi risulti impossibile nella prospettiva prima richiamata.
Non poche le condanne all’Italia per aver fallito l’obiettivo della tutela nella prospettiva di cui sopra[1]: la maggior parte riguarda i casi in cui le Autorità nazionali non sono state in grado di salvaguardare il rapporto dei figli minorenni con il genitore non convivente, quando deve essere ripristinato in quanto positivo per quel minore e ostacolato senza ragioni nell’interesse del figlio dall’altro di cui dirò più specificamente infra. L’ago della bilancia è sempre quindi il best interest nel caso concreto: se la relazione con il genitore con il quale il rapporto è ostacolato (e infine rifiutato dal figlio) è considerato positivo per lui, allora deve essere garantito. Se invece tale rapporto è negativo per il figlio minorenne, per questioni varie (ad es. il minore ha subito abusi psicologici, fisici, sessuali o ha assistito a violenze di vario genere nei confronti dell’altro genitore o di altro familiare -c.d. violenza assistita-), allora tale rapporto non deve essere forzato. Nel sistema delineato dalla giurisprudenza della Corte EDU, anche l’ascolto del minore che rifiuta l’altro genitore deve essere attentamente valutato alla luce delle concrete dinamiche relazionali genitori-figlio, come pure si vedrà infra.
Non sono mancate condanne al nostro Paese anche in tema di adottabilità, quando sono stati interrotti i rapporti con genitori fragili, la cui genitorialità non era stata correttamente sostenuta e potenziata: l’ultima recentissima, D.M. e N. c. Italia, ric. 60083/19, sent. 20 gennaio 2022; precedenti sempre nei confronti del nostro Paese sono: A.I c. Italia, ric. 70896/17, sent. 1 aprile 2021; Jiaoqin Zhou c. Italia, ric. 33773/11, sent. 21.01.2014; S.H. c. Italia, ric. 52557/14, sent. 13.10.2015. Non sono mancare sentenze di condanna in caso di interruzione ingiustificata della relazione nonni/nipoti, la cui relazione con i nipoti non è stata pure immediatamente ripristinata, lasciando consolidare situazioni nelle quali si è in definitiva dissolta: Solarino c. Italia, ric. 76171/13, sent. 09.02.2017; Manuello e Nevi contro Italia, ric. n. 107/10, sent. 20.01.15; Terna c. Italia, ric. 21052/18, sent. 14.01.2021. O condanne nel caso di minori inseriti in altri contesti familiari, senza successiva attenzione alle relazioni ormai consolidate con gli affidatari, lasciandoli soli in un conflitto di lealtà e di appartenenza a diverse famiglie e culture traendone conseguentemente un danno anche grave alla costruzione della propria identità: Barnea e Caldaru c. Italia, ric. 37931/15, sent. 22/06/2017.
3. Diritto alla bigenitorialità: gli strumenti di graduazione e affievolimento nell’interesse del minore (principio “elastico”)
Nel quadro costituzionale e della normativa pattizia, fonte sopraordinata ai sensi dell’art. 117 Cost. così come la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, deve essere ovviamente interpretata la normativa interna (disciplina codicistica e legislazione speciale) e debbono essere orientate le prassi applicative.
Ne consegue che anche il principio di bigenitorialità non è un principio assoluto, ma esso stesso relativo in ragione di the best interest of the child perché funzionale al suo miglior sviluppo psico-fisico. Se il paritetico apporto affettivo, relazionale, educativo di entrambi i genitori o di ciascuno di essi è funzionale alla sua realizzazione, non deve subire limitazioni; se viceversa il rapporto con entrambi i genitori, o anche con uno di essi ,potrebbe recare pregiudizio alla persona di età minore, la normativa offre una serie di strumenti di disciplina della responsabilità genitoriale che possano graduarne l’apporto.
E, quindi: ancorchè la regola (in funzione della presunzione della necessità di apporto paritetico di entrambi i genitori quando non vi sia convivenza tra gli stessi) sia l’affidamento condiviso a entrambi (che - lo sottolineo - non vuol dire pariteticità di tempi, ma pari apporto nelle decisioni di maggiore interesse e di ordinaria amministrazione), qualora invece l’apporto di uno o di entrambi fosse pregiudizievole, è prevista legittimamente una progressiva concentrazione della responsabilità genitoriale nel genitore più idoneo alla tutela del figlio minorenne con corrispondente affievolimento dei poteri/doveri dell’altro (affidamento esclusivo o superesclusivo), o persino invece l’attribuzione della responsabilità genitoriale a terzi con limitazione quindi di quella di entrambi i genitori (affidamento a parenti o a terzi oppure, tristemente noto per la sua nebulosità, affidamento ai servizi sociali) fino alla sospensione o ablazione dei medesimi genitori dalla responsabilità. Nei casi estremi, dopo un procedimento volto all’accertamento dello stato di abbandono morale e materiale, sarà dichiarato lo stato di adottabilità ai sensi della l. 184/9183 e la persona di età minore avrà un’altra famiglia adottiva previamente valutata per la sua idoneità a crescerlo e ad esercitare la funzione genitoriale nel di le interesse. La relazione con il genitore il cui comportamento sia pregiudizievole può/deve essere limitata, contenuta, anche rescissa in funzione del migliore sviluppo psico-fisico del figlio minorenne.
Ne deriva che in ogni caso deve esserci attenzione alla concreta persona di età minore, alla sua storia relazionale e sociale, alle sue necessità psico-fisiche, alla sussistenza di risorse interne da attivarsi nel quadro costituzionale e subcostituzionale sopra pur brevemente e banalmente descritto, nella consapevolezza che il principio di the best inerest è criterio elastico[2], la cui effettiva tutela non tollera banalizzazioni e generalizzazioni, perché ogni persona di età minore è un universo a sè stante. E che quando si tratta di minorenni ci si riferisce a un universo variegato da 0 a 18 anni, con diverse fasce di maturità e di sviluppo che debbono essere considerate con la massima attenta valutazione della situazione personale, relazionale e sociale concreta, sempre nella prospettiva che il primo obiettivo è l’empowerment delle risorse perché incombe alle Autorità il dovere positivo di ricongiungimento figli-genitori, salvo che non sia contrario a the best interest.
4. Il contributo di altri saperi all’individuazione di the best interest of the child nel caso concreto e le relative modalità processuali
Ovviamente, se nella fisiologia dei rapporti familiari tutto funziona, tali principi permeano la quotidianità e non assumono autonomo rilievo giuridico. Ciò succede nella patologia delle relazioni, quando entrano in crisi sia in senso orizzontale (crisi della relazione tra genitori) sia in senso verticale (crisi della relazione genitori e figli)- e la disciplina della responsabilità genitoriale è oggetto di decisione nei relativi giudizi.
A tale proposito assumono particolare rilevanza le valutazioni della c.d. idoneità genitoriale da parte di esperti sul piano psicologico-evolutivo, talvolta psichiatrico, purtroppo quasi mai pedagogico. La marginalizzazione della pedagogia provoca che le relazioni siano considerate quasi sempre da una prospettiva patologica e comporta -come conseguenza- che la capacità educativa non venga mai presa in considerazione nella valutazione dell’idoneità genitoriale nelle decisioni relative all’affidamento dei figli minorenni e alla loro tutela nelle situazioni di pregiudizio. Il cha particolare rilievo anche nelle questioni di violenza.
L’apporto di altri saperi necessari per la corretta valutazione di quale sia il best interest of the child nel caso concreto è nel nostro sistema processuale attuale (quando è nel contesto giudiziario che la tutela del minore è richiesta) assicurato attraverso strumenti diversi a seconda anche della tipologia di giudice procedente:
1)Relazioni socio-psico-ambientali affidate ai servizi alla persona (operatori sanitari e operatori sociali, in “varia formazione” a causa del Titolo V della costituzione in quanto vi è riserva di legislazione regionale in materia sanitaria ai sensi dell’art. 117 Cost.): il giudice può demandare ai Servizi indagini socio-psico-ambientali. Vengono svolte al di fuori del contraddittorio e dei diritti di difese delle parti, e risultano quindi incontestabili anche se eventualmente errate: vengono definite in gergo cd. prova bloccata); talvolta peraltro si è giunti all’attivazione di un giudizio perché i precedenti interventi dei Servizi non hanno funzionato nel sostegno del nucleo familiare fragile e, quindi, le relazioni dei medesimi Servizi risentono di “pregiudizi” in senso proprio. La Riforma processuale di cui alla l. 206/2021 è intervenuta con alcune norme immediatamente efficaci[3], ed altre previste invece nella legge delega[4]
2) Consulenze Tecniche d’Ufficio: il giudice demanda con un quesito indagini sulla idoneità genitoriale a un esperto psicologo, neuropsichiatra, neuropsichiatra infantile. Le indagini si svolgono in pieno contraddittorio con le Parti rappresentate da un Consulente Tecnico di Parte. La Riforma processuale di cui alla l .206/2021 è intervenuta non solo integrando l’art. 13 disp. att. c.p.c. con la previsione espressa di tali professionalità (prima non contemplate), ma anche integrando l’art. 15 disp. att. c.p.c. con la previsione dei professionali di cui i professionisti debbono essere forniti per avere ingresso nell’albo dei CTU. Altre norme sono invece contenute nella legge delega e riguarderanno metodi e contenuti disposte spesso nei procedimenti relativi a un esercizio non corretto della responsabilità genitoriale. Vi è da segnalare che spesso le CTU sono inutilmente intrusive e ridondanti, affrontano aspetti della vita privata e personale non pertinenti, e si concludono in modo stereotipato e scontato, senza considerazione della particolarità della situazione; e i giudici si appiattiscono sulle CTU, riportando nei provvedimenti spetto automaticamente le conclusioni stereotipate degli elaborati peritali.
3) Partecipazione degli esperti al collegio giudicante presso il Tribunale per i minorenni: è la modalità che desta più perplessità per l’assoluta incontrollabilità dei criteri di individuazione del best interest che trovano di solito sintetica esposizione nei provvedimenti finali (decreti). Anche su questo punto la Riforma di cui alla l. 206/2021 ha apportato importanti modifiche, che però entreranno in vigore nel 2024, istituendo un giudice unico (Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie) con esperti che integrano il collegio solo in alcune materie (adottabilità, adozione, migrazione).
5. L’allontanamento extrema ratio e casistica. Il procedimento ex art. 403 c.c.
L’allontanamento da uno o da entrambi i genitori dovrebbe essere attuato come extrema ratio quando la permanenza con uno o con entrambi i genitori comporterebbe grave e irreparabile pregiudizio per il figlio minorenne. L’allontanamento ovviamente vuol dire anche inserimento della persona di età minore in diverso contesto: o presso altri familiari, o presso una diverso nucleo familiare o presso una casa famigia. Questo è il più frequente, quantomeno in prima battuta. Tale allontanamento-affidamento può essere “consensuale” e cioè concordato con i genitori; o giudiziale, e cioè avvenire per iniziativa della Pubblica Amministrazione o iussu judicis. Mi soffermerò solo su questa seconda tipologia perchè più diffusa e più intrusiva. Sugli affidamenti consensuali aggiungo solo che difficilmente nella prassi sono effettivamente tali, in quanto il suggerimento da parte dei Servizi non lascia spazio all’effettiva volontà delle parti.
Gli allontanamenti e affidamenti coercitivi, dovrebbero essere attuati quando il permanere del figlio allontanato con uno o con entrambi i genitori comporterebbe per il primo un pregiudizio grave e irreparabile. L’allontanamento, nella sua prospettiva iniziale, dovrebbe essere sempre temporaneo e divenire definitivo solo se il potenziamento delle capacità genitoriali di colui o di coloro che con il loro comportamento sono pregiudizievoli per il figlio minore fallisca in un tempo congruo e sintonico con lo sviluppo psico-fisico di quest’ultimo.
Sussistono infatti situazioni emergenziali, in cui vi è necessità di intervento immediato e talvolta temporaneamente rescissivo del rapporto figlio/genitore la cui relazione sia pregiudizivole per il minore. La casistica è ampia: riguarda genitori con problematiche psichiatriche non compensate, con patologie che comportano un disallineamento dalla realtà -depressione, schizofrenia, bipolarismo etc.-; con agiti pregiudizievoli (violenti, o anche omissivi, o anche caratterizzati da ipercuria -ad es. Sindrome di Munchausen per procura; oppure genitori abusanti sul piano sessuale, direttamente o indirettamente (bambini usati o “venduti” per prestazioni sessuali); oppure genitori o parenti che li sfruttano economicamente schiavizzandoli; oppure genitori appartenenti a diverse aree culturali le cui prassi prevedono mutilazioni genitali, e/o matrimoni combinati e precoci con coercizioni delle bambine; oppure ancora situazioni di estrema povertà educativa, accompagnata da agiti vari (evasione dell’obbligo scolastico in situazioni di estrema precarietà abitativa, igienica, educativa).
In molti di questi casi, l’intervento di allontanamento deve essere immediato, in quanto i tempi intercorrenti con l’evento che lascia emergere il gravissimo e imminente pregiudizio per il minore debbono essere il più possibile contratti, incrementandosi altrimenti in modo esponenziale (e talvolta fatale) il danno. Sono i casi in cui la Pubblica Amministrazione deve intervenire immediatamente come previsto dall’art. 403 c.c., che però disegnava un’ingerenza della PA nella vita familiare al di fuori del dettato Costituzionale del giusto processo in quanto non prevede l’immediato controllo del giudice.
La Riforma processuale di cui alla l. 206/2021, pubblicata nella G.U. 9 dicembre 2021, ha integralmente riformato la procedura con norme di immediata applicazione (in realtà entreranno in vigore il 22 giugno p.v.) riportandolo nell’alveo del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e 6 Conv. EDU, prevedendo che la PA informi nell’immediato del provvedimento di allontanamento assunto il Pubblico Ministero Minorile, che questi revochi il provvedimento infondato eventualmente assunto oppure ricorra al Tribunale per i minorenni per la convalida. Il Presidente provvederà a nominare il curatore speciale del minorenne, alla notifica ai genitori, a fissare un’udienza nella quale il provvedimento di allontanamento sarà convalidato o meno, con l’assunzione di una serie di ulteriori provvedimenti che dovranno essere volti, in caso di convalida, al recupero delle capacità genitoriali e alla formulazione di un progetto in tal senso, in modo da avere come concreto obiettivo il ricongiungimento dei figli allontanati ai genitori.
In altri casi, invece, l’allontanamento viene disposto a procedimento già avviato, quando dalle risultanze istruttorie emerge che è necessario, dal giudice che dovrebbe aver già consentito l’instaurazione del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa da parte sia dei genitori sia del figlio minorenne tramite il suo curatore speciale, che dovrebbe essere nominato stante il palese conflitto di interessi con i genitori rappresentanti legali. Il condizionale è d’obbligo a causa della cd. “prassi distorsive” vigenti dinnanzi ai Tribunali per i minorenni, dove le udienze anche istruttorie sono delegate a psicologi privi di adeguata preparazione giuridica. Anche a ciò ha inteso porre rimedio la l. 206/2021, ma con la legge delega, prevedendo che nel nuovo rito agli esperti, che faranno parte del collegio giudicante solo in sede distrettuale e per alcune materie (adozione e adottabilità, per quel che qui rileva), possano essere delegati singoli atti, ma non l’ascolto del minore.
Quanto alle modalità dell’allontanamento, è evidente che le stesse dovrebbero comunque essere rispettose delle esigenze psicologiche della persona di età minore e dei suoi affetti. Si ha invece notizia di allontanamenti con l’inganno, senza che il minore sia nemmeno informato: il bambino che entra da una porta per l’ascolto del giudice, ed esce da altra porta in stanza dove ci sono i servizi che lo portano via senza essere preavvertito e senza poter salutare la mamma; il minore che viene prelevato a scuola prima dell’ora di uscita dai servizi e viene portato in casa famiglia, dove reincontrerà la madre dopo giorni e giorni e per un’ora. Per non parlare del famigerato allontanamento di “Cittadella”.
Modalità brutali, da inquadrarsi come comportamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione EDU, indegni di uno Stato civile e democratico, che peraltro danno l’idea di come i minorenni continuino a non essere considerate persone, con la loro dignità, i loro affetti, il loro diritto di libertà anche affettiva, ma troppo spesso oggetto di provvedimenti di pseudo-tutela che prescindono dal rispetto delle più elementari esigenze psicologiche e che comportano un vulnus profondo anche nella relazione fiduciaria con le istituzioni. Con conseguenze gravissime anche in prospettiva.
6. Liberi di scegliere: gli allontanamenti dalle famiglie malavitose
Liberi di scegliere è un programma che tutela minori e donne che si allontanano dalla 'ndrangheta. L'iniziativa è stata avviata dell'ex presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella e trae spunto dall’osservazione che i giovani devianti di cui si doveva occupare la giustizia penale minorile erano sempre figli delle stesse famiglie di ‘ndrangheta’ destinati dalla nascita, senza poter scegliere, a un sistema valoriale aberrante, senza possibilità di sfuggirvi per il fortissimo condizionamento della sottocultura mafiosa imperante nell’ambito familiare.
Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha cominciato ad allontanarli dalle famiglie e a collocarli in luoghi protetti lontani dal luogo di origine. Le famiglie hanno reagito prima compatte con opposizioni e minacce da parte di tutti i componenti comprese le madri, completamente immerse in un sistema distorto che le vuole schiave e consenzienti, rassegnate a un clima di violenza e paura e a sapere che i loro figli sono destinati al crimine, a morire giovani in scontri a fuoco o a trascorrere la vita in carcere e le loro figlie sono votate a perpetuare tale situazione, perché tentare di sfuggire vuol dire condannarsi a morte: il sistema della malavita organizzata non tollera deroghe per coloro che vi sono nati.
La situazione si è progressivamente evoluta e si sta ulteriormente modificando. Sono ormai sempre più diffuse le scelte coraggiose di donne e madri che vogliono cambiare campo e ridare ossigeno anche alla loro voglia di libertà, di vita, di dignità. Si ribellano all’obbedienza ai clan per amore dei propri figli, cui vogliono garantire un futuro libero, rifiutando di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile. Donne che hanno deciso di infrangere codici millenari fondati sulla violenza, sulla minaccia e il rispetto timoroso di un ruolo subordinato. Chiedono aiuto per fuggire dalle mafie con i loro figli. Liberi di scegliere è quindi diventato un protocollo di intesa tra Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, Tribunale per i Minorenni, Procura per i Minorenni e Procura Distrettuale di Reggio Calabria, Procura Nazionale Antimafia e l’Associazione Libera ed è sostenuto dalla Conferenza Episcopale Italiana. Si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri. In questi casi talvolta l’allontanamento è solo dei figli dal clan malavitoso; talaltra di madri e figli, in località protette, con la possibilità di ricostruire un’identità sociale e culturale, lontana dagli stereotipi malavitosi.
7. Liberi di scegliere: i figli minorenni di comunità etniche e culturali con tradizioni coercitive. I casi “Saman”
Vi sono comunità etniche migrate nel nostro Paese che conservano tradizioni cultural-religiose per le quali la coercizioni nella sfera dell’esercizio dei diritti personalissimi dei figli non solo è tollerata, ma costituisce anzi un dovere socialmente sentito e imposto, da conservarsi e difendersi anche come simbolo di identità. Anche queste sono forme di violenza espressamente considerate dalla Convenzione di Istanbul: matrimoni combinati e precoci, mutilazioni genitali, interruzioni volontarie della gravidanza imposte.
I giovani che migrano con le loro famiglie nel nostro Paese e che entrano in contatto con la nostra cultura tentano talvolta di ribellarsi alle regole imposte dalla loro comunità di appartenenza, volendosene distanziare: ma non viene lasciata loro libertà di scelta. La cronaca riporta vicende drammatiche, quali quella di Saman, ormai scomparsa da mesi (si sospetta uccisa uccisa dai parenti, poi precipitosamente rientrati nel loro Paese di origine, il Pakistan), dopo aver rifiutato il matrimonio combinato. Altri casi meno noti riguardano violenze sessuali, fisiche, psicologiche inferte ai figli minorenni: spesso in questi casi non vi sono rilevatori sociali perché bambini e ragazzi sono letteralmente sommersi dalle mura di incomunicabilità del cerchio familiare e sociale anche per le insormontabili barriere linguistiche.
Questi minorenni non sempre frequentano le scuole e spesso sono segregati a casa. Se femmine, costrette a “servire” padre e altri lavoratori della stessa comunità occupandosi per ore della casa in cui vivono assiepati e dovendo spesso anche soddisfare i loro appetiti sessuali. Quando non sono sfruttati per ore e ore di lavoro (ovviamente nero) in pseudo laboratori insalubri in scantinati delle grandi città o nei campi. Non vi sono molti legami con il nostro mondo sociale, e si tratta di fenomenologie che rimangono spesso sommerse. Ma anche quando questi ragazzi riescono a ribellarsi e a denunciare, la soluzione per proteggerli è allontanarli, interrompendo ogni rapporto con la famiglia di origine, inserendoli in casa famiglia e limitando fortemente la loro libertà personale per evitare che, essendo rintracciati, possano essere vittime di violenza punitiva della loro disobbedienza ai genitori e alle regole della comunità. La limitazione della libertà personale che soffrono, senza nessuna mediazione tra una cultura e l’altra (forse servirebbero nuove figure professionali che potessero integrare conoscenze antropologiche, pedagogiche, psicologiche e sociologiche con capacità di mediazione culturale che siano veicolo tra una cultura e l’altra), finiscono con lo stritolarli tra i due sistemi valoriali, avvertiti in fondo come illibertari entrambi e incapaci di tutelarli. Hanno anche spesso timore per il momento in cui arriverà la maggiore età, e non saranno più tutelati ed esposti alla vendetta del loro sistema culturale, ma non inseriti nel nostro. Per questi giovani -che risultano essere un numero crescente- non sembra sussistano interventi appropriati e misurati sul loro best interest. In definitiva sono ancora più fragili dei minori stranieri non accompagnati per i quai è previsto quantomeno un sistema di tutela a misura delle loro esigenze dalla c.d. Legge Zampa (l. 47/2017). Possono finire con essere trattati con psico-farmaci, per tranquillizzarli liberandoli dal senso di paura, impotenza, solitudine.
8. La sottovalutazione (o pretermissione) della violenza assistita
Particolare attenzione meritano i casi di violenza assistita, definita dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso dell'Infanzia) come “il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori”. Ha effetti gravi dal punto di vista fisico, cognitivo, comportamentale e sulle capacità di socializzazione dei bambini e degli adolescenti[5]. Non si tratta di definizione giuridica, ma esperienziale. E il primo tema è proprio questo.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul nel 2011 ed entrata in vigore il 1 agosto 2014, pur non definendo tale fenomeno, lo considera richiedendo che vengano predisposti servizi di supporto specializzati per le donne vittime di violenza e i loro bambini (art. 22); prevede all’art. 26 che le misure di prevenzione riguardino anche i bambini testimoni di violenza; all’art. 13 richiede campagne di sensibilizzazione. Ma, soprattutto, all’art. 31 obbliga gli Stati parti a prendere in considerazione gli episodi di violenza che abbiano coinvolto minori nel disciplinare affidamento, collocamento e diritto di visita da parte del genitore violento.
Nonostante ciò, la violenza assistita è fenomeno più che sottovalutato: piuttosto non considerato sia nei procedimenti civili che riguardano la relazione di coppia, spesso nei procedimenti penali promossi dal genitore vittima diretta di violenza, sia nei procedimenti minorili.
La violenza domestica infatti viene derubricata (e liquidata quasi con insofferenza dai giudici), quasi degradata, a conflittualità di coppia, con conseguenze di vittimizzazione secondaria delle vittime.
Si tratta invece di fenomeni completamente diversi. Nell’articolo recentemente pubblicato per GiustiziaInsieme[6], Nella Ciardo riporta la scaletta di indici sintomatici identificativi dell’uno o dell’altro fenomeno: “la conflittualità presuppone sempre una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di conflitto. Non si può confondere il conflitto con l’azione/reazione personale anche giudiziaria della parte che rivendica tutela e che si trovi in una situazione di squilibrio” [7].
Nei casi procedimenti civili di crisi di coppia con elementi di violenza domestica e di genere, anche con inizio di prova già in atti, in forza di tale errati pregiudizio e banalizzazione, viene così imposto di default al genitore-vittima l’affidamento condiviso, e cioè la condivisione delle scelte con l’altro autore di violenza. Ciò comporta evidentemente vittimizzazione secondaria per il genitore vittima di violenza, costretta a concordare con l’autore le scelte fondamentali per il figlio che sostanzialmente non riescono ad essere assunte, con proliferare poi di ulteriori sub procedimenti quasi per ogni aspetto della vita del figlio - sportiva, di istruzione, ludica, sanitaria - e il proliferare di figure endo ed extraprocessuali: curatore speciale, coordinatore genitoriale, operatori socio-psico-sanitari, educatori) che viene in qualche modo paralizzata. Ma vi sono anche altri aspetti che meritano attenzione. E’ possibile che il figlio minorenne che ha assistito ad atti di violenza, nei confronti del genitore con il quale convive prevalentemente, rifiuti il genitore autore di violenza, o lo tema ed espliciti tale rifiuto nel suo “ascolto” processuale. Ma tutto ciò viene troppo spesso considerato aprioristicamente rifiuto non autentico ma condizionato dal genitore vittima di violenza che, vittimizzato ancora una volta in più, viene qualificato come “malevolo” o “alienante”, senza particolare attenzione alla storia concreta.
Al riguardo è necessario richiamare il "Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria", approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere nella seduta del 17 giugno 2021 https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1300287.pdf. Si legge nella Relazione: “…Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più”.
Anche di tali situazioni si occupa la l. 206/2021, parte nella delega al Governo, parte nelle norme immediatamente precettive, considerando in particolare il requisito della “comprovata esperienza professionale” nella violenza per l’ingresso nell’albo dei CTU e modificando di conseguenza l’art. 15 delle disp. att. c.p.c. nonchè stabilendo una serie di norme a tutela di vittime di violenza e dei loro figli.
Tuttavia deve modificarsi l’approccio culturale alla violenza domestica e di genere e in particolare deve essere stigmatizzato lo stereotipo che la mistifica come conflittualità. E’ infatti normale ed aberrante che anche in presenza di inizi di prove sulla violenza, i giudici in sede civile non li considerino, attendendo la condanna penale che sopravviene dopo anni e sottoponendo le vittime di violenza a rapporti continuativi con l’autore di violenza, quaificando anche loro come conflittuali se rifiutano la mediazione o si dichiarano contrarie all’affidamento condiviso (peraltro in coerenza con quanto previsto dalla ricordata Convenzione di Istanbul). E’ aberrrante che dei comportamenti violenti non si tenga conto ai fini dell’idoneità genitoriale che ha come contenuto precipuo il diritto/dovere di educare disciplinato dall’art. 29 della Convenzione ONU sui Diritti del fanciullo: secondo tale norma uno dei contenuti è il rispetto dell’altro genitore. Nonostante ciò non sono a conoscenza di provvedimenti che rimandino a tale contenuto espressamente ravvisando difetto di idoneità genitoriale sotto il profilo educativo negli autori di violenza. È aberrante che il figlio che rifiuta il genitore violento sia costretto a frequentarlo, senza che il primo abbia effettuato un reale percorso di revvedimento. Ovviamente chiedersi i motivi del triste primato dei femminicidi in Italia di fronte a tali bias giudiziari diventa un inutile esercizio retorico.
9. Il rifiuto immotivato dell’altro genitore e il peso da attribuire all’opinione della persona di età minore
L’Italia ha collezionato un “buon numero” di condanne dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi in cui il figlio minorenne rifiuti immotivatamente il genitore non convivente. Si tratta di solito di situazioni in cui i genitori hanno stili valoriali, di vita ed educativi profondamente diversi, e il minorenne - sottoposto a un conflitto permanente di lealtà - si allea per fragilità con il genitore con il quale convive il quale da parte sua ritiene l’altro nocivo per il figlio come lo è stato per se stesso. L’obbligo positivo di ricongiungimento che incombe sullo Stato, infatti, non è soddisfatto dalla sola adozione da parte delle Autorità nazionali (giudici, servizi alla persona, altri organismi coinvolti) di misure automatiche e stereotipate che risultino inidonee ad evitare il consolidarsi di una situazione di separazione di fatto irreparabilmente pregiudizievole per la relazione figlio-genitore, generata talvolta anche dall’inosservanza delle decisioni giudiziarie da parte dei servizi alla persona coinvolti nel procedimento. L’inutile decorso del tempo può avere infatti conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il figlio di età minore ed il genitore non convivente lasciando emergere e poi consolidare situazioni di rifiuto che divengono irreparabili. In questo quadro di principi si sono susseguite numerose sentenze. Numerose le condanne all’Italia [8] nelle quali si ripete il refrain che il nostro Paese ha attuato, spesso anche con lentezza e inefficienza, misure stereotipate. In effetti in questi casi i provvedimenti prevedono, circolarmente: affidamento ai servizi sociali con monitoraggio da parte degli stessi, incontri in spazio neutro con il genitore rifiutato, psicoterapia per il figlio “riottoso o riluttante” (che però rimanendo con il genitore che lo condiziona per il resto del tempo non ne consegue benefici), talvolta allontanamento dal genitore convivente e collocamento in una situazione di neutralità in cui il figlio possa riacquistare la libertà affettiva.
Anche di questi casi si occupa la l. 206/2021, nella legge delega, prevedendo al comma 23, lett. B) (e appare significativo che con tale previsione si aprano i princìpi di delega per l’introduzione del rito) che «il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell'affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza. In ogni caso, garantire che gli eventuali incontri tra i genitori e il figlio avvengano, se necessario, con l'accompagnamento dei servizi sociali e non compromettano la sicurezza della vittima».Poiché il figlio minorenne esprime autenticamente sentimenti di rifiuto per il genitore non convivente, il quale però è stato ritenuto adeguato sul piano dell’idoneità genitoriale, motivo per cui le Autorità nazionali debbono ripristinare il rapporto, diventa essenziale comprendere quale peso attribuire alla sua opinione. Ancora una volta, come indica la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sarà l’attenta analisi del caso concreto a indicare nel complesso gioco delle relazioni della triade genitori-figlio, se il rifiuto sia autentico e insuperabile, per caratteristiche del genitore rifiutato, o si debbano trovare rimedi perché invece è una suggestione da cui liberare la persona di età minore per restituirle piena libertà affettiva.
Concludendo questa riflessione sulla soggettività dei minori e il loro allontanamento dal nucleo familiare, mi sembra che l’attuale situazione nel nostro Paese permetta di fare una distinzione.
Sul piano generale e astratto, l’elaborazione giurisprudenziale e la produzione normativa, nel riconoscere soggettività piena alle persone di età minore anche nelle dinamiche familiari che possono vedere i loro diritti non rispettati e non tutelati dai genitori, individuano una serie di possibili interventi legittimi, compreso l’allontanamento che ne costituisce estrema ratio se misura temporanea accompagnata da provvedimenti doverosamente volti al ricongiungimento del figlio con i genitori e al loro sostegno, salvo che l’idoneità di questi si dimostri irrecuperabile anche con tali interventi; la normativa, grazie anche agli interventi di Riforma di cui alla l. 206/2021, si sta adeguando con opportune previsioni per quel che concerne istituti processuali e varie fattispecie.
Diversa, invece, la situazione sul piano concreto in sede applicativa Non sempre infatti si rileva una preparazione adeguata di tutti gli addetti ai lavori (operatori socio-sanitari, magistrati, avvocati) per la corretta individuazione degli elementi predittivi che rendano necessario l’allontanamento così come di quelli impeditivi del successivo ricongiungimento nell’interesse della persona di età minore. Non risulta infrequente che provvedimenti a tutela del diritto fondamentale della persona di età minore al miglior sviluppo psico-fisico non siano assunti; oppure che siano assunti in forza di un’analisi generica e banalizzante, priva di attenzione a quella concreta persona di età minore, alle effettive dinamiche relazionali, alle risorse in essere, superficiale e quindi errata.
Mi sembra anche che sia da sottolineare come non sussistano strumenti idonei per le categorie di persone di età minore più vulnerabili, sia per assenza di previsioni normative sia per assenza di adeguata formazione, come ad esempio i minorenni di etnie stranieri che si ribellano al codice d’onore delle loro comunità in contrasto con il nostro stato di diritto
Ringrazio per l’opportunità offertami di poter portare all’attenzione di codesto Ill.mo Comitato alcune riflessioni e, rimanendo ovviamente disponibile ad ogni eventuale integrazione, invio cordiali saluti.
* Contributo per i lavori del Comitato Nazionale di Bioetica - Presidenza del Consiglio dei Ministri, 27 gennaio 2022.
**Avvocato in Roma, Presidente di CAMMINO-Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni www.cammino.org
[1] Mi permetto di rimandare al mio recente scritto su GiustiziaInsieme nel quale ho cercato di ricostruire il quadro delle condanne contro Italia riguardanti la violazione dell’art. 8 Conv. EDU in ambito minorile: “Area persona, relazioni familiari e minorenni: la riforma Cartabia risponde alle necessità di tutela effettiva”.
[2] Così il Commento del Comitato ONU all’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, The right of the child to have his or her best interests taken as a primary consideration, 29 maggio 2013, https://gruppocrc.net/documento/commenti-generali-del-comitato-onu/
[3] Colmando la lacuna dell’art. 13 disp att. c.p.c. e individuando tra le professionalità l’inserimento anche delle seguenti discipline:“; 7) della neuropsichiatria infantile, della psicologia dell’et evolutiva e della psicologia giuridica o forense”. Inoltre l’art. 15 sempre delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, disciplina l’iscrizione all’albo dei Consulenti Tecnici, prevedendo i requisiti per le specifiche aree di competenza tecnica. L’art. 1, comma 34 della l. 206/2021 inserisce un secondo comma, riferito alle categorie inserite con il n. 7 del precedente art. 13 (neuropsichiatria infantile, psicologia dell’età evolutiva e psicologia la speciale competenza tecnica necessaria per essere inseriti
nell’albo dei CTU, sussista qualora ricorrano, alternativamente o congiuntamente, i seguenti requisiti:
1) comprovata esperienza professionale in materia di violenza domestica e nei confronti di minori;
2) possesso di adeguati titoli di specializzazione o approfondimento postuniversitari in psichiatria,
psicoterapia, psicologia dell’et evolutiva o psicologia giuridica o forense, purch iscritti da almeno
cinque anni nei rispettivi albi professionali;
3) aver svolto per almeno cinque anni attività clinica con minori presso strutture pubbliche o private”.
[4] La legge delega se ne occupa:
- art. 1, comma 23, lett. B: il giudice deve nominare il CTU con provvedimento motivato, indicando gli accertamenti da svolgere; il CTU deve attenersi ai protocolli e alle metodologie consolidate, senza ulteriori indagini
- Art. 1, comma 23, lett. z) sub dd): sar prevista un’autonoma regolamentazione della CTU,anche con inserimento nell’albo dei CTU di specifiche competenze;
- Art. 1, comma 23, lett. z) sub ee): il giudice può avvalersi di un iscritto all’albo dei CTU per essere coadiuvato per determinati interventi sul nucleo familiare per superare i conflitti tra le parti, fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni genitori/figli;
- Art. 1, comma 23, lett. z, sub gg), nn. 1 e 2: prevede varie incompatibilità per i CTU.
[5] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/cos-e-la-violenza-assistita-e-quali-le-conseguenze-sui-bambini
Impatto sullo sviluppo fisico: il bambino, soprattutto in tenera età, sottoposto a forte stress e violenza psicologica può manifestare deficit nella crescita staturo ponderale e ritardi nello sviluppo psico motorio e deficit visivi.
Impatto sullo sviluppo cognitivo: l’esposizione alla violenza può danneggiare lo sviluppo neuro cognitivo del bambino con effetti negativi sull’autostima, sulla capacità di empatia e sulle competenze intellettive.
Impatto sul comportamento: la paura costante, il senso di colpa nel sentirsi in un qualche modo privilegiato di non essere la vittima diretta della violenza, la tristezza e la rabbia dovute al senso d’impotenza e all’incapacità di reagire sono conseguenze che hanno un impatto sul bambino esposto a violenza. Inoltre possono insorgere fenomeni quali l’ansia, una maggiore impulsività, l’alienazione e la difficoltà di concentrazione. Sul lungo periodo tra gli effetti registrati ci sono casi più o meno gravi di depressione, tendenze suicide, disturbi del sonno e disordini nell’alimentazione.
Impatto sulle capacità di socializzazione: subire violenza assistita influenza le capacità dei più piccoli di stringere e mantenere relazioni sociali.
Cfr. anche United Nations Children’s Fund, Hidden in Plain Sight: A statistical analysis of violence against children, UNICEF, New York, 2014,
[6] Sebastiana Ciardo, La violenza sulle donne basasta sul genere: riflessioni-rimedi-prassi condivise. Nuove forme di tutela. GiustiziaInsieme, sabato 22 gennaio 2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2098-la-violenza-sulle-donne-basata-sul-genere-riflessioni-rimedi-prassi-condivise-e-nuove-forme-di-tutela
[7] Prosegue L’Autrice: “Indici sintomatici di una violenza, che si consuma spesso all’interno del nucleo familiare, sono: gestione tirannica delle risorse economica; ludopatia, alcooldipendenza e tossicodipendenza; assenza di responsabilizzazione e di collaborazione all’interno della famiglia; denigrazione e svilimento nelle scelte familiari; isolamento dal mondo sociale ed affettivo (familiari, amici); gelosia eccessiva; rifiuto alla richiesta di separazione; la persona offesa non si presenta a rendere dichiarazioni anche se citata, dopo avere denunciato”
[8] Piazzi c. Italia, ric. 36168/09, sent. 02/11/2010 ; Lombardo c. Italia, ric. 25704/11, sent. 29.01.2013 ; Bondavalli c. Italia, ric. 35532/12, sent. 17/11/2015 ; Strumia c. Italia, ric. 53377/13, sent. 23.06.2016 : Improta c. Italia, ric. 66396/14, sent. 04.05.2017 ; Santilli c. Italia, ric. 51930/10, sent. 17.12.2013 ; Giorgioni c. Italia, ric. 43299/12, sent. 15.09.2016 : Endrizzi c. Italia, ric. 71660/14, sent. 23.03.2017 ; Luzi c. Italia, ric. 48322/17, sent. 5.12.2019 : A.V. c. Italia: ric. 36936/18, sent. 10.12.2020 . Nell’ultimo anno: R.B. e M. c. Italia, ric. 41382/19, sent. 22.04.2021; A.T. c. Italia, ric. 40910/19, sent. 24.06.2021; T.M. c. Italia, ric. 29786/19, sent. 7.10.2021.
Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare*
di Giovanni Fiandaca
Sommario: I. Premessa. - II. Sul contesto storico-politico dei primi anni '90. - III. Contrasto della corruzione sistemica e sovraesposizione politica della giustizia penale. - IV. Ventate di populismo politico e riflessi di populismo giudiziario. - V. Sostegno popolare tra aspirazioni di giustizia e vendetta sociale. - VI. Ampio ma acritico supporto mediatico. - VII. Fenomenologie corruttive prima e dopo Mani pulite: sintetico quadro di insieme. - VIII. Limiti della giustizia penale come strumento di contrasto della corruzione sistemica. - IX. Rilievi di diritto penale sostanziale e processuale. - X. La magistratura penale tra centralità storico-politica e problema di identità. - XI. Esigenza di promuovere dibattiti pubblici sul ruolo della magistratura nella realtà attuale e sul modello di magistrato adeguato al tempo presente.
I. Premessa
Una premessa sembra scontata. A trent’anni ormai di distanza, dovremmo essere a maggior ragione capaci di guardare a Mani Pulite con un atteggiamento mentale egualmente lontano dalla esaltazione celebrativa e dalla critica demolitrice preconcetta. Quella che è stata definita una “rivoluzione giudiziaria” non è stata una impresa giurisdizionale non solo straordinaria, ma anche così esemplare da additare a modello di riferimento meritevole di essere replicato, e non è stata neppure il risultato di un golpe o di una congiura ad opera di “poteri forti” o di settori politici in combutta con parte della magistratura. È stata piuttosto una impresa complessa per la molteplicità dei fattori anche di natura extragiudiziaria che la hanno influenzata, e altresì non priva di aspetti ambivalenti e persino paradossali. Insomma, l’esperienza complessiva di Mani Pulite presenta sia luci che ombre; e la valutazione circa la rispettiva prevalenza delle une o delle altre finisce con l’essere, inevitabilmente, condizionata dalla soggettiva angolazione prospettica e dall’orientamento politico di chi la effettua.
Proprio in considerazione della sua variegata complessità, Mani Pulite non può essere analizzata con le sole lenti del giurista. Non secondario rilevo assumono, infatti, profili di rilevanza sia storiografica, sia economica, socio-criminologica, politologica e financo psicologica. Ne deriva che anche uno studioso di diritto penale che sia interessato a rivisitare Mani Pulite nell’insieme delle sue peculiarità caratterizzanti, non può fare a meno di toccare o lambire territori disciplinari che trascendono la sua stretta competenza.
II. Sul contesto storico-politico dei primi anni '90
Cominciando dal generale contesto storico-politico, è noto che la situazione italiana dei primi anni Novanta dello scorso secolo era caratterizzata dall’esistenza di un sistema partitico già in grave crisi di legittimazione e di funzionamento e dalla ricerca di nuovi equilibri che però faticavano a manifestarsi. A determinare questa obiettiva condizione di incertezza e confusa transizione concorreva una pluralità di fattori di natura sia interna, sia internazionale (ci si riferisce per un verso all’effetto politicamente destabilizzante prodotto dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della “guerra fredda” e, per altro verso, alle ricadute della globalizzazione e dei rigidi paletti economico-finanziari imposti dal Trattato di Maastricht) che la storiografia ha messo in evidenza sia pure con approcci ricostruttivi variamente articolati. Ma vi è una tendenziale convergenza di vedute, tra gli storici, nel riconnettere le cause della grave crisi di sistema dei primi del Novanta a fattori politico-economici di debolezza e di stallo nello sviluppo risalenti agli anni Settanta e Ottanta, e progressivamente aggravatisi. Tra questi fattori, la storiografia contemporanea inserisce la risalente presenza di fenomeni corruttivi, l’emersione di alcune precedenti Tangentopoli e la sempre più insistita, negli anni successivi, tematizzazione della “questione morale”, impugnata come arma di battaglia da parte del Pci (poi Pds) e di forze politiche anche di destra (come il MSI), nonché di nuovi movimenti intenzionati a combattere i partiti di governo sempre più delegittimati[1]. Ma in questa denuncia della corruzione diffusa e nella lotta contro il degrado morale non erano soltanto impegnati alcuni partiti e movimenti: svolgevano un’azione di supporto anche settori (specie di orientamento progressista) del mondo intellettuale, del giornalismo scritto e parlato ed esponenti della parte della magistratura politicamente più impegnata (come Magistratura democratica), che però finivano così con l’accreditare una lettura orientata in senso forse troppo schematicamente moralistico di una crisi generale dovuta invece a un insieme complesso di cause eterogenee strettamente intrecciate[2].
Ancorché questa complessità multicausale dovesse mettere in guardia dall’attribuire all’azione giudiziaria un ruolo decisivo nel promuovere il rinnovamento politico e la moralizzazione del paese, il Pci divenuto Pds e le altre forze interessate a rimpiazzare – secondo una retorica allora in voga - il governo dei corrotti col “governo degli onesti” fornirono un pieno sostegno a Mani Pulite confidando, per calcolo anche opportunistico, che l’attività repressiva potesse favorire quell’auspicato rinnovamento che non si era capaci di promuovere per via politica. E questo ampio appoggio non venne meno neppure di fronte all’emergere, all’interno dello stesso orizzonte politico di sinistra, di dubbi e riserve sulla legittimità o correttezza di certe modalità operative del pool milanese, o di preoccupazioni sul possibile sconfinamento della giurisdizione penale dai suoi limiti istituzionali di competenza, essendo infine prevalsa – peraltro anche in ampi settori del mondo giornalistico e del ceto intellettuale – la convinzione che “il fine giustifica i mezzi”: cioè che l’obiettivo di risanare la vita politica rendesse tollerabile una guerra giudiziaria difficilmente compatibile con i principi del garantismo penale[3]. Ma la cultura garantista, in Italia, non è mai stata dominante fuori dai recenti della dottrina giuridica in particolare accademica.
È pur vero, d’altra parte, che non tutte le voci allora disposte a giustificare – per radicalismo etico-politico o machiavellico calcolo - certi eccessi e straripamenti giudiziari come costi da sopportare in vista dell’auspicato rinnovamento, hanno ribadito questo stesso punto di vista ormai a vent’anni o più di distanza: piuttosto, è andata aumentando la presa d’atto che è stato sbagliato confidare troppo nella funzione salvifica della magistratura, imprudente assecondare il giustizialismo popolare e miope non prevedere che gli effetti di un terremoto giudiziario sull’evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi[4].
Comunque la si giudici oggi, è storiograficamente pressoché pacifico che l’impresa di Mani Pulite ha dato un contributo decisivo alla uscita di scena dei partiti sino a quel momento al governo del paese. Ma questo contributo è stato con-causale, dal momento che nella catena eziologica di questa scomparsa bisogna tenere conto della presenza di altre concause: tra queste, è da porre in risalto l’incapacità dei dirigenti e degli esponenti dei partiti maggiormente coinvolti nelle indagini di reagire con atti politici, il loro annichilimento psicologico e morale, la loro soggezione passiva e spaventata agli umori antipartitici e giustizialisti della piazza, a loro volta alimentati dalla campagna mediatica di fiancheggiamento dell’azione repressiva; un quasi- suicidio politico, insomma, non impedito o agevolato da quei versanti partitici che – come nel caso del Pds – speravano di trarre vantaggio dal crollo dei vecchi partiti delegittimati[5]. Non manca anche di recente, però, chi sul piano causale tende altresì ad attribuire un non trascurabile rilevo al (supposto) “obiettivo ultimo” dei magistrati milanesi di occupare “spazi politici”, obiettivo che risulterebbe – tra l’altro – confermato dai numerosi passaggi successivi dalle file della magistratura alle cariche politiche nei partiti e in Parlamento, in particolare nelle file della sinistra[6]. Senonché sembra più verosimile - come si rileverà anche appresso - che i magistrati del pool, piuttosto che perseguire il precostituito obiettivo finale di assumere in proprio cariche politiche, fossero animati dall’intenzione lato sensu politica di ingaggiare una guerra giudiziaria contro un sistema corrotto.
III. Contrasto della corruzione sistemica e sovraesposizione politica della giustizia penale
Rispetto al problematico rapporto tra politica e giurisdizione, un nodo essenziale era stato segnalato già all’inizio del 1993 dall’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi: il quale rilevò che il contrasto della corruzione sistemica faceva assumere alla magistratura – cito tra virgolette – “un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l’avvio di improprie supplenze (…) ha caricato di una responsabilità anomala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale”[7]. Ma, in verità, non si è trattato soltanto di un rischio. L’onestà intellettuale impone di riconoscere che la sovraesposizione politica del potere giudiziario connessa alla lotta alla corruzione sistemica, più che in termini di mero rischio, si è verificata come dato di fatto difficilmente contestabile (e ciò anche a prescindere dall’eventuale intenzione soggettiva dei singoli magistrati impegnati nell’attività investigativo-repressiva). A conferire una valenza oggettivamente politica all’azione giudiziaria era proprio il carattere sistemico della corruzione politico-amministrativa e il fatto, conseguente, che sul banco degli imputati finiva quasi un intero ceto politico in concorso con un ceto imprenditoriale colluso. E però sarebbe ingenuo non considerare più che verosimile una aggiuntiva volontà soggettiva dei magistrati milanesi di finalizzare le indagini anche ad obiettivi più generali di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva, in sé meritori ma di problematica compatibilità con gli scopi istituzionali della giurisdizione penale[8]. Certo, segnava un grande passo avanti – ed era perciò da salutare come una conquista in termini di civiltà e moralità giuridica – il fatto che il magistero punitivo si mostrasse finalmente capace di processare e sanzionare una macro-criminalità sistemica, così interrompendo anche simbolicamente una tradizione di prevalente e compiacente impunità di cui avevano beneficiato il ceto politico e il mondo economico-imprenditoriale (anche se a questa affermazione di giustizia e legalità egualitarie si accompagnavano popolari umori ‘giustizialisti’ di meno nobile sorgente). Ma questo importante passo avanti comportava, proprio per il sovrappiù di politicità connesso ad una repressione su vasta scala riferita al sistema politico-partitico, rilevanti costi sotto il profilo dell’equilibrio costituzionale complessivo; nel contempo, si alimentava nell’opinione pubblica (e in particolare nei settori più entusiasti del ‘repulisti’ giudiziario) l’illusione che la giustizia punitiva potesse fungere da strumento idoneo a estirpare la corruzione diffusa.
A prescindere dal coefficiente di pregiudiziale simpatia o antipatia verso Mani Pulite, una cosa sembra fuori discussione: l’abbattimento finale per via giudiziaria del sistema dei partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica ha rappresentato un evento molto drammatico e traumatico, produttivo di effetti di lunga durata rispetto a una ben nota patologia (soprattutto) italiana destinata a cronicizzarsi, cioè a quella sorta di grave nevrosi politico-istituzionale costituita dal conflitto tra politica e magistratura. Conflitto che ha – tra l’altro – fatto sì che una politica rimasta prevalentemente debole ha continuato a subire in varia forma un forte condizionamento inibente o oppositivo da parte del potere giudiziario, percependosi per di più – a torto o a ragione - come una specie di sorvegliata speciale quasi sotto controllo ricattatorio-ritorsivo, e comunque rivelandosi sino ad oggi incapace di riacquisire l’autorevolezza, la credibilità e il coraggio necessari per ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale.
Eppure, non si può dire che la magistratura penale considerata nel suo insieme abbia, dopo i primi anni Novanta dello scorso secolo, durevolmente mantenuto un livello alto di legittimazione e consenso per importanza e continuità di azioni investigativo-repressive, professionalità, efficienza, rispetto dei principi di garanzia e capacità di elaborazione culturale. Piuttosto, sono andati progressivamente aumentando i casi di indagini avventate o spericolate destinate a esiti fallimentari, di proscioglimenti o assoluzioni spesso tardive di politici e amministratori pubblici sospettati troppo affrettatamente di condotte delittuose[9], come pure sono andati crescendo i fenomeni di improprio protagonismo sia mediatico che politico di alcuni esponenti della magistratura specie d’accusa . E, dal canto suo, l’associazionismo giudiziario si è articolato in gruppi associativi (cosiddette correnti) sempre più trasformatisi da luoghi di riflessione e orientamento culturale in strutture di potere operanti secondo una logica clientelare e metodi di tipo spartitorio. Ma vi è di più. Questa degenerazione funzionale si è anche manifestata in forme di maggiore gravità a causa di note vicende che hanno fatto emergere precostituite cordate politico-magistratuali finalizzate a orientare la scelta dei vertici di importanti uffici giudiziari e, financo, relazioni a carattere favoritistico sfocianti in scambi corruttivi[10]. Sicché, il fenomeno della corruzione non è risultato estraneo neppure a quella istituzione deputata a fronteggiarlo con le armi del diritto e del processo penale. Ciò a riprova del fatto che l’appartenenza all’ordine giudiziario di per sé non garantisce un superiore livello di moralità, e che l’esercizio della funzione di magistrato di per sé non giustifica o rende credibile la pretesa di moralizzare gli altri.
IV. Ventate di populismo politico e riflessi di populismo giudiziario
Come non sono certo il primo a rilevare, l’esperienza di Mani Pulite si è intrecciata con e si è alimentata di pulsioni antipolitiche e ventate populiste riconducibili a movimenti e partiti (come la Lega o la Rete) espressivi della protesta contro l’establishment politico di allora, che essa ha dal canto suo contribuito a interpretare e rafforzare in guise tali da confondere peraltro il confine tra lotta politica e lotta giudiziaria. Se non allo stesso modo e nella stessa misura tutti i componenti principali del pool, la sua figura più popolare e al tempo stesso più discutibile, cioè Antonio Di Pietro, col suo inedito e ossimorico stile di magistrato (una sorta di grande poliziotto un po' duro un po' comprensivo[11]), le sue caratteristiche di personalità (un curioso incrocio tra un Robespierre e un “arcitaliano”[12]) e la sua sicura vocazione populista mediaticamente amplificata ha fornito un rilevante contributo alla crescita del populismo politico nel nostro paese, nonché all’affermarsi di quel fenomeno che è stato anche da me etichettato come populismo giudiziario, in seguito impersonatosi in altri pubblici ministeri-star più o meno emuli del loro predecessore molisano-milanese: pubblici accusatori accomunati cioè dalla pretesa di assurgere ad autentici interpreti dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza o addirittura di manifesta contrapposizione al potere politico ufficiale, così finendo col trarre (piuttosto che dal vincolo alla legge) dal consenso e dal sostegno popolare la principale fonte di legittimazione sostanziale del proprio operato[13].
Che un populismo giudiziario così inteso risulti irrimediabilmente incompatibile col nostro modello costituzionale di giurisdizione penale, è una conclusione che non richiede particolare dimostrazione.
V. Sostegno popolare tra aspirazioni di giustizia e vendetta sociale
Respingere il populismo giudiziario non equivale a criticare ogni manifestazione di condivisione e sostegno che l’azione investigativo-repressiva può ricevere dall’opinione pubblica o da alcuni suoi settori. Anche da questo punto di vista Mani Pulite è stata un’esperienza significativa che offre diversi elementi di riflessione.
Com’è noto, specie nelle fasi iniziali dell’inchiesta l’azione dei magistrati è stata incoraggiata e sostenuta da un ampio consenso sociale, tributato anche nei modi di un’accesa tifoseria. Questo sostegno esterno ha indubbiamente funto da potente fattore di incoraggiamento di un controllo penale esteso a livelli politici ed economici prima di allora mai attinti e ha rafforzato, nei magistrati che procedevano alle indagini, l‘orgogliosa consapevolezza di soddisfare istanze popolari di giustizia per lungo tempo eluse. Ma la medaglia aveva un rovescio. Nel senso che l’appoggio del pubblico non rispecchiava soltanto sentimenti nobili ispirati a valori di giustizia e legalità da affermare o ripristinare finalmente in concreto. Nel sostegno non di rado entusiastico all’attività repressiva si è anche manifestato un atteggiamento meno nobile e più irrazionalmente emotivo, vale a dire “un tumultuoso senso di rivalsa nei confronti dei potenti, un compiacimento alla vista di politici di spicco abbattuti dai loro piedistalli, condotti in giudizio per rispondere di imputazioni personali e sottoposti alle medesime sofferenze e disagi solitamente patiti dalla ‘gente comune’”[14]. Da qui una forte riemersione di quelle sotterranee componenti pulsionali del condannare e punire che, in dispregio delle finalità razionali della giustizia punitiva, finiscono col restituire alla stessa punizione statale una primordiale e irrazionale funzione vendicativo-ritorsiva, decisamente contrastante col principio costituzionale di rieducazione (a sua volta, peraltro, non privo di aspetti problematici in rapporto ad autori di reato riconducibili alla categoria dei ‘colletti bianchi’).
È anche vero che il consenso esterno era destinato ad affievolirsi progressivamente per effetto di diversi fattori causali. Tra questi, da un lato l’estendersi delle indagini a soggetti appartenenti a cerchie sociali di più modesto livello, con la conseguenza che il controllo penale finiva con l’ essere percepito come potenzialmente minaccioso (piuttosto che benvenuto) da parte di cittadini comuni appunto non immuni da relazioni di malaffare; dall’altro, il diffondersi tra la gente del dubbio – alimentato anche in maniera tutt’altro che disinteressata specie da alcuni imputati ‘eccellenti’ – che il pool milanese orientasse la sua azione giudiziaria sulla base di simpatie politiche o comunque perseguisse fini politici. Dubbio, questo, non risolvibile con certezza nel senso della fondatezza o dell’infondatezza, e perciò generatore di diffidenza e sfiducia quantomeno in quella parte del pubblico che risultava aliena da forme di condivisione fideistica dell’operato di Di Pietro e dei colleghi che lo affiancavano.
Comunque sia, è forse superfluo aggiungere che il rapporto tra pubblico esterno e giustizia penale è sempre problematico. Vale la pena in proposito ricordare quanto Leonardo Sciascia scrisse ormai non pochi anni fa: “Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia - che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”[15]. Meglio non si potrebbe dire! Sta proprio qui uno dei nodi più problematici e tormentosi della funzione giudiziaria, su cui ha posto di recente l’accento anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: rendere giustizia in modo “comprensibile” per il pubblico, ma senza al tempo stesso assumere le aspettative popolari o delle stesse vittime a criterio principale di decisione. Per contemperare in modo equilibrato comprensibilità e indipendenza di giudizio, non sono ovviamente precostituibili principi o regole generali validi una volta per tutte: occorre uno specifico talento, che trascende le competenze tecnico-giuridiche e poggia in non piccola misura sulla sensibilità personale (ed è proprio questo il problema, non essendo questo tipo di sensibilità facilmente acquisibile attraverso i corsi di formazione professionale!).
VI. Ampio ma acritico supporto mediatico
All’appoggio dei cittadini in carne ed ossa ha corrisposto, sempre in particolare nelle prime fasi dello scoperchiamento del sistema della corruzione, un grande sostegno del giornalismo scritto e parlato. Il ruolo determinante esercitato dai media, quale fattore in assenza del quale Mani Pulite non avrebbe potuto svilupparsi così come si è sviluppata, è emblematicamente confermato da un recente bel libro del giornalista Goffredo Buccini che ho avuto occasione di recensire sulle pagine del Foglio[16]. Il merito principale di questo libro – non soltanto a mio giudizio, ho motivo di supporre – consiste nell’avere sottoposto a lucida e coraggiosa revisione critica un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico, vissuta da Buccini insieme ad un gruppo di giovani giornalisti a quel tempo appassionatamente propensi a fornire un sistematico supporto all’attività investigativa e ai suoi sviluppi, nella convinzione speranzosa che l’appoggio della stampa potesse aiutare i magistrati a portare avanti l’opera di pulizia e così contribuire al rinnovamento morale e politico del paese. Solo che questo pregiudiziale appoggio tendenzialmente incondizionato (motivato anche dalla comune formazione politica di sinistra del gruppo di giovani giornalisti in questione), come lo stesso Buccini oggi autocriticamente rileva, incideva negativamente sull’obiettività del lavoro giornalistico, facendo venir meno o riducendo quella vigilanza critica rigorosa che in teoria spetta alla stampa allo scopo di controllare l’operato degli stessi giudici e di denunciarne eventuali errori, eccessi o abusi.
Sempre sul versante del rapporto col sistema mediatico, si può aggiungere che Mani Pulite ha fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato un duplice effetto - anche a mio giudizio - più negativo che positivo: da un lato, di duplicare il processo col rischio di far apparire secondario quello che si svolge nell’aula di tribunale; dall’altro, di rendere certi magistrati d’accusa sempre più simili a tribuni del popolo, che recitano ad un tempo in maniera confusiva ruoli giuridico-istituzionali e ruoli politico-mediatici. In particolare, poi, una famosa trasmissione televisiva come quella del processo Cusani ha mostrato come una ripresa mirata e ravvicinata delle reazioni, anche corporee ed emotive, delle persone interrogate possa diventare un impietoso “rituale di degradazione”, che moltiplica agli occhi del pubblico l‘effetto discreditante dello scenario penale[17]. Mi piace ricordare che contro il processo ripreso in tv si è espresso (proprio durante la stagione i Mani Pulite) un grande studioso della comunicazione come Umberto Eco, il quale arrivò estremisticamente a definire – in occasione della trasmissione del processo che vedeva imputato l’ex assessore Walter Armanini – la gogna mediatica un “attentato alla Costituzione”: “Questo tipo di gogna vale un ergastolo. È vero che in passato c’erano le pubbliche esecuzioni in piazza, ma proprio per questo noi ci riteniamo più civili dei nostri avi”[18].
Com’è noto, più in generale la prassi delle relazioni “incestuose” tra stampa e magistratura (in particolare d’accusa), sorretta dalla logica dello scambio di favori, è perdurata fino a tempi recenti con conseguenze negative su più piani, dal rispetto del principio della presunzione di non colpevolezza alla incentivazione del protagonismo pubblico e del “libertinaggio” esternante non solo dei pubblici ministeri ma persino di qualche magistrato giudicante. In proposito, mi limito a manifestare la mia condivisione di massima del decreto n. 188/2021 di recente emanato su impulso della Ministra Cartabia, che non costituisce né una “legge-bavaglio” né uno “sfregio alla Costituzione”, bensì un doveroso e opportuno (quantomeno) tentativo di promuovere un più corretto rapporto tra giustizia e informazione[19].
VII. Fenomenologie corruttive prima e dopo Mani pulite: sintetico quadro di insieme
Sono abbastanza note le forme di manifestazione del fenomeno corruttivo tipico di Tangentopoli intercettato dai magistrati di Mani Pulite. Per richiamarle, riporto la sintesi contenuta nel recente libro di Piercamillo Davigo rievocativo dell’esperienza di lavoro da lui vissuta un trentennio fa: “Il quadro complessivo emerso dalle indagini fornì la prova indiscutibile di un diffuso sistema di malaffare basato su un mix fra corruzione amministrativa accentrata e corruzione amministrativa decentrata, che coinvolgeva molti partiti politici e le principali imprese italiane (…).
Sotto il primo profilo (quello della corruzione amministrativa accentrata), i principali partiti della maggioranza venivano finanziati illegalmente dalle più importanti imprese del paese, apparentemente senza un immediato rapporto sinallagmatico rispetto agli appalti pubblici, anche se molti dei soggetti che avevano pagato avevano precisato che i versamenti erano, comunque, collegati a determinate decisioni della pubblica amministrazione, di enti o di società a partecipazione pubblica, favorevoli alle imprese(…).
A livello locale (Regioni, Province e Comuni, con enti a questi collegati o con società partecipate) vi era un sistema di corruzione decentrato, con pagamento alle strutture locali dei partiti o a singoli esponenti di somme comunque rilevanti”[20].
Soltanto da parte dei tifosi più accesi e ingenui di Mani Pulite, ignari dei limiti di efficacia della sola repressione penale, si poteva sperare che una bufera giudiziaria potesse non soltanto abbattere l’illegale sistema di cui sopra, ma produrre anche duraturi effetti di sbarramento della corruzione nel nostro paese. È convincimento consolidato, suffragato da una grande mole di dati giudiziari e da qualche indagine socio-criminologica, che negli anni successivi la fenomenologia corruttiva - lungi dall’essersi esaurita o sensibilmente ridotta – sia piuttosto mutata nelle forme di manifestazione: nel senso che dopo Tangentopoli i partiti politici come tali hanno perduto centralità sia come organizzatori sia come beneficiari degli scambi corruttivi, mentre la corruzione è andata decentrandosi e privatizzandosi, cioè si è radicata in misura maggiore a livello locale e ha come finalità prevalenti l’arricchimento privato e il rafforzamento del potere personale; tuttavia, questo carattere più decentrato, diffuso e frammentato non comporta - secondo l’opinione di accreditati sociologi – una maggiore fragilità e occasionalità delle reti di relazione tra politici, funzionari pubblici e professionisti (nonché, specie nel Meridione, esponenti del crimine organizzato), essendo viceversa tali reti strutturate e risultando relativamente stabili[21]. Ammesso che questo quadro ricostruttivo risulti nel complesso sufficientemente fondato, si può anche pensare che le cose siano andate sotto certi aspetti peggiorando piuttosto che migliorando!
Si ripropone anche l’interrogativo se davvero da noi la corruzione sia maggiore che in altri paesi europei. In realtà, non è facile operare confronti affidabili. Di solito le statistiche disponibili fanno riferimento alla corruzione “percepita”, piuttosto che realmente accertata; per cui vi è il rischio che la percezione della maggiore o minore presenza del fenomeno sia influenzata dal livello della sua pubblicizzazione nei rispettivi paesi. In particolare, sulla presunzione che l’Italia sia tra i paesi più corrotti incidono senz’altro due principi caratterizzanti del suo ordinamento quali l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale, da cui derivano come effetto una maggiore quantità di indagini e di procedimenti penali (però, non di rado, sfocianti in archiviazioni o assoluzioni), e ciò indubbiamente influenza la convinzione pessimista diffusa nel pubblico [22]. Non a caso, persino Piercamillo Davigo ha ammesso di ritenere da tempo che “la vera specificità italiana non fosse la corruzione, ma l’indipendenza del pubblico ministero che aveva consentito di farla emergere”[23].
VIII. Limiti della giustizia penale come strumento di contrasto nel contesto della corruzione sistemica
Forse è superfluo spendere parole sul perché il diritto e il processo penale non siano strumenti da soli sufficienti non solo a prevenire del tutto i fenomeni corruttivi, ma anche a ridurne in misura rilevante la diffusione. Si può ormai considerare una acquisizione pacifica, dal punto di vista criminologico e penalistico, che il diritto penale non serve a debellare in generale la criminalità, ma può servire tutt’al più a ridurne forme di manifestazione prive di profondo radicamento e/o esenti da forti fattori di condizionamento di natura storico-sociale, economica, psicologica ecc. Questi limiti fisiologici della giustizia penale si accentuano rispetto a comportamenti illeciti diffusi su larga scala, per la oggettiva difficoltà da un lato che i magistrati d’accusa possano venire a conoscenza di tutti i reati commessi e, dall’altro, che la macchina giudiziaria disponga di risorse materiali, tecniche e umane tali da potere perseguire e sanzionare migliaia e migliaia di fatti delittuosi. D’altra parte, l’obiettivo di una persecuzione penale a tappeto, il più possibile completa, sarebbe anche poco compatibile con un ordinamento di autentica ispirazione liberaldemocratica: un tale obiettivo implicherebbe, infatti, una vigilanza poliziesca così occhiuta, continua e totale da annullare gli spazi di libertà dei cittadini!
Ciò premesso in linea generale, è altresì noto che i reati di corruzione rientrano da sempre nel novero di quelli che presentano una elevata “cifra oscura” per l’alone di segretezza che comprensibilmente li avvolge e il comune interesse di corrotti e corruttori a ricorrere a manovre di occultamento degli scambi illeciti; questa connivenza omertosa e questi ostacoli frapposti alla emersione degli accordi delittuosi, facendo diminuire il rischio di una loro persecuzione giudiziaria, finiscono a loro volta col determinare un indebolimento dell’efficacia preventivo-dissuasiva della minaccia penale[24]. Ma, al di là dell’effetto deterrente, rispetto alle prassi corruttive diffuse si indebolisce la ulteriore funzione pedagogica che la legge penale dovrebbe in teoria assolvere. Secondo una opinione dottrinale ormai radicata, questa funzione di orientamento socio-culturale è più plausibile nei casi di ampia convergenza tra previa disapprovazione etico-sociale e censura penale, concorrendo la pena statale a consolidare e rafforzare nella coscienza dei cittadini l’interiorizzazione e il rispetto dei valori da tutelare e delle corrette regole di comportamento da osservare. Se invece i comportamenti penalmente sanzionabili sono non solo diffusi su larga scala, ma altresì estesamente tollerati (o addirittura approvati in determinati ambiti sociali o professionali), ecco che la percezione del loro disvalore viene meno o sbiadisce sensibilmente: per cui la pena minacciata prima della loro realizzazione o concretamente applicata dopo la loro commissione, in luogo di esplicare efficacia educativa, può essere avvertita come ingiustificata o arbitraria, finendo perciò col risultare inidonea a incidere sulle prassi comportamentali che andrebbero modificate.
Non sorprende, di conseguenza, che sulla ridotta efficacia del diritto penale vi sia ormai tendenziale concordanza da parte di studiosi di diverse aree disciplinari, e che l’insufficienza dell’azione giudiziaria sia apertamente riconosciuta anche da alcuni protagonisti del pool mianese di allora[25]. Così, una importante ricerca sociologica sulla corruzione post-Tangentopoli suggerisce che, al di là del preventivo calcolo individuale della possibilità concreta di essere puniti, un fattore non meno importante di incidenza sull’entità degli scambi illeciti è costituita da quello che Alessandro Pizzorno ha definito “costo morale” della corruzione: se la relativa “soglia è bassa perché vi è una carente cultura civica e una sfiducia diffusa nelle istituzioni, anche la tendenza a partecipare a fenomeni di corruzione tenderà inevitabilmente a salire(…). Da questo punto di vista, il contrasto efficace della corruzione dipende anche dalla coscienza civica, dalla fibra morale del paese”[26]. Un secondo fattore, connesso al livello dell’etica pubblica, da tenere in conto riguarda i meccanismi di selezione della classe politica a livello nazionale e locale e, dunque, la logica di funzionamento e la qualità dei partiti politici: quanto più si tratta di partiti deboli, culturalmente degradati e personalizzati nella leadership, tanto più divengono “terreno di troppo facile conquista da parte di reti di interessi e di affari che li utilizzano a fini privatistici”. Alla crisi e al progressivo indebolimento dei partiti si è, nello stesso tempo, accompagnato un processo di “decentramento irresponsabile”, cioè nel quale l’accresciuta disponibilità di risorse a livello locale e regionale non ha corrisposto l’introduzione di adeguati strumenti di controllo dal centro[27].
Se le cose stanno così, un più efficace contrasto della corruzione richiede strategie globali di intervento che, trascendendo il piano circoscritto della giustizia penale, hanno a che fare col funzionamento e con la qualità del sistema politico sia in sé stesso, sia nei suoi rapporti di interazione con l’economia pubblica e privata.
IX. Rilievi di diritto penale sostanziale e processuale
Per quanto da solo non decisivo, il terreno del diritto e del processo penale non va certo trascurato.
A) Nel riassumere le possibili indicazioni che in proposito derivano dalla esperienza di Mani Pulite, un primo dato – abbastanza noto almeno tra gli addetti ai lavori – riguarda il diritto penale sostanziale e può essere sintetizzato così: le concrete forme di manifestazione empirica della fenomenologia corruttiva venuta alla luce (carattere sistemico e strutturato, reti relazionali stabili tra soggetti appartenenti ad ambiti professionali diversi, sovvertimento dei ruoli criminosi tradizionali con passaggio di uno stesso soggetto nell’ambito della medesima vicenda dal ruolo di concusso a quello di corruttore o viceversa, messa “a libro paga” di un pubblico ufficiale da parte di un imprenditore privato che lo sovvenziona periodicamente per ottenerne una generale disponibilità ecc.) hanno messo a dura prova, sul piano interpretativo-applicativo, le tradizionali fattispecie incriminatrici dei delitti di concussione e corruzione contenute nel codice Rocco[28]. Per facilitarne l’applicazione alla nuova casistica concreta, si è assistito nella prassi giudiziaria a un accrescimento della discrezionalità qualificatoria e a una contemporanea dilatazione ermeneutica di tipo estensivo- analogico delle fattispecie scritte, in contrasto o comunque in forte tensione con i principi penalistici di riserva di legge e di tipicità (nello stesso tempo, si è accentuata la tendenza verso la cosiddetta processualizzazione delle categorie sostanziali, cioè a ricostruire giudiziariamente i requisiti costitutivi di delitti come la corruzione o la concussione in base a esigenze probatorie). Da questo punto di vista, l’esperienza giudiziaria milanese ha fornito una delle migliori riprove di come l’interpretazione e applicazione delle stesse leggi penali non possano, secondo una visione realistica, ridursi ad attività meccaniche o tecnicamente neutrali: piuttosto, esse richiedono che l’interprete-applicatore giudiziale – per dirla con un valente giusfilosofo delle ultime generazioni – “compia molteplici scelte, valutazioni, prese di posizione, spesso non chiaramente esplicitate, scelte che possono talvolta, o anche spesso, apparire come semplici questioni tecniche (…), ma che sono in larga parte, in ultima analisi, di natura etico-politica”[29]. Se così è, la cosiddetta rivoluzione giudiziaria si è anche alimentata di quote non piccole di politicità latamente intesa, insita inevitabilmente nel modo di adattare le figure di reato allora vigenti ai casi concreti.
Ma le difficoltà applicative e la preoccupazione emergente di rendere più efficace l’intervento penale, com’è pure noto, sollecitavano ben presto un dibattito nella prospettiva di possibili riforme legislative. Tale dibattito sfociò in due direttrici di fondo: una per così dire ‘estremistica’ esemplificata dal “progetto di Cernobbio” (elaborato da un gruppo di studio costituito da docenti universitari, componenti dello stesso pool milanese e alcuni avvocati) e mirante, in estrema sintesi, a superare la tradizionale distinzione tra concussione e corruzione unificandole in una fattispecie incriminatrice unitaria e, altresì, a introdurre cause di non punibilità per il corrotto o corruttore “pentito”; una seconda direttrice per così dire moderata, tendenzialmente fatta oggetto di maggiore consenso anche dottrinale, volta a modificare la originaria disciplina delle due suddette fattispecie in modo da superarne le risalenti difficoltà di differenziazione e da renderle più agevolmente applicabili all’evoluzione delle forme di corruzione venute alla luce[30].
Come sappiamo, per cercare di tradurre in legge quantomeno alcune delle esigenze politico-criminali emerse dall’esperienza di Tangentopoli si sono dovuti attendere, però, non pochi anni: è stata la cosiddetta riforma Severino del 2012 a riscrivere in larga parte il reato di concussione (con scorporo della condotta induttiva e suo trasferimento nella nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere) e i delitti di corruzione (con eliminazione della corruzione cosiddetta impropria e sua sostituzione con il nuovo reato di corruzione pe l’esercizio della funzione), inasprendo altresì il regime sanzionatorio. Ma, se si dà uno sguardo d’insieme agli orientamenti interpretativi della nuova giurisprudenza maturata rispetto alle modificate fattispecie, non si può dire che questa ampia riforma di un decennio fa sia risultata – al di là delle intenzioni – di fatto davvero utile in termini di effettiva semplificazione applicativa e di reale potenziamento della risposta penale[31]. Né risultati pratici apprezzabili sembrano conseguibili grazie alla successiva riforma cosiddetta “Spazzacorrotti” del 2019, concepita nell’ottica di un demagogico iper-punitivismo populista, che ha inasprito ulteriormente il trattamento sanzionatorio e ha introdotto una causa di non punibilità – peraltro non felicemente formulata – a favore del colpevole che denuncia volontariamente, prima di avere notizia dell’inizio delle indagini a proprio carico, il fatto delittuoso a carattere corruttivo commesso, fornendo indicazioni utili ai fini dell’accertamento processuale.
B) Rispetto poi al versante procedimentale e processuale, un profilo degno di nota – oltre al già accennato fenomeno di stretta interazione tra presupposti di diritto sostanziale ed elementi probatori – riguarda in primo luogo le tecniche di indagine adottate per portare allo scoperto gli episodi corruttivi. In proposito, si è più volte messa in evidenza la eccezionale abilità investigativa in particolare – e non a caso - dell’esponente-simbolo del pool milanese, cioè di Antonio Di Pietro: abilità caratterizzata sia da un pur discutibilissimo stile poliziesco (acquisito, verosimilmente, nel periodo precedente in cui lo stesso Di Pietro aveva operato come commissario di polizia), da metodi alquanto spregiudicati o sbrigativi e da un sapiente dosaggio di ‘bastone’ e ‘carota’ nel condurre gli interrogatori, sia da una spiccata capacità (comune invero ad altri colleghi del pool) di analizzare i movimenti bancari, sia ancora da una eccezionale capacità di utilizzare gli strumenti informatici per collegare elementi di conoscenza provenienti da indagini diverse[32]. Ora, se non mi sentirei neanch’io di additare a modello la figura del pm-superpoliziotto e il ricorso a modalità operative troppo disinvolte, non c’è dubbio invece che la padronanza dell’informatica e il possesso di approfondite conoscenze in ambito economico-finanziario e in materia di legislazione e prassi amministrative costituiscono ormai elementi imprescindibili del bagaglio professionale di un magistrato impegnato nel contrasto della corruzione.
Aspetti non poco discutibili di Mani Pulite, e più volte già criticati in varie sedi (anche accademiche), sono emersi riguardo alle modalità d’impiego della coercizione penale in fase sia cautelare che di successivo giudizio. Sotto il primo profilo, ci si riferisce all’uso della carcerazione preventiva a fini investigativi e confessori ben stigmatizzato – tra altri – da Giovanni Maria Flick in un libro del 1993 che reca come titolo “Lettera a un procuratore della Repubblica”, e che merita di essere ricordato anche per la risposta (riportata nel medesimo libro) dell’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. A Flick, che opportunamente sollevava anche più in generale “il problema del rapporto tra il processo alla responsabilità del singolo e il processo alla degenerazione del sistema, attraverso il primo”[33], Borrelli rispondeva invero con affermazioni del seguente tenore: “il pericolo di inquinamento, il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione del delitto”, in quanto concetti non formalizzabili in termini strettamente giuridici, “devono ricevere concretezza dalla comune esperienza e dal comune modo di ragionare del cittadino medio”; e ancora: “Vogliamo, per curiosità, provare a domandarci che cosa pronosticherebbe il cosiddetto uomo della strada circa la probabile condotta futura di un pubblico amministratore che fino a ieri ha concusso o si è lasciato corrompere? Di tanto in tanto dovremmo forse umiliarci fino ad aprire occhi e orecchie verso il mondo esterno e rapportarci (…) alla sensibilità media del popolo in nome del quale la legge si applica”[34]. Con tutto il rispetto per la sua figura e la sua memoria, direi che il procuratore Borrelli (pur essendo antropologicamente e culturalmente distante da Tonino Di Pietro), così ragionando, finiva anch’egli con l’esibire sintomi patologici di populismo politico-giudiziario!
Tra i costi umani più dolorosi di quella stagione, che rappresentano “la testimonianza tragica della catastrofe di un sistema”[35] ma, ad un tempo, del crollo psichico di alcuni suoi esponenti che non hanno sopportato la vergogna o lo stress della sottoposizione alle indagini (o a certi modi di condurle), rientrano una serie di suicidi. Sarebbe assai problematico – a maggior ragione oggi – cercare di stabilire un rapporto causale prevedibile tra questi eventi suicidiari ed eventuali modalità scorrette di conduzione dei procedimenti giudiziari. Ma non sembra neppure accettabile rimuovere il tormentoso problema ribadendo, con una sorta di fanatico moralismo, che “le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono e non su coloro che li perseguono”: così pensa a tutt’oggi, ad esempio, Pier Camillo Davigo[36]. Piuttosto, ritengo che una deontologia professionale adeguata all’insieme dei valori e diritti in gioco dovrebbe, tra l’altro, includere il dovere di orientare le scelte giudiziarie anche in base alla ragionevole previsione (per quanto possa risultare non facile!) delle loro possibili ricadute anche psicologiche[37]. Tanto più che non andrebbe dimenticato – come ben vide Francesco Carnelutti non pochi decenni fa – che già il sospetto, l’indagine, il giudizio suscitano angoscia e sofferenza in chi vi è sottoposto, e rappresentano dunque di per sé stessi una pena che si aggiunge a quella conseguente all’eventuale condanna[38].
Quanto poi al carico sanzionatorio complessivamente gravato sulle persone indagate che hanno effettivamente subito una condanna, una indagine a carattere statistico-giudiziario condotta nel 2007 è giunta alla conclusione che sono state inflitte pene mediamente molto miti sia per la concussione che per la corruzione, con frequente sospensione condizionale della loro esecuzione, largo ricorso al patteggiamento e misure alternative concesse in maniera quasi automatica (per cui sono risultati assai rari i casi di condannati che hanno espiato almeno una parte della pena in carcere)[39]. Ammesso che si tratti di una indagine esaustiva e affidabile, sembra potersene trarre una conferma del fatto che l’impresa giudiziaria di Mani Pulite, considerata nel suo insieme, non aveva come obiettivo principale il puntuale accertamento di colpevolezze individuali alla cui gravità commisurare, di volta in volta, una pena “giusta” e/o di potenziale valenza rieducativa: piuttosto, lo scopo prioritario era quello di scoperchiare e processare un intero “sistema” corrotto al fine di abbatterlo; e questa finalità (più latamente politica che giudiziaria in senso stretto) faceva sì che anche la concreta determinazione delle pene obbedisse a ragioni e valutazioni non coincidenti, o coincidenti soltanto in parte con quelle che in teoria dovrebbero più propriamente guidare le opzioni sanzionatorie in sede di condanna. Da questo punto di vista sembra, allora, potersi concludere che la ‘reale’ dimensione punitiva finiva con l’essere affidata, più che ad una punizione canonica applicata secondo parametri rigorosamente giuridici, alla censura morale e all’effetto discreditante – a loro volta mediaticamente amplificati nella riemergente forma di una pubblica gogna – impliciti nell’essere indagati, processati e poi condannati.
X. La magistratura penale tra centralità storico-politica e problema di identità
È abbastanza diffusa la convinzione che in questi trent’anni di distanza che ci separano da Mani Pulite siano rimasti sul tappeto, e si siano per di più aggravati, non pochi dei problemi che hanno determinato il crollo della cosiddetta prima Repubblica. Ha scritto di recente una storica di professione: “A tutt’oggi restano evidenti infatti le fragilità dei soggetti politici presenti sulla scena alla continua ricerca di una solida identità mai raggiunta, mentre non si restringe la divaricazione della forbice tra gli elettori e i loro rappresentanti, come testimonia l’astensionismo dilagante insieme alla sfiducia nella classe politica al governo e all’opposizione”. E ancora: “Lo dimostrano i fenomeni in continua crescita dopo il ’94, di populismo, giustizialismo, razzismo, xenofobia, oblio dei diritti, delle libertà e dei valori civili; ma anche l’evolversi delle polemiche antipartitiche o per meglio dire anti-establishment che si riassumono in un antagonismo pregiudiziale contro chi ha istruzione, competenze, educazione e persino fede nei valori non negoziabili del vivere civile. Pulsioni antipolitiche estese anche ai governanti europei, gli ‘spregevoli burocrati di Bruxelles’ contro i quali si scagliano i sovranisti”[40]. Una emblematica riprova della persistente situazione di grave crisi, incertezza, frammentazione e stallo in cui a tutt’oggi versano tutti i partiti e movimenti, di sinistra come di destra o di centro (ammesso che questa distinzione continui ad essere a risultare chiara!) l’ha fornita, da ultimo, la tormentata rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica (il secondo caso dopo la conferma al Quirinale di Giorgio Napolitano nel 2013). Né sappiamo come evolverà, nel corso del presente anno, la complessa e altresì conflittuale dialettica tra le disomogenee forze politiche che sostengono l’attuale governo di quasi-unità nazionale presieduto da un cosiddetto super-tecnico come Mario Draghi (più tollerato che amato, secondo quanto è andato emergendo, dalla maggior parte dei cosiddetti politici di professione o per elezione popolare!).
In questo quadro complessivo, problematico e poco rassicurante, si colloca anche un tentativo di riflessione sulla magistratura e sulla crisi di cui anch’essa soffre, e direi non da ora. Al di là della deriva correntizia, e della perdita di credibilità anche morale che sembra essersi aggravata di recente, c’è anche un problema di identità di ruolo: problema che a maggior ragione si ripropone e impone per il fatto che, negli ultimi decenni, in particolare la giustizia penale ha assunto in Italia una centralità, storica e politica, ben maggiore che in altri paesi europei. E ciò ha inciso e continua a incidere in misura abnorme sull’equilibrio costituzionale tra i poteri istituzionali e, al tempo stesso, sulle concrete dinamiche politiche. Come sappiamo, anche in frangenti temporali precedenti la corruzione politico-amministrativa di Tangentopoli l’azione repressiva si è caricata di rilevanti implicazioni politiche nel cercare di assolvere funzioni di cosiddetta supplenza rispetto a discipline legislative mancanti o a omessi interventi di una pubblica amministrazione inefficiente, nel contrastare altri mali sociali di rilievo sistemico (terrorismo, mafie), oppure è stata politicamente strumentalizzata (anche a prescindere dalla volontà soggettiva dei magistrati titolari delle indagini e dei processi) come strumento improprio di lotta tra partiti o fazioni in conflitto per la conquista di posizioni di supremazia. Ma nella stagione di Mani pulite l’azione giudiziaria ha presentato dimensioni politiche così macroscopiche, anche per l’ampio consenso sociale e la larga delega di fatto ricevuta dai settori politici e sociali più interessati al cambiamento, da non poter essere in nessun modo occultate, né sminuite. Che atteggiamento ha mostrato in proposito la magistratura considerata nel suo insieme?
Invero, non sono mancate sia voci critiche di singoli magistrati, che hanno evidenziato i rischi di un eccesso di consenso della pubblica opinione e di una conseguente sollecitazione verso forme di giustizia sostanzialistica e sommaria, sia della stessa Anm che ha messo in guardia dalla tentazione della magistratura di assumersi compiti esulanti dai suoi fini istituzionali[41]. Vale la pena in proposito richiamare, ad esempio, una parte dell’intervento conclusivo svolto dall’allora segretario generale Franco Ippolito al XXII Congresso nazionale del giugno 1993: “Gli applausi e le manifestazioni popolari attorno al palazzo di giustizia milanese sono certo espressione di una legittima pretesa dei cittadini che la legge valga davvero per tutti. Ma sono la spia di pericoli. Innanzitutto di un eccesso di aspettative nell’intervento giudiziario, destinate a rimanere in parte inevitabilmente deluse. In secondo luogo sono l’espressione di una spinta ansiosa al raggiungimento di ‘risultati’, con rischio di torsione dello strumento giudiziario, giacché la giurisdizione non deve essere una istituzione di scopo”[42]. Questo monito di Ippolito a rifiutare il modello della giurisdizione o del giudice “di scopo” - fatto proprio e ribadito, in anni più recenti, anche da Luciano Violante e da altri qualificati esponenti della cultura politica e giuridica - tocca il problema cruciale del rapporto tra politica e funzione giudiziaria, cioè quello che sotto più di un aspetto si prospetta come il problema più arduo da affrontare. In proposito, possibili indicazioni orientative sono desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, e in particolare dalla sent. n. 24/2017 relativa al celebre caso Taricco, nella quale la Corte fa affermazioni del seguente tenore: ai giudici “non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”; gli “ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law (…) in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire”. Il senso sostanziale di questa presa di posizione della Consulta può essere plausibilmente inteso come equivalente alla tesi che la giustizia penale non è una giustizia ‘di lotta’, non ha il compito di contrastare fenomeni generali (compito che spetta invece al potere legislativo e a quello politico-amministrativo)[43]. In una analoga ottica visuale, proprio riguardo a Tangentopoli Bruti Liberati ha scritto nel suo libro di storia della magistratura italiana: “Mani Pulite indica la capacità di indagine di polizie e Procure, ma dovrebbe anche far riflettere sulle specificità del processo penale. Alla giustizia penale si deve chiedere di accertare, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa, fatti di reato specifici e responsabilità individuali e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali”[44]. Solo che, nelle pagine conclusive della stessa opera, sempre Bruti Liberati sembra in proposito implicitamente contraddirsi, o quantomeno mostrare una certa ambiguità di pensiero (retaggio dell’appartenenza a un gruppo associativo come Md, teorizzatore della funzione politica della giurisdizione?) affermando: “la storia di Mani pulite (…) è la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità”; e aggiungendo che la vicenda di Mani pulite insegna a distinguere tra il “protagonismo (improprio) di alcuni magistrati” in particolare d’accusa, e il “protagonismo (necessitato) della magistratura” sulla corruzione[45]. Orbene, se protagonismo necessitato della magistratura significa che quest’ultima in una stagione come quella di Tangentopoli si attribuì la funzione (missione?) – come alcuni elementi di riscontro sembrano confermare – di liberare l’Italia dal sistema della corruzione e di promuovere il rinnovamento politico[46], apprezzare questo protagonismo equivale a rilegittimare il ruolo del giudice di scopo anche al prezzo di “un’alterazione dei rapporti costituzionali tra magistratura e potere politico”[47]. (Come che sia, è un dato di fatto che la tendenza a concepire la giurisdizione come strumento di lotta contro fenomeni o sistemi criminali è andata sempre più diffondendosi negli anni, come si può constatare sia studiando provvedimenti giudiziari sia leggendo articoli o interviste rilasciate da singoli magistrati: una autopercezione di ruolo, questa, che si è ampiamente consolidata e perciò non facile da contrastare!).
Concordo invece pienamente con lo stesso Bruti Liberati nel ritenere che, oggi, “occorrerebbe una riflessione più approfondita su cosa si deve e non si deve chiedere alla giustizia penale” specie rispetto a fenomeni come corruzione, mafie, criminalità terroristica ecc. e, correlativamente, sul modello di magistrato penale più adeguato alle sfide del tempo presente[48]. Mentre sul ruolo della magistratura e sui modelli di giudice si era in Italia sviluppato un dibattito anche teorico di un certo respiro negli anni ’70, proseguito – direi, non a caso – nel corso degli anni ‘90 fino ai primi del 2000, negli anni successivi la discussione è andata invece (con qualche eccezione) spegnendosi[49]. A ridosso di Mani Pulite, ad esempio Vito Marino Caferra in un piccolo e brillante saggio aveva distinto le rispettive figure idealtipiche del magistrato “senza qualità”(identificato con un carrierista duttile), “politico”, “moralista” e “poliziotto”; ai nostri giorni Gustavo Zagrebelsky, in un libro sulla professione di giurista, differenzia con ben maggiore varietà i modelli tipologici del magistrato rispettivamente “tecnico”, “politico”, “empatico”, “redentore”, “vendicatore” e “sacerdote”[50]. Sarebbe intrigante entrare nel merito di tutte queste figure che, in quanto stilizzate in modo estremistico, evocano peraltro modelli più tendenziali che suscettibili di impersonarsi interamente in giudici in carne e ossa. Ma sarebbe fuori luogo farlo in questa sede.
XI. Esigenza di promuovere dibattiti pubblici sul ruolo della magistratura nella realtà attuale e sul modello di magistrato adeguato al tempo presente
In sintesi, rilevo che nella ormai non breve mia esperienza di studioso “tempopienista”, se da un lato mi è mancata l’esperienza concreta del foro, ho dall’altro esaminato parecchia giurisprudenza e frequentato un certo numero di magistrati, per ragioni di studio come pure a titolo amichevole. Per quello che sono riuscito a comprendere anche attraverso questa conoscenza diretta, escluderei innanzitutto che (almeno) in penale esista davvero nella realtà quella comune “cultura della giurisdizione” che dovrebbe accomunare pubblici ministeri e giudici, e il cui mantenimento viene a tutt’oggi enfaticamente raccomandato come argomento contro la cosiddetta separazione delle carriere. Esiste a mio avviso piuttosto, nella attuale magistratura penale, una certa confusione e frammentazione di mentalità e di stili operativi: esistono giudici simili a pubblici ministeri (e a pubblici ministeri addirittura di tipo poliziesco), pubblici ministeri simili viceversa a giudici; mentre sul modo di pensare e agire degli stessi pubblici accusatori può incidere il settore operativo di riferimento, a seconda che si tratti ad esempio di criminalità comune o di criminalità organizzata di tipo mafioso o di tipo terroristico ecc. Personalmente, da giurista accademico convinto (o meglio, illuso) che almeno i principi di fondo del costituzionalismo penale (europeo e nazionale) dovrebbero essere concepiti e applicati in maniera sufficientemente omogenea da tutti i magistrati, continua – lo confesso – a sorprendermi e irritarmi invece constatare che ad esempio che i pubblici ministeri antimafia (e in particolare quelli di orientamento più radicale o estremistico) sembrano obbedire a una Costituzione tutta loro, autonoma e diversa dalla Costituzione ufficiale: per cui la lotta a tutto campo al fenomeno mafioso diventa, nella loro ottica unilaterale e belligerante (propugnante una sorta di “diritto penale del nemico” in veste nostrana!), il superiore obiettivo costituzionale destinato in ogni caso a prevalere sulla protezione di ogni altro pur non secondario bene o diritto costituzionalmente rilevante[51] (emblematiche in questo senso le vibrate o gridate obiezioni, mediaticamente veicolate, che le procure antimafia hanno rivolto alla riforma Cartabia della prescrizione o continuano a muovere al superamento dell’ergastolo ostativo). Insomma, si tratta di un modello di pubblico ministero per così dire ‘combattentista estremista’, la cui compatibilità con i principi costituzionali del garantismo penale mi appare tutt’altro che scontata. Invero, ritengo da tempo che la stessa Scuola di formazione della magistratura dovrebbe fare di più di quanto non faccia, sul piano della cultura professionale, per promuovere il passaggio da un pluralismo eccessivamente conflittuale a un pluralismo più ragionevole di orientamenti di fondo, in vista appunto di quella tendenziale omogeneità di principi di riferimento (anche tra pubblici ministeri e giudici) che rappresenta più un obiettivo auspicabile che non una base di partenza di fatto esistente.
Sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo, però, aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico (se possibile, fuori da quelle pregiudiziali contrapposizioni e da quelle opposte tifoserie predominanti purtroppo da tempo specie nei dibattiti politico-mediatici. Ma siamo più capaci di confronti autentici?): sarebbe necessario che il potere giudiziario uscisse il più possibile dalla sua autoreferenzialità e si confrontasse con le realtà e culture esterne, dal momento che sembra improbabile che esso possa da solo rinnovarsi e rigenerarsi (oltre che moralmente) culturalmente. I rischi che da qualche tempo ravviso, osservando il complessivo orizzonte magistratuale contemporaneo, vanno al di là di un eccesso di pluralismo, di frammentazione di concezioni e opinioni o di una certa confusione e incertezza sul piano deontologico (riguardo sia alle relazioni con gli altri poteri istituzionali, sia alle modalità di condotta nella realtà esterna): vi è anche il pericolo che i giovani magistrati, sempre più privi di solidi ancoraggi culturali e valoriali (anche a causa dell’inaridimento della capacità di riflessione e orientamento delle correnti, nonché della scomparsa o del pensionamento di note e autorevoli figure di giudici-maestri), finiscano col far propria una visione tecnico-burocratica del loro ruolo e appiattita sugli avanzamenti di carriera, rinunciando a slanci ideali e aspirazioni culturali di più ampio respiro. È anche per reagire a un simile rischio che i gruppi associativi dovrebbero tentare di recuperare la loro principale funzione di strumenti di elaborazione, confronto e orientamento.
Proprio perché il modo d’atteggiarsi e di operare della giurisdizione penale è fortemente condizionato dalle interrelazioni sistemiche con gli altri poteri, il riorientamento culturale complessivo e il miglioramento anche qualitativo dei rapporti tra giustizia penale e sistema politico presuppongono forze politico-partitiche meno deboli, capaci a loro volta di recuperare identità e fondamenti culturali e – non ultimo – in grado di affrontare le grandi questioni sul tappeto prospettando idonee soluzioni concrete: se questi presupposti dovessero anche in futuro mancare, dal momento che “la politica non ammette vuoti”[52], il potere giudiziario potrebbe continuare a essere tentato di allargare (più o meno abusivamente) i propri spazi di intervento
*Il testo riproduce l'intervento del prossimo incontro-dibattito, organizzato dalla Anm sezione di Milano, su “Mani Pulite trent’anni dopo. Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli”, che si terrà presso l'Aula Magna del Palazzo di giustizia di Milano il 17 febbraio 2022.
[1] Rispetto alla fase storica che va dalla fine degli anni ’70 agli anni ’90 cfr. ad esempio G. Crainz, Storia della Repubblica, Donzelli, Roma, 2016, 215 ss.
[2] Cfr. S. Colarizi, Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994, Laterza, Roma-Bari, 2022.
[3] Più diffusamente, S. Colarizi, op. cit., 24 ss. e passim.
[4] Per riferimenti a questi sopravvenuti ripensamenti critici di personaggi autorevoli rinvio a G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, 112 s.
[5] Per maggiori svolgimenti cfr. S. Colarizi, op. cit., 160 ss.
[6] S. Colarizi, op. cit., 187 ss.
[7] Citazione tratta dall’articolo di M. Pirani, I tribunali e la piazza, ne la Repubblica 16 gennaio 1994.
[8] Più diffusamente, G. Fiandaca, op. cit., 107 ss.
[9] Di recente, si veda ad esempio E. Antonucci, I dannati della gogna. Cosa significa essere vittima del circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macerata, 2021.
[10] Per rilievi in proposito rinvio a G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Zanichelli, Bologna, 2022, 107 ss.
[11] Cfr. in proposito ad esempio l’importante testimonianza di Giuliano Pisapia riportata nel bel libro di L. Ferrarella, L’intruso. Antonio Di Pietro da Mani Pulite alla politica, Limina, Arezzo, 1997, 199.
[12] Così si era espresso il poeta Giuseppe Conte: “era un Robespierre, ma con aspetti da italiano medio. E le due cose non vanno d’accordo”(cfr. L. Ferrarella, op. cit., 193).
[13] Per maggiori svolgimenti e riferimenti cfr. G. Fiandaca, op. cit., 105 ss.
[14] G. Forti, Il diritto penale e il problema della corruzione, dieci anni dopo, nel volume collettivo (a cura del predetto autore) Il prezzo della tangente. La corruzione come sistema a dieci anni da ‘mani pulite’, Vita e pensiero, Milano, 2003, 102 s.
[15] Parole tratte dal celebre articolo sul “caso Tortora” del 14 ottobre 1983, riprodotto in L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989, 80.
[16] G. Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, Laterza, Roma-Bari, 2O21, recensito da G. Fiandaca, Mani Pulite, coscienza sporca, ne Il Foglio 19 novembre 2021.
[17] Cfr. P.P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna, 1997.
[18] U. Eco, E’ attentato alla Costituzione il processo ripreso in tv (1993), ripubblicato in Id., L’età della comunicazione, La nave di Teseo, Milano, 2022, 75 ss.
[19] Per una presa di posizione senz’altro favorevole di fonte magistratuale cfr. ad esempio A. Spataro, No alla giustizia-spettacolo, ne L’Espresso 9 gennaio 2022.
[20] P. Davigo, L’occasione mancata. Mani Pulite trent’anni dopo, Laterza, Roma-Bari, 2021, 167 s. (nelle stesse pagine si evidenzia che il sistema illegale di finanziamento e attribuzione di appalti coinvolgeva anche le cooperative “rosse” e soggetti riconducibili al Pci e altresì che, in una realtà come quella siciliana, esso funzionava in collegamento con esponenti mafiosi di Cosa nostra).
[21] Ci si riferisce in particolare ai risultati dell’indagine sociologica – condotta utilizzando la banca dati delle sentenze della Cassazione e studiando i casi considerati nelle autorizzazioni a procedere del Parlamento -del gruppo di studiosi autori dell’apposito Rapporto della Fondazione Res, riprodotto nel volume collettivo Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, a cura di R. Sciarrone e con prefazione di C. Trigilia, Donzelli, Roma, 2017. Per riferimenti alla metamorfosi della corruzione politica post-Mani Pulite cfr. anche, sul piano storiografico, G. Crainz, op. cit., 345 ss. e ivi ampi riscontri pure a carattere giornalistico.
[22] Per rilievi analoghi, G. Pignatone, La corruzione percepita, ne la Repubblica 30 ottobre 2021.
[23] P. Davigo, op. cit., 169.
[24] Più diffusamente, G. Forti, op. cit., 85 ss. (e ivi riferimenti alle proposte, emerse in certe fasi del dibattito politico-criminale, di introduzione di “benefici premiali” volti a rompere la connivenza tra corrotti e corruttori e a favorire la denuncia dei patti corruttivi).
[25]Cfr.ad esempio P. Davigo, op.cit., 185.
[26] C. Trigilia, Prefazione alla ricerca della Fondazione Res riprodotta nel volume collettivo Politica e corruzione cit., XI.
[27] C. Trigilia, op. cit., XI s.
[28] In proposito, più diffusamente, tra altri, G. Forti, op. cit., 73 ss.; G. Fiandaca, Esigenze e prospettive di riforma dei reati di corruzione e concussione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 883 ss.
[29] G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, Torino, 2021, 2.
[30] Per riferimenti più dettagliati cfr. i lavori citati supra, nota 21.
[31] Per una disamina delle modifiche normative del 2012 e per riferimenti alla giurisprudenza successiva sia consentito rinviare a G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, I, 6 ed., Zanichelli, Bologna, 2021, 205 ss.
[32] Si veda al riguardo la testimonianza di Giuliano Pisapia nel ruolo di avvocato riportata in L. Ferrarella, op. cit., 202 s.
[33] G. M. Flick, Lettera a un procuratore della Repubblica. Con la risposta di Francesco Saverio Borrelli, Il Sole 24 Ore, Milano, 1993, 169.
[34] Passi riportati in G.M. Flick, op. cit., 12.
[35] G. Crainz, op. cit., 301.
[36] P. Davigo, op. cit., 66.
[37] Vale la pena richiamare il monito rivolto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 6 febbraio 2017 ai magistrati in tirocinio: “E’, comunque, compito del magistrato scegliere, in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite, quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti” (citazione tratta da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2018, 332).
[38] E’ tornato di recente a riproporre la nota tesi carneluttiana N. Irti, La pena del giudizio e l’abbraccio soffocante del passato, ne Il Sole 24 Ore 28 luglio 2021.
[39] Ci si riferisce all’indagine riprodotta nel libro di P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, Roma-Bari, 2007; si veda altresì P. Davigo, L’occasione mancata, cit., 173, 232.
[40] S. Colarizi, op. cit., 15 s.
[41] Per riferimenti cfr. E. Bruti Liberati, op.cit., 261 ss.
[42] Quanto riportato tra virgolette è tratto da E. Bruti Liberati, op. cit., 263.
[43] D. Pulitano’, Il libro di un magistrato sulla magistratura nell’Italia repubblicana, in Dir. pen. cont., 11 aprile 2019.
[44] E. Bruti Liberati, op. cit., 276.
[45] E. Bruti Liberati, op. cit., 332 s.
[46] Si vedano, ad esempio, alcune dichiarazioni in questo senso emblematiche di Francesco Saverio Borrelli (“Il problema non è di uscire da Tangentopoli”, ma “di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale (…) proseguire l’opera fino alla eliminazione di quelle mani che pulite non sono” e di Antonio Di Pietro (“Il progetto Mani Pulite (…)” avrebbe dovuto comportare “la ricostruzione, il ricambio della classe dirigente, nuove leggi e nuovi agglomerati politici”), rispettivamente riportate da Il Sole 24 Ore 25 marzo 1995 e da Il Giornale 13 gennaio 1996.
[47] L. Violante, Magistrati, Einaudi, Torino, 2009, 106.
[48] E. Bruti Liberati, op. cit., 331.
[49] Tranne qualche eccezione, come ad esempio il già citato Magistrati di L. Violante, pubblicato nel 2009; fa riferimento, più di recente, a figure idealtipiche di giudice G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, Torino, 2021, 130 ss. Si veda altresì – volendo - G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di difesa 6 maggio 2020.
[50] G. Zagrebelsky, op. cit., 130 ss.
[51] Più diffusamente, G. Fiandaca, Estremismo, cit.
[52] A. Panebianco, I pericoli di una politica debole, ne Il corriere della sera del 3 febbraio 2022.
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