ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Federazione russa annuncia il suo ritiro dal Consiglio d’Europa. Quali effetti sul sistema europeo di tutela dei diritti umani?
di Guido Raimondi
Sommario: 1. L’invasione dell’Ucraina e l’annuncio del ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa - 2. Le decisioni del Comitato dei Ministri e della Corte - 3. Quali scenari? - 4. L’esame dei ricorsi russi dopo la possibile uscita della Federazione.
1. L’invasione dell’Ucraina e l’annuncio del ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa
La tragedia in corso in Ucraina, teatro di una cruenta invasione da parte della Federazione russa, con lo sconvolgimento della vita civile del Paese e la fuga – si ipotizza – di oltre due milioni di persone, ha provocato da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, già il giorno stesso dell’ingresso delle truppe russe sul suolo ucraino, il 24 febbraio 2022, una decisione con la quale la Federazione russa è stata invitata a cessare immediatamente e incondizionatamente le sue operazioni militari nel Paese invaso[1].
Il giorno successivo, 25 febbraio, il Comitato dei Ministri ha adottato una ulteriore decisione con la quale, ai sensi dell’art. 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, la Federazione russa è stata sospesa quasi integralmente dai suoi diritti di rappresentanza nell’organizzazione, in particolare nell’ambito dello stesso Comitato dei Ministri e dell’Assemblea parlamentare[2].
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha indicato poi delle misure provvisorie nei confronti del governo della Federazione russa e il 10 marzo 2022, dopo il bombardamento dell’ospedale ostetrico/pediatrico di Mariupol, il Comitato dei Ministri ha affermato la propria determinazione a valutare in stretto coordinamento con l’Assemblea parlamentare ulteriori misure nel quadro dello stesso art. 8, cioè l’espulsione della Federazione russa dal Consiglio d’Europa. Lo stesso giorno il ministro degli affari esteri della Federazione russa, Lavrov, ha annunciato l’intenzione del governo russo di lasciare l’organizzazione di Strasburgo.
Agli scenari che si aprirebbero per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo in caso di ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa, o di una sua espulsione, è dedicato questo breve scritto.
Ma procediamo con ordine, e descriviamo il corso degli interventi del Comitato dei Ministri e della Corte europea fino al 10 marzo 2022.
2. Le decisioni del Comitato dei Ministri e della Corte
La decisione del Comitato dei Ministri del 25 febbraio 2022 con la quale la Federazione russa è stata sospesa dal Consiglio d’Europa precisa, al paragrafo 7, che la Federazione russa rimane soggetta alle sue obbligazioni derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito, la Convenzione). Il giudice eletto alla Corte europea dei diritti dell’uomo a titolo della Russia rimane in carica e ogni ricorso presente e futuro presentato contro questo Stato o da questo stesso Stato continuerà ad essere esaminato e deciso dalla Corte. La Federazione russa, nonostante la sospensione, può continuare a partecipare alle riunioni del Comitato dei Ministri solo quando quest’ultimo esercita le sue funzioni nel quadro del controllo dell’esecuzione delle sentenze ai sensi dell’art. 46 della Convenzione allo scopo di fornire e ricevere informazioni relative alle sentenze in riferimento alle quali essa sia uno Stato convenuto o ricorrente, senza il diritto di partecipare all’adozione di decisioni da parte del Comitato e senza diritto di voto.
Certamente non spetta al Comitato dei Ministri stabilire quali siano gli effetti giuridici della sospensione della Russia decisa ai sensi dell’art. 8 dello Statuto sull’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, essendo questa questione, compreso l’aspetto della permanenza in carica del giudice eletto a titolo della Russia, come tutte le questioni che riguardano l’interpretazione e l’interpretazione della Convenzione, riservata alla Corte europea dei diritti dell’uomo ai sensi dell’art. 32 della stessa Convenzione. Tuttavia, è importante che il Comitato dei Ministri abbia espresso la volontà politica che la Convenzione continui ad applicarsi, nonostante la sospensione, nei confronti della Federazione russa.
In effetti, in un commento pubblicato qualche giorno dopo[3], chi scrive si esprimeva in senso positivo sulla scelta di sospendere e non invitare immediatamente la Russia a lasciare il Consiglio d’Europa, come pure le circostanze avrebbero certamente permesso di fare, data la gravità dei comportamenti tenuti da questo Stato, osservando da una parte che la decisione permetteva di lasciare aperta la possibilità per gli individui (anche gli ucraini) di presentare ricorsi alla Corte e, d’altra parte, che la decisione presa consentiva di tenere aperto il dialogo con Mosca.
E la Corte è stata subito chiamata in causa dal governo ucraino, che il 28 febbraio ha presentato un ricorso interstatale contro la Federazione russa, ricorso che è stato registrato al numero 11055/22 e che si aggiunge ai numerosi altri già pendenti tra i due Paesi, formulando la richiesta della indicazione di misure provvisorie urgenti alla Federazione russa, ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte, in relazione alle “violazioni di massa dei diritti umani commesse dai soldati russe nel quadro dell’aggressione militare lanciata contro il territorio sovrano dell’Ucraina”.
Su questa richiesta la Corte di Strasburgo si è pronunciata il 1° marzo 2022. La Corte ha ricordato innanzitutto la misura provvisoria indicata il 13 marzo 2014 e tuttora in vigore, adottata nel quadro del ricorso interstatale Ucraina e Paesi Bassi c. Russia (nn. 8019/16, 43800/14 e 28525/20) relativa agli avvenimenti in Ucraina orientale, misura che richiama i governi della Federazione russa e dell’Ucraina a conformarsi agli impegni ad essi derivanti dalla Convenzione. Inoltre, con riferimento alla situazione attuale, la Corte ha preso in considerazione le operazioni militari in corso dal 24 febbraio 2022 in diverse parti dell’Ucraina e ha ritenuto che esse creano per la popolazione civile un rischio reale e continuo di violazioni gravi dei diritti protetti dalla Convenzione, in particolare sotto il profilo degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di pene o trattamenti disumani o degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Al fine di prevenire tali violazioni e in virtù dell’art. 39 del suo Regolamento, la Corte ha deciso, nell’interesse delle parti e del corretto svolgimento della procedura dinanzi a sé, di invitare il governo russo ad astenersi dal lanciare attacchi militari contro i civili e i beni di carattere civile, compresi le abitazioni, i veicoli di soccorso e gli altri beni di carattere civile specialmente protetti, come le scuole e gli ospedali, e a provvedere immediatamente alla sicurezza degli stabilimenti sanitari, del personale medico e dei veicoli di soccorso sul territorio attaccato o assediato. Con la misura, immediatamente comunicata al Comitato dei Ministri ai sensi dell’art. 39 § 2 del Regolamento, il governo della Federazione russa è stato invitato ad informare la Corte il più presto possibile delle misure che saranno adottate per assicurare il pieno rispetto della Convenzione[4].
Successivamente, in seguito alla presentazione di numerosi ricorsi individuali relativi agli stessi fatti, la Corte, con una ulteriore decisione, preso atto che i ricorsi provenivano da persone che avevano trovato rifugio in dei ricoveri, delle case e altri edifici, le quali temono per la loro vita a causa dei bombardamenti e continui tiri d’artiglieria, che sono privi di accesso o hanno un accesso limitato ai viveri, alla cure, all’acqua, a dei sanitari, all’elettricità e ad altri servizi indispensabili alla sopravvivenza, e che necessitano di un’assistenza umanitaria o di una evacuazione in sicurezza, ha esteso le misure già adottate il 1° marzo a tutti gli individui che forniscano la prova sufficiente di essere esposti a un rischio grave ed imminente di un danno irreparabile alla loro integrità fisica o alla loro vita. Inoltre, sempre sui ricorsi individuali, la Corte ha deciso di indicare al governo della Federazione russa, in base all’art, 39 del Regolamento, che in base agli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione incombe ad esso il dovere di garantire il libero accesso della popolazione civile a dei corridoi di evacuazione messi in sicurezza, a cure mediche, ai viveri e alle altre risorse essenziali, oltre che al convogliamento rapido e senza ostacoli degli aiuti e dei lavoratori umanitari[5].
Mentre la situazione sul campo si aggravava di giorno in giorno, il 10 marzo 2022 il Comitato dei Ministri ha adottato una nuova decisione, con la quale tra l’altro, dopo aver deplorato l’«atroce bombardamento» – il 9 marzo 2022 – dell’ospedale ostetrico/pediatrico di Mariupol e richiamato la decisione di sospensione del 25 febbraio precedente, ha invitato il governo della Federazione russa a mettere in esecuzione le misure provvisorie indicate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare per quanto riguarda i corridoi umanitari e il rapido passaggio dell’assistenza umanitaria, ed ha espresso la propria determinazione ad agire in stretto coordinamento con l’Assemblea parlamentare nel contesto di ulteriori misure da prendere eventualmente nei confronti della Federazione russa nel quadro dell’art. 8 dello Statuto, cioè, dopo la sospensione, la possibile espulsione della Federazione russa dal Consiglio d’Europa[6]. Come si è detto, lo stesso giorno il ministro Lavrov ha annunciato l’intenzione russa di ritirarsi dall’organizzazione.
3. Quali scenari?
Nel momento in cui si scrive (13 marzo 2022), non si ha notizia di una formalizzazione dell’annunciato ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa, che quindi resta per il momento, per l’appunto, allo stato di annuncio privo di effetti giuridici. Diversi scenari sono dunque possibili, con un impatto non identico sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Alla considerazione di questi possibili scenari dedicheremo le sintetiche righe che seguono.
Punto di partenza è il legame indissolubile tra la condizione di Paese membro del Consiglio d’Europa e la partecipazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo l’art. 59 della Convenzione quest’ultima è aperta ai soli Paesi membri del Consiglio d’Europa.
Questa restrizione, non tipica delle convenzioni del Consiglio d’Europa, molte delle quali sono aperte ai Paesi terzi, si spiega per un verso con l’intento di voler preservare il carattere regionale del sistema di tutela messo in piedi dalla Convenzione per il continente europeo. D’altra parte, vi è un’altra spiegazione, che a sommesso avviso di chi scrive possiede un peso anche maggiore. Si tratta della necessità che gli Stati i quali siano disposti ad assumere gli stringenti obblighi previsti dalla Convenzione, rispondano a criteri minimi di efficienza del loro sistema democratico. Si deve trattare cioè di Stati rispettosi della democrazia pluralistica, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali. Non si dimentichi che il sistema è basato sulla sussidiarietà, e quindi sul previo esaurimento delle vie di ricorso interne. Gli Stati contraenti dovrebbero essere dotati di un sistema giudiziario indipendente e credibile, capace di assicurare una adeguata protezione dei diritti convenzionali già al loro interno. Solo gli Stati che rispondono a queste caratteristiche hanno titolo ad essere ammessi al Consiglio d’Europa e, se le perdono, possono essere sospesi e poi anche espulsi, secondo le previsioni dell’art. 8 dello Statuto. In effetti, in caso di venir meno dello status di Stato membro del Consiglio d’Europa, l’art. 58 della Convenzione prevede che lo Stato interessato perda, nei modi che ora vedremo, anche la qualità di parte della Convenzione.
Supponendo che la Federazione russa formalizzi il suo annunciato ritiro dall’organizzazione, si applicherebbe l’art. 7 dello Statuto, il quale accorda a ciascun Stato membro il diritto di ritirarsi dall’organizzazione semplicemente notificando la sua decisione al Segretario generale del Consiglio d’Europa. In questo caso la notifica avrà effetto alla fine dell’anno finanziario in corso, cioè il 31 dicembre 2022, sempre che essa sia intervenuta entro i primi nove mesi dello stesso anno. Se la notifica pervenisse successivamente, essa produrrebbe il suo effetto alla fine dell’anno finanziario successivo.
Immaginando invece che l’annuncio russo resti, per l’appunto, allo stato di annuncio, e che il Comitato dei Ministri, in coordinamento con l’Assemblea parlamentare, vada avanti nella sua considerazione delle misure previste dall’art. 8 dello Statuto per gli Stati membri che violano gravemente le disposizioni dell’art. 3 dello stesso Statuto (cioè il riconoscimento del principio della preminenza del diritto e il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), si può ipotizzare che, secondo la previsione dello stesso art. 8, la Federazione russa venga invitata a ritirarsi dall’organizzazione nelle condizioni previste dall’art. 7. Non è infatti previsto dallo Statuto che uno Stato membro possa essere immediatamente espulso. In seguito all’invito del Comitato dei Ministri si aprirebbero due possibili scenari: o la Federazione russa accoglie l’invito e invia la notifica del ritiro, il che produrrebbe la sua uscita dall’organizzazione alla fine dell’anno (sempre che la notifica sia fatta entro il 30 settembre), ovvero essa lascia cadere l’invito e resta inerte. In quest’ultimo caso l’art. 8 dello Statuto consente al Comitato dei Ministri di decidere immediatamente l’espulsione, fissando esso stesso la data alla quale lo Stato interessato cessa di essere membro del Consiglio d’Europa. L’art. 8 non lo prevede, ma è evidente che per ragioni pratiche il Comitato dei Ministri, nel formulare l’invito a lasciare l’organizzazione potrà anche fissare un termine oltre il quale, in mancanza di notifica di ritiro, esso provvederà alla decisione di espulsione.
Indipendentemente dalle eventuali procedure di uscita dall’organizzazione, la Federazione russa potrebbe decidere di denunciare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’art. 58 di questo strumento. Secondo il § 2 di questa disposizione, però, la denuncia non libererebbe immediatamente la Federazione russa dai suoi obblighi convenzionali. Non solo essa rimarrebbe responsabile convenzionalmente per tutti i fatti commessi fino alla denuncia, ma anche per quelli verificatisi nei sei mesi successivi, giacché il § 1 dell’art. 58 prevede che la denuncia sia data con preavviso di sei mesi.
In caso invece di assenza di denuncia, l’uscita della Federazione russa dal Consiglio d’Europa – volontariamente o per decisione del Comitato dei Ministri - farebbe perdere ad essa anche la qualità di parte contraente. Ma in quali tempi? Il § 3 dell’art. 58 dispone che cessa di essere parte alla Convenzione lo Stato che cessa di essere membro del Consiglio d’Europa “sous la même réserve”, espressione che verosimilmente si riferisce ai precedenti §§ 1 e 2. L’interpretazione del § 3 non è univoca, e su di essa si pronuncerà eventualmente la Corte, cui spetta di decidere, come dicevamo, ai sensi dell’art. 32 della Convenzione su ogni questione di interpretazione e applicazione della Convenzione. A sommesso avviso di chi scrive una interpretazione dell’art. 58 coerente con la sua ratio dovrebbe condurre a ritenere che il termine di grazia di sei mesi si applicherebbe anche nel caso di uscita della Federazione russa dal Consiglio d’Europa non accompagnata dalla denuncia della Convenzione. Probabilmente si tratta di un problema puramente teorico, essendo verosimile, date le circostanze, che la denuncia della Convenzione da parte russa non si faccia attendere.
4. L’esame dei ricorsi russi dopo la possibile uscita della Federazione
In ogni caso, ci sarà un periodo abbastanza lungo durante il quale, uscita la Federazione russa dal Consiglio d’Europa e anche dalla Convenzione, la Corte resterà competente ad esaminare ricorsi portati contro questo Stato. Ma in quali condizioni?
Le circostanze purtroppo non consentono di prevedere che le autorità russe collaboreranno con la Corte nella definizione dei ricorsi che rimarranno da decidere, ricorsi che saranno comunque moltissimi[7]. Questa collaborazione può essere indispensabile, anche se non in tutti casi.
Ci riferiamo in particolare alla necessità che alle decisioni più importanti sui ricorsi russi, quelle delle Camere e della Grande Camera, partecipi il c.d. “giudice nazionale”, cioè il giudice eletto a titolo dello Stato convenuto, ovvero un giudice ad hoc, per la cui nomina è comunque necessaria la collaborazione dello stesso Stato.
Verosimilmente, una volta perfezionata l’uscita della Federazione russa dalla Convenzione, il giudice eletto “a titolo” di questo Stato lascerà la Corte. Se la quest’ultima potrà continuare a decidere i ricorsi che possono essere risolti a livello del Giudice unico e del Comitato di tre giudici (il primo può solo dichiarare i ricorsi inammissibili, il secondo, oltre a questa competenza negativa, ha quella di decidere i casi sui quali vi è una giurisprudenza consolidata, Well Established Case Law), l’intervento del “giudice nazionale” resterà indispensabile per i casi di Camera e di Grande Camera. Se le autorità russe non collaboreranno nella designazione di un giudice ad hoc, questi casi non potranno essere decisi e resteranno in un limbo.
Si vedrà. Forse, volendo mantenere, nonostante le circostanze, uno spirito moderatamente positivo, si può pensare che l’esistenza di casi che rimangono in un limbo potrebbe alimentare la speranza di tempi migliori, nei quali la collaborazione tra la Russia e il resto d’Europa venga recuperata, anche nell’ambito del Consiglio d’Europa e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In fin dei conti è vero che questa collaborazione ha conosciuto momenti difficili, specie con il rifiuto da parte russa di riconoscere l’autorità di certe decisioni da essa considerate “politiche” (come quelle sulla Transnistria o sul caso Yukos), per non parlare della crisi finanziaria dell’organizzazione provocata dalla decisione russa di sospendere il pagamento della contribuzione dovuta, ma è anche vero che nella stragrande maggioranza dei casi le sentenze della Corte sono state accettate ed eseguite, e che larga parte della società russa, compresa la comunità giuridica, aveva apprezzato la partecipazione della Federazione russa alla Convenzione europea come un importante fattore di modernizzazione per il loro grande Paese.
Su questa pur flebile nota di speranza chiudiamo questa breve riflessione.
[1] CM/Del/Dec (2022) 1426 bis/2.3).
[2] CM/Del/Dec (2022) 1426 ter/2.3).
[3] G.RAIMONDI, Russia, la sospensione della Federazione russa dal Consiglio d’Europa è importante, in Corriere della Sera, 3 marzo 2022 (versione elettronica).
[4] Communiqué de presse CEDH 068 (2022), 1 marzo 2022.
[5] Communiqué de presse CEDH 073 (2022), 7 marzo 2022.
[6] CM/Del/Dec (2022) 1428 bis/2.3.
[7] Attualmente vi sono 13.645 ricorsi pendenti contro la Federazione russa.
DDL Bonafede e emendamenti: le occasioni perdute*
di Giuseppe Cascini
Sommario: 1. Legge elettorale e sorteggio - 2. Gerarchizzazione degli uffici e carrierismo - 3. Informazioni sulle indagini. Gli illeciti disciplinari per i magistrati del pubblico ministero.
1. Legge elettorale e sorteggio
Purtroppo devo registrare che anche nel dibattito consiliare prevale un approccio ideologico al tema della rappresentanza e della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura.
Questo è un peccato perché questo approccio ha secondo me due controindicazioni molto gravi: quella di non consentire un dialogo sereno e pacato sui problemi reali della magistratura e quella di creare l’illusione di poter risolvere i problemi con un colpo d’accetta. La realtà, purtroppo, è complessa e la complessità non si può risolvere attraverso la semplificazione: un messaggio semplificato può produrre consensi. ma non necessariamente risolve problemi.
Allora, io capisco, non condivido ma capisco, la posizione di chi dice: cambiamo la Costituzione, escludiamo che il Consiglio Superiore sia eletto e prevediamo una composizione nella quale ruotano magistrati selezionati attraverso la sorte.
E’ una posizione che io non condivido e che trovo gravissima, in quanto farebbe venire meno il ruolo costituzionale del Consiglio e la sua funzione di garanzia della indipendenza dei magistrati; il Consiglio verrebbe trasformato nell’ufficio del personale della magistratura con compiti esclusivamente tecnici. Ma è comunque una posizione che ha una sua coerenza.
Tutte le altre posizioni devono confrontarsi con la realtà. E la realtà è, come è già stato detto, che, soprattutto in un corpo elettorale ristretto, un Consiglio elettivo presuppone che qualcuno si organizzi per la raccolta del consenso, è la dinamica normale di formazione degli organi elettivi.
E ci sono solo due modi di raccogliere e organizzare il consenso: quello di esprimere pubblicamente delle idee e di aggregarsi sulla base delle idee, e quello di vedersi la sera in un albergo e organizzare accordi di potere. Questi soltanto sono i due sistemi possibili.
Le leggi elettorali non servono e non possono servire a sconfiggere il correntismo, non possono servire ad eliminare i gruppi, non possono servire nemmeno ad eliminare i centri di potere occulti: nessuna legge elettorale può ottenere questo risultato.
Nemmeno la proposta di sorteggio temperato, che pure secondo me è incompatibile con la Costituzione, che viene avanzata come subordinata dagli alfieri dell’anticorrentismo è in grado di ottenere questo risultato, perché i gruppi sono perfettamente in grado di organizzarsi anche rispetto ad un meccanismo del genere.
Perché dopo il sorteggio comunque si dovrà votare e i gruppi organizzeranno la loro raccolta del consenso in direzione di quelli che, fra i sorteggiati, sono più vicini alle loro idee oppure ai loro interessi, ma sempre di idee e interessi parliamo.
Io preferirei, invece, una discussione più laica e meno ideologica sui possibili effetti negativi e positivi di un sistema elettorale, che parta dalla realtà che noi abbiamo.
Ora, quale è il difetto principale della legge vigente?
Che i gruppi si sono organizzati in base alle regole elettorali e hanno selezionato a monte i loro candidati in base alle effettive chances di elezione.
Nel collegio unico nazionale per la Cassazione si eleggono due candidati. E’ chiaro che ogni gruppo ne candida solo uno. E quindi la corsa è sempre stata fra quattro, massimo cinque candidati su due posti. Nei collegi di merito, con il collegio unico nazionale, ogni gruppo ha fatto un conto dei propri voti e ha presentato un numero di candidato corrispondente a quanti eletti pensava di riuscire ad ottenere e poi ha diviso il territorio tra i candidati, attribuendo a ciascuno alcuni distretti. E quindi abbiamo avuto sempre non più di dodici, tredici, massimo quattordici, candidati su dieci posti . E il risultato è sempre dipeso più che dalla volontà degli elettori, dalla capacità dei gruppi di calcolare bene il proprio peso elettorale e di dividere bene i territori.
Lo stesso vale per il collegio dei pubblici ministeri, nel quale i candidati sono stati sempre uno per gruppo, più pochi outsider, che sono scomparsi nell’ultima elezione, che ha destato tanto scandalo solo in chi non si era mai accorto di come ha sempre funzionato quel sistema elettorale.
Ora, dobbiamo domandarci se con questa proposta questi inconvenienti vengono meno.
Per la componente di legittimità il sistema resta identico: due posti in un collegio unico nazionale. Quindi ci sarà ancora solo un candidato per gruppo e dunque massimo 4 o 5 candidati.
Per la componente dei pubblici ministeri cambia poco. Il territorio nazionale viene diviso in due collegi, nei quali saranno eletti i primi due, oltre al miglior terzo tra i due collegi. Anche in questo caso ogni gruppo sarà costretto a presentare solo un candidato in ogni collegio e ci saranno quindi, in ogni collegio, massimo quattro o cinque candidati per due posti.
Per la componente dei giudici di merito, invece, i gruppi dovranno fare una scelta: o puntare all’elezione nella componente maggioritaria e quindi presentare un solo candidato in ogni collegio per cercare di conseguire il primo o il secondo posto.
Oppure rinunciare alla quota maggioritaria e correre solo per i cinque posti che si dovrebbero attribuire con criterio proporzionale su base nazionale, e quindi presentare più candidati possibili in collegamento tra loro.
Quello che probabilmente succederà è che i gruppi maggiori presenteranno un solo candidato in ogni collegio puntando a conseguire il primo o il secondo posto in ogni collegio, i gruppi minori ne presenteranno più di uno, puntando alla quota proporzionale. In questo modo l’elezione sarà probabilmente ulteriormente falsata, perché nei fatti competeranno per la quota maggioritaria al massimo tre candidati su due posti disponibili in ogni collegio.
Aggiungo che un altro dei difetti di questa proposta è quello di non aver fissato un limite massimo di candidature collegabili fra loro, per cui in teoria noi potremmo avere anche 200 candidati, che si collegano fra di loro e che sommano i voti presi da ognuno, con il risultato che potrebbe essere eletto anche un candidato che ha ottenuto poche decine di voti.
E’ inutile domandarsi se con questo sistema si eliminano le correnti, perché nessun sistema è in grado di eliminare i gruppi organizzati. Le domande che dobbiamo porci, invece, sono se questo sistema rafforza o indebolisce il peso degli organismi dirigenti delle correnti, se rafforza o indebolisce il potere di scelta degli elettori, se offre chances di elezione ai candidati indipendenti. Insomma possiamo domandarci, più laicamente, quanto democratico sia il meccanismo elettorale proposto e quanto sia idoneo ad incidere sui difetti del correntismo deteriore.
A me pare che un sistema nel quale qualunque osservatore minimamente informato può prevedere prima del voto chi saranno gli eletti con un margine di errore molto ridotto non risponde a queste esigenze. E non risponde a queste esigenze un sistema nel quale la selezione degli eletti viene fatta a monte dagli organismi dirigenti dei gruppi e agli elettori è offerta una facoltà di scelta molto ridotta.
Il vero tema dei sistemi elettorali è questo: se, e in che misura, il sistema garantisce all’elettore una possibilità scelta, oltre che fra opzioni culturali e idee diverse, anche tra diversi candidati che esprimono, ognuno con le sue peculiarità e caratteristiche, quelle diverse opzioni culturali.
Se in ogni collegio, in quello di legittimità, in quelli dei pubblici ministeri e in quelli dei giudici, i due gruppi maggiori presenteranno un solo candidato, la scelta degli eletti sarà fatta a monte dagli organismi dirigenti dei gruppi, ognuno con i suoi metodi e le sue regole, e l’elettore non avrà possibilità di scelta: sceglierà solo sulla base della sua appartenenza ideale, ma poi dovrà votare il candidato indicato dal suo gruppo, chiunque egli sia. Ed è questo, guardate, il germe avvelenato della legge del 2006: è questo che ha dato strapotere non ai gruppi ma agli apparati di potere all’interno dei gruppi e agli apparati locali, che vengono rafforzati dal carattere locale di questa elezione.
Allora, anticipo i contenuti di un emendamento che abbiamo presentato: quali sono gli antidoti possibili? Come faccio a rendere appetibile per i gruppi la presentazione di più candidati? Perché se io rendo appetibile, conveniente in termini di risultato elettorale, la presentazione di più candidati, aumento il numero dei candidati e aumento le possibilità di scelta degli elettori, riduco il rischio che gli eletti siano diretta promanazione degli organi direttivi dei raggruppamenti e dò qualche possibilità in più all’elettorato di scegliere. In più, aumento le possibilità di essere eletto anche per chi non appartiene a nessun gruppo, perché con questo sistema chi non appartiene a nessun gruppo non ha nessuna possibilità di essere eletto, nessuna.
Questo è il tema: un sistema elettorale non si giudica sul fatto se dà o no potere alle correnti, perché finché è un sistema elettivo le correnti ci saranno. Il punto è chi decide all’interno delle correnti: se decidono gli elettori, che si riconoscono in una certa corrente, o decidono i dirigenti dei gruppi. Con i sistemi maggioritari il gruppo presenta sempre solo un candidato e quindi decide la dirigenza del gruppo. Con un sistema proporzionale ci sono più candidati e decidono gli elettori.
Questo sistema, infine, non garantisce in nessun modo, nemmeno in termini di chances una parità tra generi diversi.
La nostra proposta è quindi di lasciare immutato l’impianto del sistema proposto nel maxiemendamento del Governo, prevedendo però che:
a) tutti i seggi della componente di merito siano assegnati con il sistema proporzionale;
b) in ogni collegio possano collegarsi tra loro non più di quattro candidati;
c) la metà dei candidati collegati deve essere di genere diverso.
In questo modo avremmo come risultato che ogni gruppo tenderà a presentare quattro candidati, due per genere, in ogni collegio. E’ ovvio che risulteranno comunque eletti i candidati che hanno conseguito maggiori voti nel loro collegio, ma gli elettori avranno una maggiore possibilità di scelta tra diversi candidati e saranno le loro scelte e non quelle delle dirigenze dei gruppi a determinare il risultato.
2. Gerarchizzazione degli uffici e carrierismo.
Concentrando tutto il dibattito sulla legge elettorale, si dimentica di affrontare i veri problemi di funzionamento della magistratura.
Queste riforme, quella del Ministro Bonafede, e quella di cui discutiamo oggi sono tutte prive di un’idea, di un ragionamento su cosa è che non funziona.
E dove c’è qualche ragionamento, spesso, secondo me, è sbagliato.
Perché, se c’è un segno, una cifra, di questa riforma è rappresentato da una impostazione produttivistica e gerarchica della organizzazione giudiziaria.
I programmi di gestione diventano uno strumento di controllo della produttività dei magistrati, ai dirigenti si assegna il compito, sanzionato disciplinarmente, di verificare quanto producono i magistrati. Nessuno si preoccupa della qualità della giurisdizione e tutti si preoccupano soltanto di dire quanto è stato “smaltito”, un termine orribile che dà l’idea della considerazione riservata ai diritti delle parti coinvolte nei procedimenti giudiziari.
Questo approccio aumenta la deriva gerarchica del sistema. E la deriva gerarchica è una delle cause del carrierismo. E il carrierismo è una delle cause della degenerazione correntista. E’ la legge della domanda e dell’offerta: il correntismo si alimenta del fatto che ci sono persone che bussano alle porte dei consiglieri.
Allora, perché non ci occupiamo di questo, perché non ci occupiamo della deriva carrierista prodotta dalla legge del 2006?
Per questo noi abbiamo chiesto di inserire nel parere una proposta che preveda una vera temporaneità degli incarichi direttivi, stabilendo che chi assume un incarico direttivo o semidirettivo non può fare nuove domande prima della scadenza degli otto anni di durata dell’incarico. E che alla scadenza degli otto anni, debba svolgere un periodo di funzioni giurisdizionali ordinarie prima di poter presentare nuove domande per incarichi direttivi o semidirettivi.
Oggi, invece, sono molti i titolari di incarichi direttivi e semidirettivi che appena compiuto il primo quadriennio nell’incarico iniziano a fare domande per nuovi incarichi. E questo crea enormi problemi di funzionalità per gli uffici e per il Consiglio.
Questo è uno dei punti fondamentali da affrontare, un nodo di fondo, sul piano culturale, di quel processo di rigenerazione etica di cui tutti parliamo.
3. Informazioni sulle indagini. Gli illeciti disciplinari per i magistrati del pubblico ministero
Devo, infine, fare un accenno ad un tema che è solo sfiorato nella proposta di parere, ma che a mio avviso rappresenta uno delle criticità più rilevanti della riforma.
Mi riferisco alla estensione dell’illecito disciplinare di cui all’art.2 lett.v) del d.l.vo 109 del 2006 a tutte le ipotesi di violazione delle disposizioni in materia di rapporti con la stampa introdotte dalla riforma del 2021 in tema di presunzione di innocenza.
Con questa norma si verrebbe ad attribuire ai titolari dell’azione disciplinare e al giudice disciplinare un penetrante potere di sindacato su scelte di natura discrezionale che dovrebbero essere riservate al Procuratore della Repubblica, con rischi molto gravi sia per le garanzie di indipendenza dei magistrati del pubblico ministero che per il diritto/dovere di informazione sulle vicende giudiziarie.
La estensione dell’illecito anche a qualunque dichiarazione dei magistrati del pubblico ministero su casi giudiziari trattati dall’ufficio, anche se non trattati dal magistrato e anche se già definiti, rappresenta una indebita, e del tutto irrazionale, limitazione del diritto di manifestazione del pensiero dei magistrati, con gravi conseguenze ancora una volta sul diritto di informazione e sulla indipendenza dei magistrati.
* articolo tratto dall'intervento svolto in Plenum, 16 marzo 2022
Presentazione del libro “Romanzo familiare” di Adelaide Amendola, Novecento editore, organizzata dall’Associazione “7 colonne”, Roma, 9 marzo 2022, aula magna dell’Avvocatura dello Stato
Intervento di Pietro Curzio “Dal dolore all’indulgenza”
Che libro è “Romanzo familiare” di Adelaide Amendola?
È un romanzo di formazione. Lo spiega anche l’autrice quando nel finale, rivolgendosi ai figli, scrive: “mi fermo qua dove in un certo senso comincia la mia vita e la vostra storia”.
Quindi si narra del periodo in cui si è formata una donna, che è poi diventata una persona importante, per il ruolo che svolge, ma soprattutto per le sue qualità umane oltre che professionali.
Ed è al tempo stesso, come dichiara il titolo, una storia collettiva, il che non è in contraddizione, perché non si cresce da soli, ma nelle relazioni con gli altri: i genitori, i fratelli, gli amici; nel rapporto con le persone e con gli accadimenti, quelli cercati e quelli subiti; nel rapporto con il dolore.
E questo è anche, con tutta evidenza, un tema del libro: la cognizione del dolore e, per quanto possibile, l’elaborazione del lutto.
Specie ad una certa età si scrive per fare fronte al dolore, per accettarlo, per non soccombere. Per trasformarlo in “indulgenza”, come dice l’autrice facendoci riscoprire una parola bellissima.
Il libro è poi un dialogo con una persona che non c’è più: la madre della protagonista. Anche questo l’autrice lo afferma espressamente a un certo punto, chiedendo al padre di non dispiacersi.
Ed invero, il dottor Emilio Amendola, nell’al di là, non può dispiacersi, perché a lui sono destinate pagine bellissime.
Pagine in cui si disegna, mirabilmente, la figura di un medico autorevole, totalmente dedito al suo lavoro, al quale faceva riferimento tutto il paese e la ancor più vasta comunità dei piccoli centri abbarbicati tra Pompei e Positano.
Ed è lui che inocula nella figlia il rovello di fare il magistrato, orientandola verso una scelta che le permetterà di “incanalare” in una “cornice istituzionale la tensione morale” messa in moto nel sessantotto “da tutto quel gridare”.
Leggiamo nelle prime pagine: “Avevo nove anni e frequentavo la quinta elementare quando un giorno, durante l’ora di ricreazione, me lo trovai davanti nel cortile della scuola. Sventagliava un giornale, gongolante di gioia. Guarda qua: sono le prime donne magistrato. È quello che farai anche tu”.
(Apro una parentesi, per salutare con affetto, una di quelle ragazze, presente stasera tra il pubblico, la Presidente Gabriella Luccioli).
Il seme così gettato germoglia in tanti passaggi della storia, a cominciare dalle visite periodiche di un magistrato amico di famiglia, che esercitava sul padre una vera e propria fascinazione: il presidente Di Girolamo.
“Gran signore, coltissimo, riservato, e anzi schivo”. Parlava lentamente, con pacatezza. “Tra una parola e l’altra del suo discorso si inserivano delle impercettibili pause, un leggerissimo affanno. Quel lento sincopato accresceva il senso di pensierosa sollecitudine che emanava da tutta la sua persona e lasciava intuire il fuoco di una passione civile fortissima, ancorché imbrigliata da un’eleganza spirituale, che costantemente ne censurava troppo evidenti esternazioni”.
Osservando quel magistrato l’autrice delinea una figura ideale. Questo è il giudice per lei. Questo dovrebbe essere il giudice per tutti noi, così lontano da alcune interpretazioni del ruolo che la realtà ci pone dinanzi lasciandoci sgomenti.
Peraltro, la ragazzina era “catturata” ancor più dalla moglie del Presidente, la signora Amalia, una donna colta ed emancipata alla quale sono dedicate alcune pagine splendide, che è impossibile sintetizzare ed impongono il rinvio ad una lettura diretta.
Rimane il fatto che le parti più importanti del libro sono quelle dedicate alla madre, epicentro del romanzo familiare, ed infatti definita “la regolatrice delle dinamiche familiari”, concetto che viene declinato in vari modi nel corso della narrazione.
Ne cito solo uno, che trovo tra i più significativi. Parlando dei rapporti con zio Armando, militare, sicuro di sé, sportivo, tombeur de femmes, la scrittrice annota che la mamma aveva con lui un’intesa dolce e forte, anche perché era “abituata, da par sua, a dargli ragione su tutto, salvo poi insinuare soavemente un’osservazione dirimente, che costringeva il cognato a riflettere e talvolta anche a ricredersi silenziosamente”.
Una frase che, oltre a descrivere alla perfezione la caratura della donna e il suo modo di porsi, ha il ritmo di una poesia.
Ineluttabilmente la madre è protagonista delle parti più dolorose del libro. Sono tante, a cominciare dalla prima, struggente, in forma di dedica, sino all’ “urlo agghiacciante” con il quale la donna apprende della perdita della figlia Clementina, in un capitolo che solo in questa seconda versione l’autrice ha trovato la forza di scrivere.
Poi rimane il dolore che segna per sempre il volto della donna: la sua “smorfia corrucciata e quello strano gonfiore del viso, intorno agli occhi diventati acquosi, che le veniva quando l’angoscia, fattasi insopportabile, montava da dentro alla superficie”.
La storia del rapporto tra la scrittrice e la madre è un libro nel libro: descrive una relazione non facile, neanche dopo tanta sofferenza in comune, raccontata senza sconti, andando giù duro con la penna che diventa un bisturi per incidere su ferite profonde, che forse solo la scrittura ha aiutato a guarire.
Se questo è il cuore del romanzo, nel libro c’è molto altro: una miriade di personaggi, storie, atmosfere, momenti, anche lievi, a volte spassosi.
Spesso si sorride leggendo. Il sorriso, a pensarci bene, è l’espressione dell’indulgenza.
Il tutto è affidato ad una capacità narrativa di gran classe che ha dietro di sé letture probabilmente sconfinate.
Alcuni riferimenti sono chiari: forte e dichiarato è l’amore per “I promessi sposi”; la Recherche di Proust riemerge in tante descrizioni, così come vi è un richiamo preciso al Thomas Mann dei Buddenbrook. Ancor più esplicito il riferimento ad Alyosha, il più giovane dei Karamazov, nel parlare del “candore naturale ed invincibile” del fratello Giovanni. E riecheggiano le considerazioni di Italo Svevo sulla scrittura come terapia.
Molti altri riferimenti rimangono invece sommersi. Non li cogliamo, ma li sentiamo in una narrazione di grande raffinatezza e spessore.
Fra le tante risposte che si possono dare alla domanda su cosa è questo libro, ve ne è poi un’ultima: è un regalo che Adelaide ci ha fatto, permettendoci di riflettere su noi stessi, mentre ascoltiamo la sua storia, che è un po’ anche la nostra storia.
Algoritmi e intelligenza artificiale alla ricerca di una definizione: l’esegesi del Consiglio di Stato, alla luce dell’AI Act
di Federica Paolucci*
Sommario: 1. Introduzione - 2. La valutazione del giudicante - 3. Attualità della decisione: uno sguardo al dibattito Europeo - 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Il Consiglio di Stato ha emesso in data 25 novembre 2021 una sentenza che si appunta sulla valutazione dell’offerta tecnica in una gara di appalto avente ad oggetto la fornitura di pacemaker[1]. A seguito dell’impugnazione della sentenza del TAR della Lombardia, i giudici di Palazzo Spada hanno dapprima accolto la richiesta cautelare di sospensione della sentenza de qua, ritenendo meritevole di approfondimento in sede di merito la questione della «perimetrazione tecnica della nozione di “algoritmo di trattamento” riferita ad un peacemaker di alta fascia»[2]. Tale aspetto è divenuto il thema decidendum del giudizio di merito. Ivi, in particolare, ha assunto un ruolo centrale l’interpretazione del concetto di “algoritmo automatico” e la distinzione tra algoritmo e intelligenza artificiale. La decisione del Consiglio di Stato riflette su un problema che da anni interroga tecnici, filosofi e giuristi, e, nel farlo, fornisce un’interessante distinzione dei due concetti. Sebbene tale classificazione possa apparire di mero carattere tecnico, in realtà, come si tenterà di motivare nel presente contributo, è di centrale rilevanza. La digitalizzazione cui, difatti, si sta assistendo negli ultimi anni ha visto un crescendo nell’utilizzo e nell’applicazione di strumenti automatizzati nella vita di tutti i giorni[3]. Pertanto, sia da un punto di vista giuridico sia da un punto di vista di mercato, è cruciale porre l’attenzione su cosa rientri o meno nella categoria di “mero” algoritmo, e cosa, invece, ricada all’interno dell’ombrello dell’intelligenza artificiale. Come si vedrà di seguito, si tratta di un quesito sul quale si stanno interrogando anche le istituzioni europee alla luce della proposta di Regolamento sull’Intelligenza Artificiale, attualmente in fase di discussione[4]. Pertanto, alla luce di queste premesse, ripercorrendo le considerazioni in fatto e in diritto della sentenza n. 7891/2021 del Consiglio di Stato, si cercherà di rileggere queste risultanze nel più ampio quadro della rivoluzione digitale che da tempo sta svelando tutta la complessità tecnica e sociale di uno scenario in cui il diritto a fatica si sta ricavando uno spazio.
2. Le valutazioni del giudicante
La decisione del Consiglio di Stato è figlia della c.d. “società algoritmica”, o anche nota come datacrazia, termine con cui Danaher [5] intende «un sistema in cui gli algoritmi sono utilizzati per raccogliere, collezionare e organizzare i dati su cui vengono tipicamente prese le decisioni e per assistere nel modo in cui quei dati vengono elaborati e comunicati attraverso il relativo sistema di governance». Con questi termini, si intendono una serie di considerazioni in punto di diritto che hanno delle ripercussioni sia sul mondo degli atomi sia sul mondo dei bits[6]. In particolare, la sentenza in commento mostra come vi siano ancora delle insistenti crasi nel momento in cui il mondo delle macchine e quello del diritto si incontrano, provocando l’emersione di quesiti circa la natura talvolta opaca e di difficile comprensione delle prime a scapito della necessità di certezza del secondo.
Con questi intenti, il Consiglio di Stato cerca di far chiarezza tra algoritmo e intelligenza artificiale: una distinzione da cui discende nel caso di specie, l’aggiudicazione o meno dell’appalto. Come si anticipava, i fatti di causa riguardano l’esatta perimetrazione della nozione di “algoritmo di trattamento” nell’ambito e nel contesto di una procedura nazionale di gara per la fornitura di pacemaker di alta fascia[7]. La gara d’appalto aveva previsto tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica, il parametro di algoritmo. In particolare, tale algoritmo doveva essere in grado di effettuare «attività di prevenzione e attività di trattamento delle tachiaritmie atriali»[8]. Dunque, la richiesta della domanda di gare era ben definita: si sarebbero assegnati 15 punti unicamente nel caso di presenza nello strumento proposto di entrambi gli algoritmi; mentre, sarebbero stati assegnati 7 punti nel caso di presenza di solo uno dei due tipi di attività.
Il giudizio del Consiglio di Stato si apre, dunque, con una ricognizione sull’interpretazione delle clausole della lex gara, intesa come una lex specialis[9], alla luce di una giurisprudenza oramai consolidata. L’interpretazione che si deve dare delle clausole in oggetto, anche da una lettura dell’art. 1362 c.c., deve preferire l’aderenza al tenore letterale delle stesse. Tale criterio è del tutto compatibile con il diritto amministrativo, attesa la natura degli atti che disciplinano le gare in quanto espressione della volontà della Pubblica Amministrazione, come anche chiarito dal Consiglio di Stato in precedenti pronunce[10].
Fatte queste considerazioni, i giudici si sono poi soffermati sull’interpretazione della clausola controversa. Difatti, sebbene il bando specificasse solamente la richiesta di dispositivi di “alta fascia”, la Commissione aveva attribuito il punteggio massimo riconoscendo la presenza sia del criterio della prevenzione sia del criterio del trattamento solo nel caso di “algoritmi automatici”[11]. Tale aspetto diveniva dapprima oggetto del ricorso dinanzi al Tar della Lombardia, i cui giudici davano ampio rilievo a una definizione di algoritmo distinta dal concetto di automatismo. Il giudice di prima cure basava il proprio giudizio su una definizione di algoritmo ancorata al concetto di «insieme di passaggi»[12], nel caso di specie, stimoli creati dal pacemaker. L’analisi prospettata dal giudice esclude, dunque, pressoché totalmente, che l’algoritmo possa avere alcuna capacità di automazione, ove si afferma che, qualora fosse questo il caso, atterrebbe a un plus, di fatto non richiesto dalla lex gara.
Entrambi gli organi giudicanti aderiscono a una definizione di algoritmo come una sequenza definita di azioni. Ed è questo effettivamente il caso, in quanto un algoritmo “basico” può essere definito come un viaggio tra un input definito e un output definito, riproducendo capacità di calcolo dietro un processo decisionale basato su una formula matematica[13]. In altre, parole, il misteriosissimo algoritmo non è altro che un set di istruzioni, piuttosto rigido, che entra in funzione quando incontra un innesco.
Il Consiglio di Stato, sulla base di queste premesse, pur abbracciando la definizione prospettata in prima battuta dal Tar, se ne discosta, osservando che tale «nozione, quando è applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione ossia a sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano»[14]. Nell’ottica proposta dai giudici di Palazzo Spada, la nozione tradizionale di algoritmo assume una nuova luce all’interno dell’evoluzione tecnica, assurgendo al compito di agevolatore dell’analisi umana, capace di processare con accuratezza sistemi complessi, anche tramite impulsi automatizzati.
Ad ogni buon conto, tutt’altra cosa è l’intelligenza artificiale, ove i meccanismi di machine learning creano un sistema che non si limita ad applicare e replicare serie di comandi o impulsi. Difatti, nella lettura del Consiglio di Stato, l’intelligenza artificiale va oltre la mera riproduzione di un compito delegato dall’essere umano, essendo capace, sulla base delle regole definite dal proprio programmatore, di elaborare in modo autonomo criteri di inferenza tra i dati forniti, secondo procedimenti di apprendimento sia assistititi – è il caso del supervised machine learning – sia autonomi – ed è il caso del unsupervised machine learning[15].
Dalla precisazione del Consiglio di Stato consegue, nel caso di specie, che per ottenere la fornitura di un dispositivo con elevato grado di automazione, non occorreva che l’amministrazione facesse espresso riferimento a elementi di intelligenza artificiale, essendo del tutto sufficiente il richiamo al concetto di algoritmo fatto nel bando. Difatti, come si è detto, la lex gara si era espressa nel senso di preferire strumenti che fossero in grado di riprodurre un risultato sia di prevenzione sia di trattamento del problema, contenendo già in nuce necessità ulteriori che esulano dal concetto “basico” di algoritmo. Il fatto stesso, quindi, che fosse richiesta a tale strumento una prestazione di “alta fascia” per il trattamento della patologia implicitamente rimandava al preferire pacemakers dotati di parametri programmabili e progettati «per ottimizzare la terapia di stimolazione in rapporto alle caratteristiche specifiche del paziente»[16]. Seppur sia vero che l’interpretazione delle clausole della legge di gara soggiace alle regole di interpretazione dei contratti[17], il Consiglio di Stato ha in conclusione valorizzato maggiormente le preferenze e le esigenze dell’amministrazione appaltante rispetto alle caratteristiche funzionali e tecniche del bene da reperire sul mercato. Al contrario, la stretta interpretazione letterale del Tar avrebbe escluso dalla gara degli strumenti altamente avanzati, penalizzandoli rispetto a quelli programmati sulla base di algoritmi non automatici[18].
In altre parole, il Consiglio di Stato ha ivi individuato una definizione di algoritmo “moderno”, cui, pur essendo sempre una sequenza di azioni guidate da una formula matematica, sono richieste prestazioni sempre più avanzate. Peraltro, l’automatizzazione del procedimento sembra essere una condicio sine qua non negli strumenti maggiormente performanti e, dunque, da preferirsi per ottenere risultati maggiori. Sebbene tale definizione ponga l’accento sull’evoluzione che anche il concetto stesso di algoritmo ha subito alla luce dei recenti sistemi tecnologici, capaci di ridurre l’intervento umano[19], essa crea una zona di ombra rispetto a cosa debba considerarsi intelligenza artificiale.
Quest’ultima è, difatti, un concetto ad ombrello nel quale si fanno ricadere diversi utilizzi di macchine e sistemi automatizzati decisionali, i quali, per mezzo della raccolta di grandi quantità di dati, producono un output, un risultato, che va a sostituire, ovvero affiancare l’intelligenza umana. Come si evince, il carattere dell’automatizzazione è ben presente tanto nella definizione di algoritmo “moderno”, e, appunto, automatico, di cui all’interpretazione del Consiglio di Stato, quanto nella definizione in re ipsa di intelligenza artificiale[20]. Pertanto, diviene quanto mai necessario distinguere, non solo teoricamente, ma anche nella pratica, cosa debba rientrare all’interno del grande insieme dell’intelligenza artificiale. Una categoria che, come si vedrà di seguito, è oggetto di un ampio processo di regolamentazione e investimento[21], per cui la distinzione ivi in esame su cosa sia automatico e cosa non lo sia potrebbe generare una serie di obblighi per gli operatori di mercato. L’aspetto definitorio, come si è visto, non è per nulla banale. È un punto cruciale alla luce degli obblighi che la proposta europea pone in capo ai programmatori per non generare, da un lato, un “over burden” a carico di quelle tecnologie che, seppur automatizzate, non rientrano nel cappello dell’IA, dall’altro, al contrario, per non escludere dalla regolamentazione sistemi di IA solo all’apparenza meno pericolosi, ma di fatto parimenti invasivi nei confronti dei diritti fondamentali degli individui.
3. Attualità della decisione: uno sguardo alla proposta della Commissione Europea
Come si anticipava, tale sentenza si inserisce all’interno di un dibattito alimentato dal crescente impiego dei sistemi di intelligenza artificiale. Questo, a sua volta, sta spingendo verso un cambiamento di paradigma non solo tecnologico ma anche economico e sociale quale risultato di quello che è stato definito information capitalism[22], o surveillance capitalism[23]. Talune attività come la raccomandazione automatizzata di prodotti da parte di Amazon, i suggerimenti di potenziali contatti da Facebook o Twitter, o, ancora, la segnalazione di uno smartwatch della necessità di idratarsi piuttosto che riposare, definiscono soltanto alcuni esempi in cui i sistemi di intelligenza artificiale trovano applicazione. Ciò che accomuna questi esempi consiste proprio nella versatilità applicativa di siffatte tecnologie: dal cambiamento climatico, all’assistenza medica, passando per trasporti e produzione agricola. Non sorprende quindi se la proliferazione di tecnologie di decisione automatizzata solleva interrogativi non solo dal punto di vista etico e tecnico, ma anche giuridico.
Il rispetto da parte della tecnologia di principi fondamentali quali uguaglianza e non discriminazione – menzionando solo alcuni di quelli che sono maggiormente messi in crisi dai procedimenti decisionali algoritmici – non può avvenire nell’attesa di un automatico adeguamento unilaterale da parte di coloro che programmano suddetti strumenti[24]. A contrario, la tecnologia richiede ai regolatori di sfidare lo status quo plasmando interventi normativi che tengano conto delle sfide poste ed imposte dai nuovi mezzi automatici[25]. La necessità di attaccare il tradizionale apparato di regole è data dall’elevato rischio che gli spazi lasciati vuoti dall’obsolescenza normativa vengano riempiti da altri attori, i quali, in forza di tale potere, sono in grado di fornire standard di tutela privati non vincolati al rispetto dei principi costituzionali. Per affrontare tali sfide, l’Unione ha adottato un Regolamento che mira a fornire un quadro armonizzato e dedicato all’intelligenza artificiale. Nel tentativo di agire tempestivamente e nella consapevolezza che «l’IA non è un altro strumento che ha bisogno di essere regolato una volta che sarà maturo»[26], il Regolamento avrà come inquadramento soggettivo[27]: (a) fornitori che immettono sul mercato o mettono in servizio sistemi di IA nell’Unione, indipendentemente dal fatto che tali fornitori siano stabiliti nell’Unione o in un paese terzo; (b) utenti di sistemi di IA situati nell’Unione; (c) fornitori e utenti di sistemi di IA che si trovano in un paese terzo, se l’output prodotto dal sistema è utilizzato nell’Unione. È quindi plausibile ipotizzare che queste norme avranno implicazioni di vasta portata per le principali aziende tecnologiche, tra cui Amazon, Google, Facebook e Microsoft, che hanno riversato enormi risorse nello sviluppo dell'intelligenza artificiale, producendo quei riverberi, cui si accennava precedentemente e che verranno approfonditi in seguito, sul piano globale. Nel far ciò, la Commissione ha delineato un nuovo sistema di governance che ha come obiettivo la costruzione di un quadro giuridico basato sull’istituzione di un approccio europeo in materia di intelligenza artificiale che soddisfi un elevato livello di protezione dei diritti. Alla luce di queste considerazioni, risulta chiaro come la proposta di Regolamento assuma un valore centrale nel disegnare un quadro di intervento dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri, nell’ottica di affermare i propri valori e principi su un mercato in espansione tramite la promozione di trasparenza e fiducia.
Tuttavia, moltissimi sono ancora gli aspetti critici della proposta. Uno di questi, come si anticipava, è la stessa definizione di IA che la Commissione ha deciso di adottare e che sta già facendo discutere alcuni commentatori[28]. Difatti, come si può apprezzare, in apertura al testo normativo e ai fini del Regolamento, per “sistema di intelligenza artificiale” si intende «un software sviluppato con una o più delle tecniche e degli approcci elencati nell’allegato[29] alla proposta, per una determinata serie di obiettivi definiti dall’uomo di generare output quali contenuti, previsioni, raccomandazioni o decisioni»[30].
Sebbene non sia lo scopo di questo contributo fornire un’estensiva visuale su cosa significhi intelligenza artificiale, senza pretesa di esaustività, si tenterà di proporre una ricognizione sulla criticità della definizione proposta dalla Commissione Europea, anche alla luce della sentenza del Consiglio di Stato[31]. Sfortunatamente per il legislatore, non sembra esserci ancora una definizione ampiamente accettata di intelligenza artificiale anche tra gli esperti del settore, tanto meno una definizione operativa utile ai fini della regolamentazione. Peraltro, i problemi di definizione giacciono proprio nell’ambiguità concettuale del concetto di intelligenza[32]. Allo stato dell’arte, gli approcci più ampiamente utilizzati per definire l’IA si concentrano sulla nozione di «macchine che lavorano per raggiungere obiettivi»[33].
Tale approccio non aiuta da un punto di vista normativo. Come è stato messo in evidenza anche dalla sentenza in esame, non è sempre agevole distinguere gli obiettivi raggiunti dallo strumento, tanto più se vogliamo contraddistinguere l’algoritmo “moderno” e l’IA. Peraltro, non avendo la macchina una coscienza né tantomeno può essere espressione di un’intenzione, è difficile definire lo scopo perseguito dalla medesima in un modo che eviti i requisiti relativi all’autocoscienza e, pertanto, non è chiaro come si possa addivenire a una solida definizione dell’IA per scopi normativi attraverso la lente degli obiettivi[34].
Eppure, come si evince dalla lettera dell’articolo 3 della proposta, questo è stato l’approccio per ora perseguito della Commissione Europea. Le critiche a questa definizione non sono mancate sia dalla società civile, dalle associazioni dei consumatori e dal Consiglio europeo. In particolare, quest’ultimo nel testo compromesso, ha adottato una diversa e più restrittiva prospettiva[35]. Secondo questa definizione, il sistema deve essere in grado di «apprendere, ragionare o modellare implementato con le tecniche e gli approcci», elencati in un allegato, e che sia anche un “sistema generativo”, capace di influenzare direttamente il suo ambiente[36]. Come chiariscono alcuni critici[37], questa definizione “di compromesso”, focalizzandosi esclusivamente sui modelli generativi, un sottogruppo dei sistemi ad apprendimento automatico, renderebbe troppo facile argomentare l’esclusione di un sistema dagli obblighi posti dal Regolamento, e quindi dalla supervisione e protezione che esso intende garantire sul mercato e sui diritti fondamentali degli individui.
In altre parole, la definizione di algoritmo “moderno” automatizzato fornita dal Consiglio di Stato, alla luce della nuova formulazione europea, si applicherebbe anche a strumenti sofisticati di analisi che, non rientrando nel concetto di IA, verrebbero classificati come “algoritmi non tradizionali”, frammentando ulteriormente la programmazione e l’applicazione di tali tecnologie, in particolare ove si prevede la discrezionalità degli Stati Membri[38].
In conclusione, la proposta di Regolamento, da un lato, e la sentenza del Consiglio di Stato, dall’altro, sono testimoni di una problematica che, in un’ottica di certezza giuridica, occorre risolvere nel breve futuro, vista l’inesorabile diffusione di tali tecnologie nel mercato dell’Unione. La proposta di Regolamento sembra fornire un valore aggiunto nel panorama internazionale servendo come strumento per regolare, e non ostracizzare, una tecnologia come l’IA i cui benefici sono molteplici[39]. Pertanto, si auspica che tale processo di innovazione tenga in adeguata considerazione sia i rischi d’investimento, sia i rischi per i diritti fondamentali. Un processo di definizione dell’IA e della sua regolazione che ci si augura sia completato da una rete di collaborazione con gli Stati Membri.
4. Conclusioni
L’uso delle tecnologie algoritmiche sta portando con sé una varietà di nuove sfide alla protezione dei diritti fondamentali delle persone di fronte ad attori sia privati che pubblici. Infatti, sebbene spesso si guardi al rischio di applicazione dell’intelligenza artificiale da parte dei primi a scapito dei secondi, l’efficienza dei processi decisionali automatizzati e il valore che se ne può estrarre non sono appannaggio esclusivo del settore privato, poiché anche il pubblico sta facendo un ampio uso di strumenti tecnologici automatizzati per giungere a decisioni rapide e certe con riguardo alle questioni pubbliche. Da un lato, dunque, la sentenza del Consiglio di Stato n. 7891/2021 ha messo in luce come sia ancora un’operazione complessa definire un netto confine tra algoritmo e intelligenza artificiale; dall’altro, sembra riecheggiare quel fervente dibattito che sta impegnando le istituzioni europee. Tra una definizione estensiva e una restrittiva, occorre individuare un punto di compromesso che a sua volta non comprometta la protezione dei diritti fondamentali degli individui e non sacrifichi l’armonizzazione a vantaggio dell’autonomia degli Stati. Come ricordava il compianto Presidente Sassoli «la nostra sfida è questa: in che misura consentiamo a queste tecnologie di svilupparsi e condizionare la nostra vita. Senza regolamentazione l’intelligenza artificiale può essere un rischio che può compromettere non solo la protezione dei dati personali, ma anche accrescere il divario digitale in termini di accesso e conoscenza. Un sistema di intelligenza artificiale affidabile non deve pregiudicare i diritti fondamentali e per questo è necessario creare valutazioni di impatto preventive, promuovendo un approccio incentrato sull’uomo, l’unico che può governare consapevolmente le azioni e le decisioni prese da un sistema artificiale»[40].
*Dottoranda in European and International Law, Università Commerciale “L. Bocconi”.
[1] Sentenza Consiglio di Stato, Sez. III, n. 7891, 25 novembre 2021.
[2] Si veda punto 9 della parte “in fatto” della sentenza.
[3] Sul tema, la letteratura è vastissima. Con riguardo all’incidenza di algoritmi e la creazione di uno spazio dove sfide passate e presenti si intrecciano – aspetto che si crede essere il focus della sentenza in commento – occorre sicuramente menzionare ex multis L. Floridi, La quarta rivoluzione: come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, 2017; P. Domingos, The master of Algorithm. How the quest for the ultimate learning machine will remake our world, Londra, 2017.
[4] Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council laying down harmonised rules on artificial intelligence (artificial intelligence act) and amending certain Union legislative acts, Brussels, 21 aprile 2021 COM (2021).
[5] Citazione tratta da J. Danaher, ‘The Threat of Algocracy: Reality, Resistance and Accommodation’, in Philosophy & Technology, 2016, 3, 29, pp. 245-68.
[6] Numerose sono le sentenze che recentemente hanno visto i giudici nazionali appuntarsi su questioni relative all’uso di algoritmi e la loro interazione con la società, soprattutto, ma non esclusivamente, in compatibilità con la disciplina a protezione dei dati personali. Si veda a tal proposito il commento di O. Pollicino e M. Bassini, ‘La Cassazione sul “consenso algoritmico”. Ancora un tassello nella costruzione di uno statuto giuridico composito’, in Giustizia Insieme, 21 giugno 2021.
[7] Si veda, in particolare, pagg. 4-5 della Sentenza.
[8] Ibidem.
[9] La clausola ivi applicata è la c.d. “lex gara”, ossia, come definito dal Consiglio di Stato al punto 8.1 della sentenza in commento, «un criterio di attribuzione del punteggio tecnico che costituisce chiara espressione delle preferenze dell’amministrazione rispetto alle caratteristiche funzionali e tecniche del bene da reperire sul mercato». Sul punto, i Giudici di Palazzo Spada si erano già soffermati in passato, e, in particolare, avevano chiarito come «il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto abbiano ciascuno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione nell’economia della procedura, il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando, tutti insieme costituiscono la lex specialis della gara» (sul punto, si veda Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 03 marzo 2021, n. 1813).
[10] Oltre al precedente già citato, si fa ivi riferimento a Cons. Stato, Sez. V, 13 gennaio 2014 n. 72 e Cons. di Stato, Sez. V, 12 settembre 2017, n. 4307).
[11] Si veda punto 2 della Sentenza: «la commissione come algoritmo di trattamento automatico per X. ha considerato l’accelerazione su PAC frequenti che consente in maniera automatica di contrastare il ritmo prefibrillatorio costituito dal riconoscimento di frequenti ectopie atriale e trattato mediante riduzione/omogeneizzazione del periodo refrattari atriali. L’algoritmo denominato NIPS (Noninvasive program stimulation) e presente nel prodotto offerto da Y costituisce invece uno studio elettrofisiologico eseguito in office da un operatore specialistico».
[12] L’intera definizione di algoritmo elaborata dal Tar è la seguente: «l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento)».
[13] Come evidenzia la letteratura, questo è il processo di “viaggio” di un algoritmo, sia nella sua versione “basica”, sia nella sua versione “complessa”. Nel secondo caso, ovviamente, la complessità è data dalle operazioni di calcolo. Sul punto, si fa riferimento all’analisi di Anthony Elliott, Making Sense of AI: Our Algorithmic World, New York, 2021. Si veda anche A. R. Lodder, ‘Algorithms: what, how, and particularly why?’, in LSE Law Policy Briefing 34, Maggio 2019.
[14] Si veda punto 9.1 della sentenza.
[15] Il sistema di apprendimento utilizza «the training set to build an algorithmic model: a neural network, a decision tree, a set of rules, etc. The algorithmic model is meant to capture the relevant knowledge originally embedded in the training set, namely the correlations between cases and responses. This model is then used, by a predicting algorithm, to provide hopefully correct responses to new cases, by mimicking the correlations in the training set». Dallo studio condotto per il Parlamento Europeo da G. Sartor e altri, ‘The impact of the General Data Protection Regulation (GDPR) on artificial intelligence’, 2020.
[16] Si veda punto 9.2 della sentenza.
[17] Si richiamano le note n. 9 e 10 supra.
[18] In vero, come osserva il Consiglio di Stato, tali funzionalità non sarebbero presenti nel prodotto offerto dalla seconda classificata, seppur non vi sia dubbio che anche il suo funzionamento si basi su un algoritmo.
[19] In tal senso, si richiama l’analisi del filosofo Remo Bodei in Dominio e Sottomissione, Bologna, 2019.
[20] Nella notissima Conferenza di Dartmouth del 1955, John McCarthy, informatico statunitense, coniò l’espressione “Intelligenza Artificiale” e l’ha identificata attraverso quei requisiti speciali che la rendono tale, inserendovi segnatamente l’automatizzazione: «if a machine can do a job, then an automatic calculator can be programmed to simulate the machine. The speeds and memory capacities of present computers may be insufficient to simulate many of the higher functions of the human brain, but the major obstacle is not lack of machine capacity, but our inability to write programs taking full advantage of what we have». Si veda J. McCarthy, M. L. Minsky, N. Rochester, & C. E. Shannon, A Proposal for the Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence, in AI Magazine, 27(4), 12, 2006.
[21] Basti pensare in ambito nazionale alla recentissima adozione del Programma Strategico per l’Intelligenza Artificiale (IA) 2022-2024. Nel solco della Strategia Europea per la regolazione dell’Intelligenza Artificiale, l’Italia ha unito le sinergie del Ministero dell’Università e della Ricerca, del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, e, con il supporto del gruppo di lavoro sulla Strategia Nazionale per l’Intelligenza Artificiale, ha stilato un programma che delinea ventiquattro politiche da implementare nei prossimi tre anni per potenziare il sistema IA in Italia. In particolare, nel campo della sanità, le applicazioni di intelligenza artificiale stimolano l'innovazione di prodotti e processi scambiando e aggregando informazioni attualmente disperse in una moltitudine di database pubblici e ampiamente sottoutilizzati.
[22] Espressione utilizzata da J. Cohen in Between Truth and Power. The Legal Constructions of Informational Capitalism, New York, 2019.
[23] Si veda, sul punto, lo studio di S. Zuboff, in The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Cambridge MA, 2019.
[24] Nel merito, l’analisi di S. Wachter, B. Mittelstadt, C. Russell, in ‘Why fairness cannot be automated: Bridging the gap between EU non-discrimination law and AI’, in Computer Law & Security Review, 2020.
[25] Sul punto, S. Ranchordas, ‘Experimental Regulations for AI: Sandboxes for Morals and Mores’, in University of Groningen Faculty of Law Research Paper, 2021 (1).
[26] Citazione tratta da L. Floridi, et al., ‘AI4People—An Ethical Framework for a Good AI Society: Opportunities, Risks, Principles, and Recommendations’, in Minds and Machines, 28, 2018, pagg. 689-707.
[27] Si veda l’art. 2 della proposta.
[28] Sul punto accenna L. Floridi in ‘The European Legislation on AI: a Brief Analysis of its Philosophical Approach’, Philosophy & Technology, 2021 (34), 215–222.
[29] Il riferimento è all’allegato I alla proposta, ‘Annex I to the Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council laying down harmonised rules on artificial intelligence (Artificial Intelligence Act) and amending certain union legislative acts’, Bruxells, 2021.
[30] Si veda l’art. 3, par. 1 lett. a) della proposta che introduce la definizione in esame di IA.
[31] Come si è visto, al punto 9.2 della sentenza i giudici di Palazzo Spada hanno distinto il concetto di algoritmo tradizionale da quello di intelligenza artificiale, definendo quest’ultimo un software le cui abilità esulano «i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico».
[32] A tal proposito, sul rapporto tra uomo, macchina e Dio si rimanda alle riflessioni di L. Floridi e F. Cabitza in Intelligenza artificiale: L'uso delle nuove macchine, Milano, 2021.
[33] Si faccia riferimento alla ricostruzione di S. J. Russel and P. Norvig, Artificial Intelligence: A Modern Approach, London, 2013. Ivi, gli autori utlizzano il concetto di agente razionale come ciò che agisce in modo da raggiungere il miglior risultato o, il miglior risultato atteso.
[34] Nel merito, si veda M. U. Scherer, ‘Regulating artificial intelligence systems: Risks, challenges, competencies, and strategies’, in Harv. JL & Tech. 29 (2016), pag. 353 e ss.
[35] ‘Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council laying down harmonised rules on artificial intelligence (Artificial Intelligence Act) and amending certain Union legislative acts - Presidency compromise text’, 2021/0106(COD), 29 novembre 2021.
[36] Come evidenziano A. Chiarini e F. Giordanelli in ‘Il Regolamento sull’Intelligenza artificiale: “essere o non essere” intelligenza artificiale’, MediaLaws, 2022, «secondo la nuova definizione un sistema di intelligenza artificiale è un sistema che: (i) riceve dati e input provenienti da dispositivi e/o dall’uomo; (ii) deduce come raggiungere una serie di obiettivi definiti dall’uomo utilizzando l’apprendimento, il ragionamento o la modellizzazione attuati con le tecniche e gli approcci elencati nell’allegato I, e (iii) genera dei risultati sotto forma di contenuti (sistemi di IA generativa), previsioni, raccomandazioni o decisioni, che influenzano gli ambienti con cui interagisce».
[37] J.J. Bryson, 'Europe Is in Danger of Using the Wrong Definition of AI', Wired, consultato il 4 marzo 2022, https://www.wired.com/story/artificial-intelligence-regulation-european-union/.
[38] Si veda a tal proposito G. Finocchiaro, O. Pollicino, L. Floridi in ‘Sull’intelligenza artificiale Ue indecisa tra armonizzazione e margini di libertà eccessivi’, Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2022.
[39] Come, del resto, si richiama anche nel Cons. 2 della Proposta di Regolamento.
[40] David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, Discorso tenuto in occasione del workshop “The Good algorithm? Artificial Intelligence, Law, Ethics”.
La giustizia penale di fronte alla guerra
di Ezechia Paolo Reale
Sommario: 1. Introduzione - 2. La competenza della Corte Penale Internazionale, in generale - 3. La competenza della Corte Penale Internazionale, la situazione in Ucraina - 4. Il ruolo delle giurisdizioni nazionali - 5. La natura complementare della giurisdizione della Corte Penale Internazionale rispetto alle giurisdizioni nazionali - 6. Conclusioni.
1. Introduzione
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia pone profondi problemi etici, sociali, economici e diplomatici ma ha anche uno specifico aspetto che in questi giorni di grande preoccupazione è stato poco approfondito.
Esiste, oltre la responsabilità dello Stato aggressore di fronte alla comunità internazionale degli altri Stati anche una responsabilità penale personale degli autori dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del crimine di genocidio ?
La risposta è, sotto più profili, positiva e la capacità deterrente della sanzione penale a carico dei singoli responsabili di tali crimini internazionali non dovrebbe essere sottovalutata nello strumentario politico e diplomatico della gestione del conflitto.
2. La competenza della Corte Penale Internazionale, in generale
In generale, i soggetti responsabili dei crimini internazionali sopra menzionati possono essere chiamati a rispondere delle loro azioni avanti la Corte Penale Internazionale, organo giudiziario indipendente, complementare alle giurisdizioni nazionali, istituito con un trattato internazionale, noto come Statuto di Roma, entrato in vigore il 1/7/2002.
La giurisdizione della Corte Penale Internazionale, oltre che su impulso diretto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, può, però, ordinariamente essere esercitata solo se il responsabile del crimine o il territorio nel quale tale crimine è stato commesso appartiene a uno Stato Parte dello Statuto di Roma, ad uno Stato cioè che attraverso la ratifica o l’adesione al trattato internazionale istitutivo della Corte faccia parte di quel sistema convenzionale, ovvero a uno Stato che, pur non avendo ratificato lo Statuto di Roma, abbia dichiarato di accettare la giurisdizione della Corte su alcuni specifici crimini. Per il solo crimine di aggressione vige una regola diversa e più rigida dato che la Corte può esercitare la sua giurisdizione su tale crimine solo quando siano Stati Parte dello Statuto sia lo Stato del quale l’autore del crimine ha la nazionalità, sia lo Stato nel quale il crimine è stato commesso e solo per gli eventi successivi al 17/7/2018, data di entrata in vigore dell’emendamento allo Statuto, adottato a Kampala, che ha definito nel dettaglio i contorni del “crimine supremo contro la pace” e ha delineato le condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte nei confronti degli autori delle condotte incriminate, emendamento che l’Italia ha ratificato il 10/11/2021, depositando poi il 26/1/2022 il relativo strumento di ratifica.
3. La competenza della Corte Penale Internazionale, la situazione in Ucraina
Detto questo in linea generale, con particolare riferimento all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia va evidenziato che né lo Stato invaso né lo Stato invasore hanno mai ratificato lo Statuto di Roma.
Ne deriva, con certezza, l’impossibilità che i responsabili del crimine di aggressione possano essere tratti a giudizio avanti la Corte Penale Internazionale.
Per quanto riguarda, invece, i crimini di guerra, che riguardano le modalità illecite di conduzione delle operazioni belliche, ad esempio l’attacco a civili non armati o il bombardamento di ospedali, scuole, chiese o obiettivi civili in genere, l’Ucraina aveva già accettato la giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
Infatti, sia per i crimini contro l’umanità in relazione alle proteste di Piazza Indipendenza a Kiev represse con violenza dal precedente governo alla fine del 2013 e nei primi mesi del 2014, sia in relazione ai crimini di guerra correlati al tentativo di annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e al contemporaneo e prolungato scontro armato tra governo e forze separatiste nella parte orientale del proprio territorio, l’Ucraina aveva regolarmente depositato due distinte dichiarazioni di accettazione della giurisdizione della Corte.
Sulla base di tale espressione di volontà dello Stato nel cui territorio si erano verificati i fatti il Pubblico Ministero presso la Corte Penale Internazionale aveva iniziato un’investigazione preliminare, tesa a verificare se vi fossero le condizioni per aprire una vera e propria indagine formale in relazione a uno o più crimini di competenza della Corte commessi in tali circostanze. Tale indagine preliminare era terminata nel dicembre del 2020 e gli atti raccolti erano in fase di valutazione nel momento in cui la Russia ha dato inizio all’invasione armata anche di altra parte del territorio ucraino.
Tale nuova circostanza ha accelerato le decisioni del Pubblico Ministero che, mentre non sembra abbia trovato elementi sufficienti per procedere in relazione ai fatti di Piazza Indipendenza, ha preannunciato di voler dare inizio all’indagine formale non solo in relazione ai crimini di guerra e contro l’umanità ipotizzabili per i fatti di Crimea e dell’Est Ucraina, e già dettagliati all’esito dell’investigazione preliminare, ma anche per quelli relativi all’ulteriore attacco armato sferrato dalla Russia nei confronti dell’Ucraina in questi giorni.
Per poter, quindi, dare inizio alla vera e propria fase delle indagini formali il Pubblico Ministero ha quindi richiesto alla Camera Preliminare della Corte la prevista autorizzazione per agire ex officio.
La Presidenza della Corte ha designato per l’esame della richiesta la II Camera Preliminare della Corte, presieduta dal giudice italiano Rosario Aitala, ma la necessità di tale decisione è stata superata dal deposito da parte di 40 Stati Parte, tra i quali l’Italia, di una formale segnalazione alla Corte nella quale è stata manifestata la volontà di tali Stati che la situazione in Ucraina sia sottoposta a investigazione da parte del Procuratore della Corte.
Tale deposito ha consentito, quindi, al Procuratore, in base alle regole dello Statuto di Roma, di aprire un’indagine formale sulla situazione in Ucraina senza necessità di munirsi dell’autorizzazione della Camera Preliminare.
Questa la situazione attuale sul fronte della Corte Penale Internazionale, con l’unica incognita della possibilità che nei procedimenti che seguiranno possa essere contestata la validità dell’accettazione della giurisdizione della Corte da parte dell’Ucraina anche per fatti molto successivi al 2014 e in porzioni di territorio diverse da quelle oggetto di tale dichiarazione. Vero, però, che a fugare tale perplessità basterebbe una nuova dichiarazione di accettazione della giurisdizione con specifico riferimento ai fatti accaduti in questi giorni, mentre per eventuali fatti futuri sarebbe preferibile che intervenisse la ratifica dello Statuto da parte dell’Ucraina.
4. Il ruolo delle giurisdizioni nazionali
Il ruolo della giustizia penale di fronte alla guerra, però, non si ferma alle porte della Corte Penale Internazionale, avendo anche le giurisdizioni nazionali un ruolo significativo da poter giocare.
E non solo, e ovviamente, la giurisdizione nazionale ucraina, sede naturale dei procedimenti per fatti accaduti nel proprio territorio, ma anche tutte le diverse giurisdizioni nazionali, in particolare quelle degli Stati Parte dello Statuto di Roma.
Per il crimine di aggressione e per quei crimini di guerra che per motivi vari, a partire dai limiti della competenza della Corte ai soli reati che assumono particolare gravità, non potranno essere perseguiti dalla Corte Penale Internazionale, potrà, infatti, essere esercitata direttamente dai singoli Stati la propria giurisdizione extraterritoriale, che in relazione ai crimini internazionali è più corretto definire giurisdizione universale, che consente di processare e punire, a determinate condizioni, anche gli stranieri che commettono all’estero gravi crimini in danno di vittime non italiane. Una giurisdizione, quindi, che si esercita anche se non è presente nessuno dei criteri di collegamento con il crimine che tradizionalmente fondano il potere giurisdizionale penale dello Stato (territorio ove è commesso il fatto, nazionalità dell’autore, nazionalità della vittima).
Non sarebbe, d’altronde per lo Stato italiano, una particolare novità dato che la giurisdizione universale è già stata utilizzata per processare e punire autori stranieri di crimini efferati commessi fuori dal territorio nazionale in danno di vittime straniere, come ad esempio a Milano nel 2017 per il processo ad un torturatore di migranti libico per fatti avvenuti in Libia in danno di vittime provenienti da vari paesi africani; o a Siracusa, nei primi anni del secolo, per il processo al responsabile libanese del naufragio della “nave fantasma”, avvenuto in acque internazionali, nel quale persero la vita oltre 250 migranti indiani, pakistani e cingalesi.
L’Italia, infatti, riconosce e regola la propria giurisdizione extraterritoriale sui crimini più gravi prevedendo all’articolo 7 del suo codice penale la punizione anche dello straniero che commette in territorio estero ogni reato per il quale le convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana e stabilendo al suo articolo 8 che, su richiesta del Ministro della Giustizia, sia punito secondo la legge italiana anche lo straniero che commette all’estero un delitto politico, cioè ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato o che, pur essendo un delitto comune, sia determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.
L’articolo 10 dello stesso codice penale, infine, consente, sempre a richiesta del Ministro della Giustizia, e purché il responsabile si trovi nel territorio nazionale, la punizione dei delitti commessi fuori dal territorio nazionale dallo straniero in danno di altro straniero o di uno Stato estero.
5. La natura complementare della giurisdizione della Corte Penale Internazionale rispetto alle giurisdizioni nazionali
Né tali azioni giudiziarie sarebbero in contrasto con lo spirito dello Statuto di Roma che, al contrario, sollecita in prima battuta le giurisdizioni nazionali ad intervenire per porre termine all’impunità degli autori di crimini così gravi, riservandosi di procedere solo in caso di inerzia o malfunzionamento dei sistemi giuridici nazionali.
Non a caso nel Preambolo dello Statuto di Roma è riconosciuto che “crimini di tale gravità, che minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo non devono restare impuniti” e “la loro effettiva repressione deve essere assicurata attraverso l’adozione di idonee misure a livello nazionale ed il rafforzamento della cooperazione internazionale” ponendo “termine all’impunità degli autori di tali crimini e contribuendo in tal modo alla prevenzione di nuovi crimini”, tanto che “è dovere di ogni Stato esercitare la propria giurisdizione penale sui responsabili di crimini internazionali”.
E anche il Parlamento Europeo nella sua Risoluzione del 4/7/2017 sulla “lotta contro le violazioni dei diritti umani nel contesto dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità compreso il genocidio“, al paragrafo 52 “chiede agli Stati membri di applicare il principio di giurisdizione universale per la lotta all’impunità e ne ricorda l’importanza per l’efficacia e il corretto funzionamento del sistema di giustizia penale internazionale” e “di perseguire i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità nelle loro giurisdizioni nazionali anche quando essi siano stati commessi in paesi terzi o da cittadini di paesi terzi”.
6. Conclusioni
La giustizia penale nazionale e internazionale, quindi, può e deve giocare un ruolo decisivo nel processo di pace da tutti auspicato. Alla violenza deve certo essere opposta adeguata resistenza, ma se la volontà bellica vuole essere definitivamente superata non c’è altra strada che quella di perseguire la giustizia, senza la quale la guerra potrà momentaneamente essere sopita ma mai superata nell’animo di chi aspetta o teme vendetta. È il monito di Papa Giovanni Paolo II che dovrebbe ora guidare le azioni di tutti gli attori impegnati nello scenario bellico e diplomatico: “se cerchi la pace, lotta per la giustizia”.
La poca attenzione sinora dedicata al ruolo della giustizia penale nei processi di pace non è, quindi, un segnale positivo, ma il tempo per la sua rivalutazione non è certo terminato.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.