ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria: un’autonomia da consolidare
di Giacinto della Cananea*
Sommario: 1. Premessa problematica - 2. Varietà di organi di garanzia della magistratura - 3. I tratti distintivi del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria - 4. Questioni concernenti la composizione del Consiglio di presidenza - 5. L’incompleta disgiunzione del Consiglio dal Ministero delle finanze: le funzioni - 6. L’incompleta disgiunzione del Consiglio dal Ministero delle finanze: i mezzi - 7. La cultura dei magistrati - 8. Conclusioni.
1. Premessa problematica
All’inizio del terzo decennio del secolo, l’Italia presenta scostamenti anche sensibili rispetto ai principali partner europei. Essi sono evidenti in rapporto alle politiche di bilancio, dove l’introduzione della moneta comune e l’adozione di parametri qualitativi e quantitativi hanno reso più agevole il confronto tra gli obiettivi e soprattutto tra i risultati conseguiti, cioè la performance. Sono non meno evidenti in rapporto alla giustizia, che un antico e prestigioso filone di teoria – che annovera tra i suoi esponenti Adam Smith, professore di jurisprudence a Edimburgo ([1]) – include tra le compétences régaliennes, in ragione dell’inerenza al nucleo essenziale della sovranità. Rispetto all’epoca in cui la giustizia era riguardata come un affare esclusivamente interno agli ordinamenti giuridici a fini generali da tempo noti, cioè gli Stati moderni, i mutamenti intervenuti non sono pochi, né di trascurabile rilievo: segnatamente, gli Stati che fanno parte dell’UE hanno rinunciato alla pretesa all’esclusività nell’esercizio della giurisdizione; hanno accettato, altresì, una serie di principi e criteri direttivi, primi tra tutti il giusto processo, la speditezza dei giudizi e l’effettività della tutela giurisdizionale ([2]).
Valutati alla luce di tali principi e criteri direttivi, non pochi fra gli scostamenti che contraddistinguono il sistema italiano si configurano come punti di debolezza. Altri, meno numerosi ma pur sempre significativi, si configurano, al contrario, come punti di forza. Nel novero di tali punti di forza, vi sono l’accessibilità delle corti (non incrinata dal recente incremento dei costi, tuttora incommensurabile con altri ordinamenti, come il Regno Unito) e la protezione accordata, al livello normativo e nello svolgersi della “esperienza giuridica” - per usare l’espressione cara a Giuseppe Capograssi e Riccardo Orestano ([3])– all’indipendenza della magistratura. Tra i punti di debolezza, due vanno quanto meno richiamati. Il primo concerne il divario tra l’offerta e la domanda di giustizia sul piano quantitativo. I dati fattuali sono noti, grazie a resoconti recenti e accurati: vi sono circa sei milioni di cause pendenti; i tempi medi della giustizia civile sono superiori a sette anni, eccedendo quindi i sei anni ai quali la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricollegato la speditezza della giustizia; nel solo ambito tributario – quello che qui interessa – vi sono 55.000 ricorsi pendenti presso la Corte di Cassazione ([4]). Questi dati sono di per sé assai significativi, perché qualunque studioso delle scienze sociali sa che, oltre una certa soglia, i dati di ordine quantitativo assumono rilievo qualitativo, denotando l’effettività delle funzioni pubbliche, non importa se in senso positivo o negativo. Essi sono confermati da ulteriori dati. Nell’ambito tributario, quasi la metà delle sentenze delle commissioni tributarie regionale per le quali è proposto ricorso per Cassazione sono annullate da quest’ultima, pur se va ricordato – per completezza – che il ricorso per Cassazione è esperito per una frazione quantitativamente limitata delle sentenze di appello. Inoltre, all’arretrato accumulato nel passato si aggiunge ogni anno un flusso di 10.000 di ricorsi in entrata, sicché non è seriamente pensabile che la Corte di Cassazione possa esercitare in modo adeguato la funzione di nomofilachia che l’ordinamento le attribuisce (articolo 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12), per assicurare, per quanto possibile, la certezza del diritto.
Questa premessa problematica serve a sottolineare fin dall’inizio – a fini di chiarezza – che un’indagine sugli organi di garanzia della magistratura (l’espressione è qui utilizzata in alternativa a quella, più frequente ma imprecisa, di “organi di autogoverno”) non può prescindere dal contesto, relativamente al quale la situazione in cui l’Italia versa non è più avanzato di quello di altri paesi. È, anzi, discutibile, se tale situazione sia in linea con gli assetti e i requisiti elaborati e affinati all’interno del Consiglio d’Europa.
2. Varietà di organi di garanzia della magistratura
Può essere di qualche utilità cominciare con il segnalare che, per quanto concerne gli organi di garanzia della magistratura, la tendenza delle democrazie liberali è a divergere e a convergere sotto due principali profili. Il quadro dei principali ordinamenti, anche a volersi limitare all’Europa, è variegato per quanto concerne l’allocazione della competenza. Essa è attribuita a volte a organi ampiamente modellati dalla prassi, come il Judges’ Council inglese, almeno fino alla riforma del 2002. Altre volte, sono istituiti da disposizioni formalmente costituzionali, come il nostro Consiglio Superiore della Magistratura. Tra tali estremi, ma più prossimi al secondo, si situano vari, come la Germania. Ovunque, peraltro, si è diffusa la consapevolezza che affidare tale funzione esclusivamente ai magistrati, non importa come essi siano scelti a tal fine, non è la soluzione più rispondente all’interesse della collettività ([5]). Non lo è, anzitutto, per la natura tendenza di ogni gruppo sociale all’autoreferenzialità. Non lo è, inoltre, perché per assicurare il buon funzionamento della giustizia, hanno una precisa importanza i principi costituzionali, ma ne hanno anche i criteri di buon funzionamento, dalla determinazione dei carichi di lavoro alla loro distribuzione e alla verifica delle attività svolte.
L’assetto istituzionale italiano è reso più complesso dalle modalità con cui è stato attuato il principio cui si attengono tutti gli ordinamenti avanzati, ossia la specializzazione. Il luogo comune secondo cui le scelte organizzative effettuate in Italia, come in Francia e in Germania, hanno unicamente una ragion d’essere storica – e solo perciò giuridica – si rivela infondato non appena ci si accorge che perfino nell’ordinamento inglese si è fatta strada la distinzione tra la risoluzione delle dispute tra i soggetti privati e la risoluzione delle dispute riguardanti l’esercizio di funzioni e potestà pubbliche, ed essa è stata rinsaldata dalla decisione di porre fine alla tradizione di far ruotare i giudici nelle due componenti della Queen’s Bench Division. Da noi, l’articolo 103 della Costituzione ha confermato l’esistenza della distinzione tra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni che all’epoca erano ancora solite dirsi “speciali”: quella amministrativa e quella contabile, all’epoca correlate a due istituzioni secolari, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. Ma la Costituzione ha stabilito soltanto le norme d’apice riguardanti il CSM, negli articoli 104 e 105. Per le altre magistrature, ha provveduto il Parlamento, con norme separate e non di rado assai diverse nei contenuti. Insomma, la legislazione italiana non realizza, né presuppone che debba esservi una fattispecie generale di organizzazione delle istituzioni adibite alla vigilanza sull’indipendenza della magistratura e alla promozione del buon andamento nell’amministrazione della giustizia.
Ciò ha fatto sì che nella prassi operativa si sia rivelato tutt’altro che facile delineare criteri direttivi comuni. A ciò si è cercato di porre rimedio, da una parte, facendo tesoro dei principi costituzionali. Essi impongono per tutti gli atti delle autorità che adempiono una funzione amministrativa il controllo giurisdizionale. Sconsigliano, inoltre, di utilizzare – per il CSM e per altri organi – espressioni che facciano riferimento al “cosiddetto autogoverno (espressione, anche questa, da accogliere piuttosto in senso figurato che in una rigorosa accezione giuridica)” ([6]). Dall’altra parte, faute de mieux, si è cercato di estendere in via di analogia taluni precetti definiti per il CSM. Quest’ultima è una tendenza non solo comprensibile, ma per alcuni versi anche condivisibile, per il rango del Consiglio e per la natura giuridica delle regole che ne disciplinano l’organizzazione e il funzionamento ([7]). Essa si spiega anche alla luce di un fatto ben noto: i giudici ordinari fanno parte sia del CSM, sia del CPGT e non pochi tra i giudici amministrativi, contabili e anche militari provengono dalla magistratura ordinaria. Ma, come Tocqueville aveva finemente osservato con riferimento all’Antico regime, la naturale tendenza a perseguire l’uniformità dispensa dall’occuparsi d’una infinità di dettagli, ma distoglie dalla comprensione delle diversità esistenti, che rendono quei dettagli così importanti. Si pensi, per esempio, che per i procedimenti disciplinari, sono del tutto diverse le attribuzioni riguardanti l’esercizio della funzione disciplinare. Esse spettano al Ministro della giustizia e al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione per i magistrati ordinari; al solo Procuratore generale della Corte dei conti per i magistrati contabili; al Ministro della difesa e al Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione per i giudici militari; infine, al presidente della commissione tributaria regionale e al Consiglio dei ministri per i giudici tributari. Inoltre, mentre la potestà disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari è esercitata all’interno di sequenze processuali, per i magistrati amministrativi, contabili e tributari, è previsto lo svolgimento di procedimenti amministrativi, che si presentano più d’un tratto di specie.
La conclusione che discende dalle notazioni fin qui effettuate è che sulla configurazione dei vari organi di garanzia hanno influito sia la storia, sia decisioni politiche occasionali, assai di rado sorrette da una rigorose visione sistematica. Se sia desiderabile, sul piano normativo o prescrittivo, una disciplina tendenzialmente uniforme o addirittura comune è un’altra questione. L’esperienza delle cosiddette autorità amministrative indipendenti, tra le quali è stata a volte annoverata anche la Banca centrale, dimostra che si tratta di un “vasto programma”, nel senso che all’espressione venne dato da Charles De Gaulle.
3. I tratti distintivi del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria
Anche per i motivi appena indicati, l’assetto istituzionale che riguarda specificamente la giustizia tributaria mal si presta a essere giudicato con riferimento a paradigmi astratti. Esso va giudicato sui risultati, ovviamente tenendo conto dei principi costituzionali, segnatamente l’indipendenza della magistratura e il buon andamento dei pubblici uffici. Nei due paragrafi che seguono, verrà fatto riferimento, quindi, ad alcuni dati normativi e fattuali che mal si conciliano con quei principi, relativamente alle funzioni e all’organizzazione.
Prima di illustrarli, può essere di qualche utilità segnalare brevemente alcuni tratti che denotano il CPGT. Creato nel 1992, esso non è soltanto l’organo di garanzia di più fresca costituzione (quelli per la giustizia amministrativa e contabile sono stati istituiti, rispettivamente, nel 1982 e nel 1988; quello militare nel 1988). E’ anche l’unico a gestire un corpo disomogeneo di giudici, dal momento che delle commissioni tributarie provinciali e regionali fanno parte sia magistrati (ordinari, amministrativi, contabili e militari), sia professionisti, e una magistratura onoraria. Ne discendono alcune conseguenze di cui non sempre vi è adeguata consapevolezza. Una concerne la legittimazione dei giudici ad assumere gli uffici di tipo direttivo, che attualmente è riservata ai magistrati da una disposizione di dubbia legittimità costituzionale. Un’altra riguarda i procedimenti disciplinari. Quanto osservato poc’anzi va integrato constatando che possono esservi, a volte vi sono, procedimenti – per dir così – “paralleli”, che si svolgono cioè dinanzi al CSM e al CPGT per i medesimi fatti, ma possono concludersi con diverse valutazioni. Il meno che si possa dire è che si tratta d’una situazione foriera d’incertezza sul piano giuridico.
Un secondo tratto distintivo riguarda la potestà regolamentare. In via preliminare, è bene ricordare che la tesi secondo cui l’articolo 108 della Costituzione configura una riserva di legge di tipo assoluto è stata confutata nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa ([8]). Detto ciò, tutti gli uffici pubblici dotati di attribuzioni aventi rilevanza esterna dispongono della potestà di darsi regole circa il funzionamento delle proprie articolazioni interne e il disbrigo degli affari amministrativi. In ciò, il CPGT non si differenzia dagli altri organi di garanzia della magistratura. Se ne differenzia, invece, per quanto concerne i regolamenti aventi efficacia (almeno potenzialmente) esterna. Per esempio, l’articolo 18 del codice sulla protezione dei dati personali (decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196), dopo aver fissato il principio di fondo in base al quale qualunque trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici è consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, dispone che tali soggetti pubblici agiscono nel rispetto dei limiti “stabiliti dal presente codice …nonché dalla legge e dai regolamenti”. Ma, quando è divenuto pienamente applicabile il regolamento dell’UE n. 2016/679 e il CPGT ha predisposto un regolamento volto ad applicarlo nelle materie di propria competenza, è sorta un’incertezza con il Garante per la protezione dei dati personali quanto all’esistenza di un’apposita potestà regolamentare, con la paradossale conseguenza che le uniche regole sono quelle predisposte diversi anni addietro.
4. Questioni concernenti la composizione del Consiglio di presidenza
Per valutare in modo appropriato un terzo tratto distintivo, riguardante la composizione del CPGT, si possono trarre alcuni spunti dai criteri enunciati nel parere del consiglio consultivo sulle magistrature istituito all’interno del Consiglio d’Europa ([9]). Tre meritano particolare attenzione. Il primo, e fondamentale, è il favore per gli organi a composizione mista, sia per evitare che essi siano percepiti come volti alla tutela di privilegi, sia che possa allignare una qualsivoglia forma di clientelismo. Il secondo, che costituisce un correttivo del primo, è che all’interno di tali organi, vi sia una “sostanziale maggioranza di giudici”. Il terzo è che i componenti non tratti dalla magistratura, se designati dal Parlamento, non ne facciano parte, siano scelti da una maggioranza qualificata e rispecchino, nel complesso, la diversa composizione della società.
Nell’ordinamento italiano, tutti gli organi di garanzia della magistratura si conformano al primo criterio. D’altronde, rapporti di tipo dialettico sono in grado di condurre a soluzioni di norma migliori di quelle consentite da rapporti di tipo endogeno. Non a caso, la composizione mista è stata avallata dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 142 del 1973, prima richiamata. Quanto al secondo, vi è una varietà di soluzioni. Nel CSM, che è presieduto dal Capo dello Stato e ha due componenti che ne fanno parte di diritto, l’articolo 104 della Costituzione stabilisce che degli altri componenti due terzi sono eletti dai magistrati ordinari e un terzo - i componenti detti impropriamente “laici” – sono designati dal Parlamento, tra i quali dev’essere scelto il vicepresidente. Nella magistratura amministrativa e in quella contabile, il collegio è guidato – rispettivamente dal presidente del Consiglio del Consiglio di Stato e dal presidente della Corte dei conti, ma nel primo caso la componente elettiva è pari a tre quinti del collegio, nel secondo caso ha la medesima consistenza numerica di quella di designazione parlamentare. Nel Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, infine, il presidente è scelto all’interno di quest’ultima, pur se essa ha una consistenza numerica inferiore rispetto agli altri casi (quattro componenti su quindici).
Non è privo d’importanza che, storicamente, la scelta iniziale dell’Assemblea costituente, fortemente sostenuta da Meuccio Ruini, fosse nel senso della composizione paritaria tra le due categorie di membri del CSM ([10]). Inoltre, l’esperienza dimostra che la soluzione più appropriata per raggiungere gli obiettivi sottesi al primo criterio, tenendo conto del secondo, è costituita dalla disciplina riguardante la Corte dei conti, che ha superato il vaglio di costituzionalità ([11]). Per un verso, le due componenti elettive sono equivalenti, ciò che rende difficile approvare scelte non sufficientemente argomentate. Per un altro verso, la presenza di ben tre componenti ratione officii garantisce che i magistrati abbiano comunque una prevalenza. Per un altro verso, ancora, il regolamento interno dispone che la presidenza della commissione competente per i procedimenti disciplinari spetti a un componente designato dal Parlamento ed è una scelta congrua proprio in rapporto agli obiettivi sottesi al primo dei criteri definiti in sede europea.
Resta da dire del terzo criterio. La prassi finora seguita si conforma opportunamente sia all’indicazione riguardante l’incompatibilità dell’incarico di componente del CPGT con quella di membro del Parlamento, sia all’indicazione concernente il ricorso alla maggioranza qualificata. Nel periodo più recente, però, la designazione parlamentare di un componente che era già un giudice tributario ha rappresentato una deviazione rispetto al criterio europeo e, a ben vedere, anche rispetto al criterio nazionale secondo dev’esservi un determinato rapporto tra la componente tratta dai giudici tributari e la componente avente un’altra provenienza (articolo 17, primo comma, decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545), proprio in vista d’una più equilibrata composizione, anche in relazione al corpo sociale. L’auspicio, quindi, è che in futuro le istituzioni parlamentari rettifichino tale deviazione.
5. L’incompleta disgiunzione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dal Ministero delle finanze: le funzioni
Si è osservato in precedenza che non esiste un decalogo operativo cui attenersi per valutare le funzioni e l’organizzazione degli organi di garanzia della magistratura. Non lo offre la legislazione: essa ha mancato di rivolgere attenzione a tali organi in via generale, concentrandosi invece sulle questioni specifiche riguardanti ciascuno di essi. Non li offrono nemmeno gli ordinati documenti predisposti all’interno del Consiglio d’Europa, che d’altronde – diversamente dall’UE – è contraddistinto da una base sociale assai diversificata, in cui alcune tra le più antiche e consolidate democrazie liberali convivono con regimi apertamente autoritari. E tuttavia dalla Costituzione e dall’esperienza giuridica è possibile estrarre un numero ristretto di criteri, sia pure d’ordine molto generale. Spicca la duplice esigenza di garantire l’indipendenza della magistratura - che, giova ricordarlo, è posta a presidio dell’eguaglianza dei cittadini - e il buon andamento dei pubblici uffici.
È alla luce di questi criteri molto generali che vanno considerate, per prima cosa, le funzioni spettanti agli organi di garanzia. Si possono distinguere le funzioni necessarie da quelle accessorie. Le prime includono le decisioni riguardanti le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati (articolo 105 della Costituzione) e le situazioni di ineleggibilità e incompatibilità, nonché il monitoraggio, che costituisce il presupposto indefettibile di molte scelte. Fanno parte delle funzioni accessorie le attività ordinate all’adeguamento e all’ammodernamento dei servizi messi a disposizione dei magistrati e – secondo alcuni – quelle relative alla formazione e all’aggiornamento dei magistrati. Alla luce dei criteri prima enunciati, è essenziale che le decisioni riguardanti le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari e quelli sulle incompatibilità non muovano da scelte aprioristiche per questo o quel magistrato: non importa se di segno favorevole o sfavorevole, né se suggerite o imposte dal potere politico. In questo senso, la decisione dev’essere presa all’esito di un procedimento, com’è tratto precipuo degli ordinamenti democratici (Lavagna), e deve attenersi a un criterio di rigorosa neutralità ex ante, d’indifferenza per le opinioni e posizioni politiche, per l’inerenza a questo o a quel centro di riferimento d’interessi sezionali.
Consideriamo, esemplificativamente, la disciplina legislativa delle incompatibilità. Le norme primarie definiscono in modo sufficientemente chiaro le circostanze che danno luogo a incompatibilità (articoli 8, primo comma, e 12 del decreto legislativo n. 545 del 1992). Individuano con chiarezza anche l’esito dell’attività volta ad accertare – in modo obiettivo - la sussistenza di tali circostanze, cioè la decadenza dall’ufficio di giudice tributario. Però, quando si tratta di attribuire la competenza, la normazione effettua una scelta a dir poco ambigua, stabilendo che “la decadenza è dichiarata con decreto del Ministro delle finanze previa deliberazione del Consiglio di presidenza”. La distinzione è, con ogni evidenza, figlia non soltanto della storia, nella quale la magistratura tributaria si è configurata (ed è forse tuttora agli occhi di alcuni) come una magistratura “domestica”, ma anche dell’impianto complessivo della normazione amministrativa, in virtù della quale il Consiglio di presidenza “ha sede presso il Ministero delle finanze” (articolo 17, primo comma, del decreto legislativo n. 545 del 1992). Ma la storia, se fissa le condizioni iniziali, non sempre fornisce lezioni valide in ogni fase dell’evoluzione di un ordinamento giuridico. E’ stato proprio per sottrarre le decisioni riguardanti l’acquisizione e la perdita dello status di giudice tributario al solo rischio di essere percepite come non adeguatamente neutrali, per assicurare l’indipendenza della magistratura tributaria nel suo insieme, che il legislatore ha istituito il CPGT, assegnandogli varie competenze. Ciò avrebbe richiesto di portare fino alle logiche conseguenze la disgiunzione funzionale tra il Consiglio e il Ministro, cioè attribuendo al primo, oltre al potere di deliberare sulla decadenza, la potestà di disporla.
Così non è stato, invece, e i problemi che ne derivano non sono purtroppo meramente astratti. Può darsi, infatti, non solo che dopo la deliberazione assunta dal Consiglio di presidenza trascorrano alcuni mesi prima che il Ministro emani il decreto, ma anche che i suoi uffici ritengano di dover compiere un’istruttoria, al fine d’individuare eventuali disfunzioni. Beninteso, nei moderni ordinamenti giuridici tutte le potestà suscettibili d’incidere sfavorevolmente sugli interessi protetti sono astrette dal principio di legalità e il loro esercizio è sottoposto – come notato – al controllo giurisdizionale. Quest’ultimo non va visto come una delle possibili soluzioni cui ricorrere nel caso in cui una funzione amministrativa non sia esercitata in modo legittimo (perché – poniamo – non sono state rispettate le garanzie procedurali): è “la” soluzione, rispetto alla quale la decisione di non adottare il decreto – magari senza contestare la deliberazione assunta dal CPGT - è il peggiore degli esiti possibili. Lo è per più di un motivo: per l’assenza di una qualsivoglia trasparenza sui criteri idonei a escludere che la decisione scada nell’arbitrio; per lo svolgimento di un controllo non previsto dalle norme primarie; per l’assenza d’una correlativa assunzione di responsabilità sul piano istituzionale. È un vulnus, quindi, da rimuovere prontamente.
6. L’incompleta disgiunzione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dal Ministero delle finanze: i mezzi
Due ulteriori profili problematici riguardano i mezzi di cui il CPGT dispone per l’adempimento delle funzioni amministrative attribuite dalla disciplina legislativa, ossia le risorse finanziarie e il personale.
Di fronte allo scarso interesse mostrato da una parte della cultura giuridica per le norme contabili, converrà ribadire le ragioni per le quali non è solo l’esistenza di un bilancio preventivo – diversamente dalle aziende private – con una determinata dotazione di risorse finanziarie, ma l’autonomia nella gestione di tali risorse ad assumere rilievo, soprattutto quando si tratta di un’istituzione funzionale all’indipendenza della magistratura, nel caso di specie quella tributaria. Come la ragioneria ha costantemente sottolineato che sotto il profilo contabile è necessario che le risorse finanziarie attribuite o trasferite siano stabili, almeno nelle grandezze fondamentali, così nella riflessione giuridica – segnatamente nei contributi di Santi Romano e di Massimo Severo Giannini ([12]) - è assodato che, in presenza d’una norma che riconosce l’autonomia di un’istituzione ([13]), non possano stabilirsi, nel suo bilancio, vincoli e corrispondenze biunivoche tra singole poste dell’attivo e del passivo, tali da svuotare di contenuto le decisioni che essa è chiamata ad assumere. Una volta entrate nel bilancio dell’istituzione, le varie risorse hanno quindi una varietà di potenziali impieghi. Gli obiettivi e i progetti che l’istituzione dichiara di voler realizzare e per i quali chiede il finanziamento rappresentano altrettanti elementi aggiuntivi di informazione per le istituzioni rappresentative, che determinano l’allocazione delle risorse finanziarie stanziate nel bilancio. Di rado un singolo progetto è di entità e qualità tali, in rapporto alla varietà di obiettivi da perseguire, da condizionare in modo decisivo la sorte delle funzioni attribuite all’istituzione pubblica. Questo è forse il caso del finanziamento dell’informatizzazione del processo tributario, per il quale non vi è stata continuità nell’arco di un triennio. In ciò, può rinvenirsi un problema ulteriore, dal momento che di quel processo l’amministrazione finanziaria è parte.
Non occorre ribadire per il personale quanto si è appena osservato per il bilancio. Può essere di qualche utilità, piuttosto, richiamare almeno due accezioni del buon andamento. Al netto dell’interpretazione, riduttiva e fuorviante, che non lo distingueva dall’imparzialità, ritenendo che si trattasse di un’endiadi, può parlarsi di buon andamento in almeno tre accezioni, tutte rilevanti per il diritto (articolo 1, primo comma, legge 7 agosto 1990, n. 241): efficienza, economicità ed efficacia. È soprattutto relativamente a quest’ultima che la disciplina dell’impiego con le pubbliche amministrazioni individua uno degli elementi qualificanti degli organi di direzione politica la scelta delle risorse umane da destinare agli uffici di livello dirigenziale generale e, quanto ai dirigenti, fa espresso riferimento ai poteri di gestione del personale (articolo 4, decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165). Nessuno di questi tratti è riscontrabile, in modo pieno, nell’ordinamento del CPGT. Nell’assenza di una previsione legislativa relativa a un autonomo contingente di personale si può rinvenire un tratto distintivo – un altro – rispetto agli altri organi di garanzia della magistratura e, inoltre, un punto di debolezza dell’istituzione, che finisce per servirsi delle risorse umane messe a disposizione dall’amministrazione finanziaria. È un punto di debolezza così rilevante, e privo d’una giustificazione, da giustificare il riferimento che vi è stato effettuato nella relazione conclusiva della commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria.
7. La cultura dei magistrati
L’aver indicato in premessa, in chiave fortemente problematica, che il sistema italiano soffre sia di uno squilibrio quantitativo tra la domanda e l’offerta di giustizia, sia dell’assenza delle precondizioni indispensabili affinché funzioni pubbliche della massima importanza possano essere convenientemente svolte serviva a far intendere che, per occuparsi degli organi cui spetta assicurare il buon funzionamento dei pubblici uffici adibiti alla giustizia, bisogna sgombrare il campo da alcune idee ricevute, diffuse tra i magistrati italiani: che le disposizioni costituzionali relative alla magistratura assumano rilievo principalmente nella loro componente assiologica, più che come obiettivi intermedi rispetto alle aspettative dei cittadini, considerati come individui e nelle formazioni sociali in cui essi agiscono, incluse le imprese; che il diritto si collochi su un livello più alto rispetto alle discipline che studiano i metodi e gli strumenti per rendere efficiente ed efficace lo svolgimento delle attività dei pubblici poteri; che affiancare ai giuristi gli esperti di bilanci sia sviante rispetto ai valori consacrati dalla Costituzione o, quanto meno, che questi ultimi debbano essere collocati in una posizione ben distinta. Il problema è, quindi, anche culturale ([14]), per cui l’analisi incentrata sugli aspetti funzionali e organizzativi dev’essere integrata su tale piano. I tempi non saranno brevi, ovviamente. Bisognerà individuare e coltivare nei corsi di laurea e nelle attività di formazione un’integrazione più stretta tra il diritto e le altre scienze sociali, oltre a una maggiore attenzione per i canoni deontologici, così legati alla componente prescrittiva della giurisprudenza.
Si è detto che il problema è “anche” culturale. E’ una componente importante, da non trascurare. Si consideri che, per la magistratura tributaria, l’accesso agli incarichi di tipo direttivo è riservato ai magistrati, sebbene a volte essi siano digiuni di conoscenze riguardanti i profili economici delle liti tributarie e non possiedano il background indispensabile per organizzare in modo efficiente l’attività di un ufficio, per verificare l’operato di quanti vi sono addetti. La prassi conferma l’esistenza del problema, non mancano situazioni nelle quali è possibile intervenire soltanto al momento della decisione sul rinnovo dell’incarico. Vicende recenti, nelle quali la decisione di non rinnovare tale incarico è stata avallata dal giudice amministrativo ([15]), sono istruttive per comprendere l’evidente difficoltà cui taluni magistrati vanno incontro nell’impostare la definizione dei carichi di lavoro e delle verifiche sulle attività svolte (e non svolte).
Per completezza - e per obiettività - va detto anche che occorrerebbe anche una revisione dei criteri di cui il Parlamento si serve per selezionare i componenti degli organi di garanzia, poiché la conoscenza degli ambiti nei quali una magistratura esercita le proprie funzioni non è, di per sé, sufficiente per fornire un supporto ai giudici e per controllarne l’operato. Sotto entrambi i profili, l’auspicio è che questo contributo possa servire a contribuire a un dibattito che non dovrebbe essere circoscritto alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, perché la giustizia riguarda tutti.
8. Conclusioni
Le conclusioni discendono dall’analisi. Una visione d’insieme degli organi di garanzia della magistratura mostra non solo l’assenza di norme a contenuto generale, ma anche la difficoltà di rinvenire criteri e parametri che consentano di orientarne l’azione. Pure, quei criteri esistono e, se ben impiegati, permettono di discernere una serie di problemi riguardanti il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. A questi problemi, nell’imminenza della riforma della giustizia tributaria o in attesa che essa sia quanto meno messa in cantiere, la Politica dovrebbe dare soluzione al più presto, nell’interesse del buon funzionamento della giustizia.
*L’autore desidera ringraziare Francesco Lucifora e Angela Tomasicchio per i commenti su una prima versione di questo scritto, ma resta – ovviamente - l’unico responsabile per eventuali errori od omissioni. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
[1] A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1764), libro IV, cap. 9. Per l’osservazione che, più di altri concetti giuridici, la sovranità richiede un’accurata indagine storica, G. Jellinek, Allgemeines Staatslehre (1900), tr. it. La dottrina generale del diritto dello Stato, I, Milano, Giuffrè, 1949, p. 42.
[2] Nel senso del testo, A. Manzella, Lo Stato “comunitario”, in Quaderni costituzionali, 2003, p. 273. Per la tesi che la nozione di Stato sia storicamente data, S. Cassese, Fortuna e decadenza della nozione di Stato, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, vol. I, p. 93.
[3] G. Capograssi, Studi sull’esperienza giuridica (1932), in Opere, Milano, Giuffrè, 1959, vol. II, p. 288; R. Orestano, Della 'esperienza giuridica' vista da un giurista, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1980, p. 1173.
[4] I dati, tratti dalle statistiche giudiziarie predisposte dalla Corte di Cassazione, sono riportati nella relazione della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, pubblicata sul sito internet del Ministero della giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS351377#.
[5] Nella letteratura scientifica, si vedano, p. es., D. Kosai, Beyond Judicial Councils: Forms, Rationales and Impact of Judicial Self-Governance in Europe, in German Law Journal (19), 2019, p. 1567; A. Vauchez, The Strange non-Death of Statism: Tracing the Ever Protracted Rise of Judicial Self-Government in France, ivi, p. 1613; F. Wittreck, German Judicial Self-Government – Institutions and Constraints, ivi, p. 1932, in cui si constata che il modello tedesco è solitamente contrapposto a quello italiano, pur se vi sono vari congegni giuridici volti ad assicurare il coinvolgimento dei giudici nell’amministrazione della giustizia.
[6] Corte costituzionale, sentenza n. 142 del 1973. In senso conforme, A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M. (1989), ora in L’ordinamento giudiziario, Napoli, ES, 2019, p. 1065.
[7] Ai fini che qui interessano, non occorre prendere posizione sulla questione se il CSM sia un organo costituzionale o di rilievo costituzionale: non hanno perso valore le riflessioni di Temistocle Martines: Organi costituzionali: una qualificazione controversa (o, forse, inutile), in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, Mucchi, 1996, III, p. 1058, il quale giungeva alla conclusione che la scienza del diritto non era “giunta a dare una definizione certa e univoca di organo costituzionale” e, sul piano pratico, non si poteva negare l’esistenza di altri soggetti che esercitano poteri di decisione politica, sicché erano di scarsa utilità le “definizioni retoriche degli organi costituzionali che si avviluppano in se medesime”.
[8] Corte costituzionale, sentenza n. 72 del 1991; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 7 marzo 2007, n. 1069; 9 aprile 2014, n. 3859.
[9] CCJE Opinion n. 24 (2021), Evolution of the Councils for the Judiciary and their role in independent and impartial judicial systems, in www.coe.int.
[10] M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in AIC – Osservatorio sulle fonti, 2020, n. 1, p. 10.
[11] Corte costituzionale, sentenza n. 16 del 2011, riguardante la disposizione della legge 4 marzo 2009, n. 15 che ha ridotto il numero dei componenti del consiglio di presidenza della Corte dei conti.
[12] S. Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, p. 14 (per la notazione che l’autonomia si sviluppi mediante consuetudini); M.S. Giannini, Autonomia (saggio sui concetti di autonomia), in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano, Giuffrè, 1952, p. 197 (per la distinzione tra più nozioni di autonomia).
[13] L’articolo 29 bis del decreto legislativo n. 545 del 1992 dispone che il CPGT “provvede all’autonoma gestione delle spese per il proprio funzionamento”, sotto il controllo della Corte dei conti.
[14] M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, cit., p. 18 critica la cultura dei magistrati da un diverso, duplice angolo visuale: quando la magistratura requirente non si mostra pienamente consapevole “dell’immensità del proprio potere” e quando il giudice si fa legislatore, senza peraltro attivare il giudizio sulle leggi.
[15] Tar Lazio, sez. II-bis, sentenza 19 novembre 2021, n. 11979, in cui si constata che, in base alla disciplina vigente, le “capacità organizzative … vanno dimostrate per il tramite dell’adozione di specifiche misure”.
La collaborazione amministrativa nella funzione di vigilanza (bancaria). Profili di giurisdizione e procedimentali (nota a Cass. S.U. 20 aprile 2021, n. 10355) di Filippo D’Angelo
Sommario: 1. La vicenda decisa dalla Corte di cassazione. – 2. Le questioni teoriche (palesi e latenti) schiuse dalla sentenza. – 3. Il procedimento per acquisire pacchetti azionari nelle banche. – 4. (Segue): la sostanza oltre la forma. – 5. Il valore organizzativo del procedimento amministrativo. – 6. (Segue): le relazioni organizzative procedimentali. – 7. La collaborazione come norma sulla funzione amministrativa comune. – 8. Conclusioni.
1. La vicenda decisa dalla Corte di cassazione.
La sentenza che si annota desta particolare interesse perché si occupa di un argomento di indiscussa centralità nel contesto dell’integrazione europea: i procedimenti amministrativi composti dell’Unione. Come è stato da tempo chiarito dalla dottrina tali procedimenti – anche detti comuni o di coamministrazione – vedono «congiuntamente per protagonisti amministrazioni nazionali e comunitarie»[1]; ed esprimono una «situazione di contitolarità della funzione» amministrativa tra i due livelli operativi[2].
La rilevanza della pronuncia della Cassazione si apprezza in due modi: da un lato essa si sofferma sugli aspetti processualistici del procedimento composto esaminato – nella specie quello per autorizzare l’acquisto di pacchetti azionari nelle banche; dall’altro, e più in dettaglio, essa offre interessanti spunti di riflessione in tema di organizzazione amministrativa. Di tutto ciò si dirà a breve; prima è opportuno ripercorrere la successione dei fatti di causa.
La vicenda trae origine dal provvedimento della Banca d’Italia datato 7 ottobre 2014 con cui l’ente, ai sensi dell’art. 19 del Tub modificato dalla direttiva 2013/36/UE (recepita in Italia col d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72), ha ordinato alla Fininvest S.p.A. di cedere le azioni detenute nella società finanziaria Mediolanum S.p.A. dopo la condanna definitiva inflitta al suo azionista di maggioranza per un reato fiscale. Impugnato il provvedimento in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato lo ha annullato con la sentenza 3 marzo 2016, n. 882, ritenendo che il requisito dell’onorabilità previsto dal novellato art. 19 Tub andasse applicato solo alle future partecipazioni azionarie e non a quelle pregresse.
Nelle more della causa, tuttavia, la società finanziaria Mediolanum S.p.A. era stata acquisita per incorporazione dalla Banca Mediolanum, così mutando la natura della partecipazione azionaria detenuta da Fininvest S.p.A.: non più in una società finanziaria, ma in un istituto creditizio. Per tale ragione la Banca d’Italia, ritenendo necessaria un’apposita autorizzazione, ha avviato d’ufficio il procedimento disciplinato dall’art. 15 del regolamento dell’Unione n. 1024 del 15 ottobre 2013.
La nuova procedura è terminata il 25 ottobre 2016 col provvedimento della Banca centrale europea che, previa proposta negativa della Banca d’Italia, si è opposta al mantenimento della partecipazione qualificata di Fininvest S.p.A. nella Banca Mediolanum.
La reazione di Fininvest S.p.A. non si è fatta attendere: dapprima ha impugnato il provvedimento della Banca centrale europea avanti al Tribunale di prima istanza dell’Unione[3]; ha poi impugnato la proposta della Banca d’Italia avanti al tribunale amministrativo del Lazio; ha infine attivato contro il medesimo atto nazionale un’azione di ottemperanza avanti al Consiglio di Stato per elusione della sentenza n. 882/2016 passata in giudicato.
Nel corso di quest’ultimo giudizio il Consiglio di Stato ha sollevato una questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia dell’Unione e le ha domandato di stabilire se esso sia competente a sindacare, anche in sede di ottemperanza, gli atti di matrice nazionale interni al procedimento autorizzativo disciplinato dall’art. 15 del regolamento dell’Unione n. 1024 del 15 ottobre 2013.
In riposta il giudice europeo ha chiarito quanto segue con la sentenza C-219/17 del 19 dicembre 2019: «l’eventuale coinvolgimento delle autorità nazionali nel procedimento che conduce all’adozione di tali atti non può mettere in dubbio la qualificazione dei medesimi come atti dell’Unione, quando gli atti adottati dalle autorità nazionali sono tappa di un procedimento nel quale un’istituzione dell’Unione esercita, da sola, il potere decisionale finale senza essere vincolata agli atti prepara-tori o alle proposte avanzate dalle autorità nazionali»[4]. Pertanto «quando opta per una procedura amministrativa che prevede l’adozione da parte delle autorità nazionali di atti preparatori a una decisione finale di un’istituzione dell’Unione che produce effetti di diritto e può arrecare pregiudizio, il legislatore dell’Unione intende stabilire, tra tale istituzione e tali autorità nazionali, un meccanismo particolare di collaborazione fondato sulla competenza decisionale esclusiva dell’istituzione dell’Unione»[5]. In conseguenza di ciò «solo il giudice dell’Unione è competente a valutare, in via incidentale, se la legittimità della decisione della BCE del 25 ottobre 2016 sia inficiata da eventuali vizi degli atti preparatori di tale decisione emanati dalla Banca d’Italia. Tale competenza esclude ogni competenza giurisdizionale nazionale avverso detti atti»[6].
Sulla scorta di tali conclusioni il Consiglio di stato ha dichiarato inammissibile l’azione di ottemperanza promossa dallaFininvest S.p.A.
Contro tale decisione la società ha allora proposto un ricorso in cassazione per rifiuto di giurisdizione ai sensi dell’art. 111, co. 8 della Costituzione. In linea con la decisione del giudice europeo l’impugnativa di terzo grado è stata integralmente respinta dalla Corte nazionale perché nella «materia delle acquisizioni di partecipazioni qualificate in banche, l’attribuzione dei poteri decisionali spetta, secondo il Meccanismo di vigilanza unico dell’unione bancaria, alla BCE nel contesto di un procedimento parimenti unitario di cui fanno parte gli atti delle autorità nazionali centrali. La circostanza che le decisioni terminali della BCE debbano essere sottoposte al controllo di legittimità della giurisdizione della UE, anche di riflesso ai vizi degli atti intermedi delle ANC, e anche in applicazione della normativa nazionale dei singoli Stati ove rilevante in base alle opzioni esplicitamente riconosciute agli Stati membri, è una mera conseguenza della suddetta architettura procedimentale unitaria. Pertanto il rimedio dell’ottemperanza semplicemente non può essere esercitato, in concreto, col fine di sindacare gli atti preparatori delle ANC, poiché anche codesti sono infine atti interni di un procedimento dell’Unione, non soggetti, come la decisione finale, ad altri che alla giurisdizione Europea»[7].
2. Le questioni teoriche (palesi e latenti) schiuse dalla sentenza.
Ripercorsi i fatti controversi si può asserire che la lettura della sentenza della Cassazione schiude due orizzonti di analisi degni della massima considerazione e densi di contenuto teorico: uno è immediatamente percepibile; l’altro è più celato, ma non meno significativo.
Veniamo al primo.
La dottrina e la giurisprudenza si sono spesso occupate dei procedimenti di coamministrazione per le loro implicazioni di carattere ‘processuale’ come testimonia l’amplissima letteratura scientifica in tema[8]; da questo punto di vista la sentenza in commento non ha fatto eccezione e si è instradata lungo sentieri d’indagine da tempo battuti.
Il risvolto ‘processuale’ dei procedimenti composti attiene segnatamente al problema del riparto di giurisdizione tra la magistratura interna e quella europea rispetto agli atti della serie procedurale. La regola d’ingaggio, pressoché consolidata, è la seguente: dal momento che i procedimenti composti si snodano in varie fasi di competenza nazionale o europea, il giudice interno e quello dell’Unione hanno giurisdizione nei confronti degli atti delle rispettive amministrazioni tutte le volte in cui essi abbiano carattere vincolante e definitivo; tutte le volte, cioè, in cui siano capaci di provocare un arresto procedimentale[9].
Così, ad esempio, si è espresso il tribunale amministrativo per il Lazio in una recente pronuncia: gli «ordinari procedimenti composti eurounitari» si «collocano nell’ambito degli ordinamenti giuridici integrati» e in essi le «sorti dei segmenti procedimentali (europeo ed interno) sono collegate tra loro»; sul piano processuale ciò che importa è «individuare il giudice eventualmente competente a conoscere della illegittimità dell’at-to avente efficacia lesiva»[10].
Tuttavia il passo in avanti compiuto dalla sentenza in commento sulla scorta dell’indirizzo della Corte europea – ed è questo il punto che occorre marcare come elemento di novità – concerne il regime d’impugnazione degli atti interni al procedimento: questi infatti, a prescindere dall’autorità che li adotta, devono seguire il regime d’impugnazione dell’atto definitivo, sia esso di provenienza nazionale o sovranazionale. Secondo la Cassazione anche nei procedimenti composti dell’Unione europea deve valere la regola generale per cui gli atti endoprocedimentali seguono la sorte dell’atto conclusivo[11]. Rapportata al contesto europeo la conseguenza non è di poco momento perché consente alla Corte di giustizia (ma dovrebbe valere anche il reciproco) di estendere il proprio controllo agli atti delle autorità nazionali che siano prodromici a un provvedimento finale adottato da un’istituzione dell’Unione; con un effetto di convergenza tra sistemi giuridici sempre più accentuato[12].
Senza dubbio questo è un significativo argomento di riflessione che emerge nitidamente dalla lettura della pronuncia della Cassazione. Ma non è il solo. Non bisogna infatti dimenticare che la prospettiva ‘processuale’ non è l’unica che si può seguire quando si studiano i procedimenti di coamministrazione dell’Unione europea e, più in generale, il procedimento amministrativo. Ce n’è un’altra non meno importante che riposa sul dato empirico, spesso evidenziato in sede giurisdizionale (v. retro), per cui nei procedimenti coamministrati le «sorti dei segmenti procedimentali (europeo ed interno) sono collegate tra loro».
È questa una prospettiva d’esame che si potrebbe definire ‘organizzativa’; essa risponde a una precisa domanda: quando e in quali casi si può dire che il procedimento amministrativo sia un mezzo di collegamento (soggettivo e oggettivo) e abbia la capacità di produrre organizzazione ?
A tale quesito, cui corrisponde un ulteriore e rilevante problema di teoria generale, sono dedicate le presenti note.
3. Il procedimento per acquisire pacchetti azionari nelle banche.
L’inquadramento giuridico della vicenda decisa dalla Cassazione nella prospettiva segnalata passa anzitutto per l’analisi della struttura formale del procedimento volto ad autorizzare l’acquisto (e la conservazione) di partecipazioni rilevati in enti creditizi[13].
Esso si svolge nel seguente modo.
Ai sensi dell’art. 15 del regolamento n. 1024/2013 il soggetto interessato presenta una domanda di acquisizione all’autorità di vigilanza nazionale che ne informa senza indugio la Banca centrale europea[14].
L’amministrazione interna è chiamata a esaminare in via preliminare l’istanza e a verificare nella specie se la «potenziale acquisizione soddisfa tutte le condizioni stabilite dal pertinente diritto dell’Unione e nazionale»; dopodiché essa redige una «proposta di decisione» e indica alla istituzione europea la «propria intenzione di opporsi o non opporsi all’acquisizione»[15].
Il procedimento si sposta allora in ambito sovranazionale dove spetta alla Banca centrale europea adottare il provvedimento finale e decidere se «vietare l’acquisizione» o autorizzarla[16].
In particolare essa – ed è il perno di tutta la procedura – adotta il provvedimento finale sulla base della «propria valutazione» della «proposta di acquisizione e del progetto di decisione» nazionale[17].
4. (Segue): la sostanza oltre la forma.
Da quanto precede emerge che, sotto l’epidermide del procedimento composto, giace il suo sostrato organizzativo: esso consiste nella relazione ausiliaria che lega l’autorità amministrativa nazionale e quella europea; tanto si ricava dalla stessa sentenza della Corte di giustizia C- 219/17 in cui si legge che il ruolo degli enti nazionali consiste nel «registrare le domande di autorizzazione e nel prestare assistenza alla BCE, titolare esclusiva del potere di decisione, segnatamente comunicandole tutte le informazioni necessarie all’adempimento della propria missione, istruendo dette domande e trasmettendole infine una proposta di decisione che non vincola la BCE»[18].
Ora si ricorderà che le ipotesi di «ausiliarità» danno luogo un «riparto di compiti tra uffici collegati» e si verificano quando a un «ufficio spetta il potere di decisione, ad altro ufficio dei poteri o dei compiti che rispetto alla decisione hanno natura complementare: sono poteri e compiti che non sono fini a se stessi, ma senza i quali il potere di decisione non potrebbe dispiegarsi»[19].
Per quel che qui interessa il concetto di ausiliarità – come «formula a carattere sostanzialmente organizzatorio»[20] – rileva sotto un duplice aspetto: da un lato per il significato usuale del termine che implica «aiuto, soccorso, assistenza, cooperazione etc., da parte di uno allo scopo di sostenere, agevolare, soccorrere o comunque rendere più efficiente l’attività di un altro»[21]; dall’altro per il rilievo giuridico della relazione sottostante che postula l’esistenza di un ente con propria soggettività «utilizzato come mezzo da un altro ente»[22].
Ciò spiega perché in diritto amministrativo la categoria dell’ausiliarità, come rapporto strumentale, sia stata da tempo inquadrata in una prospettiva quasi esclusivamente, dinamica[23]. Essa riguarda nello specifico i casi in cui, all’interno di uno stesso procedimento, un soggetto è titolare della potestà provvedimentale in senso proprio, mentre ad altro competono poteri di vario contenuto (preparatori, consulenziali, esecutivi), ma non decisori[24]; entrambi gli uffici concorrono a svolgere la funzione procedimentalizzata, ma uno di essi sta in posizione definibile di coadiuzione rispetto all’altro secondo la specifica configurazione del ruolo assegnato dalla legge[25].
Per andare sul concreto si pensi all’art. 11 della legge 24 marzo 2012, n. 27 sulla «apertura di nuove sedi farmaceutiche». La norma recita che ciascun comune, previo censimento della popolazione residente, «individua le nuove sedi farmaceutiche disponibili nel proprio territorio» e «invia i dati alla regione» sotto forma di relazione istruttoria[26]. Una volta ricevute le informazioni necessarie le autorità regionali hanno il compito di bandire concorsi pubblici per la «copertura delle sedi farmaceutiche di nuova istituzione e per quelle vacanti»[27]. A tal fine esse devono nominare una commissione giudicatrice che è chiamata a valutare i requisiti partecipativi dei candidati e a stilare una graduatoria di merito che assegna ai vincitori le sedi farmaceutiche messe in palio[28].
L’esempio vuol dimostrare che gli organi ausiliari hanno in genere compiti di natura finale[29]. Essi sono vincolati a svolgere una certa attività che, ove richiesta, serve a raggiungere determinati fini legali; e ciò avviene sempre in collegamento con l’esercizio del potere principale – vale a dire quello decisionale – di cui quello ausiliario è indispensabile complemento[30]. La combinazione dei due momenti si consuma all’interno del procedimento amministrativo di cui l’atto ausiliario forma un tassello spesso necessario e qualificante, integrando la fattispecie precettiva sul piano degli effetti[31].
Tale connessione dà vita a «rapporto di collaborazione» immanente alla figura dell’ausiliarità perché indica una tensione di volontà verso uno scopo comune[32]; e che è stata giustamente definita «pertinenziale» in quanto l’ausiliario, pur dovendo coadiuvare l’ufficio principale, conserva intatta la propria sfera di autonomia[33].
Ora questo è esattamente ciò che accade nella descritta procedura per controllare gli assetti proprietari negli enti creditizi.
L’art. 15, par. 1 del regolamento n. 1024/2013 stabilisce che la «notifica di acquisizione di una partecipazione qualificata in un ente creditizio stabilito in uno Stato membro partecipante ovvero ogni informazione connessa è presentata alle autorità nazionali competenti dello Stato membro nel quale è stabilito l’ente creditizio». Ricevuta l’istanza l’autorità nazionale «valuta l’acquisizione proposta e trasmette alla BCE la notifica e una proposta di decisione di vietare o di non vietare l’acquisizione»[34]. Nello specifico essa è tenuta a verificare se la «potenziale acquisizione soddisfa tutte le condizioni stabilite dal pertinente diritto dell’Unione e nazionale»; e il suo esame preliminare mette capo a un «progetto di decisione» con cui «propone alla BCE di opporsi o non opporsi all’acquisizione»[35]. Esaurita la fase istruttoria il fascicolo passa immediatamente alla Banca centrale europea che «decide se vietare l’acquisizione» o autorizzarla[36]; ma ciò avviene sulla «base della propria valutazione della proposta di acquisizione e del progetto di decisione» redatto dall’autorità di vigilanza nazionale[37].
Ebbene, nel caso in esame, sembra effettivamente possibile scorgere i tratti di un rapporto di ausiliarità procedimentale: qui, infatti, l’operato dell’amministrazione nazionale serve a preparare la successiva attività decisionale dell’autorità dell’Unione; nella specie l’autorità interna è tenuta ad assistere il decisore sovranazionale nell’istruzione procedimentale, stilando un «progetto» e una «proposta» di decisione[38].
Tale attività preliminare è priva di valore provvedimentale in senso stretto dato che il potere decisorio spetta unicamente alla Banca centrale europea. Tuttavia si inquadra nella medesima funzione come suo elemento determinativo: si tratta dunque di un apporto ausiliario nel senso finora precisato, indispensabile nella dinamica di produzione degli effetti legali[39].
Esaminando la successione dei segmenti procedurali per controllare gli assetti proprietari nelle banche la conclusione che se ne trae è che le competenze intestate alle varie autorità si intrecciano nel procedimento amministrativo in vista di un risultato predefinito. La saga procedimentale è il canale prescelto dal diritto dell’Unione per connettere, attraverso relazioni organizzative posizionate al suo interno, enti di diversa estrazione ordinamentale che collaborano per scopi comuni.
5. Il valore organizzativo del procedimento amministrativo.
Il quadro giuridico, così tratteggiato, diviene allora più nitido nella prospettiva seguita e permette di svelare una dimensione non sempre adeguatamente lumeggiata del procedimento amministrativo: la dimensione organizzativa.
Occorre però un chiarimento.
Che il procedimento possa rispondere a un’esigenza di tal genere è un aspetto da tempo posto in luce dalla dottrina italiana, ma spesso offuscato da profili più eclatanti del medesimo fenomeno: si pensi ai temi del contraddittorio, della partecipazione, dell’esercizio del potere sui cui la scienza giuridica si è lungamente esercitata.
Tuttavia, al di là di ciò, è stato autorevolmente sostenuto che nel procedimento amministrativo può anche «intravvedersi, più che come substrato, come componente di base, un fenomeno di organizzazione, tanto più degno di attenzione questo quanto più il procedimento, non limitandosi a svolgersi secondo contatti tra organi di uno stesso ente, implichi il superamento dei confini determinati dalla personalità di quest’ultimo, e coinvolga così il concorso, nel proprio ambito, di una pluralità di uffici appartenenti a soggetti giuridici distinti»[40]; e parimenti si è aggiunto che il «procedimento amministrativo è qualcosa di più di un’attività preparatoria. Esso è il riflesso, nell’attività, dell’organizzazione: come quest’ultima è ordinata sul principio della distribuzione delle funzioni, la prima è ordinata sul principio di articolazione, per cui i momenti in cui essa si svolge sono distintamente rilevanti e regolati. Insomma, il procedimento è il profilo dinamico dell’organizzazione»[41].
Lo stesso è stato detto, non casualmente, a proposito del sistema ordinamentale dell’Unione europea dove il procedimento amministrativo non di rado «serve a completare l’organizzazione. Esso consente ai vari pubblici uffici di assolvere i rispettivi compiti, di scambiarsi informazioni, di collaborare, a volte in modo dialettico. In questo senso, può dirsi che il procedimento abbia una valenza organizzativa»[42].
Ecco che in ciascuna delle ricostruzioni citate ricorre una condivisibile idea di fondo: ossia che nel procedimento amministrativo esiste un lato organizzatorio strettamente connesso a quello dell’attività; entrambi possono risultare così intrecciati da renderne spesso difficoltosa la scissione. Lo schema procedimentale può essere alternativamente inquadrato nell’uno o nell’altro angolo visuale; e risalta per la sua intrinseca capacità di convogliare (e collegare) dinamicamente organi e uffici in una trama unitaria[43].
6. (Segue): le relazioni organizzative procedimentali.
Ora a noi pare che la prospettiva esegetica appena evocata – indiscutibile da un punto di vista di teoria generale – possa essere maggiormente specificata alla luce del caso empirico fornito dalla sentenza annotata; rilevando cioè che il procedimento amministrativo possiede valenza organizzativa tutte le volte in cui la legge ripone al suo interno una relazione organizzativa tra figure soggettive autonome.
Questo aspetto è parzialmente diverso dall’ipotesi finitima – cui alludono gli autori in precedenza richiamati – che ricorre quando la legge disciplina un procedimento strutturalmente aperto alla partecipazione, necessaria o eventuale, di più enti pubblici che intervengono e operano sinergicamente al suo interno[44].
È di tutta evidenza infatti che un conto è parlare di procedimenti complessi (o pluristrutturati) per la partecipazione doverosa o episodica di più figure soggettive in azione; altro è dire che il loro concorso procedimentale risponde a una logica organizzativa in quanto è il frutto di una relazione organizzativa posizionata dalla legge dentro i confini del procedimento amministrativo[45].
In altre parole il ragionamento proposto intende rimeditare l’idea, autorevolmente argomentata, per cui il procedimento possieda anche un risvolto organizzativo. Che ciò accada è fuor di dubbio. Ma dipende non tanto dalla frequente e fisiologica convergenza di più autorità amministrative al suo interno; bensì dalla presenza di una relazione organizzativa che le lega nel contesto della serie procedurale.
Anche la sentenza annotata, forse involontariamente, sembra marcare tale sfumatura quando ricostruisce in termini di ausiliarità l’intima sostanza della relazione procedimentale tra le due amministrazioni contitolari della funzione: una relazione fondata sulla «competenza esclusiva della BCE all’esercizio del potere decisionale finale in termini di acquisizioni bancarie, senza vincolo discendente dagli atti preparatori o dalle proposte avanzate dalle autorità nazionali»[46].
Se ne potrebbe allora inferire una conclusione di più estesa portata: ossia che l’essenza delle relazioni organizzative procedimentali, qualora esistenti e tipicizzate, è di costituire modi normativamente previsti per consentire a più soggetti di svolgere la stessa funzione in vista di un unico obiettivo; in una parola di collaborare come plasticamente testimoniano i procedimenti di coamministrazione dell’Unione europea.
7. La collaborazione come norma sulla funzione amministrativa comune.
È questa l’interessante prospettiva d’indagine che, a nostro avviso, schiude tra le righe la sentenza annotata.
La relazione organizzativa procedimentale, in tutti i casi in cui è prevista dalla legge, permette alle amministrazioni di eseguire assieme la stessa funzione, e quindi di cooperare. Il sistema comune della vigilanza bancaria (ma non è il solo) ne è un esempio eloquente. Qui la collaborazione rileva come autentico dovere per le amministrazioni contitolari della funzione e tanto si evince dall’art. 6, par. 2 del regolamento n. 1024/2013 dov’è scritto che «sia la BCE che le autorità nazionali competenti sono soggette al dovere di cooperazione in buona fede»; e dall’art. 9, par. 2 del medesimo regolamento che recita che «nell’esercizio dei rispettivi poteri di vigilanza e di indagine, la BCE e le autorità nazionali competenti cooperano strettamente».
Con riferimento al procedimento amministrativo per acquisire pacchetti azionari nelle banche la rilevanza del principio collaborativo è messa in evidenza non solo dalla sentenza della Cassazione che giustamente ha sottolineato che alle norme regolamentari poc’anzi citate è «ancorato, sul versante processuale, l’art. 15 del regolamento MVU»[47]; ma soprattutto dalla sentenza C-219/17 della Corte di giustizia – su cui si fonda integralmente la decisione annotata – che ha rilevato che nel procedimento per controllare gli assetti proprietari degli istituti creditizi il «legislatore dell’Unione intende stabilire, tra tale istituzione e tali autorità nazionali, un meccanismo particolare di collaborazione»[48].
Ciò denota la rilevanza positiva della collaborazione amministrativa di cui si possono incidentalmente tratteggiare le caratteristiche essenziali, rinviando ad altra sede il necessario approfondimento della nozione[49].
In primo luogo si deve rilevare come la collaborazione sia non tanto una relazione organizzativa in sé conchiusa, quanto piuttosto una regola normativa di azione che governa lo svolgimento delle funzioni comuni dove più soggetti, dotati di competenze distinte ma legati da relazioni organizzative procedimentali[50], curano un solo interesse pubblico che ad essi è cointestato; collaborando le autorità procedenti compartecipano all’esercizio del potere determinante, al potere cioè di definire il disegno legale degli effetti della funzione[51].
L’esempio fornito dalla sentenza annotata sembrerebbe comprovare l’assunto laddove riconosce che il «diritto dell’Unione non serve – in questa materia – a instaurare una ripartizione di competenze, l’una nazionale e l’altra dell’Unione, con oggetti e ambiti decisionali distinti»[52]; al contrario gli «atti preparatori» delle autorità domestiche sono da intendere come «atti interni di un procedimento dell’Unione» e sono il sostrato contenutistico della decisione rimessa all’istituzione europea[53].
In secondo luogo, e alla luce di quanto appena osservato, la collaborazione ben differisce dal concetto limitrofo del coordinamento amministrativo[54]; il quale per definizione postula una molteplicità di interessi pubblici, intestati ad amministrazioni distinte[55], che in qualche misura vanno armonizzati[56].
La collaborazione poggia invece sulla comunanza delle funzione amministrativa e dunque dell’interesse pubblico curato dalle autorità coinvolte. Anche questa caratteristica si ricava dalla sentenza in commento che giustamente ha evidenziato che le «acquisizioni di partecipazioni qualificate in banche» presuppongono un «procedimento parimenti unitario»[57]; una «architettura procedimentale unitaria»[58]; una «procedura comune» per usare il lessico del legislatore dell’Unione[59].
Le due segnalate caratteristiche, seppur brevemente descritte, potrebbero aiutare a isolare la collaborazione come concetto giuridico dotato di specifica fisionomia e di propria autonomia nell’ambito della teoria generale dell’organizzazione amministrativa[60]; e potrebbero contribuire a superare l’obiezione, di certo autorevole, per cui «non è dato vedere in che cosa consisterebbe tale rapporto o figura organizzatoria; che ogni centro di riferimento di interessi pubblici debba collaborare con altri centri di riferimento, ogni volta che sia da curare l’interesse pubblico di cui è portatore, è norma di condotta che deriva dalla regola di canonizzazione degli interessi per ciascun centro di riferimento; ma ciò non dà luogo ad alcun rapporto organizzatorio» cui possa «riconoscersi propria fisionomia giuridica»[61].
8. Conclusioni.
In conclusione la sentenza annotata sembra confermare che il procedimento amministrativo non rileva solo per gli aspetti, di certo non marginali, dell’esercizio del pubblico potere e della tutela giurisdizionale. Talvolta esso serve anche a scopi organizzativi; e ciò accade tutte le volte in cui per legge si svolge al suo interno una relazione organizzativa tra figure soggettive autonome.
In tal caso le relazioni organizzative procedimentali consentono a più enti di collaborare all’interno di funzioni comuni; e la loro identificazione rappresenta un passo in avanti rispetto al dato di partenza, autorevolissimo e ancora attuale, per cui il «procedimento non si limita, infatti, a legare gli atti e i fatti in una serie progrediente verso un risultato finale, ma cuce dinamicamente soggetti (in senso ampio) e interessi, in una trama che è anzitutto organizzativa»[62].
Ma non è tutto.
La prospettiva organizzativa nell’analisi del procedimento amministrativo è stata inavvertitamente utilizzata dalla Cassazione anche per risolvere il problema del nesso tra giudicato nazionale e diritto dell’Unione che è emerso nel caso sottoposto alla sua attenzione[63].
Il problema si è posto perché – come si è visto – la Fininvest S.p.A. ha lamentato che la sentenza definitiva del Consiglio di Stato n. 882/2016 avesse già statuito sul suo legittimo possesso di azioni nella società finanziaria Mediolanum S.p.A.; tale per cui la nuova procedura autorizzativa, avviata sul medesimo oggetto dalla Banca d’Italia dopo l’incorporazione della società finanziaria in Banca Mediolanum, si doveva considerare elusiva del giudicato interno e dunque sanzionabile col rimedio dell’ottemperanza[64].
La Cassazione ha sbrigato la questione – premettendo che essa è «ancora al centro di un ampio dibattito»[65] – in due mosse senza indulgere in considerazioni più ampie del caso deciso.
Anzitutto ha fatto leva sulla diversità dei provvedimenti adottati nel tempo dalla Banca d’Italia. La Cassazione ha infatti precisato che l’originario provvedimento annullato dalla sentenza definitiva n. 882/2016 verteva sulla «necessità di dismettere la partecipazione qualificata di Fininvest nella SPFM Mediolanum s.p.a.»; mentre il successivo atto è conseguito alla «incorporazione – per fusione inversa – della SPFM Mediolanum nella controllata Banca Mediolanum, da cui il conseguente possesso da parte di Fininvest, e quindi da parte di B., della partecipazione diretta, qualificata, nella mentovata banca»[66]. Essendo due atti oggettivamente dissimili mancherebbe consequenzialità tra il provvedimento annullato dalla sentenza del Consiglio di Stato e il successivo atto amministrativo che, a detta dei ricorrenti, ne avrebbe riprodotto elusivamente il contenuto dispositivo.
In secondo luogo ha enfatizzato la specifica competenza intestata alla Banca d’Italia nel procedimento per controllare gli assetti proprietari nelle banche; ed è qui che si è avvalsa, inconsapevolmente, della prospettiva organizzativa nello studio del procedimento amministrativo.
La Cassazione ha infatti la ricordato che il ruolo ausiliario delle autorità nazionali – che si concreta nel formulare una proposta non definitiva né vincolante all’autorità europea – importa che i suoi atti siano da considerare «intermedi» rispetto alla decisione finale della Banca centrale europea[67]. Quest’ultimo è il solo provvedimento che viene in esistenza all’esito della procedura autorizzativa; ed è l’unico soggetto, in quanto tale, al sindacato giurisdizionale della Corte di giustizia[68]. Dinanzi a tale barriera – che attinge il versante del riparto di competenza tra gli Stati membri e le istituzioni europee – l’autorità del giudicato interno deve cedere il passo alla superiorità del diritto dell’Unione; il quale «non conosce ostacoli nel diritto nazionale quando vengano in considerazione le regole comunitarie inderogabili in tema di competenza decisionale»[69].
Senza dubbio quest’ultimo è il nodo più intricato dell’intera vicenda decisa dalla Cassazione; e non è un caso che sia stato affrontato solo marginalmente dalla sentenza annotata. Sul rapporto tra giudicato interno e diritto sovranazionale non è ancora calata l’ultima parola e solo il tempo dirà se su questo fronte la partita è ancora aperta o è conclusa.
[1] Così G. Greco, L’incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi nazionali, in M.P. Chiti – G. Greco (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte generale, II, Milano, 2007, 978.
[2] Così C. Franchini, Amministrazione italiana e amministrazione comunitaria. La coamministrazione nei settori di interesse comunitario, Padova, 1993, 218.
[3] Causa T-913/16.
[4] Punto 43 della motivazione in diritto della sentenza.
[5] Punto 48 della motivazione in diritto della sentenza.
[6] Punto 57 della motivazione in diritto della sentenza.
[7] Punto XV della motivazione in diritto della sentenza.
[8] In tema, tra i molteplici contributi, si rinvia a M.P. Chiti, I procedimenti composti nel diritto comunitario e nel diritto interno, in Attività amministrativa e tutela degli interessati. L’influenza del diritto comunitario, Torino, 1997, 55 ss.; R. Caranta, Coordinamento e divisione dei compiti tra Corte di giustizia delle comunità europee e giudici nazionali nelle ipotesi di coamministrazione: il caso dei prodotti modificati geneticamente, in Riv. it. dir. pubbl. com., 6, 2000, 1133 ss.; G. della Cananea, I procedimenti amministrativi composti dell’Unione europea, in F. Bignami – S. Cassese (a cura di), Il procedimento amministrativo nel diritto europeo, Milano, 2004, 307 ss: D.U. Galetta, L’influenza del diritto dell’Unione europea, in M.R. Spasiano – D. Corletto, M. Gola – D.U. Galetta – A. Police – C. Cacciavillani (a cura di), La pubblica amministrazione e il suo diritto, Milano, 2012, 61 ss.; M. Eliantonio, Judicial Review in an Integrated Administration: the Case of ‘Composite Procedures’, in Review of European Administrative Law, 2, 2014, 65 ss.; S. Del Gatto, Procedimenti composti e competenza del giudice europeo, in Giorn. dir. amm., 4, 2021, 493 ss.
[9] È chiarissima la sentenza C- 219/17 del 19 dicembre 2018 della Corte di giustizia dell’Unione europea, punti da 42 a 46: è «opportuno ricordare che l’articolo 263 TFUE conferisce alla Corte di giustizia dell’Unione europea la competenza esclusiva al controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni dell’Unione, fra cui è compresa la BCE. L’eventuale coinvolgimento delle autorità nazionali nel procedimento che conduce all’adozione di tali atti non può mettere in dubbio la qualificazione dei medesimi come atti dell’Unione, quando gli atti adottati dalle autorità nazionali sono tappa di un procedimento nel quale un’istituzione dell’Unione esercita, da sola, il potere decisionale finale senza essere vincolata agli atti preparatori o alle proposte avanzate dalle autorità nazionali (v., in tal senso, sentenza del 18 dicembre 2007, Svezia/Commissione, C 64/05 P, EU:C:2007:802, punti 93 e 94). Infatti, in un tal caso di specie, in cui il diritto dell’Unione non intende instaurare una ripartizione di competenze, l’una nazionale, l’altra dell’Unione, che avrebbero oggetti distinti, bensì consacrare, tutt’al contrario, il potere decisionale esclusivo di un’istituzione dell’Unione, spetta al giudice dell’Unione, a titolo della sua competenza esclusiva al controllo di legittimità sugli atti dell’Unione ai sensi dell’articolo 263 TFUE (v., per analogia, sentenza del 22 ottobre 1987, Foto-Frost, 314/85, EU:C:1987:452, punto 17), statuire sulla legittimità della decisione finale adottata dall’istituzione dell’Unione di cui trattasi ed esaminare, affinché sia garantita una tutela giurisdizionale effettiva agli interessati, gli eventuali vizi degli atti preparatori o delle proposte provenienti dalle autorità nazionali di natura tale da inficiare la validità di detta decisione finale. Ciò premesso, un atto emanato da un’autorità nazionale che si inserisca nell’ambito di un processo decisionale dell’Unione non rientra nella competenza esclusiva del giudice dell’Unione se dalla ripartizione delle competenze, nella materia considerata, fra le autorità nazionali e le istituzioni dell’Unione emerge che l’atto emanato dall’autorità nazionale è tappa necessaria di un procedimento di adozione di un atto dell’Unione in cui le istituzioni dell’Unione dispongono solo di un margine discrezionale limitato, se non nullo, tale che l’atto nazionale vincoli l’istituzione dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 3 dicembre 1992, Oleificio Borelli/Commissione, C 97/91, EU:C:1992:491, punti 9 e 10). È allora compito degli organi giurisdizionali nazionali conoscere delle irregolarità da cui un tale atto nazionale sia eventualmente viziato, se necessario previo rinvio pregiudiziale alla Corte, secondo le medesime modalità di controllo applicabili a qualsiasi atto definitivo che, emanato dalla stessa autorità nazionale, possa arrecare pregiudizio a terzi».
[10] Così TAR Lazio – sede di Roma, Sez. I, 2 novembre 2021, n. 11134, punto 2 della parte motiva in diritto che richiama le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione del 3 dicembre 1992, in causa C-97/91 (Oleificio Borelli) e del 9 marzo 1994, in causa C-188/92 (Textilwerke).
[11] Punto XVI della motivazione in diritto.
[12] Lo ricorda M.P. Chiti, I procedimenti amministrativi composti e l’effettività della tutela giurisdizionale, in Giorn. dir. amm., 2, 2019, 193.
[13] Su cui si veda ampiamente il contributo di M. Gnes, Il meccanismo di vigilanza prudenziale. Le procedure di vigilanza, in M.P. Chiti - V. Santoro (a cura di), L’unione bancaria europea, Pisa, 2016, 256.
[14] Art. 15, par. 1 del regolamento n. 1024/2013: la «notifica di acquisizione di una partecipazione qualificata in un ente creditizio stabilito in uno Stato membro partecipante ovvero ogni informazione connessa è presentata alle autorità nazionali competenti dello Stato membro nel quale è stabilito l’ente creditizio»; art. 85, par. 1 del regolamento n. 468/2014: una «ANC che riceve una notifica dell’intenzione di acquisire una partecipazione qualificata in un ente creditizio insediato nello Stato membro partecipante, comunica alla BCE tale notifica non oltre cinque giorni lavorativi successivi alla comunicazione di aver ricevuto la notifica».
[15] Art. 86, par. 1 del regolamento n. 468/2014: la «ANC cui è notificata l’intenzione di acquisire una partecipazione qualificata in un ente creditizio valuta se la potenziale acquisizione soddisfa tutte le condizioni stabilite dal pertinente diritto dell’Unione e nazionale. A seguito di tale valutazione, l’ANC predispone un progetto di decisione con cui propone alla BCE di opporsi o non opporsi all’acquisizione».
[16] Art. 15, par. 2 del regolamento n. 1024/2013: la «BCE decide se vietare l’acquisizione sulla base dei criteri di valutazione stabiliti dal pertinente diritto dell’Unione».
[17] Art. 87 del regolamento n. 468/2014: la «BCE decide se opporsi o non opporsi all’acquisizione sulla base della propria valutazione della proposta di acquisizione e del progetto di decisione dell’ANC».
[18] Punto 55 della motivazione in diritto della sentenza che riprende le conclusioni dell’Avvocato Generale del 27 giugno 2018 che qualifica il ruolo delle autorità nazionali come «preparatorio, meramente ausiliario» (punto 109).
[19] Così M.S. Giannini, Diritto amministrativo, I, Milano, 1993, 317.
[20] La citazione riportata nel testo è di F. Benvenuti, L’amministrazione indiretta, in Amm. civ., I, 1961, 175.
[21] Così G. Ferrari, Gli organi ausiliari, Milano, 1956, 123.
[22] Così R. Resta, Gli enti ausiliari dello Stato, in Riv. dir. pubbl., I, 1939, 689: «ente ausiliare, infatti, significa ente che agisce sussidiariamente rispetto a uno scopo, per cui agisce in via principale un altro ente; ente che, con la propria azione, porta ausilio ad un altro ente; il cui scopo, in altre parole, è utilizzato come mezzo da un altro ente».
[23] Si tratta infatti di una «attività accessoria o, come con diversa qualifica, ma con identico significato è stato detto, di attività servente o strumentale» (così G. Ferrari, Gli organi ausiliari, cit., 344).
[24] Si veda F. Garri, In tema di delega, concessione e affidamento ad enti pubblici della progettazione ed esecuzione di opere pubbliche, in Riv. trim. dir. pubbl., 2, 1967, 424, per la precisazione che al soggetto ausiliario «competono poteri o compiti di natura complementare (comunque non decisionali) e di vario contenuto».
[25] Si è notato che in «tale rapporto l’esercizio di una potestà da parte di una figura soggettiva è assistito dall’esercizio di funzioni complementari e strumentali da parte dell’ufficio ausiliante. Le funzioni ausiliarie non hanno una loro autonoma configurabilità, nel senso che non trovano dispiegamento se non con un ruolo di assistenza e complemento rispetto alle potestà finalistiche esplicate dall’altra figura soggettiva; quest’ultime, tuttavia, non possono esplicarsi senza il sussidio delle attività ausilianti» (così S. Valentini, Figure, rapporti, modelli organizzatori. Lineamenti di teoria dell’organizzazione, in G. Santaniello (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, IV, 1996, 100).
[26] Art. 11, co. 2 della legge 24 marzo 2012, n. 27.
[27] Art. 11, co. 3 della legge 24 marzo 2012, n. 27.
[28] Art. 11, co. 6 della legge 24 marzo 2012, n. 27.
[29] Motivo per cui G. Ferrari, Gli organi ausiliari, cit., 126, ricorda che il termine ausiliarità indica «due distinte realtà, di cui una è caratterizzata e, meglio ancora, condizionata nella sua esistenza dall’altra, cui appunto viene riferita. Da ciò deriva che i due organi non possono ignorarsi ed agire ognuno per proprio conto, ma devono trovarsi in una certa relazione si può allora dire che altro elemento fondamentale va riconosciuto il rapporto collegante i due soggetti» (in questo stesso senso si esprime anche V. Bachelet, Profili giuridici dell’organizzazione amministrativa. Strutture tradizionali e tendenze nuove, Milano, 1965, 46).
[30] Sul punto si veda G. de’ Vergottini, Gli organi ausiliari, Parte seconda: L’organizzazione costituzionale, in G. Amato – A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1991, 497, che giustamente parla di attività «strumentali ma necessarie per un soddisfacente esercizio della funzione primaria».
[31] Molto spesso infatti, per espresse previsioni delle norme di legge, la «attività ausiliaria e quella ausiliante sono talmente intrecciate l’una con l’altra, da dar luogo a fattispecie complesse – evidentemente a complessità diseguale – nelle quali l’effetto tipico dell’atto ausiliato non si produce se non v’è l’atto ausiliante» (così ancora S. Valentini, Figure, rapporti, modelli organizzatori. Lineamenti di teoria dell’organizzazione, cit., 101).
[32] Rapporto di collaborazione che è «proprio della funzione ausiliaria» come nota ancora F. Garri, Ausiliarità della funzione di controllo della Corte dei conti, in Studi in memoria di Franco Piga, I, Milano, 1992, 420.
[33] Lo ricorda F. Benvenuti, Gli enti funzionali, Profili generali, in Archivio ISAP, I, 1962, 748: gli «enti ausiliari possono agire sulla base di una soggettività non soltanto formale ma anche sostanziale». Con ciò si vuole altrimenti dire che il «nesso costituito appunto dalla cooperazione prestata dall’un organo e dall’una attività all’altro organo ed all’altra attività si può legittimamente configurare e definire giuridicamente come rapporto di collaborazione pertinenziale o ausiliaria (e, quindi, in posizione collaterale o fiancheggiatrice, cioè autonoma), in quanto, mentre fa salva l’autonomia di struttura dell’ausiliario, coglie ed esprime la destinazione istituzionale di quest’ultimo a cooperare al più regolare esercizio della funzione del proprio principale ed assumendo ad oggetto della propria attività quello stesso su cui opera il principale» (così G. Ferrari, Gli organi ausiliari, cit., 290).
[34] Art. 15, par. 2 del regolamento 15 ottobre 2013, n. 1024.
[35] Art. 86, par. 1 del regolamento attuativo 16 aprile 2014, n. 468.
[36] Art. 15, par. 3 del regolamento 15 ottobre 2013, n. 1024.
[37] Art. 87, par. 2 del regolamento 16 aprile 2014, n. 468.
[38] Come ricorda F. Guarracino, Le “procedure” comuni nel meccanismo di vigilanza unico sugli enti creditizi: profili sostanziali e giurisdizionali, in Riv. trim. dir. econ., 4, 2014, 275, sul «piano strutturale, ciò comporta che la procedura di valutazione prudenziale delle acquisizioni e cessioni di partecipazioni qualificate negli enti creditizi si compone sempre di due segmenti, che corrispondono l’uno al procedimento iniziale condotto dall’autorità domestica, che si conclude con l’atto strumentale contenente la proposta alla BCE, l’altro al procedimento propriamente decisorio svolto presso quest’ultima, che si conclude col provvedimento finale con il quale la BCE decide se vietare o meno l’operazione»; ne emerge la «natura bifasica anche della procedura in questione, la quale, nonostante la competenza per l’emanazione del provvedimento finale spetti esclusivamente alla BCE, necessita sempre della cooperazione dell’ANC di riferimento (destinataria della notifica delle intenzioni di acquisire una partecipazione qualificata in un ente creditizio, responsabile dell’istruttoria e autorità proponente)».
[39] Aspetto chiarissimo in F. Levi, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 409: «di massima, pare da presumere che l’organo o l’ente chiamato a prendere parte al procedimento debba dare una collaborazione effettiva: non per nulla, se gli usi linguistici hanno un significato, si è introdotta l’espressione «organo ausiliario». La collaborazione, quindi, per quanto concerne l’istruttoria, non può concretarsi che nella rappresentazione di fatti attinenti alla fattispecie o nel giudizio tecnico o valutativo su fatti già acquisiti od in questi due momenti insieme»; risulta ad ogni modo che «taluni atti preparatori hanno la funzione di rappresentare, per l’autorità deliberante, dei fatti, tecnicamente elaborati». Sul punto si veda anche M.T. Serra, Contributo ad uno studio sulla istruttoria del procedimento amministrativo, Milano, 1991, 442, che pone l’accento sul profilo della «deconcentrazione di compiti istruttori» così da assicurare una «articolazione soggettiva in senso pluralistico del procedimento».
[40] Così G. Berti, La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova, 1968, 12 (su cui da ultimo G. Sala, A cinquant’anni dalla pubblicazione della Pubblica amministrazione come organizzazione: dal mutamento di paradigma nello studio dei fenomeni organizzativi, in P.A. Persona e Amministrazione, 2, 2018, 511 ss.); ma già M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966, 124, aveva avuto modo di precisare che il «procedimento amministrativo, da un parte, è attività, o forma di attività, dall’altra ed insieme è coordinazione (azione coordinata) di uffici (cioè, di competenze, d’interessi), quindi organizzazione».
[41] Così S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, Torino, 1989, 224.
[42] Il rilievo è di G. della Cananea, I procedimenti amministrativi dell’Unione europea, in M.P. Chiti – G. Greco (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte generale, I, cit., 508.
[43] Essendo il procedimento la prospettiva dinamica dell’organizzazione esso implica appunto il problema non secondario di «stabilire quali apparati organizzativi ed in quali momenti devono intervenire» (così D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Bologna, 2000, 282).
[44] Quando, cioè, si ha un procedimento che risulta dalla «azione coordinata di un insieme di figure soggettive, nello svolgimento di una pluralità di poteri e funzioni verso un risultato unitario» (così D. D’Orsogna, contributo allo studio dell’operazione amministrativa, Napoli, 2005, 255); in cui vi sono «raccordi funzionali tra amministrazioni destinati a regolare una intera vicenda amministrativa» (così G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, 1996, 364).
[45] Il punto è colto incidentalmente anche da M. Trimarchi, Premesse sistematiche sulle relazioni organizzative, in P.A. Persona e Amministrazione, 1, 2021, 254, quando rileva che occorre da un lato considerare che la «attività amministrativa assume rilievo interstrutturale sempre in ragione di una norma di organizzazione»; ma che dall’altro bisogna «distinguere quella parte di essa che si compie all’interno di una relazione organizzativa da quella che si colloca all’esterno».
[46] Punto XIII della motivazione in diritto (nostri i corsivi nel testo); con la conseguenza che «trattandosi del potere di un’istituzione dell’Unione, sull’esercizio di esso grava la competenza esclusiva del giudice dell’Unione dal punto di vista del controllo di legittimità di tutti gli atti, pure intermedi o preparatori, e pure in applicazione della legislazione nazionale ove il diritto dell’Unione riconosca differenti opzioni normative agli Stati membri; cosa che esclude ogni competenza giurisdizionale nazionale in controversie relative alla sorte degli atti del medesimo procedimento, anche ove ne sia fatta valere la contrarietà a un giudicato nazionale nel contesto della giurisdizione di ottemperanza» (punto XVI della motivazione in diritto).
[47] Punto IX della motivazione in diritto.
[48] Punto 48 della motivazione in diritto.
[49] Sia consentito rinviare alle considerazioni espresse in F. D’Angelo, I modelli organizzativi e la coamministrazione, in R. Cavallo Perin – A. Police – F. Saitta (a cura di), L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni tra Stato nazionale e integrazione europea, Firenze, 2016, 547 ss.; cenni anche in W. Giulietti, Tecnica e politica nelle decisioni amministrative “composte”, in Dir. amm., 2, 2017, 368 ss.
[50] Per una conferma indiretta si confronti anche M. Monteduro, L’organizzazione amministrativa: riflessioni sul pensiero di Domenico Sorace, in P.A. Persona e Amministrazione, 1, 2020, 557.
[51] Che, come ricorda nel suo lavoro monografico F.G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979, 254, corrisponde al momento in cui l’amministrazione determina il contenuto dispositivo della sua futura decisione.
[52] Punto XI della motivazione in diritto.
[53] Punto XV della motivazione in diritto.
[54] La vicinanza delle due nozioni è sottolineata di recente da A. Police, Enti Pubblici di Ricerca ed Università: le persistenti ragioni di una differenziazione e le indifferibili esigenze di uno sforzo comune, in Nuove Autonomie, 1, 2021, 72, per il quale si tratta di «cose diverse ovviamente, ma animate dallo stesso spirito, cioè dall’esigenza di instaurare una relazione costruttiva» tra enti.
[55] Lo ricorda M.S. Giannini, Intervento, in Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali, Milano, 1961, 114, per il quale se le «istanze non sono indipendenti non si ha coordinamento»; analogamente si esprime Bachelet, Coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 631, per cui il coordinamento amministrativo «viene in rilievo quando ci si trova di fronte a una pluralità di attività e di soggetti (o di figure soggettive) di cui l’ordinamento riconosce una qualche autonoma individualità, pur disponendone la armonizzazione» reciproca; infine si veda G. Timsit, Il concetto di coordinamento amministrativo, in Problemi di amministrazione pubblica, 4, Bologna, 1976, 36.
[56] Lo sostengono A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Milano, 1963, 116: il coordinamento è la «attività che un soggetto, od un ufficio, svolge per conseguire una armonizzazione di attività, cioè eliminazione di discrepanze e di risultati confliggenti, riferibili sempre a soggetti diversi dall’ufficio coordinatore, dotati di poteri – in senso generico – di decisione, non vincolati in una organizzazione gerarchica che li ponga alle dipendenze dell’ufficio coordinatore, dei quali si vuole conservare questa produzione e i correlativi caratteri che improntano l’attività dei soggetti o uffici, pur subordinandola a fini comuni»; U. Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 331: è «attraverso il coordinamento che, mentre si assicura la realizzazione delle cause proprie delle singole attività, si impedisce a queste di isolarsi in se stesse»; G. Marongiu, Gerarchia amministrativa, in Enc. dir., XVIII, 1969, 623: il coordinamento amministrativo serve a «contemperare l’esigenza di mantenere l’unità di indirizzo delle figure organizzative complesse ed insieme salvaguardare la posizione di sostanziale autonomia degli uffici agenti»; L. Orlando, Contributo allo studio del coordinamento amministrativo, Milano, 1974,99: l’essenza del coordinamento è la compresenza di una «pluralità di autonomi centri decisionali»; C.E. Gallo, Osservazioni sul coordinamento amministrativo, in Foro amm., I, 1977, 1644: il coordinamento permette di «realizzare l’armonizzazione di realtà autonome»; V. Cocozza, Autonomia finanziaria regionale e coordinamento, Napoli, 1979, 26: nel coordinamento «assume particolare rilievo l’autonomia dei soggetti o degli organi ai quali il coordinamento è rivolto».
[57] Punto XV della motivazione in diritto.
[58] Ivi.
[59] Così il regolamento n. 468/2014, parte V.
[60] Gli unici due tentativi monografici di teorizzare la nozione si devono finora a G. Bazoli, La collaborazione nell’attività amministrativa, Padova, 1964, 73 ss. e a L. Arcidiacono, Organizzazione pluralistica e strumenti di collegamento. Profili dogmatici, Milano, 1974, 91 ss.
[61] Così M.S. Giannini, Diritto amministrativo, I, cit., 32.
[62] Così M. Nigro, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in Riv. dir. proc., 2, 1980, 273: il «valore primario del procedimento – in assoluto e nel rapporto con la tutela giurisdizionale – sia un valore organizzativo. Il procedimento appartiene al mondo dell’organizzazione, non al mondo dell’atto, e nemmeno, in generale, dell’attività amministrativa. Il procedimento non si limita, infatti, a legare gli atti e i fatti in una serie progrediente verso un risultato finale, ma cuce dinamicamente soggetti (in senso ampio) e interessi, in una trama che è anzitutto organizzativa»; come «qualunque struttura organizzativa, il procedimento è sede di emersione e comparazione (o conflitto) di interessi; e la sua importanza non sta nel risultato che attinge, ma proprio nel suo «farsi», nel suo creare organizzazione».
[63] In tema si veda A. Sandulli, Giudicato amministrativo nazionale e sentenza sovranazionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 4, 2018, 1169 ss.
[64] L’argomento utilizzato dai ricorrenti si è fondato infatti sulla possibile analogia di contenuto dei due atti (punti I e XII della motivazione in diritto); col secondo che, riproducendo gli stessi vizi del primo già annullato in via definitiva, radicherebbe la giurisdizione del Consiglio di Stato quale giudice dell’ottemperanza al giudicato eluso dall’autorità amministrativa.
[65] Punto XIV della motivazione in diritto.
[66] Punto VI della motivazione in diritto.
[67] Punto XIII della motivazione in diritto.
[68] Con conseguente «inammissibilità della traduzione dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, qualunque ne sia lo strumento, di competenze inderogabilmente riservate dal diritto comunitario agli organi della UE» (punto XIV della motivazione in diritto).
[69] Ivi.
Ragionevole previsione di condanna e giustizia predittiva: una modesta proposta per la riforma dell’art.425 c.p.p.
di Cataldo Intrieri e Luigi Viola
“È un dovere di trasparenza verso i cittadini
comunicare in maniera chiara i dati
che alimentano certe decisioni
e il loro impatto qualitativo e quantitativo;
è un dovere verso i cittadini
e un impegno di democrazia,
che nel tempo rinsalda
la fiducia reciproca
tra istituzioni e cittadinanza:
la fiducia, un bene
di cui c’è immenso bisogno.”
(Marta Cartabia)
Ridurre i tempi del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e alleggerirne il carico individuando possibili alternative al processo e alla pena carceraria. Queste, in estrema sintesi, le macro-direttrici di fondo dell’articolata riforma. Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. La presente riflessione vuole essere una prima sintesi sui possibili impieghi della giustizia predittiva proprio in funzione di un’utile riforma dell’udienza preliminare, giacché il senso di una “ragionevole previsione” porta con sé un criterio di valutazione necessariamente probabilistico, legato al criterio del “più probabile che non” come parametro di giudizio preliminare a fronte dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” del giudizio propriamente definitivo del merito.
Sommario: 1. Introduzione - 2. La “nuova” udienza preliminare - 3. Ragionevolezza e logica - 4. Ragionamento e condanna - 5. Previsione - 6. Giustizia predittiva induttiva - 7. Giustizia predittiva deduttiva - 8. Esempi concreti - 9. Conclusioni.
1. Introduzione
Il filo rosso che attraversa i vari punti della riforma Cartabia sul processo penale è rappresentato dalla riduzione del tempi della giustizia; un obiettivo che la riforma persegue non solo incidendo sulle norme del processo penale, ma anche con interventi sul sistema penale – come quelli relativi alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, e alle sanzioni (rectius, pene) sostitutive delle pene detentive brevi – capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale. Anche le previsioni in tema di giustizia riparativa condividono la medesima finalità, che accomuna anche le disposizioni civilistiche in tema di mediazione e modalità alternative di soluzione dei conflitti, oggetto del parallelo disegno di legge di riforma del processo civile.
Ridurre i tempi del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e alleggerirne il carico individuando possibili alternative al processo e alla pena carceraria. Queste, in estrema sintesi, le macro-direttrici di fondo dell’articolata riforma.
Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipesa il funzionamento efficiente della nuova procedura.
La realtà è stata ben diversa e tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere si è ridotta a ben poca cosa.
Ha impedito sino ad oggi una diversa e migliore destinazione il timore radicato della introduzione di una sorta di quarto grado di giudizio che tuttavia ha finito per deresponsabilizzare il Gup inducendo ad una gestione pigra e burocratica, quanto sostanzialmente inutile dell’istituto.
La legge delega sulla riforma del codice di procedura penale tra le molte ambizioni nutre anche quella di ridisegnare l’udienza preliminare, ancorando il rinvio a giudizio al concetto di “ragionevole previsione della condanna”.
La formula evoca uno dei grandi e più discussi temi della modernità: il modello algoritmico della giustizia predittiva.
Sino ad oggi il dibattito è rimasto confinato alla materia civilistica ma il diffondersi della “cultura del precedente” e dell’interpretazione come fonte del diritto impone una riflessione anche nel campo del diritto penale, superando vecchie preclusioni.
Lo impone essenzialmente un concetto che è entrato a far parte del lessico giuridico negli ultimi anni come essenza di un nuovo principio di stretta legalità: la prevedibilità dell’interpretazione della norma.
La presente riflessione vuole essere una prima sintesi sui possibili impieghi della giustizia predittiva proprio in funzione di un utile riforma dell’udienza preliminare, giacché il senso di una “ragionevole previsione” porta con sé un criterio di valutazione necessariamente probabilistico, legato al criterio del “più probabile che non” come parametro di giudizio preliminare a fronte dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” del giudizio propriamente definitivo del merito.
2. La “nuova” udienza preliminare
La riforma Cartabia prevede sul versante penale, all’art. 1 comma 9 lett. m) della legge delega, di modificare:
“la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.
Viene creato un sistema alternativo condizionato:
- se gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna, allora il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere;
- se gli elementi acquisiti consentono una ragionevole previsione di condanna, allora il giudice deve pronunciare sentenza di luogo a procedere.
L’alternativa è condizionata dalla presenza di una “ragionevole previsione di condanna”.
Si pone, però, un problema interpretativo: come va intesa la ragionevole previsione di condanna? E soprattutto: come si può prevedere ragionevolmente una condanna?
La domanda è legittima visto che si tratta di prevedere ex ante quello che accadrà in futuro.
Invero va rilevato che l’inciso “ragionevole previsione di condanna” è similare all’inciso “ragionevole probabilità di essere accolta” di cui all’art. 348 bis c.p.c.; quest’ultima è stata letta dalla giurisprudenza[1] nel senso di non manifesta infondatezza.
Tuttavia, tale similitudine normativa non può implicare anche un significato equivalente per la ragione che le regole interpretative utilizzabili nel diritto civile di cui all’art. 12 preleggi non sono estensibili anche al diritto penale ex art. 14 preleggi.
3. Ragionevolezza e logica
La ragionevolezza riguarda l’obbligo di decidere in modo razionale; ciò che è razionale è logico e la logica obbedisce a tre principi:
- identità secondo cui[2] ogni cosa è uguale a sé stessa (A=A), id est una cosa non può essere nello stesso tempo A e non-A;
- non contraddizione secondo cui data una o più premessa, la conseguenza che ne deriva non può essere in contraddizione;
- tertium non datur secondo cui dato un sistema dicotomico la proprosizione è vera oppure falsa (p e ¬p) non essendo concepibili altre ipotesi.
La previsione di condanna, di cui al nuovo art. 425 comma 3, dovrebbe allinearsi a detti principi per essere razionale.
4. Ragionamento e condanna
Si può dire che il provvedimento giudiziario procede alla sussunzione del fatto nel diritto
PG : F ---> D (letto come il provvedimento giudiziario manda il fatto nel diritto[3]).
Eppure fatto e diritto sono semplificazioni perché:
- il primo rileva nel processo solo in quanto provato, per cui per fatto deve intendersi solo quello provato;
- il secondo esiste per come viene interpretato, per cui per diritto deve intendersi l’interpretazione
Poniamo il seguente esempio:
Tizio prende a schiaffi Caio, cagionandogli lesioni: questo è un fatto F.
Per farne derivare una condanna, tale fatto dovrà essere provato in sede giudiziaria, ottenendo in concreto un provvedimento (sentenza) verso Tizio di condanna per lesione ex art. 582 c.p.
Il giudice scriverà il provvedimento giudiziario PG con cui, accertato il fatto F, lo manderà nell’art. 582 c.p. che è il diritto D.
Quanto appena esposto è in linea con il sillogismo aritotelico, che anima la decisione del giudice: per ottenersi una sentenza PG, bisogna mandare la premessa minore, che è appunto il fatto F, nella premessa maggiore che è la legge D.
5. Previsione
Ciò precisato, il nuovo art. 425 comma 3 c.p.p. menziona la “previsione”; come è possibile prevedere una condanna?
La prevedibilità si basa solitamente sull’analisi delle serie storiche[4], sul presupposto che ciò che è accaduto in passato potrebbe accadere in futuro.
La materia oggi è ampiamente studiata con il nome di Giustizia predittiva: questa riguarda la possibilità di prevedere l’esito di sentenze[5], attraverso calcoli matematici e nuove tecnologie.
Diverse Corti di Appello se ne stanno occupando (Bari è stata la prima, a cui si sono aggiunte Brescia, Venezia, Genova ed altre).
Sono utilizzabili due modelli:
- uno induttivo, basato principalmente sulla giurisprudenza precedente;
- l’altro deduttivo, basato principalmente sull’applicazione della legge.
6. Giustizia predittiva induttiva
Il tema della giustizia predittiva viene oggi sviluppato, in misura prevalente, seguendo un’impostazione statistica-giurisprudenziale: si verificano i precedenti giurisprudenziali ed in base a questi si prevedono le decisioni future.
Esemplificativamente: se dieci sentenze su cento precedenti dicono che nel caso x si applica y, allora ci sarà il 10% di possibilità che in futuro il giudice a parità di fatto x si orienterà su y.
6.1. Criticità
L’impostazione di giustizia predittiva induttiva presenta alcune criticità:
- l’impostazione basata su meri calcoli statistici dei precedenti giurisprudenziali ha una portata limitata ai soli casi in cui ci siano numerosi precedenti, così da escludersi i casi più complessi relativi alle novità normative, non ancora oggetto di stratificati orientamenti giurisprudenziali;
-non è in linea con il nostro sistema che è di civil law e non common law, con la conseguenza che qualsiasi giudice può legittimamente discostarsi da un precedente;
- vi è un alto rischio di fallacia in quanto la ripetizione dell’errore non diviene correttezza, in ambito scientifico; se, esemplificativamente, un errore giurisprudenziale è ripetuto tante volte, non diviene, per ciò solo, non errore; dunque, se una sentenza è errata, allora vi è il rischio che venga seguita solo perché precedente[6] giurisprudenziale;
- altresì vi sarebbe il rischio di standardizzazione; difatti, se si ritiene che una causa abbia un basso livello di successo perché contraria a molti precedenti[7], allora nessuno proporrà tale causa, con la conseguenza di frustrare la spinta naturalistica all’evoluzione del diritto;
- la predizione di una sentenza fallisce se si basa sui precedenti per la semplice ragione che questi, sotto il profilo numerico[8], non vengono tenuti conto nella decisione finale; ad esempio, in sede di decisione collegiale a Sezioni Unite, non assume rilevanza il numero di precedenti a favore o contro una soluzione, ma unicamente la correttezza degli argomenti esposti pro e contro.
6.2. L’esempio di Russell
L’impostazione induttiva è stata in passato criticata, anche per il tramite dell’esempio che segue.
Russell[9], per esempio, avvertiva del rischio dei modelli induttivi e poneva il seguente esempio: immaginate di essere un tacchino, che ogni giorno viene alimentato dal proprietario; ebbene, il tacchino penserà che in futuro verrà ancora alimentato e che il proprietario è buono, ma arriva il giorno del Ringraziamento ed il tacchino viene ucciso; il fatto narrato dimostra che la previsione c.d. induttiva, basata solo sui precedenti, è fisiologicamente fallace.
7. Giustizia predittiva deduttiva
Un altro modello di giustizia predittiva è quello di tipo deduttivo; questo appare tecnicamente più corretto in quanto si basa sull’applicazione della legge, che vale erga omnes, e non sull’applicazione del precedente giudiziario che è avvinto dai limiti del giudicato.
Il giudice, in un sistema di civil law come il nostro, è tenuto ad applicare la legge ex art. 101 Cost. e non il precedente giurisprudenziale (fatte pochissime eccezioni).
Applicare il sistema di giustizia predittiva deduttiva vuol dire prevedere come il giudice applicherà la legge alla luce della legge stessa, per il tramite della valorizzazione delle regole interpretative ex artt. 12-14 preleggi.
La differenza tra sistema deduttivo ed induttivo è significativa; a dimostrazione di ciò si pongono alcuni esempi.
Facciamo un esempio basato sul c.d. sillogismo aristotelico:
a) tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore); b) Socrate è un uomo (premessa minore); c) Socrate è mortale (conclusione).
La conclusione appena esposta si basa sul metodo deduttivo[10]; è priva di vizi logici; è in linea con il nostro sistema di civil law (regola – fatto - effetto ovvero sentenza).
Ora, restando sullo stesso esempio, proviamo ad invertire l’ordine:
a) Socrate è mortale (conclusione); b) Socrate è un uomo (premessa minore); c) tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore).
Quanto appena esposto si basa sul metodo induttivo; presenta almeno un vizio logico (c.d. fallacia) perché generalizza (premessa maggiore) partendo da una conclusione ed, infatti, che Socrate sia mortale e sia un uomo non implica necessariamente che tutti gli uomini siano mortali; tuttavia, è in linea con il sistema di common law (effetto ovvero sentenza – fatto – regola).
Facciamo un altro esempio:
a. La legge è uguale per tutti i cittadini di cui all’art. 3 Cost. (premessa maggiore)
b. Tizio e Caia sono cittadini (premessa minore)
c. Tizio e Caia sono uguali di fronte alla legge (conclusione).
Anche in questo caso si è utilizzato il metodo deduttivo, che è privo di vizi logici: la conclusione è la diretta conseguenza delle premesse.
Ora, di nuovo, restando sullo stesso esempio, proviamo ad invertire l’ordine (metodo induttivo):
a. Tizio e Caia sono uguali di fronte alla legge (conclusione);
b. Tizio e Caia sono cittadini (premessa minore)
c. La legge è uguale per tutti i cittadini (premessa maggiore).
Quanto appena detto è viziato (c.d. fallacia) perché generalizza singoli casi; infatti: che Tizio e Caia siano uguali di fronte alla legge, non implica necessariamente che tutti siano uguali di fronte la legge.
8. Esempi concreti
Poniamo il caso che segue.
Tizia guidava l’auto Y, trasportando il convivente da diversi anni Tizio; purtroppo, Tizia causava un incidente, investendo il passante Caio, che subiva gravi ferite e la perdita della gamba destra. Tizia scappava subito, omettendo ogni soccorso. Sopraggiunti i carabinieri, Tizio si dichiarava alla guida dell’auto Y, al fine di favorire la posizione di Tizia che aveva guidato senza patente, perché revocata, e non aveva prestato i soccorsi.
Ai fini dell’art. 425, comma 3, c.p.p., si pone il problema di capire se Tizio ha una “ragionevole probabilità di condanna” per favoreggiamento personale ex art. 378 c.p., oppure se questa non sussista in ragione dell’estensione al convivente della causa di non punibilità dell’art. 384 c.p.
Sul punto è intervenuta una recente pronuncia delle SU che ha innovato un radicato indirizzo che tendeva ad escludere l’equiparazione tra convivente e coniuge.[11]
Ora proviamo ad usare i metodi, induttivo e deduttivo, esposti:
- se applichiamo quello induttivo, allora bisognerà verificare quante sentenze (almeno nomofilattiche) in percentuale hanno applicato l’art. 384 c.p. in un caso simile; ammettendo che queste saranno in netta maggioranza in ragione del rilievo della sentenza delle SU allora “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”, così da doversi pronunciare sentenza di non luogo a procedere[12];
- se applichiamo quello deduttivo, più legato alla lettera della legge, allora si tenderebbe a negare l’applicabilità dell’art. 384 c.p., in quanto riferito al “prossimo congiunto” diversamente dal caso de quo dove appare un convivente; con la conseguenza che gli elementi acquisiti consentirebbero una ragionevole previsione di condanna, così da dover disporre il rinvio a giudizio.
In tal senso va ricordato che la Corte Costituzionale con più sentenze ha escluso ogni lesione dei profili di uguaglianza e proporzionalità nel diverso trattamento delle due situazioni di legame.[13]
Il ragionamento che impone una previsione è necessariamente probabilistico, tendenzialmente ancorato al criterio del più probabile che non secondo la formula P(c) > 50% (probabilità P di condanna C maggiore del 50%).In un caso del genere il giudice dell’udienza preliminare, nello spirito della nuova riforma, si troverà di fronte al dilemma se applicare la soluzione che a lui sembra più convincente ( che può non coincidere con la soluzione offerta ) o a quella più probabile.
La lettera della legge gli impone questo tipo di valutazione per cui il ricorso a strumenti statistici ed algoritmi fornirebbe il responso più rispondente all’impostazione del legislatore.
9. Conclusioni
In definitiva, si ritiene che - per correttamente utilizzare l’art. 425 comma 3 c.p.p., come novellato - sarà necessario utilizzare modelli di giustizia predittiva, cercando una sintesi tra quello deduttivo e quello induttivo.
Il tentativo di applicare criteri di calcolo matematico-frequenziali ai processi penali è risalente ed ha trovato, specie in Italia una insuperabile opposizione eloquentemente sintetizzata nel caposaldo della nota sentenza delle SU Franzese[14] che quest’anno festeggia il ventennale di una assoluta irremovibilità.
Non sono mancati invero coraggiosi tentativi di innovazione e di introduzione di ciò che viene definito “neo-bayanesimo “ giuridico in omaggio al noto teorema statistico.[15]
Correttamente è stato evidenziato come l’adozione di tale modello non risolverebbe in chiave di maggior certezza il tema di una decisione fatalmente legata a criteri di elevata probabilità. [16]
Eppure forse è tempo di superare vecchie preclusioni: una opportuna sintesi tra diverse visioni può essere la chiave di volta di una non più rinviabile riforma dell’udienza preliminare.
Nella recente relazione al Parlamento il Guardasigilli ha dato notizia dell’istituzione del “Dipartimento per la transizione digitale e statistica” affiancato al nuovo e ben noto Ufficio del Processo cui “saranno affidati, tra l’altro, la gestione dei processi e delle risorse connessi alle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della innovazione; la gestione della raccolta, organizzazione e analisi dei dati relativi a tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia”.
È significativo (e costituisce per chi scrive il miglior commento a questa riflessione) che il Ministro Cartabia sottolinei come “indispensabile, anche nel settore della giustizia, sviluppare politiche pubbliche fondate sul dato e sulla sua trasparenza e costantemente verificate sulla base dell’esperienza statisticamente elaborata. Partire dai dati è essenziale per scongiurare il rischio di interventi ad impronta emozionale, improvvisati e inadeguati ai bisogni e alla loro dimensione effettiva”.
[1] Si legge in Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 2.02.2016, n. 1914, in Giur. It., 2016, 6, 1371 con nota di CARRATTA che “Merita inoltre particolare attenzione l'art. 348 ter c.p.c., comma 1 laddove si precisa che l'ordinanza in questione non può essere pronunciata se non "fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello" e quando l'impugnazione non ha "una ragionevole probabilità di essere accolta", cosi chiaramente limitando l'ambito applicativo dell'ordinanza medesima a quello dell'impugnazione manifestamente infondata nel merito”.
[2] In voce Principio di identità, in Enciclopedia del Diritto Treccani, in Treccani.it, 2009.
[3] Sia consentito il rinvio a VIOLA, Valutazione delle prove secondo prudente apprezzamento, Milano, 2021, 41.
[4] In voce Prevedibilità, in Enciclopedia del Diritto Treccani, in Treccani.it, 2012.
[5] In voce Giustizia predittiva, in Enciclopedia del Diritto Treccani, in Treccani.it, 2012.
[6] Sono molto interessanti le osservazioni di VALITUTTI, Il valore vincolante del precedente di legittimità. La Corte di Cassazione tra nomofilachia e nomopoietica, in La Nuova procedura Civile, 6, 2017, secondo cui “il ruolo della Cassazione è anche nopoietico, ossia creativo, in quanto produce il diritto concreto, con aderenza allo specifico contesto fattuale e seguendo il mutamento della società e delle esigenze di tutela che si muovono nel fondo di essa, un diritto che troverà applicazione in una molteplicità indeterminata di casi, ma sempre nei limiti della norma, sia pure nella sua massima potenzialità espressiva ed applicativa”.
[7] Si legge in CURZIO, Il giudice ed il precedente, in Questione Giustizia, 2018, 4, 43, che “gli sviluppi normativi dell’ultimo decennio appaiono orientati ad incrementare il peso del precedente in generale e dei precedenti delle sezioni unite in particolare. Questo spostamento non giunge mai ad intaccare il principio della soggezione del giudice solo alla legge. Non si prevedono meccanismi di caducazione del provvedimento giudiziario emesso in contrasto con un precedente, neanche nel caso in cui il precedente sia della sezioni unite. Vengono garantiti il dissenso e l’evoluzione della giurisprudenza, la correzione, il ripensamento o l’innovazione dei suoi orientamenti. Ma dissenso e cambiamento devono seguire percorsi predeterminati dall’ordinamento; devono essere motivati e fondati su elementi idonei a giustificare il mutamento di indirizzo: elementi così convincenti da far prevalere le ragioni del cambiamento rispetto alla tutela dell’affidamento ed al diritto dei cittadini ad essere uguali dinanzi all’interpretazione della legge, ad avere un uguale trattamento giurisdizionale. Il bilanciamento e il contemperamento di questi valori, è rimesso dal legislatore alla giurisprudenza, da intendersi, qui più che mai, come prudenza dei giudici”.
[8] Va rilevato che “non è il numero dei consensi dati o negati a fondare la giustezza o meno di una tesi”; così Tribunale di Roma, sentenza del 20.12.2018, in La Nuova procedura Civile, 3, 2019.
[9] Bertrand RUSSELL, The Problems of Philosophy, 1912.
[10] Per approfondimenti sulle inferenze, si veda BELLOMO, Nuovo sistema del diritto civile, Bari, 2021, 41.
[11] S.U. Sent. 16 Marzo 21 n. 10381/21 dep. 20 Luglio 21
[12] Ragionamento analogo si potrebbe fare menzionando Cass. SS.UU. 10381/2021, con la precisazione che in tal caso la previsione non sarebbe “quantitativa pura” nel senso di basata solo sul numero di precedenti, ma “quantitativa ponderata” pesando in modo diverso una pronuncia a Sezioni Unite in quanto maggiormente persuasiva.
[13] Corte Cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009, «le due situazioni non differiscono soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, poichè, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria».
[14] Sezioni Unite 10 luglio 2002 nn.30328
[15] Trib. Milano sent.18 giugno 2015 Gip Gennari ,in J. Della Torre “Il teorema di Bayes fa capolino al tribunale di Milano”, Diritto Penale Contemporaneo.
[16] la principale e più nota obiezione prende le mosse dalla determinazione del grado di convincimento razionale sulla base della frequenza di un certo fenomeno all’interno di un sistema dato e preesistente. Questi dati frequenziali, anche detti prior probabilities (o base rate informations), costituiscono il fondamento imprescindibile del calcolo bayesiano. Ebbene, il teorema di Bayes offre rare applicazioni al di fuori delle «esercitazioni accademiche», in cui, ammessa e non concessa un’ideale completezza probatoria, le prior probabilities risultino determinabili efficacemente. La serie di domande per ricavare dati statistici potrebbero essere poi sostanzialmente “infinite” per cercare di affinare un dato statistico via via in condizioni più simili al caso concreto. Per altro, rimanendo entro le rare ipotesi in cui siano determinabili le prior probabilities, rimane comunque rischioso tentare di estrarre da un dato frequenziale informazioni che potrebbero facilmente risultare non rilevanti nel caso concreto o canalizzare il ragionamento probatorio entro pericolosi tunnel (anti)cognitivi. Si pensi al celebre caso giudiziario del «Blue Bus» (Smith v. Rapid Transit, Inc.)presentato da Tribe per screditare il ricorso alla cd. naked statistic evidence basata su prior probabilities irrilevanti al caso concreto. Anzitutto, conoscere che in una determinata città l’85% dei bus di colore blu è gestito dalla società A e che solo il restante 15% è gestito dalla società B, non consente ex se di individuare a quale compagnia appartenga il bus blu coinvolto in un incidente notturno. Al più, si può affermare che la frequenza con cui è possibile osservare un autobus blu appartenente ad A è tendenzialmente di 0,85, ma null’altro. Inoltre non è possibile trarre dal dato statistico conferme o smentite sull’attendibilità del testimone che dichiari di aver visto un autobus blu della compagnia B, perché senza ulteriori elementi non è possibile escludere ragionevolmente che abbia visto ciò che è meno frequente” C.Costanzi “La matematica del processo: oltre le colonne d’Ercole della giustizia penale” in Questione Giustizia vol.4/18
La giustizia, il potere e il senso di ingiustizia nell’opera verghiana. Riflessioni nel centenario della morte di Giovanni Verga
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Il fatalismo verghiano e la sfiducia verso le leggi di natura e degli uomini. – 2. Le Novelle rusticane: la condizione irreversibile degli umili e il senso di inesorabilità della giustizia nei personaggi verghiani. – 3. Il Ciclo dei vinti: l’impotenza degli esseri umani di fronte alla giustizia e l’accentuazione del fatalismo verghiano. – 4. L’ultimo Giovanni Verga: il prematuro silenzio narrativo e la riscoperta tardiva di uno dei padri del romanzo italiano.
1. Il fatalismo verghiano e la sfiducia verso le leggi di natura e degli uomini
Il 27 gennaio 2022 ricorre il centenario della morte di Giovanni Verga e queste mie brevi riflessioni[1] vogliono essere un piccolo contributo all’approfondimento dei temi della giustizia e del potere, tanto cari all’Autore etneo e non sempre approfonditi dai molti, pur esemplari, esegeti della sua opera.
Mi preme sottolineare che sono consapevole del fatto che confrontarsi coi testi verghiani, soprattutto per chi come me non ha una formazione squisitamente letteraria, è un atto di vanità di cui mi scuso sin d’ora; la ricorrenza del centenario tuttavia è stata per me – cresciuto nelle terre di Vita dei campi e delle Novelle rusticane, che dal Simeto si spingono sino all’area montana iblea, attraverso le province di Catania, Siracusa e Ragusa – una tentazione inesausta di perlustrare parte dei territori verghiani ancora vergini. Il cimento, dunque, è diretto verso àmbiti ignoti ma, proprio per questo, anche d’incerto approdo.
Compiute queste doverose premesse mi sembra opportuno evidenziare che le due tematiche della giustizia e del potere si presentano, nella concezione verghiana, intimamente connesse[2]. L’autore le indaga e le sviluppa in una cornice di crescente pessimismo esistenziale, impregnato di dolore e sostanzialmente diffidente innanzi ai meccanismi di sviluppo della società moderna. Le istituzioni statali sono intese come un gravame che schiaccia l’individuo e alimenta la competizione, soprattutto nei ceti più umili, determinando un mondo di Vinti, di cui le tragiche vicende de I Malavoglia e della famiglia Toscano sono una rappresentazione esemplare[3].
La stessa vita di Giovanni Verga[4], a ben vedere, è un’esemplare rappresentazione di questo senso di sfiducia verso il progresso e le istituzioni, tanto è vero che gli ultimi ventisette-ventotto anni della sua lunga esistenza fluirono in una sorta di consapevole e forzato isolamento. In questi, lunghi, anni, Verga si mosse nel piccolo spazio cittadino compreso tra il suo palazzo etneo di Via Sant’Anna e la sede del locale Circolo Unione, ubicata nella centralissima Via Etnea, essenzialmente impegnato nell’amministrazione delle sue proprietà terriere, che lo tennero lontano – complice anche una certa crisi vocazionale e alcuni assilli finanziari, pur risolti sul finire del diciannovesimo secolo – dal mondo letterario, anche quando le sue opere conobbero una meritata diffusione editoriale[5].
Quello che comunque è certo è che le realtà sociali descritte nelle opere di impronta verista sono governate da regole e da poteri, umani e naturali, ispirati a una sorta di cinico antagonismo. I soccombenti, ovviamente, peggiorano la loro condizione economica ed esistenziale, donde la loro sfiducia verso il progresso sociale dei ceti inferiori, inesorabilmente composti da soggetti vinti dalla «fiumana del progresso»[6].
I protagonisti di questa narrazione, invero, cercano di ribellarsi alla loro dolorosa condizione economica, ma non sempre vincono, perché l’esistenza umana e le leggi che la governano pongono gli individui in una condizione fatalisticamente di sfiducia verso il mondo e verso se stessi. E’ per questo che l’autore si sente costretto a parlare di “ciclo dei vinti”.
In quest’àmbito i personaggi verghiani diventano preda di un atteggiamento rinunciatario, che è, al contempo, esistenziale e istituzionale, oltre a essere il frutto della convinzione filosofica che né le leggi di natura né quelle umane, o meglio della classe ricca, consentono ai ceti sociali più umili di uscire dalla loro condizione di disagio e di prostrazione.
Tutto questo, del resto, è il riflesso delle più intime convinzioni di Verga, che riteneva le leggi naturali difficilmente modificabili e, di conseguenza, reputava inutile ogni tentativo di mutarle attraverso il richiamo al progresso e alla giustizia, capisaldi del positivismo[7]. Qualsiasi intervento sul corso naturale dell’economia, per tanto, ritenuto immodificabile, è inutile, come superflui appaiono i richiami agli ideali positivistici, primo fra tutti quello anzidetto di giustizia. Tutto ciò viene descritto con una tecnica nuova e originale, incentrata sull’impersonalità del racconto[8].
Verga, per esser più chiari, osserva che a dominare i meccanismi economici non sono i valori della giustizia, dell’uguaglianza e del progresso, ma i disvalori della prevaricazione, dell’interesse individuale e, in ultima analisi, del profitto. Ne deriva che il dominio di questi disvalori, di matrice sostanzialmente hobbesiana[9], si ripercuote sui meccanismi della giustizia che è patita, dai personaggi verghiani, come un male necessario. Si sottolinea che i disvalori sono ritenuti immutabili perché legati alla stessa natura umana. L’uomo, in altre parole, contiene l’impulso antagonistico, la tendenza alla sopraffazione e la tendenza al profitto, che condizionano gli uomini di potere e, di conseguenza, le leggi. L’intervento giudiziario, in questo contesto, non può non presentare due caratteri: quelli della permanenza e della stabilità e, allo stesso tempo, dell’inutilità[10].
I personaggi verghiani, invero, cercano di ribellarsi e di ricorrere alle istituzioni per essere tutelati, ma, in questo modo, peggiorano la loro condizione e precipitano nel degrado e nell’emarginazione. Questo è il mondo in cui si muovono i personaggi sfiduciati di Verga, che sono destinati alla sconfitta e che, nonostante tutto, mantengono una loro dignità, quasi eroica, che trae origine dalla loro forza d’animo che, a sua volta, è la conseguenza di una non totale rassegnazione con cui sopportano le avversità quotidiane, spesso senza inutili ribellioni e senza aiuti esterni.
La concezione verghiana dell’esistenza umana, quindi, è tragica, perché tragica è la vita degli uomini sottoposti a un destino impietoso e crudele, che li condanna, non solo all’infelicità, ma anche all’immobilismo sociale ed economico, da cui scaturisce il senso immanente di ingiustizia patito dai suoi indimenticabili protagonisti.
2. Le Novelle rusticane: la condizione irreversibile degli umili e il senso di inesorabilità della giustizia dei personaggi verghiani
Rispetto alle precedenti opere narrative le Novelle rusticane[11] si caratterizzano per una puntuale attenzione ai problemi sociali ed economici della Sicilia dell’Ottocento, con accentuazione pessimistica sui rapporti umani e l’assunzione di un ruolo centrale di quel senso immanente di ingiustizia proprio dei personaggi verghiani, su cui sono incentrate queste brevi riflessioni.
A dire il vero, Giovanni Verga si era già cimentato con la forma del racconto di impronta verista con la raccolta Vita dei campi[12], di ambientazione geo-sociale analoga alle successive Novelle rusticane, a cui si attribuisce tradizionalmente la sua svolta narrativa; tuttavia è indubbio che è solo con la pubblicazione de I Malavoglia e delle Novelle rusticane – che sono due opere sostanzialmente coeve, essendo pubblicate a distanza di un anno – che giunge a compimento quel percorso letterario che portò il nostro Autore alla piena maturità artistica e, per quello che ci interessa, fece esprimere quell’atteggiamento di ingiustizia immanente dei suoi personaggi, che è una delle cifre stilistiche verghiane più significative.
Com’è noto, le Novelle rusticane sono una raccolta di dodici racconti, ambientati nella vasta area della Piana di Catania – che, come si è detto, dal fiume Simeto si diparte fino ad arrivare alla zona montana iblea, attraversando le province di Catania, Siracusa e Ragusa –, pubblicati a distanza di un anno da I Malavoglia. Si tratta, in particolare, delle novelle intitolate Il Reverendo; Cos'è il Re; Don Licciu Papa; Il Mistero; Malaria; Gli orfani; La roba; Storia dell'asino di San Giuseppe; Pane nero; I galantuomini; Libertà; Di là del mare.
Il nucleo narrativo essenziale attorno al quale ruotano le Novelle è quello della “roba” ovvero del possesso materiale dei beni, che viene visto dai protagonisti dei racconti verghiani come l’unica possibilità di contrastare la miseria della condizione umana, che si caratterizza per una lotta di sopravvivenza, che rende inesausti gli individui, che – in linea con quanto Giovanni Verga aveva affermato ne I Malavoglia – vede solo vinti e nessun vincitore. Queste tematiche, però, sono affrontate con un approccio narrativo diverso sia rispetto a Vita dei campi sia rispetto a I malavoglia, caratterizzandosi i racconti verghiani “rusticani” per una particolare attenzione alle problematiche socio-economiche della Sicilia dell’epoca post-unitaria e da toni descrittivi decisamente più cupi, che, a ben vedere, sono quelli che caratterizzano il marcato pessimismo esistenziale di Mastro-don Gesualdo[13].
Nelle Novelle rusticane, inoltre, trovano prepotentemente spazio i temi della giustizia e del potere, che alimentano l’approccio pessimistico verghiano e ci fanno comprendere quale fosse il punto di vista del Maestro etneo rispetto a queste complesse tematiche, al contempo, istituzionali e socio-economiche.
Questi temi, in particolare, assumono una connotazione narrativa centrale nelle novelle intitolate Il reverendo, Don Licciu Papa e Libertà, alle quali vorrei dedicare qualche breve riflessione.
Il primo di questi racconti, Il reverendo, si incentra sulle descrizioni della resistenza ai cambiamenti istituzionali in corso nella Sicilia post-unitaria e dell’esercizio prevaricatore del potere da parte del ceto ecclesiastico. Il protagonista, in breve, attraverso complessi percorsi giudiziari, persegue la tutela dei propri interessi materiali che coincidono con la protezione della “roba” accumulata nel corso della vita.
La novella mette in evidenza l’ascesa sociale del protagonista – il reverendo appunto – che, partito da origini modeste, con un’abile strategia, si impone sui compaesani e, abusando del potere conquistato, accresce le proprie ricchezze. La scalata del reverendo, tra l’altro, viene consentita non solo dall’utilizzo degli strumenti giudiziari, ma anche dai suoi poteri sacramentali, di cui la confessione è lo strumento principe. Per moltiplicare il patrimonio il reverendo si avvale dei suoi rapporti collusivi con le autorità del posto. In particolare, afferma Verga, «egli era tutt’uno col giudice e col capitano d’armi e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi […]»[14].
Il secondo di questi racconti è intitolato Don Licciu Papa ed è una novella in cui, ancora una volta, campeggia il tema della giustizia, strumentale alla tutela “roba”. Vi si descrive la vicenda giudiziaria che coinvolge un pecoraio, Arcangelo, che si pone contro il protagonista, ancora una volta un parroco, finendo per essere schiacciato dal suo antagonista che – come nel caso de Il reverendo – è, al contempo, ecclesiastico e giudiziario.
In questo caso contro l’umile protagonista perseguitato dall’avido parroco si schierano non solo le leggi umane ma anche quelle divine, perché ad Arcangelo, a conferma della sua empietà e della sua, intrinseca, ingiustizia, andava male anche l’allevamento, perché chi si mette contro la volontà espressa del ministro di Dio, si mette contro Dio e dev’essere castigato. In un passaggio esemplare del racconto, Verga notava che ad Arcangelo «le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi d’inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava con la Chiesa» […]»[15].
Il terzo e più famoso dei racconti sulla giustizia delle Novelle rusticane è certamente Libertà, che è la storia di una rivolta contadina realmente avvenuta a Bronte nel 1860, nell’immediatezza dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, sedata con efferatezza da Nino Bixio. Introduce il tema dell’immobilismo politico-istituzionale del mondo isolano, sul quale, in epoche diverse, si sarebbero confrontati con esiti narrativi mirabili Federico De Roberto[16] e Giuseppe Tomasi di Lampedusa[17].
La storia di questa novella verghiana è nota e non occorre tornarci; quello che, invece, è indispensabile comprendere è che, anche in questo caso, la giustizia viene utilizzata per asservire gli interessi dei potenti e stroncare, secondo il loro volere, le iniziative popolari per non inquietare la borghesia italiana nel momento dell’unificazione nazionale.
In questa cornice, la parola “libertà” che dà il titolo alla novella è legata al fraintendimento del termine “giustizia” – inteso nella sua accezione di uguaglianza sociale – e fa trasparire la visione irrimediabilmente pessimistica del mondo di Verga, sullo sfondo dell’idea, anch’essa pessimistica, del funzionamento delle istituzioni giudiziarie. Esemplare, da questo punto di vista, è uno dei passaggi conclusivi della novella, in cui, con toni tragicomici, il Maestro etneo afferma: «Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore [...]. Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà! [...]»[18].
Da queste brevi ma spontanee espressioni che si formano, quasi con torpore, sulle labbra di una persona che sembra si stia appena svegliando da un lungo e profondo sonno, si ricava la visione sfiduciata che Giovanni Verga aveva della giustizia e dei suoi distratti rappresentanti[19], vissuta non solo come la critica tradizionale osserva, con rassegnazione, ma anche, che è ben più importante, con torpida meraviglia sotto la quale, forse, potrebbe riposare, giacere assopito, il démone della ribellione.
Gli ultimi della scala sociale si approcciano alle istituzioni giudiziarie con un atteggiamento fatalistico e sconsolato, avvertendo il mondo giurisdizionale come un destino inesorabile che sovrasta la popolazione, la quale, di fatto, non ne comprende i meccanismi di funzionamento né il significato più intimo. Ma più in là nel tempo, non sappiamo che potrebbe accadere. Di solito queste domande hanno una risposta dopo che una reazione è avvenuta. Diciamo che la rassegnazione la annota Verga, ma quel che si cela sotto di essa o quel che essa è capace di determinare quando l’uomo rassegnato avvampa non può saperlo né il vinto né tanto meno Verga. Il lettore non può andare oltre quel che vede.
Nella prospettiva delle Novelle rusticane, dunque, il diritto è sostanzialmente uno strumento di prevaricazione istituzionale, utilizzato dai ceti dominanti per difendersi dalle rivendicazioni sociali ed economiche degli umili verghiani, le cui pretese – giuste o ingiuste che siano, non è questo il problema – sono stroncate con le armi del potere, tra le quali ruolo principale viene assunto dalla giustizia e dai suoi disinteressati esponenti.
Per questo, ogni discorso ideale o morale sulla giustizia, nella dimensione verghiana – che, a ben vedere, non è dissimile da quella degli imputati inconsapevoli descritti, quasi un secolo dopo, da Dante Troisi con grande incisività[20] –, è inevitabilmente una mistificazione culturale, strumentale all’esercizio di un potere di prevaricazione utilizzato dai ceti dominanti ai danni degli umili verghiani, che sono i vinti magnificati dalle sue narrazioni, rassegnati di fronte ai tempi e agli esiti della giurisdizione, che li vede inesorabilmente Vinti.
3. Il Ciclo dei Vinti: l’impotenza degli esseri umani di fronte alla giustizia e l’accentuazione del fatalismo verghiano
Com’è noto, con l’espressione Ciclo dei Vinti si indica il complesso dei romanzi che avrebbe dovuto realizzare un impegnativo progetto letterario verghiano, articolato in cinque opere narrative.
Di questo progetto soni stati realizzati solo i primi due romanzi: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. I Malavoglia, pubblicato nel 1881, rappresenta le vicende di una famiglia di pescatori siciliani di Aci Trezza, che lotta per la propria sopravvivenza; Mastro-don Gesualdo, pubblicato nel 1889, rappresenta le vicende di un operaio edile che riesce a scalare la gerarchia sociale di Vizzini, un paese della provincia etnea, crocevia delle tre province di Catania, Siracusa e Ragusa.
Il terzo di questi romanzi, intitolato La Duchessa di Leyra, mira a descrivere le ambizioni aristocratiche della piccola nobiltà terriera isolana. L’opera fu iniziata ma non fu completata. Federico De Roberto ne ha ricostruito e pubblicato i primi due capitoli.
Avrebbero dovuto completare il Ciclo dei vinti altri due romanzi: L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, progettati per rappresentare le ambizioni dell’alta società isolana, in una sorta di percorso sociale, che partiva dalla condizione di emarginazione de I Malavoglia e si concludeva con la condizione alto-borghese, sostanzialmente parassitaria, de L’uomo di lusso.
Le ragioni per cui il progetto verghiano del Ciclo dei Vinti non andò in porto non sono rilevanti ai presenti fini, anche se su alcune delle possibili cause, che ne impedirono la realizzazione torneremo più avanti. Quello che, invece, ci interessa evidenziare è che l’idea di giustizia che pervade I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo costituisce la prosecuzione ideale delle tematiche relative ai rapporti tra le istituzioni giudiziarie e i Vinti.
Giovanni Verga, dunque, porta a ulteriore compimento le sue riflessioni sull’uomo e le istituzioni giudiziarie attraverso un percorso che conduce il lettore a valutare il rapporto che gli esseri umani sviluppano con il contesto sociale in cui vivono, che può essere compreso solo mediante un’analisi scrupolosa e impersonale dei protagonisti. Ne I Malavoglia questo rapporto si manifesta in un modo elementare, primordiale, essendo espressione di una lotta per il soddisfacimento dei bisogni materiali dei componenti della famiglia Toscano; soddisfatti questi bisogni, però, il rapporto tra l’individuo e il contesto sociale diventa più complesso, si stratifica, rendendo più vivido il tessuto narrativo verghiano e facendoci comprendere come nessun essere umano può vivere in modo svincolato dal milieu nel quale opera e del quale è espressione[21].
In questa cornice, il Ciclo dei Vinti esprime la visione fortemente pessimistica dei rapporti sociali secondo Giovanni Verga. Si ammette la possibilità di elevazione esistenziale dell’individuo appartenente ai ceti più modesti, ma si riconoscono pure le difficoltà di miglioramento economiche e sociali, che rendono sostanzialmente inutile la funzione di intermediazione svolta dalle istituzioni giudiziarie, inadatte ad aiutare gli strati più poveri della società e a tutelarne le legittime istanze[22].
Esemplare, da questo punto di vista, è il ruolo svolto dall’avvocato Scipioni[23] nella vendita della Casa del Nespolo dei Malavoglia, che convince la famiglia Toscano a cedere alle istanze dei creditori, fattisi avanti prepotentemente dopo il tragico naufragio della “Provvidenza”. Lo stesso avvocato Scipioni è protagonista di un altro episodio cruciale del racconto, atteso che dopo avere accoltellato Don Michele Cipolla, ‘Ntoni Toscano riesce a evitare una pesante condanna penale a causa del fatto che il difensore dell’aggressore lascia intendere che la rissa era scoppiata perché l’imputato voleva difendere la reputazione della sorella Lia – che nel corso della narrazione si darà alla prostituzione –, della quale la vittima si era invaghita, gettando ulteriore discredito sulla già martoriata famiglia Toscano.
Considerazioni analoghe valgono per la vicenda delle tensioni per l’affitto delle terre comunali di Vizzini, descritta nel primo capitolo della seconda parte di Mastro-don Gesualdo, dove il protagonista utilizza le leggi del tempo per avere la meglio sugli altri contendenti, allo scopo di prevaricare gli avversari e accaparrarsi le terre comunali.
Gesualdo Motta, del resto, arriva addirittura a entrare nella carboneria isolana pur di raggiungere i suoi obiettivi, nei quali si intrecciano scopi sentimentali – collegati al matrimonio fallimentare con Bianca Trao – e scopi più squisitamente verghiani, come l’attaccamento alla “roba” faticosamente accumulata con il duro lavoro[24], di cui il protagonista è un rappresentante esemplare.
In altri termini, in una società dominata da meccanismi di sopravvivenza tipicamente antagonistici, accentuati dall’affermazione prepotente del mondo capitalistico, il mondo del diritto e le istituzioni giudiziarie non possono svolgere alcun ruolo effettivo di tutela degli umili, operando con una funzione esclusivamente rappresentativa dei ceti dominanti, rispetto alla quale gli umili non possono che trasformarsi, inesorabilmente, in Vinti. L’esistenza umana, del resto, è reputata da Giovanni Verga come una dura lotta per la sopravvivenza destinata alla sopraffazione delle persone, con un meccanismo crudele che distrugge gli individui più deboli a vantaggio di quelli più forti; quest’ultimi riescono a dominare gli avversari, anche attraverso le leggi istituzionali, che sono espressione del ceto dominante.
Giovanni Verga, pertanto, vede la società umana come un consesso di individui antagonisti, in cui ognuno tende a prevaricare l’altro per non essere sopraffatto.
Appare utile, in proposito, il richiamo alla teorica dell’individualismo possessivo, tipicamente capitalistica, ma anche allo stato di natura prefigurato da Thomas Hobbes[25], secondo cui l’uomo è il principale nemico degli altri uomini (homo hominis lupus est), vivendo una condizione che, secondo il Maestro etneo, non è superata dall’apparato legislativo espresso dallo Stato. Le istituzioni pubbliche, infatti, soprattutto tra le classi sociali più umili, non sono viste come strumento di tutela delle istanze individuali, ma come ente indifferente o, peggio ancora, come un nemico, in linea con quanto affermato dallo stesso Verga in alcune delle Novelle rusticane, (Il reverendo, Don Licciu Papa e Libertà)[26].
Lo stesso Mastro-don Gesualdo, del resto, costituisce la concretizzazione della visione della società di Giovanni Verga, antagonistica e alienante, atteso che, da semplice muratore diventa imprenditore edile, proprietario terriero e, infine, marito di una nobildonna, Bianca Trao. La scalata sociale, però, non gli comporta alcun riconoscimento nella sua amata-odiata Vizzini, la cui popolazione, al contrario, lo isola, essendo Gesualdo Motta detestato sia dagli strati popolari del paese, invidiosi della sua inarrestabile scalata sociale, sia dal ceto nobiliare locale, che lo considera solo un parvenu, inadeguato a interloquire con loro e incapace di condividerne abitudini e rituali.
4. L’ultimo Giovanni Verga: il prematuro silenzio narrativo e la riscoperta tardiva di uno dei padri del romanzo italiano
La parte conclusiva della vita di Giovanni Verga, trascorsa nel palazzo di famiglia, ubicato in Via Sant’Anna a Catania, ancorché poco conosciuta, è uno degli aspetti di maggiore fascino dello scrittore. Le modalità con cui il Maestro etneo trascorse questi anni ci forniscono anche alcune indicazioni sull’atteggiamento che lo scrittore teneva verso le “cose della giustizia”, che possono farci comprendere il senso con cui i suoi personaggi si avvicinano alle istituzioni giudiziarie.
Le ragioni di interesse di questa lunga fase della vita di Verga, durata dal 1893, quando lo scrittore lascia definitivamente Milano, alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1922 per ictus cerebrale, sono molteplici.
Una di esse è certamente quella della lunghezza di questa fase, durata ben ventotto anni, durante i quali la vena narrativa di Verga si attenua. Basti, in proposito, considerare che le ultime opere di finzione narrativa sono due raccolte di racconti – intitolate Il capitano D’Arce e Don Candeloro e C. – pubblicate dai Fratelli Treves di Milano nel 1891 e nel 1894, oltre un ventennio anni prima della sua morte, rendendo evidente l’allontanamento dalle precedenti opere.
Un’altra delle ragioni di interesse è data dal fatto che i motivi dell’allontanamento di Verga dal mondo narrativo non sono mai stati del tutto chiariti, oscillando i pur attenti esegeti dell’opera verghiana tra cause collegate all’esaurimento della sua vis narrativa e cause collegate al pessimismo esistenziale che aveva caratterizzato la parte finale della sua vita; quest’ultimo profilo, a sua volta, si collegherebbe alle gravose incombenze familiari a cui lo scrittore si era dovuto dedicare dopo il suo ritorno a Catania.
L’attenuazione della vena narrativa, invero, è un dato di fatto incontroverso, reso evidente dall’abbandono del progetto legato alla stesura del Ciclo dei Vinti, che, come si è detto, si interruppe con l’incompiuto La Duchessa di Leyra, di cui conosciamo solo due capitoli, appena abbozzati[27].
Con la pubblicazione di Mastro-don Gesualdo, avvenuta nel 1889 presso i Fratelli Treves di Milano, l’attività di romanziere di Verga si interrompe, essendo I ricordi del capitano D’Arce[28] e Don Candeloro e C.[29] due raccolte di racconti. Queste raccolte costituiscono l’espressione di una fase ormai conclusiva dell’opera verghiana, che, del resto, con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo – come verrà riconosciuto a partire dall’inizio del ventesimo secolo[30] – aveva raggiunto l’apice della letteratura del suo tempo.
Per altro verso, non può non rilevarsi che, considerando I ricordi del capitano D’Arce e Don Candeloro e C., l’attività letteraria di Giovanni Verga era proseguita per oltre un trentennio, essendo riconducibile il suo esordio letterario alla pubblicazione de I carbonari della montagna[31], avvenuta nel 1861.
Né può trascurarsi che l’attività di narratore di Giovanni Verga s’accompagnò a quella di autore teatrale, testimoniata da un nutrito numero di opere, una delle quali, Cavalleria rusticana – su cui si sviluppò un’aspra controversia giudiziaria[32] –, grazie alle musiche di Pietro Mascagni e al libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, diventò una delle opere liriche di maggiore successo della sua epoca, venendo, tra l’altro, adattata per il cinema con sei differenti trasposizioni.
L’attività di autore teatrale di Giovanni Verga, inoltre, proseguì ben oltre la pubblicazione delle raccolte di racconti de I ricordi del capitano Arce e Don Candeloro e C., essendo l’ultima fatica teatrale di Giovanni Verga Dal mio al tuo[33], edita nel 1903 dai Fratelli Treves; opera che venne riadattata in forma di romanzo nel 1905.
Il prematuro silenzio letterario di Giovanni Verga, dunque, è storicamente assodato, ma deve essere confinato alla sola attività di narratore, che effettivamente si interruppe nel 1894, con la pubblicazione di Don Candeloro e C., a cui fecero séguito alcuni interventi confinati al mondo teatrale, dal quale lo scrittore etneo si allontanerà a partire dal primo decennio del ventesimo secolo; solo allora, con la pubblicazione di Dal mio al tuo, datata 1903, si può parlare di definitivo allontanamento dalla scena letteraria di Verga, che, ormai sessantatreenne, si dedicherà esclusivamente alle sue incombenze familiari, conducendo, a Catania, una vita ritirata, sviluppatasi tra il suo palazzo di Via Sant’Anna e la sede del Circolo Unione, in Via Etnea.
Rimangono da chiarire le ragioni del prematuro distacco dall’attività narrativa, per le quali non azzardo ipotesi, essendosi cimentati nella risoluzione di tale dilemma, umano e artistico, alcune tra le figure più importanti della critica letteraria italiana.
Certamente contribuì al distacco il suo definitivo rientro a Catania, intorno al 1893, a cui fecero séguito le pesanti incombenze di proprietario terriero di cui era gravato; incombenze che crebbero con la morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, in conseguenza della quale si vide assegnare la tutela dei nipoti, Giovanni, Caterina e Marco, che successivamente adottò, facendoli diventare suoi figli legittimi.
A mio modesto avviso, questa lettura delle cause del progressivo allontanamento di Verga dalle scene letterarie italiane sembra essere avvalorata dallo stesso scrittore, che, nel corso di una conversazione con Giuseppe Villaroel[34], riportata in appendice alla più volte citata opera di Luigi Russo, a proposito del suo allontanamento dal mondo letterario, affermava: «Io, per esempio, sono stato distratto gravemente dalla morte di mio fratello. Prima vivevo fuori, conducevo la vita più spensierata del mondo, lavoravo quando volevo, come volevo. Libertà assoluta e piena»[35].
E ancora: «Dopo la morte di mio fratello, invece, piombai nel più bruto materialismo. Divenni un buon padre di famiglia. Sentii pesare su me tutte le preoccupazioni comuni: gli affari ordinari dell’esistenza, l’educazione dei miei nipoti di cui ero divenuto tutore, la cultura dell’ingranaggio oscuro e intimo della famiglia mi afferrò. E come poteva avvenire diversamente!?»[36].
Giovanni Verga così concludeva questo passaggio della conversazione con Giuseppe Villaroel: «Così ho dovuto interrompere il Ciclo»[37].
Nient’altro mi sembra di potere aggiungere alle parole dell’illustre romanziere, scusandomi conclusivamente con gli eventuali lettori per qualche approssimazione o per inevitabili omissioni. La conoscenza umanistica, d’altronde, va ritenuta ed è, inevitabilmente, in permanente evoluzione.
[1] Desidero ringraziare per i preziosi consigli che mi hanno fornito durante la stesura di questo intervento i professori Mario Grasso e Ugo Maltese – il primo noto poeta e il secondo bibliofilo di lungo corso – della cui amicizia mi onoro. Entrambi hanno costituito un punto di riferimento insostituibile per questa mia incursione su un terreno, quello verghiano, da me molto amato ma esplorato in modo quasi privato.
All’ineguagliabile cultura bibliografica di Mario Grasso e di Ugo Maltese devo anche alcuni fondamentali suggerimenti metodologici, che mi hanno consentito di acquisire notizie biografiche poco praticate dall’accademia ufficiale, con la sola eccezione di Luigi Russo, concernenti il periodo1893 - 1922. Proprio il 27 gennaio 1922 Verga moriva, ottantunenne, per ictus cerebrale.
[2] Ciclo narrativo che, com’è noto, trae origine da G. Verga, Vita dei campi, Fratelli Treves, Milano, 1880; in realtà l’approccio verista alla letteratura del Verga deve farsi risalire a diversi anni prima, tanto è vero che il Maestro etneo, nell’autunno del 1874, aveva cominciato a lavorare a un bozzetto di ispirazione marinaresca, intitolato Padron ‘Ntoni, diventato poi il nucleo narrativo de I Malavoglia.
[3] In questa direzione mi sembra utile richiamare un passaggio della prefazione, scritta dallo stesso Verga per la prima edizione de I malavoglia (Fratelli Treves, Milano, 1881), in cui si afferma: «Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio».
[4] Per una ricognizione delle principali vicende biografiche di Verga mi permetto di rinviare a N. Cappellani, Vita di Giovanni Verga, Opere di Giovanni Verga, Le Monnier, Firenze 1940; G. Cattaneo, Giovanni Verga, UTET, Torino 1963; F. De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di C. Musumarra, Le Monnier, Firenze 1964.
[5] Occorre, in proposito, ricordare che il primo, grande, scopritore-riscopritore dell’opera di Giovanni Verga, sostanzialmente dimenticata a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e soppiantata dai successi editoriali di Gabriele D’Annunzio e Antonio Fogazzaro, mal sopportati dal Maestro etneo, fu Benedetto Croce che, ne La Critica (Ricciardi, Napoli, 1904), espresse giudizi molto positivi nei confronti del nostro Autore, avviando una lettura più attenta della sua produzione.
Questa riscoperta, ulteriormente testimoniata dal fatto che nel 1918, quattro anni prima di morire per ictus cerebrale, Verga venne nominato senatore a vita, giunge a definitivo completamento con la pubblicazione dell’opera di L. Russo, Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli, 1920, che determinò il vero rilancio dell’autore nel mondo letterario italiano.
[6] L’espressione «fiumana del progresso» venne utilizzata da Verga per descrivere la condizione socio-economica propria del Ciclo dei Vinti, che emargina coloro che non riescono a stare al passo con il progresso della società, travolgendo inesorabilmente e violentemente i ceti sociali inferiori e – potremmo dire con un’espressione oggi molto in voga – meno resilienti.
[7] Per l’influenza dell’ideologia positivista sul pensiero della seconda metà del diciannovesimo secolo si rinvia ad A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, UTET, Torino, 1967.
[8] Si veda P.W.M. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, edizioni Salvatore Sciascia, Roma 1969, pp. 27 ss.
[9] Vedi infra § 3.
[10] Si veda L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 131 ss.
[11] Si veda G. Verga, Novelle rusticane, Torino, Casanova, 1882.
[12] Vedi supra nota numero 2.
[13] Si veda G. Verga, Mastro-don Gesualdo, Fratelli Treves, Milano, 1889.
[14] Si veda G. Verga, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1990, p. 232.
[15] Si veda G. Verga, op. ult. cit., p. 251.
[16] Ci si riferisce a F. De Roberto, I Vicerè, Galli, Milano, 1894.
[17] Ci si riferisce a G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 25 ottobre 1958.
[18] Si veda G. Verga, Tutte le novelle, cit., p. 347.
[19] La sfiducia di Giovanni Verga nelle istituzioni giudiziarie traeva origine anche da alcune sue personali vicende giurisdizionali, di talune delle quali ci si occuperà nel paragrafo conclusivo, che, unitamente alla cura delle sue proprietà terriere, gli destarono grande preoccupazioni nell’ultima parte della sua vita.
[20] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1953; su questi temi, tra l’altro, mi sono soffermato in A. Centonze, Il Diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi, in Giustizia Insieme (www.giustiziainsieme.it), 7 dicembre 2020, pp. 1-12.
[21] Mi sembra utile richiamare un altro passaggio della prefazione, scritta dallo stesso Verga per la prima edizione de I Malavoglia, in cui, a proposito delle spinte emotive che animano gli esseri umani, si afferma: «Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali […]».
[22] Si veda P.W.M. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, cit., pp. 35-38.
[23] Anche se non si ha alcuna certezza in proposito, alcuni autorevoli critici ritengono che l’avvocato Scipioni, citato nei capitoli VI e XIV de I Malavoglia, nelle originarie intenzioni di Verga potesse essere il protagonista de «L’onorevole Scipioni», quarta opera del Ciclo dei Vinti, che non superò mai la soglia meramente progettuale; si rinvia, in proposito, a L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 192 ss.
[24] Vedi supra § 2.
[25] In questo contesto, si veda la ricostruzione storica di C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke (1962), trad. it., Isedi, Milano, 1973, dove si stabilisce un parallelismo tra sviluppo capitalistico e affermazione dello Stato borghese moderno, osservandosi che la sovranità nazionale è inseparabile dal mercato.
[26] Vedi supra § 2.
[27] Vedi supra § 2.
[28] Si veda G. Verga, I ricordi del capitano Arce, Fratelli Treves, Milano, 1891.
[29] Si veda G. Verga, Don Candeloro e C., Fratelli Treves, Milano, 1891.
[30] Vedi supra nota numero 5.
[31] Si veda G. Verga, I carbonari della montagna, Galatolo, Catania, 1861-1862.
[32] Occorre precisare che, dopo la messa in scena della Cavalleria rusticana da parte di Pietro Mascagni, Giovanni Verga accusò l’editore Sonzogno di plagio, intentando nei suoi confronti una lunga causa, che, tra alterne vicende, si concluse nel 1893 con una transazione, all’esito della quale venne corrisposta allo scrittore la somma, ragguardevole per l’epoca, di 143.000 lire, che, tra l’altro, comportò la cessazione degli assilli economici che avevano caratterizzato la sua vita dopo il ritorno a Catania.
[33] Si veda G. Verga, Dal mio al tuo, Fratelli Treves, Milano, 1906.
[34] Si tratta della conversazione tra Giovanni Verga e Giuseppe Villaroel pubblicata sul Messaggero della Domenica del 19 marzo 1919, riportata in L. Russo, Giovanni Verga cit., pp. 229 ss.
[35] Si veda L. Russo, Giovanni Verga cit., p. 230.
[36] Si veda L. Russo, op. ult. cit., p. 230.
[37] Si veda L. Russo, op. ult. cit., p. 230.
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 3) Paolo Biavati
Intervista di Roberto Conti a Paolo Biavati*
[Per l'introduzione al ciclo di interviste si rinvia all'Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
In primo luogo, ringrazio la redazione di Giustizia insieme per avermi voluto coinvolgere in questo confronto, a fianco di illustri studiosi. Mi auguro che le mie risposte non siano troppo superficiali, perché a me pare che l’intera questione sia piuttosto semplice.
Infatti, a me sembra che la conclusione a cui è pervenuta la Corte di giustizia sia assolutamente prevedibile e perfino scontata. Chi appena conosca la prudenza con cui si muovono i giudici del Kirchberg, non poteva dubitare su un esito destinato a non intaccare l’assetto costituzionale italiano del riparto della giurisdizione.
Certo, la Corte richiama il primato del diritto dell’Unione anche nei confronti di norme di rango costituzionale (punto 52) e, a mio avviso, non poteva evitare di farlo, nella prossimità della fin troppo nota vicenda polacca. Nel contempo, però, viene a riaffermare il principio di autonomia procedurale (punto 58) ed esclude che il sistema italiano, di cui agli artt. 111, comma 8°, cost. e 362 c.p.c., si ponga in collisione con i parametri dell’equivalenza della tutela dei diritti di derivazione europea rispetto a quelli garantiti dall’ordinamento interno e della non eccessiva difficoltà dell’esercizio del diritto di difesa (punti 61 e 63).
In realtà, secondo me, la Corte di Lussemburgo ha deciso correttamente, per la semplice ragione che il tema del rispetto del diritto dell’Unione, in questo caso, non è veramente quello centrale, ma è soltanto il terreno scelto dalle Sezioni unite nella loro pluriennale battaglia, tesa ad allargare i confini del controllo sulle pronunce del Consiglio di Stato. Detta in maniera brutale, l’osservanza del diritto europeo è poco più di un pretesto. Basterebbe chiedersi che cosa accade quando è la stessa Cassazione a violare il diritto dell’Unione (si rilegga il punto 26, che riporta la motivazione delle Sezioni unite nell’ordinanza di rinvio) e non è difficile ricordare alla suprema Corte che la prima condanna nei confronti dell’Italia per inadempimento ai trattati a causa della mancata applicazione del diritto europeo da parte di un giudice di ultima istanza fu pronunciata, quasi vent’anni fa, proprio a causa di scelte giurisprudenziali della Cassazione e non certo del Consiglio di Stato (sentenza Commissione c. Italia del 9 dicembre 2003). Ora, è vero che l’attenzione della Cassazione verso il diritto europeo è oggi molto più sensibile rispetto agli ultimi anni del secolo scorso, ma il “quis custodiet custodem” è un problema insolubile, perché vi sarà sempre un giudice contro le cui decisioni non si può ricorrere.
Posto che, piaccia o no, l’ordinamento europeo non ha (ancora) carattere federale, resta il fatto che i rimedi nei confronti dell’inosservanza del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali di ultima istanza sono deboli e indiretti. La Commissione è cauta nel proporre ricorsi per inadempimento (punto 79) e, a quanto si vede, tende a muoversi quando l’inosservanza diventa sistemica e non per un dato caso singolo. L’azione di responsabilità verso lo Stato membro, a sua volta, è sottoposta a condizioni rigorose, senza dimenticare il tema della durata dei giudizi, che allontana il momento della realizzazione della tutela (punto 80).
Tutto questo, però, sul piano del diritto dell’Unione, non giustifica il tentativo delle Sezioni unite di allargare in modo “dinamico” gli spazi della giurisdizione ordinaria rispetto a quelli della giurisdizione amministrativa. Un tentativo di natura prettamente interna, rispetto al quale il Kirchberg si è ben guardato dall’intervenire.
Un’ultima notazione. Alla base dell’iniziativa delle Sezioni unite, sussistono ragioni, in senso lato politiche, che devono essere apprezzate. L’attuale riparto di giurisdizione assegna al giudice amministrativo un vasto controllo su tutto il contenzioso economico più rilevante: per dirla plasticamente, in Cassazione vanno le cause condominiali, mentre il Consiglio di Stato decide sui piani urbanistici. Il legislatore è molto lontano dall’avventurarsi su questo terreno infido e quindi si spiegano gli sforzi delle Sezioni unite per riequilibrare la situazione. Ciò non toglie, però, che il tema della conformità delle pronunce al diritto dell’Unione non sia la strada corretta da percorrere.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
Per le ragioni che ho indicato rispondendo alla domanda precedente, è del tutto probabile che le Sezioni unite cercheranno altri sbocchi, tesi ad accrescere il controllo sulle pronunce del Consiglio di Stato ed è altrettanto verosimile che si muovano sul piano del diritto interno.
Tuttavia, a me sembra che la via dell’eccesso di potere giurisdizionale non sia convincente. L’eccesso di potere significa che un giudice ha esercitato un potere che non ha e non, invece, che ha esercitato male un potere che ha. I giudici amministrativi di ultima istanza hanno il potere di decidere i casi loro sottoposti, applicando obbligatoriamente il diritto dell’Unione, al pari del diritto interno. Diversamente ragionando, ogni atto di impugnazione dovrebbe consistere in una censura di eccesso di potere del giudice inferiore.
L’assetto dato dalla Consulta con la sentenza n. 6 del 2018, per il momento, governa con chiarezza il tema. La struttura della giurisdizione ripartita può non convincere e, personalmente, nel migliore dei sistemi possibili, vedrei meglio una giurisdizione unica con segmenti fortemente specializzati. Tutto questo, però, ci allontana dal quadro costituzionale attuale, una cui revisione non è certo all’ordine del giorno. Come ripeto, sarebbe opportuno, piuttosto, riscrivere l’allocazione di alcune materie, riportandole al giudice ordinario.
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione -art.1, c.10 l.n.206/2021- per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
L’art. 1, comma 10°, della l. n. 206 del 2021 ha introdotto una forma di revocazione straordinaria per contrasto fra una sentenza passata in giudicato e una decisione successiva della Corte Edu. Questa norma (rectius, principio di delega) è una sorta di masso erratico nel contesto di una riforma tesa a semplificare e ridurre i tempi del processo civile: la disposizione è stata introdotta, come noto, in sede parlamentare e non era contemplata né nelle proposte della Commissione Luiso, né negli emendamenti governativi.
Di per sé, la norma non mi pare tocchi direttamente il tema in oggetto, perché la violazione di un diritto fondamentale garantito dalla convenzione è cosa diversa dalla violazione di una norma di diritto dell’Unione. Certo, si potrebbe pensare ad un ricorso a Strasburgo, basato sulla violazione dell’art. 6 Cedu, in ragione di una presunta lesione del diritto di difesa per l’impossibilità di impugnare in Cassazione una sentenza del Consiglio di Stato (ma, se non mi inganno, a prescindere dal fatto che la violazione concerna il diritto europeo o solo quello interno).
Credo, però, che difficilmente la Corte Edu potrebbe catalogare come violazione dell’art. 6 Cedu qualsiasi errore in diritto commesso da un giudice di ultima istanza e si può discutere se una materia come quella degli appalti pubblici rientri fra i diritti fondamentali e le libertà della persona.
Detto questo, la nuova revocazione straordinaria è (ancora una volta, rectius, sarà) una significativa innovazione nella costruzione dei rapporti fra il giudice nazionale e il diritto europeo, sia pure qui nel prisma della convenzione di Roma. In definitiva, non si viene a censurare una situazione di fatto di eccezionale gravità, come nelle ipotesi attuali, ma un errore di diritto del giudice, che sarà quasi sempre la Cassazione come giudice di ultima istanza.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
Il tema della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza non è suscettibile di adeguata e piena soluzione allo stato attuale del sistema dell’Unione europea. Come annotavo rispondendo alla prima domanda, non vi è alcuna ragione per supporre che le Sezioni unite saranno sempre pronte a rivolgersi al Kirchberg, e il Consiglio di Stato no.
Guardando alla questione dal punto di vista dell’Unione, occorre stimolare una sempre più sensibile e attenta collaborazione dei giudici interni. Guardandola nell’ottica dell’ordinamento italiano, non vedo come una qualsiasi autorità esterna possa comprimere la libera (seppure responsabile) valutazione delle massime autorità giurisdizionali.
Per rispondere alla domanda, quindi, credo che non restino ragioni di dubbio.
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
Credo di essermi già espresso.
*Professore ordinario di Diritto processuale civile presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna.
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