ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?
Lo scorso 11 febbraio si è tenuto presso l'Università di RomaTre il convegno "Il caso Randstad Italia tra questioni di giurisdizione e di giustizia", dedicato alla decisione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea 21 dicembre 2021 C- 497/20 resa a seguito della rimessione operata con l'ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598/2020.
All'incontro, introdotto dal Prof. Antonio Carratta, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di RomaTre, hanno partecipato il Prof. Avv. Fabio Francario, il Presidente di Sezione del Consiglio di Stato Marco Lipari, il Presidente di Sezione della Corte di Cassazione Raffaele Frasca, il Prof. Avv. Aldo Travi e il Prof. Avv. Romano Vaccarella.
I lavori sono stati conclusi dalla Prof. Avv. Maria Alessandra Sandulli.
La Rivista mette a disposizione dei propri lettori la videoregistrazione del convegno.
Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria*
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale. – 3. In via preliminare. L’inammissibilità degli interventi e la possibilità di impugnare le sentenze della Plenaria “per motivi di giurisdizione”. – 4. Il confronto con il diritto UE. – 5. Gli effetti del rilevato contrasto con il diritto UE.
1. Premessa
Lo scritto si propone di offrire spunti introduttivi a una riflessione sulla delicata tematica della natura e del regime delle concessioni demaniali marittime (ma anche lacuali e fluviali) con finalità turistico-ricreative (che, per brevità, saranno atecnicamente indicate come “concessioni balneari” o “concessioni costiere”) all’esito delle sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, con le quali l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dichiarato l’inefficacia delle relative proroghe ex lege (per le quali la l. n. 145 del 2018 e il d.l. n. 34 del 2020 avevano stabilito la scadenza del 31 dicembre 2033) per contrasto con il diritto eurounitario, rinviando tuttavia “l’operatività degli effetti” delle pronunce al 1° gennaio 2024[1].
La questione della compatibilità delle suddette proroghe con il diritto eurounitario è nota e ampiamente dibattuta[2]. Essa si lega essenzialmente alla riconducibilità di tali concessioni all’ambito applicativo della Direttiva CE n. 123 del 2006 (cd “Direttiva Servizi” o “Direttiva Bolkestein”, relativa ai “servizi nel mercato interno”, di seguito anche “DS”) – che, dopo aver accolto, all’art. 4.1, una definizione molto lata di “servizi”, comprensiva di “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’arti- colo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione”, dispone, all’art. 12, che “1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una deter- minata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, precisando che, in tali casi, l’autorizzazione debba avere “una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami” – e, più in generale, alla necessità che il relativo affida- mento si conformi ai principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza ai sensi dell’art. 49 TFUE.
In Italia la questione assume massima e particolarissima rilevanza dal momento che, anche in considerazione della estensione del nostro patrimonio costiero e delle condizioni climatiche favorevoli, le cd concessioni balneari in essere ammontano a circa 30000[3] e, nella maggior parte dei casi, i loro titolari hanno creato vere e proprie aziende, con significativi investimenti, in termini economici e personali, e importanti avviamenti.
Pur avendo ripetutamente preannunciato un riordino della materia nel rispetto dei suddetti principi di evidenza pubblica, il nostro legislatore ha quindi, fino a oggi, inaccettabilmente “temporeggiato”, continuando a rimandare il problema, attraverso una reiterata serie di proroghe generalizzate delle concessioni in essere; ciò che ha evidentemente scatenato la reazione delle istituzioni eurounitarie (sfociata il 3 dicembre 2020 in una lettera di messa in mora da parte della Commissione che avviava la fase precontenziosa di una nuova procedura di infrazione[4] ) e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[5] e creato un clima di gravissima incertezza nel settore.
In questa situazione, con decreto n. 160 del 24 maggio 2021, il Presi- dente del Consiglio di Stato, facendo per la prima volta uso dello speciale potere riconosciutogli dall’art. 99, comma 2, c.p.a., ha investito del tema l’Adunanza plenaria, sottoponendole i seguenti quesiti:
- se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turisti- co-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-executing, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all’accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva.
- nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo ri- esame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio.
- se, con riferimento alla moratoria introdotta dall’art. 182, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell’Unione europea, debbano intendersi quali «aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145.
Nonostante tale intervento “propulsivo” del Giudice amministrativo, o magari proprio in attesa di un “soccorso” dell’Adunanza plenaria, il Governo ha assunto ancora una volta una posizione “attendista” e, sordo alle pressanti sollecitazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[6], ha espunto il tema delle concessioni balneari dal d.d.l. concorrenza 2021, limitandosi a prevedere una delega al Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, sentita la Conferenza unificata, un decreto legislativo per la costituzione e il coordinamento di un sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni pubblici al fine di promuovere la massima pubblicità e trasparenza, anche in forma sintetica, dei principali dati e delle informazioni relativi a tutti i rapporti concessori, tenendo conto delle esigenze di difesa e sicurezza. Una scelta che, pur sicuramente fondata sull’auspicio di poter effettivamente creare i presupposti per provvedere, in tempi brevi, all’indispensabile riordino della materia, non poteva mancare di destare perplessità e preoccupazione, non soltanto alla luce del fallimento dell’analogo progetto del 2018, ma anche – e soprattutto – perché non accompagnata da alcuna anticipazione del termine di scadenza del 2033.
E così, lo scorso 9 novembre, l’Adunanza plenaria, con le richiamate sentenze 17 e 18, identiche nella motivazione e nella numerazione dei paragrafi, ha coraggiosamente elaborato la “sua” soluzione, assumendo sulle proprie spalle anche il pesante fardello di “scelte” che competevano e competono piuttosto al potere legislativo.
Come era prevedibile, e come è stato immediatamente confermato, le sentenze hanno acceso un intenso dibattito, di cui hanno dato testimonianza anche vari incontri di studio (consultabili on line)[7].
Si tratta, infatti, di pronunce fortemente impattanti sul piano economico, sociale e giuridico, e che, sotto quest’ultimo profilo, pongono rilevanti questioni processuali e sostanziali, attinenti a vari rami del diritto (eurounitario, costituzionale, amministrativo, civile e penale).
2. Il quadro normativo e giurisprudenziale
I profili di interesse e di criticità delle sentenze sono molteplici e non possono essere tutti evidenziati in queste brevi considerazioni introduttive. Mi limiterò pertanto a segnalarne alcuni tra i più significativi, che sono però già sufficienti a dare un’idea della problematicità della situazione determinata dalle sentenze in commento.
Prima di entrare nel vivo del ragionamento svolto dalla Plenaria, sembra utile premettere, in termini di estrema sintesi, un richiamo al quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Come noto, le concessioni di cui si discute hanno a oggetto l’utilizzo di beni che, ai sensi dell’art. 822 c.c., appartengono al demanio necessario dello Stato e la cui gestione (ad eccezione dei porti) è stata poi affidata alle regioni, che l’hanno a loro volta delegata ai comuni.
Con specifico riferimento al demanio marittimo, gli artt. 36 e 37 c. nav. dispongono che “L’amministrazione marittima,compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo”, e che “Nel caso di più domande di concessione, è preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell’amministrazione, risponda ad un più rilevante interesse pubblico”. Qualche maggiore indicazione è rinvenibile nel Regolamento per l’esecuzione dello stesso codice (d.P.R. n. 328/1952), che, all’art. 18, prevede una modalità particolare di evidenza pubblica, avviata e condizionata dalla presentazione di una domanda di concessione (per certi aspetti analoga a quella prevista dall’art. 7 del TU della legislazione sulle acque pubbliche – R.D. n. 1775 del 1933 – per le concessioni di queste ultime, ma) con un regime di pubblicità molto ridotto[8].
Il c. 2 dell’art. 37, c. nav. prevedeva peraltro che, che, nel caso di pluralità di domande di concessione di beni demaniali marittimi, fossero preferite in sede di rinnovo, i titolari delle precedenti concessioni.
Il d.l. 5 ottobre 1993 n. 400, convertito nella l. n. 494, recante disposizioni per la determinazione dei canoni delle concessioni demaniali marittime, stabiliva poi all’art. 01 che “1. La concessione dei beni demaniali marittimi può essere rilasciata, oltre che per servizi pubblici e per servizi e attività portuali e produttive, per l’esercizio delle seguenti attività:
- gestione di stabilimenti balneari;
- esercizi di ristorazione e somministrazione di bevande, cibi precotti e generi di monopolio;
- noleggio di imbarcazioni e natanti in genere;
- gestione di strutture ricettive ed attività ricreative e sportive;
- esercizi commerciali;
- servizi di altra natura e conduzione di strutture ad uso abitativo, compatibilmente con le esigenze di utilizzazione di cui alle precedenti categorie di utilizzazione”.
Il comma 2 dello stesso articolo, come modificato dall’art. 10 della l. n. 88 del nel 2001 e “autenticamente interpretato” dalla l. n. 172 del 2003 (e infine abrogato dalla l. n. 217 del 2011 per far posto alle proroghe “a data unica”), dopo aver fissato in 6 anni la durata delle concessioni “indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per lo svolgimento delle attività”, stabiliva peraltro che le concessioni per finali- tà turistico-ricreative di cui alle lettere da a a f (a eccezione di quelle rilasciate nell’ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorità portuali di cui alla l. 28 gennaio 1994 n. 84) fossero tutte automaticamente prorogate di ulteriori 6 anni a ogni scadenza.
Ancora, la l. n. 296/2006 (“legge finanziaria 2007’’), modificando l’art. 3 del d.l. n. 400/1993, prevedeva che le concessioni demaniali marittime dovessero avere una durata non inferiore ai 6 e non superiore ai 20 anni “in ragione dell’entità e della rilevanza economica delle opere da realizzare e sulla base dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo predisposti dalle regioni”.
Il sistema finiva dunque di fatto per consentire concessioni perpetue, con conseguente sostanziale preclusione di ogni possibilità di subentro per altri eventuali aspiranti.
Merita tuttavia evidenziare che, per un verso, anche da un primo confronto con i sistemi vigenti negli altri Stati dell’Unione non si riscontra una situazione normativa chiara e univoca sul regime dei beni pubblici e sulle regole di selezione dei soggetti privati eventualmente autorizzati a occuparli e a utilizzarli a fini economici[9] e, per l’altro verso, che, a differenza di quanto avvenuto, prima, per gli appalti e, poi, anche per le concessioni di lavori e di servizi, il legislatore eurounitario non ha mai adottato specifiche regole per disciplinare la durata e le modalità di affidamento delle concessioni di beni. Anzi, la Direttiva 2014/23/UE, che, per la prima volta, ha disciplinato le procedure di affidamento delle con- cessioni di servizi pubblici, ha espressamente escluso dal proprio ambito di applicazione le concessioni di beni. E così, evidentemente, anche il nostro codice dei contratti pubblici.
Pure la giurisprudenza comunitaria che, dalla nota sentenza Teleaustria del 2000 (richiamata anche dalla Plenaria), ha sancito l’obbligo di rispettare i principi generali di pubblicità, trasparenza e imparzialità nella selezione dei contraenti pubblici, si riferiva comunque alla – diversa – materia degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori e di servizi pubblici, tra i quali, come espressamente precisato dal riportato art. 01 del d.l. n. 400 del 1993, non rientrano evidentemente quelle per finalità turistico-ricreative.
In questo contesto si è però inserita, nel 2006, la richiamata Diretti- va 123, che, come detto, dopo aver accolto, all’art. 4.1, una definizione molto lata di “servizi”, comprensiva di “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione”, ha, come visto, enunciato, all’art. 12, che, a fronte di risorse scarse per l’esercizio di un’attività, le relative autorizzazioni debbano avere una durata limitata ed essere esito di apposite procedure di selezione tra i candidati potenziali, con idonee garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità, con conseguente divieto di rinnovo automatico e di altre misure di preferenza per i precedenti titolari.
Nel 2008, la Commissione europea ebbe quindi ad aprire una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, che ne ottenne l’archiviazione, rassicurando le istituzioni europee che avrebbe sollecita- mente provveduto al riordino della materia.
Pur preannunciando, sin dal 2009, un intervento diretto a disciplina- re le modalità di affidamento delle concessioni de quibus “nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti”, il nostro legislatore, confidando evidentemente anche in un diffuso convincimento della inapplicabilità della Direttiva alle concessioni di beni (tesi sostenuta del resto dallo stesso F. Bolkestein proprio in riferimento alle concessioni balneari in un’audizione alla Camera dei Deputati[10]), si è peraltro limitato a sopprimere il cd “diritto di insistenza” del concessionario uscente (previsto dal testo originario dell’art. 37, c. nav.), ed è, all’opposto, ripetutamente intervenuto a posticipare la scadenza dei rapporti in essere (art. 1 c. 18, d.l. n. 194/2009, convertito con modificazioni nella l. n. 25/2010 e art. 24 c. 3-septies d.l. n. 113/2016 convertito nella l. n.160/2016).
Tale comportamento è stato stigmatizzato dalla CGUE nella nota sentenza Promoimpresa del 14 luglio 2016, che ha costituito la base argomentativa della decisione assunta dalla Plenaria.
Ma, approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020 (fissata nella citata l. n. 160 del 2016), con la l. n. 145 del 30 dicembre 2018 (“legge finanziaria 2019”) il nostro legislatore, pur apparentemente avviando un iter di riordino della materia[11], ne procrastinava di fatto ulteriormente l’attuazione, demandando (senza termini) al Governo di individuare (con apposito dPCM) i principi ed i criteri tecnici ai fini dell’assegnazione (delle sole) nuove concessioni di aree demaniali prive di concessioni in essere, all’esito di una consultazione pubblica della durata massima di 180 giorni, e disponendo una nuova proroga generalizzata delle concessioni esistenti, questa volta addirittura al 31 dicembre 2033 (art. 1, c. 682 e 683).
Ne è seguita una situazione di grave incertezza per gli operatori e per le amministrazioni, cui i comuni hanno reagito in modo non univoco, alcuni concedendo la proroga fino al 31 dicembre 2033, altri disapplicando la norma nazionale e avviando procedure selettive, altri ancora adottando soluzioni tampone, con proroghe limitate nel tempo in attesa dell’auspicato riordino, altri, infine, omettendo di pronunciarsi sulle istanze dei concessionari.
Ciò ha dato vita a vari contenziosi, che, a fronte di un prevalente orientamento nel senso della necessaria disapplicazione (rectius, non-applicazione) della legge di proroga[12], hanno visto emergere una forte posizione di dissenso da parte delTAR di Lecce, che, come dichiarato anche in diverse interviste del suo Presidente, si è espresso in senso nettamente contrario alla configurabilità, de iure condito, di un obbligo delle amministrazioni di disapplicare le leggi di proroga e di avviare procedure selettive in assenza delle necessarie regole statali[13].
La situazione si è, se possibile, ulteriormente aggravata quando, nell’ambito degli interventi connessi all’emergenza epidemiologica da COVID-19, con il d.l. n. 34 del 2020 (convertito nella l. n. 77/2020), c.d. Decreto Rilancio, il Governo, nel ribadire la valenza delle proroghe fino al 2033, ha disposto la sospensione dei procedimenti amministrativi volti alla nuova assegnazione delle concessioni demaniali marittime o alla riacquisizione al patrimonio pubblico delle aree demaniali, facendo espresso divieto alle amministrazioni di intervenire qualora “l’utilizzo dei beni demaniali da parte dei concessionari verrà confermato verso pagamento del canone previsto dall’atto di concessione” (art. 182, c. 2)[14].
Infine, il d.l. n. 104/2020 (convertito nella l. n. 126/2020), nell’ambito delle misure a sostegno dell’economia, ha esteso formalmente la suddetta proroga al 2033 alle concessioni lacuali e fluviali, oltre che a quelle per la nautica da diporto.
Ne è seguita, il 3 dicembre 2020, una nuova lettera di messa in mora da parte della Commissione UE, che ha contestato l’inottemperanza dell’Italia agli obblighi imposti dagli artt. 12 DS e 49 TUE.
In particolare, dopo aver sottolineato che, nella sentenza Promoimpresa, la CGUE ha “chiaramente confermato che le “concessioni demaniali marittime e lacuali rilasciate dalle autorità pubbliche e che mirano allo sfruttamento di un’area demaniale a fini turistico-ricreativi” devono essere qualificate come autorizzazioni all’esercizio di una determinata attività economica in base al concetto di “regime di autorizzazione” stabilito dall’arti- colo 4 della DS”, e “ha inoltre confermato in via generale che il capo III della direttiva sui servizi (quindi anche l’articolo 12 della medesima direttiva) si applica anche a situazioni puramente nazionali”, la Commissione ha rilevato che “sebbene abbia lasciato al giudice del rinvio la valutazione circa la scarsità delle risorse naturali necessaria ai fini dell’applicazione dell’articolo 12 della DS nei singoli casi oggetto di contenzioso, la CGUE ha sottolineato tuttavia che “il fatto che le concessioni di cui ai procedimenti principali siano rilasciate a livello non nazionale bensì comunale deve, in particolare, essere preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato”. Inoltre, evidenziando il carattere assoluto e generalizzato delle proroghe disposte dal nostro legislatore, la Commissione ne ha desunto “che la legislazione nazionale in questione inevitabilmente riguardi concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considerate scarse in base ai criteri stabiliti dall’articolo 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE”. E ancora che la medesima legislazione nazionale “non distingue tra situazioni in cui esiste un interesse transfrontaliero certo e situazioni in cui tale interesse non esiste, per cui ha ad oggetto anche situazioni che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 49 TFUE”.
Per quanto qui più interessa, la Commissione ha poi osservato che non è possibile invocare l’art. 12.3 DS, il quale, come si dirà meglio infra, consente di derogare alle regole proconcorrenziali per motivi imperativi di interesse generale, “senza un’analisi caso per caso che consenta di valutare il legittimo affidamento dei titolari delle concessioni, come nel caso di “una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”. E ha aggiunto che “secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione. In secondo luogo, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono. In terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili[15]”. Da ultimo, la Commissione ha rilevato che, in ogni caso, “nella misura in cui è probabile che venga pregiudicato un interesse transfrontaliero certo – per quanto riguarda almeno alcune delle concessioni oggetto delle proroghe ex lege stabilite dalla legislazione italiana, è possibile presumere l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo sulla base dell’ubicazione geografica dell’area demaniale e del valore economico delle concessioni”, le suddette proroghe comportano anche una violazione dell’art. 49 TFUE.
La lettera ha poi specificamente censurato anche il divieto di so- spendere i rapporti concessori in essere per violazione del principio di leale cooperazione degli Stati membri nell’osservanza del diritto dell’Unione.
E, ancora con riferimento all’art. 12 della DS, ha stigmatizzato le richiamate disposizioni della l. n. 145/2018 per ciò che, per l’assegnazione delle nuove concessioni potenzialmente disponibili, non definiscono “alcun criterio specifico e oggettivo né prevedono alcuna procedura, in particolare per quanto concerne l’obbligo di assicurare una procedura di selezione tra i candidati potenziali che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento” (il che “nella pratica non permette di assicurare che tali nuove concessioni siano assegnate in conformità ai detti principi”), e, per le concessioni esistenti, prevedono tempistiche estremamente lunghe (almeno tre anni) delle attività preparatorie del previsto riordino, non prevedono norme o procedure che tengano conto anche delle possibili specificità locali e che garantiscano una procedura di selezione tra i candidati potenziali che presenti le suddette garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità e, oltre tutto, ne affidano la definizione a uno strumento tecnico (il dPCM) di rango secondario, inadeguato a modificare il quadro normativo vigente (d.l. n. 400 del 1993 e Regolamento di esecuzione del c. nav.).
La lettera non si è quindi limitata ad affermare l’incompatibilità del modello di “proroga generalizzata e indiscriminata” con il diritto UE, ma ha espressamente sottolineato la necessità di individuare “con legge” i criteri e le modalità di affidamento delle concessioni balneari per garantire il rispetto dei surrichiamati principi.
La Commissione ha pertanto invitato la Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 258 TFUE, a trasmetterle le proprie osservazioni entro due mesi dal ricevimento della lettera, riservandosi “il diritto di emettere, se del caso, il parere motivato previsto dal medesimo articolo”.
Come detto, il legislatore italiano non è più intervenuto sul tema, e, anzi, il Governo lo ha espunto dal d.d.l. concorrenza, riproponendo la strada della previa mappatura della situazione esistente (sulla base, peraltro di criteri che dovranno a loro volta essere definiti con decreto legislativo delegato da adottare entro l’ulteriore termine di sei mesi dell’entrata in vigore della – non ancora emanata – legge concorrenza 2021).
Dal momento che, a distanza di 13 mesi dalla lettera di contestazione, la Commissione non ha espresso il parere motivato, si poteva però ipotizzare che (anche se non ve ne è traccia pubblica) lo Stato italiano avesse fornito una risposta idonea a rassicurare la Commissione.
In ogni caso, stante il diverso piano in cui operano la politica e la giurisdizione, tale risposta non può essere consistita nell’auspicio di un intervento “suppletivo” del massimo consesso della giustizia amministrativa.
Le considerazioni svolte nella lettera di contestazione sono comunque molto utili per una più consapevole disamina delle sentenze dell’Adunanza plenaria e delle problematiche da esse affrontate (e sollevate).
3.In via preliminare. L’inammissibilità degli interventi e la possibilità di impugnare le sentenze della Plenaria “per motivi di giurisdizione”
In primo luogo, proprio considerando l’impatto delle pronunce, non può non destare perplessità la rigida “chiusura” agli interventi delle Associazioni di categoria e dei soggetti che erano intervenuti negli altri giudizi che, pur analogamente pendenti dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, non sono stati “deferiti” all’Adunanza plenaria. La straordinaria capacità “creativa” dimostrata, pure in questa occasione, dal Giudice della nomofilachia amministrativa avrebbe quantomeno potuto essere utilizzata anche per chiedere alle Sezioni di riferimento una previa pro- nuncia sulla ammissibilità di tali interventi. La portata innegabilmente “decisoria” delle risposte date ai quesiti e il fortissimo impatto “a tutto tondo” delle pronunce sull’intero sistema giuridico-economico delle nostre coste (significativamente considerate come un unico bene per affermarne l’interesse transfrontaliero certo: v. infra) – con la dichiarazione di radicale inefficacia di tutte le proroghe, anche future, delle concessionia uso turistico-ricreativo disposte con apposite leggi e senza una previa procedura di evidenza pubblica – avrebbe invero imposto di garantire la massima effettività del contraddittorio con tutte le parti che avevano manifestato il loro concreto interesse a difendere le posizioni cui il legislatore, le amministrazioni e, come si è visto, in alcuni casi, gli stessi giudici, avevano riconosciuto stabilità. Per le stesse ragioni non è accettabile il rifiuto dell’intervento delle Associazioni di categoria (§ 10.3) con la giustificazione che la pronuncia è resa sui quesiti posti in un giudizio sul “diniego di proroga di una singola concessione demaniale”, e“non incide in via diretta ed immediata sugli interessi istituzionalmente rappresentati [da tali Associazioni], ma produce solo effetti non attuali e meramente eventuali sulla sfera dei concessionari”.
Già per questo primo profilo, incontestabilmente decisorio, le sentenze potrebbero essere quindi impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost., per eccesso di potere giurisdizionale sub specie di astratto e aprioristico “diniego di giustizia” nei confronti dei predetti aspiranti intervenienti.
Con riferimento alla più ampia questione della possibilità di farne oggetto di ricorso per “motivi di giurisdizione”, merita peraltro sin da ora osservare che, anche in termini più generali – per quanto detto e per quanto emerge dalla piana lettura del relativo testo – tali pronunce sono immediatamente idonee a incidere, anche sotto il profilo sostanzia- le, (quantomeno) sulle posizioni delle parti in causa e non appare per- tanto giustificabile escluderne a priori la censurabilità dinanzi alla Corte di Cassazione semplicemente trincerandosi dietro la natura formalmente non decisoria delle sentenze dell’Adunanza plenaria (in pretesa analogia con quanto affermato, in una singola pronuncia e in situazione affatto diversa, dalla Suprema Corte nella sentenza 22 dicembre 2017, n. 13, con riferimento al vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico antecedenti al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). Una tale soluzione di chiusura contrasterebbe, a tacer d’altro,anche con il principio di economicità del sistema (o “servizio”) giustizia, evidentemente pregiudicato dalla moltiplicazione dei ricorsi avverso le successive decisioni man mano rese dalle Sezioni semplici nel rispetto delle conclusioni accolte dalla Plenaria. Ma, soprattutto, come è agevole comprendere, essa rallenterebbe in termini oltremodo rischiosi l’acquisizione di una necessaria certezza sulla effettiva intangibilità processuale del quadro “costruito” dal Giudice amministrativo. Un quadro che, da più parti e sotto vari profili, è apparso come un’indebita invasione della sfera riservata al legislatore[16].
4. Il confronto con il diritto UE
La lettura – e rilettura – delle pronunce restituisce invero sempre più la triste impressione che, avvertendo la difficoltà della politica di trovare urgentemente una soluzione a un problema sicuramente serio e annoso, aggravato dalle vane e ripetute sollecitazioni delle istituzioni eurounitarie a un legislatore smaccatamente attendista, il Consiglio di Stato, con un’azione congiunta dei suoi organi supremi, abbia ingiustamente sacrificato il suo ruolo di giudice-interprete per privilegiare quello -proprio piuttosto della funzione consultiva- di “ausiliare” il legislatore in una congiuntura particolarmente difficile, fino ad assumere, in sua vece, posizioni e scelte di “opportunità” e di “equilibrio”nel contemperamento di diversi interessi, che sono appannaggio esclusivo della politica. Pur comprendendo la generosità del gesto – particolarmente importante in un momento di grande sintonia tra i vertici nazionali e quelli dell’Unione – siffatto modus operandi, come già rilevato in altre occasioni[17], non manca di destare serie perplessità.
Il percorso motivazionale delle sentenze non appare del resto lineare.
A cominciare dall’approccio al diritto UE.
La Plenaria muove dal richiamo alla citata sentenza 14 luglio 2016 della CGUE sul caso Promoimpresa, evidenziando(§ 12 delle sentenze) che essa ha affermato, in sintesi che
1) l’art. 12, §§ 1 e 2, della DS deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati;
l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali in essere per attività turistico ricreative, “nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo” e, dichiarando di condividerla, ribadisce “il principio secondo cui il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 dellec oncessioni in essere”, ritenendolo evincibile sia dall’art 49 (e dall’art. 56) TFUE, che dal citato art. 12 della Direttiva123/2006.
Sotto il primo profilo, richiamando peraltro soltanto la giurisprudenza UE in tema di appalti, la Plenaria afferma che “l’interesse transfrontaliero certo consiste nella capacità di una commessa pubblica o, più in generale, di un’opportunità di guadagno offerta dall’Amministrazione anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non portano alla conclusione di un contratto di appalto o di concessione, di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri”. Senonché, per poter aprioristicamente sostenere la sussistenza di tale interesse per la totalità delle “concessioni balneari” (con buona pace del ritenuto difetto di legittimazione delle Associazioni di categoria), è costretta a fare un ulteriore salto logico, affermando che per queste ultime “a venire in considerazione come strumento di guadagno offerto dalla p.a. non è il prezzo di una prestazione né il diritto di sfruttare economicamente un singolo servizio avente rilevanza economica. Al contra- rio degli appalti o delle concessioni di servizi, la p.a. mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo”, e facendo leva sull’eccessivo guadagno consentito ai concessionari (anche solo per effetto della combinazione tra la modestia del canone e la facoltà di subconcedere il bene a un prezzo più alto), per sostenere che, per evitare “disparità di trattamento” tra le diverse aree, “non vi è dubbio che le spiagge italiane (così come le aree lacuali e fluviali) per conformazione, ubicazione geografica e attrazione turistica presentino tutte e nel loro insieme un interesse transfrontaliero certo, il che implica che la disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata si pone in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE, in quanto è suscettibile di limitare ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, a maggior ragione in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere”.
L’argomento appare francamente forzato e dimostra, anzi, la debolezza della costruzione. L’interesse transfrontaliero certo richiesto per invocare la violazione del Trattato TFUE deve riguardare il singolo atto e non può essere evidentemente riferito a un insieme di situazioni e di rapporti con diversi soggetti. La stessa sentenza Promoimpresa ricorda del resto che l’individuazione di tale interesse deve essere effettuata dal giudice del rinvio, “tenendo conto in particolare della situazione geografica del bene e del valore economico” della relativa concessione, tanto da dichiarare inammissibile la questione prospettata da un giudice che non aveva specificamente individuato la sussistenza di un siffatto interesse in relazione alla fattispecie controversa (§ 68). In termini ancor più evidenti, la lettera di contestazione della Commissione UE si era, come visto, limitata a rappresentare la “possibilità di presumere” la sussistenza di un interesse transfrontaliero certo per “almeno alcune” delle concessioni in oggetto, senza affatto affermare un siffatto interesse per tutte quelle esistenti. Ogni eventuale dubbio a tale riguardo avrebbe dovuto dunque essere sottoposto alla CGUE, pena la sottrazione della questione al suo giudice naturale e la conseguente censurabilità della pronuncia per invasione della sfera ad esso riservata[18].
Non convince neppure, evidentemente, il richiamo all’esigenza di evitare disparità di trattamento tra le diverse aree.Tale disparità, legittimata dalla stessa Commissione, è invero perfettamente ragionevole e logica in considerazione proprio del diverso appeal del bene e della maggiore o minore disponibilità di analoghe risorse.
Evidentemente consapevole della debolezza dell’approccio, la Plenaria afferma infatti che “l’obbligo di evidenza pubblica discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della c.d. direttiva 2006/123, che prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo”. Il problema si sposta però – e le sentenze ben lo comprendono – sulla riconducibilità delle concessioni de quibus all’ambito di applicazione di tale articolo e, questione di non poco momento, sull’idoneità della direttiva a esplicare un effetto diretto sui rapporti concessori in essere. L’iter argomentativo seguito a tale riguardo dal massimo Consesso della giustizia amministrativa si appoggia ancora una volta sulla richiamata sentenza Promoimpresa del 2016 (e a ben vedere, pur non evidenziandolo, sulla ricostruzione fattane nella lettera di contestazione del 2020). Anche sotto questo profilo, il ragionamento della Plenaria non appare tuttavia agevolmente condivisibile. È ben vero, infatti, che – nonostante, come anticipato, lo stesso Frits Bolkestein abbia espressamente escluso che la DS intendesse riferirsi anche alle concessioni di beni[19] – la giurisprudenza UE, anche recentemente, facendo leva sull’ampia definizione di “servizio” data dal suo art. 4.1, comprensiva di “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione”, vi abbia specificamente ricondotto anche l’“attività di locazione di un bene immobile […], esercitata da una persona giuridica o da una persona fisica a titolo individuale” (Corte di giustizia, Grande sezione, 22.9.2020, C-724/2018 e C-727/2018, § 34).
Il tema dei suoi effetti sulle proroghe de quibus è tuttavia molto più complesso.
Il primo possibile ostacolo individuato dalla sentenza Promoimpresa a una immediata e generalizzata eliminazione dal mondo giuridico delle proroghe ex lege delle concessioni balneari è invero rappresentato, come ha poi ricordato la stessa Plenaria, dalla condizione della scarsità della risorsa. Condizione che significativamente la CGUE, lungi dal ritenere insita nel bene costiero, rimette di valutare, evidentemente di volta in volta, al giudice nazionale. Lascia, quindi, perplessi la valutazione svolta in modo generale e onnicomprensivo dalla Plenaria. Il Supremo Collegio ritiene invero di poter superare l’ostacolo riconosciuto dalla stessa CGUE richiamando dati non pubblici[20] e riferiti, ancora una volta, alla situazione complessiva nazionale, oltre che al netto delle concessioni in proroga. Laddove la valutazione avrebbe dovuto, più coerentemente, essere operata, caso per caso, dal giudice delle singole fattispecie – anche alla luce del fatto, valorizzato dalla sentenza Promoimpresa (cfr. § 25 sentenze), che le concessioni sono rilasciate a livello comunale e non nazionale – e, possibilmente, all’esito di una attenta e puntuale ricognizione e pianificazione dell’uso delle coste,di cui significativamente il Governo ha ribadito la necessità, tanto che, per questa espressa ragione, ha nuova- mente rinviato il riordino del sistema. Merita a tale proposito ancora una volta richiamare la lettera di contestazione del 2020:la Commissione non ha escluso ex se la necessità della prodromica ricognizione della situazione in essere (limitandosi a censurare le tempistiche previste dalla l. n. 145 del 2018), né ha affermato che tutte le aree demaniali destinabili a uso turistico-ricreativo sono “risorse scarse”, ma ha soltanto – affatto diversamente – rilevato che disposizioni della suddetta l. n. 145/2018 “sono di natura generale e assoluta e non tengono conto né delle specificità locali (ad esempio non vi è alcuna disposizione che limiti tali proroghe alle zone in cui le risorse non sono limitate) né di eventuali valutazioni effettuate nel conte- sto delle attività di mappatura e di revisione svolte a norma dei commi 677 e 678”. Come per l’interesse tranfrontaliero, la Commissione ha dunque stigmatizzato il fatto che, attraverso una proroga generale indiscriminata, la legislazione nazionale in questione vi abbia inevitabilmente compreso anche concessioni aventi ad oggetto risorse che devono essere considera-te scarse in base ai criteri stabiliti dall’art. 12 della DS e specificati nella sentenza della CGUE. La differenza rispetto a quanto affermato dalla Plenaria è plateale.
Anche sotto questo profilo, pertanto, il Supremo Collegio, qualora avesse nutrito dubbi al riguardo, avrebbe dovuto rivolgere uno specifico quesito alla Corte UE.
In ogni caso, non sembra pacifico che sussistano i presupposti per parlare di violazione di una “direttiva self executing”. Innanzitutto, per- ché la Direttiva Servizi è stata specificamente recepita dal nostro legislatore con il d.lgs. n. 59 del 2010, che, all’art. 16, riprendendo testualmente i contenuti dell’art. 12 DS, impone alle autorità competenti al rilascio di titoli autorizzatori disponibili per una determinata attività di servizi, limitato per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili, di applicare “una procedura di selezione tra i candidati potenziali e assicurare la predeterminazione e la pubblicazione, nelle forme previste dai propri ordinamenti, dei criteri e delle modalità atti ad assicurarne l’imparzialità, cui le stesse devono attenersi”. Aggiunge però, in linea col co. 3 dello stesso art. 12, che “Nel fissare le regole della procedura di selezione le autorità’ competenti possono tenere conto di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.
In secondo luogo, perché, nonostante gli abili sforzi del Collegio
giudicante per affermarlo, si potrebbe obiettare che la Direttiva, richiedendo comunque un intervento del legislatore,non abbia quel livello di dettaglio e di specificità necessario ai fini della sua diretta applicabilità e difatti, significativamente, nella sentenza Promoimpresa non vi è alcuna affermazione in tal senso e, come visto, laCommissione censura la l. n. 145 del 2018 anche perché, non fissando alcun “criterio specifico e oggettivo” per l‘affidamento delle nuove concessioni e non prevedendo “alcuna procedura, in particolare per quanto concerne l’obbligo di assicurare una procedura di selezione tra i candidati potenziali che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, non permettono in pratica di assicurare che esse siano assegnate in conformità ai detti principi. La Plenaria supera l’impasse osservando che “il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per potersi considera re self-executing dipende dal risultato che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è necessaria per realizzare tale risultato”, sicché, nella specie, esso sarebbe rinvenibile nella chiarezza dell’obiettivo – apertura al mercato dei servizi – e nella correlata imposizione di “una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mu- tuo riconoscimento e proporzionalità”, che, pur in assenza di una specifica declinazione di tali principi, le amministrazioni concedenti potrebbero (e dovrebbero) autonomamente costruire per porre fine al sistema privilegiato delle proroghe (§ 26 sentenze).
L’imprescindibilità di un intervento legislativo, più volte sottolineata anche dalla Commissione, è tuttavia dimostrata dagli stessi successivi passaggi delle sentenze in commento, laddove si fa riferimento alla possibilità/opportunità di consentire la proroga delle concessioni in essere quando ciò sia finalizzato alla tutela di interessi culturali, sociali, ecc., e alla necessità di prevedere meccanismi idonei in qualche modo a tutelare le posizioni dei gestori uscenti, ma anche –e, si può dire, soprattutto – laddove, dopo aver nettamente dichiarato che gli atti di proroga adottati in attuazione di leggi in tesi inapplicabili devono ritenersi tamquam non essent, dilazionano di due anni tale “inesistenza” sulla scorta di una valutazione di “congruità” del tempo necessario per disciplinare, allestire e concludere le nuove gare.
Meglio sarebbe stato allora forse reinterrogare in modo più puntuale la Corte di Giustizia, anche sotto il profilo della possibilità di riconoscere effetti diretti verticali “inversi” della Direttiva al fine di consentire all’amministrazione di applicare immediatamente le sue disposizioni nei confronti dei concessionari.
Ancora meglio, tuttavia, sarebbe stato portare un tema così delicato alla Corte costituzionale, sollevando una questione di legittimità costituzionale delle leggi di proroga per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. in riferimento all’art. 12 della DS quale parametro interposto di costituzionalità.
Così facendo, si sarebbe correttamente rimessa al Giudice delle leggi la scelta – naturalmente sempre previo eventuale rinvio alla Corte di Giustizia – se dichiarare incostituzionali le leggi di proroga per contrasto con un diritto UE privo di effetti diretti (e la sentenza costituzionale, in questo caso, avrebbe potuto sospendere il giudizio in attesa dei chiarimenti della Corte di Giustizia o al limite prevedere anche un differimento dei suoi effetti temporali); oppure – qualora la DS fosse stata ritenuta dotata di effetti diretti – valutare l’esistenza di possibili “controlimiti” all’ingresso della norma europea nell’ordinamento italiano.
Le sentenze sembrano però tradire, a ben vedere, un interesse di fondo diverso da quello del mero rispetto del primato del diritto UE, che nulla ha a che vedere con questo e che, ancora una volta, introduce un elemento eccentrico rispetto al ruolo del giudice: l’esigenza di un migliore sfruttamento del patrimonio nazionale costiero “e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza” per “contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita” (§ 27 sentenze). Così come, del resto, è eccentrica l’affermazione, nella lettera di messa in mora della Commissione, che, attraverso le proroghe delle concessioni costiere in essere, “l’attuale legislazione italiana impedisce, piuttosto che incoraggiare, la modernizzazione di questa parte importante del settore turistico italiano”. Se è vero, infatti, come è vero, che la Direttiva Bolkestein si occupa soltanto di liberalizzazione delle attività economiche, e, solo in questi limiti, anche di quelle turistiche, la considerazione è totalmente fuori luogo e dovrà essere, se mai, riproposta nel quadro di una normativa di armonizzazione della disciplina di tutte le attività turistiche all’in- terno dell’Unione. Normativa che, per quanto concerne le autorizzazioni contingentate, dovrà però tenere conto anche dei regimi adottati dagli altri Stati in ordine alla gestione di tutti i beni pubblici utilizzati da terzi per l’esercizio di attività economiche.
Il richiamato § 27 delle sentenze rivela, inoltre, un probabile equivoco di fondo, che potrebbe avere sviato l’intero ragionamento del Supremo Giudice amministrativo, laddove afferma che “il confronto “è estremamente prezioso per garantire ai cittadini (…) una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza”. L’abbaglio è evidente e trova espressa conferma nell’art. 01 del d.l. n. 400 del 1993, che, come visto, tiene espressamente distinte le concessioni per finalità turistico-ricreative da quelle “per servizi pubblici” (il che rende inapplicabili alle prime i principi e le regole delle concessioni finalizzate alla gestione di tali servizi e, per l’effetto, lascia privo delle necessarie specifiche regole il relativo affidamento). Senza dimenticare che la DS non trova applicazione ai servizi pubblici, sicché, se il riferimento a questi ultimi fosse convinto, il richiamo a tale Direttiva sarebbe improprio. Mentre, se, come è verosimile, è il riferimento a essere “improprio”, le ragioni di interesse generale sulle quali la Plenaria fonda la necessità di un confronto competitivo generalizzato si indeboliscono, vedendo rafforzare l’esigenza di investire della questione la Corte costituzionale, per una ponderata valutazione dei possibili “controlimiti” all’indiscriminato cedimento dei valori del nostro patrimonio costiero al diritto della concorrenza.
5. Gli effetti del rilevato contrasto con il diritto UE
Con buona pace dei principi di certezza del diritto, ci troviamo quindi di fronte a pronunce che, per un verso, mentre ribadiscono che gli atti amministrativi in contrasto con il diritto UE sono semplicemente annullabili, subito dopo – per sfuggire ai limiti temporali dell’autotutela caducatoria stabiliti dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990 s.m.i. – muovendo da presupposti, come visto, a loro volta incerti, affermano con nettezza che le proroghe disposte dalle singole amministrazioni mediante il richiamo alle leggi del 2018 e del 2020 non sarebbero espressione di un potere amministrativo, ma atti meramente ricognitivi, i quali, stante il contrasto delle suddette leggi con norme UE a effetto diretto (da cui l’obbligo di tutte le autorità nazionali di non applicarle[21]), devono ritenersi addirittura tamquam non essent, e, per l’altro verso, consapevoli dell’ingestibilità degli effetti di una tale deflagrante affermazione, statuiscono (recte dispongono), attraverso una inedita e poco convincente analogia con la graduazione degli effetti dell’annullamento di un atto illegittimo, che l’operatività degli effetti delle decisioni assunte deve essere rinviata di un biennio, come se il “fatto” dell’inesistenza ab imis di tali atti potesse esse- re artificiosamente sospeso fino al 1° gennaio del 2024 (!).
È però agevole obiettare che, diversamente dal caso dell’annullamento di un provvedimento, che incide, sia pure con effetto ex tunc, sulla sua validità – tanto che il provvedimento, fino a che viene annullato, è valido ed efficace – un atto qualificato ab origine tamquam non esset, perché meramente ricognitivo di una legge a sua volta ab origine inapplicabile, non può acquistare efficacia in virtù di una sentenza, tanto più se è proprio quella che dichiara l’inapplicabilità della legge che ne è il fondamento. Non solo.
Per soccorrere il legislatore, le sentenze incorrono anche in una contraddizione che non pare superabile: se il primato del diritto UE e la pretesa valenza autoapplicativa della Direttiva 123/2006 ostano all’applicazione delle leggi nazionali di proroga e gli atti amministrativi che le richiamano devono per l’effetto davvero essere considerati tamquam non essent, le sentenze che ne affermano comunque l’efficacia fino al 31 dicembre 2023 finiscono, in sostanza, esse stesse per disporre, in via giurisdizionale, la medesima proroga generalizzata e indiscriminata delle vigenti concessioni che hanno ritenuto incompatibile con il diritto UE. E, dunque, proprio in forza del ragionamento svolto, dovrebbero essere a loro volta disapplicate dalle amministrazioni e dagli altri giudici.
Non è difficile immaginare la confusione che ne conseguirà.
Si è già detto che le sentenze (o comunque quelle, a partire dalle pronunce sui giudizi a quibus, vi si adegueranno) potrebbero essere impugnate dinanzi alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8, Cost., per eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore e/o del- la Corte di Giustizia e/o ancora della Corte costituzionale.
Ma, anche senza considerare tali evenienze, i contenziosi che ne seguiranno saranno verosimilmente numerosi.
Le singole amministrazioni concedenti dovrebbero, secondo la Plenaria, “comunicarne” l’esito ai concessionari in proroga, i quali, verosimilmente, attiveranno autonomi giudizi per difendere le proprie posizioni, prospettando presumibilmente in quelle sedi questioni di compatibilità costituzionale ed eurounitaria. L’espressa esclusione di ogni potere amministrativo potrebbe peraltro creare, nonostante la materia sia affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche dubbi sulla giurisdizione.
Le amministrazioni che hanno già avviato procedure di evidenza pubblica, qualora non ritenessero di disapplicare le sentenze, dovrebbero confermare l’operatività delle proroghe fino al 31 dicembre 2023; e verosimilmente saranno destinatarie di azioni risarcitorie da parte dei concessionari non prorogati.
Ma, soprattutto, non mancheranno le azioni risarcitorie contro le amministrazioni concedenti e contro lo stesso Stato (in forma di giudice o di legislatore[22]) per aver creato un affidamento nella stabilità del titolo. Proprio l’investitura della Plenaria e il suo contorto esito escludono invero che la situazione antigiuridica da essa riscontrata –ma significativamente confermata per un ulteriore biennio – fosse immediatamente percepibile ai concessionari[23], che, all’opposto, avevano pieno titolo per sentirsi rassicurati dai ripetuti interventi del legislatore (dal 2009 al 2020), dalle proroghe amministrative e, in vari casi, anche da appositi giudicati e/o dal decorso del tempo per l’esercizio del potere di autoannullamento che la stessa Plenaria ha confermato essere di norma lo strumento per la rimozione degli atti anticomunitari. Sicché, per poter essere edotti della pretesa inconsistenza delle proroghe amministrative, i concessionari,non solo avrebbero dovuto essere esperti di diritto eurounitario, ma avrebbero dovuto addirittura avere coscienza che esse non avevano valenza provvedimentale, ma meramente ricognitiva e che, per tale ragione, dovevano ritenersi sottratte ai limiti dell’autotutela e alle garanzie dell’inoppugnabilità![24].
È del pari prevedibile l’avvio di un intenso contenzioso civile (con conseguenti eccezioni di illegittimità costituzionale e incompatibilità eurounitaria) tra coloro che abbiano eventualmente stipulato atti di trasferimento o di subconcessione, con possibile chiamata in causa delle stesse amministrazioni concedenti.
Nonostante le “rassicurazioni” fornite dalla Plenaria, le sentenze potranno poi avere riflessi di carattere penale. Come dimostrato dalle considerazioni svolte dal GIP del Tribunale di Genova sull’istanza di revoca del sequestro dei “Bagni Liggia”[25], infatti, è innegabile che le sentenze daranno forza all’orientamento più rigoroso già manifestato dallaCorte di Cassazione sul carattere abusivo delle occupazioni fondate sulle proroghe ex lege, in ragione del relativo contrasto con il diritto UE[26]. Evidenzia infatti il Giudice, richiamando le parole della Suprema Corte penale, che,contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato, con riferimento all’operazione di disapplicazione di una norma anticomunitaria, non può “porsi una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi l’ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”; sicché, come si legge nel medesimo provvedimento, le decisioni assunte dalla Plenaria, lungi dall’essere irrilevanti ai fini penali, contribuiscono, con il loro “autorevole avallo” a confermare “l’esistenza dell’elemento oggettivo del reato”. E non si può purtroppo escludere il rischio che,dopo le lapidarie affermazioni di tali pronunce, i giudici penali ritengano che la fictio del “rinvio” al 31 dicembre 2023dell’operatività dei relativi effetti non sia sufficiente a riconoscere l’assenza dell’elemento soggettivo di un illecito che,anche per la stessa Plenaria, è già in atto da molti anni.
Da ultimo, ma assolutamente non ultimo, c’è poi sicuramente da attendersi un vasto e acceso contenzioso sulle modalità e sulle procedure di selezione dei nuovi concessionari, che, nonostante l’imprescindibilità di una disciplina unitaria a livello nazionale (ai sensi dell’art. 117, comma 1, lett. e, Cost.), sintomaticamente rilevata, come visto, anche dalla Commissione UE nella lettera di contestazione del 2020, la Plenaria sembra imporre di fatto alle singole amministrazioni di avviare (e concludere) entro il 31 dicembre 2023.
Dopo avere (in tesi) legittimato le proroghe di un ulteriore biennio, il Collegio afferma infatti, che “scaduto tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se vi sia –o meno- un soggetto subentrante nella concessione” e, utilizzando lo schema delle sentenze “monito” della Corte costituzionale, aggiunge con assoluta nettezza che “si precisa sin da ora che eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni disciplina comunque diretta a eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere”.
Ma quid iuris nell’ipotesi, che la storia vede tutt’altro che improba- bile, di ulteriore inerzia del legislatore? Potrà il fardello gravare intera- mente sulle amministrazioni, demandandosi così di fatto a queste ultime, con le scarne indicazioni date nel § 49 delle sentenze in un ennesimo, indebito, slancio “paranormativo”, anche l’individuazione delle possibili eccezioni per superiori ragioni di interesse pubblico e di misure idonee a tutelare in qualche modo (ma non troppo) le posizioni dei concessionari uscenti. Senza soffermarmi sugli altri profili, limitandomi allo spinoso tema dell’indennizzo, merita segnalare che la Plenaria afferma, tra l’altro, testualmente che “l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, esse- re supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi”. Ma trascura evidentemente che, in mancanza di diverse norme primarie, la disposizione applicabile è l’art. 42 c. nav. (cui la Plenaria non fa alcun cenno), il quale prevede la corresponsione di un indennizzo soltanto nel caso, evidente- mente diverso da quello configurato dalle sentenze in commento (con- cessioni scadute per proroghe tamquam non essent), in cui sia stata disposta una revoca anticipata della concessione e soltanto qualora questa abbia “dato luogo a costruzione di opere stabili”, con la precisazione che, salvo che non sia diversamente stabilito, l’indennizzo è “pari al rimborso di tante quote parti del costo delle opere quanti sono gli anni mancanti al termine di scadenza fissato” e che, in ogni caso, esso “non può essere superiore al valore delle opere al momento della revoca, detratto l’ammontare degli effettuati ammortamenti”.
Lo stesso codice della navigazione aggiunge peraltro, all’art. 49, parimenti non considerato dalle sentenze, che “Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato. In quest’ultimo caso, l’amministrazione, ove il con- cessionario non esegua l’ordine di demolizione, può provvedervi a termini dell’articolo 54”.
Mentre è indubbio che i concessionari uscenti che, confidando nelle proroghe, hanno continuato a investire le proprie risorse (economiche e personali) nelle imprese e nelle attività svolte sulle aree in concessione, dovranno essere, quanto meno, adeguatamente indennizzati, non soltanto per gli investimenti effettuati e non ancora ammortizzati (condizione sulla cui ricorrenza si apriranno ulteriori contenziosi), ma anche per l’avviamento aziendale di cui i nuovi gestori potranno fruire.
Quanto alla peculiarità delle diverse situazioni e agli interessi pubblici che giustificano la sottrazione di alcune concessioni alle regole della concorrenza, è agevole, innanzitutto pensare a quelli di carattere sociale (tipico l’esempio delle aree attrezzate per le colonie) o di carattere storico-culturale (in analogia a quanto ritenuto per i ristoranti “Savini”, “Gatto rosso” e “Il salotto” all’interno della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano[27]), ma anche a luoghi di particolare pregio paesaggistico e/o rilevanza ambientale, strettamente legati nella tradizione all’identità di una specifica comunità territoriale.
Il problema dei problemi, come ben evidenziato dalla Commissione UE nella lettera di messa in mora 2020, è comunque quello della definizione dei requisiti e delle regole della procedura. L’espressa esclusione delle concessioni di beni dall’ambito di applicazione della Direttiva sulle concessioni di servizi pubblici, in una con la altrettanto espressa distinzione tra le concessioni di aree demaniali per finalità turistico-ricreative e le concessioni di servizi pubblici tracciata dall’art. 01 del d.l. n. 400 del 1993 (significativamente richiamata anche nella lettera di messa in mora del 2020) non consentono di utilizzare sic et simpliciter i criteri e le regole procedimentali stabiliti per tali concessioni. Né può dicerto indurre in tal senso il riferimento, evidentemente atecnico, ai “servizi pubblici”, contenuto nel § 27 delle sentenze. E tanto meno può essere rimessa all’autonomia (e alla fantasia) delle singole amministrazioni comunali la fissazione di tali criteri e regole, a rischio di creare una vera e propria Babele. Quid iuris, allora, se il 31 dicembre 2023 non saranno stati ancora individuati nuovi concessionari? Varrà, verosimilmente, la regola generale che impone al concessionario uscente di garantire la gestione del bene fino al subentro del nuovo gestore. Ma quale gestore continuerà a investire senza alcuna certezza sulle sorti di tali investimenti?
Il rischio, dunque, è che il Consiglio di Stato, per “soccorrere” il legislatore, abbia inferto un altro duro colpo alla sicurezza giuridica e all’economia del nostro Paese.
*L’articolo riproduce la introduzione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria” ed è destinato agli Scritti in onore di Maria Immordino, in corso di pubblicazione.
[1] Per un primo commento sulle sentenze, v. E. CANNIZZARO, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato; F.P. BELLO, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, entrambi in Giustiziainsieme.it, 2021 e M. TIMO, Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia, in Riv. giur. edil., n. 5/2021 e ivi ulteriori richiami.
[2] La bibliografia sul tema è vastissima. Si segnalano quindi, per tutti, senza pretesa di esaustività, i lavori monografici di A. GIANNELLI, Concessioni di beni e concorrenza, Napoli 2018 e di M. TIMO, Le concessioni balneari alla ricerca di una disciplina fra normativa e giurisprudenza, Torino, 2020 e i lavori ivi richiamati; F. CAPELLI, Evoluzioni, splendori e decadenza delle direttive comunitarie. Impatto della direttiva CE n. 2006/123 in materia di servizi: il caso delle concessioni balneari, Napoli 2021; nonché, oltre allo scritto di B. CARAVITA DI TORITTO, G. CARLOMAGNO, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma, pubblicato in federalismi.it, n. 20/2021 (che si ripubblica in questo fascicolo in memoria dell’illustre condirettore), i contributi raccolti nel volume a cura di A. LUCAREL- LI, B. DE MARIA, M.C. GIRARDI Governo e gestione delle concessioni demaniali marittime, Principi Costituzionali, beni pubblici e concorrenza tra ordinamento europeo e ordinamento interno, in Quaderni della Rassegna di diritto pubblico europeo, 7, Napoli 2021 e, con specifico riferimento al decreto con cui il Presidente del Consiglio di Stato ha richiesto l’intervento dell’Adunanza plenaria, R. DIPACE, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative, in Giustiziainsieme.it. 2021.
[3] Fonte: Unioncamere.
[4] Procedura di infrazione 2020/4118 C (2020) 7826 final, Bruxelles, 3 dicembre 2020.
[5] In particolare, l’Autorità ha osservato che, nei mercati in cui, in ragione delle specifiche caratteristiche oggettive delle attività tecniche, economiche e finanziarie, esiste un’esclusiva, o sono ammessi a operare un numero limitato di soggetti, l’affidamento delle concessioni deve comunque avvenire mediante procedure concorsuali trasparenti e competitive, al fine di attenuare gli effetti distorsivi della concorrenza, connessi alla posizione di privilegio attribuita al concessionario. Con conseguente obbligo di disapplicare la normativa interna, che viola i principi concorrenziali nella misura in cui impediscono il confronto competitivo che dovrebbe essere garantito in sede di affidamento dei servizi incidenti su risorse demaniali di carattere scarso, in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere (ex multis, AS1701 del 28 luglio 2020, Comune di Piombino, AS1712 del 1 dicembre 2020, Comune di Castiglione della Pescaia, AS1719 del 9 dicembre 2020, Comune di Castellabate. Cfr. anche AS1684 del 7 luglio 2020, Osservazioni in merito al alle disposizioni contenute nel Decreto Rilancio).
[6] Cfr. la Segnalazione ai sensi degli artt. 21 e 22 della l. n. 287 del 1990 in merito a Proposte di riforma concorrenziale, ai fini della Legge Annuale per il Mercato e la Concorrenza Anno 2021, 45 s.
[7] Inter alia, Demanio e mare: il problema delle concessioni alla luce dell’adunanza ple- naria, organizzato dall’Università della Calabria il 22 novembre 2021, e Diritto dell’Unione Europea e concessioni balneari alla luce delle recenti sentenze dell’Adunanza Plenaria, organizzato dall’Università degli studi di Napoli Federico II il 20 dicembre 2021, cui adde la Relazione tenuta sul tema da G. MORBIDELLI al convegno IGI del 14 dicembre 2021.
[8] Art. 18 – Pubblicazione della domanda 1. Quando si tratti di concessioni di parti- colare importanza per l’entità o per lo scopo, il capo del compartimento ordina la pubblicazione della domanda mediante affissione nell’albo del comune ove è situato il bene richiesto e la inserzione della domanda per estratto nel Foglio degli annunzi legali della provincia.
2. Il provvedimento del capo del compartimento che ordina la pubblicazione della domanda deve contenere un sunto, indicare i giorni dell’inizio e della fine della pubblicazione ed invitare tutti coloro che possono avervi interesse a presentare entro il termine indicato nel provvedimento stesso le osservazioni che credano opportune.
3. In caso di opposizione o di presentazione di reclami la decisione spetta al ministro dei trasporti e della navigazione.
4. In ogni caso non si può procedere alla stipulazione dell’atto se non dopo la scadenza del termine indicato nel provvedimento per la presentazione delle osservazioni e se, comunque, non siano trascorsi almeno venti giorni dalla data dell’affissione e dell’inserzione della domanda.
5. Nei casi in cui la domanda di concessione sia pubblicata, le domande concorrenti debbono essere presentate nel termine previsto per la proposizione delle opposizioni.
6. Il ministro dei trasporti e della navigazione può autorizzare l’esame delle domande presentate anche oltre detto termine per imprescindibili esigenze di interesse pubblico.
7. Quando siano trascorsi sei mesi dalla scadenza del termine massimo per la presentazione delle domande concorrenti senza che sia stata rilasciata la concessione al richiedente preferito per fatto da addebitarsi allo stesso, possono essere prese in considerazione le domande presentate dopo detto termine.
8. Le disposizioni del presente articolo si applicano in ogni altro caso di presentazione di domande concorrenti.
Il successivo art. 19 del Regolamento individua il “contenuto dell’atto di concessione”, precisando che:
- Nell’atto di concessione devono essere indicati:
- l’ubicazione, l’estensione e i confini del bene oggetto della concessione;
- lo scopo e la durata della concessione;
3) la natura, la forma, le dimensioni, la struttura delle opere da eseguire e i termini assegnati per tale esecuzione;
4) le modalità di esercizio della concessione e i periodi di sospensione dell’esercizio eventualmente consentiti;
5) il canone, la decorrenza e la scadenza dei pagamenti, nonché il numero di rate del canone il cui omesso pagamento importi la decadenza della concessione a termini dell’articolo 47 del codice;
6) la cauzione;
7) le condizioni particolari alle quali è sottoposta la concessione, comprese le tariffe per l’uso da parte di terzi;
8) il domicilio del concessionario.
2. Agli atti di concessione devono essere allegati la relazione tecnica, i piani e gli altri disegni.
3. Nelle licenze sono omesse le indicazioni che non siano necessarie in relazione alla minore entità della concessione.
[9] Si rinvia, in proposito, allo studio del Parlamento europeo, Concessioni balneari in Italia e Direttiva 2006/123/EC, nel contesto europeo, Bruxelles, 2017 e agli Studi della Camera dei Deputati su Le concessioni demaniali marittime in Croazia, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna, Info aggiornate all’8 marzo 2018.
[10] Cfr. E. AjMAR, P. MAffEI, Concessioni balneari: si naviga a vista. Uno studio di caso, in federalismi.it, n. 18/2020. Il discorso integrale di Frits Bolkestein, dal titolo “Convegno. L’Euro, l’Europa e la Bolkestein spiegate da Mr. Bolkestein” e registrato da Radio Radicale a Roma il 18 aprile 2018, è disponibile sul sito www.radioradicale.it».
[11] Si affidava a un apposito dPCM da emanare entro 120 giorni, di fissare i termini, le modalità e le condizioni per procedere: alla ricognizione e mappatura del litorale e del demanio costiero-marittimo; all’individuazione della reale consistenza dello stato dei luoghi, della tipologia e del numero di concessioni attualmente vigenti nonché delle aree libere o concedibili; all’individuazione della tipologia e del numero di imprese concessionarie o sub-concessionarie; alla ricognizione degli investimenti effettuati nell’ambito delle concessioni stesse e delle tempistiche di ammortamento connesse, nonché dei canoni attualmente applicati in relazione alle diverse concessioni; all’approvazione dei metodi, degli indirizzi generali e dei criteri per la programmazione dell’uso delle coste; all’individuazione di un nuovo modello di gestione delle imprese turistico-ricreative che operano sul demanio marittimo secondo schemi e forme di partenariato pubblico-privato, nonché di un sistema di rating delle imprese che svolgono tali attività; alla revisione organica delle norme connesse alle concessioni demaniali marittime contenute nel codice della navigazione o in leggi speciali in materia; al riordino delle concessioni demaniali marittime ad uso residenziale ed abitativo; alla revisione e all’aggiornamento dei canoni demaniali posti a carico dei concessionari.
Le amministrazioni competenti, individuate dal medesimo dPCM, avrebbero dovuto provvedere, entro due anni, all’esecuzione delle attività ivi previste. Nessun dPCM è stato però emanato.
[12] Inter alia, Cons. Stato, Sez. VI, 18 novembre 2019 n. 7874, ma, già sulla proroga del 2016, Sez. V, 5 marzo 2018 n. 1342. La stessa sez. V del Cons. di Stato, con le sentenze dalla n. 7251 alla 7258 del 2019, in una serie di contenziosi identici in cui si contestava l’avvio da parte di un comune di procedure di evidenza pubblica per la concessione di beni demaniali marittimi, ha tuttavia dichiarato “l’improcedibilità” degli appelli promossi dal comune per l’intervenuta l. n. 145/2018.
[13] A. GIUZIO, Balneari, Pasca: “Inammissibile negare proroga al 2033, urge riforma concessioni”, in MondoBalneare.com, 2021 e, tra le diverse pronunce, la sentenza 27 novembre 2020, n. 895.
[14] A fronte di diverse sentenze che hanno ribadito la necessità di disapplicazione del- le proroghe ex lege – tra cui TAR Campania, Sez. Salerno, 29 gennaio 2021, n. 265 e TAR Sicilia, Sez. Catania, 15 febbraio, 2021 n. 504 – il TAR Lecce ha continuato ad esempio a sostenere la sua posizione (cfr. la sentenza n. 603 del 2021).
[15] Sentenze 16 novembre 1983, Thyssen AG c. Commissione, C-188/82, ECLI:EU:C:1983:329, § 11; 6 febbraio 1986, Vlachou c. Corte dei conti, C-162/84, ECLI:EU:C:1986:56, § 6; 20 settembre 1990, Commissione c. Germania, C-5/89, ECLI:EU:C:1990:320, § 14; 7 giugno 2005, VEMW, C-17/03, ECLI:EU:C:2005:362, §§ 73-74; 24 novembre 2005, Germania/Commissione, C-506/03, ECLI:EU:C:2005:715,
§ 58; 16 dicembre 2010, Kahla Thüringen PorzellanKahla Thüringen Porzellan/ Commission, C-537/08, ECLI:EU:C:2010:769, § 63; 14 ottobre 2010, Nuova Agricast e Cofra/Commissione, C-67/09, ECLI:EU:C:2010:607, § 71 ss.
[16] Sulla ritrosia della Corte di cassazione a riscontrare in concreto tale vizio, pur ripetutamente riconosciuto in astratto, sia consentito il rinvio a M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme.it, 2020.
[17] Da ultimo, La “risorsa” del giudice amministrativo in Questione giustizia, n. 1/2021 e, ivi ulteriori richiami.
[18] Non è questa la sede per addentrarsi nella disamina della sentenza CGUE del 21 dicembre scorso sul caso Randstad Italia, ma si segnala che la Grande Sezione nonsi è pronunciata sul secondo quesito, con il quale la Cassazione le chiedeva di chiarire “se gli art. 4, 19 TUE e 267 TFUE, ostino all’interpretazione ed applicazione degli artt. 111 Cost., 360 e 362 c.p.c. e 110 c.p.a., secondo cui il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per motivi inerenti alla giurisdizione, sotto il profilo del c.d. difetto di potere giurisdizionale,non sia proponibile come mezzo di impugnazione di sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo su questioni disciplinate dal diritto dell’Unione Europea, omettano immotivatamente dieffettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario e di pregiudicare l’uniforme applicazione e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dal diritto dell’Unione”.
[19] 19 Si v. anche C. FOTINA, Bolkestein: «La direttiva non si applica agli stabilimenti balneari», in Il Sole 24 ore, 18 aprile 2018.
[20] Si parla genericamente di “dati forniti dal sistema informativo del demanio marittimo (SID) del Ministero delle Infrastrutture”.
[21] Nel senso che anche gli organi amministrativi son giuridicamente tenuti a disapplicare le disposizioni nazionali in contrasto con la normativa europea di dettaglio immediatamente applicabile, nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia, cfr. già le sentenze CGUE 22 giugno 1989 (Fratelli Costanzo) e C. cost. n. 389 del1989.
[22] Sulla responsabilità dello Stato legislatore, M. DI FRANCESCO TORREGROSSA, La responsabilità dello Stato-Legislatore e l’attività amministrativa, Napoli 2019.
[23] Come richiesto dalla stessa Adunanza plenaria con la sentenza n. 20 del 2021 per configurare un concorso di colpa del beneficiario di un atto o comportamento illegittimo a lui favorevole.
[24] Sono molto utili, in tal senso, le considerazioni svolte dal GIP del Tribunale di Ge- nova nel provvedimento del 3 dicembre 2021, di revoca del sequestro dei“Bagni Liggia”.
[25] Provvedimento 3 dicembre 2021, di revoca del sequestro.
[26] Inter alia, sent. 25993 del 2019 e le altre sentenze citate nel menzionato provvedimento di dissequestro.
[27] Cfr. C. Stato, Sez. V, 3 settembre 2018 n. 5157 (redatta dallo stesso estensore della sentenza n. 18).
Sul concorso apparente di norme tra bancarotta fraudolenta documentale e inosservanza ex art. 220 L.F.
Brevi note a margine della sentenza Cass. pen., sez. V, 12 gennaio 2022, n. 675, Di Marco
di Sandro Saba
Sommario: 1. Il quadro normativo. - 2. L’ondivaga giurisprudenza di legittimità. - 3. La persuasiva soluzione offerta.
1. Il quadro normativo
Come noto l’art. 220, r.d. n. 267/42 – negletta disposizione incriminatrice di rara contestazione nella quotidiana prassi giudiziaria – incrimina, tra le altre, l’inosservanza dell’obbligo di deposito, nel termine di tre giorni (dalla conoscenza della sentenza dichiarativa del fallimento) dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie (ai sensi dell’art. 16, comma 1, n. 3, citato decreto).
Salvo – s’affretta a precisare il Legislatore – ricorrano gli estremi della più grave ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale.
Clausola di sussidiarietà (espressa) che affanna l’interprete (come da contrastanti approdi esegetici di cui in appresso), chiamato a pronunciarsi su possibili coesistenze (nella forma concorsuale) tra diverse (e diversamente gravi) fattispecie illecite.
2. L’ondivaga giurisprudenza di legittimità
Secondo un primo orientamento, è predicabile il concorso di reati (eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione) allorquando l’inosservanza stigmatizzata all’art. 220 concerna libri e scritture contabili non incisi dall’azione fraudolenta (così Cass. pen., sez. V, 16 aprile 2018, n. 16744, Di Candido) ovvero qualora il delitto di bancarotta si sostanzi non nell’occultamento (nelle molteplici declinazioni formulate) bensì nella tenuta (irregolare o incompleta) tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (cfr. Cass. pen., sez. V, 26 gennaio 2021, n. 3190, Calò).
Trattasi di opzione ermeneutica – connotata da concretissimo approccio al caso singolo, mediante chirurgica dissezione delle condotte contemplate dall’art. 216 – d’innegabile depotenziamento della clausola di sussidiarietà che assiste l’incolpazione minore.
Vi si contrappone alternativo percorso interpretativo – cui aderisce la pronunzia in commento – ancorato a solidi argomenti (letterali, logici e giurisprudenziali), che radicalmente esclude (già in astratto) il concorso tra i delitti.
3. La persuasiva soluzione offerta
Prende il Collegio le mosse da attenta analisi della disposizione di cui all’art. 216, quale norma “a più fattispecie alternative o fungibili”, che ove cumulative “degradano al rango di semplici modalità di previsione di un unico tipo di reato” (così già Cass. pen., sez. un., 26 maggio 2011, n. 21039, Loy), con conseguente verificazione di un’indistinta e complessa azione penalmente rilevante (pur in presenza di pluralità di condotte differenziate sotto il profilo naturalistico e materiale), presidiando l’incriminazione la globale (e veridica) rappresentazione della situazione (economica, finanziaria e patrimoniale) dell’impresa, per il tramite di una contabilità ispirata al principio di continuità (pertanto insuscettibile di frazionato apprezzamento).
Sicché l’offesa che contraddistingue il delitto è ravvisabile anche qualora l’oggetto della condotta s’individui solo in alcuni dei libri o delle altre scritture (come d’altronde evincibile dalla stessa lettera della norma, che sanziona la fraudolenta manipolazione “in tutto o in parte” della documentazione), ricorrendo già in siffatto scenario il pericolo per il ceto creditorio che s’intende fugare.
Postulata l’integrazione dell’ipotesi ex art. 216 a prescindere dalla magnitudo della manipolazione, non residua possibilità alcuna di concorso con l’ancillare disposizione di cui all’art. 220 (come da clausola di sussidiarietà, fondata su genuino rapporto di specialità, per caratura del coefficiente psicologico d’addebito).
D’altronde, chiosa la Suprema Corte, “il ritardo nel deposito della rimanente parte (per dir così, residua) della contabilità nulla aggiunge in termini di maggior pericolo verso il medesimo interesse tutelato pure dall’art. 220 L.F.”, risolvendosi l’eventuale intervento sanzionatorio in un’arbitraria (ed esasperatamente formalistica) duplicazione dello stigma penale, priva di sostanziale giustificazione.
In tema v. Questioni problematiche in tema di bancarotta fraudolenta di Giuseppe De Marzo in Questioni attuali di diritto e procedura penale, Speciale n. 4/2021, 210, Foro Italiano
“Dire il diritto nel XXI secolo” (2022) di Giovanni Canzio: il coerente pensiero di un giurista sublimatosi nella giurisdizione
di Mario Serio
1. Una ricchissima raccolta di scritti elaborati lungo una traiettoria ultraventennale da un Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione che rechi l'introduzione di un Presidente emerito della Corte Costituzionale è già di per sé motivo di interesse e di induzione alla lettura per chi coltivi la letteratura giuridica più recente.
E non solo per le menzionate qualità soggettive, che pur costituiscono sicuro indice di affidabilità. È il titolo stesso, che lascia intendere che il tempo presente implichi un modo originale e degno di esplorazione dello “ius dicere” e, quindi, di esercitare la responsabilità giurisdizionale e di osservarla dall'esterno in forma critica, a consigliare di intraprendere la via dell'indagine curiosa e piena di attese intorno al volume del Presidente Giovanni Canzio. In esso sono rappresentati, ripercorsi, approfonditi, spiegati itinerari di pensiero cui hanno corrisposto esperienze di amministrazione della Giustizia collimanti con la dimensione teorica illustrata in un costante gioco di vicendevoli influenze che, per la loro armonia, impediscono di proclamare-ciò che probabilmente l'Autore non desidererebbe - la supremazia delle une o dell'altra, tanto coordinato essendone l'intreccio.
Le circostanziate e partecipi parole introduttive del Presidente Giorgio Lattanzi aprono lo scenario della lettura con l'autorevole avvertimento che un filo rosso lega tra loro i vari saggi pubblicati nel libro. Ed esso viene felicemente ravvisato nell'unitario, per quanto articolato, discorso sulla giurisdizione, sia sul suo modo di attuarla ,sia sulla maniera di concepirla dal punto di vista speculativo. È proprio dall'attività di “dire diritto”, infatti, che Lattanzi lascia derivare l'odierna formazione dell'ordinamento giuridico che si realizza mediante l'interpretazione e l'applicazione giurisprudenziale. Ma il Prefatore ha un'idea precisa sulla strada che questa duplice attività deve imboccare per giungere al proprio approdo finale: è quella che si snoda attraverso quel qualificato esercizio professionale e culturale al tempo stesso che assume le nobili, talvolta arcigne, sembianze della nomofilachia, più esattamente della “nuova” nomofilachia, quella, cioè, che traluce dal densissimo e concretamente attuato progetto intellettuale cui ha ispirato il proprio impegno professionale l'Autore nei lunghi anni trascorsi nello svolgimento di funzioni giudiziarie di legittimità, nell'ultimo biennio di carriera (2016-2017 ) alla presidenza della Suprema Corte.
Non può certo stupire l'enfatico rilevo attribuito nell'introduzione all'amministrazione della Giustizia in sede di legittimità: si tratta, infatti, di un dato che ha brillantemente accomunato Lattanzi e Canzio, forgiandone la forma mentale ed indirizzandola verso la ricerca dei metodi e dei mezzi più proficui per assicurare che la funzione ordinatrice della giurisprudenza di legittimità serva meglio gli interessi dello Stato di diritto e della collettività che in esso vive.
2. Sulla scia del necessario riammodernamento del tradizionale apparato che presiede al momento del “dire il diritto”, si colloca introduttivamente lo stesso Autore, desideroso di allinearlo al progresso scientifico ed ai conseguenti sviluppi tecnologici.
3. Tratteggiare in energica sintesi le linee portanti del prezioso volume impone di prendere le mosse dalla sua premessa di fondo, ossia dai 4 punti di svolta nello “ius dicere” del XXI secolo quali sono stato acutamente individuati dall'Autore: a ciascuno di essi fa riscontro nell'esposizione una particolare declinazione dell'attività che dà il titolo al libro. Essi possono così condensarsi. In primo luogo è netta e ben giustificata la preminenza accordata all'ormai acquisito riconoscimento dei principii racchiusi nella Costituzione negli argomenti delle parti processuali e dei Giudici nelle loro pronunce, ossia nell'intero tessuto del “legal reasoning”.In secondo luogo una visione aggiornata della giurisdizione non può che portare a constatare l'”irruzione” nell'ordinamento interno e nel diritto vivente nazionale dei principii del diritto europeo. Strettamente connesso a quest'ultimo punto si rivela il successivo, consistente nel tributo corrisposto al benefico apporto che al modello culturale tradizionale si mostrano sempre in maggior misura capaci di apportare le culture “altre”, in virtù della sfida rinnovatrice in esse insite. Ed infine, lo sguardo si allunga verso un'area in cui si concentrano aspetti di politica giudiziaria ed innovazione della sensibilità sociale ,vale a dire quella utilizzata per la costruzione del territorio tipico e dello statuto disciplinare delle fattispecie associative di stampo criminale .
Nel dedicarsi diffusamente a ciascuna di queste “svolte” l'Autore adotta costantemente due capisaldi dalla composita natura, storico-esperienziale e di profonda convinzione teorico-professionale: da un canto, si pone la dura considerazione di realtà effettuale secondo cui, avendo il cosiddetto postmoderno (appropriata espressione appartenente anche all'elevato lessico di Paolo Grossi) reso difficile il rapporto tra le categorie concettuali del tempo e la funzione di giustizia, si afferma la necessità del rinnovamento metodologico della formazione professionale dei giuristi. D'altro canto, si avverte l'esigenza che, nella pregevole ricostruzione del modello costituzionale della Magistratura e dell'Avvocatura, rapportabile alla stagione della “nuova” nomofilachia ,per le ragioni e nei modi che di seguito verranno illustrati, prendano ampiamente campo. Perché la concezione del ruolo del giurista di questo secolo che l'Autore nutre trova perfetta ed appagante risoluzione nella diuturna interpretazione dei compiti affidati al grado più alto di giurisdizione.
4. Fissati i contorni spaziali ed i presupposti culturali della propria protratta opera Giovanni Canzio procede speditamente e fedelmente da essi affrontando di volta in volta temi che, al di là delle apparenze, è agevole classificare quali loro congrue diramazioni concettuali.
Alla luce di questo elemento aggregante è ben possibile proseguire in questa presentazione assecondando il criterio della trattazione ripartita di singoli argomenti, cui non osta la natura variegata, essendo garantita l'uniformità del pensiero dalla loro piena pertinenza al disegno complessivo.
5. Il volume, sempre attento ad immergere tutte le riflessioni nelle salutari acque della Costituzione, avvolge con apprezzabilissima apertura mentale in un'unica trama di fedeltà ad essa la funzione giudiziaria e quella difensiva, considerandole epifenomeni dell'unitaria aspirazione sociale ed individuale alla Giustizia.
In questo quadro di bilanciamenti funzionali e di pari dignità professionale, inizia a far capolino, sin dalle pagine iniziali, il ruolo redimente e costitutivo della nomofilachia intesa quale valore fondante e ragione identitaria dello “ius dicere” riservato alla Corte di Cassazione, su cui a più riprese ed insistentemente l'ampio lavoro torna. Si scorge, infatti, nel diritto vivente, quale approda e viene consacrato nelle aule di giustizia, l'ingrediente centrale della vicenda giurisdizionale, quella dimensione esperenziale in continua evoluzione ed alla ricerca del miglior adeguamento allo spirito del tempo ed alle esigenze del caso concreto che spinge l'Autore a dire che, in tale prospettiva evolutiva, “al giudice non è vietato andare oltre ,ma contro la lettera della legge”.
Il riferimento alla vita del diritto quale viene vissuta e filtrata nel giudizio (secondo una visione sostanzialmente Sattiana del processo come teatro di inveramento totale ed immancabile del diritto soggettivo) consente a Canzio una quanto mai fruttuosa incursione nel perimetro del diritto giurisprudenziale considerato nel suo aspetto più smagliante, quello della sua perpetuazione tendenziale in virtù della socialmente e professionalmente accettata idea della rilevanza del formante (adesso a parlare è la lingua di Rodolfo Sacco) precedenziale. Esso, infatti, “svolge un ruolo di guida nell'interpretazione uniforme del diritto e di tendenziale sintesi coerenziale nella formazione del diritto vivente”.
6. Sotto un duplice punto di vista l'evocazione della continuità dell'opera giurisprudenziale esibisce la propria importanza nell'economia della raccolta di saggi. Dapprima, perché si candida a diventare valido indice probatorio della ariosa propensione dell'Autore verso il campo della comparazione giuridica ,tanto nel suo elemento dottrinario quanto in quello giudiziario. Ripetuti ed appropriati sono i richiami, né acritici né supini, a culture giuridiche straniere per esaltarne la funzione commisuratrice (nell'ottica della nozione di comparazione donata da Gino Gorla) dell'adeguatezza delle soluzioni interne nonché quella di stimolo alla promozione di ragionate linee evolutive. Particolarmente pregevole è proprio la disponibilità intellettuale dell'Autore a valicare i confini nazionali e ad aprire le porte della conoscenza all'introiezione di nuove e differenti maniere di strutturare ed elaborare le categorie giuridiche, determinandone la ricaduta nella quotidianità del fenomeno giuridico interno.
L'altro punto di vista, la vera stella polare che illumina l'intera opera, riflette la perspicua identificazione del molteplice ruolo assolto dalla nomofilachia, intesa in senso sia verticale (ascendente) sia orizzontale (con conseguente valorizzazione della partecipazione al processo formativo del diritto vivente dei Giudici di merito) e secondo un moderno orientamento cui ha contribuito anche la Corte Costituzionale (ad esempio con le sentenze 230 del 2012 e 25 del 2019) in tema di (ir)rilevanza del mutamento giurisprudenziale sul giudicato.
7. Il tempo è così maturo per pervenire alla questione focale della risposta legislativa - ovviamente suscettibile, come si sta per dire, di avvalersi dell'integrazione giurisprudenziale - alle sollecitazioni che la postmodernità sollecita in materia di discorso giuridico. E così l'attenzione viene meditatamente rivolta al significato ed agli effetti dell'art.65 del R.D.12 del 1941 circa lo scopo istitutivo della Corte di Cassazione in quanto garante (in sostanziale continuità con la tradizione Napoleonica) dell'esatta osservanza, dell'uniforme interpretazione e dell'unità del diritto oggettivo nazionale. Pluralità di scopi nell'attività della Corte regolatrice il cui spazio applicativo è destinato ad espandersi in misura direttamente proporzionale alla pluralità e complessità che la postmodernità, quale proiezione della poliedricità, pluralità, ricchezza delle vicende umane, postula, reclamando acconce risposte ordinamentali in senso ampio.
In questi interstizi di difficile governo si inserisce la promettente e benefica intuizione di Canzio che, segnalando la crisi della fattispecie come rappresentata dal pensiero classico Weberiano, addita l'approccio nomofilattico, generato dalla centralità del diritto di formazione giurisprudenziale quale via di uscita dalla temuta involuzione nichilista e porta di accesso al dinamismo di teoria e di prassi che consente al giurista di liberarsi dai lacci della complessità e della incalcolabilità (concettualmente simmetrica ad imponderabilità, imprevedibilità, incertezza) del diritto. Degna del massimo rilievo è la conclusione raggiunta dall'Autore che testualmente scrive che: “la nomofilachia è uno strumento essenziale del diritto giurisprudenziale postmoderno e sventa il pericolo del solipsismo giudiziario”.
8. Nell'ordito concettuale che caratterizza i numerosi saggi occupa logicamente e conseguenzialmente un posto preminente la questione dei criteri argomentativi e valutativi da applicare nel giudizio al materiale probatorio offerto al Giudice, specialmente nel campo penale. Anche questo profilo è studiato in relazione alla complessità della postmodernità ed al suo bisogno di regolazione alla stregua concorrente degli esiti del progresso scientifico, seppur sempre coordinato, come si vedrà, con un telaio di razionalità argomentativa. Probabilmente è questo il settore tematico in cui l'ardore intellettuale e la passione professionale del Presidente Canzio, artefice e narratore di una fondamentale stagione giudiziaria, forniscono la prova più consistente ed indicano soluzioni ed obiettivi a pieno titolo classificabili tra quelli che più nettamente caratterizzano la civiltà giuridica. Ed infatti, sul terreno della prova che possa condurre ad un giudizio maturo, giusto, socialmente accettabile e sulle connotazioni estrinseche ed intrinseche da esigere da essa il pensiero dell'Autore si muove con scioltezza, autorevolezza, saggia ponderazione. Intravedendo nel processo uno scopo retrospettivo di fatti spesso ammantati dalla nebbia della distanza temporale (non a caso si ricorre nel testo all'espressione, mutuata dalla tradizione culturale dei sistemi processuali di common law, “lost facts”), consegue la necessità che se ne disvelino effetti e fenomenologia in chiave autoriale mediante “procedure cognitive di valenza probabilistica”, alla stregua di criteri di verosimiglianza (di grande pregio il richiamo al pensiero aristotelico sulla rilevanza della verosimiglianza nell'andamento dell'argomentazione giudiziale), corrispondenza, maggior o minor grado di probabilità, etc. Perché in ciò risiede il rovello, vera cifra morale dell'opera, dell'Autore: che la decisione non si risolva nella semplice affermazione dell'arbitrio del Giudice o nell'astratta ed incontrollabile postulazione “secundum conscientiam”,ma che lasci trasparire un percorso di verità articolato secondo il rigoroso schema del ragionamento probatorio. Questo a propria volta va alimentato, nel modello processuale di tipo accusatorio, dal “metodo avversativo della confutazione”. Logica, precisione, aderenza al dato di realtà, ausilio proveniente dal mondo scientifico e tecnologico, attento vaglio delle ragioni in contesa, opzione finale decisioria quale coerente risultanza della combinazione di questi fattori di giudizio formano per Canzio l'antidoto meglio sperimentato per prevenire l'arbitrio o anche la sola eccentricità della decisione. È una vera fede quella che il Giudice Canzio mostra di nutrire per l'idea che l'atto di Giustizia consegua, in esito al complesso procedimento appena descritto, un risultato di “corrispondenza” alla verità. Del resto, il volume si preoccupa scrupolosamente di descrivere i solidi argini atti a scongiurare possibili derive della struttura probabilistica del giudizio, lucidamente individuandoli in altrettanti presidii di matrice costituzionale: la presunzione di non colpevolezza, il principio del contraddittorio, l'obbligo di motivazione. Sperimentazione, questa della capacità della Costituzione di fungere da polo di orientamento concreto nelle vicende giudiziarie: va riconosciuto all'Autore il merito di essersi reso promotore di un così promettente e rassicurante messaggio.
A completare il piano del saldo metodo di giudizio concorrono con sicura decisività il principio ormai codificato dell'affermazione di responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio e la formula che predica l'esigenza che la formula definitoria del processo si fondi su un'ipotesi capace di resistere, secondo gli indici qualitativi e quantitativi delle informazioni di cui si nutre, alla controipotesi.
Questo era, ed è, il contesto ideologico e di somma raffinatezza culturale in cui vide la luce la celebre pronuncia delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione 30328 del 2002,ormai nota come Franzese, ispirata al sacrosanto criterio che la sentenza debba saper soddisfare un “alto grado di credibilità razionale”. Criterio al quale non può certamente dirsi estranea l'adozione di un sistema di “multifattorialità della spiegazione causale” (quale quello utilizzato dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza 38388 del 2012 in tema di responsabilità medica) o l'acquisizione dei dati provenienti dal processo scientifico (come propugnato dalla Corte EDU nel caso del 2006 Touli c. Turchia). L'agile padronanza dello strumento epistemologico offerto dalla comparazione giuridica viene convincentemente testimoniata dall'insistito riferimento al “trial by probabilities” quale paradigma indiziario tipico dei sistemi processuali anglosassoni. La rivisitazione delle strutture delle categorie del diritto penale classico ed il loro riorientamento, ai fini della loro adeguata ricostruzione, verso la concretezza del fatto, costituisce il più rilevante esito di rimodellamento del pensiero giuridico in senso processuale scaturente dalla sentenza Franzese: al pari dell'adesione ad una nozione di causalità dispiegata nel senso della individuazione dei fattori che hanno contribuito alla verificazione naturalistica di un concreto accadimento destinato ad assumere la forma dell'evento giuridicamente rilevante. Nella doviziosa illustrazione di una concezione causalistica poggiante sul complesso degli elementi, fattori e criteri prima indicati il volume procede con speditezza e linearità.
Di grande utilità in termini di edificazione di uno statuto delle condizioni necessarie e sufficienti in prospettiva di affermazione della responsabilità per colpa sanitaria sono le fitte pagine che spaziano dall'area penale a quella civile, attraverso anche la giurisprudenza costituzionale ed i molto significativi interventi del legislatore (leggi Balduzzi del 2012 e Gelli-Bianco del 2017) per sottolineare la distanza valutativa tra le due aree, in gran parte dovuta alla piena introiezione da parte della prima di esse degli indici valutativi propri della sentenza Franzese e di quella successiva, sempre delle Sezioni Unite penali nel caso Mariotti (8770/2018), tesa a ribadire la permanente centralità dell'approccio interpretativo derivante dai metodi selettivi di responsabilità offerti dall'art.2236 c.c. con riguardo a prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.
9. La modernità dell'architettura della raccolta ,sempre ben calibrata secondo un ordito unitario, viene sottolineata dall'attenzione riservata all'attualissima materia vertente su “linguaggio e comunicazione”. Essa muove dalla ferma, e comunemente accettata, definizione del provvedimento giudiziario come forma di agire comunicativo, che ne prescrive, onde ricavarne legittimazione sociale e democratica, “sintesi, precisione e chiarezza”, certamente facilitate da prassi, come quella presente nell'esperienza della Supreme Court del Regno Unito, consistenti nella pubblicazione, antecedente o coeva al deposito della sentenza in forma completa, di sintesi esplicative del relativo contenuto.
10. Ampio e puntuale è il risalto motivatamente attribuito al tema della legislazione e della giurisprudenza riguardante la mafia ed altre associazioni criminali.
Non è possibile fornire una descrizione approfondita dei singoli passaggi nei quali si snoda l'intero esame: occorre, pertanto, limitarsi a coglierne i momenti, né pochi né trascurabili, maggiormente idonei a lasciar affiorare la delicata trama concettuale.
Essa trae origine dalla considerazione della somma difficoltà della “formazione di coerenti orientamenti giurisprudenziali su contesto e prove del fenomeno associativo”.
Di particolare utilità anche sul piano della comprensione storica è la narrazione delle sequenze cronologiche degli indirizzi giurisprudenziali, sorti sin dal 1970, concentratisi sul tema della responsabilità degli associati in relazione alla commissione dei reati-fine. La disamina procede con l'andarivieni proprio del moto pendolare, sottolineando progressioni e regressioni dei modelli di ragionamento giudiziario (nel quale si innesta quello peculiare applicato nella stagione delle azioni delittuose delle Brigate rosse), il cui compendio problematico può così esporsi: se ed in quale misura occorra, ai fini dell'affermazione della responsabilità dei singoli associati ed in particolare di coloro che rivestono ruoli di preminenza e direzione, la prova positiva dello specifico mandato emesso dai capi volta per volta rispetto ai reati-fine. Il libro si sofferma sul travaglio che promana dagli orientamenti succedutisi nel tempo, ad alcuni dei quali affermatisi nel quarto di secolo terminato nel 1995 si addebita il difetto di essere incorsi in “gravi cadute semplificatorie”.
Un'utile, perfino dirimente, linea di indirizzo viene scorta nel dialogo tra le corti nazionali (inizialmente annoverato, come già ricordato, tra i “punti di svolta” del “dire diritto” oggetto dell'opera) e le prassi applicative: l'esito di questo processo vien fatto consistere nella nascita di un “principium cooperationis” mirato all'armoniosa formazione di un comune formante giurisprudenziale di matrice europea, agevolato dai protocolli d'intesa (con annesso memorandum) e d'accordo stipulati dalla Corte di Cassazione tra il 2015 ed il 2017 rispettivamente con la Corte EDU e con quella di Giustizia dell'Unione Europea. Per effetto di tale contaminazione viene certamente incoraggiata la tensione, nell'ambito della giustizia penale internazionale, verso una configurazione di un processo giusto e spedito (“a fair and expeditious trial”). L'Autore non ignora affatto che questa visione cooperativa possa comportare il rischio di un deperimento delle radici storiche domestiche: Egli lo esorcizza alla luce della massima di saggezza che vuole che “la tradizione non consista nel conservare le ceneri ma nel mantenere viva la fiamma”. Esemplificativa di questa ricalibrata mentalità è la nota sentenza europea afferente al caso Dorigo - che portò alla dichiarazione di ineseguibilità di una sentenza penale italiana di condanna - in cui fu riscontrata una violazione dei principii in materia di giusto processo professati dall'art. 6 CEDU, poi trasposti nell'art.111 della Costituzione, a cagione della mancata audizione dei testimoni indicati dalla difesa.
11. Lungo e probante è l'elenco delle epifanie nell'esperienza giuridica italiana degli influssi dei dialoghi a plurimi livelli sovranazionali che hanno inciso su settori della vita nazionale in cui più marcata è apparsa l'esigenza di difendere ed attuare valori volti a preservare sempre la dignità della vita e della persona umana: dalla responsabilità per crimini di guerra, alla tutela degli individui vulnerabili, dalla tutela delle vittime della criminalità organizzata agli ordini di protezione di natura civile. Proprio nel punto in cui lo sguardo del volume è più orientato verso la dimensione dell'avvenire, cooperativo ed insofferente ai recinti nazionali, l'Autore avverte la seduttività dell'impulso a volgere lo sguardo all'indietro, verso la storia della Giustizia celebrata nel mondo della Grecia antica, ripensato nell'attualità attraverso la riedizione del processo ad Eracle e della fosca vicenda di Edipo re ed Antigone.
12. Non poteva sfuggire alla sensibilità etica ed intellettuale dell'Autore la rievocazione del tristo periodo della legislazione fascista antiebraica ed il successivo riscatto attuato (in virtù di fondamentali pronunce del 1998 e del 2015 della Corte dei Conti) dallo Stato italiano mediante la rivalutazione a doverosi fini indennitari degli atti di persecuzione razziale commessi in pregiudizio dell'infanzia ebraica e la costituzione con DPCM del 16 giugno 2020 di un gruppo tecnico di lavoro per la ricognizione della definizione di antisemitismo. In questa atmosfera di redenzione e riconoscimento ed accollo di debito morale universale vengono debitamente apprezzate le iniziative dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). In questo frangente l'Autore non si sottrae alla non incontroversa riflessione sulla compatibilità con l'intero spirito della costituzione dell'uso del termine “razza”, opportunamente ricondotto al significato ristretto di memoria degli orrori del passato, che non può che essere mantenuta per evitarne la sciagurata reiterazione.
13. La parte finale del volume è dedicata ai numerosi progetti di riforma, in via di costante e dinamica evoluzione, in materia di Giustizia. Ma non è al momento contingente che la conclusione riassuntivamente guarda, ma alla definizione da valere per il futuro del paradigma dell'attività giurisdizionale nella sua funzione costitutiva del diritto vivente. Esso postula ai fini della sua progressiva formazione, nelle parole delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione nella sentenza 18288 del 2010, “la mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai Giudici un margine di discrezionalità che comporta una componente limitatamente creativa dell'interpretazione, la quale, senza varcare la linea di rottura col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma ed assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima”. L'Autore spiega a tal proposito che “la struttura necessariamente generica della norma è integrata e riempita di contenuto dall'attività concretizzatrice della giurisprudenza”.
Questo programma ideale, che pone l'attività giurisprudenziale in funzione di democratico completamento interpretativo-integrativo a fini applicativi della norma di origine legislativa, è, tuttavia, immancabilmente imbevuto del presupposto giustificativo della essenzialità di questa funzione che si rivela incentrato sul nobile riferimento individuale alla figura del Giudice, da cui si pretende la “libertà da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione, l'etica del limite”.
14. La frase da ultimo riportata, e tratta dall'intervista pubblicata su Giustizia Insieme che chiude il volume ,riassume non soltanto la vivida inclinazione culturale dell'Autore: essa ne esprime anche il modo in cui ha inteso assolvere nella lunga e lodata carriera il proprio impegno professionale. E questo, non a seguito di piatta ed autoreferenziale affezione alla condizione di Magistrato e di esaltazione del relativo stato giuridico incurante di manifestazioni della realtà talvolta deludenti. Al contrario, in quelle alte parole si realizza la sublimazione più genuina ed ammirevole della funzione dello “ius dicere”,sinonimo e prodotto di una incomprimibile libertà intellettuale, non soggetta a condizionamenti imposti dall'esterno, che, tuttavia, deve rifuggire anche dai subliminali vincoli autoimposti attraverso la via obliqua della schiavitù dettata da appartenenze cogenti ed esigenti. Del resto, la più efficace polizza di copertura da siffatti pericoli è garantita dalla vastità degli orizzonti culturali cui l'Autore abitua il lettore. Orizzonti scanditi dalla meticolosa, coscienziosa, instancabile, imparziale ricerca della via verso la Verità processualmente esigibile mediante il ragionamento probatorio sgombro da pregiudizi, preconcetti, dannose pre-comprensioni. L'apertura verso esperienze giuridiche “altre”, esercitata in forma di collaudo critico dei relativi frutti, denuncia con non minore grado di persuasività quanto intensamente sia sentito dall'Autore il dovere di liberarsi dal rifugio che alla eventuale indolenza giudiziaria potrebbe dare l'acquiescenza ad uno stato immoto ed invariabile dell'attività interpretativa ed il timoroso rifiuto del suo adeguamento alle mutate condizioni della vita, del sentire, delle aspirazioni umane. Né il ripetuto ed appassionato affidamento riposto nella funzione nomofilattica equivale mai per l'Autore a rinuncia alla revisione, all'aggiornamento, al ripensamento di posizioni consolidate, laddove le circostanze, la concretizzazione, nella cornice decisoria della singola fattispecie, del principio o della regola ricevuti ciò suggerisca od implichi. Che la direzione e la nozione dell'impegno giudiziale sia per Giovanni Canzio si esplichino nel senso dell'apertura e dell'affrancamento dalla morsa della passiva adesione al criterio della calcolabilità delle future decisioni (da reputare valore da promuovere e non strettoia impediente) è provato, “oltre ogni ragionevole dubbio”, dalla adibizione dei diversi formanti provenienti da sistemi giuridici stranieri ad implicito metro di valutazione della congruità delle possibili soluzioni interne rispetto alla fattispecie sottoposta al vaglio giudiziale. Non è, pertanto, casuale che ricorra in molteplici punti dell'esposizione il riferimento al dinamismo proprio del fenomeno giuridico declinato nelle sue plurime espressioni.
Scrivere “ex post facto”, ossia immedesimandosi ,come ha egregiamente fatto l'Autore nel corposo ed omogeneo volume qui recensito, in riflessioni ed atteggiamenti intellettuali già sperimentati nel corso della ormai conclusa attività giurisdizionale, imprime il sigillo della coerenza esemplare ad una vita spesa al servizio della Giustizia e ad una sua incarnazione ravvivata da umanità, severità metodologica, autonomia di giudizio, avversione ai soffocanti e sterili luoghi comuni.
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 5) Enzo Cannizzaro
Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro*
[Per l’introduzione al ciclo di interviste si rinvia all’Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
La sentenza Corte Giust., Grande Sezione, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad, ha un contenuto chiaro: il diritto europeo non impone agli Stati membri di istituire mezzi di ricorso straordinari al fine di assicurare il rispetto dell’obbligo di rinvio pregiudiziale formulato dai Trattati istitutivi e interpretato dalla Corte di giustizia. Si chiude così il dibattito concernente la possibilità di fondare direttamente sul diritto europeo la qualificazione del rifiuto un ricorso di disporre un rinvio, da parte di un giudice che ne sarebbe tenuto, come una violazione del riparto giurisdizionale dell’ordinamento nazionale.
Si tratta di un dibattito iniziato in tempi ormai remoti. Per quanto inelegante possa essere, segnalo un mio remoto scritto del 1988 (Un nuovo indirizzo della Corte costituzionale tedesca sui rapporti fra ordinamento interno e norme comunitarie derivate, in Rivista di diritto internazionale, 1988, p. 24 ss.) il quale richiamava l’ordinanza della Corte di cassazione (sez. un.) 25 maggio 1984, n. 3223. Tale ordinanza aveva, appunto, negato che, nel sistema italiano, il mancato rinvio di una questione di interpretazione del diritto europeo alla Corte di giustizia da parte del Consiglio di Stato giustificasse un ricorso per motivi di giurisdizione. Si legge nella sentenza:
“il citato art. 177 (ora art. 267 TFUE) non esclude che la giurisdizione rimanga al medesimo (giudice nazionale), salvo il suo obbligo di mettere la successiva in conformità alla pronunzia sulla interpretazione della norma da parte della Corte comunitaria … senza che sia esclusa, essendo anzi presupposta, la giurisdizione del giudice nazionale adito”.
E, tuttavia, l’utilizzo del ricorso per motivi di giurisdizione incontra sia difficoltà di carattere sistematico, attinenti ai rapporti fra ordinamento europeo e ordinamento nazionale, sia difficoltà di carattere pratica, consistenti nel rinvenire strumenti idonei ad assicurare l’effettività del rinvio pregiudiziale.
Conviene osservare, in via preliminare, che l’obbligo di un giudice di procedere a rinvio pregiudiziale configura, invero, una situazione giuridica inusuale: quella di un obbligo esterno all’ordinamento dello Stato, ma rivolto non già allo Stato come persona giuridica unitaria quanto bensì a uno specifico organo di esso: un organo, peraltro, che gode di autonomia costituzionale non solo sul piano nazionale, ma anche sul piano europeo (v. la sentenza 27 febbraio 2018, causa C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses/Tribunal de Contas). In ciò consiste la stranezza sistematica del rinvio pregiudiziale. Esso pone obblighi direttamente in capo ai giudici; ma l’inadempimento di tali obblighi viene attribuito, secondo uno schema internazionalista classico, in capo allo Stato.
Come ha precisato la sentenza in questione, infatti, l’inadempimento da parte del giudice tenuto a sollevare rinvio pregiudiziale comporta una forma di responsabilità istituzionale per infrazione al diritto europeo, prevista dai Trattati agli articoli 259 ss., e una forma di responsabilità civilistica per risarcimento del danno, non prevista dai Trattati ma ricostruita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia a partire dalla celebre sentenza Francovich (19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90).
In conseguenza di tale singolare situazione, è ben difficile rinvenire strumenti per l’adempimento in forma specifica dell’obbligo di rinvio. Da un lato, il rimedio civilistico tende, per propria natura, ad assicurare al cittadino danneggiato un risarcimento per equivalente. D’altro lato, l’accertamento di una infrazione da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 260 TFUE, comporta, bensì, un obbligo di ripristino della situazione giuridica lesa. Tale ripristino, tuttavia, è difficilmente applicabile a un inadempimento per fatto giudiziale, dato che, sovente, l’obbligo di rinvio incombe a un giudice di ultima istanza, le cui decisioni sono assistite dal meccanismo del giudicato. Pur se la Corte di giustizia ha ammesso, in rarissimi casi, che un giudicato possa venir meno se pronunciato in violazione del dovere del giudice di promuovere un rinvio pregiudiziale, essa ha indicato altresì che ciò possa accadere solo in casi eccezionali. Sul punto, conto di tornare sinteticamente nella risposta a una domanda successiva.
Proprio queste difficoltà sono alla base della configurazione di una violazione dell’obbligo di rinvio come violazione del riparto di giurisdizione. A tale configurazione, tuttavia, osta la qualificazione dell’inadempimento rispetto al dovere di rinvio come una violazione della giurisdizione assegnata alla Corte di giustizia. Il diritto europeo, a differenza di taluni sistemi federali, assegna, invero, alla Corte la competenza a interpretare ed applicare il diritto europeo, ma non la configura come esclusiva. Al contrario, essa indica, espressamente, all’art. 19 TUE, che i giudizi nazionali ben possano, e addirittura, debbono, interpretare e applicare il diritto europeo nell’ambito delle proprie competenze.
D’altronde, lo strumento del ricorso per motivi di giurisdizione non sembra lo strumento più idoneo a garantire l’effettività del rinvio pregiudiziale e a evitare un inadempimento dello Stato. Chi mai potrebbe assicurare che il giudice della giurisdizione non possa commettere il medesimo errore commesso dal giudice di merito nella interpretazione dei complessi criteri che consentano di determinare se vi fosse una facoltà ovvero un obbligo di rinvio? L’effetto di tale qualificazione sarebbe semplicemente la retrocessione del giudice di ultima istanza a giudice di “penultima” istanza. Insomma, le tormentate vicende del rinvio pregiudiziale confermano, tristemente, che l’esigenza di istituire un organo giudicante in ultima istanza sia una necessità pratica, incompatibile logicamente con l’idea di un sistema giudiziario volto a individuare l’unica soluzione “giusta” per qualsiasi caso controverso.
Se l’ordinamento italiano ritenesse utile istituire un sistema giudiziario di controllo del rispetto dell’obbligo di rinvio sarebbe opportuno che tale compito venisse affidato a un giudice esterno rispetto alle giurisdizioni apicali esistenti. Si potrebbe pensare a un organo giudiziario composta da un giudice per ciascuna giurisdizione nazionale di ultima istanza, abilitato a ricevere ricorsi dalle parti processuali alle quali sia stato negato un rinvio ovvero da un pubblico ministero, a tutela dell’ordinamento obiettivo.
In alternativa, non sarebbe irragionevole qualificare la Corte di giustizia “giudice naturale” ai sensi dell’art. 25, comma 1, Cost., con la conseguente abilitazione della Corte costituzionale a ricevere tale nuova tipologia di ricorsi diretti. Quest’ultima soluzione, già sperimentata con un certo successo nell’esperienza costituzionale tedesca, presenta un inconveniente, ma anche qualche pregio. L’inconveniente sarebbe dato dalla circostanza che, a propria volta, la Corte costituzionale è un giudice di ultima istanza tenuto a sollevare rinvio. Peraltro, la particolarissima natura della Corte costituzionale renderebbe verosimilmente più accettabile tale duplicità di ruoli, che già la Corte esercita rispetto ad altre situazioni.
Il pregio maggiore consisterebbe nel rinunciare all’idea che la Corte di giustizia abbia una sfera di giurisdizione esclusiva, e nell’accogliere, piuttosto, l’idea che le sue prerogative abbiano rilievo costituzionale: una idea che si nutre altresì della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha più volte qualificato la violazione dell’obbligo di sollevare un rinvio pregiudiziale come una violazione del diritto ad un equo processo ai sensi della Convenzione europea, come indicherò in risposta a una successiva domanda.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
La sentenza della Corte indica - lo si è detto - che il diritto europeo non impone allo Stato italiano di assicurare un rimedio straordinario per la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. La Corte ha anche indicato che l’assenza di un tale rimedio e, in particolare di un ricorso per motivi di giurisdizione, non pregiudica l’effettività di tale obbligo. Essa, però, è altrettanto chiara nell’indicare che lo Stato italiano debba prestare nei confronti della violazione di tale obbligo rimedi equivalenti a quelli che sarebbero esperibili nei confronti di violazioni di obblighi analoghi.
Questa conclusione, derivante da uno dei due limiti al principio dell’autonomia processuale, consente di fornire una risposta alla prima parte della domanda. Se la violazione dell’obbligo di rinvio non comporta necessariamente, ai sensi del diritto europeo, una violazione del riparto di giurisdizione, essa può tuttavia rilevare a tal fine, qualora si tratti di violazione particolarmente qualificata, sì da rientrare nell’ambito della dottrina dell’eccesso di potere giurisdizionale.
Individuare tali casi non è semplice. A tal fine, occorrerebbe identificare, nell’indistinta galassia dell’obbligo di rinvio che grava sul giudice nazionale, due distinte figure: l’obbligo non qualificato, la cui violazione è integra semplicemente come un errore nell’applicazione dei criteri indicati dalla Corte di giustizia e l’obbligo qualificato, la cui violazione leda, invece, prerogative indefettibili della Corte di giustizia. Nel caso Lucchini (18 luglio 2007, causa C-119/05), ad esempio, la Corte di giustizia ha ritenuto che un giudice il quale non applichi una decisione dell’Unione, né chieda alla Corte di verificarne la validità, viola, alternativamente, due sfere di prerogative esclusive: quello della Commissione di valutare la compatibilità di un aiuto di Stato con il mercato comune, ovvero quella della Corte di accertare l’invalidità di tale determinazione da parte della Commissione (rinvio al mio libro Il diritto dell’integrazione europea, III ed, Giappichelli, Torino, 2020, p. 358 ss.).
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione -art.1, c.10 l.n.206/2021- per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
La nuova ipotesi di revocazione, per il momento solo prefigurata nel suo contenuto ad opera dei criteri per la delega legislativa, dovrebbe funzionare solo allorché la Corte europea stabilisca che la violazione della Convenzione comporti rimedi restitutori in luogo del rimedio risarcitorio previsto dall’art. 41 della Convenzione. Ciò si dovrebbe ricavare dalla frase contenuta nell’art. 1, comma 10, “ferma restando l'esigenza di evitare duplicità di ristori”.
Pur se la giurisprudenza della Corte europea ha talvolta qualificato il diniego di rinvio alla Corte di giustizia come violazione dei diritti convenzionali, in particolare dell’art. 6, essa non ha mai, a mia conoscenza, qualificato tale inadempimento come una violazione strutturale della Convenzione, né essa ha mai ordinato agli Stati misure individuali o. tanto meno, misure generali, di carattere restitutorio.
Tuttavia, la circostanza che la violazione dell’obbligo di rinvio possa integrare una violazione dell’art. 6 della Convenzione non è irrilevante ai nostri fini. Essa, anzi, potrebbe rafforzare l’ipotesi che un uso arbitrario del filtro esercitato dai giudici nazionali rispetto alle prerogative della Corte di giustizia dell’Unione venga qualificato, in ipotesi delimitate, come un eccesso di potere giurisdizionale.
Nella recente sentenza Repcevirág Szövetkezet, no. 70750/14, del 30 luglio 2019, la Corte europea ha indicato come “a domestic court’s refusal to grant a referral may, in certain circumstances, infringe the fairness of proceedings where the refusal proves to have been arbitrary. Such a refusal may be deemed arbitrary in cases where the applicable rules allow no exception to the granting of a referral or where the refusal is based on reasons other than those provided for by the rules, or where the refusal was not duly reasoned”. Se, infatti, il rifiuto arbitrario di disporre un rinvio pregiudiziale, da parte di un giudice che ne sia tenuto, viola il principio dell’equo processo, stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si potrebbe ammettere, con buone ragioni, che tale pronuncia abbia violato principi indefettibili nell’esercizio della giurisdizione. Proprio l’esercizio arbitrario del potere giurisdizionale, anzi, dovrebbe costituire un esempio paradigmatico di eccesso di tale potere.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
Credo che la mia opinione si ricavi dalle risposte alle domande precedenti. La Corte di giustizia ha chiarito che non vi è alcun obbligo di qualificare il mancato rinvio, da parte di un giudice che vi sia tenuto, come una violazione del sistema giurisdizionale italiano. Tuttavia, dal principio di equivalenza si può ben ricavare che, la dottrina dell’eccesso di potere giurisdizionale debba applicarsi a tale ipotesi con modalità analoghe a quelle che la Corte di cassazione applica a ipotesi analoghe.
Nelle risposte alle precedenti domande ho cercato di enucleare alcune di queste ipotesi. Una prima riguarda una pronuncia che disapplichi senza previo rinvio di validità alla Corte di giustizia un atto europeo rilevante nel giudizio, violando così frontalmente l’obbligo stabilito dalla sentenza Foto-Frost (22 ottobre 1986, causa 314/85). Una seconda ipotesi riguarda una pronuncia che rifiuti, arbitrariamente e senza darne le ragioni, di procedere a un rinvio pregiudiziale, anche di carattere interpretativo, come indicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
È difficile dare una risposta definitiva a questa domanda. Si potrebbe ritenere che l’ordinanza di rimessione sia stata inutile in quanto le risposte della Corte si sarebbero potute agevolmente ricavare dalla previa giurisprudenza della Corte. Tuttavia, la giurisprudenza sulle conseguenze di una violazione dell’obbligo di rinvio non è chiara. Essa, anzi, è pervasa da incertezze e ambiguità che emergono pressoché su qualsiasi aspetto di essa.
Tali incertezze sono verosimilmente dovute alla circostanza che, in questo campo, si scontrano esigenze difficilmente conciliabili: da un lato la necessità di assicurare la massima effettività allo strumento del rinvio pregiudiziale, un formidabile mezzo di comunicazione fra giuridici europei e nazionali che tanto ha contribuito allo sviluppo dell’integrazione europea; dall’altro, il rispetto di regole e principi riconosciuti come fondamentali anche nell’ordinamento europeo. In questa prospettiva, lungi dal riconoscere vinti e vincitori, la Corte di giustizia ha semplicemente aggiunto un ulteriore tassello in un equilibrio destinato alla permanente instabilità.
*Professore ordinario di diritto internazionale e dell'Unione europea presso l'Università di Roma "La Sapienza".
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