ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sui limiti e poteri del giudice dell’ottemperanza in ordine al giudicato civile di condanna (nota a Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione siciliana, 28 giugno 2021, n. 623)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa - 2. Cenni storici - 3. Prospettiva costituzionale ed europea - 4. I beni aggredibili nel processo di esecuzione - 5. Limiti al potere sostitutivo del commissario ad acta - 6. La non alternatività del giudizio esecutivo a quello di ottemperanza.
1. Premessa
Nell’arte di ragionare kantiana compariva il celebre verso “fiat iustitia et pereat mundus”, pensiero rivisitato e corretto dal sagace Hegel che, riscrivendolo, né cambio i connotati in “fiat iustitia ne pereat mundus, vale a dire “sia fatta giustizia perché non perisca il mondo” [1]; negare il perimento equivaleva e fare giustizia, fare giustizia significava sanzionare o, per dir si voglia, eseguire.
Sebbene nella dialettica hegeliana il riferimento è certamente ascrivibile alla pena criminale è, altrettanto, semplice mutuare il punto di vista del filosofo direzionandolo sul tema dell’attuazione del diritto.
È noto che, il tanto agognato e, talvolta, faticosamente conquistato giudicato civile[2], definito nella sua portata sostanziale dall’art. 2909 del codice civile e sotto il profilo formale dall’art. 324 del codice di procedura civile, trova non pochi freni alla sua corretta esecuzione utile al soddisfo dei consociati.
A tal proposito, tale commento vuole soffermarsi, ancora una vota, sul delicato tema dei rapporti intercorrenti tra il giudicato civile e l’esecuzione dello stesso dinanzi al giudice dell’ottemperanza[3].
La statuizione della C.G.A.R.S. è, infatti, frutto di una controversia relativa all’esecuzione, da parte di una società in liquidazione, di un decreto ingiuntivo, emesso dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, a favore di altra società. Il titolo da ottemperare veniva portato dinanzi al Tar Sicilia – Catania che, con sentenza, dichiarava l'obbligo di dare esecuzione al predetto titolo entro il termine di sessanta giorni, nominando Commissario ad acta il Prefetto di Messina, con facoltà di delega, per provvedere in via sostitutiva rispetto all’Amministrazione intimata entro il successivo termine di giorni sessanta dal suo insediamento.
Successivamente, il Commissario ad acta depositava la propria relazione dalla quale emergeva l’incapienza dei fondi della società in liquidazione e, a tal proposito, il Tar Sicilia – Catania, con ordinanza dichiarava estinta la procedura di esecuzione del giudicato ritenendo esaurito il giudizio di ottemperanza.
La società soccombente, bramosa di ottenere l’equo soddisfo, appellava la predetta ordinanza, nella parte in cui il Tar ha dichiarato l’estinzione della procedura esecutiva; il Consiglio siciliano disponeva gli incombenti istruttori, di cui ha onerato l’Assessorato regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità e il Commissario liquidatore della società in liquidazione e da tali attività emergeva una relazione a cui facevano seguito, per il completamento dell’istruttoria, ulteriori relazioni del Dipartimento regionale dell’acqua e dei rifiuti, esaurita l’istruttoria il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, respingeva definitivamente l'appello, per i motivi che meglio si tratteranno nel prosieguo.
2. Cenni storici
In una prospettiva storica, il giudizio di ottemperanza[4] nasceva in stretta correlazione con l’attribuzione al giudice ordinario[5] del potere della disapplicazione. Tale giudizio è, quindi, figlio dell’esigenza di garantire una più incisiva tutela rispetto al provvedimento illegittimo, ma nel rispetto del principio della separazione dei poteri.
L’obbligo di conformarsi al giudicato civile è stato, in origine, concepito come obbligo dell’Amministrazione di annullare l’atto amministrativo disapplicato, annullamento precluso al giudice ordinario in virtù del principio di separazione dei poteri[6].
Nel corso del tempo, dopo che la giurisprudenza ha esteso il rimedio anche alle sentenze delgiudice amministrativo, regola oggi contenuta nell’art. 112 c.p.a., il giudizio di ottemperanza ha visto accentuarsi la funzione, strettamente connessa al riconoscimento della giurisdizione dimerito, di sostituzione dell’Amministrazione (inottemperante) al fine di assicurarel’adempimento della pronuncia giurisdizionale, pur nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell’esercizio del potere di cura dell’interesse pubblico attribuito dalla legge, masolo con riferimento al decisum ottemperando (trovando titolo nella sentenza medesima).
3. Prospettiva costituzionale ed europea
La sentenza in commento, ripercorrendo le ragioni poste a fondamento della decisione offre notevoli spunti in chiave costituzionale e chiarisce a mezzo del dictum della Corte Costituzionale i confini della questione: “il giudizio di ottemperanza non deve necessariamentemodellarsi sul processo esecutivo ordinario, attese le peculiarità funzionali del giudizioamministrativo (esteso al merito) con potenzialità sostitutive e intromissive nell'azione amministrativa, non comparabili con i poteri del giudice dell'esecuzione nel processo civile“[7].
In sostanza, si precisa che non esiste un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo (civile e amministrativo), potendo i rispettivi ordinamenti processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanzialidedotte in giudizio, “naturalmente a condizione che non siano vulnerati i principi fondamentalidi garanzia ed effettività della tutela”[8].
Chiarita la non incostituzionalità, di una configurazione del giudizio di ottemperanza, nonaderente allo schema del processo esecutivo civile, la sezione sottolinea come il legislatoreabbia delineato i due modelli fortemente diversificati: se da un lato il giudizio d’ottemperanza rappresenta il punto di caduta più avanzato del confronto fra il principio di effettività della tutela e il principio di separazione fra i poteri, dall’altro il giudizio esecutivo richiama in causa, oltre al principio di effettività della tutela, i diritti fondamentali della proprietà sui beni (e i crediti).
Il bilanciamento di tali principi, nel caso di specie, è funzionale all’effettività della tutelagiurisdizionale, garanzia riconosciuta dall’art. 24 Cost., che permette di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, tutela che ovviamente comprende anche la fase dell’esecuzione forzata[9].
È indubbio che la tutela in sede esecutiva sia componente essenziale del diritto di accesso algiudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale poiché risulta essere l’unico mezzo capace di soddisfare le pretese creditorie in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore.
Ancora, sottolinea la sezione, come la fase di esecuzione coattiva delle decisioni digiustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzionegiurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria[10] , in ragione del fatto che “ilprincipio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante diogni modello processuale”[11] .
In riferimento alle norme europee[12], il giudice si sofferma, poi, sull’ambito di applicazionedegli artt. 6 e 13 della CEDU, che comprende a sua volta il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria, che è uno degli aspetti del diritto d'accesso alla giustizia[13], quale dirittonon assoluto, che è declinato dallo stato con un certo margine di apprezzamento, da esplicarsi in modo da non comprimere il diritto “nella sua stessa sostanza”. Pertanto “la limitazione si concilia con l’articolo 6 § 1 solo se persegue un fine legittimo, e se esiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito”[14].
Tali doverosi e necessari preamboli normativi fungono per le successive valutazioni di merito analizzate dal Consiglio.
4. I beni aggredibili nel processo di esecuzione
L’attenzione della sezione si sposta, poi, sulla questione giuridica proprietaria, “evoluta dalla concezione assolutistica quale dominio inviolabile ed esclusivo che ha imperato per lunghissimo tempo nel diritto positivo e nel pensiero giuridico, ad un ripensamento critico, che è stato inizialmente positivizzato dalla Costituzione di Weimar (dove ha trovato riconoscimento quale diritto fondamentale ma non inviolabile), dal codice civile italiano del 1942 e dalla Costituzione italiana, che ha preso in considerazione anche l’interesse pubblico coinvolto nella situazione giuridica dominicale e la relativa istanza di partecipazione democratica o comunque i vari interessi coinvolti dalla titolarità di un bene (di modo da delineare una varietà di statuti proprietari)”.
Il giudice, al fine di pronunciarsi sulla controversia, muove le sue mosse dalla responsabilitàpatrimoniale di cui all’art. 2740 c.c[15], fondata sul rapporto di prevalenza del credito sui beni di proprietà del debitore. Successivamente partendo dagli assunti di cui all’art. 2910 c.c. (norma che inaugura una serie di disposizioni inerenti all'espropriazione forzata, rivolte ad ottenere una realizzazione in forma coattiva del diritto di credito, per garantire la tutela del creditore insoddisfatto) specifica quelle che sono le precise attribuzioni che fanno capo al creditore ovvero la facoltà spettante a quest’ultimo consistente non nel diritto di espropriare i beni in via immediata, ma della possibilità – in via mediata - di azionare i mezzi che l’ordinamento fornisce al fine di far espropriare quei beni.
In sostanza, parafrasando l’ultimo inciso, si comprende come il creditore sia fornito di un solo potere di natura processuale, attuabile verso lo Stato, che si fa da garante dell’effettività della tutela del credito.
La via maestra è certamente il giudizio esecutivo, crocevia fra principio di effettività della tutela e diritti fondamentali della proprietà sui beni (e i crediti) e il successivo giudizio diottemperanza, anch’esso intriso del principio dell’effettività della tutela ma caratterizzato anche da quello della separazione dei poteri[16].
Il consiglio, dunque, sancisce come sia di vitale importanza il posizionamento dei due rimedi -giudizio d’ottemperanza e processo esecutivo civile - riguardo ai principi fondamentali che essi tutelano; da ciò discende, a cascata, la logica ricaduta nella diversità dei poteri attribuitial giudice dell’ottemperanza e al giudice civile dell’esecuzione, dal momento che al secondo è accordato il potere di aggredire i beni del debitore, entrando nella sfera della proprietàaltrui, mentre al primo è riconosciuto il potere sostitutivo, capace di alterare il principio dellaseparazione fra i poteri.
5. Limiti al potere sostitutivo del commissario ad acta
Peculiarità del giudizio di ottemperanza è quella di avere al suo interno un meccanismo sostitutivo, capace di contemperare fra l’esigenza di assicurare una tutela effettiva ed il principio di separazione dei poteri.
Nella sentenza in commento, il giudicante si è interrogato sulla misura del confine dell’ambito dei poteri (sostitutivi) del giudice di ottemperanza e di quelli facenti capo allo stesso commissario ad acta, organo straordinario appunto del giudice d’ottemperanza. Il solco del perimetro dei compiti di quest’ultimo è stato, tra l’atro, oggetto di recente adunanza plenaria che ne ha stabilito i margini indicando quale limite quello di coincidere “con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato e nel cui ambito il commissario agisce”[17].
Il Commissario ad acta, dunque, essendo organo straordinario del giudice, deputato adadottare, in luogo dell’Amministrazione, gli atti e i provvedimenti tipici di quest’ultima, diviene intestatario dei soli poteri che facevano capo all’amministrazione inottemperante. Esso, in sostanza, essendo una proliferazione del giudice dell’ottemperanza, può muoversi solo e soltanto entro le soglie degli atti che farebbero capo al giudice stesso e dell’Amministrazione dalla quale il giudice dell’ottemperanza mutua i propri poteri attraverso il riconoscimento della giurisdizione di merito. Non a caso, l’Adunanza plenaria già citata, ha affermato che “ilcommissario ad acta potrà essere chiamato ad adottare atti dalla natura giuridica e dal contenuto più vari: da quelli volti al pagamento di somme di denaro, cui l’amministrazione èstata condannata, ai provvedimenti amministrativi di natura vincolata, che trovano già nella sentenza che ha concluso il giudizio di cognizione la propria conformazione; fino aiprovvedimenti di natura discrezionale, che solo eventualmente possono trovare nellasentenza ragioni e limiti della valutazione e della scelta che il commissario deve effettuare in luogo dell’amministrazione” (25 maggio 2021 n. 8), così indicando proprio nel compimento diatti giuridici la tipica funzione del giudizio di ottemperanza e del Commissario ad acta.
Dunque, in termini generali, il potere amministrativo da sostituire rappresenta non solo il limite dell’intervento del giudice dell’ottemperanza ma anche l’aspetto che lo connota, di talché, allorquando non si tratta di esercitare detto potere, viene meno la stessa ragion d’essere del rimedio di cui agli artt. 112 e ss. c.p.a, e che l’unico spazio di manovra lasciato dal giudizio d’ottemperanza, riguarda i soli casi in cui l’adempimento della sentenza richiede l’adozione di atti esecutivi sui beni e/o sui crediti del debitore.
6. La non alternatività del giudizio esecutivo a quello di ottemperanza
L’aspetto che connota la presente decisione, è utile a sottolineare come la diversità fra i duegiudizi - esecutivo e di ottemperanza – sia caratterizzata da aspetti tipici, che vengonoevidenziati con specifico riferimento all’adempimento del decisum del giudice civile[18].
Quanto ai limiti soggettivi, il giudice, si limita a rilevare il soggetto pubblico che può essere sostituito dal giudice dell’ottemperanza e/o dal Commissario ad acta, restando, tuttavia vincolato agli stessi limiti del giudicato di condanna che, di fatto, impediscono al giudicedell’ottemperanza di incardinare il Commissario ad acta presso un soggetto pubblico terzo; di contro il giudice civile dell’esecuzione, invece, dispone di tali poteri, potendo coinvolgerenell’esecuzione anche il debitore terzo, anche se di natura pubblicistica.
In riferimento alle differenze poste in relazione ai limiti oggettivi, viene rilevato come rispetto all’esecuzione delle sentenze del giudice civile - sia nella forma dell'espropriazione forzata mobiliare e immobiliare, sia nelle forme per consegna o rilascio ovvero per violazione di un obbligo di fare o di non fare - è del tutto ininfluente il mancato passaggio in giudicato dellasentenza o provvedimento giudiziale purché esecutivo; situazione nettamente contraria in riferimento ai presupposti per azionare il giudizio ti ottemperanza, in quanto trattasi di circostanza necessaria.
Chiarite le differenze di tipo oggettivo-soggettivo dei due giudizi, la sezione si sofferma a catalogare, in maniera ancor più analitica, quella che è la natura del giudizio di ottemperanza, definendola “polisemica”, in quanto dotata sia di poteri esecutivi che di cognizione[19].
Ancora, ulteriore differenziazione tra i due giudizi è visibile nelle diverse facoltà attribuite ai due diversi giudici: il giudice dell’ottemperanza può offrire una tutela in forma specifica, attraverso il meccanismo sostitutivo al fine di arrivare all’’adozione del provvedimentoamministrativo che soddisfa l’interesse sostanziale inizialmente leso; il giudice dell’esecuzione è, invece, attrezzato per aggredire il patrimonio del debitore.
Tali considerazioni, sono fondamentali per comprendere che non si è certo difronte ad un sistema a doppio binario di tutele, in quanto, se è pur vero che il privato ha a disposizione due rimedi, la scelta fra le due azioni non è indifferente, poiché diverse sono le pretese e le risultanze, alle quali si potrà arrivare adendo l’una piuttosto che l’altra giurisdizione.
Il thema decidendum, del caso affrontato dalla C.G.A.R.S., è essenzialmente fondato sul pagamento di una somma di danaro, contenuta in un decreto ingiuntivo diventato esecutivo.
Precisa la sezione, però, che i poteri attribuibili al giudice dell’ottemperanza, nell’eseguire il pagamento di una data somma possono limitarsi alla sola adozione degli atti della procedura contabile di spesa, atti che facevano capo all’amministrazione stessa, di cui il giudice assume i poteri e che risultano gli unici esperibili da parte di quest’ultimo, sicché la polisemicità del giudizio e dell’azione di ottemperanza viene ridotto, in tal caso, ad uno spazio marginale.
Ebbene, le pretese della società ricorrente, non potevano trovare accoglimento dinanzi al giudice amministrativo, semplicemente poichè la sola adozione di atti di mera natura contabile non risulta in alcun modo sufficiente, in quanto ci troviamo al cospetto di una società incapiente.
D’altro canto, il reperimento delle risorse, a mezzo del pignoramento presso terzi, non è attività attribuibile al giudice dell’ottemperanza, in quanto, per come sin ora esposto, non ha al suo interno poteri utili ad incrementare il patrimonio dell’amministrazione.
Invero, l’Amministrazione risulta avere poteri esecutori soltanto sui propri beni, poteri che, di riflesso, sono identici a quelli assunti dal giudice dell’ottemperanza a mezzo del meccanismo sostitutivo.
In sintesi, si può massimare la sentenza in questione affermando che: non è attività conoscibile dal G.A quella utile al reperimento delle risorse necessarie per l’esecuzione coattiva della condanna al pagamento di una somma di denaro; l’esecuzione del giudicato si trova dinanzi ad un limite intrinseco e ineliminabile, che è logico e pratico, ancor prima che giuridico, “nel sopravvenuto mutamento della realtà fattuale o giuridica tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante”[20] .
In tale prospettiva, il Commissario ad acta, in alcun modo è adibito al pignoramento dei creditiin quanto egli, essendo longa manus del giudice dell’ottemperanza che a sua volta sisostituisce all’Amministrazione, non ha alcun potere e nessuna pretesa di adoperarsi perchéaltra autorità giudiziaria provveda ad assicurare la tutela del diritto.
Ulteriore distinzione viene, poi, affrontata sulla natura del Commissaria ad acta, in contrapposizione alla figura del Commissario liquidatore, che invece, in virtù di una precisa previsione normativa[21], assume la qualifica di pubblico ufficiale ed è deputato, quindi, a svolgere tutte le operazioni della liquidazione[22] e, a tal fine, è legittimato ad agire in giudizio nel perimetro delle prerogative liquidatorie[23].
Infine, poiché oggetto della pronuncia in commento, è un decreto ingiuntivo divenuto definitivo e contenente un ordine di pagamento e giacché la peculiarità della vicenda insiste sulla assenza di risorse disponibili presso la società esecutata, il giudice chiarisce che, in alcun modo può essere posta questione alcuna relativa all’adozione degli atti contabili.
Inoltre, il Commissario ad acta ha fatto salva la possibilità che tali risorse possano essere reperite attraverso i Comuni, che risultavano soci della società e che l’esecuzione del decreto ingiuntivo necessita esclusivamente di attività e poteri del giudice civile funzionali all’aggressione dei crediti del debitore verso i terzi, attività consistenti nel pignoramento presso terzi, azionabile dalla parte privata.
In alcun modo può essere chiesto al giudice dell’ottemperanza l’attuazione del pignoramento dei crediti presso terzi, ex art. 543 c.p.c., attività mai configurabile come atto amministrativo.
Ulteriormente, la decisione di ritenere esaurito il giudizio di ottemperanza, non determina un vulnus al principio di effettività della tutela in quanto è fatta salva la possibilità di poter procedere tramite i rimedi processuali, civilistici, utili per far valere le pretese creditorie potendo il soggetto interessato, ancora, avvalersi dell'azione esecutiva ordinaria perespropriazione forzata in base a sentenza esecutiva contenente condanna al pagamento disomma di denaro[24].
[1] I. KANT, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2003, p. 93; G.F.W. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del diritto, Laterza, Bari 1965, § 130, p. 120.
[2] Sul tema del giudicato: A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in www.giustamm.it; M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989.
[3] Per una più completa ricostruzione dell’istituto dell’ottemperanza e del rapporto con giudicato civile si veda: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, 171-215, Id., Giudicato e ottemperanza, in F. Francario, Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, sez. II, Napoli, 2019.
[4] Cfr., A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018, 119 e ss.; A. Storto, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, 139 e ss.; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, 181 e ss; G. Montedoro, Esecuzione delle sentenze CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali, 199 e ss.
[5] Gli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, comprendevano il sindacato sugli atti amministrativi ai fini della tutela dei diritti soggettivi perfetti, che si traduceva nel solo istituto della disapplicazione, in conformità al principio di separazione dei poteri (alla base anche della devoluzione, nel 1889, alla IV Sezione del Consiglio di stato, collocata appunto inizialmente nella sfera del potere esecutivo lato sensu, e non al giudice ordinario, del potere di annullare gli atti amministrativi).
[6] Con l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato si ritenne quindi di offrire un rimedio “alla parte che non si contenta degli effetti civili della decisione dell’autorità giudiziaria, il mezzo di far cadere interamente il provvedimento illegittimo dell’autoritàamministrativa” (Relazione del Governo al progetto di legge, poi approvato come legge 31 marzo 1889 n. 5991).
[7] Corte cost. 12 dicembre 1998, n. 406.
[8] Corte cost. 15 settembre 1995 n. 435.
[9] Corte cost. 22 giugno 2021 n. 128.
[10] Sentenza n. 419 del 1995.
[11] Corte cost. 5 dicembre 2018 n. 225.
[12] Nelle fonti dell’Unione europea il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva è stato positivizzato negli articoli 47 della Carta diNizza e 19 del Trattato sull’Unione europea. In più occasioni la Corte di giustizia ha esplicitamente affermato che quellodell’effettività della tutela giurisdizionale è un principio generale dell’ordinamento giuridico dell’Unione (Corte giust. 16 luglio2009, causa C-385/07 P, Der Grüne Punkt Duales System Deutschland/Commissione, Corte giust. 1 marzo 2011, causa C-457/09,Chartry,; Corte giust. 22 dicembre 2010, causa C-279/09).
[13] Corte EDU 19 marzo 1997, causa Hornsby c. Grecia.
[14] Corte EDU 16 ottobre 2007, causa De Trana c. Italia.
[15] Responsabilità che, a partire dalla pronuncia della Corte cost. 21 luglio 1981 n. 138, investe anche la pubblica amministrazione.
[16] Sul tema, R. Dagostino, Ottemperanza al giudicato civile: interpretazione, integrazione o sostituzione del giudicato? (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369), in giustiziainsieme.it.
[17] Ad. plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[18] A tal proposito, nella sentenza in commento si legge a chiare lettere che “diverso è il profilo soggettivo della tutela, atteso che nel processo esecutivo civile è indifferente la natura del soggetto che agisce in giudizio, laddove il giudizio di ottemperanza avente ad oggetto il giudicato civile è teso a coartare l’adempimento dell’Amministrazione, come è evincibile dall’art. 112 comma 2 lett. c) c.p.a., benché si collochi a valle di obblighi esecutivi gravanti sulla parte pubblica e sulla parte privata ai sensi dell’art. 112 comma 1 c.p.a.”.
[19] Ad. plen. 15 gennaio 2013 n. 2.
[20] Ad. plen. 9.6.2016 n. 11.
[21] Art. 199 l. fall.
[22] Art. 204 l. fall.
[23] Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2019 n. 33422.
[24] Corte cost. 12 dicembre 1998, n. 406.
La risarcibilità del danno da perdita di chance (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 settembre 2021, n. 6268)
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La questione di diritto. – 3. La risarcibilità del danno da perdita di chance quale frutto di una lenta evoluzione interpretativa. – 3.1. Cenni sull’affermazione della risarcibilità della chance nell’ambito del diritto privato. – 3.2. Il percorso verso la risarcibilità della chance nel diritto amministrativo alla luce della nozione di interesse legittimo e della tutela mediata del bene della vita. – 3.3. Gli approdi giurisprudenziali più recenti. – 4. La ricostruzione interpretativa del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento. – 5. Alcune riflessioni conclusive.
1. Il caso di spece.
La questione presa in esame dal Consiglio di Stato nella pronuncia che si annota si pone come particolarmente articolata in ragione di una serie di aspetti, tra i quali, certamente, la stessa complessità della tematica oggetto della vicenda, ovvero l’affidamento della gestione del servizio di trasporto pubblico locale.
Tale ambito, infatti, come noto, è stato interessato da profondi mutamenti nel corso del tempo, così come da evidenti e persistenti criticità, come rilevato, peraltro, nella medesima pronuncia in commento[i].
In tal senso, incide in misura rilevante la stratificazione normativa registratasi a proposito dello specifico servizio pubblico locale in questione, generatasi anche in conseguenza della presenza di diversi attori sul piano dell’individuazione della disciplina: nel caso di specie, in particolare, non soltanto il legislatore europeo e nazionale, ma altresì le ulteriori previsioni normative dettate, con riguardo al trasporto pubblico locale, dalla Regione Autonoma Trentino-Alto Adige e, ancora, in relazione alla fattispecie in esame, dalla Provincia autonoma di Bolzano, in ragione della competenza primaria in materia di trasporto di interesse provinciale riservata dallo Statuto Speciale per il Trentino-Alto Adige alla suddetta Provincia autonoma[ii].
Si ritiene, dunque, preliminarmente, di dover prendere in esame e ricostruire con precisione i principali passaggi, in fatto, della vicenda.
Il primo grado di giudizio, in particolare, aveva ad oggetto l’impugnazione, ad opera di un consorzio stabile operante sul territorio della Provincia autonoma di Bolzano nel settore del trasporto pubblico, della deliberazione della Giunta provinciale recante ulteriore proroga, peraltro in prossimità della scadenza di seconda proroga già disposta, del servizio di trasporto pubblico locale extraurbano, in favore dei due operatori economici già concessionari del servizio dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Mediante il ricorso, in particolare, si chiedeva l’annullamento dei provvedimenti impugnati, oltre che la dichiarazione di inefficacia della predetta proroga, ex art. 121 c.p.a. e, in aggiunta, la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno per perdita di chance, questione peraltro trattata ampiamente nella parte in diritto della pronuncia e, di conseguenza, fulcro della presente nota.
Avverso la medesima delibera impugnata, peraltro, proponeva ricorso in ottemperanza, a valere anche quale ricorso di legittimità, uno dei concessionari predetti (ricorso peraltro pendente dinanzi al Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Bolzano).
Ebbene, con sentenza non definitiva n. 43 del 2021, il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Bolzano si pronunciava respingendo le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Amministrazione locale e dai controinteressati e accogliendo la domanda di annullamento della delibera provinciale di proroga tecnica delle concessioni in essere impugnata, inquadrando la medesima quale atto illegittimo nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), c.p.a.
La stessa sentenza, tuttavia, respingeva la domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto, nello specifico in ragione della rilevata sussistenza di esigenze imperative connesse alla necessaria garanzia di continuità del servizio pubblico essenziale in questione e, per quel che rileva nella presente sede, respingeva altresì la domanda risarcitoria formulata, fondando il rigetto sull’argomentazione per cui la domanda sarebbe stata proposta sulla base dello “erroneo presupposto” che l’amministrazione avrebbe dovuto esperire gara pubblica, anziché disporre una proroga della concessione ed altresì in considerazione del fatto che il consorzio non sarebbe stato in grado di dimostrare che, laddove l’amministrazione avesse affidato il servizio adottando misure eccezionali, quali l’affidamento diretto, lo stesso sarebbe risultato aggiudicatario con elevato grado di probabilità.
Mediante la successiva sentenza n. 77/2021, inoltre, sempre il giudice di prime cure, nell’applicazione delle sanzioni alternative di cui all’art. 123, comma 1, c.p.a., disponeva – ritenuta la limitata estensione temporale delle concessioni illegittimamente prorogate – la riduzione delle stesse nella misura minima e riteneva di non irrogare la sanzione pecuniaria ex art. 123, comma 1, lett. a) c.p.a.
Avverso la pronuncia proponevano appello i due concessionari interessati dalla illegittima proroga e promuoveva altresì appello incidentale lo stesso consorzio (peraltro nei confronti di entrambe le sentenze menzionate n. 43 e n. 77/2021) con riguardo alle statuizioni che lo avevano visto soccombente, tra le quali lo stesso disconoscimento del diritto del consorzio medesimo al risarcimento del danno per perdita di chance.
La stessa Provincia coinvolta si costituiva in giudizio sostenendo nondimeno l’insussistenza da parte del consorzio del preteso danno da perdita di chance.
2. La questione di diritto.
Uno dei due soggetti già concessionari in relazione al servizio di trasporto pubblico nell’ambito della Provincia Autonoma di Bolzano proponeva appello avanti al Consiglio di Stato contestando il contenuto delle due menzionate pronunce di primo grado con riferimento ad una serie di passaggi riferiti alla illegittimità della disposta proroga delle concessioni in essere e deducendo in particolare che la proroga avrebbe dovuto essere ritenuta legittima, trovando una conferma nella stessa regolamentazione della materia di derivazione europea.
Sotto altro profilo, si censurava, altresì, l’appellata sentenza non definitiva di primo grado nella parte in cui rilevava che la sussistenza dei requisiti di ordine generale propri degli operatori economici affidatari dovesse essere verificata ad opera dell’amministrazione affidante, anche nelle ipotesi di proroga o rinnovo contrattuale.
Nel contempo, uno dei concessionari appellanti chiedeva fosse disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE della questione circa la compatibilità di un sistema interno ostativo alla reiterabilità delle proroghe di durata inferiore al biennio, con l’art. 5, comma 5 del Regolamento UE n. 1370/2007.
Ulteriori argomentazioni in diritto venivano impiegate dall’altro concessionario, proponente autonomo appello avverso le due sentenze del Tribunale di Giustizia Amministrativa di Bolzano, il quale evidenziava, in particolare, come la proroga disposta in favore dei gestori attuali avrebbe dovuto essere giudicata perfettamente coerente con il – pur peculiare – quadro normativo (europeo, ma anche regionale e provinciale) di riferimento.
Particolarmente rilevanti appaiono, dunque, le diverse questioni di diritto trattate dalla pronuncia del Consiglio di Stato oggetto della presente annotazione, la quale presenta una consistente parte in diritto nell’ambito della quale il Supremo Consesso amministrativo espone diverse e articolate ragioni per le quali entrambi gli appelli principali degli attuali concessionari debbano essere respinti.
Così, si destituisce di fondamento la tesi della “ultra-vigenza” dei rapporti concessori originari; si evidenzia la violazione della normativa di emanazione europea sull’argomento, oltre che della norma di diritto interno, di cui all’art. 23 della legge provinciale n. 15/2015 e, da ultimo, non si ritiene neppure applicabile al caso di specie l’art. 92, comma 4-ter, d.l. 18/2020, recante disciplina peculiare in merito alle procedure in corso, in conseguenza della pandemia da Covid-19.
Tutte le suddette pur rilevanti ragioni di censura formulate dagli appellanti e le argomentazioni proprie della pronuncia in esame, tuttavia, non possono porsi quale oggetto di più estesa trattazione, ritenuto che la stessa sentenza del Consiglio di Stato si sofferma altrettanto diffusamente su altro aspetto oggetto del secondo motivo di ricorso incidentale del consorzio e, di conseguenza, fulcro della presente disamina.
Il consorzio, infatti, mediante ricorso incidentale in appello – come accennato – censurava lo specifico capo della sentenza di primo grado laddove i giudici avevano respinto la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, rilevando come la Provincia mediante il suo operato gli avesse di fatto impedito di concorrere per l’affidamento della concessione in oggetto mediante l’impiego dei moduli propri dell’evidenza pubblica.
Nel dettaglio, il giudice di prime cure, nel caso sottoposto alla sua attenzione, aveva ritenuto preclusa la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance a causa del rilievo, ritenuto assorbente, per cui il consorzio non sarebbe stato in grado di dimostrare di avere perduto, quale diretta conseguenza dell’illegittima proroga dei servizi in favore dei concessionari uscenti, un’occasione concreta di aggiudicarsi direttamente il servizio.
In altri termini, il solo fatto di operare nel settore del trasporto pubblico di linea a livello locale – secondo il giudice di prime cure – rappresenterebbe un dato privo di rilevanza posto che, se l’amministrazione avesse affidato il servizio impiegando una delle misure eccezionali, quale l’affidamento diretto, avrebbe potuto rivolgersi a tutti gli operatori economici del settore, non necessariamente a quelli presenti a livello locale.
Il consorzio ricorrente non avrebbe cioè dimostrato di poter risultare aggiudicatario, con un elevato grado di probabilità: avrebbe avuto soltanto una “mera possibilità” di aggiudicazione, con la conseguente configurazione di un danno solo ipotetico, in quanto tale non meritevole di reintegrazione in sede di giudizio, poiché – secondo quanto asserito dal giudice di primo grado – “non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto”.
Aspetto di rilevanza e meritevole di attenzione, pertanto, appare quello per cui il Consiglio di Stato, nell’ambito della pronuncia di appello in commento, ha ritenuto erronea la suddetta statuizione del giudice di primo grado, disponendo conseguentemente la liquidazione, in via equitativa, del medesimo danno da perdita di chance.
Di particolare interesse poi le argomentazioni sulla base delle quali i giudici del Consiglio di Stato nella pronuncia in questione sono giunti a riconoscere la sussistenza di tale suddetto danno, dettando le coordinate generali al fine della sua risarcibilità.
La questione si ritiene possa essere presa in esame, anzitutto, a partire dagli orientamenti giurisprudenziali che progressivamente si sono affermati in merito al pregiudizio, meritevole di risarcimento, consistente nella perdita di chance.
3. La risarcibilità del danno da perdita di chance quale frutto di una lenta evoluzione interpretativa.
È lo stesso Consiglio di Stato, nell’ambito della pronuncia in commento, a porre in evidenza come il riconoscimento della risarcibilità della perdita di chance si ponga quale esito di “una lenta evoluzione interpretativa”.
Nel dettaglio, si tratterebbe di una figura elaborata allo scopo di trasferire sul piano delle situazioni giuridiche soggettive e, dunque, del danno ingiusto, una questione problematica concernente la causalità incerta e, in particolare, le fattispecie in cui non risulti possibile accertare, in senso astratto ed in termini oggettivi, se un determinato esito vantaggioso – in favore di chi invoca il medesimo – si sarebbe o meno verificato senza l’ingerenza illecita del danneggiante.
Come rammentato nella pronuncia in esame, cioè, al fine di superare lo stallo della “deficienza cognitiva del processo eziologico”, sarebbe stata operata la predetta “traslazione”, facendo pertanto assurgere a bene giuridico “autonomo” lo stesso “sacrificio della ‘possibilità’ di conseguire il risultato finale”[iii].
3.1. Cenni sull’affermazione della risarcibilità della chance nell’ambito del diritto privato.
Orbene, nell’ambito del diritto privato il danno da perdita di chance è stato preso in esame dalla giurisprudenza[iv] e dalla stessa dottrina[v] ed in senso generale le ipotesi in cui più frequentemente tale danno è stato nel tempo riconosciuto riguardano la responsabilità medica, rispetto alla mancata attivazione di una cura, ovvero di un intervento sanitario, il cui esito sarebbe stato, tuttavia, incerto.
In tale ambito, pur a fronte delle posizioni che intendevano inizialmente la chance quale mero interesse di fatto, si è fatta strada nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione l’idea circa la risarcibilità del danno in caso nell’ipotesi di mera perdita di chance[vi].
Il leading case in tema di perdita di chance pare rappresentato dalla nota sentenza del Pretore di Roma del 27 marzo 1977, concernente la mancata sottoposizione di alcuni autisti, avviati dall'ufficio di collocamento ad una società privata di trasporti, in base a richiesta numerica di quest'ultima, alle prove di cultura elementare e di guida dal cui – anche solo probabile – superamento sarebbe derivata l'assunzione al lavoro.
Nell’ambito di tale storica pronuncia la chance viene intesa quale utilità economicamente valutabile, situazione fonte di reddito non certo, ma probabile e la responsabilità da perdita di chance è riportata all’ambito della responsabilità contrattuale, nel senso che la perdita dell'occasione favorevole deve essere conseguenza immediata e diretta del comportamento del debitore, presentandosi come conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento secondo il principio della regolarità causale.
Dagli anni Ottanta del secolo scorso la Suprema Corte, poi, perlopiù nell’ambito lavoristico, ritiene risarcibile tale posta di danno, intendendo la chance quale probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni ed esplicitando il principio di diritto per cui, ai fini della dimostrazione del verificarsi di un danno certo, consistente nella perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, sia sufficiente per il soggetto danneggiato provare che la possibilità sia superiore al cinquanta per cento[vii].
Attorno alla natura giuridica della chance, peraltro, sono emerse diverse tesi interpretative di fatto riconducibili da un lato a quella c.d. “eziologica”, che riporta l’istituto all’ambito del “lucro cessante” e, dall’altro, la tesi “ontologica”, che intende la chance quale “danno emergente”.
Nel primo caso, in particolare, si ritiene che la chance non possa essere qualificata quale bene autonomo e nemmeno quale entità a sé stante, ma unicamente quale vantaggio che discende dal bene oggetto di una situazione giuridica soggettiva tutelata, determinante peraltro a carico del danneggiato l’onere probatorio circa il sicuro raggiungimento del risultato favorevole, ovvero del nesso di causalità e della ragionevole probabilità della sua verificazione, in base a circostanze certe e allegate[viii].
Nel secondo, invece, la chance è intesa come bene giuridico, presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, determinante una perdita in caso di sua lesione, con la conseguenza per cui il danneggiato dovrebbe provare unicamente la mera possibilità di raggiungere il risultato sperato[ix].
Di recente, nell’ambito civilistico, una estesa trattazione dell’istituto in questione è stata condotta dalla medesima giurisprudenza della Suprema Corte, rispetto all’ambito della responsabilità sanitaria, nell’ambito della pronuncia della Sezione Terza n. 28993/2019, ove i giudici hanno rilevato, in particolare, un “duplice paralogismo che ha accompagnato l'evoluzione storica della teoria della chance perduta”, concretizzatosi, da un lato, nella ricostruzione dei suoi tratti caratterizzanti in termini di danno patrimoniale e, dall'altro, nell'avere sovrapposto uno degli elementi essenziali della fattispecie dell'illecito, il nesso causale, con il suo oggetto (ossia il sacrificio della possibilità di un risultato migliore) “tanto da indurre autorevole dottrina a contestarne in radice la legittimità della sua stessa esistenza e della relativa teorizzazione”[x].
Nell’ambito di tale lucida analisi i giudici hanno altresì esplicitato come la chance “patrimoniale” presenti, in apparenza, “le stimmate dell'interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa, sia pur soltanto in parte qua, attese le evidenti differenze morfologiche tra l'interesse legittimo e la chance: mentre il primo incarna l'aspirazione - e la pretesa - alla legittimità dell'azione amministrativa e preesiste, dunque, all'azione amministrativa stessa, la chance viene in rilievo quando essa è stata perduta e cioè quando l'attività amministrativa, ormai esauritasi, è irrimediabilmente viziata e il vizio ha cagionato un danno risarcibile), e cioè postula la preesistenza di una situazione "positiva", i.e. di un quid su cui andrà ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa”[xi].
La summenzionata pronuncia appare degna di nota in quanto avrebbe evidenziato, quantomeno nell’ambito civile, un ulteriore – a detta dei giudici – ragionamento fallace in cui incorre la giurisprudenza di legittimità e di merito, oltre che parte della dottrina, fondato sulla contrazione degli elementi “destinati ad integrare diacronicamente la fattispecie dell'illecito”[xii].
La chance, come delineata in tale pronuncia dei giudici di legittimità, si sostanzierebbe pertanto “nell'incertezza del risultato, la cui "perdita", ossia l'evento di danno, è il precipitato di una chimica di insuperabile incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo rapportate alle condizioni soggettive del danneggiato. Tale evento di danno sarà risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante, che pur sempre attiene al "bene salute", sempre che esso sia stato allegato e (…) provato in giudizio nella sua già ricordata dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza, e non già soltanto in base alla pura e semplice relazione causale tra condotta ed evento, in guisa di danno in re ipsa”.
3.2. Il percorso verso la risarcibilità della chance nel diritto amministrativo alla luce della nozione di interesse legittimo e della tutela mediata del bene della vita.
Nell’ambito del diritto privato, come evidenziato, la perdita di chance – istituto a matrice essenzialmente giurisprudenziale, alla luce del silenzio normativo sull’istituto – ha avuto e pare abbia quale modello teorico di riferimento il danno patrimoniale, pur nel dibattito circa la sua forma di danno emergente, ovvero di lucro cessante.
Certamente peculiare appare invece il percorso evolutivo circa la risarcibilità del danno di cui trattasi nel settore del diritto amministrativo, ove la lesione della chance è stata impiegata allo scopo di riconoscere una qualche tutela – seppur per equivalente – a fronte delle aspettative deluse in conseguenza dell’illegittimo espletamento, od anche mancato espletamento, di un procedimento amministrativo[xiii].
Appare chiaro come nelle ipotesi di attività amministrativa caratterizzata da ampia discrezionalità, infatti, l'esito di un giudizio prognostico risulti necessariamente incerto, ragione per cui la stessa giurisprudenza amministrativa ha cominciato ad utilizzare la tecnica risarcitoria della c.d. chance[xiv].
Proprio nel diritto amministrativo, ad ogni modo, la figura della chance ed il suo risarcimento, impiegati perlopiù con riferimento all’ambito della contrattualistica pubblica, hanno da subito mostrato diversi aspetti problematici, certamente connessi alle specificità proprie del diritto amministrativo stesso[xv].
In dettaglio, si può affermare che l’esordio del dibattito sulla risarcibilità del danno da perdita di chance possa essere ricondotto alla storica pronuncia delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione n. 500 del 1999 mediante la quale, agli effetti della risarcibilità, ai sensi dell'art. 2043 c.c., si è esplicitato dovesse ritenersi "ingiusto" il danno arrecato in difetto di una causa di giustificazione, lesivo di interessi giuridicamente tutelati, in quanto tali comunque presi in considerazione da una norma di protezione anche a fini diversi da quelli risarcitori, quale che sia la qualificazione formale di detti interessi e al di là della strutturazione quali diritti soggettivi perfetti[xvi].
Mediante tale statuizione, in altri termini, si è ritenuto ammissibile il risarcimento della stessa posizione giuridica soggettiva corrispondente all’interesse legittimo, sebbene con la precisazione per cui non si possa approdare ad una indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, bensì si possa pervenire al risarcimento soltanto ove l'attività illegittima della P.A. abbia determinato “la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo”[xvii].
Uno dei principali profili problematici ed oggetto di ampio dibattito nell’ambito del diritto amministrativo, dunque, a far data dalla suddetta storica pronuncia delle sezioni unite, è stato quello concernente l’ammissibilità del risarcimento del danno da chance perduta in relazione alla posizione giuridica di interesse legittimo[xviii].
Così, sempre nel settore del diritto amministrativo, pronuncia di estrema rilevanza sul tema appare Consiglio di Stato n. 686/2002, sentenza nella quale i giudici hanno rilevato che laddove si dovesse adottare la ricostruzione di cui alla citata pronuncia del Pretore di Roma 27 marzo 1977, ove la perdita di chance veniva riportata alla responsabilità contrattuale, il relativo danno non sarebbe invocabile in tema di risarcibilità degli interessi legittimi, dovendosi ritenere “ius positumche la risarcibilità dell'interesse legittimo è da riportare alla clausola generale di cui all'art. 2043 cod. civ. (Cass. Sez. Un. n. 500/1999) pur essendo stati ipotizzati in dottrina anche percorsi ricostruttivi differenti della responsabilità da interesse legittimo (come responsabilità da "contatto sociale" e quindi "contrattuale")”[xix].
La rilevante statuizione sul tema cui è approdato il Collegio è, dunque, quella per cui “in realtà non può dirsi che la responsabilità da perdita di chance venga in rilievo solo nell'ambito della responsabilità contrattuale”, non essendo la qualificazione della responsabilità come contrattuale a determinare la risarcibilità della chance, quanto “il verificarsi di presupposti significativi per il raggiungimento del risultato sperato”[xx].
Richiamando l’antecedente pronuncia della Corte di Cassazione n. 6506/1985, inoltre, il Consiglio di Stato ha precisato in tale sede come la possibilità di conseguire il risultato utile, per avere la concretezza rammentata, presupponga la sussistenza di una probabilità di successo maggiore del cinquanta per cento, posto che, in caso contrario, diverrebbero risarcibili anche mere possibilità statisticamente non significative.
In particolare, la concretezza della probabilità, secondo quanto affermato dai giudici del Supremo Consesso amministrativo, dovrebbe essere statisticamente valutabile mediante un giudizio sintetico che ammetta – con giudizio prognostico ex ante, secondo l'id quod plerumque accidit, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato – che il pericolo di non verificazione dell'evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al cinquanta per cento.
Del resto, in senso generale, non soltanto appare difficoltoso ricondurre la chance nell’ambito di una precisa categoria di danni risarcibili, trattandosi in definitiva di una possibilità, in quanto tale connotata da un evidente margine di aleatorietà, ma l’elemento foriero di incertezze, in aggiunta, pare quello della precisa perimetrazione degli stessi presupposti fondanti la chance.
A conferma della problematicità della questione, di seguito, si sono registrate nel tempo diverse opinioni nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, così come della dottrina[xxi], peraltro sviluppatesi attorno a due principali correnti interpretative: l’una favorevole al risarcimento della chance perduta, a prescindere dalla verifica circa le probabilità di successo, ritenendo dunque elemento sufficiente ai fini del risarcimento quello della perdita dell’astratta possibilità di conseguire un bene della vita, negato in conseguenza di atti illegittimi dell’amministrazione e l’altra volta a richiedere, ai fini risarcitori, una prova della sussistenza di un rilevante grado di probabilità di conseguire il bene della vita, nel caso concreto[xxii].
Alla luce del rammentato contrasto presente nell'ambito della giurisprudenza amministrativa sul punto, la specifica questione circa l’opzione tra "teoria ontologica" e "teoria eziologica", con riferimento al problema dell'astratta risarcibilità della chance è anche recentemente risultata oggetto di rimessione alla stessa Adunanza plenaria ad opera della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con specifico riguardo alla materia dei contratti pubblici[xxiii].
Quest’ultima, tuttavia, ha ritenuto la questione non potesse essere utilmente esaminata nell'ambito della controversia, ravvisandosi l'opportunità di restituire gli atti alla Sezione, osservando in particolare come le affermazioni contenute nella sentenza non definitiva della Sezione in ordine alla sussistenza del nesso di causalità ed alla consistenza della chance di aggiudicazione – nel caso di specie calcolata secondo una percentuale correlata al numero dei potenziali concorrenti di una gara virtuale – avrebbe implicato l'utilizzazione di un metodo di accertamento dell'illecito e di liquidazione del danno, la cui correttezza avrebbe potuto apparire strettamente correlata ai quesiti prospettati sulla ricostruzione dell'illecito e sulle conseguenze sull'esistenza e sulla liquidazione del danno da perdita di chance; quesiti, peraltro, giudicati nella pronuncia “risolvibili in astratto anche attraverso l'individuazione di percorsi ricostruttivi alternativi ovvero intermedi e comunque eclettici rispetto alla dicotomia tra "teoria ontologica" e "teoria eziologica"”[xxiv].
Così, di seguito, un filone giurisprudenziale ha definito la perdita di chance quale danno attuale, che non si identifica con la perdita di un risultato utile, differenziandosi dal "danno futuro", ma con il venir meno della possibilità di conseguire il risultato stesso; possibilità che, per configurare una fattispecie di pregiudizio giudizialmente risarcibile, dovrebbe risultare statisticamente rilevante, ovverosia manifestarsi quale rilevante probabilità di raggiungimento del risultato sperato, con la conseguente necessità di distinguere fra la effettiva "probabilità di riuscita" (che dà vita a una fattispecie di chance risarcibile) e la mera "possibilità di conseguire l'utile cui si ambisce" (contrariamente, costituente ipotesi non risarcibile in via giudiziale)[xxv].
D’altra parte, tuttavia, rispetto a tale orientamento sono sorte numerose critiche volte a sconfessare tale tesi, perlopiù nell’ambito del formante dottrinale, le quali hanno ritenuto tale configurazione del danno da perdita di chance, quale danno attuale, incompatibile con gli stessi principi governanti l’azione amministrativa, ritenuto che l’attualità non potrebbe ritenersi insita nella chance, poiché dipenderebbe dall’esercizio del potere amministrativo[xxvi].
In senso generale, cioè, sono state prospettate difficoltà rispetto alla stessa configurazione della chance quale interesse meritevole di tutela, posto che la meritevolezza del predicato interesse dovrebbe ad ogni modo interfacciarsi con la legittimità dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione pubblica[xxvii].
Tali critiche sono state avanzate, in particolar modo, con riferimento all’ambito dei contratti pubblici e, ad ogni modo, rispetto alle fattispecie caratterizzate dall’esercizio di un potere amministrativo con ampia discrezionalità, laddove si porrebbero rilevanti problematiche in termini di qualificazione della chance quale ipotesi di danno risarcibile poiché facente parte del patrimonio del concorrente: in tal caso, infatti, le valutazioni dell’amministrazione e così delle stazioni appaltanti dovrebbero ritenersi insindacabili, anche in punto di spettanza del bene, cosicchè in caso di giudizio prognostico, richiesto dal meccanismo risarcitorio della chance, il giudice amministrativo andrebbe di fatto a sostituirsi all’autorità, superando la riserva del potere amministrativo[xxviii].
La stessa giurisprudenza in ambito europeo, nel campo del diritto amministrativo e in particolare rispetto alle procedure ad evidenza pubblica al fine della tutela della concorrenza, ha riconosciuto la risarcibilità del danno da perdita di chance quale mancata opportunità di conseguire il bene della vita, in presenza, tuttavia, di precisi presupposti configuranti il danno in questione, tra i quali il nesso di causalità evidente tra condotta illecita del soggetto agente e conseguente evento di danno[xxix].
3.3. Gli approdi giurisprudenziali più recenti.
In termini generali la giurisprudenza amministrativa è approdata, in tempi recenti, perlopiù nell’ambito della contrattualistica pubblica, al riconoscimento del risarcimento del danno da perdita di chance quale schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso ad una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica, come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, in quanto partecipante e per ciò solo, si può ritenere portatore di un'astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto[xxx].
Nel dettaglio, in tale ambito operativo, si è riconosciuta la risarcibilità del danno da perdita di chance in relazione alla fattispecie concreta del mancato espletamento di una procedura competitiva, anche in conseguenza dell’accertato illegittimo affidamento diretto di un contratto d’appalto[xxxi], ovvero nell’ipotesi in cui l'unico esito possibile dell'annullamento degli atti di gara sia l'aggiudicazione in favore dell’operatore economico vittorioso in giudizio, con la conseguenza per cui, ove non sia praticabile il risarcimento in forma specifica, si ritiene dovuto il danno c.d. “da aggiudicazione illegittima”[xxxii].
In tempi più recenti, in particolare, l’orientamento prevalente nell’ambito della giurisprudenza amministrativa è giunto ad affermare la risarcibilità della chance condizionando la stessa ad un preciso presupposto, ossia la sussistenza di una rilevante probabilità del risultato utile, che sia stata vanificata dall'agire illegittimo dell'amministrazione; tale orientamento ha introdotto una sorta di necessaria “misurazione” della probabilità, la quale – si è affermato – non possa identificarsi nella semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, ma debba consistere nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura nella prova certa di una probabilità di successo, almeno pari al cinquanta per cento[xxxiii].
In termini generali, dunque, il danno da perdita di chance è oggi ritenuto risarcibile ad opera della giurisprudenza amministrativa, pronunciatasi di recente non soltanto con riferimento all’ambito della contrattualistica pubblica, bensì anche in relazione ad altri campi quale quello del pubblico impiego privatizzato, peraltro sulla base dei suddetti presupposti.
In proposito, in particolare, si è recentemente evidenziato come in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non derivi dalla mancata conversione del rapporto, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte dell’amministrazione, configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.[xxxiv].
Ultimamente sulla specifica questione, a lungo oggetto di ampio dibattito in giurisprudenza, così come in dottrina – come evidenziato – si è espressa nuovamente la stessa adunanza plenaria del Consiglio di Stato precisando come nell'ambito della dicotomia danno emergente - lucro cessante posta dall'art. 1223 cod. civ., l'accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l'evento ponga problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura decisamente maggiore rispetto al danno emergente; infatti, “a differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica. La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume pertanto la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui”.
Proprio in questo ambito, pertanto, sarebbe sorta la tematica in esame concernente la risarcibilità della chance, tuttavia, ritenuta ormai sia dalla giurisprudenza civile sia da quella amministrativa – come posto in evidenza proprio nella pronuncia della plenaria in questione – “una posizione giuridica autonomamente tutelabile – morfologicamente intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole (e in ciò distinta dall'elemento causale dell'illecito, da accertarsi preliminarmente e indipendentemente da essa) – purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata e nella quale può quindi essere ricondotta la pretesa risarcitoria connessa al regime tariffario incentivante di cui la società ricorrente chiede il ristoro per equivalente”[xxxv].
In termini di tecnica risarcitoria, inoltre, ai fini della risarcibilità del danno da perdita di chance, il prevalente orientamento nell’ambito della giurisprudenza amministrativa pare ritenga oggi configurabile l'accesso al risarcimento per equivalente solo laddove la chance abbia effettivamente raggiunto un'apprezzabile consistenza, condensata nel concetto di "probabilità seria e concreta", ovvero di "elevata probabilità" di conseguire il bene della vita sperato.
Così, trattando dell’onere probatorio, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento, si esigerebbe sia fornita la prova, anche soltanto presuntiva, circa l’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, sebbene non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile[xxxvi].
4. La ricostruzione interpretativa del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
La pronuncia in commento, alla luce di quanto sopra esposto, si colloca certamente nell’ambito dell’analizzato percorso interpretativo della stessa giurisprudenza amministrativa a proposito della risarcibilità del danno da perdita di chance – come evidenziato – faticosamente affermatosi proprio nell’ambito del diritto amministrativo e, di seguito, riconosciuto soprattutto in relazione all’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, oltre che, di recente, in ulteriori ambiti quali il pubblico impiego privatizzato, ovvero la mancata nomina ad incarichi direttivi[xxxvii].
Meritoria appare pertanto la pronuncia in commento, in primo luogo, laddove afferma chiari principi a proposito della configurabilità di un danno da perdita di chance, peraltro scardinando, con riguardo alla specifica controversia, la tesi sostenuta sul punto dai giudici di primo grado e riconoscendo, inoltre, la stessa risarcibilità della chance perduta nel caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice d’appello.
In secondo luogo, la pronuncia appare rilevante posto che, inserendosi nell’evidenziato dibattito circa i presupposti di configurabilità e risarcibilità del danno da perdita di chance nell’ambito amministrativo, assume una precisa posizione anche all’interno di tale disputa sul piano giurisprudenziale.
Il Collegio rileva, in particolare, l’erroneità delle statuizioni del giudice di primo grado, il quale ha sostenuto come la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance dovesse ritenersi nella fattispecie preclusa per l'assorbente rilievo per cui il consorzio asseritamente danneggiato non sarebbe stato in grado di dimostrare l'occasione concreta di aggiudicarsi direttamente il servizio, ovvero che sarebbe risultato aggiudicatario, con un elevato grado di probabilità. Tale circostanza, peraltro, non avrebbe potuto essere ricavata in base a elementi certi e obiettivi, potendo l'Amministrazione rivolgersi a tutti gli operatori economici del settore, non necessariamente solo a quelli presenti a livello locale.
I giudici del Tribunale Regionale sarebbero di seguito approdati, secondo il Consiglio di Stato, all’erronea statuizione per la quale al di sotto del livello della elevata probabilità, non sussisterebbe che la "mera possibilità", configurante un danno meramente ipotetico, non meritevole di reintegrazione, in quanto non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto.
Nel dettaglio, sul piano della stessa esistenza e configurabilità della chance nel diritto amministrativo, la pronuncia in commento afferma, a chiare lettere, come il vizio accertato dal giudice amministrativo consista nella violazione di una norma di diritto pubblico che – non ricomprendendo nel suo raggio di protezione l'interesse materiale – assicura all'istante soltanto la possibilità di conseguire il bene finale. L'"ingiustizia" del danno assumerebbe in tal senso ad oggetto soltanto il 'quid' giuridico, minore, ma comunque autonomo, consistente nella spettanza attuale di una mera possibilità.
A sostegno di tale ricostruzione, peraltro, il Consiglio di Stato fa riferimento al contesto stesso della moderna economia di mercato, nell’ambito del quale anche la diminuzione di una probabilità di eventi patrimoniali favorevoli rileva quale perdita patrimoniale, al pari del nocumento fisico, riferito ad una perdita tangibile.
Rilevante poi il passaggio della sentenza in esame laddove i giudici sconfessano la ricostruzione del giudice di primo grado fondata sulla “elevata probabilità' di realizzazione”, quale condizione affinché la chance acquisti una rilevanza giuridica, posto che in tal modo – ritengono – si va ad assimilare, in maniera fuorviante, il trattamento giuridico della figura nell’ambito amministrativo alla causalità civile ordinaria.
Si tratterebbe, al contrario, di una fattispecie di danno solo “ipotetico”, rispetto al quale “non si può oggettivamente sapere se un risultato vantaggioso si sarebbe o meno verificato”, come a dire che sarebbe certa la contrarietà al diritto della condotta di chi ha cagionato la perdita della possibilità, ma non sarebbe conoscibile l'apporto causale rispetto al mancato conseguimento del risultato utile finale.
Di conseguenza, posto che nell’ambito giurisdizionale compito del giudice sarebbe quello di riconoscere all'interessato il controvalore della mera possibilità – peraltro già presente nel suo patrimonio – di vedersi aggiudicato un determinato vantaggio, l'an del giudizio di responsabilità consisterebbe di fatto soltanto nell'accertamento del nesso causale tra la condotta antigiuridica e l'evento lesivo consistente nella perdita della predetta possibilità.
In sostanza, il Consiglio di Stato giunge nella pronuncia in commento ad una chiara tesi interpretativa, anche in merito alla determinazione del quantum risarcibile, contrapponendosi di fatto all’orientamento affermatosi nell’ambito della più recente giurisprudenza amministrativa sul tema, volto a richiedere ai fini della risarcibilità della perdita di chance la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento.
Così, la tecnica probabilistica andrebbe impiegata, non per accertare l'esistenza della chance quale bene a sé stante, ma al fine di misurare in modo equitativo il 'valore' economico della stessa, in sede di liquidazione del quantum risarcibile: il risarcimento rappresenterebbe pur sempre “una compensazione (non del risultato sperato, ma) della privazione della possibilità di conseguirlo”[xxxviii].
Mediante tale affermazione, evidentemente, i giudici nella pronuncia in esame operano una evidente riperimetrazione del concetto stesso di chance, aderendo alla tesi della chance “ontologica” e mirando verosimilmente ad un ampliamento della tutela in favore del presunto soggetto danneggiato[xxxix].
In proposito, al fine di non estendere in maniera eccessiva l’area del danno risarcibile, incorrendo in una “forma inammissibile di responsabilità senza danno”, si aggiunge alla ricostruzione un elemento ritenuto necessario al fine di raggiungere la soglia dell'"ingiustizia", ovverosia che “la chance perduta sia “seria'”, presupposto che – si ritiene in sentenza – possa ritenersi sussistente verificando con estremo rigore che la perdita della possibilità di risultato utile sia effettivamente imputabile alla condotta altrui contraria al diritto e appurando che la possibilità di realizzazione del risultato utile rientri nel contenuto protettivo delle norme violate; si esclude altresì dall’area del danno risarcibile il caso in cui le probabilità perdute si attestino ad un livello “del tutto infimo”.
Da ultimo, si rileva come la chance presupponga “una situazione di fatto immodificabile, che abbia definitivamente precluso all'interessato la possibilità di conseguire il risultato favorevole cui aspirava”: il giudizio di ingiustizia può assumere ad oggetto la perdita della possibilità di un vantaggio, cioè, solo laddove il procedimento amministrativo dichiarato illegittimo non sia più in alcun modo 'ripetibile'.
Delineate le coordinate definitorie e di risarcibilità della chance nel diritto amministrativo, in senso generale, il Supremo Consesso amministrativo esplicita poi come, nel caso di specie, la scelta dell'Amministrazione di prorogare per la terza volta le concessioni in essere abbia senza dubbio conculcato le chance acquisitive dell'operatore economico ricorrente, ritenute dotate, nella fattispecie concreta oggetto del giudizio, del carattere della 'serietà'.
In termini del quantum risarcitorio del danno da perdita di chance – non corrispondente al danno da mancata aggiudicazione che si identifica con l'interesse positivo ed il danno curricolare – il collegio ritiene necessario procedere mediante valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., stante l'impossibilità di formulare una prognosi sull'esito di una procedura comparativa mai svolta, peraltro rifacendosi concretamente ai costi, ricavi e proventi esplicitati nell’ambito della impugnata delibera.
5. Alcune riflessioni conclusive.
La pronuncia in commento, come posto in evidenza, concerne un istituto – quello della chance – non considerato sul piano normativo, ampiamente preso in esame da giurisprudenza e dottrina e certamente di difficile inquadramento.
L’istituto, già di difficoltosa perimetrazione a proposito della sua esistenza, configurabilità e risarcibilità nell’ambito del diritto privato, laddove – come messo in luce – si sono affermate le contrapposte tesi “eziologica” ed “ontologica”, pare a maggior ragione connotato da evidente complessità e problematicità nell’ambito del diritto amministrativo.
In quest’ultimo campo, infatti, l’esercizio del potere amministrativo, la corrispettiva posizione di interesse legittimo e l’ampia discrezionalità che connota l’azione amministrativa specialmente in talune ipotesi, rendono effettivamente complessa la definizione del concetto di chance risarcibile e, dunque, la realizzabilità di un giudizio prognostico.
Peraltro, la stessa giurisprudenza amministrativa non ha mostrato un indirizzo interpretativo univoco, ma nel tempo ha presentato diversificate soluzioni, oscillando tra tesi ontologica ed eziologica e adottando molteplici ricostruzioni sotto il profilo della prova richiesta, oltre che della liquidazione del danno; recentemente, in diverse occasioni, i giudici amministrativi hanno ammesso il risarcimento da perdita di chance laddove sia fornita prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento[xl].
In tal senso, significativo appare il ragionamento del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, laddove, trattando dell’istituto della chance, denuncia la confusione presente sul tema nell’ambito della stessa giurisprudenza amministrativa, generatasi peraltro dalla indebita sovrapposizione dei profili ricostruttivi eziologici ed ontologici e, di fatto, aderisce all’impostazione interpretativa della chance c.d. ontologica.
Chiaro lo stesso ragionamento seguito dai giudici nella sentenza, determinante l’approdo ad una netta posizione circa la configurabilità e risarcibilità della chance nell’ambito amministrativo; secondo taluna dottrina, tuttavia, a fronte di un coerente ragionamento il collegio sarebbe giunto, da ultimo, alla conclusione errata per cui il concetto di causalità non potrebbe costituire elemento definitorio del concetto di chance, sostituendo alla causalità probabilistica il parametro di giudizio della “serietà” allo scopo di definire la nozione di chance in questione, peraltro recuperando da ultimo fattori eziologici, quali “accidentalità”, “possibilità di realizzazione del risultato” e “livello infino delle probabilità perdute”[xli].
In definitiva, in assenza di coordinate normative a proposito dell’istituto, si ritiene che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato – così come avvenuto nel 2018, con esito tuttavia non determinante non essendosi in tale occasione i giudici pronunciati nel merito della questione[xlii] – possa essere nuovamente chiamata a breve ad esprimersi sull’argomento, al fine di dettare un puntuale inquadramento dell’istituto della chance, oltre che dei presupposti richiesti al fine della sua risarcibilità.
Tenendo conto degli approdi della giurisprudenza amministrativa sul tema, anche e soprattutto con riferimento all’ambito dei contratti pubblici, del resto, occorrerebbe delineare una soluzione interpretativa in grado di garantire una adeguata riparazione dei danni subiti, anche nell’ottica della tutela della concorrenza, scongiurando, nondimeno, il rischio di uno sproporzionato ampliamento dell’area dei pregiudizi risarcibili, anche considerando il carattere eccezionale del risarcimento per equivalente in rapporto alla tutela in forma specifica.
[i] Nella presente sede non appare possibile operare una compiuta disamina a proposito dei susseguenti e numerosi interventi normativi che si sono succeduti nella materia del trasporto pubblico locale. Basti dunque rammentare come sino alla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso non si sia registrata la presenza di un vero e proprio mercato dei servizi pubblici locali di trasporto, considerato che tale servizio veniva erogato perlopiù dall’amministrazione pubblica, direttamente, ovvero per mezzo di aziende municipalizzate. Tale assetto è mutato di seguito in prima battuta con il d.lgs. n. 422/1997, per ragioni finanziarie e per esigenze di sviluppo infrastrutturale. Nel quadro delle previsioni europee, inoltre, ed in particolare alla luce degli stessi principi generali di cui all’art. 14 del TFUE ed il protocollo n. 26 in materia di servizi di interesse generale, si è optato per un modello concorrenziale “regolato” di trasporto pubblico locale, con la possibile attribuzione di diritti esclusivi e la conseguente ammissibilità di compensazioni finanziarie, al fine di garantire sicurezza, qualità e ampia accessibilità del servizio. Di fatto, in ottica organizzativa, si è passati da un sistema essenzialmente fondato su gestioni pubbliche ad uno fondato sull’affidamento in esito a procedure competitive. Così come rilevato nella stessa pronuncia in commento, cioè, si tratta di un modello prescelto e delineato dal legislatore europeo che contempera l’efficienza economico-gestionale, da un lato e l’universalità del medesimo servizio, dall’altro. In ambito europeo, sul piano della disciplina, i servizi nel settore di cui trattasi rimangono disciplinati dal Reg. UE n. 1370/2007, come da ultimo modificato ad opera del Reg. n. 2338/2016. In linea generale, ai sensi del predetto regolamento, le autorità sono chiamate ad assegnare contratti di servizio pubblico sulla base di procedure di aggiudicazione degli appalti in grado di garantire in senso effettivo la concorrenza tra operatori; sono altresì previste talune tassative ipotesi in relazione alle quali può omettersi il ricorso alla gara pubblica, così come nel caso dell’assunzione di provvedimenti di emergenza o nel caso di contratti volti a scongiurare il rischio di interruzione del servizio. Il legislatore nazionale ha recepito le previsioni predette, mediante l’art. 61 della legge n. 99/2009.
[ii] Nel dettaglio, la legge della Provincia di Bolzano n. 15/2015 ha recepito la disciplina di cui al Reg. europeo n. 1370/2007, adottando di fatto un sistema “misto”, il quale prevede per una minima parte, corrispondente ad un lotto, l’affidamento diretto in favore di una società direttamente controllata dalla Provincia, mentre per 10 lotti omogenei l’affidamento mediante gara pubblica. Nella predetta legge della provincia autonoma si trova scritto espressamente come i servizi di trasporto pubblico di linea siano affidati “secondo le procedure previste dall’Unione europea”.
[iii] Così si esprime il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
[iv] Si v., in particolare, tra le sentenze più recenti sul punto, Cass. civ., sez. lavoro, ord., 14 gennaio 2021, n. 559 e Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2021, n. 27287, entrambe in dejure.it.
[v] Cfr., ex multis, F.D. Busnelli, Perdita di chance e risarcimento del danno, in Foro it, 1965, IV, 50; C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 761 ss.; R. Pucella, La causalità incerta, Torino, 2007; M. Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, 623 ss.
[vi] Cfr. in tal senso Cass. civ., 27 gennaio 1964, n. 186, in Foro it., 1964, I, 1200.
[vii] V., tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1985, n. 6506, in Foro it. 1986, I, 383, concernente il caso di un ente pubblico che aveva impedito al lavoratore, che aveva superato la prova scritta di un concorso, di presentarsi a quella orale, privandolo così della possibilità di ottenere un posto più remunerativo. Cfr., altresì, sulla risarcibilità della perdita di chance, intesa quale fattispecie produttiva di un danno attuale e risarcibile sempre che ne sia provata la sussistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, Cass. civ., sez. lavoro, 24 gennaio 1992, n. 781, così come le antecedenti Cass. civ., 1° aprile 1987, n. 3139, in Foro it. 1987, I, 2073 e Cass. civ. 17 aprile 1990, n. 3183, in Riv. giur. lav., 1990, II, 255.
[viii] Cfr. in merito alla suddetta tesi, tra le altre, Cass. civ., sez. I, 13 aprile 2017, n. 9571 e Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2017, n. 6488, entrambe in Diritto & Giustizia, 2017; in dottrina F. Mastropaolo, voce Danno, in Enc. giur., X, Roma, 1988, 12 ss.
[ix] Su cui si v., tra le altre numerose pronunce, Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400, in Giust. civ., 2005, 9, I, 2115, con nota di Giacobbe, in tema di responsabilità medica; più di recente, Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195, in Foro it. 2014, 7-8, I, 2137, con nota di Palmieri e Pardolesi; Cass. civ., sez. III, ord. 15 febbraio 2018, n. 3691 in dejure.it; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641, in Foro it. 2018, 5, I, 1579 con nota di Pardolesi e Tassone.
[x] Cfr. Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28993, in Foro it., 2020, 1, I, 187.
[xi]La chance patrimoniale divergerebbe, dunque, da quella non patrimoniale anche sul piano degli effetti (i.e., sull'aspetto risarcitorio), posto che il giudice di merito, in sede di accertamento del valore di una chance patrimoniale potrebbe far riferimento a valori oggettivi, così come il giudice amministrativo – come rilevato dai giudici nella sentenza – in alcune sue passate decisioni, ha adottato il parametro del 10% del valore dell'appalto all'atto del riconoscimento di una perdita di chance di vittoria da parte dell'impresa illegittimamente esclusa. Mentre diverso sarà il criterio di liquidazione da adottare per la perdita di una chance a carattere non patrimoniale, ove il risarcimento non potrà essere proporzionale al risultato perduto, ma commisurato, in via equitativa, alla possibilità perduta di realizzarlo. Così, Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28993, cit.
[xii] Andrebbe così a scomparire, secondo quanto sostenuto dalla Cassazione nella sentenza in questione, la stessa distinzione spesso foriera di confusione, sul piano concettuale e applicativo, tra chance cd. "ontologica" e chance "eziologica", posto che quest'ultima sovrapporrebbe inammissibilmente la dimensione della causalità con quella dell'evento di danno, mentre la prima evocherebbe una impredicabile fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall'esistenza e dalla prova di un danno-conseguenza risarcibile.
[xiii] La dottrina sul tema è sterminata; si v., tra gli altri: F. Cortese, Evidenza pubblica, potere amministrativo e risarcimento del danno da perdita di chance, in Giornale dir. amm., 2007, 2, 174; M. Tescaro, Il danno da perdita di chance, in Resp. civ. e prev., 2006, 6, 528; M. Franzoni, La chance nella casistica recente, in Resp. civ. e prev., 2005, 446. M. Feola, Il danno da perdita di chances, Napoli, 2004; A. Mondini, Considerazioni sulla chance di aggiudicazione di un contratto pubblico, in Urb. e app., 2004, 12, 1429; G. Mari, Responsabilità per perdita di chance e domanda di risarcimento in forma specifica implicita nella domanda di annullamento dell'affidamento a trattativa privata di un servizio, in Giust. civ., 2002, 5, 141.
Tra le prime pronunce in ambito amministrativo sul tema si v. Cons. St., sez. V, 5 dicembre 2000 n. 6960.
[xiv] Cfr., in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cons. St., sez. V., 15 novembre 2019, n. 7845, in www.giustizia-amministrativa.it. In tale pronuncia, peraltro, si è posto in evidenza come la tecnica risarcitoria della perdita della chance richieda un preciso passaggio, ovverosia il risarcimento per equivalente possa essere garantito solo laddove la stessa abbia effettivamente raggiunto un'apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule "probabilità seria e concreta" o anche "elevata probabilità" di conseguire il bene della vita sperato. Nell’ipotesi di mera 'possibilità' si registrerebbe soltanto un ipotetico danno, in quanto tale non meritevole di reintegrazione, poiché in concreto non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto. Così, si v., anche in tema di pubblici concorsi, Cons. St., sez. III, 27 novembre 2017, n. 5559, in www.giustizia-amministrativa.it e Cass. civ., sez. lav., 25 agosto 2017, n. 20408, in Diritto & Giustizia, 2017; mentre in tema di contratti pubblici, Cons. St, sez. V, 7 giugno 2017, n. 2740; Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2015, n. 4115; Cons. St., sez. VI, 5 marzo 2015, n. 1099 e Cons. St., sez. VI, 20 ottobre 2010, n. 7593, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[xv] In tal senso L. Di Giovanni, La problematica del risarcimento da perdita di chance nel diritto amministrativo e nella disciplina dei contratti pubblici, in Dir. economia, 2019, 1, 372.
[xvi] Si fa riferimento alla nota pronuncia Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, tra le altre in Giust. civ. 1999, I,2261 con nota di Morelli; in Resp. civ. e prev. 1999, 981; in Corriere giur., 1999, 1367, con nota di Di Majo e Mariconda; in Danno e resp., 1999, 965; in Giorn. dir. amm. 1999, 832 con nota di Torchia e in Urb. e app. 1999, 1067, con nota di Protto.
[xvii] Nella pronuncia delle sezioni unite del 1999, in particolare, i giudici ripercorrono i passaggi salienti dell’evoluzione giurisprudenziale della stessa Suprema Corte di Cassazione nel senso della “progressiva erosione dell'assolutezza del principio che vuole risarcibile, ai sensi dell'art. 2043 c.c, soltanto la lesione del diritto soggettivo, per mezzo di un costante ampliamento dell'area della risarcibilità del danno aquiliano, quantomeno nei rapporti tra privati”: in tal senso, si evidenzia come un primo significativo passo in tale direzione sia rappresentato dal riconoscimento della risarcibilità non soltanto dei diritti assoluti, ma anche dei diritti relativi, cui è seguito “il riconoscimento della risarcibilità di varie posizioni giuridiche, che del diritto soggettivo non avevano la consistenza, ma che la giurisprudenza di volta in volta elevava alla dignità di diritto soggettivo: è il caso del c.d. diritto all'integrità del patrimonio o alla libera determinazione negoziale, che ha avuto frequenti applicazioni ed in relazione al quale è stata affermata, tra l'altro, la risarcibilità del danno da perdita di chance, intesa come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni (sent. n. 6506-85; n. 6657-91; n. 781-92; n. 4725-93)”.
[xviii] Sull’istituto v., ex multis, C. Bozzi, Interesse e diritto, in Noviss. dig. it., a cura di A. Azara, E. Eula, VIII, Torino, 1962; E. Cannada Bartoli, voce Interesse (diritto amministrativo), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972; A. Romano Tassone, voce Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir., aggiornamento, II, Milano, 1998, 966 ss.; F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. pubbl., 2000, n. 1, 21 ss.
Peraltro, sullo specifico istituto della chance nel diritto amministrativo e in rapporto all’interesse legittimo, si è osservato come “il pregiudizio sofferto, in caso di illecito della P.A., non è affatto parametrato al bene della vita ex sé inattingibile, bensì alla possibilità di conseguirlo qualora l’azione amministrativa autoritativa fosse stata legittimamente esercitata. In altri termini: il danno da perdita di chance, di scaturigine civile, si candida “per sua natura” a governare il risarcimento per lesione dell’interesse legittimo”, così O. M. Caputo, La perdita di "chance" ontologica approda nelle aule della giustizia amministrativa, Nota a TAR Lazio, Roma, sez. I ter, 12 marzo 2015, n. 4063, in Urb. e app., 2015, 6, 708 ss. Sul punto v., altresì, R. Garofoli, La tutela risarcitoria, in Sandulli - De Nictolis - Garofoli (dir.), Trattato sui contratti pubblici, VI, Il contenzioso, Milano, 2008, 4090.
[xix] Cfr. Cons. St., sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686, in Foro amm. CDS, 2002, 453. Sul tema si v., altresì, Cons. St., sez. VI, 14 settembre 2006, n. 5323, in Foro amm. CDS, 2006, 9, 2585
[xx] Il Consiglio di Stato in tale pronuncia pone in evidenza come “la perdita di chance costituisce un danno derivante ora da responsabilità contrattuale ora da responsabilità extracontrattuale, si identifica con la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile non con la perdita di quel risultato, ma richiede che siano stati posti in essere concreti presupposti per il realizzarsi del risultato sperato”.
[xxi] V. tra i numerosi e più recenti contributi sulla tematica: O. M. Caputo, La perdita di "chance" ontologica approda nelle aule della giustizia amministrativa, cit., 708-711; S. Ingegnatti, Risarcibilità del danno da perdita di "chance" nel diritto amministrativo, in Giur.it., 2015, 11, 2508-2514; M. Cortese, Profili della causalità civile e criteri di definizione e liquidazione del danno, in Danno e resp., 2017, 2, 142 ss.; M. Messina, Il danno da perdita di chance per una mancata promozione e le non trascurabili probabilità di successo, in Id., 2018, 3, 336 ss.; L. Tarantino, Il risarcimento del danno da perdita di chance, in Urb. app., 2018, 4, 575 ss.; V. Neri, La “chance” nel diritto amministrativo: una timida proposta, in Urb. app., 2018, 3, 293 ss.; I. Pagani, Il risarcimento della perdita di “chance” nelle gare per affidamenti pubblici, in Giur. it., 2018, 5, 1173 ss.; C. Paolini, Mancata indicazione degli obiettivi dirigenziali, valutazione negativa illegittima e danno da perdita di "chance", Nota a Cass. civ. sez. lav. 12 aprile 2017 n. 9392; in Il lavoro nelle p.a., 2018, 1, 143-151; P. Patrito, La perdita di "chance" nel diritto dei contratti pubblici, Nota a ord. Cons. Stato ad. plen. 11 maggio 2018, n. 7; Cons. Stato sez. V 11 gennaio 2018, n. 118, in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1620-1635; E.G. Napoli, La perdita di chance nella responsabilità civile, in Id.., 2018, 1, 52 ss.; L. La Battaglia, Il danno da perdita di "chance", in Danno e resp., 2019, 3, 349-366; S. Gatti, Riflessioni sulla (risarcibilità e sulla) quantificazione del danno da perdita di chance, in Resp. civ. e prev., 2019, 6, 2113-2134; C. Scognamiglio, Riflessioni in tema di risarcimento del danno per c.d. perdita della "chance", in Resp. civ. e prev., 2020, 6, 1742-1759; L. Viola, Il danno da perdita di 'chances' a vent'anni da Cass. n. 500/1999, in Urb. e app., 2020, 2, 182-200; B. Tassone, La chances nel diritto amministrativistivo (e non solo): riflessioni sistemiche in prospettiva multidisciplinare, in federalismi.it, n. 29/2020, 199-234.
[xxii] Cfr. sul punto L. Di Giovanni, La problematica del risarcimento da perdita di chance nel diritto amministrativo e nella disciplina dei contratti pubblici, cit., 372.
[xxiii] Cons. St., ad. plen., 11 maggio 2018, n. 7, in Foro it., 2018, 12, III, 638 e in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1617, con nota di Patrito.
[xxiv] Rilevata la situazione di incertezza, l’Adunanza plenaria ha evidenziato nella pronuncia come entrando nel merito della questione, da una parte, avrebbe potuto inammissibilmente interferire con profili già esaminati dalla sezione rimettente con la sentenza non definitiva; dall'altra, sarebbe stata in qualche modo condizionata dalle chiavi ricostruttive utilizzate dalla Sezione e dalle scelte già operate con la sentenza, con la conseguenza per cui si è esclusa la possibilità di un esame approfondito dei quesiti prospettati non condizionato da tali scelte, così come la possibilità dell'affermazione di un principio di diritto conseguente ad un esame pieno delle fattispecie.
[xxv] Così Cons. St., sez. IV, 20 luglio 2017, n. 3575, la quale richiama le antecedenti Cons. St., sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 131 e 23 giugno 2015, n. 3147, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Sulla necessità di fornire una prova circa la concreta probabilità si v. altresì Cons. St., sez. V, 25 febbraio 21016, n. 762, in Foro it. 2016, 9, III, 468, con nota di Condorelli; sez. V, 22 settembre 2015, n. 4431, in dejure.it; sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4674, in Foro it. 2015, 2, III, 106, con nota di Galli; sez. IV, 12 febbraio 2014, n. 674, in Guida al diritto, 2014, 19, 110 (s.m). Di recente, a conferma di tale orientamento che intende la chance quale “perdita attuale di un esito favorevole”, Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2907, in Diritto & Giustizia, 2018.
[xxvi] Così L. Di Giovanni, La problematica del risarcimento da perdita di chance nel diritto amministrativo e nella disciplina dei contratti pubblici, cit., 396.
[xxvii] Ibidem, 383. Sui presupposti per la risarcibilità della perdita di chance in concreto si v. altresì F. Trimarchi Banfi, La chance nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 3, 873 ss. e G. Vercillo, La tutela della chance. Profili di diritto amministrativo, Napoli, 2012.
[xxviii] Ibidem, 386.
[xxix] Cfr., sul tema, Corte di giustizia UE, 20 dicembre 2017, C 998/2017.
[xxx] In questo senso, tra le altre, Cons. St., sez. V, 11 luglio 2018, n. 4225, in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1646, la quale conferma l'orientamento per cui il riconoscimento del danno da perdita di chance presuppone “una rilevante probabilità del risultato utile” frustrata dall'agire illegittimo dell'amministrazione, non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al 50% o quella che l'interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava. Così ha previsto che “se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell'amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l'interesse legittimo dell'operatore economico e — se è precluso anche il bene della vita cui l'interesse è orientato — è a lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta”. V. anche sul tema Cons. St., sez. V, 26 aprile 2018, n. 2527, in Foro amm., 2018, 4, 638.
[xxxi] Su cui si v. Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 118, in Resp. civ e prev., 2018, 5, 1614, cui è seguita, sempre in relazione alla stessa vicenda, Cons. St., sez. V, 17 dicembre 2018, n. 7117, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxxii] Sull’argomento si v. M. C. D'Arienzo, Il risarcimento del danno ingiusto negli appalti pubblici: proroga dell'affidamento illegittimo e perdita di chance, in Riv. giur. edilizia, 6, 2013, 333. Cfr. altresì F. Francario, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo ed azione risarcitoria, in Dir. amm., 1, 2002, per un riferimento ai primi casi in cui la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la risarcibilità della perdita di chance nelle ipotesi di annullamento degli atti della procedura d'evidenza pubblica.
[xxxiii] Rispetto a tale orientamento della giurisprudenza amministrativa si v., tra le più recenti, Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2907, cit.; sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6319; sez. II, 24 settembre 2020, n. 5604; sez. III, 27 ottobre 2020, n. 6546, tutte in www.giustizia-amministrativa.it, ove si è posto in evidenza come in mancanza della prova circa la probabilità di successo, almeno pari al 50% di quella che il ricorrente avrebbe avuto se non fosse stato emesso il provvedimento lesivo, non si possa fare ricorso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.
Hanno adottato tale posizione interpretativa anche taluni Tribunali amministrativi regionali: così T.A.R. Milano, Lombardia, sez. II, 13 novembre 2020, n.2171, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Latina, Lazio, sez. I, 30 aprile 2021, n. 264, in Foro amm., 2021, 4, 684; T.A.R. Napoli, Campania, sez. II, 3 maggio 2021, n. 2902 in www.giustizia-amministrativa.it, laddove si è rilevato come la perdita di chance rappresenti un danno attuale, non corrispondente alla perdita di un risultato utile, ma della possibilità di conseguirlo, la quale ai fini della risarcibilità del pregiudizio, deve essere statisticamente rilevante, ossia almeno pari, e non inferiore, al cinquanta per cento.
[xxxiv] V. in tal senso Cass. civ., sez. VI, ord. 23 ottobre 2019, n. 27011, in Foro it. 2020, 1, I, 261; Cass. civ. ord., 14 gennaio 2021, n. 559, in dejure.it; Cons. St., sez. III, 10 marzo 2021, n. 2021, in dejure.it; Cons. St., sez. VI, 28 aprile 2021, n. 3429, in Guida al diritto, 2021, 20.
[xxxv] Così Cons. St., ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7, in Foro it., 2021, 7-08, III, 394 e in Resp. civ e prev. 2021, 4, 1246. Nel caso di specie la questione riguardava il danno derivante dall'impossibilità di fruire degli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, attribuibile al mancato rispetto dei termini del relativo procedimento autorizzativo; tale danno si è ritenuto nella pronuncia liquidabile secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, non potendo corrispondere a quanto l'impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l'attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell'amministrazione pubblica.
Tale pronuncia si colloca, peraltro, nel solco dell’orientamento giurisprudenziale favorevole al risarcimento del danno da perdita di chance in presenza degli evidenziati presupposti (così, ex multis, Cons. St., sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217; Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2017, n. 3520, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[xxxvi] V., in tal senso, tra le altre, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 15 ottobre 2020, n. 914, in Diritto & Giustizia, 2020.
[xxxvii] Cfr., in merito, la recente pronuncia Cons. St., sez. II, 12 marzo 2020, n. 1780, in Foro amm., 2020, 3, 402.
[xxxviii] Secondo i giudici, infatti, “richiedere (come ha fatto il giudice di primo grado) che la possibilità di conseguire il risultato debba raggiungere una determinata soglia di probabilità prima di assumere rilevanza giuridica, significa ricondurre nuovamente il problema delle aspettative irrimediabilmente deluse (con un percorso inverso a quello che ha portato a configurare la 'chance' come bene autonomo, in ragione dell'impossibilità di dimostrare l'efficienza causale della condotta antigiuridica nella produzione del risultato finale) dal 'danno' alla 'causalità'. In questo modo la 'chance' finisce per essere utilizzata quale frazione probabilistica di un risultato finale di cui (poteva essere fornita, ma) è mancata la prova. Ma si tratta di un esito del tutto contraddittorio, in quanto, se la verificazione dell'evento finale può essere empiricamente riscontrata, allora non ricorrono neppure i presupposti per l'operatività della 'chance'”.
[xxxix] Cfr., tra i precedenti in tal senso nella giurisprudenza amministrativa, T.A.R. Liguria, Genova, Sez. II, 14 aprile 2010, n. 165, in Foro amm. TAR, 2010, 1, 109; Cons. St., sez. VI, 11 marzo 2010, n. 1443, in Resp. civ. e prev., 2010, 10, 2080, con nota di Bosetto; Id., V, 2 novembre 2011, n. 5837, in Diritto e Giustizia, 2011; Id., Sez. V, 8 aprile 2014, n. 1672; Id., Sez. V, 1° agosto 2016, n. 3450, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[xl] V. Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2907; sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6319; sez. II, 24 settembre 2020, n. 5604; sez. III, 27 ottobre 2020, n. 6546, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Cfr., in dottrina, L. La Battaglia, Il danno da perdita di "chance, cit.
[xli] V., in particolare, A. Vacca, commento a Cons. St., sez. VI, 13 settembre 2021, n. 6268, in www.lexitalia.it
[xlii] Su cui si v., L. Giagnoni, Il risarcimento del danno da perdita di 'chance' in caso di selezione competitiva non svolta approda senza successo, all'Adunanza Plenaria, nota a Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 118, in Urb. e app., 2018, 3, 360-372; P. Patrito, La perdita di chance nel diritto dei contratti pubblici, commento a Cons. St., 11 gennaio 2018, n. 118 e Cons. St., Ad. plen., 11 maggio 2018, n. 7 (Ord), in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1620-1635.
A proposito di un recente libro sul centenario de La Cassazione civile di Piero Calamandrei.
J. Nieva-Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei*
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario: 1. Premessa. - 2 La nomofilachia, oggi (Michele Taruffo e Sergio Chiarloni in dialogo). – 3. Presente e futuro. Note sul “fatto” e il suo controllo in Cassazione. – 4. Presente e passato. Un’ipotesi sull’origine inglese della Cassation francese. – 5. Alcune questioni classiche.
1. Premessa
A cura dei Professori Jordi Nieva-Fenoll (Catedratico di Diritto Processuale dell’Università di Barcellona) e Renzo Cavani (Profesor Ordinario della medesima materia della Pontificia Università Cattolica del Perù, Lima), è stata da poco pubblicata dal prestigioso editore Marcial Pons la raccolta di saggi - scritti o tradotti in spagnolo - intitolata “La casación hoy, cien años después de Calamandrei”. Il libro è ospitato nella collana Proceso y derecho e vi hanno collaborato alcuni tra i più autorevoli processualcivilisti del panorama internazionale odierno.
Come il titolo indica, il lavoro intende celebrare il secolo di vita de “La Cassazione civile” del Maestro fiorentino: opera di vastissimo respiro storico, comparato e culturale, pubblicata per la prima volta nel 1920 quando l’Autore – vale la pena ricordare – aveva appena trentun anni (anche se il manoscritto era già stato ampiamente preparato in precedenza)[1].
Non si tratta, però, di una celebrazione, di un omaggio fine a sé stesso; l’insieme degli studi qui radunati vuole piuttosto rappresentare un’occasione corale di riflessione, condotta con autentico spirito critico e ampiezza di prospettive, sulla complessa, e non sempre lineare, eredità de La Cassazione civile.
I saggi non si limitano solo a considerare in positivo l’enorme influenza normativa delle idee espresse dal Calamandrei, nel senso di analizzare il peso determinante che queste hanno avuto nella struttura di molte Corti Supreme, certamente in primis di quella italiana (si pensi all’unificazione, nel 1923, della Corte di cassazione a Roma, o alla formulazione dell’art. 65, comma 1, ord. giud., del 1941) e poi in molti altri Paesi appartenenti alla tradizione di civil law. Più criticamente, i contributi intendono anche evidenziare certi limiti dell’indagine dell’Autore e alcune debolezze dell’apparato teorico, concettuale e storico che egli offre, alla luce delle nuove consapevolezze acquisite in questi cento anni di cultura giuridica – a dimostrazione che la scienza giuridica avanza, eccome.
Quello che mi preme poi particolarmente sottolineare è la forte vocazione comparatistica del volume, che va ad arricchire il tuttora poco arato campo del diritto processuale civile comparato. Alla stesura hanno infatti partecipato studiosi del processo civile appartenenti alla tradizione italiana (il compianto Michele Taruffo, poi Sergio Chiarloni e Luca Passanante), spagnola (Jordi Nieva-Fenoll), peruviana (Renzo Cavani), francese (Frédérique Ferrand, dell’Università di Lione), inglese (John Sorabji, dell’University College di Londra), argentina (Leandro Giannini, dell’Università Nazionale di La Plata, sede di molti studiosi del processo) e brasiliana (Teresa Arruda Alvim, della Pontificia Università Cattolica di San Paolo), testimoniando così la perdurante vitalità di Calamandrei in tutta l’area di civil law, specialmente quella di lingua spagnola, e ora anche oltre[2].
Calamandrei stesso era genuinamente comparatista, nel senso pieno che le sue analisi, in generale, non erano solo di diritto straniero, cioè meramente descrittive o espositive di ordinamenti differenti, a mo’ di ornamento o sfoggio, ma autenticamente dirette al miglior intendimento della natura, e quindi delle funzioni, degli istituti giuridici processuali.[3]
In sintesi, il lettore troverà in questo libro non un’analisi su “La Cassazione civile” di Calamandrei, bensì con Calamandrei, un dialogo con l’opera e gli insegnamenti dell’Autore omaggiato che getta un ponte tra passato, presente e futuro. Il che – senza dubbio – è la maniera migliore per onorare i grandi classici della tradizione: non relegandoli nel cassetto di ciò che fu, come una foto d’epoca sbiadita da tirare fuori nelle occasioni di ricordo, ma facendo sì che essi parlino, e continuino a parlare, alla contemporaneità.
2. La nomofilachia, oggi (Michele Taruffo e Sergio Chiarloni in dialogo)
Non sorprende che uno dei temi ricorrenti lungo tutto l’arco del libro sia la nomofilachia: i suoi contorni, le sue trasformazioni e lo spazio che ha, o può ancora avere, negli ordinamenti giuridici contemporanei. Non sorprende perché quella della nomofilachia è, per eccellenza, l’idea centrale e uno dei lasciti maggiori del testo di Calamandrei, un aspetto sul quale egli insistette certamente con gran forza.
Il libro si apre proprio con due contributi su questa grande questione, nella prima Sezione intitolata El dialogo de dos Maestros (“Il dialogo di due Maestri”). Sezione che non esito a definire, per me, emotivamente significativa, dato che i Maestri qui in dialogo rappresentano due figure di alto riferimento anche personale: Michele Taruffo (il suo saggio è qui pubblicato postumo: uno degli ultimi - se non proprio l’ultimo – sul tema da parte del Giurista pavese), intitolato Sobre la evolución del Tribunal de casación italiano (“Sull’evoluzione della Corte di cassazione italiana”) e Sergio Chiarloni – che considero uno dei miei grandi Maestri, all’Università di Torino - su Nomofilaxis y reforma del juicio de casación (“Nomofilachia e riforma del giudizio di cassazione”).
Il cuore dello studio di Michele Taruffo sta nel chiarire i termini della mai risolta, e tuttora ben presente, tensione concettuale - l’ambiguità, diremo, ricalcando il titolo di un suo celebre libro di sulla Cassazione[4] - tra la funzione ‘retrospettiva’ delle Corti Supreme, cioè di controllo della corretta applicazione del diritto nella controversia di specie (funzione che si esplica pertanto verso il passato), e quella ‘proattiva’, diretta a guidare pro futuro le decisioni dei giudici di merito circa la corretta, giusta, vera interpretazione (l’«esatta osservanza») delle disposizioni giuridiche (ammesso, ovviamente, che possa predicarsi la correttezza, giustizia e verità delle interpretazioni, come crediamo). La prima è funzione di controllo della legalità, la seconda è funzione di uniformizzazione del diritto, questa concettualmente legata ai due valori fondanti dell’uguaglianza dei consociati di fronte alla legge e della prevedibilità delle decisioni[5]. Ancora: l’una sarebbe funzione spiccatamente privata, la seconda spiccatamente pubblica, o – come ancora si usa dire con terminologia comune, anche se non del tutto corretta – l’una è posta a tutela dello ius litigatoris, l’altra a tutela dello ius constitutionis[6].
Non c’è dubbio – rileva Taruffo, fotografando un dato di realtà – che il pendolo della storia oscilli ora dal lato di questa seconda funzione, nella direzione cioè di modelli di Corti cd. “del precedente”. Queste ultime, seppur variamente configurate nel panorama comparato, sono, quasi per natura, dotate di caratteri propri e ben riconoscibili, quali, ad es., la presenza sempre più ingombrante di forme di certiorari o di filtri, più o meno discrezionali, al fine di selezionare il contenzioso meritevole – per così dire - di “attenzione pubblica”[7].
Il problema di cosa rimane oggi della nomofilachia è la domanda centrale delle osservazioni di Sergio Chiarloni. È ancora possibile la nomofilachia – si chiede l’A. - in un contesto, come quello italiano, in cui vige la disposizione, di rango costituzionale, che garantisce sempre il ricorso per cassazione contro tutte le sentenze (rectius: pronunce che decidono su diritti), ex art. 111, comma 7, Cost.? La presenza di questa disposizione è uno dei più evidenti esempi di “eterogenesi dei fini” – concetto sul quale Sergio Chiarloni si è già più volte soffermato in vari studi precedenti – e cioè quel fenomeno per il quale alle buone intenzioni (qui, processuali) seguono effetti di segno contrario. Nel nostro caso: proprio l’introduzione della garanzia costituzionale del ricorso in cassazione, animata dal voler assicurare l’uniformità di trattamento e la prevedibilità delle decisioni a tutti (buona intenzione) è ciò ha condotto all’impossibilità pratica di attuare questi compiti (cattivo effetto), per la semplicissima ragione che l’elevatissimo numero di ricorsi causa, e non può non causare, disordine giurisprudenziale (che per giunta si va ad aggiungere al disordine legislativo)[8].
A questo proposito, è assai indicativo che Sergio Chiarloni – sempre in altri precedenti lavori dedicati al tema - abbia accostato metaforicamente, e assai criticamente, la giurisprudenza della Corte di cassazione italiana a un supermercato «nei cui scaffali i clienti - i litiganti - riescono facilmente a trovare il prodotto che cercano»[9].
Riprendiamo la domanda: è ancora possibile, quindi, parlare di nomofilachia oggi? E se sì, in quali termini? Sergio Chiarloni si oppone – anche qui, sulla scia di suoi studi anteriori – a quella che viene definita come nomofilachia tendenziale, o dialettica, dialogica (“corale” potremmo dire), intesa cioè non rigidamente dall’alto verso il basso, autoritativa, come un comando che cala da un vertice e si impone ai destinatari. Quella forma antica di nomofilachia – si dice - non solo non sarebbe più pensabile nel quadro plurale e complesso attuale, ma nemmeno desiderabile[10]. Questa che stiamo vivendo non sarebbe più l’epoca illuministica delle certezze, bensì quella delle incertezze, colte però nei loro aspetti più positivi, quasi liberatori (il riferimento, nemmeno troppo implicito, è chiaramente al vasto movimento del postmodernismo giuridico, con la sua insistenza sulla crisi, certamente benefica per coloro che lo sostengono, del paradigma della legalità e delle sue categorie fondanti[11]). Per Chiarloni, invece, l’esigenza di una nomofilachia in senso forte va rimarcata, pur nella consapevolezza che i tempi sono mutati. Anzi, proprio nella consapevolezza di questo cambiamento di paradigma. Di qui, la difesa dell’A. dall’accusa – certamente ingenerosa – di veteropositivismo (o, nelle parole dell’articolo, di conservatorismo paleopositivista[12]). È proprio in tempi di indeterminatezze, disorientamenti, che abbiamo più bisogno di una guida, di una istituzione che metta ordine al pluralismo interpretativo (peraltro fisiologico), quando questo supera una certa soglia. «Una “teoria dei cento fiori” – chiosa infine il Chiarloni, con un colto riferimento storico – non può esser applicata alla Corte di cassazione»[13].
3. Presente e futuro. Note sul “fatto” e il suo controllo in Cassazione
Nella Sezione Seconda - intitolata El presente y el futuro (“Il presente e il futuro”) – troviamo lo studio critico di Luca Passanante, che indaga su alcuni aspetti della Corte di cassazione italiana contemporanea, ma con considerazioni teoriche di più ampia portata (El tribunal supremo italiano a cien años de la «Cassazione Civile» de Calamandrei, “La corte suprema italiana a cent’anni da “La Cassazione civile” di Calamandrei”)[14], e un’analisi di Frédérique Ferrand circa l’avvenire della Corte di vertice francese (El futuro del Tribunal de casación francés, “Il futuro della Corte di cassazione francese”)[15].
Lascio al lettore il contenuto di quest’ultimo articolo, ricchissimo sia di spunti comparatistici utili per comprendere la direzione delle riforme in Italia (si pensi, ad es., all’istituto della saisine pour avis, preso a diretto modello del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, di prossima introduzione[16]), sia di dati statistici ed empirici circa la concreta situazione oltremanica, e mi rivolgo brevemente al primo saggio, il bel contributo di Luca Passanante.
Una delle questioni teorico-istituzionali più dibattute nel corso del tempo è stata senza dubbio quella relativa al ruolo del “fatto” nel giudizio di legittimità e il sindacato della Cassazione nel controllo della logicità delle sentenze di merito. In Italia, dal punto di vista storico, questo ruolo e questo sindacato hanno conosciuto, rispetto all’inizio, prima una espansione, poi un restringimento (si veda il novellato testo dell’art. 360, n. 5 c.p.c., relativo al vizio di motivazione, come modificato dalla L. 143/2012, che ha riaffermato in buona sostanza la versione originale “ristretta” del 1942[17]). Senza dubbio, il Calamandrei del La Cassazione civile avrebbe fortemente approvato questa limitazione. Ma non significa che la sua impostazione non sia teoricamente debole, se vista con gli occhi della contemporaneità.
Uno dei fondamenti della cattedrale calamandreiana stava infatti nella rigorosa separazione tra fatto e diritto. Calamandrei scrive nel 1920, in un’atmosfera già intrisa di positivismo giuridico (la prima versione della “Reine Rechtslehre” di Kelsen è del 1934). La teoria del ragionamento giudiziale più accreditata è quella del sillogismo, dove la norma (generale ed astratta) e il fatto (particolare e concreto) sono pensati come necessariamente distinti. Calamandrei sposa con convinzione questo schema logico (è del 1914 il suo La genesi logica della sentenza civile, che pure tiene conto di molte complessità), anche se poi lo abbandonerà nella fase più matura della sua vita («Vi confesso – scriverà egli nel 1955, a 65 anni, l’anno prima di morire - che quanto più passano gli anni e si allunga la mia esperienza forense […] tanto più si accresce la mia diffidenza, che a volte si avvicina al terrore, per la logica giuridica»[18]). Alla base della sua idea di Cassazione sta appunto questa netta separazione: la Corte di vertice è giudice solo e soltanto del diritto. Il lavoro di Luca Passanante mette a nudo tutta l’artificialità, e quindi l’odierna insostenibilità, di questo assioma. È infatti ora chiarissimo in praticamente ogni teoria dell’interpretazione che il giudizio di fatto e quello di diritto si implicano reciprocamente (il fatto è già sempre fatto qualificato, o fatto normativo, e la norma è già sempre interpretata alla luce dei fatti) e che i due elementi, seppur teoricamente distinti, sono pertanto indissolubili nella realtà processuale[19]. L’originaria, fittizia, scissione logica tra i due termini serviva a Calamandrei per disegnare una Cassazione ‘pura’, lontana dagli accadimenti storici e dalla loro prova, una Cassazione cioè interessata solo all’interpretazione del diritto, e non alla giusta risoluzione del caso. Ma in una prospettiva olistica, di giustificazione cioè della decisione tout court, il contatto coi fatti rimane cruciale (e spesso la Cassazione stessa ne è stata consapevole, come l’indagine giurisprudenziale dimostra). Una decisione del tutto astratta, sconnessa dalla cornice fattuale, difficilmente sarà in grado di esser giusta.
4. Presente e passato. Un’ipotesi sull’origine inglese della Cassation francese
Nella Sezione Terza del Volume compaiono il lavoro storico-ricostruttivo sulla derivazione inglese del Tribunal de cassation francese, di Jordi Nieva Fenoll (El origen inglés de la Casación francesa, “L’origine inglese della Cassazione francese”)[20], e quello di John Sorabji, avente ad oggetto l’attività della Supreme Court oggi, nei suoi aspetti anche più pratici e operativi[21].
In particolare, merita di essere sottolineata e discussa la proposta originale e di grande interesse di Jordi Nieva-Fenoll (ricchissima di documentazioni, come sempre accade nei lavori del processualista spagnolo), circa la sottaciuta radice inglese dell’originale Tribunal de cassation francese; radice che Calamandrei, nella sua opera, non approfondisce e anzi rifiuta.
La ricostruzione proposta è certamente innovativa (nessuno la aveva avanzata prima d’ora), e ha (almeno) due grossi meriti. Da un lato, valorizza i fortissimi contatti - dovuti certamente, ma non solo, alla prossimità geografica - tra giuristi francesi e inglesi, dalle origini del common law, fino alla modernità e oltre, demitizzando così una presunta radicale incomunicabilità storica dei mondi di civil law e common law. Dall’altro, ha il pregio di mettere in discussione un elemento di conoscenza che troppe volte e troppo in fretta è dato per scontato, e cioè l’originarietà intrinseca del modello della Tribunal de cassation, inteso come prodotto esclusivo e tipico dello spirito della Rivoluzione Francese.
In realtà, l’approfondita analisi condotta da Jordi Nieva-Fenoll sulle fonti storiche dell’epoca dimostra come alcuni dei giuristi francesi di fine Settecento - e in particolare Pierre Gilbert de Voisins (1767) e Philippe-Antoine Merlin de Douai (1790) – si fossero ispirati (o è molto probabile che lo fossero) al diritto inglese, attraverso la lettura dei Commentaries di Blackstone (1765), tradotti in francese poco dopo[22]. Certi caratteri presenti nella House of Lord del tempo sembrano difatti molto simili a quelli poi caratteristici del Tribunal de cassation: uno su tutti, la possibilità di adire l’organo di vertice solo e soltanto per errori circa un punto di diritto (point of law). La House of Lords inglese - apprendiamo da Blackstone – veniva qualificata come una supreme court of judicature, che decide soltanto in caso di injustice o mistake of the law, e davanti alla quale non è possibile ammettere prove nuove né ridiscutere le questioni di fatto (lasciate, nel processo civile inglese dell’epoca, alla determinazione della giuria, la quale decideva con verdetto senza motivazione)[23]. Il parallelismo, in effetti, è significativo. Senza poi contare che una delle maggiori differenze utilizzate per rimarcare la distanza tra la corte di vertice inglese e quella francese era la presenza, solo nella prima, dell’istituto del precedente vincolante: ma anche qui, l’analisi storica ci dice che questa particolarità non si stabilizzò, almeno nella forma in cui la conosciamo oggi, fino alla seconda metà del XIX secolo, e quindi in una epoca storica già molto successiva a quella presa in considerazione da Calamandrei.
Siamo sicuri che l’articolo, che argomenta questa ipotesi tanto intrigante quanto originale, aprirà un ampio dibattito storico per la miglior comprensione di un istituto processuale così centrale.
5. Alcune questioni classiche
Chiudono il Volume, nella Sezione Quarta, tre contributi che affrontano altrettanti temi classici, rileggendo Calamandrei alla luce delle molteplici evoluzioni, bisogni sociali e nuove consapevolezze contemporanee.
Il primo (Cuestión de hecho y cuestión de derecho en los recursos ante los tribunales superiores, “Questioni di fatto e questioni di diritto nei ricorsi davanti ai tribunali supremi”) di Teresa Arruda Alvim, verte sulla separazione tra fatto e diritto, con una particolare attenzione dell’A. all’annoso problema del sindacato delle Corti di vertice qualora siano in gioco concetti vaghi, clausole generali del diritto e princìpi giuridici - questi ultimi, come noto, di uso sempre più crescente nei ragionamenti dei giudici negli ultimi anni, soprattutto a seguito della costituzionalizzazione del processo civile.[24]
Il secondo (Los filtros de acceso ante las cortes supremas, “I filtri d’accesso davanti alle corti supreme”), di Leandro Giannini, tratta della questione, di importanza ordinamentale crescente in molte giurisdizioni (Italia in testa), dei filtri d’accesso alle Corti Supreme – un tema sul quale l’Autore ha già scritto una recente monografia[25] –, offrendo importanti distinzioni analitiche utili per metter ordine nel diversificato panorama comparato sul punto. In particolare, degna di attenzione appare la suddivisione tra parametri quantitativi e qualitativi (i primi – a mio giudizio – sempre assai problematici[26]), così come le ulteriori sfumature basate sul grado di discrezionalità del giudice[27].
Il terzo saggio (Casación y precedente. Reflexiones a partir de Calamandrei, “Cassazione e precedente. Riflessioni a partire da Calamandrei”), di Renzo Cavani, si concentra sulla apparente incompatibilità tra il disegno calamandreiano e la presenza di forme di precedente (più o meno vincolanti), che Calamandrei - come noto - rifiuta[28].
Qui l’Autore, dopo aver chiarito in termini generali (a) il concetto di precedente, (b) la ratio decidendi e (c) lo stare decisis - quali componenti basilari di ogni teoria comprensiva del precedente giudiziale che aspiri ad essere tale - rilegge la funzione di uniformizzazione della giurisprudenza per sostenere che il modello di Corte di cassazione immaginato da Calamandrei non è affatto incompatibile con le funzioni tipiche di una “corte del precedente”. Se da un lato è vero che lo schema calamandreiano è inconciliabile con la vincolatività dei precedenti tipica del diritto inglese (soprattutto se intesa nella sua forma più rigida, come era anteriormente al noto Practice Statement della House of Lords del 1966[29]), dall’altro, si sostiene che dalla lettura de “La Cassazione civile” emerge una idea di corte di vertice comunque dotata di una forte funzione prospettiva, di una ideale forza proiettiva, seppur empirica, diretta cioè verso il futuro, e avente di mira una stabilità interpretativa, oltre che nello spazio, anche nel tempo: flessibile e relativa quanto si vuole, ma pur sempre da considerarsi come valore[30].
*Le presenti considerazioni appariranno, tradotte in lingua spagnola, anche sul prossimo numero della Revista de la Maestría en Derecho Procesal, della Pontificia Università Cattolica del Perù, Lima (2021).
[1] Cfr., a proposito, i sentiti ricordi della nipote, Silvia Calamandrei (ora Presidente della Biblioteca Archivio Piero Calamandrei di Montepulciano), in Attualità di Calamandrei nel centenario de La Cassazione civile, 11 novembre 2020, disponibile in https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_civile_Calamandrei.pdf
Come noto, “La Cassazione civile” (dedicata alla «cara memoria» di Carlo Lessona, con il quale Calamandrei si laureò a Pisa) fu pubblicata originalmente dallo storico editore torinese-milanese “Fratelli Bocca”, in due volumi. Il primo (Storia e legislazione) è dedicato all’evoluzione della Corte di cassazione civile, a partire dal diritto romano (Capo I), a quello germanico antico (Capo II), da quello comune italiano e tedesco (Capo III) a quello francese prerivoluzionario (Capo IV) e postrivoluzionario (Capo V), per giungere infine all’analisi della Corte nella storia d’Italia (Capo VIII). Il secondo tomo (Il disegno generale dell’istituto) si focalizza invece sugli aspetti istituzionali della Corte di cassazione, e cioè sul suo scopo (Capo I), che altro non è se non la nomofilachia (cioè la protezione del diritto obiettivo: Capo II) e l’unificazione della giurisprudenza (Capo III), intese come funzioni eminentemente pubbliche (Capo IV). Segue poi l’analisi del ricorso per cassazione propriamente detto, ossia il mezzo attraverso cui lo scopo è raggiunto, concepito come derivazione dalla querela nullitatis del diritto intermedio (Capo III, dove si trova l’elucidazione della distinzione tra errores in procedendo ed errores in judicando). Concludono il volume l’esame della situazione italiana e riflessioni de iure condendo. L’intera opera è ora liberamente disponibile online, a cura del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, nella collana “Memoria del diritto” (Roma Tre Press, 2019), in un progetto più ampio volto alla ripubblicazione dell’Opera omnia giuridica di Piero Calamandrei, in 10 Tomi. I volumi de “La Cassazione civile” sono, rispettivamente, il sesto e il settimo (l’uno con la Presentazione di Virgilio Andrioli, scritta in occasione della ristampa delle opere giuridiche di Calamandrei a cura dell’allievo Mauro Cappelletti, nel 1976, presso l’Editore Morano di Napoli; l’altro, con breve prologo dello stesso Cappelletti, Dopo vent’anni, del medesimo anno). I volumi sono interamente accessibili a https://romatrepress.uniroma3.it/libro/opere-giuridiche-volume-vi-la-cassazione-civile-parte-prima/ e https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/09/Opere-giuridiche-%E2%80%93-Volume-VII-%E2%80%93-La-Cassazione-civile-parte-seconda.pdf.
[2] Per comprendere l’influenza de “La Cassazione civile” oltre i confini italiani mi pare utile ricordare che entrambi i volumi furono tradotti in lingua spagnola da Santiago Sentís Melendo (magistrato spagnolo che, a seguito della Guerra Civile, dovette esiliarsi prima in Colombia e poi, definitivamente, in Argentina; fu grande traduttore di molti patres della processualistica italiana) e pubblicati in tre Tomi nel 1945 per la Editorial Bibliográfica Argentina, con prologo di Niceto Alcalá-Zamora y Castillo (altro processualista spagnolo, anch’egli costretto all’esilio all’indomani della Guerra Civile, inizialmente in Argentina e poi in Messico, prima tornare in Spagna).
[3] Cfr., sul punto, T. E. Frosini, Piero Calamandrei comparatista, in Federalismi, 28 febbraio 2018, https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?eid=470&dpath=editoriale&dfile=EDITORIALE%5F26022018121030%2Epdf&content=Piero%2BCalamandrei%2BComparatista&content_auth=%3Cb%3ETommaso%2BEdoardo%2BFrosini%3C%2Fb%3E, testo della Relazione al Convegno Processo e Democrazia: le lezioni messicane di Piero Calamandrei, Università di Siena, 5 ottobre 2017.
[4] Ci riferiamo, naturalmente, a Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991.
[5] Lo specifica bene M. Taruffo, Sobre la evolución, cit., 17 – 18.
[6] Dico “impropriamente” perché le due espressioni, originalmente, nell’opera dei Glossatori del Digesto, non identificavano la valenza o la portata più o meno pubblica, più o meno importante, delle questioni trattate, bensì semplicemente la distinzione tra errori nella ricostruzioni dei fatti, o relativi alla sussunzione della norma al fatto (ius litigatoris) da un lato, ed errori sull’esistenza o il contenuto del diritto, dall’altro (ius constitutionis). Per questa importante precisazione storico-terminologica, G. Scarselli, Ius constitutionis e ius litigatoris alla luce della recente riforma del giudizio di Cassazione, in Riv. dir. proc., 2017, 355 ss.
[7] M. Taruffo, Sobre la evolución, cit., 21 - 22, il quale ricorda gli esempi dell’elaborazione del concetto di interés casacional in Spagna e delle corrispondenti evoluzioni in Germania e Argentina.
[8] S. Chiarloni, Nomofilaxis y reforma, cit., 27. In precedenza, già Id., Un singolare caso di eterogenesi dei fini, irrimediabile per via di legge ordinaria: la garanzia costituzionale del ricorso in cassazione contro le sentenze, in J. M. G. Medina et al. (a cura di), Os poderes do juiz e o controle das decisões judiciais: estudos em homenagem à Professora Teresa Arruda Alvim Wambier, São Paulo, 2008, 846 e seg.
[9] Così S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza e attività creative di nuovo diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, 6. Per il fatto che «quanto più la giurisprudenza della corte assomiglia ad un supermercato dove il soccombente nel giudizio di merito trova precedenti anche favorevoli, tanto più aumentano i ricorsi», sempre Id., Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale dell’accesso in Cassazione, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, 2012, 21; v. poi ancora, Id., Ragionevolezza costituzionale e garanzie del processo, in Riv. dir. proc., 2013, 525: «i prodotti giurisprudenziali della corte suprema simili a quelli di un supermercato, dove la parte soccombente spesso trova, accanto a quelli contrari, anche i precedenti favorevoli che possono indurla a tentare la sorte».
[10] Sul dibattito, con ampiezza, F. Di Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in Giustizia Insieme, 3 marzo 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1598-giudice-e-precedente-per-una-nomofilachia-sostenibile
[11] Di cui, uno dei più importanti esponenti è Paolo Grossi. Cfr., da ultimo, P. Grossi, Il diritto civile in Italia fra moderno e postmoderno (dal monismo legalistico al pluralismo giuridico), apparso nella collana Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 2021 (sul quale v. le osservazioni di M. Serio, Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno. Dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi, in Giustizia Insieme, Giugno 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-civile/1822-riflessioni-su-il-diritto-civile-in-italia-tra-moderno-e-posmoderno-dal-monismo-legalistico-al-pluralismo-giuridico-di-paolo-grossi). «La cosiddetta incertezza del diritto, che non si può non cogliere quale fattore negativo se si assume un angolo di osservazione prettamente legalistico – afferma P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, 66 - merita un capovolgimento valutativo, se la si vede come il prezzo naturale da pagare per il recupero di una dimensione giuridica che sia veramente diritto».
[12] S. Chiarloni, Nomofilaxis y reforma, cit., 30.
[13] S. Chiarloni, ult. op. cit., 31.
[14] L. Passanante, ivi, 39 ss. Cfr. anche, in italiano, Id., Il postulato del “primo” Calamandrei e il destino della Cassazione civile, in www.judicium.it, 19 Novembre 2020, https://www.judicium.it/postulato-del-primo-calamandrei-destino-della-cassazione-civile/. Sulla questione del giudizio di fatto e di diritto, si sofferma con ampiezza anche Teresa Arruda Alvim, nel saggio Cuestión de hecho y cuestión de derecho en los recursos ante los tribunales superiores, ivi, 127 e seg.
[15] F. Ferrand, ivi, 69 e seg.
[16] Avevo avuto occasione di toccare incidentalmente il punto in In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia Insieme, 22 giugno 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1815-in-difesa-della-nomofilachia-prime-notazioni-teorico-comparate-sul-nuovo-rinvio-pregiudiziale-alla-corte-di-cassazione-nel-progetto-di-riforma-del-codice-di-procedura-civile-di-carlo-vittorio-giabardo
[17] Il quale – ora – limita il sindacato di legittimità nel solo caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Su questo restringimento, per tutti, di recente, B. Capponi, Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c., in Giustizia Insieme, 10 febbraio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1540-note-brevi-sul-n-5-dell-art-360-c-p-c.
[18] Così P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, ora in Opere giuridiche, Vol. I, cit., 604. Sull’articolato itinerario del pensiero calamandreiano, v. N. Trocker, Il rapporto processo-giudizio nel pensiero di Piero Calamandrei, in AA.VV., Piero Calamandrei. Ventidue saggi su grande maestro, Milano, 1990, a cura di P. Barile, 101 ss. V. poi anche P. Grossi, Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 865 e seg.
[19] Sull’inestricabile nesso tra fatto e diritto, recentemente, G. Ubertis, Quaestio facti e quaestio iuris, in Quaestio Facti. Revista internacional sobre razonamiento probatorio, 1, 2020, 67 e seg., anche online, in https://revistes.udg.edu/quaestio-facti/article/view/22326/26148
[20] J. Nieva-Fenoll, El origen inglés de la Casación francesa, ivi, 91 e seg. L’articolo è apparso anche sulla Revista Ítalo-Española de Derecho Procesal, 2020, 83 e seg. e, in portoghese, sulla Revista de Processo (São Paulo), 2021, 445 e seg. (A origem inglesa da cassação francesa). Il contributo è di prossima pubblicazione anche in italiano (Le origini inglesi della Cassazione) sulla Riv. trim. dir. proc. civ., 2021. Per una prima presentazione, in italiano, a cura dell’Autore, presso l’Università di Genova (3 dicembre 2021), nel corso di diritto processuale civile tenuto dal Professor Angelo Dondi, cfr. Le origini inglesi della cassazione francese, disponibile su YouTube,
[21] J. Sorabji, El tribunal supremo del Reino Unido: procedimientos, precedentes y reforma (“Il tribunale supremo del Regno Unito: procedimenti, precedenti, e riforma”), ivi, 107 e seg.
[22]J. Nieva-Fenoll, cit., 96 e seg. e poi 104 e seg.
[23] J. Nieva-Fenoll, cit., 102.
[24] T. Arruda Alvim, Cuestión de hecho y cuestión de derecho, cit., 135 e seg., e spec. 147 e seg.
[25] L. Giannini, El certiorari. La jurisdicción discrecional de las Cortes Supremas, La Plata, 2016.
[26] Per la ragione che la significatività di una questione di diritto prescinde totalmente dal valore della controversia; è ben possibile che la pronuncia della Corte di vertice sia necessaria – per es., al fine di chiarire un dissidio interpretativo, o per offrire una interpretazione di una norma più convincente di quella data finora, etc. – anche in una causa di pochi euro.
[27] L. Giannini, Los filtros de acceso, cit., 155 e seg.
[28] R. Cavani, Casación y precedente, cit., 187 e seg.
[29] [1966] 3 All ER 77. Con il Practice Statement, la House of Lords dichiarò che d’ora in avanti si sarebbe ritenuta svincolata dal rispetto dei propri precedenti, qualora lo considerasse giusto (nelle parole dell’allora giudice Lord Gardiner: “Their Lordships […] recognise that too rigid adherence to precedent may lead to injustice in a particular case and also unduly restrict the proper development of the law. They propose therefore to modify their present practice and, while treating former decisions of this House as normally binding, to depart from a previous decision when it appears right to do so».
[30] R. Cavani, ibidem
, 214 – 215.
Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali)[1] [2]
di Armando Spataro
Le modalità di pubblica comunicazione dei magistrati hanno dato luogo a frequenti critiche secondo cui essi parlerebbero per rafforzare il peso dell’accusa o la propria immagine, nonostante il dovere di riservatezza cui sono tenuti. Si tratta di accuse quasi sempre infondate, ma che traggono spunto da innegabili criticità: basti pensare alla prassi delle conferenze stampa teatrali e dei comunicati stampa per proclami, o all’autocelebrazione della proprie inchieste. Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, purchè esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, di cui non sono ovviamente gli unici responsabili ed alla quale contribuiscono spesso anche appartenenti alle categorie degli avvocati, dei politici e degli stessi giornalisti che spesso producono informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche. I contenuti del D. Lgs. n. 188/2022 sono pertanto sostanzialmente condivisibili, pur se riguardano solo le Pubbliche Autorità. Ma è anche necessaria, per venir fuori da questo preoccupante labirinto, una riflessione diffusa che coinvolga tutte le categorie interessate .
sommario: 1.Premessa. - 2. Il contenuto delle previsioni introdotte con il D. Lgs. N. 188/2022 (2.a: art. 2; 2.b: art.3; 2,c: art.4; 2.d: art. 5) - 3. Gli altri protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia. - 3.a. Avvocati e Informazione - 3.b I politici che strumentalizzano l’informazione sulla giustizia. - 3.c . I giornalisti che producono l’informazione sulla giustizia. - 4. La necessità di una riflessione comune su informazione e giustizia tra magistrati, avvocati e giornalisti. - 5. Cenni sull’ Allegato seguente
Allegato: I criteri direttivi della Procura di Torino dell’8 ottobre 2018 che hanno anticipato varie disposizioni del D.Lgs. n. 188/221.
1.Premessa
Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia. All’opposto, la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità .
Non è per caso che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia emanato nella seduta dell’11 luglio 2018 le Linee Guida per l’organizzazione degli Uffici Giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, quale espressione della necessità di trasparenza, controllo sociale e comprensione - da parte dei cittadini - della giustizia intesa come servizio, come funzione, come istituzione.
Del resto, come è stato osservato[3], il magistrato non è più, in sé, simbolo di prestigio sociale e, tanto meno, di autorevolezza, fiducia, credibilità. La percezione sociale del magistrato e della giustizia – e dunque la maggiore o minore fiducia, il maggiore o minore rispetto, la maggiore o minore credibilità - si nutre sempre di più anche del “costume giudiziario”, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano, e si relazionano con le parti del processo e con il pubblico.
Va precisato, però, che quelle di vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione: intendo riferirmi, anche in questo caso evitando rischi di ingiuste generalizzazioni, a certi atteggiamenti che sono propri di forze di polizia giudiziaria, di avvocati, politici e di giornalisti. Se ne parlerà appresso.
Si può comprendere, pertanto, come l’approvazione del decreto legislativo n.188/ 2021 (in intestazione precisato) abbia determinato sin dalla fase di sua gestazione divisioni nei commenti, soprattutto, di magistrati (in particolare di quelli che delle conferenze stampa e delle pubbliche dichiarazioni sulle inchieste da loro condotte fanno o hanno fatto un uso inaccettabile durante le rispettive carriere) e giornalisti (specie quelli abituati a cercare e sfruttare canali privilegiati di accesso alle informazioni riservate).
Da appartenenti ad entrambe le categorie si è parlato di un inaccettabile bavaglio che con il provvedimento in questione si vorrebbe imporre a magistrati e giornalisti limitando l’informazione sui procedimenti penali, senza considerare che in discussione sono invece gli eccessi delle modalità informative allorchè, in contrasto anche con la Direttiva UE 2016/343, vanno a ledere i diritti di indagati ed imputati.
Ovviamente vi sono stati anche commenti critici di avvocati e politici, i quali, però, hanno auspicato soprattutto una ulteriore restrizione – francamente impensabile - dei contenuti delle pubbliche dichiarazioni dei magistrati sulle inchieste penali.
Il problema dei limiti da rispettare nelle modalità comunicative in tema di giustizia è comunque reale, poiché non si può ovviamente accettare alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, salvo scatenare un “mercato nero”[4] di tali notizie.
2. Il contenuto delle previsioni introdotte con il D. Lgs. N. 188/2022
E’ allora utile, a questo punto, passare all’esame delle previsioni contenute nel decreto legislativo in questione (tralasciando l’ormai abituale “clausola di invarianza”, qui inserita nell’art.6), però con una premessa: in questo intervento non saranno approfonditi gli importanti temi giuridici che derivano dalla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, citate nell’art. 1 del D. Lgs. 188/2021 (quale “Oggetto” e fine del provvedimento), concernenti il rafforzamento di alcuni aspetti della “presunzione di innocenza”, oggetto anche della giurisprudenza della Corte Edu. Le nuove norme saranno piuttosto oggetto di commenti che chi scrive formulerà alla luce della propria esperienza professionale di pubblico ministero, maturata per tutto l’arco della propria carriera, salvo una pausa quadriennale di esercizio delle funzioni di componente eletto del CSM (1998-2002).
A tal fine saranno comunque di seguito riprodotti i testi delle norme oggetto di commento
2.a - L’art. 2 del D. Lgs. 188/2021 (Dichiarazioni di autorità pubbliche sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale) prevede quanto segue:
1.È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l'imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.
2. In caso di violazione del divieto di cui al comma 1, ferma l'applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonchè l'obbligo di risarcimento del danno, l'interessato ha diritto di richiedere all'autorità pubblica la rettifica della dichiarazione resa.
3. Quando ritiene fondata la richiesta, l'autorità che ha reso la dichiarazione procede alla rettifica immediatamente e, comunque, non oltre quarantotto ore dalla ricezione della richiesta, dandone avviso all'interessato.
4. L'autorità che ha reso la dichiarazione è tenuta a rendere pubblica la rettifica con le medesime modalità della dichiarazione oppure, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica.
5. Quando l'istanza di rettifica non è accolta, ovvero quando la rettifica non rispetta le disposizioni di cui al comma 4, l'interessato può chiedere al tribunale, ai sensi dell'articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione della rettifica secondo le modalità di cui al comma 4.
Le previsioni dell’art. 2 appaiono corrette in quanto, al di là delle modalità di comunicazione di cui si dirà appresso, sono ispirate dall’elementare principio di “presunzione di innocenza”, peraltro espressione che ha finito anche per denominare il D. Lgs. 188/2021 nel dibattito pubblico che lo ha riguardato.
La norma ovviamente rispetta quanto previsto nella direttiva (UE) 2016/343 e si riferisce al dovere delle pubbliche autorità (dunque, non solo dell’Autorità Giudiziaria ma, ad es., anche di Ministri: non possono dimenticarsi, a tal proposito, le premature esternazioni in ordine ad una delicata inchiesta del Ministro dell’Interno Salvini che, alla fine del 2018, determinarono contrasti con la Procura di Torino) di non forzare, fino alla decisione definitiva, il modo di presentare alla pubblica opinione gli indagati o imputati anche nel caso in cui le stesse autorità siano pervenute a precisi convincimenti presenti nei provvedimenti emessi nel corso delle varie fasi processuali.
Personalmente, pur dando per scontati vizi e pessime abitudini di cui si parlerà, non credo affatto che sia diffusa tra i pm la convinzione che, incrementando il rilievo mediatico delle proprie inchieste e presentandoli come colpevoli dei reati loro ascritti, sia possibile far crescere le probabilità di ottenere la condanna degli imputati, specie in processi complessi.
Ma è giusto che si preveda un divieto legislativo in materia, così come è giusto prevedere una procedura di rimedio – in caso di violazione del divieto stesso – attivabile dall’interessato il quale potrà richiedere la rettifica della comunicazione, che dovrà intervenire "immediatamente e, comunque, non oltre quarantotto ore dalla ricezione della richiesta", venendo resa pubblica "con le medesime modalità della dichiarazione" o comunque con "modalità idonee", pur se nulla si dice sul connesso dovere di provvedervi da parte degli organi di informazione. In caso di diniego, invece, l'interessato potrà sempre rivolgersi al tribunale in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c. .
La norma evoca anche, in caso di violazione del divieto, oltre al risarcimento del danno, l'applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari. A tale ultimo proposito, vanno ricordato le previsioni di cui alle lettere “u”, “v” ed “aa” dell’ art. 2, comma 1 del D. L.vo 109/2006, secondo cui:
1. 1. Costituiscono illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni:
u) la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui;
v) pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (2);
aa) il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l'utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati.
Dunque, se le previsioni dell’art. 2 del D. Lg.s. 188/2021 non riguardano le tecniche di redazione dei provvedimenti giudiziari, quanto i confini lessicali imposti alla loro redazione, è giusto che venga ricordato il doveroso contrasto sul piano disciplinare di diffuse propensioni dei magistrati ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine.
Se infatti l’informazione serve ai cittadini, essa va data con misura e quando lo sviluppo delle indagini lo consente, con connesso dovere dei dirigenti di assicurare che essa avvenga in forma corretta per fatti di pubblico rilievo, specie quanto i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado. Per i dirigenti degli Uffici Giudiziari, in particolare per i Procuratori della Repubblica, esiste anche il dovere di intervenire per correggere, anche di propria iniziativa e senza istanza degli interessati, imprecisioni e fake news: serve farlo con misura e precisione per evitarne l’enfatizzazione, così come per far fronte al rischio di “pregiudizio alle indagini, e per la dovuta attenzione ai diritti delle persone coinvolte (tra cui quello di non essere presentato alla pubblica opinione come colpevole di reati), all’immagine di imparzialità e correttezza del singolo magistrato, dell’ufficio giudiziario e, nei casi più gravi” della stessa funzione giudiziaria”[5]
Per chiudere sull’art. 2, si potrebbe ipotizzare la non applicabilità del divieto di cui al co. 1, nel caso di indagato arrestato in flagranza di reato e/o immediatamente reo-confesso: ma anche in questo caso, ove sussista un interesse pubblico alla notizia, il comunicato stampa potrebbe dare atto delle modalità dell’arresto e di altre circostanze non coperte dal segreto investigativo, ma non potrebbe parlare di un “colpevole” prima della sentenza definitiva, tra l’altro essendo possibile anche in quei casi, come è noto, il riconoscimento di avere agito per legittima difesa o in presenza di altre circostanze che rendono non punibile l’autore del fatto.
2.b - L’art. 3 del D. Lgs. 188/2021 (Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 ) prevede quanto segue:
1. All'articolo 5 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, dopo la parola «informazione», sono inserite le seguenti: «, esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano»;
b) dopo il comma 2 è inserito il seguente: «2-bis. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell'imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.»;
c) dopo il comma 3 sono inseriti i seguenti:
«3-bis. Nei casi di cui al comma 2-bis, il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L'autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano. Si applicano le disposizioni di cui ai commi 2-bis e 3.
3-ter. Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 1 e 3-bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza.».
2. All'articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, dopo la parola «preposti,», sono inserite le seguenti: «oltre che dei doveri di cui all'articolo 5,».
Leggendo la lett. a), può dunque dedursi che l’informazione corretta non è quella delle conferenze stampa teatrali e dei comunicati stampa per proclami che ben abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, ma quella comunque sobria in presenza di due condizioni, cioè possibile quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o quando ricorrono altre specifiche ragioni di ordine pubblico. Disposizione valida anche quando il Procuratore autorizzi gli ufficiali di p.g. a fornire l’informazione.
Proprio in tale prospettiva, mi permetto subito un riferimento personale: per il periodo in cui ho diretto la Procura della Repubblica di Torino, cioè dalla fine del mese di giugno del 2014 a metà del dicembre 2018, ho tenuto solo tre conferenze stampa: la prima per denunciare pubblicamente, insieme agli Avvocati (da me invitati a parteciparvi), il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone). Nel lungo periodo precedente di servizio alla Procura di Milano, ho partecipato solo ad altre due conferenze: la prima nel 1988, insieme al collega Pomarici, in occasione della scoperta dell’ultimo “covo” della Brigate Rosse a Milano che segnò la fine degli “anni di piombo” (fu peraltro una conferenza tenuta dai Carabinieri cui noi, che l’avevamo autorizzata, assistemmo quasi silenti) ed un’altra di cui mi sono pentito, in epoca più recente.
Sarà chiaro, dunque, che non apprezzo in alcun modo la pratica delle conferenze stampa che vedono appartenenti alle forze di polizia schierati in divisa al fianco dei magistrati o dietro di loro. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce.
Quanto ai comunicati ed alle conferenze stampa, è però inaccettabile la prassi di quei pubblici ministeri che, presentando pubblicamente le proprie indagini, usano lanciare veri e propri proclami del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord”, così proponendosi come icone - categoria purtroppo in espansione - per le piazze plaudenti. Per non parlare della logica sottesa alla esaltazione di certi presunti misteri in relazione ai quali certi magistrati spesso richiamano responsabilità di imprecisate entità esterne e dei soliti “poteri forti”, senza nome e senza volto, così rinforzando il motto che i giornalisti inglesi usano per stigmatizzare quei loro colleghi che rifiutano di accertare/accettare il reale andamento dei fatti pur di non indebolire le loro fantasiose ipotesi: «Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia!».
Recentemente, sono stati anche diffusi comunicati in forma non condivisibile: troppo lunghi nel testo e perfino contenenti, da un lato, brani oggetto di conversazioni registrate durante le indagini preliminari, dall’altro spunti critici verso giudici o avvocati, oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice.
I comunicati stampa, invece, oltre a dover essere ovviamente chiari, sintetici ed efficaci, non possono che riguardare informazioni di effettivo interesse pubblico e contenere brevi riferimenti alla natura dei reati per cui si procede, alla provvisorietà delle valutazioni del giudice (oltre che del PM) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi (ad es., arresti in flagranza o diffusione di notizie, come è avvenuto, da parte degli stessi indagati).
Particolare attenzione va riservata alla necessità di evitare in qualsiasi modo che notizie segrete o comunque riservate possano essere anche indirettamente propalate o intuite: i danni alle indagini sono in questi casi evidenti e finiscono con il legittimare le accuse sistematicamente rivolte ai magistrati – in quanto detentori delle notizie – di determinarne le cd. “fughe”.
E’ doveroso anche (come previsto nella lett. “c” dell’art. 3 prima riportato) che i Pubblici Ministeri, anche per dare ulteriore concretezza al principio della direzione della Polizia Giudiziaria che la Costituzione ed il Codice di rito loro attribuiscono, debbano sempre ricevere preventivamente dai vertici dei presidi di polizia giudiziaria operanti nel circondario o, a seconda delle competenza, nel Distretto, i comunicati stampa che essi intendono diffondere in ordine a rilevanti indagini effettuate e, in caso di necessità, sottoporli alle valutazioni del Procuratore. Tale prassi è utile anche per pervenire a contenuti, modalità e tempi della diffusione della notizie di interesse pubblico improntati anche al rispetto dei diritti e delle garanzie spettanti agli indagati per qualsiasi reato.
In sostanza, vanno evitati eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. Queste, infatti, non si esauriscono nel momento dell’arresto di un ricercato o dell’avvenuta effettuazione di controlli e perquisizioni: talvolta, ad es., l’arrestato può chiedere di essere interrogato ed occorre che il PM vi provveda subito se l’atto si presenta utile. Altre volte il materiale sequestrato può determinare ulteriori urgenti attività. E gli esempi potrebbero continuare. E’ importante, dunque, che PM, Polizia Giudiziaria e vertici delle strutture operanti condividano la cultura della informazione appropriata per contenuto e tempistica, che può persino essere frutto di oculata elaborazione di strategie investigative, quando, ad es., si diffonde ad hoc una specifica notizia perché ciò può determinare utili ed importanti sviluppi.
Sia permesso riportare di seguito la parte concernente questo tema che figura nei Criteri organizzativi della Procura di Torino dell’8 ottobre del 2018 (pag. 221), principio già dettato in precedenza (con analoghe direttive del 23.6.2015) e che la Polizia Giudiziaria del Circondario ha condiviso e sempre rispettato:
Pag. 221 dei Criteri Organizzativi dell’8 ottobre 2018
Direttive per i magistrati dell’Ufficio, con particolare riferimento ai rapporti con la Polizia Giudiziaria
Sempre per quanto riguarda la direzione delle indagini, i Pubblici ministeri dovranno raccomandare alla polizia giudiziaria, ogniqualvolta ciò risulti utile o necessario, quanto segue:
…omissis…
- evitare, specie in caso di indagini delicate, conferenze e comunicati stampa relativi ad attività di polizia giudiziaria, senza previo assenso del magistrato che le coordina.
Anche il contenuto dell’art. 3 del D. Lgs. 188/2021, dunque, è condiviso da chi scrive salvo nella parte in cui si prevede (co.1, lett. “a”) che, al comma 1 del D. lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 (Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150) venga aggiunta la frase “La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”.
Si tratta francamente di una previsione di tipo burocratico, quella dell’atto motivato, che allude ad un controllo di tipo gerarchico sulle decisioni del Procuratore della Repubblica: non a caso, con l’ultimo capoverso dell’art. 3 D. Lgs. 188/2021, si prevede che “All'articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (ndr.: Attività di vigilanza del procuratore generale presso la corte di appello), dopo la parola «preposti,», sono inserite le seguenti: «oltre che dei doveri di cui all'articolo 5,”. Il procuratore generale presso la corte di appello, cioè, dovrà acquisire anche dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto sulle conferenze stampa e sugli atti motivati con cui sono state autorizzate, ed inviarle al procuratore generale presso la Corte di cassazione con relazione almeno annuale.
Francamente troppo: non vi è bisogno di un atto scritto per motivare una conferenza stampa (salvo quando si tratti di un’autorizzazione diretta alla polizia giudiziaria): il Procuratore della Repubblica, infatti, è comunque responsabile delle decisioni adottate anche quanto alla valutazione della necessità per la prosecuzione delle indagini o delle specifiche ragioni di pubblico interesse che facciano ritenere doverose le conferenze stampa, di cui comunque può dare spiegazione nei casi e nei tempi in cui ciò gli venga richiesto.
Si dovrebbe evitare di “immettere sul mercato”, insomma, altri formalismi inutili e relativi “moduli” da cui è già gravata la vita quotidiana delle Procure, prevedendo, semmai, la redazione facoltativa di tali atti motivati.
E’ anche condivisibile il divieto (ex punto 3-ter della lett. “c”) di assegnare ai procedimenti pendenti, in comunicati e conferenze stampa, denominazioni lesive della presunzione di innocenza: un’altra pessima abitudine conosciuta per valorizzare la teatralità della comunicazione relativa a determinate indagini.
In ogni caso, ai sensi della lett. b) del co. 1 della norma, le informazioni devono far riferimento alla fase in cui si trova il processo e rispettare le prescrizioni del già citato art. 2 del D. lgs. 188/2021.
La regola non scritta rimane comunque, anche in questo caso, quella secondo cui i Procuratori, comunque, ed i loro delegati, devono adoperarsi perché sia diffusa all’interno ed all’esterno degli uffici che dirigono la consapevolezza della delicatezza e importanza della comunicazione relativa alle procedure giudiziarie, pur se – sul punto - i magistrati rimarranno sempre esposti a critiche spesso strumentali quando indagati ed imputati apparterranno alle note “categorie protette”. Molto raramente, invece, è dato rilevare critiche ad altri protagonisti di una deriva insopportabile che ormai si manifesta sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione : intendo riferirmi, anche in questo caso evitando rischi di ingiuste generalizzazioni, a certi atteggiamenti che sono propri anche di avvocati, politici e perfino, se non soprattutto, di giornalisti.
Il tema in questione va comunque affrontato considerando che l’informazione sulla giustizia è certamente necessaria, rivestendo anzi la dimensione di un dovere da parte di chi deve diffonderla e di un diritto da parte di chi ne è destinatario.
2.c - L’art. 4 del D. Lgs. 188/2021 (Modifiche al codice di procedura penale) prevede quanto segue:
1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo l'articolo 115, è inserito il seguente:
«Articolo 115-bis (Garanzia della presunzione di innocenza). -
2. Salvo quanto previsto dal comma 2, nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell'imputato, la persona sottoposta a indagini o l'imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. Tale disposizione non si applica agli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato.
3. Nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell'imputato, che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l'autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento.
4.. In caso di violazione delle disposizioni di cui al comma 1, l'interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nelprocesso.
5. Sull'istanza di correzione il giudice che procede provvede, con decreto motivato, entro quarantotto ore dal suo deposito. Nel corso delle indagini preliminari è competente il giudice per le indagini preliminari. Il decreto è notificato all'interessato e alle altre parti e comunicato al pubblico ministero, i quali, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi, possono proporre opposizione al presidente del tribunale o della corte, il quale decide con decreto senza formalità di procedura. Quando l'opposizione riguarda un provvedimento emesso dal presidente del tribunale o dalla corte di appello si applicano le disposizioni di cui all'articolo 36, comma
4.»;
b) all'articolo 314, comma 1, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «L'esercizio da parte dell'imputato della facoltà di cui all'articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo.»;
c) all'articolo 329, comma 2, dopo le parole «Quando è», è inserita la seguente: «strettamente»;
d) all'articolo 474 del codice di procedura penale, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente:
«1-bis. Il giudice, sentite le parti, dispone con ordinanza l'impiego delle cautele di cui al comma 1. È comunque garantito il diritto dell'imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili. L'ordinanza è revocata con le medesime forme quando sono cessati i motivi del provvedimento.».
Assolutamente condivisibili sono le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del nuovo art. 115 bis cpp. : la giustizia, infatti, viene comunicata quotidianamente all’esterno con anche con vari atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, ma fino al momento in cui sia emesso il provvedimento definitivo, non può essere consentito ai magistrati - specialmente se pubblici ministeri - di utilizzare tali provvedimenti per finalità diverse da quelle cui sono direttamente destinate, ad es. per rafforzare il peso dell’accusa e delle proprie convinzioni, anche indirettamente, attraverso la loro pubblicità o mediante improprie modalità di redazione.
Un esempio, certamente estremo ma significativo, può essere utile: riguarda il cd. «derby del Sud», cioè il noto scontro tra la Procura della Repubblica di Salerno e quella di Catanzaro risalente al 2008. Prescindendo dal merito e dall’esito del processo, intendo qui ricordare che il 2 e il 3 dicembre di quell’anno, il procuratore di Salerno «vistava», e due suoi sostituti firmavano, un decreto di perquisizione di oltre millecinquecento pagine nei confronti, tra gli altri, di sette magistrati di Catanzaro, compreso il procuratore generale. Costoro risultavano indagati per reati che andavano dalla corruzione in atti giudiziari all’omissione di atti d’ufficio, dal falso ideologico al favoreggiamento personale e alla corruzione.
Il decreto di perquisizione non rientra tra gli atti destinati a porre l’indagato in condizione di difendersi, ma serve solo a motivare la scelta di cercare qualcosa in un certo luogo; per questa ragione consta normalmente di poche pagine: tre o quattro al massimo. Non mi è mai capitato di firmarne uno più lungo, pur se è accaduto anche a me di condurre qualche indagine delicata. Il decreto di perquisizione emesso dai pm di Salerno venne subito pubblicato su un sito web ricevendo così ampia diffusione: vi si riproducevano pressoché integralmente dichiarazioni rese da persone informate sui fatti contenenti opinioni ed apprezzamenti personali di dubbia compatibilità con le re-gole procedurali e di ancor più dubbia pertinenza con l’oggetto dell’indagine, quali ipotesi di scarsa sensibilità istituzionale, di comportamenti omissivi e sospette relazioni formulate nei confronti di personalità politiche, componenti del Csm, un pubblico ministero della Cassazione, nonché vertici ed esponenti dell’Associazione magistrati.
Provvedimenti così costruiti presentano un altro grave limite, questa volta intrinseco, quello di far «evaporare» le responsabilità penali su cui si indaga, che così rischiano di annegare in un mare di affermazioni non pertinenti e di ipotesi indimostrate.
I commi 1 e 2 del nuovo art. 115 bis cpp, dunque, richiamano il dovere di sobrietà dell’Autorità Giudiziaria e quello di non motivare gli atti giudiziari in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti.
Comprensibili e conseguenti le previsioni di cui ai successivi commi 3 e 4 che disciplinano la procedura di correzione dei provvedimenti e di connessa autotutela degli interessati.
Le altre previsioni (lett. “b”, “c” e “d” dell’art. 4 del D. lgs. in esame) rispettivamente riguardano:
-il tema della equa riparazione in caso di assoluzione (art. 314 c.p.p.), rispetto alla quale non incide il diritto ad esercitare la facoltà di non rispondere : si tratta dell’assestamento legislativo di una questione spesso dibattuta;
-la modifica all’art. 329 co. 2 cpp (obbligo del segreto) con la possibilità per il pubblico ministero – in deroga a quanto previsto dall’art. 114 cpp in tema di divieto di pubblicazione di atti e di immagini – di consentire con decreto motivato la pubblicazione di singoli atti o parti di essi solo quando ciò è strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini (ove la novità è l’introduzione nella norma dell’avverbio “strettamente”, che – comunque – non potrà che essere oggetto di valutazione esclusiva del magistrato inquirente su cui neppure il CSM può interferire). Si tratta comunque di modifica dovuta all’esigenza di rispettare l'articolo 4, paragrafo 3, della Direttiva europea già citata;
-l’aggiunta del co. 1 bis all’art. 474 c.p.p. (“Assistenza dell’imputato all’udienza”) che meglio disciplina il diritto alla partecipazione “da libero” dell’imputato all’udienza, anche se detenuto, mediante l’impiego delle cautele di cui al comma 1 e garantendo il diritto dell’imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l’impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili, certamente essenziale ai fini del pieno esercizio del diritto alla difesa. Si tratta di disciplina formale di prassi che normalmente sono da tempo già attuate nel corso delle udienze, conseguente comunque all’art. 5 della Direttiva che impone agli Stati membri di adottare «le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica», consentite ove «necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi».
2.d - L’art. 5 del D. Lgs. 188/2021 (Rilevazione, analisi e trasmissione dei dati statistici) prevede quanto segue:
1. Alla rilevazione, all'analisi e alla trasmissione alla Commissione europea dei dati di cui all'articolo 11 della direttiva provvede il Ministero della giustizia.
2. Ai fini di cui al comma 1, sono oggetto di rilevazione, tra gli altri, i dati relativi al numero e all'esito dei procedimenti anche disciplinari connessi alla violazione degli articoli 2, 3 e 4 del presente decreto e dei procedimenti sospesi per irreperibilità dell'imputato ovvero nei confronti di imputati latitanti, nonchè dei procedimenti per rescissione del giudicato ai sensi dell'articolo 629-bis del codice di procedura penale.
Non vi è qui necessità di particolari commenti, salvo ricordare che, ai sensi dell’art. 11 della Direttiva, la trasmissione di tali dati dovrà avvenire ogni tre anni.
3. Gli altri protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia
Si è già detto che protagonisti necessari della comunicazione relativa alla giustizia non sono solo i magistrati ma anche la polizia giudiziaria (di cui si è già parlato), gli avvocati, i politici ed i giornalisti.
Avviandomi alla conclusione di questo intervento, qualche osservazione in merito è necessaria anche per porre in evidenza il fatto che sarebbero utili interventi legislativi ulteriori o una severa applicazione dei codici etici o deontologici delle citate categorie professionali, così come dei partiti politici che ne dispongono.
La Ministra Cartabia, nel ricordare la spinta al Governo frutto della Direttiva Europea 2016/343 che sin qui non era stata attuata, ha dichiarato[6] che “oggi è cambiato il contesto: il solo fatto di una notizia di indagini…se viene immediatamente proposto sulla stampa come se si fosse già individuato l’esito di quel processo, può pregiudicare nei fatti quel principio che noi vogliamo garantire, cioè il fatto che la persona non è considerata colpevole fino alla fine della sentenza di condanna. Se posto male dal punto di vista mediatico, il processo può arrecare un danno alla reputazione...alla vita di una persona… Questo non vuol dire che non serve parlare delle indagini, ma bisogna farlo con delle nuove garanzie per preservare questo che è un caposaldo del rapporto tra il cittadino e il potere giudiziario...occorre un equilibrio diverso”.
Parole certo condivisibili, che ad avviso di chi scrive devono però intendersi riferibili alle molteplici strumentalizzazioni delle nuove modalità di comunicazione sulla giustizia addebitabili a larghi settori del mondo forense, del ceto politico e dello stesso giornalismo.
3.a. Avvocati e informazione
Ricordo quando Virginio Rognoni, da ex vice presidente del CSM, ebbe a definire virtuoso il protagonismo dei magistrati e degli avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità.
Ma, così come è stato sin qui fatto per le criticità comunicative dei magistrati, non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano.
Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati – diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato. Senonchè, come ha scritto Luigi Ferrarella[7], “su questo piano nessuno si salva, perché nel processo mediatico vince comunque il più scorretto, a prescindere dal lavoro che fa. Vince il magistrato più ambizioso o più vanitoso, come viene lamentato spesso; ma vince anche l'avvocato più aggressivo e scorretto; vince l’imputato (se mi si concede l’errore) più "eccellente", vince il poliziotto-carabiniere-finanziere meglio introdotto nel circuito mediatico ai fini della sua progressione in carriera o della sua logica di cordata interna; e vince il giornalista più spregiudicato. Con un risultato micidiale anche sul modo in cui in una collettività democratica viene amministrata la giustizia”.
Ed a ciò deve anche aggiungersi che il consenso popolare viene televisivamente ricercato da qualche avvocato anche quale mezzo per favorire la espansione della propria clientela
Inesistente, o comunque rara, è peraltro qualsiasi forma di autocritica della categoria anche rispetto a quegli avvocati che, subito dopo la pronuncia di una sentenza di condanna dei loro assistiti, anziché formulare, come è ben possibile, legittime critiche in modo pacato ed eticamente consentito, si lasciano andare a commenti delegittimanti nei confronti dei giudici che hanno emesso la sentenza e dei Pm che hanno condotto le indagini.
Senza questo tipo di atteggiamenti i talk-show non avrebbero seguito e le telecamere non avrebbero ragione di popolare le aule di giustizia, ma il prestigio e dignità della classe forense ne trarrebbero vantaggio.
3.b I politici che strumentalizzano l’informazione sulla giustizia
Non intendo qui far riferimento alle conosciute modalità di reazione a processi, condanne e assoluzioni da parte di politici a vario titolo incriminati. Il tema mi interessa poco anche perché è ovviamente prevedibile che un imputato, a qualsiasi categoria appartenente, ben difficilmente potrà essere riconoscente nei confronti di quanti lo hanno incriminato e condannato.
Mi interessa invece qualche breve cenno al comportamento di quei politici, con incarichi governativi o meno, che sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto: come si dirà appresso, si moltiplicano giornalisti inclini non tanto all’approfondimento della notizia dai politici propalata con insopportabile retorica, ma a determinarne comunque il massimo clamore .
Basti pensare a come, per mero scopo di supporto populista alle proprie scelte e posizioni, esponenti di rilievo di vari Governi hanno presentato ai cittadini i famosi “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009, o i “decreti sicurezza” del 2018 e 2019, o a come sono stati diffusi infondati allarmi sui rischi derivanti per l’Italia dal terrorismo internazionale (notizie riguardanti inesistenti scuole di kamikaze; inesistenti progetti di attentati a seggi elettorali, alla cattedrale di Bologna, alle stazioni metropolitane; o, ancora, la massiccia presenza dell’IS a Roma, i numeri esagerati di foreign fighters espulsi, la balla del marocchino arrestato in provincia di Milano – e poi scarcerato dai Giudici - perché complice dell’attentato al Bardo di Tunisi), così come va ricordata la propalazione di pulsioni xenofobe nei confronti degli immigrati, in particolare di quanti arrivano in Italia sui barconi, tra i quali si dice – contrariamente al vero – vi sarebbero terroristi ed aspiranti kamikaze .
Insomma, negli esempi fatti, la notizia che dovrebbe informare correttamente serve in realtà ad enfatizzare il problema sicurezza, così da allarmare i cittadini ed insieme rassicurarli grazie a continui riferimenti alla capacità di chi governa di saperli tutelare attraverso apparati di intelligence e leggi sapienti. Zygmunt Bauman ci aveva già avvertito in odine al senso di questa strategia politica che serve a far passare in second’ordine – rispetto all’abusato tema della sicurezza - problemi sociali ed economici, doveri costituzionali ed incapacità di guida politica del paese. E per tutto questo, ora, basta un tweet o un sms di 160 caratteri: forse lo stesso Bauman non l’aveva immaginato!
E la stessa strategia è utilizzata nel periodo che stiamo vivendo per ogni procedimento che vede indagato o imputato un politico o un suo parente o persone a lui vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge !
3.c . I giornalisti che producono l’informazione sulla giustizia
I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili.
Cito un altro episodio personalmente vissuto circa trent’anni fa allorchè effettuai un lungo viaggio di studio negli Stati Uniti, trovandomi a discutere, a Chicago, con il locale Prosecutor federale, in ordine al livello di indipendenza possibile dei Procuratori designati dal Presidente degli Stati Uniti (nel sistema di giustizia federale) o eletti (nel sistema di giustizia statale). Gli chiedevo se i pubblici ministeri non fossero condizionati dalla fonte politica della loro nomina. La risposta fu “Caro collega, qui c’è la stampa!”. Non disse “..la stampa libera”. Alludeva al famoso ruolo di cane da guardia del giornalismo d’inchiesta, forse troppo citato, ma che, come è noto, ha consentito – negli Stati Uniti – di far venire alla luce scandali di portata storica.
Il giornalismo d’inchiesta, in sostanza, negli Stati Uniti e dovunque, grazie ad approfondimenti seri, documentati e soprattutto liberi, dovrebbe ricercare la verità dei fatti, come spetta al PM nelle sue indagini giudiziarie: Julian Assange e Wikileaks ne sono un altro esempio, pure nella bufera che stanno vivendo da anni.
E’ così anche in Italia? Purtroppo non è sempre così. Ho prima citato, a proposito dei politici, i vizi originati della moderna informazione, in modo particolare di quella ormai dominante (o quasi) sul web, che impone assoluta rapidità di diffusione delle notizie. Ma se ciò avviene senza approfondimenti e senza le dovute precisazioni, non è affatto una buona informazione, specie ove si pensi che, nei frequenti casi di diffusione via web di informazioni imprecise e superficiali, è molto difficile che l’indomani, i quotidiani titolari del siti web possano correggere ed ammettere l’errore.
Si sono però diffuse altre modalità poco corrette di interlocuzione ed informazione nel settore della giustizia (al quale mi limito): una parola di saluto e commento informale di un magistrato diventa intervista mai rilasciata o autorizzata, titoli in rilievo e virgolettati lasciano pensare a contenuti degli articoli ad essi conformi ed a dichiarazioni rilasciate da persona intervistata, mentre quasi mai quelle parole sono state pronunciate da alcuno e spesso i contenuti degli articoli ne smentiscono i titoli.
Parlandone con qualche autorevole giornalista amico, mi è stato risposto che quella è ormai la moderna tecnica utilizzata dai giornali per attirare l’attenzione del lettore.
E c’è molto altro: presenza di telecamere non autorizzate nei palazzi di giustizia, i cui utilizzatori sono pronti a riprendere persone che si recano negli uffici dei magistrati per essere esaminati o interrogati, con conseguente violazione della privacy; giornalisti che pretendono di dar vita a rapporti confidenziali con i magistrati per avere accesso prioritario a notizie riservate o che nelle interviste pongono domande dai toni e contenuti provocatori per generare imbarazzo negli intervistati e perché ne resti traccia nei servizi televisivi; articoli che tendono ad assecondare le peggiori pulsioni populiste dei lettori etc. . A tal proposito ricordo quando, da Procuratore Aggiunto a Milano, ebbi a ricevere nel mio ufficio un giovane giornalista che, presentandosi come nuovo addetto della sua importante testata alle cronache giudiziarie milanesi, mi rassicurò sul fatto che avrebbe mantenuto segreta la fonte di ogni notizia riservata che gli avrei passato. Mentre lo sbattevo fuori dall’ufficio, pensai che qualcuno doveva avergli detto che così si fa con i magistrati e che i magistrati lo accettano e magari lo gradiscono. E non è difficile ipotizzare che, purtroppo, ciò possa effettivamente avvenire fino a determinare l’ “abbandono” di uno dei più importanti obiettivi che le corrette modalità di comunicazione impongono, cioè quello della massima spersonalizzazione delle notizie : ciò significa, ad es., che si può ben dare informazione – nei limiti sin qui precisati – circa un’indagine di pubblico interesse, ma questa deve essere attribuita all’Ufficio e non al singolo pubblico ministero che l’ha condotta.
Sono questi i principali vizi del giornalismo moderno che si occupa della giustizia, fermo restando che non intendo spendere una sola parola sui professionisti disonesti. Ce ne sono infatti anche tra magistrati, avvocati e politici e non vi è necessità di alcun commento in proposito. Onore, invece, ai tanti giornalisti che fanno il loro dovere con assoluta professionalità e correttezza, senza sconti per alcuno. Ed onore a coloro che, in ogni parte del mondo, sono morti o sono stati perseguitati nell’adempimento del loro dovere.
Il mio sogno è di vedere il nostro mondo della giustizia popolato da giornalisti “factcheckers” che, anziché cercare documenti in modo scorretto, provvedano ad eventualmente richiederli con formali istanze. A tal proposito, mi permetto di citare ancora una volta disposizioni e prassi esistenti presso la Procura di Torino (ma anche presso altre Procure come quella di Napoli), ove, in base a direttive specifiche, anche giornalisti ed altre persone interessate possono proporre istanza ai sensi dell’art. 116 c.p.p.[8] di accesso agli atti e di eventuale rilascio di copie, illustrando il loro interesse e la relativa rilevanza.
Meglio ancora sarebbe, come da anni proposto da Luigi Ferrarella, disciplinare legislativamente il loro accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.
Lo stesso giornalista, noto per la qualità delle sue osservazioni, ha posto in evidenza[9] quelle che a suo parere sono le criticità del D. lgs. N. 188/2021, che potrebbe amplificare il “mercato nero della notizia…propellente del processo mediatico”. Nel ricordare che le nuove norme non intervengono sul lavoro del giornalista (come sarebbe stato meglio: ndr) e che i guasti nel sistema di informazione sulla giustizia sono dovuti alle scomposte vanterie di magistrati e forze dell’ordine, si dichiara contrario alla stretta delle conferenze stampa che consentirebbe al giornalista scrupoloso di verificare una notizia non più coperta dal segreto di Stato. I giornalisti, conseguentemente, saranno spinti a coltivare nell’ombra rapporti per forza di cose opachi con le varie fonti negate, magari interessate a fornire solo frammenti di notizie. Ferrarella, inoltre, denuncia il rischio insito nel riconoscimento della competenza unicamente in capo ai dirigenti delle Procure della valutazione di cosa sia o non sia di “interesse pubblico” (con la prevedibile accusa di fare politica attraverso tali scelte), compito che invece – alla luce della giurisprudenza della Corte Edu – spetterebbe proprio ai giornalisti.
Certamente osservazioni come queste, specie se provenienti da una fonte così autorevole, devono far riflettere, ma è mia opinione che esse riguardino possibili criticità nell’applicazione delle norme sin qui citate, piuttosto che aspetti negativi dei loro contenuti. Vi è sempre il rischio che una qualsiasi legge non venga rispettata o venga applicata strumentalmente rispetto ad interessi ed obiettivi personali.
In realtà è giusto che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo? Ma se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo ed il diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i responsabili dei reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili e – come è sperabile – con possibilità di accesso legale a quelle documentali.
4. La necessità di una riflessione comune su informazione e giustizia tra magistrati, avvocati e giornalisti.
Sono da tempo intervenuti codici deontologici per magistrati, avvocati e giornalisti, cioè per tre delle principali categorie protagoniste del rapporto tra comunicazione e giustizia: tali codici sono sempre più mirati a disciplinare diritti e doveri connessi all’esercizio delle rispettive citate funzioni, ma i vizi sin qui esposti – ed altri ancora - permangono ed anzi rischiano di amplificarsi.
Non occorre – allora – invocare nuove regole deontologiche e sanzioni, quanto applicare quelle esistenti e comunque dar luogo ad un confronto diffuso, serrato e sincero tra le categorie interessate a dar luogo a prassi corrette d’informazione. Rammento, ad esempio, i vari incontri organizzati a Torino negli ultimi anni con giornalisti ed un’assemblea anche con gli avvocati per discutere dell’irrinunciabile importanza della informazione sulla giustizia e dei connessi diritti – doveri, di cui, però, vanno anche conosciuti i confini, diversi a seconda delle fasi del processo e comunque giustamente condizionati dal rispetto delle regole poste a tutela della privacy delle persone e della presunzione di innocenza di indagati e imputati.
L’auspicio è che tutti i magistrati, qualunque sia la funzione da loro svolta (ma in particolare i pubblici ministeri, categoria cui chi scrive ha appartenuto per tutta la sua carriera), siano ben consapevoli che la propria autorevolezza e credibilità non dipendono dallo spazio e dal rilievo eventualmente riservati dalla informazione alla loro attività professionale, ai loro volti ed ai loro nomi, ma dai risultati attestati nelle sentenze definitive. E’ anche questo che dà corpo alla fiducia nella Giustizia.
Il magistrato, dunque, sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura, anche in questo difficile contesto storico in cui qualsiasi intervento tecnico, persino in ordine ad un disegno di legge che concerna il tema di diritti fondamentali, genera in automatico sempre la stessa risposta: “il magistrato taccia o scenda in politica”, come se a tale tipo di interlocuzione fossero abilitati solo i politici ! Deve essere ben chiaro, allora, che dipenderà soprattutto dai magistrati stessi se i cittadini comprenderanno quali sono le ragioni per cui nessuno può farli tacere e quali i limiti del loro diritto-dovere di informare.
Ben venga, a tal fine, il Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 !
5. Cenni sull’allegato riguardante i criteri direttivi della Procura di Torino dell’8 ottobre 2018 che hanno anticipato varie disposizioni del D.Lgs. n. 188/221.
Le osservazioni fin qui formulate non devono essere considerate meramente discorsive e volte a stimolare solo dibattito teorico e dialettica sul tema in intestazione. Chi scrive, infatti, ritiene che, unitamente agli spunti tratti dal D. Lgs. N. 188/2021, esse possano costituire la base di precise direttive nella formulazione di circolari e criteri organizzativi degli Uffici Giudiziari di competenza dei rispettivi dirigenti (in particolare dei Procuratori della Repubblica presso i Tribunali).
Per tale ragione, nella consapevolezza della delicatezza della materia e solo per contribuire a possibili ulteriori riflessioni, lo scrivente ritiene utile allegare al presente intervento le parti dei Criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino (che ha varato l’8 ottobre 2018 e che, composto da 242 pagine e 25 allegati, è consultabile sulla homepage del sito web dell’ufficio: www.procura.torino.it) concernenti le direttive in tema di rapporti dei magistrati e della polizia giudiziaria con gli organi di informazione.
All’evidenza, tali direttive, che si pongono in linea con quanto previsto dalla citata delibera del CSM dell’11 luglio 2018 che prevede che il Procuratore della Repubblica “..assicura l’informazione sull’organizzazione e sull’attività della procura nel quadro della generale esigenza di trasparenza dell’organizzazione giudiziaria.”, hanno anticipato di vari anni molte delle condivisibili previsioni del Decreto Legislativo n. 188/2021 .
Si rimanda, dunque, alle pagine allegate.
[1] Il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 284 del 29 novembre 2021 (Suppl. Ordinario n. 40) con l'indicazione della vigenza dal 14 dicembre 2021
[2] Questo intervento contiene richiami e riferimenti a valutazioni già formulate dall’autore in occasione di Incontri di studio ed aggiornamento professionale organizzati dalla SSM del CSM (da ultimo in quello del 19 gennaio 2021 su “Il dovere di riservatezza nell’attività giudiziaria”), nonché contenuti in articoli pubblicati in Riviste giuridiche, tra cui si richiama, in particolare, quello intitolato “Comunicazione della giustizia sulla giustizia. Come non si comunica”, pubblicato su Questione Giustizia n. 4/2018.
[3] Documento di presentazione di un Corso di studi tenutosi nel giugno 2017 presso la Scuola Superiore della Magistratura di Scandicci
[4] Efficace definizione di Luigi Ferrarella in “Processo vero o mediatico? Le insidie delle nuove norme” (Corriere della Sera, 27 novembre 2021).
[5] Citata delibera del CSM dell’11 luglio 2028
[6] Intervista a Il Foglio del 3 dicembre 2021
[7] L. Ferrarella : “Proposta minoritaria di ecologia giornalistica” (2007)
[8] Per le parti che qui interessano si ricorda che l’art. 116 c.p.p. (Copie, estratti e certificati) prevede che:
1. Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti.
2. Sulla richiesta provvede il pubblico ministero o il giudice che procede al momento della presentazione della domanda ovvero, dopo la definizione del procedimento, il presidente del collegio o il giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza.
3. Il rilascio non fa venire meno il divieto di pubblicazione stabilito dall’articolo 114.
3-bis. ..omissis..
[9] “Processo vero o mediatico? Le insidie delle nuove norme” (Corriere della Sera, 27 novembre 2021)
La Riforma prossima ventura del giudizio di legittimità - note a lettura immediata sulla legge 206/21.
di Franco De Stefano*
Sommario: 1. Premessa e delimitazione del campo d’indagine. - 2. Gli interventi di recepimento di prassi interpretative. - 3. L’ampliamento dei provvedimenti ricorribili per cassazione. - 4. Gli interventi sulla struttura del giudizio di legittimità. - 4.1. Nuovi contenuti del ricorso per cassazione. - 4.2. L’uniformazione del rito camerale. - 4.3. L’ordinanza camerale contestuale. - 4.4. Il procedimento accelerato monocratico. - 4.5. Il rinvio pregiudiziale. - 5. Gli interventi di impatto organizzativo generale. - 5.1. La sistematizzazione del processo telematico. - 5.2. L’Ufficio per il Processo in Cassazione e Procura Generale. - 6. Brevi spunti conclusivi.
1. Premessa e delimitazione del campo d’indagine.
Pubblicata il 9 dicembre ed in vigore dalla prossima Vigilia di Natale del 2021, la Riforma del processo civile indotta dal PNRR è per la maggior parte un’ampia legge di delegazione ai sensi dell’art. 77 Cost., ma non manca (ai commi da 27 a 36 dell’unitario articolo su cui è strutturata) di contenere alcune norme immediatamente applicabili, sia pure con differimento della relativa applicabilità al centottantesimo giorno successivo a quello dell’entrata in vigore della legge (art. 1, co. 37) e, quindi, al 22 giugno 2022.
L’obiettivo della legge è “il riassetto formale e sostanziale del processo civile, mediante novelle al codice di procedura civile e alle leggi processuali speciali, in funzione di obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, nel rispetto della garanzia del contraddittorio” e degli specifici ulteriori principi e criteri direttivi analiticamente enunciati nell’unitario successivo articolo.
Per quanto riguarda il giudizio di legittimità, occorre fare riferimento principalmente al comma 9, ma alcune altre norme significative, sebbene su profili marginali, si trovano anche altrove.
I risultati eccellenti del 2021 (a tutto il 10 dicembre 2021, l’inedito assoluto primato di complessivi 39.398 provvedimenti pubblicati, dei quali: 3.962 decreti, 1.531 ordinanze interlocutorie, 30.926 ordinanze e 2.979 sentenze, secondo i dati ricavabili da Italgiure) non devono indurre alla conclusione che questi ritmi di lavoro siano ottimali o anche soltanto sostenibili: la qualità del giudizio di legittimità e del suo prodotto è invece inconciliabile con la quantità abnorme di provvedimenti continuamente sollecitati alla Corte suprema.
Occorre invece insistere sull’idea (sulla quale ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in questa Rivista dal 3 marzo 2021) che una moderna Corte di cassazione non può e non deve inseguire livelli di “produttività” (ammesso che tale terminologia si confaccia al giudizio ed al processo e soprattutto a quello di legittimità) incompatibili con l’effettività della tutela del diritto, inteso sia in senso oggettivo che soggettivo; ipotizzare un indefinito incremento dell’offerta di giustizia è una fallimentare illusione, occorrendo piuttosto tentare di incidere sul contenimento della domanda di giustizia, soprattutto di legittimità, mediante risposte tempestive e coerenti, idonee ad offrire una almeno tendenziale certezza nelle soluzioni e così non solo scoraggiare gli eccessi nel ricorso al giudice, ma anche e soprattutto circoscrivere la necessità di tale ricorso, offrendo affidamento su di una efficace ed efficiente tutela dei diritti, a cominciare da quelli fondamentali.
Se il disegno complessivo della Riforma del 2022, come già si può ellitticamente definire, nutre chiaramente un’ambizione verso questo obiettivo, per il giudizio di legittimità gli effetti degli interventi non appaiono però univoci: nel complesso, essi sono chiaramente mirati a conseguire una maggiore speditezza anche del giudizio di legittimità, ma non ne mancano altri che, evidentemente in funzione di una prevalente razionalizzazione dell’intero processo civile, di quello invece comportano un potenziale aggravio; al contempo, alcuni interventi strutturali, cioè non direttamente incidenti sul giudizio, potranno rivelarsi forieri di positivi effetti di sistema.
In occasione di queste sommarie note a lettura immediata, quindi, esclusivamente per comodità di disamina gli interventi oggetto di analitica previsione possono così raggrupparsi:
A)in quelli di sostanziale mero recepimento di prassi interpretative già invalse: l’estensione del rito camerale all’improcedibilità; la regolamentazione dei casi di trattazione in udienza pubblica e delle facoltà delle parti;
B)in quelli sull’ambito del giudizio di legittimità: la revisione della disciplina degli artt. 348-bis e 348-ter cpc; l’introduzione della specifica nuova fattispecie di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; la previsione del ricorso in cassazione contro i provvedimenti delle corti d’appello in materia di esecutività di decisione straniera in relazione ad alcuni regolamenti unionali o di riconoscimento ed esecuzione previsti da altri regolamenti, oppure per analoghe ipotesi disciplinate da convenzioni internazionali; la ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti anche provvisori del neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie;
C)in quelli sulla struttura stessa del giudizio di legittimità: una nuova disciplina sul contenuto del ricorso per cassazione; l’uniformazione dei riti camerali, con soppressione della Sesta Sezione civile e del relativo rito; introduzione dell’ordinanza camerale immediatamente depositata; introduzione di un procedimento accelerato monocratico; introduzione del rinvio pregiudiziale da parte del giudice del merito;
D)in quelli di impatto organizzativo sulle attività ad esso serventi: l’ampia digitalizzazione del processo e dell’accesso al giudice imposta in tutti gli uffici giudiziari; l’istituzione anche in Cassazione e Procura Generale dell’Ufficio per il processo, con analitica menzione delle relative funzioni.
Nessuna di queste modifiche è di immediata applicazione; ad ognuna, peraltro, si dedica qualche riflessione eminentemente pratica od operativa, nell’auspicio che, se non altro nel periodo di vigenza della delegazione, possa costituire un contributo per l’elaborazione dell’impegnativo testo normativo delegato che ci si attende.
A tutte le notazioni una preliminare considerazione: la stessa legge delega consente [art. 1, co. 22] di curare il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme del codice di procedura civile, del codice civile e delle norme contenute in leggi speciali non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, comprese le disposizioni del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, di cui al regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, in modo da renderle ad essi conformi, operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie; il primo auspicio è che si limitino, per quanto possibile, quindi le interpolazioni di norme preesistenti con numerazioni complesse e sovente perfino di ardua percorribilità, provvedendosi se del caso ad una riedizione dell’articolato, non dissimile a quella che nel 1973 il legislatore adottò per il rito del lavoro, fino ad un nuovo ed agile testo consolidato aggiornato e moderno (a cui gli interpreti ben potranno riferirsi con “n.t.” o simili ed equivalenti espressioni), a similitudine anche dei testi normativi sovranazionali e delle relative rifusioni.
Per brevità si tralascia poi una specifica menzione di alcuni altri interventi in materia processuale, ma con immediata possibilità di ricaduta anche sul giudizio di legittimità, quale la disciplina sulle impugnazioni in generale (con equiparazione della notifica di un’impugnazione alla decorrenza del termine breve per proporne altra ed estensione dell’inefficacia dell’impugnazione incidentale tardiva in caso di improcedibilità di quella principale), quella sulla responsabilità aggravata (con previsione di sanzioni a favore della Cassa delle ammende, identificata l’Amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato), quella sulla correzione di errore materiale (con previsione di trattazione anche solo scritta e di estensione del procedimento ai casi di attribuzione, sia pure entro un anno dal provvedimento), quella sulla limitazione della rilevabilità del difetto di giurisdizione (in recepimento delle soluzioni della giurisprudenza delle Sezioni Unite sul punto consolidate) e così via.
2. Gli interventi di recepimento di prassi interpretative.
Si tratta di alcune previsioni che, in concreto, adeguano il tenore testuale delle norme processuali a prassi interpretative assolutamente invalse e pacifiche nella giurisprudenza di legittimità: l’estensione esplicita del rito camerale alle ipotesi di improcedibilità (Cass., Sez. 6 – 3, 18/10/2011, n. 21563) e la facoltà, anche per il Pubblico Ministero, di depositare memorie in vista della pubblica udienza (con un termine di quindici giorni, anticipato rispetto a quello analogo per le parti); rispettivamente previste al comma 9 dell’art. 1 della legge in esame, alle lettere c) ed f).
Quanto alla prima, la previsione può dirsi anzi pleonastica, visto che già ora l’ultimo comma dell’art. 375 c.p.c., come sostituito dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modif. dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197, riserva al rito camerale anche “ogni altro caso”, diverso da quelli analiticamente indicati in precedenza: e, quindi, con ogni evidenza anche quello dell’improcedibilità. Potrebbe rivelarsi opportuna una formulazione che ribadisca l’ordinaria cameralità della pronuncia di improcedibilità dinanzi a ognuna delle sezioni, semplici o unite, della Corte, con la consueta salvezza dei casi in cui la questione rivesta particolare rilevanza.
La seconda si caratterizza per il mantenimento della previsione della pubblica udienza ai casi di particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta dal ricorso e, dall’altro, per l’ampliamento a quaranta giorni del termine dilatorio tra la fissazione dell’udienza e la data di questa. Se può convenirsi sull’opportunità dell’uniformazione del termine dilatorio tra avviso ed adunanza e pubblica udienza, deve però rilevarsi l’ingiustificabilità e l’incongruità della persistente diversificazione dei termini a ritroso per le sole attività ancora consentite alle parti nei relativi riti ed in quello dei regolamenti di giurisdizione e competenza.
Resta quindi intatto il problema, di obiettiva grande rilevanza pratica, dell’identificazione dei presupposti della scelta tra i due riti, quello camerale e quello in pubblica udienza: scelta che rimane rimessa alla discrezionalità pressoché totale del Presidente titolare della sezione (o, se del caso, del singolo Presidente del Collegio, su sua delega anche solo implicita), ma che effettivamente dovrebbe risultare sostanzialmente neutra e quindi irrilevante – o inidonea ad incidere negativamente – rispetto alle garanzie di piena estrinsecazione delle difese consentite dall’assoluta peculiarità del giudizio in Cassazione, dinanzi alla sempre maggiore uniformazione dei relativi snodi procedimentali.
3. L’ampliamento dei provvedimenti ricorribili per cassazione.
Con una serie di norme non inserite, come del resto è intuitivo che sia, nel comma 9 dell’art. 1, specificamente dedicato al giudizio di legittimità, si introducono innovazioni ad altri istituti in relazione alla ricorribilità per cassazione.
Sono, in primo luogo, modificati gli artt. 348-bis e 348-ter cpc [art. 1, co. 8, lett. e)]: ciò da cui dovrebbe derivare l’abolizione del ricorso c.d. per saltum contro la sentenza di primo grado l’appello avverso la quale sia dichiarato inammissibile per insussistenza di ragionevole probabilità di accoglimento, visto che tale evenienza dovrebbe condurre all’adozione di una sentenza, benché succintamente motivata, quindi ordinariamente ricorribile ex se.
È introdotta una nuova fattispecie di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo [art. 1, co. 10]: la quale dovrebbe sì – e beninteso – riguardare la sentenza di merito di cui quella della Corte di cassazione determini il passaggio in giudicato, ma anche quella che sia pronunciata dalla Corte di cassazione con decisione nel merito, a tutela dei diritti delle parti da questa coinvolti ed a riprova della delicatezza eccezionale della fattispecie, da ritenersi – se non residuale, almeno – riservata a casi di certa esclusione di valido alternativo sviluppo nell’eventuale giudizio di rinvio.
Benché non risultino affetti da una frequenza statistica considerevole, è introdotta espressamente la previsione della ricorribilità per cassazione [art. 1, co. 14, lett. g)] dei provvedimenti delle corti d’appello in materia di:
- esecutività di decisione straniera in relazione ad alcuni regolamenti unionali: il Reg. (CE) n. 2201/2003, il Reg. (CE) n. 4/2009, il Reg. (UE) 2016/1103, il Reg. (UE) 2016/1104, il Reg. (UE) n. 650/2012];
- riconoscimento ed esecuzione previsti da altri regolamenti: il Reg. (UE) n. 1215/2012, il Reg. (UE) 2015/848, il Reg. (UE) 2019/1111];
- analoghe ipotesi disciplinate da convenzioni internazionali [art. 1, co. 14, lett. h)];
Infine, con un impatto potenzialmente notevole per la frequenza prevedibile, si introduce la generalizzata ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti anche provvisori del neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie [art. 1, co. 24, lett. p)]: riguardo ai quali molto dipenderà dalla concreta ampiezza che sarà disegnata dai relativi decreti delegati e si giocherà in gran parte l’effettività della tutela dei relativi diritti.
4. Gli interventi sulla struttura del giudizio di legittimità.
Si tratta di una serie di interventi in astratto idonei ad incidere sia sulla domanda che sull’offerta di giustizia di legittimità, ma l’intensità del cui impatto varia sensibilmente già in sede di identificazione dei relativi presupposti nella legge di delegazione.
4.1. Nuovi contenuti del ricorso per cassazione.
La lett. a) del co. 9 dell’art. 1 della legge in esame prevede che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione: in sostanza, rispetto all’attuale tenore testuale dei nn. 2 e 3 dell’art. 366 c.p.c., si aggiunge la necessità di chiarezza e sinteticità.
L’innovazione corre il rischio di risultare formale ed ineffettiva, per il carattere indistinto e sfuggente delle nozioni introdotte, del resto significativamente oggetto di pluridecennale dibattito nella dottrina processualcivilistica e di elaborazione non sempre univoca nella stessa giurisprudenza di legittimità.
Non si è scelto di affidarsi né agli approdi del c.d. Protocollo del 2015 tra la Corte di cassazione ed il CNF in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria, né alle conclusioni della “Commissione Luiso” (https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LUISO_relazione_finale_24mag21.pdf), di sostanziale estensione al processo civile delle scelte già operate per il processo amministrativo (“le parti redigano il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato”).
Se è vero che, come si accennerà più oltre, l’art. 1, co. 17, lett. d), prevede l’introduzione negli atti del processo di campi necessari all’inserimento di informazioni nei registri del processo “nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”; e se è vero che, di conseguenza, mediante l’espressa previsione di tali “campi strutturati”, sarà possibile rendere obbligatorio l’inserimento delle informazioni già previste in sede di analisi ed attuazione degli schemi informatici degli atti di parte in cassazione; tuttavia, si tratterà di informazioni o dati indispensabili e non già di previsioni cogenti sulla formulazione strutturale nel suo assetto complessivo. Perciò, si potrà certamente stabilire cosa non deve mancare nel ricorso o al massimo imporre perfino una standardizzazione nella redazione dei campi obbligatori, ma non anche stabilire come esso debba essere strutturato. Probabilmente, anche in questo caso avvalendocisi dell’esperienza delle Corti sovranazionali, potrebbe però puntarsi a disciplinare analiticamente il contenuto minimo del ricorso, da imporsi a pena di inammissibilità, affinché esso sia in grado di offrire ogni dato utile per la decisione – non ultimo un “abstract” o sintesi di ciascun motivo, con indicazione delle norme violate e soprattutto con un numero massimo di caratteri per ognuno – ed in questo caso introducendo stringenti limiti quantitativi e qualitativi, riservando allo sviluppo meramente eventuale – una più diffusa “relazione” ad esso allegata o con essa facente corpo – ogni elucubrazione ulteriore.
In mancanza di scelte decise in tal senso deve temersi la riproposizione di accese diatribe interpretative sui caratteri della chiarezza e della sinteticità: dibattito al quale non offre sostanziali chiavi di lettura neppure la recente presa di posizione della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nella celebre sentenza Succi c/ Italia del 28 ottobre 2021, la quale ha, da un lato, ammesso la piena legittimità del più formalistico dei criteri di valutazione dei requisiti di contenuto-forma del ricorso, cioè del principio di autosufficienza, ma, dall’altro, precluso un’interpretazione troppo formalistica.
4.2. L’uniformazione del rito camerale.
Dal “triplo binario” del 2016 la Riforma del 2022 vira decisamente ad un rito a doppio binario nel giudizio di legittimità, attraverso la soppressione della Sesta Sezione civile, nata dalla felice esperienza dei primi anni del millennio della c.d. Struttura centralizzata istituita dalla Prima Presidenza per lo spoglio preliminare dei ricorsi destinati ad una più celere definizione.
L’intuizione fu particolarmente felice in relazione ai tempi e ai contesti, perché consentiva di individuare con relativa immediatezza, all’esito di uno spoglio mirato a questo fine e concentrato in capo a Consiglieri e Presidenti di sezione specificamente destinati e quindi specializzati, quella parte della pendenza della Corte suscettibile di essere definita con rapidità e con forme agili e snelle. La stessa Sesta Sezione, nell’originaria versione dell’ipotesi di soluzione articolata su di una ampia relazione e in quella successiva fondata sulla ben più snella proposta secca (o, secondo altro strumento di soft law, sommariamente motivata) del relatore, ha visto del resto una progressiva evoluzione della sua impostazione, fino a divenire, anche a causa del crescente incremento della pendenza, una duplicazione dell’attività camerale della sezione ordinaria e, quindi, ad implicare un dispendio di risorse ormai non più compensato dai vantaggi della maggiore “produttività” consentita dalla relativa semplicità delle questioni da affrontare.
Divenuta oramai prevalente la soluzione applicativa della coassegnazione dei consiglieri alla sezione ordinaria ed alla corrispondente sottosezione della Sesta Sezione, il rito camerale di questa si è rivelato anzi in grado di complicare e rendere più gravoso il processo proprio nei casi in cui quello avrebbe potuto essere più semplice, siccome riservato ai casi di inammissibilità e manifesta fondatezza o infondatezza (cui, come si è detto, si è aggiunta in via pretoria l’improcedibilità): e per di più senza che la previa relazione prima (che anzi non infrequentemente sollecitava ulteriori prese di posizione delle parti) o la previa proposta – più o meno ampia – poi abbiano causato sensibili riduzioni della pendenza attraverso più o meno spontanei abbandoni della parte per la quale si prospettava la soccombenza. A tanto si aggiunga che i passaggi tra le diverse cancellerie e spesso pure la prassi applicativa delle normative anche secondarie per la disamina da parte del singolo relatore, per quanto encomiabile sia stato l’impegno di tutti i funzionari ed i presidenti titolari e di molti dei consiglieri via via succedutisi per renderli fluidi e celeri, hanno comportato troppo spesso l’aggravio di tempi morti di diversi mesi anche soltanto prima che il ricorso potesse, non di rado all’esito di attività di spoglio singolarmente ed inutilmente replicate, essere preso in considerazione per la fissazione in adunanza camerale o pubblica udienza. Infine, c’è stata obiettiva discontinuità nella percezione, da parte dei suoi stessi interpreti, della Sesta Sezione civile come quella delle decisioni effettivamente semplici e celeri, visto che l’impostazione culturale prevalente è presto divenuta quella della legittima possibilità di rendervi provvedimenti anche assai complessi e su questioni che poi potevano obiettivamente qualificarsi di particolare rilevanza: al riguardo potendosi forse concludere che, nel suo complesso, la “scommessa” di un ripensamento profondo sul ruolo della motivazione nel giudizio di legittimità – avviata da oltre dieci anni – non è stata (ancora?) vinta.
In questo contesto, non tanto l’esigenza di aumentare il numero di provvedimenti in grado di essere resi, quanto quella di evitare appunto queste ingenti dispersioni di risorse, la soppressione della Sesta Sezione civile non può che dirsi un risultato apprezzabile e, con essa, l’eliminazione almeno di uno dei due riti camerali, singolarmente coesistenti a seguito della Riforma del 2016.
Diviene ora la regola che l’attività di spoglio prima devoluta alla Sesta Sezione civile sarà direttamente attratta, in ragione della ripartizione tabellare delle materie, a ciascuna delle sezioni, ordinarie o unite: che dovranno, unitariamente o comunque con criteri condivisi o almeno in parte comuni, attrezzarsi per procedervi con gli uffici spoglio sezionali, al fine di individuare comunque i ricorsi destinati a più celere definizione e di dedicarvi, con modalità che bene potranno essere precisate con una variazione tabellare infratriennale, le adunanze camerali della singola sezione (con la consueta eccezione della questione, anche in rito e cioè in punto di inammissibilità o improcedibilità, di particolare rilevanza, da rimettere alla pubblica udienza).
L’unicità del rito camerale si modella su quello attualmente previsto per la sezione ordinaria dall’art. 380-bis.1 c.p.c.. Rimane in vita il diverso modello per i regolamenti di giurisdizione e competenza, singolarmente esclusi dalla ventata razionalizzatrice, benché l’uniformazione del rito camerale bene potesse estendersi anche a questi ultimi, con la sola imposizione della immancabilità delle conclusioni del Pubblico Ministero.
I tratti salienti del procedimento camerale “ordinario” restano quindi non tanto la mancata partecipazione delle parti alla camera di consiglio (che era anzi comune ai due riti camerali ed aveva segnato nel 2016 la prima profonda trasformazione anche esteriore del giudizio di legittimità, con l’esclusione dal momento decisionale vero e proprio della diretta possibilità di interlocuzione delle parti con il giudice di legittimità), quanto soprattutto, rispetto all’altro rito camerale, l’assenza di una istituzionale proposta (o, in origine, relazione) del relatore, in qualche modo anticipatoria della soluzione prospettata al collegio.
A queste caratteristiche fanno quasi da contrappeso i due istituti, parzialmente innovativi, di cui subito appresso.
4.3. L’ordinanza camerale contestuale.
La lett. d) del co. 9 dell’art. 1 della legge in esame prevede, quale forma ordinaria di pronuncia dell’ordinanza in esito all’adunanza camerale (ormai unificata, secondo l’unitario rito camerale dell’attuale art. 380-bis.1 c.p.c. o del contiguo art. 380-ter c.p.c.), che, al termine della camera di consiglio, quell’ordinanza, con succinta motivazione, possa essere immediatamente depositata in cancelleria, rimanendo ferma la possibilità per il collegio di riservare la redazione e la pubblicazione della stessa entro sessanta giorni dalla deliberazione.
Si tratta di una innovazione di impatto operativo di non grande momento: se il provvedimento contestuale ha un senso in esito ad un’udienza pubblica alla quale le parti almeno avrebbero potuto presenziare per l’immediatezza del contatto del giudicante con quelle e della percezione quanto meno sommario dell’esito della decisione, molto minore significato lo ha in un procedimento camerale a cui le parti hanno esaurito ogni modalità di accesso nei dieci giorni precedenti la data della camera di consiglio e nel quale nulla impedisce al collegio di adottare già di per sé tempi di decisione, redazione e collazione del provvedimento assai stretti, se appunto non sostanzialmente contestuali alla camera di consiglio. Ancora, per la sentenza la modalità contestuale ha un senso in quanto essa fa corpo con un verbale di udienza, se con gli altri atti di causa ivi richiamati: mentre per l’ordinanza contestuale di legittimità manca istituzionalmente un verbale della camera di consiglio, le attività svolte nella quale restano riservate e documentate dalla sola sottoscrizione immediata del dispositivo. E neppure si vorrebbe che l’introduzione di una alternativa – tra il deposito contestuale e quello nei sessanta giorni successivi – possa indurre la necessità di un’esplicita indicazione della relativa opzione del collegio e comportare senza apprezzabile utilità lo sviluppo del relativo procedimento.
4.4. Il procedimento accelerato monocratico.
L’innovazione sembra l’esito dell’interazione di una sorta di ultrattività del rito camerale di Sesta Sezione (che sopravvivrebbe, subendo però una mutazione genetica soggettiva, all’estinzione dell’ambiente in cui era stato previsto) con l’influenza di ordinamenti stranieri.
Si prevede infatti che il “giudice” (con espressione davvero singolare per la Corte di cassazione, dove istituzionalmente è previsto solo un nutrito numero di Presidenti e Consiglieri), in presenza di ricorsi inammissibili o improcedibili o manifestamente infondati (quindi, resta esclusa l’ipotesi del ricorso manifestamente fondato), possa formulare una “proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell’inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata, da comunicare agli avvocati delle parti e tale che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.
Sembra di trovarsi dinanzi all’attuale proposta di Sesta Sezione civile, solo che in questo caso occorre:
-in primo luogo, individuare il “giudice” che, impegnando la Corte in una assolutamente inedita composizione monocratica di innovatività però preoccupante, formulerà la proposta: al riguardo, nulla vietando, a similitudine delle linee guida per il funzionamento della Sesta Sezione civile adottate nel 2016, una individuazione del titolare del potere nel Primo Presidente, con facoltà di delega ai singoli Presidenti titolari e di subdelega da questi ai singoli Consiglieri, se del caso estesa pure alla pronuncia, in mancanza di successivo riscontro della proposta di definizione, del finale provvedimento (verosimilmente nella forma del decreto, come previsto dagli artt. 390 e 391 c.p.c.); e comunque, a parziale temperamento della riscontrata monocraticità, con previsione di un visto o controfirma del delegante, a sostanziale condivisione della proposta;
-in secondo luogo, chiedersi la ragione per la quale tale “giudice” dovrebbe prescegliere di affrontare un non semplice lavoro di formulazione – che per di più nemmeno è prevista come sommaria, ma, ben più impegnativamente, come sintetica – delle ragioni a sostegno della proposta e di “discovery” della sua analisi infausta del ricorso, destinata oltretutto a sfociare in un mero decreto di estinzione con liquidazione di spese, quando la medesima articolazione motivazionale ben potrebbe giustificare un’agilissima motivazione (pure semplificata, secondo le disposizioni dei Primi Presidenti del 2011 e del 2016) di ordinanza camerale, adottata dal Collegio e con le garanzie del relativo procedimento pure in punto di contraddittorio.
Sul punto, sarà importante un’approfondita riflessione di tutti i soggetti coinvolti ed anche dell’Accademia e dell’Avvocatura, per le implicazioni potenzialmente dirompenti della monocraticizzazione del rito di legittimità che ne potrebbe derivare e le ricadute di sistema sulla ricostruzione della struttura e della funzione della Corte di cassazione.
4.5. Il rinvio pregiudiziale.
La vera, grande innovazione della Riforma del 2022, coerente con l’ambizione di restituire almeno in parte alla Corte di cassazione il ruolo nomofilattico finora sommerso e paralizzato dall’abnormità del contenzioso che si è lasciato che la investisse, potrà essere il rinvio pregiudiziale, disciplinato dalla lett. g) del co. 9 dell’art. 1 della legge in commento, certo influenzato dagli istituti più propriamente nazionali del rinvio pregiudiziale ad altro giudice o perfino, come nel caso dell’art. 420-bis c.p.c., alla stessa Corte di cassazione, ma in questo caso ispirato ai modelli di altri ordinamenti, quale quello francese, da tempo caratterizzato dalla saisine pour avis.
Quest’ultima è prevista dagli artt. 1031-1 a 1031-7 n.c.p.c. francese; artt. L. 441-1 a L. 441-4 e R. 441-1 codice dell’organizzazione giudiziaria francese; e, tra gli interpreti è corrente l’identificazione degli scopi dell’istituto in quelli di permettere l’unificazione più rapida dell’interpretazione della regola – o delle regole – di diritto di nuova introduzione e di prevenire il contenzioso, soprattutto delle impugnazioni, per l’immediata definizione della portata della legge da parte della giurisdizione di ultima istanza.
Appunto nell’ottica di offrire una tempestiva risposta nomofilattica e di deflazionare per il futuro il contenzioso potenziale, il procedimento consente l’immediato intervento della Corte di cassazione su questioni che siano: esclusivamente di diritto; nuove, non essendo state ancora da essa esaminate; di particolare importanza; con gravi difficoltà interpretative; tali da riproporsi in numerose controversie.
Si tratta di una serie di presupposti di una certa serietà e consistenza, la necessità della cui compresenza, sebbene rimessa istituzionalmente alla stessa Corte suprema adita, dovrebbe preservarla dal rischio di una indiscriminata attivazione del rimedio con conseguente esito inflattivo delle pendenze, anziché deflattivo.
Il procedimento è analiticamente disciplinato dalla norma di delegazione e vale la pena ricordarlo, attesa la sua novità: esso è iniziato con ordinanza dal “giudice di merito” (senza specificazione se ordinario o meno; ma l’ampiezza della formula dovrebbe consentire di adire la Corte di cassazione in tutti i casi in cui pure le decisioni dei giudici speciali sono controllabili in sede di legittimità, quand’anche solo per determinate questioni), che sospende il corso del giudizio davanti a sé; un primo, ma potenzialmente decisivo, vaglio di ammissibilità è rimesso al Primo Presidente, che può escluderla se ne ritiene insussistenti i presupposti (se del caso, o verosimilmente, avvalendosi dell’ufficio preparatorio per le sezioni unite civili, oppure delegando uno o più tra i presidenti di sezione, titolari o meno, a seconda della materia coinvolta); superato positivamente tale vaglio, che la norma non pare indicare suscettibile di successiva riconsiderazione da parte del collegio, lo stesso Primo Presidente assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente; la Corte di cassazione decide enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento ibrido, in quanto lo si prevede sì in pubblica udienza, ma con requisitoria scritta del pubblico ministero e facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa; il provvedimento con il quale la Corte di cassazione decide sulla questione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conserva tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che è instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti.
Spetterà al decreto delegato la più puntuale disciplina di dettaglio, con opzione tra le previsioni già formulate per l’analogo rinvio pregiudiziale dell’art. 420-bis c.p.c. e quelle in tema di principio di diritto nell’interesse della legge su iniziativa del Pubblico Ministero; ma sarà opportuna un’adeguata considerazione delle facoltà (od anche degli eventuali oneri) delle parti a similitudine di quanto previsto per i regolamenti di competenza o di giurisdizione di ufficio. Ma spetterà alla Tabella di organizzazione della Corte, in mancanza, individuare le modalità operative di concreta trattazione di quegli affari, a cominciare dallo spoglio e dalla scelta se centralizzarlo oppure no, per proseguire con la devoluzione alle diverse sezioni, non apparendo necessario, almeno in astratto e a priori, investire sempre e comunque le Sezioni Unite, visto che i requisiti per il rinvio pregiudiziale non paiono coincidere necessariamente con quelli della rimessione ad esse e che, comunque e al di fuori di peculiari e limitati casi, altrettanto discrezionale è la scelta del Primo Presidente sulla devoluzione di un qualunque ricorso a quella particolare formazione.
5. Gli interventi di impatto organizzativo generale.
Si tratta qui di interventi che non incidono in maniera immediata sulla disciplina del rito di legittimità, ma possono avere un impatto notevole o sull’assetto generale del processo civile oppure sull’organizzazione di attività generalmente ad esso serventi: di essi dovrà qui bastare un cenno ancora più sommario, riservata ad approfondimenti settoriali ogni ulteriore riflessione.
5.1. La sistematizzazione del processo telematico.
Nell’economia del PNRR la digitalizzazione del settore giustizia rappresenta un intervento di valenza strategica per il raggiungimento dell’obiettivo di abbattimento della durata media dei processi civili. Nella legge appena approvato in via definitiva dalla Camera, al comma 17 dell’art. 1, sono previste diverse disposizioni intese allo sviluppo del cd. processo civile telematico (p.c.t.); basti qui, riservati ad altri interventi ogni opportuno approfondimento, ricordarne:
- l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti di parte (anche se non anche dei provvedimenti giurisdizionali);
- la sinteticità e chiarezza degli atti informatici, che, come visto, può preludere ad una standardizzazione o “formularizzazione” idonee a stimolare la qualità, fruibilità e completezza delle informazioni somministrate alla controparte e, tramite il sistema informatico, al giudice anche di legittimità;
- il riordino delle disposizioni in materia di processo civile telematico, a cominciare da una adeguata regolamentazione delle cause di invalidità (ed auspicabilmente da un deciso loro ridimensionamento) nel cui ambito potranno trovare adeguata considerazione anche le proposte del “Gruppo di informatica giudiziaria della Corte di cassazione”, coordinato dal Direttore del CED (tra l’altro attente ad attenuare gli oneri di deposito a carico delle parti, sia in ordine alla copia del provvedimento impugnato sia in ordine ai documenti posti a fondamento del ricorso);
- la “stabilizzazione” delle udienze a distanza o a trattazione scritta, di cui pare opportuno auspicare una cautissima applicazione al giudizio di legittimità, per l’assoluta peculiarità di quest’ultimo ed il rischio di conseguente vanificazione della distinzione tra adunanza camerale – già svolta nel chiuso della camera di consiglio – ed udienza pubblica;
- la razionalizzazione delle modalità di versamento del contributo unificato;
- la tendenziale generalizzazione dell’obbligatorietà della notifica telematica a mezzo PEC.
5.2. L’Ufficio per il Processo in Cassazione e Procura Generale.
Nell’ambito degli obiettivi del PNRR è centrale l’Ufficio per il Processo: che la legge di delegazione in esame disciplina espressamente anche per la Cassazione e la Procura generale [art. 1, co. 18, rispettivamente lett. c) e lett. d)].
È impossibile soffermarsi analiticamente sul complesso di norme che si sta formando al riguardo e pertanto occorre rinviare all’ampia elaborazione anche dottrinale (per tutte e con specifico riferimento all’UPP per la Cassazione, si v. ad es. A. Di Florio, Il nuovo ufficio per il processo: proposte per la Corte di Cassazione, in www.questionegiustizia.it, 27 settembre 2021) ed al relativo corpus, ad iniziare dall’art. 16-octies del d.l. n. 179 del 2012, introdotto dall’art. 50, comma 1, del d.l. 4 giugno 2014, n. 90, conv. con modif. in l. 11 agosto 2014, n. 114; e segnalando la normazione secondaria già intervenuta, come la delibera al riguardo adottata dal C.S.M. il 13 ottobre 2021 o la Circolare del 3 novembre 2021 a firma del Capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero della giustizia.
La legge delega, con specifico riferimento all’UPP per la Cassazione, prevede che esso, sotto la direzione e il coordinamento del presidente o di uno o più magistrati da lui delegati, previa formazione degli addetti alla struttura, abbia compiti: di assistenza per l’analisi delle pendenze e dei flussi delle sopravvenienze; di supporto ai magistrati, comprendenti, tra l’altro, la compilazione della scheda del ricorso, corredata delle informazioni pertinenti quali la materia, la sintesi dei motivi e l’esistenza di precedenti specifici, lo svolgimento dei compiti necessari per l’organizzazione delle udienze e delle camere di consiglio, anche con l’individuazione di tematiche seriali, lo svolgimento di attività preparatorie relative ai provvedimenti giurisdizionali, quali ricerche di giurisprudenza, di legislazione, di dottrina e di documentazione al fine di contribuire alla complessiva gestione dei ricorsi e dei relativi provvedimenti giudiziali; di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici; di raccolta di materiale e documentazione anche per le attività necessarie per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.
La stessa legge prevede che l’analogo ufficio presso la Procura generale della Corte di cassazione sia denominato ufficio spoglio, analisi e documentazione, con compiti, sotto la supervisione e gli indirizzi degli avvocati generali e dei magistrati dell’ufficio, previa formazione degli addetti alla struttura: di assistenza per l’analisi preliminare dei procedimenti che pervengono per l’intervento, per la formulazione delle conclusioni e per il deposito delle memorie dinanzi alle sezioni unite e alle sezioni semplici della Corte; di supporto ai magistrati comprendenti, tra l’altro, l’attività di ricerca e analisi su precedenti, orientamenti e prassi degli uffici giudiziari di merito che formano oggetto dei ricorsi e di individuazione delle questioni che possono formare oggetto del procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge previsto dall’articolo 363 del codice di procedura civile; di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici; di raccolta di materiale e documentazione per la predisposizione dell’intervento del Procuratore generale in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
6. Brevi spunti conclusivi.
Meritano ampia condivisione le conclusioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, il quale, con la sua pregevole relazione tematica n. 111 del 25 novembre 2021, dopo un ampio ed approfondito esame dei diversi istituti e delle ricadute pratiche ed operative, ha rilevato che “il complesso delle previsioni normative analizzate prevede l’introduzione di rilevanti novità, di notevole impatto sia sul piano strettamente processuale, con riferimento al giudizio in cassazione, sia sul piano ordinamentale-organizzativo, quanto all’istituzione degli UPP per il raggiungimento degli obiettivi prioritari di smaltimento dell’arretrato e riduzione dei tempi dei procedimenti civili”.
I profili messi in luce come degni di attenzione “in sede di attuazione delle disposizioni in commento” sono anzi, in particolare, meritevoli di attenta considerazione anche durante il non breve iter di approvazione dei decreti delegati, al fine di somministrare al legislatore delegato, con ogni opportuno strumento istituzionale, dati e riflessioni provenienti dagli operatori pratici e forti della specifica esperienza del giudizio di legittimità.
Pertanto, sarà necessario sottolineare al legislatore delegato la delicatezza e l’importanza:
-di un’adeguata disciplina transitoria per la soppressione della Sezione Sesta civile;
-di una dedicata considerazione delle specifiche esigenze del giudizio in cassazione, quanto ai principi di delega in tema di processo civile telematico e di chiarezza e sinteticità degli atti;
-di seri interventi di effettiva e completa digitalizzazione dell’arretrato e la previsione di un’azione sinergica per assicurare lo spoglio delle sopravvenienze ed il recupero di conoscenza della composizione della pendenza (il cd. “magazzino”) per l’efficace formazione dei ruoli di udienza;
-di avvalersi appieno delle potenzialità offerte dalla generalizzata obbligatorietà del deposito telematico e, più in generale, dalla diffusione del p.c.t. in cassazione;
Dal canto loro, gli Organi apicali della Corte e della Procura generale e, ciascuno nell’ambito delle rispettive attribuzioni, i loro Organi ausiliari e consultivi sono chiamati, in questo momento, alla massima cooperazione possibile: per la predisposizione del piano organizzativo per l’istituzione dell’UPP in Cassazione in coerenza con gli obiettivi del PNRR; per la predisposizione delle variazioni tabellari conseguenti all’istituzione ed alla strutturazione dell’UPP in Cassazione; per il coordinamento fra il piano organizzativo per l’istituzione dell’UPP ed il programma di gestione per l’anno 2022, sia pure in un’ottica di graduale raggiungimento degli obiettivi di cui al PNRR; per l’urgente adeguamento dei sistemi informativi della Corte in esito all’approvazione delle riforme processuali.
È uno sforzo eccezionale, come eccezionale è il momento e forse irripetibile è l’evenienza di una tale disponibilità di risorse; la progettualità di ciascuno è coinvolta e doveroso è il contributo anche del singolo: sarebbe davvero disastroso mancare questa opportunità priva di precedenti.
*presidente di sezione della Corte di cassazione
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