ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le Sezioni unite su assegno divorzile e convivenza di fatto. La funzione esclusivamente compensativa e i persistenti margini di incertezza sulla determinazione dell'assegno di divorzio[1]
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Le ragioni della decisione - 2. L’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio - 3. L’abbandono della funzione composita e la funzione esclusivamente compensativa. Criticità - 4. Riflessioni conclusive e nuove prospettive dell’assegno divorzile.
1. Le ragioni della decisione
Con la decisione n. 32198 del 5 novembre 2021 la Corte di Cassazione a Sezioni unite ha composto il contrasto sollevato con ordinanza n. 28995 del 2020[2] in ordine alla questione del mantenimento o meno dell’assegno divorzile in caso di instaurazione di una convivenza di fatto del soggetto richiedente l’assegno, scegliendo una terza via rispetto alla secca alternativa estinzione-non estinzione dell’assegno. La terza via scelta dalla Cassazione a Sezioni unite è condensata nei seguenti principi di diritto: “L’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica e integrale del diritto all’assegno. Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche dell’attualità dei mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge in funzione esclusivamente compensativa. A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge. Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale né alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge ma deve essere quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio.” Fondamento e supporto di questa complessa e articolata formula che porta al risultato finale di ritenere non estinto il diritto alla corresponsione dell’assegno divorzile in caso di instaurazione di una convivenza di fatto sono:
1) l’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, che prevede l’estinzione automatica dell’assegno quando il soggetto richiedente passi a nuove nozze, data l’impossibilità di individuare la aedem ratio tra matrimonio e convivenza di fatto;
2) l’individuazione della natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile, che sarebbe completamente esautorata ove si ritenesse che l’instaurazione di una convivenza determinasse automaticamente l’estinzione dell’assegno divorzile. Alla questione della natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile dedicherò la maggior parte delle mie riflessioni.
Come emerge dal titolo di questa nota e come emergerà più chiaramente dalla lettura di queste pagine, questa decisione, anche se relativa ad una specifica problematica, concorre ad accrescere la perdurante incertezza sulla natura dell'assegno divorzile[3]. L'affermazione della natura esclusivamente compensativa, oltre a far emergere più punti di criticità e di incertezza, si discosta dall'orientamento più recente delle Sezioni unite che nel 2018 con la nota decisione n. 18287 aveva affermato la natura composita dell'assegno divorzile, assistenziale e in pari merito compensativa e retributiva. Il disagio dell'interprete è imputabile ad un quadro giurisprudenziale incerto che determina a cascata un sentimento di grande incertezza negli operatori professionali e in chi si trova a dover affrontare le conseguenze di una crisi familiare. Questo sentimento di incertezza risulta enfatizzato in questo caso da un diverso trattamento che viene riservato a convivenza e matrimonio. L'instaurazione di una nuova convivenza non determina l'estinzione automatica dell'assegno divorzile, mentre diversa sorte è assegnata dal legislatore a chi decide di convolare a nuove nozze. Le pagine che seguono sono dedicate all'analisi delle argomentazioni poste a sostegno dei principi di diritto prima enunciati.
2. L’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio
L’argomentazione principale addotta in motivazione per fondare il mantenimento dell’assegno divorzile anche in caso di instaurazione di una nuova convivenza di fatto è l’impossibilità di applicare analogicamente la disposizione sulla legge del divorzio che prevede l'estinzione automatica nel caso di nuove nozze, dato che “la situazione di convivenza non è pienamente assimilabile al matrimonio, né sotto il profilo della, almeno tendenziale, stabilità, né tanto meno sotto il profilo delle tutele che offre al convivente, nella fase fisiologica e soprattutto nella fase patologica del rapporto”[4]. La Corte arriva a questa inaspettata affermazione dopo aver decritto i passaggi dei vari orientamenti giurisprudenziali che nel tempo hanno attribuito rilevanza alla convivenza, affermando che “sono progressivamente aumentati, nel corso degli anni, i numeri delle separazioni e dei divorzi… e soprattutto è aumentato il numero delle convivenze di fatto”[5] rilevando “la progressiva laicizzazione della società e il venir meno di ogni avversione nei confronti delle convivenze more uxorio”[6]. In altro passaggio della motivazione emerge il passaggio da “un modello sociale unitario, che tendeva ad identificarsi nella famiglia indissolubilmente fondata sul matrimonio” ad “una realtà composita, in cui si ha una pluralità di formazioni sociali, la cui pari dignità si fonda sulla Costituzione e deve essere tutelata”. L’insieme di queste riflessioni avrebbe infatti dovuto coerentemente portare a sostenere la tesi della estinzione automatica dell’assegno divorzile, data l’innegabile equiparazione, quanto meno sotto il profilo che qui interessa, della convivenza al matrimonio[7]. Chi scrive ha da sempre sostenuto che la differenza fondamentale tra matrimonio e convivenza, che permane anche dopo la disciplina della legge n. 76 del 2016, sia fondata sulla differenza dei modelli, dato che il matrimonio e oggi, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli istituzionali, mentre la convivenza, al contrario, è modello, sì familiare, ma non a struttura istituzionale e ciò spiega perché, ad esempio, ai conviventi non sia stata riconosciuta la qualità di legittimari. Tuttavia, come ho anche scritto è innegabile che sotto il profilo che è interessato dalla decisione in commento, non c’è alcun dubbio che convivenza e matrimonio siano modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale e sono proprio questi obblighi che giustificherebbero l’estinzione dell’assegno divorzile, tanto nel caso di nuove nozze che nel caso di convivenza more uxorio[8]. È curioso come è la stessa Corte che condivide queste riflessioni affermando in modo esplicito che “l’instaurazione di una nuova convivenza stabile…comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il nuovo compagno o la nuova compagna, dai quali si ha diritto di pretendere, finchè permane la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quali adempimento di una obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto, anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale (come attualmente previsto dall’art. 1, comma 37 della legge n. 76 del 2016”[9]. Ma da queste affermazioni non si è tratta la necessità di prevedere per questo specifico profilo un uguale trattamento. Né appaiono convincenti le citate argomentazioni che fondano la distinzione sul differente trattamento della convivenza nella fase patologica del rapporto. Come ho già evidenziato[10], tali argomentazioni riguardano un’altra questione, quella della situazione successiva e comunque non hanno la forza di cancellare la matrice solidaristica della famiglia di fatto. Ritenere come ha fatto la Corte che solo il matrimonio determini l’estinzione automatica dell’assegno, stante l’impossibilità di applicazione analogica dell’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, comporta una scelta obbligata dell’ordinamento, se non si vuole evitare la prevedibile e abusiva corsa alla convivenza e alla altrettanto prevedibile fuga da nuovi matrimoni, al solo fine di mantenere l’assegno divorzile che oggi viene garantito solo al richiedente che abbia instaurato una nuova convivenza di fatto. L’unica scelta obbligata sembra essere allora quella di abrogare la disposizione normativa che oggi prevede l’estinzione automatica dell’assegno divorzile. Sembra infatti discriminatorio oltre che ingiusto garantire una funzione compensativa solo a chi abbia deciso di convivere e non anche a chi abbia deciso di sposarsi, dato che la funzione compensativa, anche se qui viene intesa in senso esclusivo, rappresenta uno dei pilastri su cui si fonda l’assegno divorzile, insieme alla funzione assistenziale. Né potrebbe ipotizzarsi che la funzione compensativa, qui intesa quale “compenso” per quanto prestato durante il rapporto matrimoniale, sia assicurata solo a chi, dopo un lungo matrimonio, decida di convivere e non a chi abbia deciso di convolare a nuove nozze, dato che la funzione compensativa, come espressamente affermato dalla Corte, è diretta a saldare i conti con il passato[11] e non è vincolata al presente, ovvero alle nuove scelte di vita intraprese da uno degli ex-conugi.
3. L’abbandono della funzione composita e la funzione esclusivamente compensativa. Criticità
Credo che tuttavia il punto più debole di questa decisione sia proprio quello di aver scorporato la funzione assistenziale da un assegno cui le stesse Sezioni unite nel 2018 avevano attribuito natura composita, assistenziale e in pari merito compensativa e retributiva[12]. L’affermazione della natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile cosa significa? Per cercare di capirlo occorre capire cosa si è inteso fino ad oggi per funzione assistenziale. La funzione assistenziale, in tutte le sue diverse declinazioni, che hanno scandito le diverse stagioni della natura dell’assegno divorzile[13] ha significato assicurare tutela al coniuge che, a seguito della crisi della famiglia si trova in una condizione di debolezza economica, e quindi in stato di inferiorità economica rispetto all’altro, in coerenza con la formula normativa della ‘mancanza dei mezzi adeguati’[14]. Questo dato è presente sia in chi ha creduto che la solidarietà postconiugale si spinga a garantire il pregresso tenore di vita, sia in chi ha ritenuto che l’assegno divorzile debba garantire il minimo sostentamento, equiparato all’autosufficienza economica. Non si vede infatti per quale ragione debba garantirsi l’assegno, sia pure parametrato ai meri alimenti legali, se non per dare appunto assistenza a chi si trovi in condizioni economiche svantaggiate. Se davvero la funzione assistenziale scomparisse, non sarebbe dovuta neanche la versione minimale dell’autosufficienza economica perché il soggetto richiedente non avrebbe titolo per averlo. Si tratta in entrambi casi di riconoscere la rilevanza alla solidarietà postconiugale[15]che nel primo caso trova una espressione più ampia, mentre nel secondo caso una espressione minimale. L’ulteriore passaggio della giurisprudenza e in particolare delle Sezioni unite del 2018, in ordine alla natura composita dell’assegno divorzile e alla rilevanza della natura compensativa non ha infatti significato l’abbandono della funzione assistenziale ma la sua integrazione con una funzione compensativa che ha consentito di dare rilevanza alla solidarietà postconiugale in concreto, perché valutata nella concretezza del rapporto matrimoniale pregresso, delle rinunce e dei sacrifici fatti, ma sempre sul presupposto di una funzione assistenziale, la cui mancanza determinerebbe l’inevitabile caduta della funzione compensativa[16]. Nessun assegno potrebbe infatti garantirsi a chi si trovi in uno stato di parità economica, anche se vi sono stati innegabili sacrifici e rinunce[17]. L’affermazione in ordine alla funzione esclusivamente compensativa, da intendersi come scorporo della funzione assistenziale significa invece assicurare l’assegno anche a prescindere da uno squilibrio economico. Il paradosso cui può portare questa soluzione è quello di garantire l’ultrattività dell’assegno anche a chi, più forte economicamente, abbia dedicato e fatto tanti sacrifici per la famiglia e abbia anche instaurato una nuova famiglia con un soggetto terzo, anche se nella forma della convivenza. Il risultato ultimo di questa impostazione è quello di attribuire all’assegno divorzile la funzione di mero “compenso” di quanto fatto nel corso del rapporto patrimoniale, quasi una sorta di risarcimento per la vita vissuta insieme. Questo risultato, sganciato dalla funzione assistenziale appare a chi scrive, oltre che pericoloso, foriero di ingiustizie, aggravate in questo caso dal confronto con chi abbia instaurato nuove nozze che invece si trova privato dell’assegno divorzile, senza alcuna indagine in ordine alla “compensazione” per quanto sacrificato o prestato durante il matrimonio. Per la verità, e questo è l’unico motivo di conforto, al di là del principio di diritto che afferma a chiare lettere la natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile, nella motivazione la funzione assistenziale cacciata dalla porta rientra dalla finestra. L’attento lettore noterà che la funzione assistenziale cacciata dalla porta principale, e motivata dal fatto che “il nuovo legame sotto il profilo assistenziale si sostituisce al precedente” rientra dalla finestra laddove si afferma che “la carenza in capo ad uno dei coniugi di mezzi adeguati” rappresenti il “prerequisito fattuale”. La considerazione di questo elemento consente di evitare il paradosso della applicazione di una funzione meramente compensativa sganciata da ogni debolezza economica ma attraverso l’equivoco concettuale di degradare lo squilibrio economico a mero presupposto di fatto, anziché ad elemento che giustifica e legittima la natura assistenziale. Questo conforto non elimina tuttavia la contraddittorietà dell’affermazione di una natura esclusivamente compensativa, che rinuncia ed esclude la natura assistenziale. Del pari contraddittoria appare l’affermazione in ordine al valore della solidarietà postconiugale in concreto che appare monca ed orfana della funzione assistenziale. La contraddittorietà si coglie poi rispetto alla decisione a Sezioni unite del 2018 e al principio della natura composita dell’assegno divorzile che qui, almeno formalmente, viene abbandonata.
4. Riflessioni conclusive e nuove prospettive dell’assegno divorzile
La verità è che questa decisione risulta essere il compromesso tra le nuove istanze volte a salvare il vissuto del rapporto matrimoniale e l’innegabile riflessione in ordine al fatto che gli obblighi di solidarietà che nascono dalla convivenza si sostituiscono a quelli del rapporto matrimoniale, chiedendo l’estinzione dei secondi. Questa innegabile e inconciliabile tensione tra non estinzione ed estinzione dell’assegno divorzile ha trovato in questa decisione espressione nella distinzione tra funzione assistenziale che si estingue e funzione compensativa che permane, come se l’assegno divorzile fosse distinguibile in un assegno del passato e un assegno del futuro. Tuttavia è proprio questa distinzione che non pare accettabile, in quanto l’assegno del passato è dovuto solo e soltanto considerando la situazione attuale di squilibrio economico. Altrimenti l’assegno si snatura e si tramuta in una somma indennitaria data per il rapporto matrimoniale, che anche eticamente appare davvero insostenibile, data l’impossibilità di patrimonializzare le scelte di un rapporto familiare. Il vissuto del rapporto matrimoniale assume invece solo rilevanza quando si tratta di riequilibrare una situazione di disparità economica ed esistenziale[18]. Senza contare che assegnare all'assegno divorzile una funzione esclusivamente compensativa conduce inevitabilmente a renderlo oggettivamente incerto, dato l'elevato margine di discrezionalità che connota tale funzione[19]. Nonostante questi rilievi critici, sono da valutare positivamente le riflessioni in ordine alla limitazione temporale dell’assegno e al possibile accordo degli ex coniugi. Si tratta tuttavia di valutazioni che assumono una portata unicamente de jure condendo e che comunque richiedono un accordo che spesso è una chimera nella crisi dei rapporti matrimoniali. L’insieme di queste riflessioni restituisce all’interprete quella metafora del cantiere ancora aperto[20] che fa emergere l’incerto terreno della natura dell’assegno divorzile. Il disagio è dato da una sensazione di incertezza che in questo caso risulta aggravato dalla previsione di possibili abusi, forieri di grandi ingiustizie. In questa confusione concettuale, anche al fine di non perdere l’occasione per salvare importanti passi in avanti della giurisprudenza, credo che la via maestra sia l’intervento del legislatore. Questo intervento potrebbe seguire due diverse ed opposte direttive. O prevedere che la convivenza, al pari delle nuove nozze, determini l’estinzione automatica dell’assegno[21], come peraltro previsto dal progetto di legge Morani, o all’opposto abrogare la disposizione normativa che oggi prevede l’estinzione automatica solo nel caso di nuove nozze. Tertium non datur. Una revisione della legge sul divorzio dovrebbe farsi carico di prevedere in ogni caso una durata dell’assegno, come previsto in altri ordinamenti e considerare altresì tra i fattori di quantificazione dell’assegno i regimi patrimoniali e quanto già ricevuto attraverso altri meccanismi. La previsione di una durata dell’assegno sarebbe particolarmente auspicabile soprattutto ove si scelga la seconda opzione, ovvero quella di escludere l’estinzione automatica dell’assegno, oggi prevista da questa decisione che si commenta solo per il caso di instaurazione di una nuova convivenza, decisione che purtroppo fa emergere all'orizzonte rischi reali di ultrattività dell'assegno ben più gravi di quelli del passato e di quelli che vengono imputati alla funzione assistenziale.
Una soluzione diversa appare non più sostenibile data l’esigenza di assicurare alle famiglie in crisi e agli operatori professionali una navigazione sicura per evitare tentennamenti e soluzioni differenziate che comportano in ultima istanza la violazione del principio di giustizia, faro che deve guidare tutte le decisioni che riguardano il diritto delle persone e delle relazioni familiari.
[1] Dedico anche questo scritto a mio Padre, il cui pensiero si staglia sempre più nitido nella mia mente ed è per me motivo di grande conforto per qualsiasi riflessione umana e giuridica.
[2]Decisione che avevo già annotato per questa rivista: M. Bianca, Assegno divorzile e nuova famiglia di fatto: la questione alle Sezioni Unite. Estinzione automatica o valorizzazione del criterio compensativo dei sacrifici e delle scelte operate in costanza del rapporto matrimoniale? La necessità di trovare una terza via
[3]Parte del titolo di questa nota prende a prestito l'espressione del titolo di un recente saggio di mio Padre: C.M. BIANCA, Sui persistenti margini di incertezza in tema di determinazione dell'assegno di divorzio, Presentazione al volume di E. Al MUREDEN – R. ROVATTI (a cura di), Gli assegni di mantenimento tra disciplina legale e intelligenza artificiale, Torino, 2020, XVII. Più di recente ho rilevato la perdurante incertezza sulla natura dell'assegno di divorzio nel mio La perdurante incertezza sulla natura dell’assegno divorzile, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, a cura di V. Cuffaro, Milano, 2021, 325.
[4]In questo senso si era espressa parte della dottrina, C. RIMINI, in Fam e dir. 2021, 270 e ss. Sul punto avevo già espresso i miei rilievi critici nella citata nota all’ordinanza di rinvio alle Sezioni Unite, pubblicata in questa rivista.
[5]Così testualmente in motivazione.
[6] Così testualmente in motivazione.
[7]Per una interpretazione estensiva della norma sul divorzio, v. I. MARIANI, Assegno di divorzio e convivenza di fatto: brevi note critiche alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili n. 32198/2021, in Questione giustizia 7 dicembre 2021.
[8]Per queste riflessioni si rinvia al mio citato scritto Assegno divorzile e nuova famiglia di fatto: la questione alle Sezioni Unite. Estinzione automatica o valorizzazione del criterio compensativo dei sacrifici e delle scelte operate in costanza del rapporto matrimoniale? La necessità di trovare una terza via.
[9] V. così testualmente il testo della motivazione.
[10] V. M. BIANCA, La perdurante incertezza dell’assegno divorzile, cit., 331.
[11] In questo senso appaiono significativi alcuni passaggi della motivazione che qui si riportano testualmente a proposito della quantificazione dell’assegno in funzione esclusivamente compensativa: “…Occorre procedere ad un calcolo non proiettato verso il futuro, ovvero correlato alla previsione di vita della persona, ma rivolto al passato, ovvero volto a stimare il contributo prestato in quell’arco di tempo chiuso, circoscritto alla durata della vita matrimoniale”
[12]Citata decisione dell’11 luglio 2018, n. 18287.
[13]Parla di quattro stagioni del divorzio E. QUADRI, La quarta stagione del divorzio: le prospettive di riforma, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, cit., 79 e ss.
[14] Così nel suo consueto stile cristallino C. M. BIANCA, Conseguenze personali e patrimoniali, in La riforma del divorzio, Atti del Convegno di Napoli, 22 maggio 1987, a cura di E. Quadri, Napoli, 1989, 49 e ss e ora pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica, T. 2, 743: “La natura assistenziale dell’assegno di divorzio si evidenzia ora nel dettato normativo che statuisce il diritto all’assegno da parte del coniuge che sia privo dei mezzi adeguati e che non possa procurarseli per ragioni oggettive. Questa previsione normativa pone dunque inequivocabilmente a presupposto del diritto all’assegno lo stato di bisogno del coniuge”.
[15]Il richiamo alla solidarietà postconiugale è inscindibile rispetto alla funzione assistenziale dell’assegno. V. C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1., 6° ed., Milano, 2017, 289: “la funzione assistenziale qualifica la natura dell’assegno e ne indica il fondamento nella solidarietà che permane tra coloro che sono stati uniti in matrimonio. Il matrimonio è una realtà che pur dopo il suo scioglimento rende doverosa l’assistenza economica tra coloro che di tale realtà sono stati parte. Questo dovere di assistenza non è il risultato di un’occasionale scelta legislativa ma risponde ad un’esigenza sociale di tutela del coniuge debole. Il dovere di aiutare economicamente l’ex-coniuge è precisamente un dovere giuridico fondato su quella solidarietà che alla stregua della coscienza sociale permane tra gli ex coniugi e che si qualifica come solidarietà postconiugale”.
[16]Sulla preminenza della funzione assistenziale anche a seguito della decisione a sezioni unite del 2018, v. C.M. BIANCA, Le Sezioni unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam e dir 2018, 956.
[17] V. C. M. BIANCA, Conseguenze personali e patrimoniali, cit., 57: “Rimane precluso l'ingresso alla tesi, fatta propria da qualche sentenza, secondo la quale i criteri di determinazione dell'assegno sarebbero anche autonome condizioni della sua attribuzione, con la conseguenza che la condanna alla corresponsione dell'assegno potrebbe prescindere dalla insufficienza del reddito dell'ex coniuge e basarsi esclusivamente sulle ragioni del divorzio, cioè sul comportamento tenuto dall'ex coniuge in violazione dei doveri matrimoniali, o con la conseguenza, ancora, che l'ex coniuge, il quale abbia una condizione economica equivalente a quella dell'altro, potrebbe pretendere da quest'ultimo l'assegno di divorzio esclusivamente quale compenso per il contributo dato alla vita familiare”. ID., Diritto civile 2. La famiglia. Le successioni, Milano, 201, nota 53, edizione del 1989, di poco successiva alla riforma del divorzio, il quale denunciando la debolezza dell'applicazione atomistica dei criteri nella natura composita, citava una decisione della Cassazione n. 4107 del 1984, in cui, proprio solo considerando il criterio compensativo, si era arrivati al paradosso di attribuire l'assegno di divorzio anche nel caso di sostanziale equivalenza delle condizioni economiche dei coniugi.
[18]Sulla funzione riequilibratrice, v. M. SESTA, Profili attuali della solidarietà post coniugale, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, cit., 123 e ss.
[19]Sono da condividere al riguardo i rilievi critici di M. SESTA, op. ult cit., 133 s.
[20]Ho utilizzato questa espressione richiamando la metafora che Michele Giorgianni ha utilizzato per la causa del contratto nel mio già citato scritto La perdurante incertezza sulla natura dell’assegno divorzile.
[21] Per questa soluzione v. A. MORACE PINELLI, Diritto all’assegno divorzile e convivenza more uxorio, in Nuova giur civ. comm. 2021, 1158 e ss.
Il tardivo rilascio della fideiussione nella vendita di immobili da costruire
di Emanuela Morotti
La disciplina della vendita di immobili da costruire prevede l’obbligo del venditore-costruttore di rilasciare una fideiussione bancaria o assicurativa al promissario acquirente, che potrà così recuperare agilmente le somme anticipatamente versate a titolo di caparra in caso di crisi o insolvenza dell’impresa costruttrice. La normativa indica che tale garanzia sia consegnata al momento della stipula del contratto preliminare di vendita, mentre non menziona il caso di suo tardivo rilascio, ragion per cui sono nate sul punto due diverse interpretazioni, una favorevole alla nullità, l’altra invece contraria, considerando abusiva la sua domanda in giudizio. L’obiettivo di questo contributo è quello di proporre una terza via, mostrando che la chiave di volta per interpretare correttamente la vicenda in esame risiede nell’assumere una visione complessiva del comportamento concretamente tenuto dalle parti nello svolgimento del rapporto.
Sommario: 1. La fideiussione introdotta dal d. lgs. 20 giugno 2005, n. 222 e il problema del suo tardivo rilascio - 2. Argomenti a sostegno dell'ipotesi della nullità del preliminare di vendita - 3. L'opposta tesi giurisprudenziale che configura l'abuso del prossimario acquirente - 4. Ragionevolezza di una terza via ricostruttiva.
1. La fideiussione introdotta dal d. lgs. 20 giugno 2005, n. 222 e il problema del suo tardivo rilascio
La particolare posizione di rischio e di incertezza in cui versa il compratore di immobili in costruzione[1], ossia non ultimati oppure ancora “sulla carta”[2], ha portato il nostro Legislatore a introdurne un’apposita disciplina con il d.lgs. 122/2005[3]. Nello specifico, esso prevede che la tutela del compratore sia affidata al rispetto di due diversi obblighi a carico del venditore-costruttore[4]: il primo riguarda il rilascio di una fideiussione che garantisca al compratore la restituzione delle somme versate a titolo di caparra prima della consegna dell’immobile, qualora il costruttore dovesse nel frattempo incorrere in uno stato di crisi[5]; il secondo obbligo riguarda invece il rilascio di una polizza assicurativa a copertura dei danni derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere[6]. Considerato che in questa seconda ipotesi la posizione del compratore è meno esposta, visto che non solo l’immobile è stato ultimato, ma il promissario acquirente ne è anche divenuto proprietario[7], la nostra attenzione si concentrerà principalmente sulla prima forma di tutela, che presenta maggiori profili di problematicità.
Innanzitutto si può osservare che la garanzia fideiussoria riguarda tutto l’arco di tempo intercorrente tra il preliminare di vendita e l’eventuale crisi dell’imprenditore[8], periodo nel quale la posizione del promissario acquirente si rivela particolarmente precaria. Infatti, non essendo ancora stato sottoscritto il contratto definitivo, l’effetto traslativo non si è ancora prodotto[9] e ciò significa che, se si aprisse un’eventuale procedura concorsuale, l’organo che ne è competente potrebbe decidere di sciogliersi dall’obbligo di concludere il contratto definitivo. In una simile circostanza, le conseguenze per il promissario acquirente sono di tutta evidenza, perché non solo vedrebbe per sempre sfumare ogni possibilità di diventare proprietario dell’immobile[10], ma soprattutto non gli resterebbe altra strada che presentare domanda di ammissione al passivo fallimentare, trovandosi di fatto a concorrere alla ripartizione dell’attivo quale semplice creditore chirografario[11] e a sperare di recuperare “in moneta fallimentare” le somme anticipatamente versate a titolo di caparra.
Per porre rimedio ad un simile scenario[12], il Legislatore ha previsto che all’atto della stipula del preliminare sia consegnata al promissario acquirente una fideiussione “di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso”, in modo tale che, se all’apertura del fallimento non abbia ancora conseguito la proprietà dell’immobile, egli possa almeno recuperare interamente quanto già versato al costruttore[13].
La disciplina fin qui descritta è stata ripresa dal d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, meglio noto come Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, che con gli artt. 385, 386, 387 e 388 ha introdotto maggiori tutele per il promissario acquirente. In particolare, in base alla nuova impostazione, la garanzia fideiussoria può essere rilasciata solo da “una banca o da un’impresa esercente le assicurazioni”[14], escludendo quindi dal novero dei soggetti abilitati a rilasciarla “gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’articolo 107 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385”[15], evidentemente ritenuti dal Legislatore soggetti meno affidabili rispetto alle banche e alle assicurazioni.
Nonostante le modifiche apportate abbiano meglio precisato alcuni aspetti della precedente disciplina, come ad esempio la descrizione delle ipotesi che consentono l’escussione della fideiussione[16], tuttavia è rimasto in ombra un particolare profilo che non è mai stato espressamente affrontato dalla normativa, riguardante il caso in cui la fideiussione venga rilasciata al promissario acquirente in un momento successivo a quello della stipula dell’atto preliminare.
2. Argomenti a sostegno dell'ipotesi della nullità del preliminare di vendita
A fronte di questa lacuna di disciplina, si possono prospettare due opposte soluzioni. La prima adotta un’interpretazione letterale della normativa in esame, che fissa il momento della consegna della fideiussione “all’atto della stipula […] ovvero in un momento precedente”[17], da cui si è dedotto che anche il caso del suo rilascio tardivo[18], pur non essendo esplicitamente menzionato, ricadesse nella sanzione di nullità[19]. Questa impostazione è stata appoggiata anche da un filone giurisprudenziale secondo il quale la norma in questione sia da interpretare nel senso che la consegna della fideiussione debba avvenire, al più tardi, all’atto della stipula del contratto preliminare e che la mancata consegna non sia “sanabile” da un successivo contegno di alcuna delle parti[20]. Ciò significa che né la consegna tardiva della fideiussione da parte del venditore-costruttore, né la sua accettazione da parte del promissario acquirente possano sanare il vizio di nullità che si sia irrimediabilmente già prodotto.
A ben guardare, questa interpretazione si allinea perfettamente con la ratio che ha spinto il Legislatore ad intervenire nel settore in esame, dove si è predisposto un quadro normativo che fornisce la più ampia tutela possibile al promissario-acquirente, considerato a priori come un soggetto meritevole di protezione fin dall’inizio dell’instaurazione del rapporto.
Prova ne è la scelta – del tutto singolare – di prevedere la più grave sanzione della nullità per quello che, a tutti gli effetti, costituisce in realtà un inadempimento del venditore: analizzando con più attenzione la norma, si può infatti osservare che l’inosservanza dell’obbligo di consegnare la fideiussione all’atto della stipula o in un momento precedente non produce – così come ci aspetteremmo in base alla disciplina generale del contratto – l’inadempimento, bensì la nullità dell’atto preliminare[21]. Una simile impostazione si rivela funzionale ad avvantaggiare il promissario acquirente, consentendogli di ottenere la restituzione di quanto precedentemente corrisposto al venditore senza dover sottostare ai più gravosi oneri probatori richiesti per domandare la risoluzione per inadempimento.
A ciò si aggiunge un’ulteriore considerazione, dato che la nullità di cui si discute configura un regime speciale detto nullità di protezione[22], che fornisce una più intensa salvaguardia degli interessi del contraente debole[23], dal momento che si caratterizza per la legittimazione relativa e la mancata parziarietà necessaria. La prima consistente nella possibilità per il solo promissario acquirente di sollevare la nullità, proprio per permettere unicamente al contraente debole di valutare l’opportunità dell’affare, consentendogli di scegliere se proseguire nel rapporto anche in mancanza della fideiussione, oppure se caducare il negozio[24]. La seconda, invece, riguarda il fatto che la nullità che consegue al mancato rilascio della fideiussione non colpisce soltanto la singola clausola nulla, ma invalida l’intero negozio, caducandolo nella sua totalità: si tratta quindi di un segnale molto chiaro dell’intenzione del Legislatore, che ha voluto salvaguardare con la maggiore tutela possibile la posizione del promissario acquirente[25].
3. L'opposta tesi giurisprudenziale che configura l'abuso del prossimario acquirente
In opposizione alla tesi appena considerata si colloca una recente sentenza della Cassazione[26], in base alla quale la proposizione della domanda di nullità del contratto preliminare per mancanza della fideiussione configura un abuso del diritto e non può quindi essere accolta al ricorrere cumulativo di due condizioni: (1) se tale garanzia sia stata comunque rilasciata, seppur in data successiva alla stipula del preliminare e (2) nelle more della consegna non si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore ovvero non risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente.
Tale pronuncia, a ben guardare, non nega la perdurante nullità del contratto preliminare, dato che riconosce espressamente che il diritto del promissario acquirente di proporre tale domanda in giudizio non possa trovare un ostacolo nella condotta del venditore – per di più– successiva al verificarsi della causa di nullità. A fronte quindi dell’impossibilità di configurare una sanatoria del negozio nullo a seguito del successivo rilascio della fideiussione, la questione viene spostata su un altro piano, riguardante non più quello della nullità e della sua legittima sollevazione in giudizio, ma quello della meritevolezza dell’interesse ad agire in tal senso.
Secondo questa impostazione, il rilascio della fideiussione, ancorché tardivo, riuscirebbe comunque a soddisfare l’interesse avuto di mira dalla norma, che è vòlta a proteggere il promissario-acquirente attraverso la predisposizione di una garanzia a suo favore che lo sollevi dal rischio di perdere definitivamente le somme anticipate al venditore-costruttore, nel caso in cui quest’ultimo successivamente fallisca[27]. Per questa ragione, una volta ottenuta la fideiussione, non sarebbe più meritevole di protezione l’interesse del promissario acquirente a chiedere la declaratoria di nullità, la cui domanda in giudizio configurerebbe appunto un’ipotesi di abuso del diritto.
Come noto, quest’ultima fattispecie è stata ricavata dai principi di buona fede oggettiva e di correttezza e dal più generale principio di solidarietà sociale che trova conferma anche a livello costituzionale[28]. In particolare, la clausola generale di buona fede svolge un ruolo integrativo del rapporto[29], ampliandone la portata attraverso una serie di doveri comportamentali di contenuto positivo e negativo[30]. La sua estensione riguarda sia l’ambito dell’obbligazione (art. 1175 c.c.), sia la disciplina del contratto, andando a coprire la fase delle trattative precontrattuali (art. 1337 c.c.), della pendenza della condizione (art. 1358 c.c.) e dell’esecuzione (art. 1375 c.c.), e fungendo altresì da criterio interpretativo del contratto (art. 1366 c.c.). La buona fede, inoltre, si impone come regola di condotta valida per entrambe le parti, e si specifica in particolari doveri di comportamento, riconducibili a obblighi di lealtà[31] e di salvaguardia, diretti a preservare l’utilità della controparte nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio[32]. Alla luce di queste considerazioni, si può individuare un comportamento abusivo ogni qual volta il titolare di un diritto, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale per conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti[33], trattandosi ora di indagare se tali caratteristiche ricorrono anche nel caso in esame.
4. Ragionevolezza di una terza via ricostruttiva
A ben guardare, non convince pienamente l’ipotesi di qualificare come abusivo il comportamento del promissario acquirente che domandi la dichiarazione di nullità del preliminare in conseguenza del tardivo rilascio della fideiussione, dato che tale circostanza si presta a delle riflessioni di segno opposto.
Non si dubita che in molti casi debba prevalere l’interesse del venditore-costruttore[34] al mantenimento in vita del rapporto, risultando di fatto eccessiva, in considerazione delle concrete circostanze, la nullità del preliminare dopo che sia stato adempiuto, seppur in maniera tardiva, l’obbligo di rilasciare la fideiussione. Tuttavia, è bene osservare che persistono situazioni nelle quali riemerge l’interesse del promissario acquirente ad essere tutelato e, conseguentemente, non si possa definire abusivo l’esercizio del suo diritto di chiedere la declaratoria di nullità.
Dovrebbe infatti considerarsi legittima la proposizione di tale domanda qualora il costruttore-venditore abbia colpevolmente ritardato la consegna della fideiussione, magari sperando nella dimenticanza o, addirittura, nell’ignoranza[35] del compratore in merito al suo diritto di ottenere la garanzia. Similmente non merita di essere protetto l’interesse del costruttore ogni qual volta gli sia stata espressamente domandata la fideiussione, ma ne abbia appositamente ritardato la consegna[36].
In questi casi il costruttore potrebbe chiaramente avvantaggiarsi di tutti i mesi, e forse anche degli anni, che intercorrono prima dell’effettivo rilascio della garanzia: non bisogna dimenticare, infatti, che il rilascio di una fideiussione bancaria o assicurativa ha un costo non indifferente per il costruttore,[37] che potrebbe quindi aver interesse a ritardarne la consegna, ad esempio per ridurre il tempo di copertura della fideiussione e i relativi costi verso l’istituto che la rilascia, oppure semplicemente perché considera la fideiussione come un inutile esborso e spera di ultimare la costruzione dell’immobile in tempi brevi.
Nelle ipotesi sopra viste il comportamento del venditore-costruttore non solo viola l’obbligo di consegnare la fideiussione al momento della stipula del preliminare, ma soprattutto si pone in contrasto con il dovere di buona fede e di correttezza che dovrebbe informare la propria condotta. La teoria dell’abuso del diritto serve infatti a tutelare il contraente fedele da possibili comportamenti elusivi della controparte, al fine di riequilibrare le loro reciproche posizioni: ne deriva quindi che chi per primo abusa dell’altrui buona fede, non può poi invocare tale principio solo quando si rivolge a proprio vantaggio. Di conseguenza, il venditore–costruttore che abbia colposamente o dolosamente ritardato la consegna della fideiussione non merita di essere tutelato, ma dovrà accettare le conseguenze di una situazione che, con il proprio comportamento, ha contribuito a creare.
D’altra parte, come abbiamo già visto, la richiesta del promissario acquirente di dichiarare nullo il contratto non può essere considerata diretta a “aggirare surrettiziamente gli strumenti di reazione che l’ordinamento specificamente appronta avverso le condotte di inadempimento della controparte”[38], dato che è proprio la disciplina della vendita di immobili da costruire a consentire di invocare la più forte sanzione della nullità a fronte dell’inadempimento della controparte[39].
Su questa linea, non sembra coerente nemmeno argomentare che la consegna tardiva della fideiussione valga comunque ad assicurare l’interesse che la legge voleva proteggere. Si rifletta a tal proposito sul fatto che il promissario acquirente che riceve tardivamente la fideiussione non consegue lo stesso risultato che avrebbe ottenuto se questa gli fosse stata consegnata al momento della stipulazione del preliminare: egli è infatti rimasto privo di tutela per tutto il periodo di tempo intercorrente tra la stipula del preliminare e la consegna tardiva, a rigore dovendosi attribuire ad una circostanza meramente fortunata quella di non aver subìto le conseguenze – per lui unicamente pregiudizievoli – di un’eventuale insolvenza e crisi del costruttore medio tempore [40].
Da ultimo, si ponga mente al fatto che il d.lgs. 14/2019 ha introdotto all’art. 388 una modifica all’art. 6 del precedente decreto d. lgs. 122/2005[41], disponendo che il preliminare avente ad oggetto immobili da costruire sia redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata[42]. Ciò comporta, secondo le indicazioni del Consiglio Nazionale del Notariato, che l’atto preliminare debba essere stipulato con l’intervento del notaio[43], al quale è altresì imposto di verificare ed attestare la correttezza della fideiussione, ribadendo inoltre che “il notaio non stipulerà l’atto in assenza di fidejussione”[44]. Tale innovazione è da salutare con favore, dato che l’intervento necessario del notaio avrà anche la funzione di vigilare sul corretto adempimento dell’obbligo di prestare la garanzia da parte del venditore-costruttore, impedendo di procedere alla stipula del preliminare senza di essa. Se quindi, con l’entrata in vigore della nuova disciplina, saranno sempre meno i casi di rilascio tardivo della fideiussione, questi, però, saranno ancora più gravi, perché presupporranno – oltre alla colpa o malafede del venditore-costruttore – anche la violazione da parte del notaio del divieto di ricevere l’atto[45].
Alla luce di queste considerazioni, si può quindi ritenere corretto adottare una via intermedia tra le due soluzioni sopra descritte, dal momento che non è possibile individuare un principio valido in tutti i casi, che impedisca tout court al promissario acquirente di domandare la nullità, una volta che gli sia stata consegnata la fideiussione. Come abbiamo visto, il suo tardivo rilascio non basta da solo a qualificare come abusiva la domanda di nullità, ma è da interpretare in base ad una visione più complessiva del rapporto, in cui assume rilievo il comportamento precedentemente tenuto dal venditore-costruttore. In quest’ottica, qualora emergano forti indici atti ad incrinare irrimediabilmente la fiducia tra le parti, dovrà senza dubbio considerarsi legittimo l’interesse del promissario compratore ad esercitare, in base alla legge, il suo diritto di chiedere la declaratoria di nullità.
[1] In realtà la norma prevede un’accezione molto ampia di acquirente di immobile da costruire, comprendendovi anche, all’art. 1, lett. a), d.lgs. 122/2005: “la persona fisica che sia promissaria acquirente o che acquisti un immobile da costruire, ovvero che abbia stipulato ogni altro contratto, compreso quello di leasing, che abbia o possa avere per effetto l'acquisto o comunque il trasferimento non immediato, a sé o ad un proprio parente in primo grado, della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire, ovvero colui il quale, ancorché non socio di una cooperativa edilizia, abbia assunto obbligazioni con la cooperativa medesima per ottenere l'assegnazione in proprietà o l'acquisto della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire per iniziativa della stessa”.
[2] L’espressione è di E. Sacchettini, Una disciplina a prova di sorprese per garantire le vendite su carta, in Guida al dir. Sole 24 ore, 2005, XXX, 31.
[3] Il decreto in esame è stato ampiamente trattato dalla dottrina nel periodo immediatamente successivo alla sua entrata in vigore. Ex multis, si vedano i contributi di F. Alcaro, Il sistema delle garanzie nella nuova disciplina a tutela degli acquirenti di immobili da costruire (d.leg. n. 122/2005), in Obbligazioni e contratti, 2006, 487; R. Corona, La tutela dei diritti patrimoniali dell’acquirente di immobili da costruire: prime osservazioni (commento a d.leg. 20 giugno 2005 n. 122), in Corriere giur., 2005, 1643; G. De Nova, C. Leo, M. Locati, A. Roda, L'acquisto di immobili da costruire (Decreto Legislativo 20 giugno 2005, n. 122), Giuffrè, Milano, 2005, 260; C. Leo, Le nuove norme a tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Contratti, 2005, 745.
[4] I profili di tutela del compratore - promissario acquirente sono stati approfonditi da A. Luminoso, L’acquisto di immobili da costruire e i presupposti delle nuove tutele legali, in Riv. giur. sarda, 2006, 191; D. Manente, La legge delega sulla tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire (l. 2 agosto 2004 n. 210), in Studium iuris, 2004, 1466; F. Silla, Delega al governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire (commento alla l. 2 agosto 2004 n. 210), in Guida al dir. Sole 24 ore, 2004, XXXV, 14; E. Sollini, Tutelate le persone fisiche che comprano gli immobili in costruzione, in Impresa, 2005, 1789.
[5] L’art. 2, comma 1, del decreto in esame recita “All’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall'acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all'acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall'articolo 1938 del codice civile, di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall'acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento. Restano comunque esclusi le somme per le quali è pattuito che debbano essere erogate da un soggetto mutuante, nonché i contributi pubblici già assistiti da autonoma garanzia”.
[6] Precisamente, l’art. 4 del d.lgs. 122/2005 si riferisce a “una polizza assicurativa indennitaria decennale a copertura dei danni derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere a beneficio dell'acquirente e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all'immobile, compresi i danni ai terzi, cui sia tenuto ai sensi dell'articolo 1669 del codice civile, derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi successivamente alla stipula del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione”. Per un approfondimento riguardo a questo secondo tipo di tutela si fa rinvio agli studi di B. Sieff, Tutela degli acquirenti di immobili da realizzare, in Diritto e formazione, 2004, 1463; G. Vettori, La tutela dell’acquirente di immobili da costruire: soggetti, oggetto, atti, in Obbligazioni e contratti, 2006, 105; I. Ambrosi, F. Basile, Tutela degli acquirenti di immobili da costruire a norma del d. leg. 20 giugno 2005 n. 122, in Famiglia, persone e successioni, 2006, 88; R. Triola, Vendita di immobili da costruire e tutela dell’acquirente, dopo il d. leg. 20 giugno 2005 n. 122, Giuffrè, Milano, 2005, 11 ss.
[7]Precisa infatti F. Casarano, La tutela degli acquirenti di immobili in costruzione, in Immobili e proprietà, 2005, VII, p. 1 ss. Che “La polizza dovrà pertanto essere consegnata dal costruttore all’atto del trasferimento della proprietà, anche se destinata ad operare a partire dalla data di ultimazione dei lavori. La garanzia inoltre è dovuta a prescindere da una situazione di crisi in cui incorra il costruttore, essendo destinata ad operare all’emergere di vizi e difformità dell’edificio realizzato ed il momento in cui tale polizza deve essere materialmente consegnata dal costruttore all’acquirente è quello in cui avviene il trasferimento della proprietà. Gli effetti della polizza decorreranno invece dal momento dell’ultimazione dei lavori, momento che può essere anche successivo a quello del trasferimento della proprietà e quindi della consegna della polizza”.
[8] Sui rapporti tra compratore e imprenditore fallito si vedano i saggi di D. Cerini, La protezione degli acquirenti di beni immobili da costruire nel decreto legislativo n. 122/2005: prime riflessioni su finalità e strategie, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 2005, 1247 ss.; G. De Marzo, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti degli immobili da costruire, in Urbanistica e appalti, 2005, 1127 ss.; A. De Renzis, G. Scaliti., La nuova disciplina degli acquisti di immobili da costruire (D.Lg. 20 giugno 2005, n. 122), Giappichelli, Torino, 2006, 255; G. Rizzi, La nuova disciplina di tutela dell'acquirente di immobile da costruire, in Notariato, 2005, 433.
[9] Come spiega bene F. Toschi Vespasiani, Il trasferimento non immediato di immobili da costruire ex art. 6 d. leg. 20 giugno 2005 n. 122, in Contratti, 2006, 808.
[10] Si veda quanto sintetizzato da N. Nisivoccia, L'acquirente dell'immobile ad uso abitativo di fronte al fallimento del venditore, in Giur. Comm., 2008, IV, 826 ss.: “Ne risultava che la sorte di chi aveva acquistato beni immobili ad uso abitativo dal fallito (o meglio, da colui il quale era poi fallito) era segnata dalle norme generali, in virtù delle quali dunque il contratto: a) poteva essere revocato come atto a prestazioni sproporzionate o come atto normale (ai sensi dell'art. 67, primo comma, n. 1 e secondo comma), secondo i casi e ricorrendone i presupposti; b) se non ancora compiutamente eseguito, proseguiva o non proseguiva, secondo la scelta del curatore. Tutto qui; e le medesime norme generali erano applicate anche ai contratti preliminari”. Sulle dinamiche relative all’apertura di una procedura concorsuale si rinvia ai contributi di F. D’Ambrosio, Tutela degli acquirenti di immobili da costruire e fallimento, in Nuova giur. civ., 2006, II, 171; G. D’Amico, Vendita dell'immobile da costruire e fallimento, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2007, 213; F. Di Marzio, Crisi d'impresa e contratto. Note sulla tutela dell'acquirente dell'immobile da costruire, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2006, 31; C. Fiengo, Sulla tutela degli acquirenti d’immobili da costruire in caso di insolvenza del costruttore, in Riv. Dir. impresa, 2005, 263; G. Finocchiaro, Le forma di tutela degli acquirenti degli immobili da costruire nelle esecuzioni individuale e concorsuale, in Rass. locazione e condominio, 2006, 123; G. Guzzardi, Fallimento del venditore e acquisto di immobile da costruire, in Nuova Giur. Civ., 2019, VI, 1204; G. Visconti, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, in Immobili e proprietà, 2019, VI, 362.
[11] Si veda sul punto F. Aprile, Acquisti di immobili da costruire: nuova tutela, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2005, 1123; F. Pascucci, La delega al Governo per la tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Riv. Dir. Impresa, 2004, 613; A. Zaccaria, La nuova disciplina sulla tutela degli acquirenti d'immobili da costruire: lineamenti e principali problematiche, in Studium iuris, 2006, VII-VIII, 935.
[12] Si tratta, a ben guardare, di un problema di collocazione del rischio di insolvenza, come sottolinea anche M. Imbrenda, Individuazione dell’acquirente e distribuzione del rischio nel decreto legislativo n. 122 del 2005, in Rass. dir. civ., 2006, 690.
[13] Vedi C. Caruso, La fideiussione a garanzia del pagamento del prezzo di acquisto dell’immobile, in Rass. locazione e condominio, 2006, 135.
[14] Art. 385, comma 1, lett. a), d. lgs. 14/2019.
[15] Art. 3, comma 1, d. lgs. 122/2005.
[16] A riguardo, si riprendono le parole di A. Semprini, Il deposito prezzo nell’acquisto di immobili da costruire, in Contratto e Impr., 2019, II, 680: “si richiede che tali fideiussioni presentino alcune caratteristiche «fisse», tra le quali la copertura di tutte le somme corrisposte dal compratore al venditore fino al trasferimento della proprietà, la previsione di un importo massimo fissato dai contraenti (ove redatte ai sensi dell'art. 1938 c.c.) e l'espressa rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, di cui all'art. 1944, secondo comma, c.c.. Tale configurazione, dettata in via inderogabile dal legislatore, pone invero qualche dubbio sulla natura giuridica della fideiussione, potendo la stessa situarsi in un'area parzialmente differente da quelle occupate dalla “fideiussione a prima richiesta” e dal “contratto autonomo di garanzia”.
[17] Così letteralmente art. 2, comma 1, d.lgs. 122/2005.
[18] Vd. A. Luminoso, Sulla predeterminazione legale del contenuto dei contratti di acquisto di immobili da costruire, in Rass. dir. civ., 2005, II, 713; M.C. Paglietti, La nullità della vendita di immobili da costruire per mancata prestazione della garanzia fideiussoria, in Riv. dir. privato, 2007, 101; G. Palermo, Lo schema legale dei contratti relativi ad immobili da costruire, in Riv. not., 2006, 965; R. Triola, I requisiti del contratto di acquisto degli immobili da costruire, in Rass. locaz. e cond., 2006, 219.
[19] Come si legge all’art. 2, comma 1, d. lgs 122/2015, in base al quale “il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all’acquirente una fideiussione”.
[20]Soluzione confermata anche dalla recente Cassazione civile sez. II, 18.09.2020, n. 19510, disponibile su il caso.it. Si veda, inoltre, la sentenza della Corte d’appello di Lecce, sez. civ. II, n. 222 del 14.5.2015, con nota di A. Busani, La fideiussione dopo il preliminare non evita la nullità, in Quotidiano del diritto, Guida al dir. Sole 24 ore, 26.01.2016.
[21] Il Legislatore ha così introdotto un caso di “nullità da inadempimento”, come osserva G. Sicchiero, Nullità per inadempimento?, in Contr. e impr., 2006, p. 368 ss.; si veda anche C.M. D’Arrigo, La tutela contrattuale degli acquirenti di immobili da costruire, in Riv. not., 2006, 911.
[22] Per il tema delle nullità di protezione si rinvia per un maggior approfondimento a M. Girolami, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità negoziali. Per una teoria della moderna nullità relativa, Cedam, Padova, 2008, 19 ss.; M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in I rimedi, a cura di Gentili, vol. IV, Trattato del contratto, Giuffrè, Milano, 2006, 11 ss.; G. Perlingieri, La convalida delle nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, ESI, Napoli, 2010, 95 ss.
[23] La cui tutela è funzionale a proteggere anche interessi di carattere super individuale, come, nel caso in esame, quello alla corretta circolazione del bene immobile: sul punto vd. F. Macario, Il contenuto della garanzia fideiussoria ex D.Lgs. 122/2005 e le conseguenze della sua incompletezza ed erroneità, in Tutela dell’acquirente degli immobili da costruire: applicazione del D.Lgs. 122/2005 e prospettive, I quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2006, 109 ss.
[24] Così G. Baralis, Considerazioni sparse sul decreto delegato conseguente alla l. n. 210 del 2004; spunti in tema di: varietà di contratti "garantiti", prestazione di fideiussione “impropria”, riflessi sulla trascrizione, contenuto “necessario” del contratto, invalidità speciali, in Riv. not., 2005, 723.
[25] Nello stesso senso P. Tommasino, La nullità del preliminare per l’acquisto di immobili da costruire, in Rass. locaz. e cond., 2006, 222.
[26] Ci si riferisce a Cassazione Civile, Sez. II, 22 novembre 2019, n. 30555, Pres. Cosentino, Rel. Criscuolo. Per un commento della pronuncia si rinvia a F. Toschi Vespasiani, Compravendita: quando si può far valere la nullità di protezione senza incorrere in un abuso di diritto?, in Il quotidiano giuridico online, 2020, I, p. 1 ss.
[27] Si esprime in questi termini la sentenza da ultimo esaminata: “Parte della dottrina che ha avuto modo di occuparsi della disciplina di cui al D. Lgs. n. 122/2005, ha condivisibilmente rilevato che, ferma restando anche l'imprescrittibilità dell'azione volta a far valere la nullità di protezione in esame, e non essendo contemplata in maniera espressa alcuna preclusione all'esperimento dell'azione di nullità, ad opera dell'acquirente, successivamente al momento in cui sia stata da lui conseguita la proprietà del fabbricato, ultimato ed agibile, osta all'ammissibilità di siffatta azione la stessa finalità della nullità “di protezione”, in quanto non si vede alcuna ragione per sacrificare l'interesse del costruttore e, soprattutto, quello della successiva circolazione immobiliare, pur in assenza della fideiussione, o della conformazione del contenuto contrattuale ai sensi di legge, quando l'interesse fondamentale dell'acquirente è stato ormai soddisfatto”.
[28] Si rimanda più nel dettaglio a P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205 ss.; U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 18 ss.; U. Breccia, L’abuso del diritto, in Dir. priv.,1997, III, Cedam, Padova, 15 ss.; D. Messinetti., voce Abuso del diritto, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1998, aggiornamento II, 1, 13; G. Levi., L’abuso del diritto, Giuffrè, Milano, 1993, 55 ss.; F.D. Busnelli, E. Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in L'abuso del diritto, a cura di G. Furgiuele, Cedam, Padova, 1997; M. Messina, L’abuso del diritto, Esi, Napoli, 2003, 11 ss.; F. Astone., L’abuso del diritto in materia contrattuale. Limiti e controlli all’esercizio dell’attività contrattuale, in Giur. Mer., 2007, II, 8 ss.; G. Marongiu., Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. Trib., 2009, XIII, 1076 ss.; M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, in Obbligazioni e contratti, 2010, III, 54 ss.; L. Balestra, Rilevanza, Utilità (e abuso) dell’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 2017, III, 541 ss.
[29] Sulla clausola generale di buona fede si rinvia a A. Di Majo, La buona fede correttiva di regole contrattuali in Corr. giur., 2000, XI, 1111 ss.; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, 2006, 32 ss.; e F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 15 ss.; F. Benatti, La clausola generale di buona fede, in Banca, Borsa e titoli di credito, 2009, I, 241 ss.
[30] Così, letteralmente, G. Finazzi, voce Diligenza, in Dig. disc. Priv., 2019, 9.
[31] Si veda, a tal proposito, E. Battelli, Diritto dei contratti e questioni di razionalità economica, in Contratto e impr., 2019, 106 ss., secondo il quale “Tutta la normativa codicistica è del resto permeata della preoccupazione del legislatore di prevenire e sanzionare ogni uso improprio dello strumento contrattuale che si traduca nel comportamento di una delle parti in danno dell’altra”.
[32] L’espressione è di C. M. Bianca, Diritto Civile, L’obbligazione, 2006, 88, cui si rinvia per un maggior approfondimento. In particolare, si veda p. 93, dove parla di dovere di “salvaguardare quegli interessi socialmente rilevanti del creditore che l’adempimento dell’obbligazione espone a uno specifico rischio di danno”.
[33] Questa definizione riecheggia quella contenuta nella sentenza della Cassazione Civile, Sez. II, 22 novembre 2019, n. 30555.
[34] Per un punto di vista diverso da quello della mera tutela del compratore si veda A. Torroni, Il d.lgs. n. 122 del 2005 letto con la lente del costruttore, in Riv. Not., 2007, 879.
[35] Non è ipotesi rara nella previgente disciplina del d. lgs. 122/2005, nella quale, come vedremo, non c’era l’obbligo dell’intervento del notaio per la stipula del preliminare. Era quindi ben possibile che il compratore venisse a conoscenza dell’obbligo di rilascio della fideiussione solo nel momento in cui questa gli fosse stata effettivamente consegnata,
[36] In linea generale, non si può non riflettere sul fatto che il costruttore- promittente venditore si trova in una posizione di vantaggio rispetto al promissario acquirente fin dall’inizio del sorgere del rapporto, dal momento che la stessa disciplina di protezione dell’acquirente prevista dal d.lgs. 122/2005 si applicherà solo nei casi in cui il costruttore abbia chiesto e ottenuto il titolo abitativo. Sul punto si vedano le parole di F. Astone, Vendita di immobili da costruire: la difficile distinzione tra acquirenti da tutelare e non, in Giurisprudenza Costituzionale, 2018, III, 1435 ss.: “si è scelto di intervenire in favore degli acquirenti di immobili da costruire, ma l'operatività della tutela è stata subordinata al ricorrere di presupposti (la richiesta o il rilascio del permesso di costruire) che rientrano nella sfera di controllo del costruttore, sicché è rimesso alla sua discrezionalità decidere se e quando farli scattare”.
[37] Così A. Zoppini, La garanzia fideiussoria vista dall'angolo visuale del costruttore: costi, rischi e problemi, in I quaderni della fondazione italiana del notariato, 2006, I, 1 ss., dove afferma che “In ogni caso, pur non rientrando nella definizione di contratto atipico di garanzia "a prima richiesta", la fideiussione in esame amplifica il rischio d'impresa, sia accentuando le difficoltà per il suo rilascio (posto che il fideiussore valuterà con estrema attenzione la posizione finanziaria del debitore-costruttore), sia innalzando, inevitabilmente, i costi della polizza e, quindi, incidendo sulla strutturazione delle scelte economico-gestionali della società costruttrice. […] Quindi, può ritenersi fondato il timore che in entrambi i casi l'applicazione delle nuove norme possa tradursi in minor credito alle imprese più rischiose e a tassi più elevati”.
[38] Così si legge in Cassazione Civile, Sez. II, 22 novembre 2019, n. 30555.
[39] Si veda R. Lenzi, La tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Il diritto vivente nell’età dell’incertezza. Saggi sull’art. 28 ed il procedimento disciplinare riformato, a cura di S. Pagliantini, Giappichelli, Torino, 2012, 30, dove afferma proprio con riguardo all’ipotesi in esame che “L’art. 2 costituisce almeno apparentemente un manifesto caso di nullità da inadempimento e quindi di contaminazione tra regole di comportamento e regole di validità”.
[40] In una simile situazione, se si concorda con la tesi che impedisce al compratore di chiedere la nullità a causa del rilascio successivo della fideiussione, si dovrebbe altresì, per coerenza, indennizzare il compratore stesso per il periodo precedente in cui non ha goduto della protezione della garanzia fideiussoria, evitando che l’illegittimità della richiesta di nullità si traduca, a sua volta, in un indebito vantaggio del costruttore.
[41] In particolare, G. A. M. Trimarchi, Codice della crisi: riflessione sulle prime norme, in Notariato, 2019, II, 115 sostiene che “Sotto il primo aspetto merita evidenza che il rafforzamento della tutela dell'avente causa degli immobili da costruire passa attraverso il rafforzamento del controllo di legalità notarile che si esprime sia attraverso la previsione di una forma speciale (già) del contratto preliminare e più in generale di tutti quegli atti aventi analoga funzione d'ora in avanti, a pena di nullità, da redigersi per atto pubblico o scrittura privata autenticata (cfr. la nuova formulazione del comma 1 dell'art. 6 del D.Lgs. n. 122/2005) con esclusione, dunque, di ogni altra forma, e con l'obbligo conseguente di assoggettare al medesimo rigore formale anche le procure necessarie a tali atti”.
[42] Il Legislatore ha così seguito la via francese, come auspicato da anni anche dalla dottrina: si veda quanto affermava G. Petrelli, Gli acquisti di immobili da costruire. Le garanzie, il preliminare e gli altri contratti, le tutele per l’acquirente (D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122), Ipsoa, Milano, 2005, 158 “Non è, invece, richiesta obbligatoriamente la forma dell’atto pubblico, come avviene invece in diritto francese, il quale assicura così una tutela ben più effettiva all’acquirente, a mezzo del controllo di legalità che il notaio è tenuto ad effettuare sul contenuto del contratto e sui presupposti della sua conclusione. Questo controllo di legalità si esplica, in particolare, nella verifica del previo o contestuale rilascio della garanzia, e nell’assicurare che siano rispettate le norme sul contenuto del contratto”. Si rinvia sul tema anche a A. Barale, La tutela degli acquirenti di immobili da costruire: dall’esperienza francese alla nuova normativa italiana, in Contratto e impresa Europa, 2005, 810.
[43] Sul punto si rinvia a M. Capecchi, La protezione del promissario acquirente nel codice della crisi, in Contratto e Impr., 2020, 1, 92, dove specifica che “Il codice della crisi d’impresa e dell'insolvenza ha tentato di intervenire sul problema novellando l'art. 6 del d.lgs. n. 122 del 2005 imponendo la stipulazione del preliminare di immobile in costruzione nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, allo scopo di garantire il controllo di legalità da parte del notaio sull'adempimento dell'obbligo di stipulazione della fideiussione di cui agli artt. 2 e 3 del decreto legislativo citato, nonché dell'obbligo di rilascio della polizza assicurativa indennitaria di cui all'art. 4 del medesimo decreto legislativo”.
[44] Così letteralmente si legge ne Il decalogo del Notariato sulle nuove tutele per gli acquirenti di immobili in costruzione, pubblicato in data 14/03/2019 sul sito del Consiglio nazionale del notariato, al link https://www.notariato.it/it/news/il-decalogo-del-notariato-sulle-nuove-tutele-gli-acquirenti-di-immobili-costruzione.
[45] In tale contesto sembra corretto qualificare la stipula dell’atto in mancanza della fideiussione come una violazione da parte del notaio dell’art. 28 della Legge sull’ordinamento del notariato, che proibisce al notaio di “ricevere o autenticare atti: 1. se essi sono espressamente proibiti dalla legge […]”. Questa stessa argomentazione è stata proposta anche con riferimento alla rinuncia alla consegna della fideiussione da E. M. Sironi, Immobili da costruire: le nuove tutele degli acquirenti dopo il D. lgs. n. 14/2019, in Notariato, 2019, VI, 625, in cui osserva che “Non può, tra l’altro, trascurarsi la previsione dell'irrinunciabilità alle tutele prescritte dal decreto n. 122/2005, la quale, sebbene fin qui giudicata insufficiente, si colora di un diverso e più pregnante significato alla luce della prescrizione formale ora introdotta dall'art. 388 del decreto n. 14/2019 (e dell'interesse pubblicistico sotteso a tale intervento): mi riferisco alla possibile qualificazione della mancata menzione della fideiussione quale rinuncia tacita alla consegna della fideiussione. In tale prospettiva, la previsione di nullità assoluta (ancorché parziale) di detta rinuncia potrebbe porre il notaio di fronte allo spettro della violazione dell'art. 28, n. 1, L. n. 89/1913”. Sulla responsabilità del notaio si rimanda anche a G. Rizzi, Il divieto di stipula relativo a immobili da costruire: disciplina vigente e nuove prospettive, in Notariato, 2019, IV, 391.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 2) Sting – The bridge
di Luigi Di Paola
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Sommario: 1. Dublino 1980: i Police possono attendere - 2. Leixlip Caste, Dublin Festival, Sunday 27th July at 2pm - 3. La tecnica dei Police - 4. If you love somebody set them free - 5. La musica è capace di fermare il tempo? - 6. The bridge - 7. La musica “semplificata”.
1. Dublino 1980: i Police possono attendere
Dublino odorava dell’umidità del verde, complice nella sua profondità di ascolto, svelandosi imperiosamente nell’intreccio delle strade ampie che indirizzavano ragazzi elegantemente spettinati, dapprima dondolanti per O’ Connell Street, in parchi rumorosi, arredati da “radioni” che, appoggiati alla base dei giganteschi alberi, si dimostravano seccamente inospitali verso musica solo lievemente distante dal genere “punk”.
Mi trovavo lì, nel 1980, in una classica casa di periferia a due piani con giardino, presso la famiglia McCormack, invasa da una elettricità di fondo sprigionata dal rosso fuoco dei capelli che tutti (padre, madre e tre simpatici ragazzi), pur con varie intensità, esibivano armoniosamente, ad attestare una sorta di innato calore gradevole e contagioso.
Io ero alloggiato al piano di sopra, in una confortevole camera che condividevo col mio amico Massimo C., il quale, in quel frangente, non so perché, si dimostrava molto incuriosito dalle novelle di Giovanni Verga, alla cui lettura spesso, di sera, si abbandonava ad alta voce, ben conscio del mio, oserei dire incolpevole e giustificato, disinteresse.
La mia vita, allora, era infatti occupata interamente dalla musica (senza nulla voler togliere al buon Verga, che avrei in età più matura glorificato), già dalla fine degli anni ’70 in pieno fermento per le novità introdotte dai fenomeni di “fusione”, basati sulla contaminazione parziale di generi, realizzata attraverso l’enfatizzazione di determinati movimenti armonici e fraseggi stilistici.
Il “jazz” veniva affiancato dalla “fusion”, il “soul” soppiantato dall’“easy listening” e dalla “dance”, il “rock” imbarbarito dalla “new wave” e dal “punk”.
Una sera, appena rientrato in casa con due ellepì appena acquistati (se non ricordo male, “Beggars banquet” dei Rolling Stones e “JT” di James Taylor), il figlio maggiore dei McCormack, mio coetaneo, mi chiese cosa pensassi dei Police.
Gli risposi senza imbarazzo che non ne sapevo nulla, immaginando si trattasse di qualche gruppo inglese venuto, localmente, alla ribalta sull’esempio di formazioni quali i Sex Pistols o i Clash, la cui fortuna, notoriamente, fu dovuta, almeno all’inizio, più all’aggressività di immagine e a trovate spettacolari dal vivo che ad una musica realmente convincente.
Mi mostrò, quindi, con chiaro entusiasmo, “Outlandos d’Amour”, invitandomi ad ascoltarlo e suggerendomi di prestare particolare attenzione ad alcuni brani che riteneva interessanti.
Lì per lì, pigramente, non lo feci, anche perché distratto dalla ingombrante presenza di Bob Marley, che ebbi la fortuna di vedere nel suo ultimo concerto del 10 luglio a Dalymount Park, sotto una coperta di fumo che annebbiava vista e sensi. I Police, anche se per poco, potevano attendere.
2. Leixlip Castle, Dublin Festival, Sunday 27th July at 2pm
Il caso volle che vidi pubblicizzato, in una locandina esposta in un pub, un festival che avrebbe avuto luogo a Leixlip Castle, con inizio alle due del pomeriggio, con i seguenti artisti, in ordine di “crescente” importanza: Moondogs, Skafish, Q. Tips (il cui vocalist era uno sconosciuto Paul Young), U2 (che, giovanissimi, nascevano in quel momento), John Otway, Squeeze (gruppo all’epoca molto famoso in Irlanda) ed i Police.
Un evento analogo, allora, sarebbe stato inconcepibile in Italia, ripudiata dall’intera generazione di artisti stranieri in reazione allo sgradevole trattamento riservato a Milano, nel 1975, a Carlos Santana, la cui esibizione fu malamente interrotta dalla caduta “in orizzontale” di molotov sul palco.
Con un altro mio amico (Massimo T.) ci ritrovammo in un’area enorme, nel mezzo di una folla di cui non si scorgevano i contorni: pareva Woodstock.
In serata (ma con il sole ancora alto) si presentarono Sting, Andy Summers e Stewart Copeland, carichi al punto giusto, disinvolti e comunicativi, con il mondo davanti e la musica a portata di mano; io e il mio amico eravamo in quel mondo, capitati per caso, quasi sotto il palco e con l’incoscienza e la statura dei quindicenni.
La “performance”, per quanto posso ricordare, fu strepitosa, e ne uscì subito sfatata l’idea (o pregiudizio) che ad una band di tre sole unità, per di più priva di tastierista, sarebbe inevitabilmente mancato il potenziale per suonare una musica di qualità.
La verità è che Sting usava il basso in modo anomalo, ossia non in funzione dell’armonia tracciata da uno strumento di accompagnamento, ma creando la sonorità degli accordi, nei quali si inseriva la magica chitarra di Andy Summers, con arpeggi “rivoltati” ed impiego di movimenti in “sus4”, artefici di dissonanze in rapida sequenza che si facevano beffa della consuetudine, scatenavano reazioni nervose, rivitalizzando le parti sopite della corteccia celebrale in una continua sfida all’apparato acustico, già fiaccato da ore di ascolto intenso.
Steward Copeland era un inventore di tempi sincopati, di una ricchezza ineguagliabile, con alto dosaggio di ritmi frenetici che affrancavano dall’immobilismo anche gli anziani, producendo movimenti istintivi nell’automatismo tipico del ginnasta, avvezzo alle contorsioni ed agli allungamenti muscolari.
La batteria era una, ma valeva almeno tre, e non vi era una minima parvenza di vuoto che sopravvivesse a quell’incessante rullare, tuttavia sempre pulito, regolare, capace di scongiurare antipatiche sovrapposizioni, spesso generatrici di fastidioso rumore, tra “tom” e piatti.
Nel repertorio vi erano non solo i brani del disco che il ragazzo irlandese mi aveva invitato ad apprezzare (quali “So lonely”, “Roxanne”, “Can’t stand losing you”), ma anche altri (“Message in a bottle”, “Bring on the night”, “Walking on the moon”), che poi riconobbi quali pezzi “di grido” del secondo ellepì del gruppo, “Regatta de blanc”, a me, in quel momento, parimenti ignoto, ma che ebbi subito modo di consumare al mio ritorno a casa (verificando che, effettivamente, i Police stavano spopolando anche in Italia, dove poi scalarono le classifiche con il terzo, magico album, “Zeniatta Mondatta”, l’ultimo che veramente apprezzai).
Di quel mitico concerto rimane inciso nella mia memoria anche l’avventuroso tragitto del rientro a Dublino, in compagnia di una coppia di sconosciuti che ci offrirono un provvidenziale passaggio, togliendo dal ciglio della strada me e il mio amico con i pollici alzati, oramai senza speranza e tenuti in piedi dall’incoscienza dei quindicenni, non essendovi più autobus in servizio a quell’ora.
E in macchina pensavo: “ma questo gruppo durerà? Rimarrà sempre così o si evolverà?”.
All’epoca non potevo averne consapevolezza, ma la vera domanda era: “Questi tre ragazzi saliranno sul ponte o cercheranno una vetta?”
3. La tecnica dei Police
Fin lì non si era mai assaporata una miscela di “rock” asciutto, di “raggae” altalenante e di ibrido “ska”, arricchita da continue accelerazioni e da brusche frenate che mettevano a repentaglio l’equilibrio, scosso dai singhiozzi del pedale della cassa apparentemente fuori tempo, tormentato dall’eco stridulo di una chitarra ansiosa e palpitante, vittima di una febbrile agitazione e di una smania quasi irritante, in cui ogni pennata aveva l’effetto di una violenta frustata.
Sting spingeva allora soprattutto sugli acuti, che definivano melodie secche, capricciose, mai banali, in simbiosi con il giro di basso che si muoveva rapidamente sulle note, per creare la base armonica del brano.
Era il segno di una tecnica compositiva in controtendenza, giacché non era più la tastiera o la chitarra ritmica a creare la struttura del brano mediante una successione di accordi, bensì il basso, con il quale si interfacciavano gli altri strumenti in funzione quasi ausiliaria.
Quei brani, così, erano capaci di mantenere la loro integrità anche se eseguiti solo con voce e basso, come è da ritenere che Sting li abbia concepiti.
Il solo altro caso analogo che si registra (per quanto io ricordi) nella musica di quegli anni è quello del grande Mark King, bassista di un gruppo - i Level 42 - non poco innovativo, ma sul lato “soul”; qui lo strumento non si limitava a disegnare gli accordi, ma faceva leva sullo “slap” per tessere la trama dei vari arrangiamenti.
Sta di fatto che i Police, con la loro musica, avevano dato un’autentica sferzata alla staticità del passato, e stavano già attraversando il ponte; ma, ovviamente, non potevano saperlo.
4. If you love somebody set them free
Ho sempre pensato (ma forse mi sbaglio), che la vena compositiva, per affermarsi, non possa prescindere da una lucida intelligenza, che solo è in grado di guidare il talento, di renderlo produttivo e funzionale all’opera artistica che attende di essere ideata.
Un talento con sola anima rischia di perdersi, di essere risucchiato nel marasma della molteplicità delle cose, senza poter fare breccia nelle sensibilità di chi ambirebbe ad apprezzarlo.
Ed è sempre l’intelligenza che rende conscio l’artista della fine di un momento, della conclusione di un viaggio, della necessità di immaginare nuove prospettive e di ripartire con altre aspettative, lanciando il pensiero verso idee originali, che prefigurino un tangibile e radicale cambiamento.
La carriera solista di Sting, dopo la conclusione dell’avventura con i Police, non si è mantenuta fedele ai canoni del “pop” cui il gruppo si era da ultimo legato, ma ha seguito una strada parallela, in verità già percorsa per brevi tratti in passato (in particolare con il brano “When the world is running down”), ma senza troppa determinazione.
L’intelligenza, nel suo caso, ha optato per una musica “black” di estrema potenza non disgiunta da raffinatezza, suonata con musicisti “jazz” di prim’ordine (Omar Hakim alla batteria, Darryl Jones al basso, Kenny Kirkland alle tastiere, Brandon Marsalis al sax), scandita da un ritmo trascinante e resa unica dalla voce acuta di un bianco.
“If you love somebody set them free” è stato il brano che più mi ha fatto scatenare nell’estate del 1985, ed il concerto del successivo 4 dicembre al Palaeur di Roma è stato entusiasmante, all’insegna della libertà di spirito e di testa.
Quella sera eravamo in tanti e tutti in movimento sul ponte.
5. La musica è capace di fermare il tempo?
Rivedo oggi Sting negli ultimi video su Youtube, certamente invecchiato nell’aspetto, meno incline a forzare la voce, come in passato, sulle note alte, prudente nell’assecondare la musica con i movimenti del corpo, più composto nel suonare il suo strumento.
Lo sguardo fermo e sbarazzino è tuttavia sempre lo stesso, perché è il riflesso di una intimità con la musica che non può evidentemente tramontare.
Certamente il tempo prosegue, ma con il ricordo della musica sono recuperabili istanti del passato, nella dimensione spazio-temporale originaria.
Ciò è negato da Marc Augé, il quale, anche nei suoi “Momenti di felicità’”, sostiene che lo sguardo volto all’indietro non si risolve mai nell’apprezzamento fedele di ciò che è stato, poiché la generale evoluzione della materia e le debolezze ed incertezze della memoria impediscono all’individuo di riportare al presente la nitida immagine dell’esperienza vissuta.
Tuttavia, a mio modo di vedere, vi è una sorgente capace di dare vitalità al ricordo, di ripristinare il passato nella sua versione “originale”.
Mi riferisco alla “sensazione musicale”, ossia a quell’insieme di immagini e di emozioni legate ad un vecchio brano che ci capita di risentire.
Anche il sapore del cibo torna ad essere quello del passato, lo scricchiolio dei passi, la stupidità infantile, il senso di libertà, l’odore dell’aria.
Quando riascolto i brani di Joe Jackson o di Donald Fagen chiudo gli occhi e mi ritrovo all’istante a Mykonos, nel 1983, nel bianco delle case, prosciugato dall’aridità del vento, con la vista appannata dal fumo umile e grezzo delle “MS” portate da Roma, in attesa dell’apertura dei locali notturni.
In quei momenti il passato si sovrappone al presente, mette fuori gioco l’autocontrollo e dilata la dimensione del reale.
Del resto, se proviamo ad osservare attentamente il volto dei componenti di un gruppo musicale, anche solo durante una “session” di prova, scorgiamo spesso in ciascuno di essi uno strano sorriso, che è il derivato di un coinvolgimento collettivo, prodotto da una musica che scava nel profondo, che unisce, che dal nulla crea una immediata confidenza difficilmente raggiungibile finanche tra persone che si frequentano da un’eternità.
La vera vita si cristallizza in quel brano che stanno eseguendo e le emozioni condivise creano un legame unico, che rimane inalterato nel corso degli anni.
Quelle sensazioni sono incancellabili e, mantenendo fresca la giovinezza del passato, consentono effettivamente di viaggiare nel tempo: è come attraversare, in un senso e nell’altro, un ponte.
6. The bridge
Il ponte simboleggia la via per attraversare più agevolmente luoghi impervi, che restano in basso, spesso a comporre uno scenario esaltante e destinato a sparire alla vista dell’osservatore una volta raggiunta la terraferma, per lasciare il posto ad uno scenario diverso, e, poi, ad un altro ancora.
Il collegamento tra spazi favorisce il movimento, taglia le gambe all’inerzia, offre delle opportunità di cambiamento nello scorrere della vita.
La scelta non è obbligata, perché si può anche rimanere arroccati su una vetta che garantisca la sopravvivenza, al riparo da ondate gigantesche ma vitali, lontani dalle dinamiche della realtà, spettatori dall’alto in un nido angusto, dal quale non è tuttavia possibile spiccare il volo, perché non si è pronti, non si ha abbastanza coraggio, si teme il contatto con l’imprevedibile.
Nella sua canzone (che dà il titolo all’album), Sting sembra vedere nel ponte uno strumento di salvezza o di liberazione, situato nella mente, nella disponibilità di coloro che lo scorgono e decidono di attraversarlo, lasciandosi alle spalle una città sommersa, e con essa coloro che si sono limitati a cercare il terreno più alto, alla fine comunque raggiunto dalle acque.
Nella parte finale, tuttavia, si invoca l’apertura del ponte per tutti - che consente di sfuggire, mutando luogo, alle ondate -, in uno slancio di generosità che evidentemente l’autore deve anche alla sua musicalità, che non può essere egoistica, essendo l’arte in genere inclusiva, promotrice di un senso di appartenenza che non ammette insensibilità per l’altro.
L’acqua diventa, stavolta, protagonista nel singolo “Rushing water”, il cui dinamismo evoca le atmosfere dei primi Police, con un ritornello semplice che cattura al primo ascolto, imitando quasi il suono del mare, che inonda il cervello.
Rilassarsi in acqua diventa un’esigenza vitale, perché le paure accumulate nel corso dell’esistenza, che ritornano in sogno, diventando opprimente persecuzione, possono sciogliersi solo nel liquido che svuota la mente dei vari pensieri, nemici di una serenità lontanamente accarezzata e poi rintanata in una completa amnesia.
In effetti, in gioventù, l’assenza di sovrastrutture consente di gustare anche l’ozio, di soffermarsi con profondità di sguardo anche nel vuoto, di percepire le note di un brano una ad una, come se fossero sospinte nell’aria al rallentatore.
E allora non rimane che scrutare il passato con gli occhi che avevamo, risentire le vecchie canzoni che ci accompagnavano nelle gite in macchina, fare a meno di cercare spiegazioni alle continue domande, spesso inutili, che ci stressano quotidianamente e ci spengono.
In “If it’s love” Sting si riaccosta al valore dell’inspiegabile, quale può essere un sentimento come l’amore, che non può lasciare insoddisfatti, ma deve solo stupire, attirare, rasserenare, appagare.
Cosa c’è, peraltro, di più inspiegabile della musica, del brivido che suscita in chi ne è artefice ed in chi ne è toccato, della commozione che spesso provoca anche senza ragione, del sorriso che strappa quando si manifesta in una leggera ventata di profumo.
7. La musica “semplificata”
L’evoluzione dei costumi che il perenne cammino della mente umana inevitabilmente comporta sembra oggi condurre verso una semplificazione dell’approccio alla vita, quale necessario antidoto ad un senso di soffocamento indotto dalla complessità delle cose che la scienza e la tecnologia, giorno dopo giorno, mettono a nudo.
Il concetto di semplicità, tuttavia, sembra prendere forma quale effetto non di un ripensamento di un modello di agire - reputato insoddisfacente in quanto condizionato dai variegati impulsi che, disordinatamente, provengono dall’esterno -, bensì di una mera tendenza ad impoverire il linguaggio di comunicazione, contenendo al minimo la riflessione sugli accadimenti ed attribuendo scarso peso alle esperienze vissute.
Il futuro diventa, così, una volta azzerato il passato, una corsa verso il buio, dove anche la musica, non risparmiata da questa nuova ventata di semplicità, si riduce al minimo, priva di armonia, quale misero sottofondo di un cantato aggressivo, spesso stonato e urlato.
Sennonché una semplicità così ottenuta, non filtrata da un lavoro di meticolosa selezione ed espulsione del superfluo, si risolve in appiattimento, che è l’anticamera della salita, faticosa e senza speranza, verso una nuova vetta.
Fa bene, allora, il buon Sting a non farsi abbattere dalla stanchezza e a prepararsi ad attraversare l’ennesimo ponte.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 10) Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo: il muro (di Berlino) oggi
di Andrea Apollonio
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Sommario: 1. Una funambolica domanda - 2. Il muro in “Good-bye Lenin” - 3. La Storia non è finita - 4. Il muro in “La spia che venne dal freddo” - 5. Dopo Berlino - 6. Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo.
1. Una funambolica domanda
Riccardo Ehrman era nel 1989 il corrispondente dell'Ansa a Berlino. Il 9 novembre, come tanti altri suoi colleghi, era presente alla conferenza stampa del portavoce del governo della Germania orientale, Günter Schabowski, il quale stava annunciando ai media la decisione di aprire il confine tedesco per lasciar passare i cittadini che volevano andare a Ovest. Ehrman, esperto giornalista italiano con una storia di corrispondenze da ogni parte del globo, fece a quel punto la domanda più intuitiva e immediata. "Quando entra in vigore il nuovo regolamento?", chiese con disarmante semplicità. Una domanda che ancora nessun giornalista aveva rivolto al portavoce Schabowski, il quale dopo una visibile titubanza, rispose: "A quanto ne so, subito, da ora". Parole che ebbero un effetto travolgente sui cittadini della DDR, molti dei quali avevano visto la conferenza stampa in diretta tv. A migliaia affluirono immediatamente nei punti di passaggio lungo il muro per verificare se fosse vero quello che avevano sentito in televisione; da lì in poi gli eventi travolsero la Germania socialista. Ehrman, quella sera stessa, ebbe una vampata di celebrità: fu riconosciuto per le strade e fu portato in trionfo, come se fosse stato lui l'artefice di quel miracolo. In parte è così, se è vero che la sua domanda è passata alla storia come l'innesco che ha determinato la caduta del muro di Berlino. Riccardo Ehrman è morto il 14 dicembre 2021, all'età di 92 anni: la sua è stata una vita segnata da una funambolica domanda.
Una storia che sembra uscita da una brillante sceneggiatura felliniana; un sogno, quasi. E questa incredibile genesi di quegli eventi epocali ci spinge a considerare il modo, poco convenzionale, con cui affrontare il racconto dei muri, del muro (di Berlino). Si vuol dire che la caduta del muro di Berlino è un evento talmente suggestivo, di tale portata storica, economica, sociale e geopolitica che rischia di venire banalizzato, se affrontato in termini obiettivi e analitici. La forza del linguaggio artistico consente di osservare quegli eventi dietro una lente convessa onirica e deformante, eppure capace di cogliere - fellinianamente, come in un sogno - il senso dei fatti in poche immagini, in poche battute; in qualche diapositiva (la domanda di Ehrman; la comica titubanza di Schabowski). Il modo migliore per raccontare i muri, il muro (di Berlino), e di trarre alcuni possibili spunti, è appunto servirsi del linguaggio artistico tecnicamente più completo: il cinema.
2. Il muro in “Good-bye Lenin”
E nel film rivelazione "Good-bye Lenin", girato da quasi esordienti cineasti tedeschi nel 2004, la caduta del muro di Berlino è davvero raccontata come in un sogno, dentro un teatro di posa: a riprova di quale sconvolgimento emotivo, di quali tracce e solchi freudiani, abbia recato quell’episodio nelle coscienze dei cittadini della Germania e del mondo intero. Alex, il protagonista, che pure auspicava la fine del governo socialista della DDR e saluta come tutti - festeggiando - la domanda di Ehrman e la risposta di Schabowski, è in prima battuta costretto a nascondere il passaggio d’epoca alla madre, fervente sostenitrice del regime, che poco prima di quel fatale 9 novembre 1989 era stata colpita da infarto e caduta in coma, per risvegliarsi 8 mesi dopo: nel boom capitalistico che in poche settimane aveva spazzato via quarant'anni di storia.
È un film agrodolce: Alex con l’aiuto di un suo amico cineasta in erba realizza finti cinegiornali sul "caro, rassicurante, collettivista" modello socialista, da far vedere alla madre, immobilizzata sul letto, a riposo; la quale non può certo sospettare che il muro sia caduto, portandosi dietro tutto il resto: sarebbe per lei uno shock letale. Eppure Alex gradualmente, e dolorosamente, comprende che il mondo che sta costruendo ad uso e consumo della madre, come in un set cinematografico, recuperando oggetti, storie, discorsi e comportamenti del passato (di 8 mesi prima...), è forse meglio del presente: il nuovo modello di sviluppo sarà anche più colorato, più ammiccante, ma ì è anche molto più criptico, fatuo e fragile: la sorella di Alex ha trovato un lavoro precario nel Burger King appena aperto, e un giorno torna a casa con il naso sanguinante e la faccia disperata (non era questo ciò che si aspettava dal capitalismo); Alex invece sbarca il lunario vendendo truffaldinamente parabole satellitari ai nuovi tele-cittadini sempre più alienati e soli, e anche lui sembra rivalutare quel tempo andato, più grigio, forse, ma anche più chiaro e comprensibile, in cui i confini tra le cose erano più nitidi - quel modello di società semplificata e collettiva non presentava zone d'ombra. Lo stesso muro di Berlino era un confine tra le cose, tra due canoni politici ed esistenziali diversi, e c'era chi aveva il coraggio di superarlo (il padre di Alex, che nel frattempo si è rifatto una vita a Berlino Ovest) e chi no: ma anche quello era coraggio, come quello della madre di Alex, rimasta ad accudire i suoi due figli scegliendo di non avventurarsi in un viaggio esistenziale ignoto.
3. La Storia non è finita
Non si pensi che "Good-bye Lenin" non parli di noi: noi che oggi viviamo in un modello di sviluppo economico-sociale che, passando per alcuni stadi, direttamente deriva da quel passaggio epocale. L’avvento del capitalismo, questa la verità, ha innescato un processo della storia rapidissimo: al capitalismo (quello puro, yankee, per intenderci) è seguito il liberismo, al quale dopo - orientativamente - la grande crisi finanziaria della seconda metà degli anni duemila è seguito il neo-liberismo. Forme sempre più estreme di astrazione economica, finanziaria, monetaria, ma anche - ben più tragicamente - lavorativa, sociale, relazionale: la globalizzazione dei denari, delle merci e delle persone ha cambiato non solo i modelli di sviluppo ma anche - ed è questione più delicata - le nostre vite, in meglio o in peggio è difficile dirlo; o forse, non così difficile, ma è giusto mantenere una equidistanza emotiva dai processi della storia.
Non è finita - la Storia non è finita, come ha detto qualcuno - perché siamo già in una fase post-qualcosa: il neo-liberismo - che deriva dal liberismo, che deriva dal capitalismo, dilagato dopo la caduta del muro di Berlino - sembra già alle spalle, dopo la spaventosa crisi pandemica; che, ormai è chiaro, non può essere pensata come una parentesi, chiusa la quale si tornerà a vivere più o meno come prima. Già si parla di società "contact-less" e di "social-distancing" quale paradigma lavorativo, culturale, esistenziale: la pandemia c'entra, ma fino ad un certo punto, perché non possiamo negarcelo: si è trattato soltanto di una accelerazione, di una trasformazione in atto ormai da anni. E quel modello che vede l'uomo solo con se stesso (ma tra lui e se stesso c'è il diaframma dell'immagine televisiva, dello schermo del computer, del dispositivo smartphone) emergeva già nelle sue forme primigenie dietro le porte aperte all'ammiccante antennista Alex dai nuovi tele-cittadini della DDR, finalmente "soli" e alle prese con il più piacevole dei bombardamenti: quello dei telefilm americani, delle notizie incontrollate; quello dello schermo che ubriaca, stordisce e infine fa addormentare.
Ma una riflessione sul muro (di Berlino), sui muri, può essere compiuta anche ad un livello meno cupo (volendo...); più profondo, più intimo ed esistenziale, ma non per questo meno collegata a tematiche socio-generali. E questo con l'ausilio di un'altra pellicola.
4. Il muro in “La spia che venne dal freddo”
In uno dei film di spionaggio più memorabili della storia del cinema, nella "spia che venne dal freddo", rimane impressa l'ultima scena. Leamas è un esperto agente dei servizi segreti inglesi che viene inviato, dall'altra parte del muro di Berlino, nella Repubblica Democratica Tedesca, per una missione di contro-spionaggio. Semplificando: dopo varie peripezie, da questa parte del muro perviene ad una terribile verità: l'organo da cui dipende è "deviato", si è nel tempo imbarbarito e non risponde più ad alcuna funzione democratica. Riesce a disattendere gli ordini e a tornare indietro clandestinamente, ma quando si tratterà di scavalcare il muro, approfittando di un momento di distrazione dei guardiani, quando è già sul cordolo, esattamente nel mezzo, tituba e alla fine fa per tornare indietro. Deliberatamente decide di farsi ammazzare dai soldati. La pellicola e la storia presentano molte altre sfumature, s'intende, ma alla fine questa è la sostanza: Leamas è un agente segreto, ma anche una testa pensante; un idealista, che non può tollerare le subdole macchinazioni del suo lavoro e sceglie consapevolmente di non oltrepassare il muro: di non mettersi nuovamente al servizio delle spie inglesi, scegliendo al tempo stesso di non denunciare i suoi superiori, come se le cose - alcune cose - non potessero cambiare mai.
Anche questo film può sembrarci lontano dal presente, e per molti versi lo è: il blocco occidentale e quello comunista non esistono più, i servizi segreti - se ancora esistono da qualche parte - non hanno più molto da fare; e il muro di Berlino è stato abbattuto trent'anni fa. Eppure questo film è in grado di dirci molto più di quanto il tempo trascorso da quelle riprese - cinquant'anni - possa precluderci.
5. Dopo Berlino
Anzitutto, il muro: non è vero che è stato abbattuto, non del tutto almeno, perché con gli anni è diventato un luogo di memoria. I resti del muro sono ancora disseminati per la città in guisa di monumenti a cielo aperto, a perenne ricordo di chi ha perso la vita nel tentativo di riconquistare la libertà (anche Leamas, a ben vedere, tentava di riappropriarsi della "sua" libertà: ma è quella forma di libertà assoluta che prevede l'indifferenza per ciò che ci circonda: una legittima forma di libertà). Così come, del resto, sono ancora lì, e ben conservati, i lager nazisti, i ghetti ebraici o i teatri della prima guerra mondiale: oltralpe - molto più che da noi - la memoria è assurta al rango di preziosa risorsa del tempo presente, perché è la storia, è la memoria, a sorreggere i destini dell'uomo, aiutandoli a spiegare meglio il presente, a renderlo davvero intellegibile.
Poi, "La spia che venne dal freddo" è un film falsamente storiografico, nel senso che i due blocchi mondiali contrapposti - e divisi simbolicamente, ma neanche troppo, dal muro di Berlino - hanno cambiato composizione, ed hanno oggi una geometria variabile, ma sono ancora lì: vecchie potenze e nuove potenze; nord e sud del mondo; paesi ricchi e paesi poveri. Anzi, è paradossale, ma oggi ci sono molti più confini di ieri: i muri, dopo Berlino, non sono caduti, ma sembrano aumentati, in numero ed altezza (oggi sembrano davvero insormontabili). E' il frutto delle politiche capitalistiche, liberiste, neo-liberiste: e anche questo, soprattutto questo, è un paradosso. E in molti altri casi i muri, i confini, avranno forse perso il loro carattere materiale e frontaliero, ma hanno assunto un carattere mentale, psicologicamente collettivo. E questi confini, pur se debolmente tracciati sulle carte, sono i veri punti di uno scontro di civiltà in atto da almeno un decennio. Le coste dell'isola di Lesbo, ad esempio, sono confini tracciati dall'acqua, si spostano in base alle maree, le coste si offrono lì da millenni ai naviganti, eppure lì si consuma un epocale scontro di civiltà: tra chi vuole arrivare, da sud, spinto da fame e da guerre, e chi vuole respingere, a nord, spinto da irragionevoli paure per il diverso, da egoismi persino inutili da nascondere o edulcorare. E la globalizzazione, dove la mettiamo? E il neo-liberismo?
6. Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo
Il muro di Berlino, che è poi il vero protagonista del film, è soprattutto, e per quanto si è appena detto, una metafora, peraltro ben messa in scena dal povero, idealista agente Leamas: quella del confine tra le cose e il coraggio di superarlo. Leamas, sul cordolo di quel muro, deve decidere se andare avanti o no, se imporre le sue volontà e le sue aspirazioni o lasciarsi sopraffare dalle cose - ma soprattutto dal modo in cui esse sono e si presentano. Leamas è un personaggio positivo, secondo i canoni letterari egli è un eroe, non l'antieroe: eppure deliberatamente sceglie di non oltrepassare il muro - il confine tra l'intenzione e l'azione, tra l'ideale e l'azione, tra lo sdegno e l' azione. Le "cose" di Leamas, quell'intreccio di condizioni personali e situazioni generali che fanno un sistema - ecco cosa deve mettersi in conto quando si dice di volere cambiare il "sistema"... - rimarranno intonse, e almeno da questo punto di vista la sua vita inutilmente perduta.
Sempre secondo i canoni letterari, egli è un personaggio positivo, perché certamente non è un personaggio negativo. A stare nel mezzo, e a decidere di non decidere, a volte, anzi spesso, ci si salva, agli occhi della gente. I canoni, è noto, sono la tipizzazione del pensiero comune.
Ma non a tutti basta, e non tutti si comportano allo stesso modo, davanti al muro (di Berlino, metaforicamente tale) che è davanti a noi ogni giorno. E rappresenta memoria (da praticare), paura dell'altro (da vincere), abbiamo detto; il confine delle cose e il coraggio di superarlo, abbiamo detto.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 4) Nel Natale del covid non siamo più tanto buoni
di Giuseppe Savagnone
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Sommario: 1. Un Natale rovinato? - 2. La nuova conflittualità sui vaccini e il green pass - 3. Dagli intellettuali ai social, una guerra fratricida - 4. A Natale non siamo tutti fratelli - 5. La festa di Dio è quella dell’uomo.
1. Un Natale rovinato?
Un altro “Natale di guerra” con il covid - il secondo dallo scoppio della pandemia - mette a dura prova il clima festoso che ha sempre caratterizzato questa festa. Già la formula del “distanziamento sociale” contraddice la sua essenza, che tradizionalmente è quella di riunire intorno a una bella tavola imbandita, in un clima di serena distensione e di allegria, le famiglie disperse, gli amici lontani, tutti coloro che i ritmi inesorabili della società contemporanea hanno diviso nel corso dell’anno. E invece no: mascherine, niente abbracci, niente assembramenti, ambienti ben aereati (e quindi esposti al freddo invernale).
E questo è ancora solo un aspetto, per quanto importante, del problema. Per ciò che ormai da tempo il Natale significa nella società odierna – la celebrazione del consumismo di massa - la pandemia viene a rovinare anche l’economia, rendendo più precaria la corsa agli acquisti, i viaggi, le cene al ristorante. Anche perché il virus ha rivelato una terribile capacità di mutazione e si ripresenta in sempre nuove varianti – l’ultima è quella omicron - , facendo temere che presto non basteranno più per definirlo tutte le lettere dell’alfabeto greco.
2. La nuova conflittualità sui vaccini e il green pass
C’è tuttavia qualcosa, nel momento attuale, che colpisce più alla radice il senso del Natale. Essa ha sempre rappresentato la festa della bontà, in cui la durezza dei cuori si scioglie e lascia affiorare barlumi di solidarietà e di fraternità abitualmente soffocati dalle logiche spietate del “terribile quotidiano”.
Di questa fraternità, oggi, stentiamo molto a vedere delle tracce. Le misure approntate dai vai governi per contenere la pandemia, in particolare la campagna vaccinale e l’obbligo del green pass, hanno scatenato in diversi Paesi reazioni che vanno dal rassegnato vittimismo di chi deve sottostare a una prevaricazione dei propri più sacri diritti, a una protesta, che assume anche forme violente.
Ormai tramontate le guerre di religione, finiti anche i tempi delle contrapposizioni ideologiche, sperimentiamo con un po’ di stupore che le fratture, un tempo dovute a quelle divergenze ideali, si verificano oggi, con non minore drasticità, per la questione dei vaccini. Quello che nel vangelo si preannunziava come effetto della nuova fede - «separare l'uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Mt 10,35) – lo stiamo oggi sperimentando per i problemi legati all’esistenza della pandemia e alle eventuali misure per il suo contenimento.
Amicizie saldissime si sono incrinate, su questi temi per la foga della reciproca polemica. All’interno delle famiglie si sono accese aspre discussioni. Nessun vaccino – anzi più in generale, nessun farmaco (nemmeno la famosa pillola anticoncezionale) – aveva forse mai diviso gli animi quanto questo.
3. Dagli intellettuali ai social, una guerra fratricida
Lo scontro non si svolge solo a livello privato, ma ha il suo riscontro pubblico a livello intellettuale. A fronte di una maggioranza della comunità scientifica che attesta la gravità del fenomeno, ci sono state persone di cultura, come il filosofo Agamben, che parlano della «invenzione di un’epidemia», con cui si sarebbe trasformata «una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti», in una catastrofe umanitaria, allo scopo di giustificare «frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza».
In netta contrapposizione a papa Francesco, secondo cui il vaccino «può salvare tante vite umane, non dimentichiamolo», c’è stata la durissima denunzia di mons. Carlo Viganò, arcivescovo e già nunzio apostolico negli Stati Uniti: «Ci siamo svegliati un po’ tardi, è vero, ma stiamo cominciando a capire che ci hanno ingannato per quasi due anni, raccontandoci cose che non corrispondevano alla realtà, dicendo che non c’erano cure, che si moriva di Covid, mentre uccidevano deliberatamente i contagiati per farci accettare mascherine, lockdown e coprifuoco».
Senza arrivare a questo estremo negazionismo, altri intellettuali, pur riconoscendo l’utilità dei vaccini, si sono schierati contro l’obbligo del green pass. È il caso di Massimo Cacciari, che ha firmato insieme ad Agamben una lettera in cui si denunzia il pericolo che l’introduzione dell’obbligatorietà del green-pass dia luogo alla «discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B», creando una situazione che è tipica dei regini totalitari. «Un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica».
È anche il caso dei 300 docenti universitari - tra cui il noto storico Alessandro Barbero - che, invocando analoghe motivazioni, hanno firmato una lettera in cui si dichiara «ingiusta e illegittima la discriminazione introdotta ai danni di una minoranza, in quanto in contrasto con i dettami della Costituzione (art. 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana).
Anche se queste posizioni sono state fin dall’inizio decisamente contestate dalla maggioranza del mondo universitario, che parla di assurdo “complottismo” e di misconoscimento delle ragioni della scienza, i no-vax e no-pass non demordono e l’8 dicembre scorso, a Torino, hanno celebrato un convegno seguito da quasi tremila persone, in cui si è costituita una «Commissione dubbio e precauzione» col compito di sostenere la loro causa.
Non si tratta di un dibattito limitato agli ambienti intellettuali. Basta andare sui social per scoprirne le vastissime risonanze mediatiche. Con toni tutt’altro che rispettosi e dialogici. Fino al punto di pubblicare su Telegram l’indirizzo dell’abitazione romana del premer Draghi, con un minaccioso invito a ritrovarsi ogni sera davanti al suo portone.
La guerra del covid si è trasformata, insomma, in una guerra fratricida e assolutamente trasversale, che lacera le nostre società e rende problematica la serenità della convivenza, soprattutto in un momento in cui la pandemia e le misure sanitarie sono di fatto, ormai da mesi, l’argomento prevalente sia sui mezzi di comunicazione sia nelle conversazioni private. Per non rovinare il cenone di Natale sarà meglio, quest’anno, parlare del tempo e dei mutamenti climatici…
4. A Natale non siamo tutti fratelli
Ma la più grave smentita dello spirito natalizio è forse quella che viene dallo stile con cui la risorsa dei vaccini è stata finora gestita dalle società opulente, le quali, al di là di dichiarazioni prevalentemente retoriche, non hanno fatto quasi nulla per aiutare i Paesi poveri ad averne la quantità necessaria per le loro rispettive popolazioni.
«Il cartello di associazioni sanitarie e umanitarie People’s Vaccine Alliance denuncia che, rispetto agli 1,8 miliardi di dosi promesse al fondo Covax, nato per distribuire vaccini ai Paesi più poveri, al momento ne sono arrivate 261 milioni, solo il 12%» (A. L. Somoza, Vaccini ai paesi poveri, promesse da marinaio, su «Huffington Post», 26 ottobre 2021) .
E stenta ancora moltissimo a passare la richiesta di una moratoria dei diritti di proprietà intellettuale dei vaccini, proposta già nell’ottobre 2020 da India e Sudafrica e sostenuta energicamente da papa Francesco nella sua battaglia contro i “muri” che dividono i poveri dai ricchi
Si tratta, infatti, di una misura tesa a superare la logica capitalista dei monopoli con cui le grandi case farmaceutiche impediscono ai Paesi in via di sviluppo di produrre autonomamente i vaccini necessari a combattere la diffusione della pandemia.
Non tutti sanno che ad opporsi strenuamente da mesi a questa svolta è, insieme a Gran Bretagna, Svizzera e Canada, la Commissione Europea la quale, in alternativa, ha proposto che delle «licenze volontarie per il trasferimento di tecnologie alle aziende nei Paesi del Sud del mondo» venga effettuata dalle multiazionali farmaceutiche «in cambio di abolizione delle restrizioni commerciali, abbattimento delle barriere doganali, facilitazioni fiscali. Così i monopoli sono salvi» (N. Dentico, Covid. Vaccini. La Terza via dell’Europa mette all’angolo i Paesi poveri, su «Avvenire» 27 novembre 2021).
E questo mentre la stessa Commissione elaborava delle linee-guida, poi ritirate, in cui, per combattere ogni forma di discriminazione, si chiedeva ai suoi dipendenti di attenersi ad un «linguaggio inclusivo», da cui bandire nomi propri come Maria e Giovanni, perché presenti nella Bibbia, ed espressioni come “buon Natale”, da sostituire con “buone festività”, per rispetto alle culture non cristiane. Come se l’inclusività potesse realizzarsi annullando le differenti identità, invece che trattandole tutte con un rispetto che include la solidarietà.
Vecchia, ipocrita Europa senza più anima - un tempo cristiana e ora neppure umana! Altro che spirito di fraternità! Certo, la tristezza per questa perdita non può e non deve far dimenticare tanti meriti che, malgrado tutto, la rendono preziosa e che continuano ad alimentare la speranza di una sua rinascita. Peraltro, quello che il Natale richiederebbe non è un buonistico altruismo, ma la cura intelligente del suo stesso bene. Come è evidente nel caso dei vaccini. Gli immunologi sostengono che le varianti nascono e proliferano laddove la campagna vaccinale stenta a decollare. L’affacciarsi della versione omicron del covid, devastante per tutti, è dunque anche una conseguenza di questo miope egoismo dell’Occidente che, come tutti gli egoismi, alla fine non paga.
5. La festa di Dio è quella dell’uomo
Il “muro” che divide i Paesi ricchi da quelli poveri in tema di vaccini è solo un caso dei tanti, tutti drammatici sul piano umano, di cui le cronache di queste settimane sono piene. Basti pensare al dramma dei migranti ammassati alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, o a quello dei profughi di Lesbo, in riferimento a cui papa Francesco ha parlato di un «naufragio di civiltà»…
Il rinnegamento delle sue radici cristiane da parte dell’Europa, in ogni caso, non le stia portando fortuna. Si può non credere nel vangelo per fede, ma esso per secoli ha dimostrato la capacità di evidenziare i valori dell’umano (magari anche contro la Chiesa istituzionale, che è stata sempre più lenta a riconoscerli). La fraternità è uno di questi valori, come papa Francesco, nella sua enciclica «Fratelli tutti», ha voluto sottolineare. Il Natale ne è un simbolo eloquente.
Resta, per chi è aperto all’ascolto, il richiamo del messaggio cristiano ad un evento che non si presenta solo come un episodio del passato, di cui fare memoria, al pari della presa della Bastiglia o della proclamazione della Repubblica italiana, ma come una prospettiva di senso che può illuminare il futuro. Che Dio abbia voluto diventare uomo, che abbia condiviso la vita di ogni essere umano, specialmente dei più poveri, è una verità difficile da credersi – lo “spaventato”, colpito dalla follia per quello che accadeva, in fondo è l’unico personaggio del presepe che abbia realizzato l’inconcepibilità di ciò che stava accadendo - , ma sicuramente carica di significato. Alla luce del Natale, in ogni persona è possibile riconoscere il Suo volto divino: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me»» (Mt 25,40). Questa è la festa Dio, ma anche quella dell’uomo, soprattutto di chi è povero e debole.
Per questo, forse, al di là del discutibile intento dichiarato, aveva una sua logica l’idea della Commissione Europea di cancellare ufficialmente dal suo vocabolario il termine “Natale”.
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