ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La dirigenza giudiziaria tra realtà e futuro. 1. La “carriera” in magistratura. Problemi aperti, soluzioni apparenti e soluzioni possibili
di Edmondo Bruti Liberati
Sommario: 1. L’abbattimento della carriera. - 2. Il “sistema tabellare”. - 3. Il Csm e le “promozioni” dei magistrati. - 4. Le “non soluzioni” dei problemi. - 5. Alcune “modeste proposte”. - 6. La ineludibile discrezionalità del Csm. - 7. Ultimo.
1. L’abbattimento della carriera
La disposizione dell’art. 107, co. 3, Cost. “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” delinea un modello antitetico rispetto a quello dell’ordinamento Grandi, sostanzialmente ricalcato sulla organizzazione giudiziaria napoleonica. Le resistenze all’attuazione della radicale riforma imposta dalla Costituzione sono fortissime.
Il sistema di carriera allora in vigore prevede che dopo il superamento del concorso e pochi mesi di tirocinio sul campo, la prima destinazione degli uditori sia decisa dal Ministero non sulla base di criteri prefissati, ma secondo le "esigenze di servizio", concetto alquanto permeabile alle pressioni clientelari. I due anni successivi sono una sorta di periodo di prova, destinato a concludersi con un nuovo esame per la nomina ad aggiunto giudiziario anch'esso con impostazione sostanzialmente teorica. Per prepararsi bene alla prova scritta è utile riuscire a farsi assegnare ad una grande sede, magari ad una sezione civile del tribunale, o in alternativa, ad una sede o funzione con scarso carico di lavoro, ove poter continuare a coltivare gli studi. Di qui la fuga dalle sedi difficili e dagli uffici di prima linea ed in generale dal settore penale.
Le successive nomine-promozioni a magistrato di Tribunale e a consigliere di Appello sono conferite, all’esito di un concorso per titoli, da una commissione giudicatrice composta esclusivamente da alti magistrati; sono decisivi l’esame dei provvedimenti giudiziari redatti ed i pareri dei capi. Può capitare di essere stati assegnati ad un ufficio o funzione in cui si sia avuta l’occasione di trattare casi involgenti delicate questioni di diritto e quindi di avere scritto dotte sentenze o brillanti requisitorie. Ma può anche capitare di essere stati assegnati a sedi difficili o periferiche, nelle quali non vi è occasione e tempo per scrivere “trattatelli giuridici”. Il potere di conformazione della gerarchia interna non trova contrappesi e d’altronde, non vigendo alcuna regola per la assegnazione degli affari, ai giudici troppo zelanti può essere sottratto ogni caso di rilievo.
Poiché lo stipendio è collegato alle funzioni effettivamente svolte, la regola aurea è quella di non porsi in contrasto con la gerarchia e di non attardarsi in uffici o funzioni di “prima linea” poco indicati per la redazione di provvedimenti brillanti, di non esplorare soluzioni giuridiche innovative e, men che meno, promuovere indagini scomode per esponenti del potere politico o economico.
Nessuno allora parla di "politicizzazione" della magistratura: il sistema di carriera è decisivo nell’assicurare una sintonia con il potere. In un’incisiva rievocazione del clima di quegli anni è stato scritto:
“influiva su tale sintonia il fatto che ogni magistrato in qualche modo dipendesse dal potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice genetico; l' imprinting escludeva scelte, gesti, gusti ripugnanti alla biensèance filogovernativa; ed essendo una sciagura l'essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico" [1].
Nell’arco di un decennio, tra il 1963 ed il 1973, il sistema di carriera è radicalmente modificato realizzandosi il distacco della categoria (grado) dalla funzione, con un sistema di progressione cosiddetta a ruoli aperti, che consente di conseguire la categoria e lo stipendio della funzione superiore pur continuando a svolgere le funzioni svolte in precedenza[2].
Il vecchio modello di carriera cade per la sua irrazionalità interna e senza l’affanno dell’avanzamento verso le funzioni “superiori” di appello e cassazione, magistrati con esperienza assicurano delicatissime funzioni di “prima linea” nelle preture, nelle procure e nei tribunali, come giudici e giudici istruttori.
Questa magistratura “senza carriera” affronterà le grandi riforme degli anni ’70 e poi criminalità organizzata, mafia, terrorismo e corruzione.
2. Il “sistema tabellare”
Nonostante la diversa opinione della Cassazione e le oscillazioni della Corte Costituzionale, il Csm, già a partire dalla fine degli anni '60, si era indirizzato verso una attuazione rigorosa del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, co. 1, Cost.), riferendolo non solo all’organo giudiziario, ma anche alle persone fisiche dei giudici. La questione era stata posta sin dal 1963 da Gaetano Foschini con il celebre articolo Giudici in nome del popolo, non già commissari del capo della corte:
Impedire che un dato processo possa essere giudicato dal Tribunale di Catania invece che da quello di Ragusa non vale niente, se non resta impedito anche che si costituisca il tribunale di Ragusa applicando ad esso i giudici del tribunale di Catania[3].
Il Csm rivendica il suo sindacato sui provvedimenti di applicazione e supplenza e costruisce progressivamente il “sistema tabellare” con le circolari per la formazione delle tabelle di composizione degli uffici giudiziari ed i criteri di assegnazione degli affari. Tali circolari rappresentano uno dei più rilevanti esempi dell’attività “paranormativa” del Consiglio.
Per la prima volta in un testo di legge viene prevista la precostituzione del giudice, non solo come ufficio, ma anche come persona fisica, con un esplicito riferimento alla formazione delle tabelle da parte del Csm, con l’art. 25 della legge 6 agosto 1982 n. 532 istitutiva del Tribunale della libertà poi Tribunale del riesame
Il Parlamento dà riconoscimento al sistema tabellare: in questa materia si è istituito tra Csm e Parlamento un “circolo virtuoso”[4]. Ma prima ancora ha operato in modo “virtuoso” l’influenza delle “correnti” dell’Anm sul Csm. La limitazione del potere arbitrario dei capi degli uffici che nasce come richiesta “corporativa”, che peraltro si fonda sul principio dell’indipendenza interna, approda a rendere effettiva la garanzia del giudice naturale.
3. Il Csm e le “promozioni” dei magistrati
Tra le attribuzioni del Csm definite all’art. 105 della Costituzione vi sono le “promozioni” dei magistrati. Il costituente, ricorrendo alla locuzione “promozioni”, risente certamente del tradizionale assetto gerarchico che connotava la magistratura, ma chiaro è il riferimento ai dirigenti degli uffici, la cui nomina si vuole sottratta ad ogni ingerenza politica.
Una volta portata a conclusione la piena attuazione della indipendenza interna prescritta dall’art. 107, co. 3, con l’abbattimento della carriera e soprattutto con la piena attuazione del sistema tabellare, il ruolo dei dirigenti degli uffici giudiziari potrebbe sembrare destinato se non a scomparire almeno a divenire marginale. E di conseguenza drasticamente ridimensionato il ruolo di un Csm che selezionasse i dirigenti degli uffici secondo un rigido criterio di anzianità.
Sappiamo che non è andata così. La piena attuazione della indipendenza interna con il sistema tabellare è arrivata a compimento solo alla metà degli anni Ottanta del Novecento e l’influenza dei dirigenti sul merito dei provvedimenti dei giudici “in sottordine” ha continuato a lungo a pesare.
Per altro verso per gli uffici di Procura la disposizione dell’art. 107, co. 4, Cost. (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) ha precluso la operatività di una rigida applicazione del sistema tabellare e ha consentito il permanere di un assetto, che pur non potendosi definire propriamente gerarchico, ha attribuito al procuratore rilevanti poteri direttivi e organizzativi.
La nomina degli incarichi direttivi (e semidirettivi), lo sappiamo, è stata e continua ad essere una delle attribuzioni più rilevanti, nel bene e nel male, del Csm e dunque tra le più controverse. Attribuzione rilevante nel male perché oggetto, non da oggi, di scontri di potere, di pratiche di scambio e di posizioni settarie delle componenti togate non meno che delle laiche. Ma attribuzione sempre più rilevante nel bene negli ultimi decenni, quando la crisi di efficienza del sistema giudiziario, ha posto in primo piano il ruolo di “servizio” del dirigente nella assunzione delle scelte organizzative. Questione ulteriormente accentuata per i problemi di gestione delle risorse poste a disposizione del sistema giustizia dal PNRR.
Le criticità dell’organizzazione giudiziaria e l’inadeguatezza del servizio giustizia sono sotto gli oggi di tutti. Peraltro si riconosce che negli anni più recenti vi sono stati notevoli miglioramenti, anche se con forti difformità[5]. “Se l’iniziativa virtuosa di alcuni uffici è dipesa dall’impulso dato dai presidenti di Tribunale e dai procuratori della Repubblica, il più significativo laboratorio di innovazione organizzativa attivo nel settore giustizia in Europa si è trovato in Italia a partire dal 2007, quando l’Unione Europea finanzia con il Fondo Sociale Europeo il programma Diffusione delle best practices negli uffici giudiziari”[6]. Al programma Best Practices hanno partecipato attivamente molti uffici giudiziari grandi e piccoli e il Csm ha svolto un ruolo significativo di propulsione, raccolta di esperienze locali e iniziative di coordinamento.
È diffusa l’opinione che le inefficienze del sistema giustizia, in particolare nel civile, penalizzino e ostacolino lo sviluppo del tessuto imprenditoriale e produttivo del Paese: vedi lo studio “Efficienza della giustizia e lotta alla corruzione quali elementi per la competitività del Sistema Paese. Analisi dello status quo e proposte di intervento” curato dal Gruppo di Lavoro The European House – Ambrosetti presentato al Forum del settembre 2020. È significativo peraltro che nel segnalare le criticità il Rapporto dia atto, in più passaggi e con accenti di apprezzamento, delle iniziative poste in essere dal Csm e tuttora in evoluzione.
Il sistema tabellare, precludendo ogni arbitrio del dirigente nella scelta del giudice cui affidare un caso specifico, ha assicurato l’effettivo operare della garanzia del giudice naturale precostituito, ma non ha affatto sminuito il ruolo del dirigente. La predisposizione del progetto tabellare è un momento rilevantissimo nella assunzione di responsabilità sulla organizzazione dell’ufficio, in relazione alla concreta disponibilità delle risorse di personale di magistratura, personale amministrativo, strutture logistiche e tecnologiche. In questa prima fase è essenziale che il dirigente del Tribunale coinvolga i magistrati dell’ufficio, si confronti con il dirigente amministrativo, nonché con il procuratore e l’avvocatura. Il controllo/approvazione da parte del circuito del governo autonomo, Consigli giudiziari e Csm, è momento di garanzia, ma non deve trasformarsi, come talora accade, in occhiuto burocratico esame che può avere il risultato di deprimere l’assunzione di responsabilità da parte del dirigente.
Finalmente con il disegno di legge A.C. 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario anche nella procedura di approvazione del Progetto organizzativo delle procure è coinvolto il circuito del governo autonomo. Ma la peculiarità dell’ufficio di procura sottolinea ulteriormente la assunzione di responsabilità del Procuratore. L’ufficio del pm è composto da magistrati indipendenti, ma è organizzato su una struttura in qualche modo gerarchica. Se poi con termini più moderni invece che di gerarchia si parla di governance, di cui il Procuratore è responsabile, il problema rimane. Il singolo pm agisce necessariamente con una forte impronta personale, ma è inserito in una struttura organizzativa.
Il modello rigidamente gerarchico è in crisi in ogni organizzazione complessa, tanto meno può reggere a fronte delle garanzie di indipendenza dei singoli magistrati di una Procura. Rischia di essere sostituito da un modello paternalistico “siamo una famiglia”, che nella pratica vive su una massiccia dose di ipocrisia, ma l’ufficio di procura non si può reggere sull’allegra anarchia o su un modello assembleare.
4. Le “non soluzioni” dei problemi
Le critiche alla gestione da parte del Csm delle nomine agli incarichi direttivi hanno visto la proposta di soluzioni “radicali”.
La più drastica sarebbe il ritorno ad una ingerenza, più o meno accentuata, dell’esecutivo. Nessuno osa proporlo apertamente ma vale la pena di rammentare che questa è stata ed è tuttora in diversi paesi la alternativa alla attribuzione di queste nomine ad organismi del tipo Csm. La torsione autoritaria che ha contraddistinto in Europa paesi come la Polonia e l’Ungheria si è puntualmente tradotta in un ridimensionamento delle attribuzioni degli organismi del tipo Consigli Superiori o Consigli di Giustizia in favore dell’esecutivo. Di fronte a posizioni liquidatorie non è vano riproporre per il Csm quanto disse Winston Churchill nel discorso alla Camera dei Comuni, novembre 1947: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
Tra le “non soluzioni” ricorre il mito del criterio dell’anzianità. Declinato in modo rigido esclude ogni discrezionale del Csm e dunque ogni possibile critica ed assicura che non si prenda in alcuna considerazione la questione della organizzazione degli uffici, essendo evidente che l’anzianità di per sé nulla dice sulle capacità organizzative dei candidati. Declinato in modo temperato come “anzianità senza demerito” o “anzianità a parità delle altre condizioni” questo criterio lascia aperti tutti i problemi sull’esercizio del potere discrezione del Csm, non essendovi una unità di misura univoca per il “demerito” o per la situazione di “parità delle altre condizioni”. Ed infatti nei periodi nei quali circolari e prassi sembravano privilegiare in modo netto il criterio dell’anzianità, il Csm, e ancora una volta sia nel bene che nel male, se ne è di volta discostato con tutte le conseguenti polemiche. Una esperienza da non dimenticare è quella del Csm eletto nel 1972; grazie al sistema maggioritario il gruppo di Magistratura Indipendente, con un efficace sistema di alleanze e di concentrazione dei voti, riesce ad assicurare al suo schieramento tutti i seggi con circa il 40% dei voti. Non vi sono studi statistici accurati sulla “politica delle nomine” di quel Csm, ma secondo una valutazione diffusa capitò che, vigendo il criterio dell’anzianità, il residuo margine di discrezionalità nella valutazione del “demerito” e della “parità delle altre condizioni”, abbia determinato che la scelta finale del Csm sia caduta nella maggioranza dei casi su magistrati vicini alle posizioni del gruppo di MI.
Una, più raffinata, ma pur sempre “non soluzione” è stata di recente avanzata da Luigi Ferrajoli.
“È il problema della carriera che va risolto alla radice, eliminando o quanto meno riducendo i presupposti e le ragioni del carrierismo. Dobbiamo infatti riconoscere che la carriera è incompatibile con l’indipendenza interna dei magistrati e perciò della giurisdizione”[7].
Nella linea del contrasto a “carriere e carrierismi”, Ferrajoli avanza diverse radicali indicazioni: “La regola deontologica, per così dire di stile, dovrebbe consistere nel rifiuto della carriera. […] Le riforme, a loro volta, dovrebbero consistere nella soppressione dei presupposti delle carriere”; ma poi, più pragmaticamente, finisce per indicare come rimedi la “effettiva temporaneità degli uffici dirigenti” e per “riabilitare […] il vecchio principio dell’anzianità, ovviamente salvo che il più anziano abbia chiaramente demeritato”. Ed infine, poiché occorre pur misurarsi con il tema della gestione organizzativa degli uffici giudiziari, Ferrajoli conclude: “Si potrebbe poi affiancare, ai capi degli uffici direttori amministrativi competenti all’organizzazione degli uffici, come avviene nelle università e negli ospedali, ovviamente senza alcun potere sulla giurisdizione”. Si arriva così all’ idea di solito nobilitata con l’espressione Court Manager.
Quarta “non soluzione”: l’idea del Court Manager. Ancora da ultimo è stata rilanciata la introduzione negli uffici giudiziari di figure «simili ai court manager, soggetti titolari del caseflow management - cioè, della gestione dei procedimenti e del loro flusso - negli uffici giudiziari statunitensi». Così la proposta del “Comitato programma per l'Italia", presentato su Il Sole 24 Ore il 16 giugno 2021 da Carlo Cottarelli e Alessandro De Nicola.
Sul tema si esprime anche The European House Ambrosetti “Ridisegnare l’Italia. Proposte di Governance per cambiare il Paese - Forum 2021 di Ambrosetti Club 30 marzo 2021” (p. 195) presentato all’ultimo Forum di Cernobbio.
“Introduzione della figura del Court Manager – da selezionare tra manager privati o magistrati che scelgono di dedicarsi esclusivamente ad una carriera gestionale-ammnistrativa – a cui affidare l’amministrazione e l’organizzazione gestionale dell’ufficio giudiziario secondo logiche di coerenza tra obbiettivi e risorse assegnate”.
Il “trapianto” di modelli in contesti diversi per lo più ha dato risultati controproducenti. Ma qui si tocca il nucleo della funzione del magistrato dirigente, giudice o pm. Per i Tribunali la «gestione dei procedimenti e del loro flusso» deve muoversi nel delicato equilibrio tra produttività e celerità da un lato e dall’altro nel rispetto delle garanzie dei giudicabili, prima tra tutte quella del «giudice naturale precostituito» (art.25 Cost.) attraverso il sistema delle «tabelle di composizione degli uffici». “Chi si occupa di cosa?”, nella tradizione, lo decideva il presidente del Tribunale a suo arbitrio; peggio ancora attribuire oggi questo ruolo a un Court Manager. Per la Procura l’attività di indagine è inestricabilmente connessa e condizionante dalle scelte procedurali e gestionali del singolo magistrato nel quadro stabilito dal Procuratore nel Progetto organizzativo.
Piuttosto che pensare a un Court Manager (selezionato da chi?) occorre un forte impegno del Ministero per la formazione e riqualificazione del personale amministrativo, per recuperare il disastro di venti anni di mancato turn over. La Scuola Superiore della magistratura oltre a proseguire nei corsi di gestione degli uffici per gli aspiranti dirigenti deve già nel tirocinio iniziale proporre questa tematica ai neomagistrati.
Quinta “non soluzione” il ritorno al voto segreto in plenum. Le ragioni pro o contro il voto segreto sono note. Vale qui la pena di ricordare che il voto palese fu introdotto con modifica del regolamento interno del Csm alla metà degli anni Ottanta, sulla constatazione che il voto segreto in diverse occasioni, piuttosto che operare a favore della piena libertà del singolo consigliere, si era prestato a logiche di accordi senza alcuna assunzione di responsabilità. Aveva giocato la recente esperienza della controversa nomina del Procurare della Repubblica di Roma, avvenuta con risicata maggioranza: a stare alle dichiarazioni pubbliche rese da numerosi consiglieri quella maggioranza non sarebbe stata raggiunta.
5. Alcune “modeste proposte”
Abbassare la febbre non cura la malattia, ma aiuta. Tre possibili interventi.
Primo. Negli emendamenti recentemente depositati dal Governo al disegno di legge A.C. 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario all’art 1, comma 1, la lettera a), dopo la parola “semidirettivi” sono aggiunte le seguenti “di rivedere il numero degli incarichi semidirettivi”. Se, come pare di comprendere, la revisione operasse nel senso della riduzione la proposta sarebbe pienamente condivisibile. Leggiamo talora in un articolo su rivista accanto al nome del magistrato la qualifica “presidente titolare di sezione…”. Una dizione che ai profani occorre spiegare perché è il risultato del nonsense della esistenza (in particolare in Appello e in Cassazione) di presidenti di sezione che non presiedono nessuna sezione, perché vi sono più presidenti che sezioni. La riduzione dovrebbe operare anche nelle Procure per i procuratori aggiunti, oggi decisamente pletorici.
Secondo. Quanto ai direttivi l’effetto di riduzione sarebbe la conseguenza di una riforma tanto necessaria ed urgente, quanto ignorata: superare i limiti della benemerita quanto incompiuta “riforma Severino”. È la cosiddetta regola del 3: immutate le Corti di Appello, mantenere tutti i Tribunali capoluogo di provincia, almeno tre tribunali per ogni Distretto. Per le Corti di Appello il principio dovrebbe essere quello di una per regione. Ma la Sicilia ne ha quattro: Palermo, Caltanissetta, Messina e Catania; la Puglia ne ha, di fatto, tre: Bari, Lecce e Taranto. Se due Corti sono sufficienti per macroregioni come Lombardia e Campania altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. E’ stato insensato mantenere un Tribunale in ogni capoluogo di provincia, tanto sono diversificate le situazioni. Per la revisione non si partirebbe da zero. Vi è la proposta della Commissione Vietti del 2016 e il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati aggiornati necessari. Vi è almeno una ventina di piccoli, troppo piccoli, tribunali in Italia che per loro ridotte dimensioni non sono in grado di garantire efficienza, ed entrano in crisi quando sopravvengono emergenze. L'occasione è unica: fondi europei da utilizzare nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Pnrr, concorsi per nuovi magistrati, assunzione di personale amministrativo e ufficio per il processo. Bruxelles vigilerà giustamente su come saranno gestiti i fondi europei. In mancanza di un incisivo e preventivo intervento sulla revisione della geografia giudiziaria sarà inevitabile un rilevante spreco di risorse. Ma il tema è tabu. Anzi le cronache riferiscono di diversi convegni nel centro-sud ove avvocatura e amministrazioni locali invocano la riapertura di mini tribunali soppressi (o “provvisoriamente” mantenuti come in Abruzzo a seguito del sisma). Tra accorpamenti di Tribunali e di Corti di Appello si arriverebbe alla soppressione di una cinquantina di posti direttivi, tra giudicanti e requirenti.
Terzo. Porre dei limiti al “cumulo” di incarichi. Negli emendamenti recentemente depositati dal Governo al disegno di legge A.C. 2681 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario il nuovo art. 2 co. 1 lett. i) prevede:
stabilire che il magistrato titolare di funzioni direttive o semidirettive, anche quando non chiede la conferma, non può partecipare a concorsi per il conferimento di un ulteriore incarico direttivo o semidirettivo prima di sei anni dall’assunzione delle predette funzioni, fermo restando quanto previsto dagli articoli 45, comma 1, e 46, comma 1, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, in caso di valutazione negativa.
Su altro piano un quarto intervento.
Abbandoniamo la “americanata” del Court Manager e investiamo sul nostro personale amministrativo. Anzitutto nuovi concorsi per colmare i vistosi vuoti di organico provocati dalla dissennata pluriennale politica di blocco del turn over. Cogliere l’occasione per il reclutamento di profili professionali più adeguati alle nuove esigenze richieste dalle innovazioni organizzative nel frattempo intervenute. Infine sperimentare corsi comuni di formazione per dirigenti magistrati e dirigenti amministrativi.
6. La ineludibile discrezionalità del Csm
L’attuazione pratica del sistema di valutazione dei magistrati è oggetto di, non del tutto ingiustificate, critiche. Attualmente sono previsti tre tipi di valutazione: negativo, non positivo e positivo. La Commissione Luciani prevede che il giudizio positivo sia ulteriormente articolato in “discreto, buono o ottimo con riferimento alle capacità di organizzazione del proprio lavoro”.
Si stabilisce una graduatoria più dettagliata, che peraltro non esprime un valore in assoluto, ma si riferisce esclusivamente alle capacità organizzative. E’ vero che le valutazioni “negative” e “non positive” costituiscono una percentuale ridottissima. A dispetto dei toni polemici con i quali spesso sono citati questi dati, si deve ricordare che è del tutto fisiologico che i casi di magistrati da “espellere” siano limitati, come risulta anche dalle statistiche di altri paesi europei. Semmai si dovrebbe ammettere una maggiore possibilità di ricorrere alla valutazione “non positiva”, la quale, senza l’attuale automatismo della decadenza dall’ordine giudiziario in caso di reiterazione, potrebbe valere come robusto stimolo a correggere insufficienze.
L’idea sottesa alle posizioni liquidatorie dell’attuale sistema di valutazioni sembra essere quella di stabilire tra i magistrati una graduatoria di merito assoluto. Una tale graduatoria è impraticabile, tanto diverse sono le funzioni e le specializzazioni in magistratura; si dimentica poi che l’obbiettivo da perseguire non può essere quello di selezionare un gruppetto di magistrati eccellenti, da assegnare magari agli uffici più importanti, ma quello di assicurare comunque un livello medio diffuso di adeguata professionalità, sempre in aggiornamento. L’obbiettivo condivisibile dell’emendamento proposto è quello di arricchire gli elementi di valutazione presenti nel fascicolo personale per l’eventuale futuro conferimento di funzioni direttive o semidirettive.
Se compito difficile è quello della valutazione della professionale di tutti i magistrati, ben più arduo quello di individuare “l’uomo giusto al posto giusto”, si diceva ieri e oggi “la persona giusta al posto giusto” per un incarico direttivo. Per quanto, meritoriamente, si indichino le qualità richieste: capacità organizzativa, preparazione giuridica, esperienza, capacità di interrelazione etc, rimane il fatto che non vi sono unità di misura per valutare ciascuna di queste qualità e la sintesi complessiva e men che meno per rapportarle alla specificità del singolo incarico direttivo da coprire.
Sono ovvietà, ma normalmente eluse, perché costringono a misurarsi con l’ineluttabile rilevante tasso di discrezionalità nella scelta del dirigente di un ufficio giudiziario, a chiunque questa scelta sia alla fine attribuita: esecutivo, Csm o giudice amministrativo.
Tralasciando qui i due termini estremi, fissiamo l’attenzione su un organismo come il Csm a composizione mista di laici e togati.
Tralasciamo le patologie degli accordi di scambio che investono una pluralità di posti, logica che può essere contrastata solo da un impegno etico, dal recupero di credibilità della giustizia, il “voltare pagina” richiesto dal Presidente Mattarella già il 21 giugno 2019, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione.
Tralasciamo ancora il caso, non infrequente peraltro, in cui per quel posto vi sia una candidatura che spicca nettamente sulle altre e che raccoglie la unanimità dei consensi.
Nella maggioranza dei casi, o comunque molto frequentemente, vi possono essere due, tre quattro persone “abbastanza giuste” per quel posto. Il Csm è composto da donne e uomini, togati e laici, che è da supporre abbiano delle loro idee sui temi di giustizia in generale e sulla organizzazione giudiziaria. La prassi costante ha condotto il Parlamento, nella nomina dei laici, ad assicurare il pluralismo delle posizioni politico/culturali. Qualunque sia il sistema elettorale dei togati anche i consiglieri hanno posizioni politico culturali sui temi di giustizia.
L’idea che vi siano unità di misura incontrovertibili per pesare le qualità che condurranno alla ineluttabile indicazione per uno ed un solo candidato a quel posto è all’evidenza fuori della realtà. La linea di individuare parametri, indicatori etc è animata da buone intenzioni, ma quando viene spinta troppo oltre (come si è verificato) dimostra la permanente validità del detto sul modo migliore per lastricare la via per l’inferno.
Le donne e gli uomini, laici e togati, che compongono il Csm “a parità di condizioni” (con tutti i limiti che abbiamo indicato per questo riferimento) del tutto legittimamente si orienteranno nel voto per “la persona giusta al posto giusto” sulla base di valutazioni discrezionali. Meglio per quel posto privilegiare le capacità organizzative o la competenza giuridica, meglio per quel posto di procuratore un candidato esperto particolarmente in criminalità organizzata piuttosto che in reati societari? E infine, sempre “a parità di condizioni”, non potrò legittimamente preferire quel candidato che è più vicino alle mie idee sul ruolo del giudice e della giurisdizione? Ed ancora, sempre “a parità di condizioni” potrò legittimamente preferire un candidato vicino alle mie idee tradizionaliste in materia di giustizia ovvero, per essere “imparziale”, dovrei votare per il candidato piuttosto innovatore e progressista, il più lontano dalle mie idee?
Problemi aperti, questioni delicate. Il peggio è far finta che non esistano.
Ed ancora. La procedura per la nomina dei direttivi è articolata tra la fase iniziale della proposta della Commissione Direttivi e il voto finale del plenum. Dobbiamo immaginare che la maggioranza dei consiglieri, quelli che non fanno parte della Commissione, ma il cui voto sarà decisivo in plenum, arrivino alla delibera finale del tutto vergini e lì per la prima volta apprendano del dibattito che si è svolto in commissione e delle motivazioni che sorreggono eventuali alternative proposte? Si deve nominare il Presidente della Cassazione, il Procuratore della Repubblica di Palermo, il Presidente del Tribunale di Milano o anche il Presidente del Tribunale della piccola città nella quale io togato ho prestato servizio o io laico esercito come avvocato o insegno alla locale Università ed io togato o laico, che non faccio parte della Commissione, per essere “imparziale” mi disinteresso totalmente della questione prima del plenum. Nel mentre magari la stampa dà ampiamento conto del profilo dei candidati. Tutto ciò non solo è fuori della realtà, ma è irragionevole. Deprechiamo giustamente accordi sotterranei e logiche deteriori di scambio. Il Csm è un organo collegiale che non ha e non deve avere una maggioranza stabile precostituita. La maggioranza pur necessaria per la decisione finale in plenum non può che formarsi attraverso la convergenza di posizioni diverse e, auspicabilmente, dopo un previo confronto e scambio di opinioni e di valutazioni, che abbia consentito una presa di posizione più consapevole sulle proposte della Commissione.
7. Ultimo
Smettiamola di piangerci addosso. L’Hotel Champagne esiste e pesa come un macigno da superare, ma il mondo non inizia e non finisce lì. Il Csm nei sessant’anni di vita non sempre ha operato le scelte più adeguate nella nomina dei dirigenti. Ma chi ha vissuto in magistratura l’ultimo mezzo secolo può testimoniare, senza tema di smentite, che il livello medio della dirigenza è cresciuto in una progressione costante e significativa. Molto resta da fare, ma, nonostante tutto, moltissimo è stato fatto.
[1] F. Cordero, I poteri del magistrato, in “L'indice penale”, n. 1, 1986, p.31.
[2] Sulla vicenda della riforma della “carriera” vedi E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari-Roma 2918 p. 79 sgg.
[3] G. Foschini, Giudici in nome del popolo, non già commissari del capo della corte, in “Foro Italiano”, 1963, II, c.168 sgg. Sul tema R. Romboli, Il giudice naturale, Giuffrè, Milano 1981.
[4] S. Senese, La prassi applicativa del Csm, in Il principio di precostituzione del giudice, Quaderni del Csm cit.p.240.
[5] Si veda in particolare D. Piana, Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Il Mulino, Bologna 2016
[6] D. Piana, Uguale per tutti? cit. , p. 94-95
[7] L. Ferrajoli, Magistratura e democrazia, in Questione giustizia 28 luglio 2021
Il difficile, ma necessario, sforzo per perseguire in concreto il superiore interesse del minore: un’ipotesi di adozione aperta di Ettore Battelli
Sommario: 1. La fattispecie concreta e la decisione - 2. La tutela del minore oltre l’alternativa fra affidamento e adozione legittimante - 3. Le soluzioni sviluppatesi dalla prassi: l’adozione mite… - 4. …e l’adozione aperta.
1. La fattispecie concreta e la decisione
La sentenza n. 1/2022 della Sezione Minorile della Corte d’Appello di Roma rappresenta un’ipotesi emblematica di ricerca ed individuazione della soluzione maggiormente idonea, fra quelle astrattamente contemplate dall’ordinamento, a garantire pienamente tutela al best interest of the child[1].
A fronte di una situazione di partenza caratterizzata da un grave disagio familiare, che malgrado gli aiuti e il sostegno costantemente offerti non ha dato luogo ad alcun apprezzabile miglioramento, finendo per rilevarsi gravemente pregiudizievole per una sana crescita della minore S.C., il Tribunale per i Minorenni di Roma era giunto a dichiararne lo stato di adottabilità e, tra l’altro, a disporne il divieto di contatto con i genitori e con i familiari.
La madre S.B. e la nonna materna S.S. proponevano separatamente appello, chiedendo ciascuna la revoca della dichiarazione di adottabilità e, conseguentemente, che fosse disposto l’affidamento della bambina presso di sé ovvero, in subordine, che si procedesse ad un’adozione mite, ossia all’adozione in casi particolari ex art. 44, L. 184/1983, con mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine[2].
La Corte d’Appello, dopo aver preliminarmente disatteso una serie di eccezioni di rito[3], ha condiviso pressoché totalmente le valutazioni compiute dal primo giudice circa l’irrecuperabilità in tempi ragionevoli delle capacità genitoriali (come da ultimo prescritto dall’art. 15, co. 1, lett. c, L. 184/1983, così come modificato dall’art. 100, co. 1, lett. l, d.lgs. 154/2013)[4], alla luce delle reiterate opportunità non sfruttate e del radicale distacco dalla madre indotto nella minore; la pronuncia di primo grado è stata riformata esclusivamente nella parte in cui aveva disposto il divieto di contatto (anche con la nonna materna), disponendo invece che «i servizi territoriali competenti in relazione al luogo di residenza della minore [S.], in collaborazione con la famiglia adottiva, con i tempi e le modalità meglio rispondenti agli interessi della minore, predispongano ed attuino la ripresa degli incontri della minore con la nonna [S.S.], mediante contatti telefonici, via internet e di videochiamata, con la frequenza adeguata al mantenimento del rapporto ed alla risposta di [S.], valutando in seguito e secondo l’interesse della minore la possibilità di effettuare annualmente eventuali incontri in presenza, facendo salva l’esigenza di mantenere riservata l’identità dei genitori adottanti ed il collocamento della minore»[5].
La Corte si mostra espressamente consapevole «dello sforzo aggiuntivo che tale generosa apertura richiede alla coppia adottante», ma aggiunge che «proprio il perseguimento, oltre il proprio, dell’interesse superiore di [S.], che dalla nonna ha ricevuto, nei limiti delle possibilità concrete concesse a questa, affetto e accudimento, è la finalità dell’adozione»[6].
2. La tutela del minore oltre l’alternativa fra affidamento e adozione legittimante
La vicenda giudiziaria, che ha trovato il proprio epilogo definitivo (a meno di un eventuale ricorso per cassazione nei termini di rito) nella sentenza in commento, conferma l’opinione ormai ampiamente condivisa in dottrina secondo cui la L. 184/1983 è stata sì una “buona legge”, che – soprattutto a seguito delle riforme apportate dalla L. 149/2001 – ha posto il nostro ordinamento all’avanguardia nel panorama europeo[7], ma non risulta più pienamente adeguata ad offrire sempre e comunque una risposta soddisfacente, nell’ottica della tutela del best interest of the child[8], a tutte le situazioni di criticità in cui i minori possono venire a trovarsi nel nucleo familiare di origine[9].
Nello specifico, la L. 184/1983 prevede tre diversi percorsi a seconda del grado di criticità della situazione familiare in cui versi il minore. In particolare, se le difficoltà sono abbastanza modeste, e soprattutto se i genitori hanno l’intenzione e la capacità di collaborare, o almeno non si oppongono, è previsto l’intervento diretto dei servizi sociali, al fine di aiutare in vari modi la famiglia intera, a beneficio del minore, affinché́ possa proseguire a vivere presso di essa[10].
Nel caso in cui, invece, le difficoltà siano gravi, ma temporanee, e cioè appaiano superabili in tempi sufficientemente rapidi, è possibile ricorrere allo strumento dell’affidamento familiare (titolo I bis, L. 184/1983). Infine, solo qualora le difficoltà siano molto gravi o si traducano in maltrattamenti rilevanti, o ancora si determini una situazione di abbandono del minore non superabile in tempi sufficientemente rapidi, si potrà procedere alla dichiarazione di adottabilità del bambino e all’affidamento preadottivo[11] (art. 27, L. 184/1983).
L’alternativa “secca” tra affidamento familiare e adozione legittimante[12], a seconda della temporaneità o meno dell’inidoneità dell’ambiente familiare di origine, non ha offerto un’adeguata tutela al diritto del minore a crescere (non semplicemente “in famiglia”, ma) “nella propria famiglia”[13]; talvolta questo diritto può infatti ricevere una declinazione diversa, ma comunque funzionale a garantire pienamente il superiore interesse del minore nella massima misura possibile nel caso concreto: qualora non sia possibile crescere “nella propria famiglia” (perché irreversibilmente inadeguata a svolgere le proprie funzioni educative), dev’essergli riconosciuta la possibilità “con la propria famiglia”, mantenendo una relazione affettiva con tutti o alcuni familiari che rappresentino per lui delle figure significative[14].
A livello legislativo sono stati, insomma, trascurati i pur frequenti casi in cui la famiglia non sia in grado di rispondere alle esigenze educative del minore “in modo parziale ma definitivo”: trattasi del c.d. “semi-abbandono permanente”[15]. In questi casi, l’affidamento familiare “non era abbastanza”, perché si lasciava il minore in una situazione di limbo, senza assicurargli relazioni familiari connotate da quella stabilità necessaria per un sano percorso di vita e di crescita (dando altresì vita al fenomeno degli affidamenti sine die[16], divenendo il periodo massimo di ventiquattro mesi di cui all’art. 4, co. 4, L. 184/1983, com’è stato efficacemente affermato, «più un auspicio del legislatore che una realtà»[17]). Per converso, l’adozione legittimante “era troppo”, perché caratterizzata dalla recisione dei legami con la famiglia di origine, che potevano comportare un ulteriore trauma affettivo per il minore che passava da una situazione di semi-abbandono a una di abbandono (il più delle volte) senza riuscire a comprenderne fino in fondo le ragioni (e finendo, magari, inconsciamente per attribuirne a sé stesso la responsabilità).
3. Le soluzioni elaborata dalla prassi: l’adozione mite…
La giurisprudenza minorile si è fatta carico di offrire una risposta soddisfacente anche alle situazioni di semi-abbandono permanente, sfruttando le potenzialità applicative degli istituti esistenti nell’ordinamento.
In particolare, è stato elaborato – significativa l’esperienza del Tribunale per i Minorenni di Bari – il modello della c.d. “adozione mite”[18], frutto di un’interpretazione estensiva della c.d. adozione in casi particolari (o semplice) disciplinata dall’art. 44, co. 1, lett. d), L. 184/1983, che consente l’adozione «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo». Secondo tale indirizzo interpretativo, sarebbe possibile fare ricorso all’adozione semplice non solo nei casi di “impossibilità fattuale” di procedere a un’adozione legittimante, ma anche in quelli di “impossibilità giuridica”, ossia quando manchi lo stato giuridico di abbandono e non ricorrano, comunque, le condizioni per la dichiarazione dello stato di adottabilità, o ancora nei casi di minori abbandonati in affidamento familiare da oltre due anni, con conseguente consolidamento affettivo con gli affidatari, e che si trovino nella impossibilità di tornare nella famiglia di origine, per il perdurare della situazione di grave difficoltà e disagio che aveva portato all’affidamento[19].
Malgrado l’istituto non sia stato esente da forti critiche in merito alla sua effettiva idoneità a perseguire il best interest of the child[20], esso risulta sostanzialmente imposto (per lo meno sino a quando, a livello legislativo, non verrà individuata una soluzione parimenti adeguata) alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[21], che in più di un’occasione ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU) allorquando fossero stati interrotti i rapporti fra genitore e figlio, procedendo alla dichiarazione di adottabilità di quest’ultimo, senza aver preventivamente messo in atto adeguate misure volte a favorire il mantenimento dei rapporti medesimi.
In particolare, nella nota pronuncia Zhou c. Italia del 21 gennaio 2014[22] è stato evidenziato «che la necessità fondamentale di preservare per quanto possibile il legame tra la ricorrente – che si trovava peraltro in situazione di vulnerabilità – e il figlio non [era] stata debitamente presa in considerazione. Le autorità non [avevano] messo in atto misure volte a preservare il legame familiare tra la ricorrente e il figlio e di favorirne lo sviluppo. Le autorità giudiziarie si [erano] limitate a prendere in considerazione alcune difficoltà, che avrebbero potuto essere superate per mezzo di un’assistenza sociale mirata. La ricorrente non [aveva] avuto alcuna possibilità di riallacciare dei legami con il figlio: di fatto, i periti non [avevano] valutato le possibilità effettive di un miglioramento delle capacità della ricorrente di occuparsi del figlio, tenuto conto anche del suo stato di salute». La Corte di Strasburgo non ha mancato di far presente che essa fosse «ben consapevole del fatto che il rifiuto da parte dei tribunali di pronunciare un’adozione semplice risulta dall’assenza nella legislazione italiana di disposizioni che permettano di procedere a questo tipo di adozione», ma che ciononostante «alcuni tribunali italiani avevano pronunciato, per mezzo di una interpretazione estensiva dell’articolo 44 d), l’adozione semplice in alcuni casi in cui non vi era abbandono» (§ 60)[23].
Le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale hanno indotto anche la Suprema Corte di Cassazione, dopo un atteggiamento di iniziale chiusura nei confronti dell’adozione mite, a riconoscere piena dignità all’istituto nel nostro ordinamento; in particolare, con due recenti pronunce ha censurato le decisioni delle Corti d’Appello che avevano, in un caso, «omesso di prendere in esame il profilo espressamente affrontato dalla consulenza tecnica d’ufficio, riguardante il rilievo per la costruzione dell’identità delle minori, riguardante la conservazione del “profondo” legame con la madre instaurato e conservato nel tempo»[24], nell’altro, proceduto ad un «approfondimento della peculiare situazione concreta di una madre biologica che non intende abbandonare del tutto la figlia, pur sentendo di non essere ancora pienamente in grado di accudirla, mediante il ricorso ai mezzi istruttori necessari, se del caso anche mediante una consulenza psicologica»[25]
Con quest’ultima pronuncia (richiamata nella sentenza in commento), è stato affermato il principio di diritto secondo cui «l’adozione cd. ‘legittimante’, che determina, oltre all’acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all’adottato, ai sensi dell’art. 27, comma 1. L. 4 maggio 1983, n. 184, la cessazione di ogni rapporto dell’adottato con la famiglia d’origine, ai sensi del comma 3, coesiste nell’ordinamento con la diversa disciplina dell’‘adozione in casi particolari’, prevista dall’art. 44, L. n. 184 del 1983, che non comporta l’esclusione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia d’origine; in applicazione dell’art. 8 CEDU, 30 Cost., 1, L. n. 184 del 1983, e 315 bis c.c., comma 2, nonché delle sentenze in materia della Corte EDU, il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità̀, deve accertare la sussistenza dell’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante una extrema ratio cui può̀ pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse; il modello di adozione in casi particolari, e segnatamente la previsione di cui all’art. 44, lett. d), L. n. 184 del 1983, può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. ‘adozione mite’, al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine».
La Sezione Minorile della Corte d’Appello di Roma ha fatto applicazione del più recente orientamento giurisprudenziale di legittimità, giungendo tuttavia, nel caso di specie, ad escludere la sussistenza di quel legame affettivo il cui mantenimento l’adozione mite persegue: dopo aver rilevato – tra l’altro ma emblematicamente – che la bambina «della mamma dice di volerle “ancora” bene ma di “non pensarci più”», ritiene che il richiamato istituto non appare «adeguato alla vicenda di [S.], che al momento della dichiarazione di adottabilità aveva trascorso gran parte della sua vita in un contesto di istituzionalizzazione, nel quale si collocano i suoi ricordi di vita con la madre, e che ha strutturato un modello di attaccamento invertito, nel quale la bambina si è assunta il peso di tutelare la madre dalle conseguenze delle sue azioni impulsive»[26].
4. …e l’adozione aperta
Per offrire la massima tutela possibile al superiore interesse del minore, la Corte romana ritiene di poter applicare – in ciò riformando la sentenza di primo grado, per il resto integralmente confermata – un diverso istituto elaborato nella prassi giurisprudenziale minorile, ossia la c.d. “adozione aperta”[27]: trattasi di una forma peculiare di adozione piena, con caratteri però meno rigorosi, connotata dalla possibilità di mantenimento di rapporti tra il minore e la famiglia d’origine[28]. Tale forma di adozione consentirebbe, da un lato, di applicare in modo evolutivo l’istituto dell’adozione legittimante e, dall’altro, eviterebbe un’applicazione estensiva dell’adozione in casi particolari con il rischio che essa divenga sostitutiva della prima.
Questo modello è frutto di una lettura evolutiva dell’art. 27, ultimo comma, L. 184/1983, volta a ritenere che l’inciso «con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali» debba essere inteso in senso “meramente giuridico”, e non sia pertanto tale da ricomprendere anche relazioni affettive di fatto prive di rilevanza giuridica.
Si tratta di un modello che recepisce ancor più a fondo l’insegnamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale la “cancellazione” della famiglia di origine dalla storia personale del minore può avvenire soltanto in casi effettivamente eccezionali ed estremi, quali quelli a) dei bambini non riconosciuti dalla nascita, b) dei bambini gravemente maltrattati da genitori inguaribilmente violenti e c) dei bambini totalmente trascurati da genitori radicalmente inesistenti sul piano educativo e affettivo[29].
Espressamente affermando di voler aderire a tale lettura ermeneutica, la sentenza in commento ha ritenuto opportuno che venisse conservata la relazione con la nonna materna[30] (nelle modalità individuate nel dispositivo), «che la nipote, anche dopo il significativo tempo trascorso dalla interruzione degli incontri, continua a ricordare e vedere come una figura positiva (“è una persona spettacolare”), e che ha mostrato stabilità caratteriale ed emotiva e senso di responsabilità non da ultimo seguendo, dal marzo 2019, una psicoterapia che la ha aiutata a sostenere adeguatamente il carico emotivo della ricostruzione, e poi interruzione, della relazione con la nipote, nel corso del procedimento»[31].
Era stato molto recentemente osservato che non sembravano «aver avuto un seguito giurisprudenziale i tentativi di configurare un’adozione legittimante aperta al mantenimento dei rapporti affettivi e di fatto con la famiglia biologica esperiti proprio al fine di non disperdere la storia di vita personale e il patrimonio emotivo del minore»[32].
La decisione della Corte d’Appello di Roma parrebbe allora rappresentare un’apprezzabile inversione di tendenza, in attesa di quell’auspicabile «meditato intervento legislativo che aggiorni e incrementi gli strumenti giuridici di protezione, delineandone in modo puntuale le condizioni e gli effetti»[33] e che, in fin dei conti, consenta alla L. 184/1983 di tornare ad essere una “buona legge”, che offra adeguata protezione al superiore interesse del minore.
[1] Da ultimo si vedano gli studi raccolti da M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, Roma, 2021; ivi riferimenti bibliografici a tutta la dottrina precedente e ai più rilevanti precedenti giurisprudenziali.
[2] Per un’introduzione generale al tema dell’adozione “mite” si segnala F. Occhiogrosso, Manifesto per una giustizia minorile mite, Milano, 2009.
[3] Fra le quali risulta di particolare interesse quella di mancata audizione della minore, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto che «l’ascolto diretto nella sede giudiziaria, per l’età infantile della bambina ed il contesto di assoluta estraneità rispetto all’interlocutore nel quale esso si realizza, non costituisca un setting propizio alla emersione e rappresentazione delle esigenze di S. nel processo, fine a cui è volto l’ascolto». D’altra parte, ha pure rilevato – mostrando così di non disinteressarsi affatto della prospettiva del minore interessato – che «nel contesto della CTU la minore ha invero potuto esprimere adeguatamente i propri desideri e le proprie aspettative, in particolare nell’incontro con l’ausiliario del Collegio, che ha più facilmente instaurato con lei un rapporto empatico giovandosi della precedente consuetudine della minore con la figura dello “psicologo” […], in un ambiente specificamente attrezzato». Sull’istituto del diritto all’ascolto si vedano F.R. Fantetti, La facoltà dell’ascolto del minore e la Convenzione di Strasburgo, in Fam. pers. succ., 2010, 353 ss., F. Tommaseo, Per una giustizia “a misura del minore”: la Cassazione ancora sull’ascolto del minore, in Fam. dir., 2012, 37 ss., F. Astiggiano, Ascolto del minore (infra)dodicenne nel procedimento di adozione in appello, in Fam. dir., 2012, 888 ss., L.A. Antonucci, R. Cassibba, G. Castoro, La mitezza: saper parlare con un bambino, in Minorigiust., 2015, 166 ss. e, più recentemente, E. Italia (a cura di), L’ascolto del minore, in Fam. dir., 2020, 713 ss.
[4] Cfr. A. Finessi, Adozione legittimante e adozione c.d. mite tra proporzionalità dell’intervento statale e best interests of the child, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 1351, ove vengono altresì richiamate delle perplessità per quest’innovazione legislativa manifestate da una parte autorevole della dottrina.
[5] Così testualmente nel dispositivo.
[6] Così testualmente in motivazione.
[7] Condivisibilmente in tal senso, per tutti: E. Quadri, Verso una riforma dell’adozione?, in GiustiziaCivile.com, Editoriale del 3 ottobre 2016.
[8] Sul quale, ex plurimis, E. Quadri, Una riflessione sull’interesse del minore e la dimensione familiare della sua tutela, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 1330 ss.; S. Sonelli, L’interesse superiore del minore. Ulteriori «tessere» per la ricostruzione di una nozione poliedrica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 1373 ss.; M. Velletti, Interesse del minore e genitorialità, in Libro dell’anno del diritto 2018, Roma, 2018, 3 ss.; G. Corapi, La tutela dell’interesse superiore del minore, in Dir. succ. fam., 2017, 777 ss.; L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 2016, 86 ss.; E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016.
[9] Sia consentito rinviare, per maggiori approfondimenti, a E. Battelli, L’adozione mite come diritto del minore: tra opportunità e identità, in M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, cit., p. 285 ss.; Id., Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione alla luce della giurisprudenza CEDU, in Dir. fam. pers., 2021, 838 ss., ivi ampia bibliografia.
[10] In tema, la giurisprudenza più recente è oggetto di analisi da parte di C.M. Bianca, Quando possiamo togliere legittimamente un bambino alla sua famiglia?, nota a Cass., 14 febbraio 2018 n. 3594, e Cass., 19 gennaio 2018 n. 1431, in Foro it., 2018, 817 ss.
[11] Il diritto del minore ad una famiglia “sostitutiva” emerge così in caso di inidoneità irreversibile di quella d’origine, non secondo indici meramente presuntivi di detta inidoneità, ma attraverso una lettura complessiva delle circostanze concrete: non deve trattarsi di situazioni dettate da forza maggiore o da mera indigenza, bensì accertate come non temporanee e irrecuperabili, caratterizzate dall’assenza di legami positivi per il minore. Cfr. Cass., 31 marzo 2010 n. 7961, in Giur. it., 2011, 297 ss. In dottrina, per tutti, L. Fadiga, L’adozione legittimante dei minori, in G. Collura, L. Lenti, M. Mantovani (a cura di), Filiazione, in Trattato dir. fam., diretto da P. Zatti, II, Milano, 2002, 625 ss., che ricostruisce lo sviluppo del concetto di abbandono secondo la giurisprudenza. In tema si veda L. Rossi Carleo, L’affidamento e le adozioni, in Trattato Rescigno, 4, III, Torino, 1997, 354 ss.
[12] Sul punto A. Finessi, Adozione legittimante, cit., 1349 s., osserva che «la pluralità di modelli familiari e l’affermazione, anche legislativa, di nuove relazioni affettive non appaiono più conciliabili con il rigido sistema del “doppio binario” che è alla base di tale disciplina, incentrato sulla netta alternativa tra l’adozione piena per tutelare il bambino privo di famiglia – perché orfano, non riconosciuto alla nascita o perché la famiglia, pur presente, è gravemente ed irreversibilmente inidonea ad occuparsi del minore – e l’affidamento, finalizzato a sopperire alla mancanza di un ambiente familiare idoneo per un periodo transitorio, operando come intervento integrativo temporaneo del rapporto familiare in crisi. Una bipartizione che non è (più) in grado di rispondere in modo opportuno e convincente a quelle situazioni in cui il minore è coinvolto in una pluralità di legami affettivi tutti egualmente meritevoli di essere salvaguardati, in quanto solo una loro equilibrata coesistenza consente di tutelare il suo diritto inviolabile alla vita privata e familiare e al conseguente pieno sviluppo della sua personalità».
[13] Per tutti si richiamano le riflessioni di C.M. Bianca, Una nuova pagina della Cassazione sul diritto fondamentale del minore di crescere nella sua famiglia, in commento a Cass., SS.UU., 30 giugno 2016, n. 13435, in Foro It., 2017, 3171 s.
[14] Cfr., ancora, A. Finessi, Adozione legittimante, cit., 1350, che evidenzia come si sia per queste ragioni sviluppata l’esigenza «di sperimentare modelli di adozione diversi da quella legittimante in tutte quelle situazioni – sempre più frequenti nella prassi – in cui l’interruzione definitiva della relazione affettiva con i genitori biologici non appare coerente con l’interesse preminente del minore: ci riferiamo cioè a quelle situazioni in cui, a fronte di una valutazione necessariamente oggettiva del rapporto familiare, all’accertamento di una situazione di inadeguatezza, ancorché parziale, ma comunque irreversibile, della famiglia d’origine, inidonea a garantire una crescita equilibrata ed armonica, si accompagna un legame affettivo con il bambino la cui interruzione sarebbe indubbiamente dannosa per quest’ultimo».
[15] Sul concetto di semiabbandono permanente e, più in particolare, sull’adozione mite cfr.: F. Occhiogrosso, L’adozione mite due anni dopo, in Minorigiust., 2005, 149 ss.; L. Gigante, Le funzioni positive dell’adozione mite, in Minorigiust., 2007, 143 ss.; L. Laera, «Chi ha paura dell’adozione mite?», in Minorigiust., 2007, 151 ss.; Aa.Vv., L’Adozione mite: giudici professionali e giudici onorari a confronto, in Minorigiust., 2009, 112 ss.; S. Caffarena, L’adozione “mite” e il “semiabbandono”: problemi e prospettive, in Fam. dir., 2009, 398 ss. Più recentemente M. Renna, Forme dell’abbandono, adozione e tutela del minore, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1361 ss., spec. 1370 ss.
[16] Più di recente e con riferimento anche alla riforma della filiazione, si veda T, Montecchiari, Adozione «mite»: una forma diversa di adozione dei minori o un affido senza termine?, in Dir. fam. pers., 2013, 1381 ss.
[17] In questi termini A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, 5° ed., Bologna, 2014, 238, il quale segnala che: «Da una ricerca sull’affidamento familiare emerge che la durata media di un affidamento è di quattro anni per l’affidamento eterofamiliare e di cinque anni per l’affidamento ai parenti» (corsivo aggiunto).
[18] Sull’esperienza barese cfr. S. Caffarena, L’adozione «mite» e il «semiabbandono», cit., 393 ss.; M. Fiorini, Corsia preferenziale all’esigenza di garantire la continuità negli affetti, in Fam. dir., 2008, 19 ss.; F. Occhiogrosso, I percorsi comuni alle due adozioni: adozione aperte e conoscenza delle origini, in Minorigiust., 2003, 244 ss.; Id., Circolare del Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari ai servizi territoriali, in Minorigiust., 2003, 278 ss.; Id., L’adozione mite due anni dopo, cit., 149 ss.
[19] E. Battelli, L’adozione in Aa. Vv., I diritti del minore e la tutela giurisdizionale, Rimini, 2015, p. 249 ss.
[20] Per l’esame di tali critiche sia consentito rimandare a E. Battelli, L’adozione mite come diritto del minore, cit., 293 ss.
[21] Che, secondo, J. Long, Il diritto italiano della famiglia e minorile alla prova della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Eur. dir. priv., 2016, 1096 ss., rappresenta oggi la via maestra per l’ingresso dei diritti fondamentali nel diritto familiare e minorile italiano. In tema cfr. G. Ferrando, Genitori e figli nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in Fam. dir., 2009, 1049 ss.; Ead., Matrimonio e famiglia: la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed i suoi riflessi sul diritto interno, in G. Iudica, G. Alpa (a cura di), Costituzione europea e interpretazione della Costituzione italiana, Napoli, 2006, 131 ss.; Ead., Il contributo della Corte europea dei diritti dell’uomo all’evoluzione del diritto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 263 ss.; F. Pesce, La tutela dei diritti fondamentali in materia familiare: recenti sviluppi, in Dir. umani e dir. int., 2016, 5 ss.; S. Praduroux, L’attualità del contributo della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nell’evoluzione del diritto privato italiano e francese, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 705 ss.; P. Rescigno, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto privato (famiglia, proprietà, lavoro), in Riv. dir. civ., 2002, 325 ss.; F. Uccella, La filiazione nel diritto italiano e internazionale, Padova, 2001; Id., La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo su alcune tematiche del diritto di famiglia e suo rilievo per la disciplina interna, in Giur. it., 1997, 125 ss.
[22] Sulla quale si veda A. Pasqualetto, L’adozione mite al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tra precedenti giurisprudenziali e prospettive de jure condendo, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 155 ss.; F. Occhiogrosso, Con la sentenza Cedu Zhou contro l’Italia l’adozione mite sbarca in Europa, in Minorigiust., 2014, 268 ss.;
[23] Per maggiore approfondimento sulla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sia consentito il rinvio a E. Battelli, Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione, cit., 850 ss.
[24] Cass. ord., 13 febbraio 2020, n. 3643, in Fam. dir., 2020, 1063 ss., con nota di A. Thiene, Semiabbandono, adozione mite, identità del minore. I legami familiari narrati con lessico europeo, e in Nuova giur. civ. comm., 2020, 837 ss., con commento di P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono del minore nel dialogo tra CEDU e corti nazionali.
[25] Cass. ord., 25 gennaio 2021, n. 1476, in Fam. dir., 2021, 586 ss., con nota di F. Zanovello, Semiabbandono e interesse del minore alla conservazione dei legami familiari. La Cassazione ribadisce il ricorso all’adozione “mite”, e in Corr. giur., 2021, 1066 ss., con nota di U. Salanitro, L’adozione mite tra vincoli internazionali e formanti interni.
[26] Così testualmente in motivazione.
[27] Avverte U. Salanitro, L’adozione mite, cit., 1073, nt. 8, che, con il termine “adozione aperta”, parte della dottrina intende invece l’adozione in casi particolari.
[28] Cfr. Trib. min. Bologna, 9 settembre 2000, in Fam. dir., 2001, 79 ss.; Trib. min. Roma ,16 gennaio 1999, in Dir. fam. pers., 2000, 144 ss.; Trib. min. Torino, 12 marzo 2008, in Min. giust., 2008, 335 ss.; App. Roma, 28 maggio 1998, in Dir. fam. pers., 2001, 1463 ss.; Trib. min. Milano, 15 novembre 2004, in Fam. dir., 2005, 653 ss.; Trib. min. Emilia Romagna, 28 novembre 2002, in Min. giust., 2003, 275 ss.
[29] Così testualmente L. Lenti, L’adozione e la Corte europea dei diritti dell’uomo. A proposito di Cass. 20954/2018, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 64.
[30] Per tutti, si richiamano le riflessioni di M. Bianca, Il diritto del minore all’«amore» dei nonni, in Riv. dir. civ., 2006, 155 ss., e in Scritti in onore di C.M. Bianca, Milano, 2006, 117 ss.
[31] Così testualmente in motivazione, cui significativamente si aggiungere che «il CTU, nel suo caso, ha raccomandato il mantenimento della relazione con la nipote, sottolineando che S. “ha e avrà bisogno di un riferimento storico collegato ai primi 8/9 anni della sua vita”». In relazione a quest’ultimo profilo, si rinvia a M.G. Stanzione, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Torino, 2015.
[32] A. Thiene, Semiabbandono, cit., 1072.
[33] F. Zanovello, Semiabbandono, cit., 597.
Omaggio a Sergio Chiarloni (in memoriam)
di Carlo Vittorio Giabardo
1. Il 16 gennaio scorso è mancato, all’età di ottantacinque anni, Sergio Chiarloni, Professore Emerito di diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Torino, Maestro della scuola processualcivilistica torinese e uno degli ultimi grandi esponenti di una generazione - certamente destinata a sopravvivere all’oblio – che è stata artefice del prestigio della scienza processualistica italiana, riconosciuta ben oltre i confini nazionali.
Conobbi personalmente Sergio Chiarloni esattamente dieci anni fa, nel 2012, appena laureatomi a Torino con una tesi in diritto processuale civile con Alberto Ronco (che di Sergio Chiarloni è diretto allievo e al quale fu sempre legatissimo), a una delle riunioni della sezione di diritto processuale civile della Rivista Giurisprudenza italiana - alla quale ero stato ammesso a partecipare – e che si tenevano con cadenza mensile nelle stanze dell’allora biblioteca Francesco Ruffini del Dipartimento di Giurisprudenza di Torino; riunioni che Sergio Chiarloni coordinava in quanto condirettore della Rivista, con la Sua naturale autorevolezza e carismatica presenza. Avrebbe continuato a dirigere questi nostri incontri torinesi, anche telematicamente, nell’ultimo periodo pandemico, fino a poco prima della triste scomparsa.
Mi ero avvicinato inizialmente alla Sua opera a partire dagli anni dell’università, nella stesura della tesi di laurea e anche prima. Leggendo i Suoi scritti, l’impressione, fin dall’inizio, fu quella di esser davanti a qualcosa di completamente differente rispetto a ciò che ci si immagina essere la produzione tipica di diritto processuale civile: materia che, a chi, ancora studente, non ne conosca gli infiniti risvolti filosofici, l’immensa ricchezza di prospettive, la magnitudine delle questioni trattate, può apparire - diciamolo pure – estremamente tecnica, poco coinvolgente, occupata solo dal dettaglio pratico. Invece, leggendo Sergio Chiarloni (e specialmente – ricordo con nitidezza, in quei momenti in cui mi affacciavo per le prime volte a questa scienza – un Suo studio sul precedente tra civil law e common law[1]), l’arido tecnicismo lasciava spazio al fiorire dei temi alti; l’angusta questione di dettaglio veniva incasellata in un quadro più generale, di politica del diritto; il risvolto operativo veniva visto nelle sue coordinate ordinamentali; il presente veniva letto come storia[2]. Vi è un ben marcato tratto filosofico negli interessi e nella produzione scientifica di Sergio Chiarloni[3]. «Un filosofo che si trova a fare due conti con il diritto», così lo ha definito con bella espressione Alberto Ronco[4]. È leggendo e ascoltando Sergio Chiarloni che mi resi conto allora che il diritto processuale civile è, innanzitutto, uno sguardo, privilegiato, sull’intero ordinamento, una serratura dalla quale ammirare la totalità dell’esperienza giuridica. Questo perché è indiscussa la centralità del momento dinamico, applicativo, e quindi giurisdizionale, in qualsiasi ricostruzione giusfilosofica. E così molti argomenti tipici della filosofia del diritto, soprattutto di taglio analitico – quali, ad es., la creazione giudiziale del diritto, il vincolo del precedente, il dialogo tra i “formanti” nell’interpretazione della legge – diventavano, negli scritti di Sergio Chiarloni, temi di genuino interesse processualistico, sui quali il cultore del diritto processuale ha non solo qualcosa, ma molto da dire[5]. Furono, per me, letture cruciali. Sentii dalla Sua viva voce affermare, d’altronde, che non era un caso che alcuni tra i più importanti e completi giuristi e teorici del diritto del secolo passato, i quali si erano distinti anche in campi differenti, erano processualcivilisti: Emilio Betti, Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei… Questa constatazione mi rimase sempre in mente.
2. Ho in questo momento sotto mano la prima monografia di Sergio Chiarloni, L’impugnazione incidentale nel processo civile. Oggetto e limiti, pubblicata nel 1966, quando Egli aveva 33 anni. Tema senza dubbio fortemente tecnico, arduo, di diritto processuale duro e puro, viene da dire; ma basta scorrere velocemente le note e vediamo comparire, accanto ai grandi nomi classici italiani e tedeschi della nostra materia, quelli, ad es., di Carl G. Hempel (matematico e filosofo della scienza), di John Dewey, di Ludovico Geymonat, del fisico statunitense Percy W. Bridgman (tutti ricordati a proposito della nozione e formazione dei “concetti”), e poi dei filosofi del diritto Philipp Heck, HLA Hart, Lon Fuller, Alf Ross, dello Jhering, del Kantorowicz, degli esponenti del Realismo Giuridico Americano Jerome Frank e Oliver W. Holmes, di Chaim Perelman, e poi ancora di Norberto Bobbio, Ugo Scarpelli, Widar Cesarini Sforza, Giorgio del Vecchio, Giovanni Tarello, e via dicendo. Un armamentario teorico niente affatto ordinario per una monografia, per giunta la prima, di diritto processuale; a dimostrazione di interessi vastissimi, di letture sconfinate e senza barriere e di un uso fecondo e felice della contaminazione tra le aree del sapere umano. Vi è - per me - implicito questo profondo insegnamento nella Sua opera: per maneggiare le categorie del diritto processuale è necessario saper maneggiare quelle della teoria generale del diritto, la quale, a sua volta, altro non è che un’avventura intellettuale tra le molte, e che si avvale, pertanto in gran parte, di metodi e costruzioni comuni ad altre imprese conoscitive umane (la scienza, l’epistemologia, la sociologia, l’economia, la sociologia, la filosofia generale, la filosofia politica).
3. Succede spesso che quando leggiamo sulla carta un certo autore, siamo portati a immaginarci i tratti caratteriali di quella persona dal vivo. Succede che la forma dello scrivere sia espressione di una forma d’essere. Quello di Sergio Chiarloni era uno stile piano, limpido, mai contorto, non artificiale, eppure originale, brillante, vivace, penetrante. Una scrittura fresca, agile, efficacissima nell’uso di espressioni d’immediato impatto, immagini icastiche, che rimanevano in mente («eterogenesi dei fini», «formalismo delle garanzie», «ossimoro occulto», «diritto di mentire», ecc.). Di un periodare lineare, non oscuro, sempre ricercato ma non pedante. Ebbene, così a me sempre apparve la sua figura, negli anni a venire; carismatica e gentile, amichevole e sorridente, dotta, mai infastidita, per nulla autoritaria, non austera, d’una immediata simpatia. Lo caratterizzava un parlare umano, incoraggiante, capace di mettere a proprio agio anche il più intimorito dei collaboratori. Aveva idee incisive, vigorose, e vigorosamente difese, ma mai a tal punto da non riconoscere il buono nelle opinioni contrarie; segno dell’umiltà che caratterizza i grandi. Il giusto attaccamento alle proprie convinzioni non Gli impediva di tornare su di esse, cambiandole e rinnovandole, se del caso, o ribadendole nuovamente, scoprendole più forti. Sorprendeva poi la sua velocità di pensiero, affilato, la sua abilità di andare al cuore concreto delle questioni: un aspetto pragmatico, in mezzo a tanta teoria, che certamente derivava dalla sua lunga frequentazione con le aule di tribunale, come Avvocato e come interlocutore della magistratura italiana (in particolare di Magistratura Democratica). Fu attento non solo – uso Sue parole, fuori dal contesto in cui furono dette – ai “cieli delle astrazioni scientifiche”, ma anche alla “bassa cucina dei formulari”[6]. Il dato pratico, incastonato nella vastità dello sguardo, non veniva mai perso di vista: si pensi all’attenzione cruciale che Egli dava ai problemi organizzativi della giustizia civile e all’ordinamento giudiziario. Il buon senso aveva la priorità sulla logica ferrea, quando questa avrebbe portato a conseguenze irragionevoli. Si definiva, in fin dei conti, un positivista moderato; forse – semplifico – polemizzando e prendendo le distanze, da un lato, tanto con gli sviluppi più radicali di chi è incline a considerare le norme nulla più che un elemento, fra i tanti (di qui, ad es., la Sua più volte esposta critica al pluralismo interpretativo e alla nomofilachia “in senso tendenziale e dialettico”, e la sua difesa, invece, di un recupero di una funzione nomofilattica in senso forte[7]), quanto con la devozione più ottusa della legge e il disconoscimento di ogni forza al diritto vivente, dall’altro.
4. Preparando l’ingresso al dottorato in diritto processuale civile, a Torino, nel 2013, mi ritrovai a dover scegliere il tema da indagare. La scelta cadde sul problema delle misure coercitive. Il legislatore italiano aveva da pochi anni introdotto l’art. 614 bis c.p.c. e i nodi che quell’articolo offriva mi parevano di grande interesse teorico. Mi attraeva soprattutto l’accostamento che spesso veniva, e viene, fatto delle misure coercitive “all’italiana” a quelle appartenenti ad altre famiglie giuridiche (e, in particolare, quelle di common law). Ammesso poi al dottorato, sempre sotto la guida di Alberto Ronco, mi confrontai fin da subito con la lettura della classica monografia di Sergio Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, del 1980 – libro a me carissimo – le cui pagine furono una scoperta di quanta ricchezza ci possa essere nello studio non solo dogmatico, ma anche storico e comparato degli istituti processuali[8]. Di misure coercitive Sergio Chiarloni non smise mai di occuparsi; in quegli anni era nuovamente impegnato in letture critiche di quell’art. 614 bis c.p.c., la cui nuova introduzione tanto discutere aveva provocato nella dottrina italiana[9].
Fu presente il giorno in cui discussi la tesi di dottorato. E ora che quel mio lavoro sulle misure coercitive nel diritto processuale civile comparato sta per vedere la luce, nella Collana da Lui co-diretta per l’editore Giappichelli, Gli devo un riconoscimento fondamentale. La triste notizia della Sua scomparsa è giunta proprio quando le bozze di stampa erano pronte e grande è per me il rammarico che non abbia potuto vedere, proprio alla fine, il prodotto pubblicato. Queste mie paginette vogliono essere un rinnovato ringraziamento.
5. Mi sia consentito soffermarmi sulla monografia di Sergio Chiarloni a cui ho appena fatto riferimento, Misure coercitive e tutela dei diritti, non tanto nel contenuto, quanto nella lezione di metodo che offre, a proposito dell’analisi comparata e anche politica degli istituti processuali.
Va subito detto che non è facile fare diritto processuale civile comparato. Mentre la comparazione giuridica è, da molto tempo, assai viva nel diritto privato, nel diritto processuale civile – materia inevitabilmente legata a doppio filo al proprio ordinamento d’origine, espressione emblematica della sovranità e della statualità – la strada si è storicamente presentata come più difficoltosa, in salita. Certo, i grandi processualisti italiani del passato erano già anche acuti osservatori delle esperienze giuridiche altrui (Chiovenda e Calamandrei, innanzitutto: il primo, serrato interlocutore della processualistica tedesca; il secondo, attento studioso anche delle evoluzioni storiche d’Oltralpe, a partire da quello che è anche un monumentale lavoro di comparazione giuridica, e cioè La Cassazione civile). Ma a parte il fatto che quella “coscienza comparata” e quel “respiro extra-statuale” rimanevano comunque una eccezione nel panorama degli studi processualistici italiani, anche per molti anni a venire, e risentivano, non poche volte, dell’influenza del metodo dogmatico allora in uso; a parte ciò, quasi mai l’oggetto di quel dialogo erano, a quei tempi, i Paesi di common law, considerati troppo distanti e “altri” per esser utilmente studiati. La innovativa monografia di Sergio Chiarloni, invece, si misurava e confrontava direttamente, in moltissime parti, proprio con il diritto inglese (al quale Egli avrebbe poi continuato a rivolgere in seguito acuti studi e ricerche).
In particolare, uno degli oggetti d’indagine era l’istituto del contempt of court, visto in veste profondamente critica, nobilmente ideologica e quindi politica. Là Sergio Chiarloni denunciava, nello specifico e tra le molte altre cose, l’uso politico distorto da parte dei giudici in Inghilterra e negli Stati Uniti di quel potentissimo potere coercitivo che agisce sulla persona, spesso impiegato a protezione dell’ordine esistente, a conservazione dello status quo o addirittura in senso apertamente regressivo (per ostacolare, ad es., gli scioperi e le rivendicazioni dei lavoratori)[10]. Vi poteva esser un tal rischio nell’importare forme simili di misure coercitive nell’ordinamento italiano, attraverso un uso ingenuo e inconsapevole dell’argomento comparatistico? Sarebbe poi stato, oltre tutto, giustificato un trapianto che non avesse tenuto conto delle specificità storiche e sociali delle diverse culture? Il diritto comparato assumeva quindi in quell’opera - e più in generale in tutta la Sua produzione - una valenza ben precisa, che voglio qui sottolineare con forza; non semplice studio del diritto straniero – come troppo spesso ancora si concepisce - o delle altrui categorie di pensiero, ma autentica indagine e decodifica delle forze sociali che animano il crearsi e il consolidarsi degli istituti giuridici. Scrive Egli – in Misure coercitive e tutela dei diritti – che il diritto comparato sarebbe una scienza assai illusoria «allorché […] si proceda mettendo a confronto le regole dei diversi ordinamenti prescindendo dal rispettivo retroterra economico, storico e sociale» (enfasi mia) [11]. Per capire il diritto, e il diritto processuale, bisogna uscire dal diritto: un insegnamento metodologico generale che va tenuto in gran conto.
Scorro le pagine della mia copia di Misure coercitive e tutela dei diritti; di nuovo, al fianco delle figure illustri della nostra materia, trovo quelle di filosofi, di filosofi del diritto (molte volte è citata la Dottrina pure del diritto di Kelsen, i lavori di Von Jhering, del Kantorowicz), ma soprattutto le opere di Max Weber (Economia e società), dello storico francese Marc Bloch (La società feudale), del filosofo e critico marxista György Lukács (La distruzione della ragione), utilizzate ampiamente da Sergio Chiarloni per la Sua penetrante ricostruzione del divergente sviluppo storico delle misure coercitive personali in Germania e in Francia, a seconda del mantenimento (nella prima) o della anticipata dissoluzione (nella seconda) delle opprimenti strutture feudali che le avevano originalmente giustificate[12].
6. Società, politica, storia, strutture di produzione, relazione di potere, tecniche processuali, valori. Lo scopo globale di quello studio non era fabbricare una cattedrale, né disegnare figure geometriche, viste kelsenianamente nella loro purezza, né manipolare logicamente, o delimitare, o sistemare concetti, né predisporre schemi astratti, né classificare, ma criticare (nel senso nobile di esercitare il pensiero critico), prender posizione sulla realtà, alla luce dei valori politici di riferimento, considerando pertanto la dimensione fattuale, e cioè i movimenti della realtà storica, la società, le correnti di pensiero, i fini concretamente perseguiti, i risultati d’esperienza ottenuti.
Sergio Chiarloni faceva d’altronde parte di quella nascente generazione di studiosi – attiva a partire dalla fine degli anni Sessanta – che aveva ripudiato il “formalismo concettualista” astratto e che si era rivolta a uno studio autenticamente politico (nel senso etimologico del termine, cioè relativo alle forme dello stare insieme) del diritto processuale civile, visto nel suo significato sociale e valutato in termini di effettività, soprattutto al servizio delle fasce più deboli (ricordiamo, tra gli altri e nella diversità di accenti, Mauro Cappelletti, Vittorio Denti, Nicolò Trocker, Luigi Paolo Comoglio, Andrea Proto Pisani, Michele Taruffo).
Rappresentativo di quel clima, nella produzione scientifica di Sergio Chiarloni, fu il Suo “libretto giallo”, come veniva chiamato (dal colore della copertina e scherzosamente richiamando il “libretto rosso” di Mao) il breve volumetto “Introduzione allo studio del diritto processuale civile” (edito da Giappichelli, nel 1975), frutto anche dell’esperienza, portata avanti insieme (tra altri giovani professori) a Norberto Bobbio e Gastone Cottino, del “Seminario interdisciplinare per lo studio critico del diritto”, tenuto alle Facoltà di Scienze Politiche e di Giurisprudenza di Torino all’inizio degli anni Settanta, in piena epoca di contestazioni e lotte studentesche[13]. Scopo di quelle riflessioni e di quel libretto era svelare, mediante strumenti teorici e un linguaggio in gran parte tratto dal marxismo, le sottaciute connessioni tra sovrastrutture ideologiche, strutture economiche e meccanismi processuali, tra la divisione della società in classi, le differenze di ceto e sistemi di dominio sociale e i concreti modelli di tutela dei diritti e amministrazione della giustizia esistenti in un dato periodo storico.
7. Tanto numerosi sono i temi toccati da Sergio Chiarloni lungo quasi sessant’anni di ricerca che sarebbe impossibile elencarli tutti. Tra i molti, e senza nessuna - neppur minima - pretesa di completezza, tra quelli prediletti: l’appello (oggetto anche di un’indagine monografica dal taglio empirico, con riferimento al diritto del lavoro), il giudice di pace e la magistratura onoraria, l’ordinamento giudiziario, le sentenze della “terza via” e il principio del contraddittorio, la tutela del possesso, le forme alternative di giustizia privata, la nozione costituzionale di “giusto processo”, le tecniche di tutela dei consumatori, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione (e, a questo proposito, soprattutto la critica, costante, della garanzia costituzionale del ricorso per cassazione), e via discorrendo.
Ne voglio però isolare uno in particolare, tra i più vicini alla sensibilità di chi scrive, e cioè la ricerca della verità nel processo civile: tema che non è inopportuno definire processualfilosofico, trattato con respiro autenticamente comparato e con attenzione alle implicazioni tra ideologie e concretizzazioni giuridiche. Sergio Chiarloni era uno strenuo difensore dell’importanza della ricerca della verità in un processo civile che voglia definirsi giusto, opponendosi sia alle derive veriphobiche tipiche del postmodernismo sia a certe ricostruzioni radicalmente e del tutto privatistiche (“revisioniste” o “vetero-liberiste”, come definite dal Chiarloni) del fenomeno processuale; verità che, ricostruita comunque in termini probabilistici, non appare peraltro come l’unico fine della giustizia civile, cedendo di fronte al perseguimento di altri valori[14]. Dal punto di vista del diritto comparato, la Sua fu l’unica voce - almeno a mia conoscenza - a sostenere, e con buone e persuasive ragioni, che il processo civile adversary di common law sia non meno inclinato verso la ricerca della verità - come solitamente si argomenta - ma lo sia, al contrario, di più (si pensi alla disciplina della discovery o all’obbligo per le parti di dire la verità negli atti introduttivi del giudizio, sanzionato dal contempt of court). D’altronde Sergio Chiarloni sempre sottolineò, anche a voce, il fastidio nell’affermare che le parti, in Italia, hanno un diritto di mentire; diritto che, non essendo obbligate a dire la verità (almeno secondo certe ricostruzioni), finirebbero pertanto per avere.
8. Nella mia frequentazione della dottrina processualistica e giusfilosofica di lingua spagnola ho appreso di prima mano l’ampia influenza internazionale di Sergio Chiarloni. Egli, dalla Sua Cattedra di Torino, aveva viaggiato moltissimo per le università di tutto il mondo. Era conosciutissimo sia in Spagna (era académico correspondiente della prestigiosa Real Academia de Jurisprudencia y Legislación) sia nel vivace contesto universitario dell’America Latina. Non c’è stato, letteralmente, nessun processualista dell’universo iberoamericano, anche tra i più giovani, a cui io abbia nominato Sergio Chiarloni, che non ne conoscesse la figura. I Suoi rapporti con gli esponenti più autorevoli di questo mondo erano strettissimi; Jordi Nieva-Fenoll (dell’Università di Barcellona), Eduardo Oteiza (dell’Università de La Plata, in Argentina, attuale Presidente dell’International Association of Procedural Law, di cui Sergio Chiarloni era membro e più volte relatore generale e nazionale ai vari Congressi mondiali[15]), Teresa Arruda Alvim Wambier (della Pontificia Università Cattolica di San Paolo), Ada Pellegrini Grinover (dell’Università di San Paolo), Giovanni Priori (della Pontificia Università Cattolica del Perù, il quale – mi raccontò - in occasione di una conferenza di Sergio Chiarloni a Lima, gli fece da interprete), solo per nominarne alcuni, erano Suoi interlocutori e amici[16]. Nei Paesi del continente latinoamericano Egli era di casa e spesso aveva ricambiato l’invito per seminari all’Università di Torino.
La Sua produzione scientifica era stata ampiamente tradotta in lingua spagnola. Innanzitutto la monografia Misure coercitive e tutela dei diritti, con il titolo Medidas coercitivas y tutela de los derechos, dall’editore peruviano Palestra, nel 2005, e così anche la pressoché maggior parte dei Suoi articoli più importanti, apparsi sulle principali riviste, e soprattutto in Brasile e in Perù, nell’allora Revista peruana de derecho procesal, grazie all’opera di Juan Monroy Gálvez (uno dei padri dell’attuale codice di procedura civile peruano) e al figlio di questi, Juan José Monroy Palacios.
È rivelativo poi il fatto che l’ultimo scritto di Sergio Chiarloni – o quello che, a mia conoscenza, lo è - sia apparso inedito in lingua spagnola nel recente volume, curato da Jordi Nieva Fenoll e Renzo Cavani (Pontificia Università Cattolica del Perù), che raccoglie le riflessioni di alcuni tra i più importanti processualcivilisti del panorama internazionale, a commemorazione del centenario de La Cassazione civile del Calamandrei, volume al quale Egli aveva contribuito con un articolo intitolato Nomofilaxis y reforma del juicio de casación (“Nomofilachia e riforma del giudizio di cassazione)[17]. Degno di nota è il fatto che la Sezione del libro - la prima - che ospita il Suo saggio sia intitolata “El diálogo de dos Maestros” (“il dialogo di due Maestri”), laddove l’altro dialogante è il compianto Michele Taruffo: testimonianza della imperitura stima e omaggio che, nella tradizione iberoamericana tutta, si continua a tributare a chi ha contribuito a render grande la tradizione processualistica italiana.
9. L’intesa di Sergio Chiarloni fu strettissima non solo con la dottrina di lingua spagnola. Oltre che in Francia (all’Università Jean-Moulin di Lione), Egli aveva trascorso lunghi periodi di studio in Inghilterra (Londra, Oxford, Cambridge) e negli Stati Uniti (Northwestern, Chicago).
In particolare, nel 1992, durante alcuni mesi in qualità di Visiting Professor (Inns of Court Fellowship) presso l’Institute of Advanced Legal Studies di Londra, Sergio Chiarloni entrò in contatto con Adrian Zuckerman - il celebre processualista di Oxford - che in quei momenti si trovava a tenere il corso di Civil Litigation per un Master dell’University College. Come avvenne quell’incontro lo racconta Zuckerman stesso, in un sentito articolo scritto a chiusura del volume di studi sulle riforme del processo civile al quale noi tutti allievi della scuola torinese avevamo preso parte e che era stato confezionato in sottinteso omaggio a Sergio Chiarloni (quel volume Gli fu consegnato – ricordo - dalle mani di Alberto Ronco, in occasione del Suo compleanno, durante uno dei consueti barbecue che Sergio Chiarloni era solito organizzare in primavera nella Sua casa di campagna fuori Torino)[18].
Ebbene, racconta là Zuckerman che Sergio Chiarloni, incuriosito da come si insegnasse il diritto processuale civile oltremanica, pensò di andare a seguire il corso di persona, mimetizzandosi tra i giovani studenti, senza rivelare la propria identità. L’ignota e insolita presenza per settimane lasciò Zuckerman perplesso. Solo al termine del semestre, Sergio Chiarloni si avvicinò, presentandosi. Da lì, l’amicizia, e Zuckerman venne varie volte a Torino, per tenere incontri e seminari dottorali (spesso in tema di Evidence Law).
L’incontro ebbe una influenza enorme su Zuckerman («this meeting – afferma – marked a turning point in my academic interests and outlook»), tanto da fargli aprire gli occhi – sono parole che lo stesso studioso inglese usa – su un intero nuovo modo di guardare al processo civile («Chiarloni […] had a profound influence on my understanding of procedural systems and opened my eyes to an entirely new world of learning»). Ciò ben si capisce, dato che il diritto processuale civile (anzi, la procedura civile, Civil Procedure) in Inghilterra non ha conosciuto quell’approfondimento teorico che ne ha caratterizzato, invece, lo studio in Germania o Italia. Da quella collaborazione nacque poi, nel 1999, il volume - una raccolta di contributi - sulla crisi della giustizia nel diritto comparato, pubblicato dalla Oxford University Press[19].
10. Vidi Sergio Chiarloni di persona l’ultima volta nell’aprile del 2019 – un anno che, a ripensarci, apparirà lontano per molti, nel tempo e nella memoria - a Torino, al “Circolo dei Lettori”, alla presentazione dell’ultimo libro del filosofo e politico Mario Tronti (già esponente di quel vasto movimento che fu l’operaismo italiano). Non mi aveva stupito incontrarlo lì, per i Suoi interessi, in compagnia della sorella (figura importantissima della germanistica italiana). Parlammo rapidamente di come mi stessi trovando in Spagna - già mi ero trasferito a vivere all’estero da alcuni mesi – e di un libro che avevo appena acquistato in una bancarella lì vicino, che Egli conosceva bene, avendolo anche recensito (La borsa di Miss Flite. Stori e immagini del processo, di Bruno Cavallone[20]). Successivamente, complice la distanza e poi il duro periodo della pandemia, le interazioni sarebbero avvenute per e-mail, mezzo al quale peraltro Sergio Chiarloni fu sempre molto avvezzo (rispondeva in tempi rapidissimi).
Le ultime volte sono spesso così: non sappiamo quasi mai quando sono tali. Ma i Giuristi (la G maiuscola è voluta) - così come gli Artisti, della mano o del pensiero - continuano a vivere anche dopo gli addii: non solo nella mente di coloro che li hanno conosciuti, ma anche in quella di coloro che sapranno ritrovarne lo spirito vivente nelle opere che ci hanno donato.
[1] Mi riferisco a Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sul precedente giudiziale, in Riv. dir. proc., 2001, 614 ss.
[2] Riprendo qui il titolo di un Suo celebre lavoro; v. Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 447 ss.
[3] Egli, al terzo anno di Giurisprudenza a Torino, chiese inizialmente la tesi di laurea a Norberto Bobbio, del quale aveva frequentato i corsi; poiché il celebre filosofo del diritto ammise, però, di non poterne seguire la carriera, Chiarloni decise di laurearsi in diritto internazionale (con una tesi sulla posizione giuridica dell’individuo nell’ordinamento internazionale), per poi seguire la guida, invece, di Giovanni Conso, che da poco era stato chiamato a tenere, a Torino, oltre all’insegnamento di procedura penale, anche il corso di diritto processuale civile (questo lo raccontava Chiarloni stesso, nell’intervista concessa a Christian Delgado, della Pontificia Universidad Catolica del Perù, apparsa sulla Revista de Proceso, 2013, 455 ss.). Non c’è dubbio che Chiarloni considerasse Conso il Suo maestro; v., a questo proposito, il necrologio scritto sulle pagine della “Trimestrale”, Giovanni Conso, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 1217.
[4] Ronco, Per Sergio Chiarloni, in Judicium, 25 gennaio 2022, https://www.judicium.it/per-sergio-chiarloni/. Ricordano il Maestro torinese anche Capponi, Ricordo di Sergio Chiarloni, in Giustizia Insieme, 17 gennaio 2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2132-ricordo-di-sergio-chiarloni?hitcount=0 e Cottino (Emerito di Diritto Commerciale, collega e amico di Sergio Chiarloni all’Università di Torino), In ricordo del Prof. Chiarloni, in Quotidiano Giuridico, 20 gennaio 2022, https://www.quotidianogiuridico.it/documents/2022/01/20/in-ricordo-del-prof-chiarloni
[5] Si veda, senza pretesa di completezza e in ordine sparso, su questi vari temi, Chiarloni, Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contrasti di giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1989, 118 ss. (anche in La giurisprudenza per massime e il valore del precedente con particolare riguardo alla responsabilità civile, a cura di Visintini, Padova 1988, 59 ss.); La dottrina fonte de diritto?, ivi, 1993, 439 ss. (anche in Studi in onore di Rodolfo Sacco. La comparazione giuridica alle soglie del 3° millennio, Milano, 1994, Tomo II, 219 ss.); Ruolo della giurisprudenza e attività creativa di nuovo diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 1 ss.; Funzione nomofilattica e valore del precedente, in Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, Torino, 2011, Vol. II, 1263; v. poi sempre Id., Funzione nomofilattica e valore del precedente, in T. Arruda Alvim Wambier (a cura di), Direito Jurisprudencial, São Paulo, 2012, 225 ss.
[6] Chiarloni, Riflessioni minime sull’insegnamento del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, 547.
[7] Cfr., ex multis, Chiarloni, In difesa della nomofilachia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 123 ss.; Id., Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale dell’accesso in cassazione, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ESI, 212, 19 ss. (libro pubblicato in occasione dell’incontro, avvenuto presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino, il 29 aprile 2011).
[8] Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano (Giuffrè), 1980 (nella Collana “Università di Torino. Memorie dell’Istituto Giuridico”). V. anche Id., Ars distinguendi e tecniche di attuazione dei diritti, in Riv. dir. proc., 1988, 755 ss. (e anche in Mazzamuto (a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Napoli, 1989, I, 183 ss.).
[9] V. i contributi raccolti nel fascicolo, curato da Chiarloni, dedicato all’art. 614 bis c.p.c. sulle colonne della Giurisprudenza Italiana, e in particolare il Suo L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c.; confini e problemi, in Giur. it., 2014, 731 ss. (anche in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, a cura di Sassani, Capponi, Storto, Tiscini, Milano, 2014, Cap. II). V. anche la Sua voce Esecuzione indiretta. Le nuove misure coercitive ai sensi dell’art. 614bis c.p.c., in Il libro dell’anno del Diritto Treccani 2012 (online). Più di recente, Id., Note comparative sull’esecuzione indiretta in Italia e in Brasile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 585 ss.
[10] Critica esplicitata in più parti del Volume, ma spec. nel Cap. finale, Riflessioni conclusive, e spec. 235 ss. (a proposito del cd. government by injunction).
[11] Misure coercitive, cit., 28.
[12] Mi riferisco al denso Cap. II, L’evoluzione storica, in Misure coercitive e tutela dei diritti, cit., 37 ss., e, più in particolare, la Sez. II, intitolata «Nemo ad factum praecise cogi potest»: storicità di un principio «di natura», 54 ss.
[13] Introduzione allo studio del diritto processuale civile, Giappichelli, 1975. V. anche il lungo Processo civile e società di classi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 733 ss. Per una analisi simile, ma in termini meno radicali, successivamente Chiarloni, La giustizia civile e i suoi paradossi, in Storia d’Italia, Annali, Vol. 14, Legge, diritto, giustizia (a cura di L. Violante), 1998, 406 ss.
[14] Impossibile qui ricostruire l’articolato pensiero; per chi voglia approfondire, v. comunque, Chiarloni, Processo civile e verità, in Questione giustizia, 1987, 504 ss.; Id., Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc., 1986, 819 ss.; Id., La semplificazione dei procedimenti probatori, in Riv. dir. civ., 1989, I, 737 ss.; Id., Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, ivi, 2008, 144; Id., voce “Giusto processo (dir. proc. civ.)”, in Enc. dir., Annali II, I, 2009, 403 ss.; Id., La verità presa sul serio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 695 ss. (scritto a proposito del classico libro di Taruffo, La semplice verità, Roma-Bari, 2009); Id., Riflessioni microcomparative su ideologie processuali e accertamento della verità, in Due iceberg a confronto: le derive di common law e civil law, Quaderni della Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 101 ss., e anche in Studi in onore di Nicola Picardi. Ricordiamo che la monografia di una allieva di Sergio Chiarloni – Giulia Bertolino – verteva proprio su questo tema, a cavallo tra filosofia e diritto processuale; cfr. Id., Giusto processo civile e verità. Contributo allo studio della relazione tra garanzie processuali e accertamento dei fatti nel processo civile, Torino, 2010.
[15] Fu General Reporter al XI World Congress, nel 1999 (a Vienna) e a quello successivo, il XII, nel 2003 (a Città del Messico). Fu National Reporter, invece, al Congresso ancora successivo, il XIII, nel 2007 (a Bahia, in Brasile).
[16] All’indomani della scomparsa, ne hanno ricordato la figura, ad es., l’importante Instituto Brasileiro de direito processual, nelle parole di Hermes Zaneti Jr. (https://direitoprocessual.org.br/noticias-homenagem-ao-professor-professor-sergio-chiarloni-hermes-zaneti-jr.html), e l’Universidad Abierta Interamericana, in Argentina, dove Chiarloni era stato più volte, con Guido Alpa ( https://noticias.uai.edu.ar/facultades/derecho-y-ciencias-pol%C3%ADticas/muri%C3%B3-sergio-chiarloni-padre-de-la-escuela-de-procesalista-de-tur%C3%ADn/).
[17] Tema – come abbiamo detto – classico nella riflessioni di Chiarloni; v.lo in J. Nieva-Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei, Madrid, 2021 (trad. allo spagnolo di César E. Moreno More).
[18] Zuckerman, Sergio Chiarloni - A Formative Encounter, in Trasformazioni e riforme del processo civile. Dalla l. 69/2009 al d.d.l. delega 10 febbraio 2015, a cura di Chiara Besso, Giorgio Frus, Gabriella Rampazzi, Alberto Ronco, Bologna (Zanichelli), 2015, 553 ss.
[19] Civil Justice in Crisis: Comparative Perspectives of Civil Procedure, a cura di A. Zuckerman, S. Chiarloni, P. Gottwald (cons. ed.), Oxford University Press, 1999.
[20] V. la recensione in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 735 ss.
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto.
Conclusioni di Antonio Ruggeri
Il lascito della lezione mazziniana sui doveri dell’uomo per la Costituzione repubblicana
Sommario: 1. Pace e dignità quali beni assoluti, in funzione della cui salvaguardia si giustificano il diritto fondamentale all’esercizio dei doveri e il dovere parimenti fondamentale di far valere i diritti. – 2. Non v’è prius o posterius nel rapporto tra diritti e doveri fondamentali che, proprio perché tali, si dispongono sullo stesso piano, dandosi mutuo sostegno e alimento. – 3. Il magistero mazziniano su libertà e solidarietà, patria e umanità e il segno da esso lasciato sulla Costituzione. – 4. La triade composta dai doveri di fedeltà alla Repubblica, solidarietà e cooperazione, la loro formidabile vis espansiva, l’afflato etico che accomuna la lezione mazziniana e la Costituzione. – 5. Una succinta notazione finale a riguardo del mutuo sostegno che etica e diritto hanno da darsi al fine della loro ottimale affermazione.
1. Pace e dignità quali beni assoluti, in funzione della cui salvaguardia si giustificano il diritto fondamentale all’esercizio dei doveri e il dovere parimenti fondamentale di far valere i diritti
Mai come nella presente, particolarmente sofferta congiuntura, attraversata dal soffio impetuoso di venti di guerra che spazzano il cuore dell’Europa e a tutt’oggi profondamente segnata dalla pandemia sanitaria[1], il tema dei doveri costituzionali è tornato a riproporsi in modo così pressante ed urgente[2], interpellando le coscienze di ciascuno di noi ed obbligando ad una (per quanto possibile, serena e disincantata) riflessione, idonea a rimettere in discussione – se del caso – antiche e consolidate credenze.
Accolgo volentieri l’invito rivoltomi dall’amico Roberto Conti a dare un contributo al dibattito sollecitato e ospitato da Giustizia insieme sul significato complessivo che può oggi assegnarsi al magistero mazziniano sui doveri dell’uomo[3], mettendomi in coda agli interventi di studiosi accreditati che hanno offerto a tutti noi spunti di ordine teorico-ricostruttivo di particolare interesse. Preferisco soffermarmi, con la massima rapidità, sui punti cruciali evocati dai quesiti sottopostici non rispondendo a questi ultimi separatamente ma componendoli in un quadro unitario e facendone oggetto di un unico, seppur internamente articolato, ragionamento. Prima, però, di richiamare i passi maggiormente salienti della nota opera del pensatore genovese ed allo scopo di cogliere e portare allo scoperto il filo nascosto che, a mio modo di vedere, la lega al quadro costituzionale, si rende necessario svolgere alcune notazioni di carattere teorico concernenti il modo con cui i doveri costituzionali si pongono in rapporto con i diritti fondamentali.
Avverto subito che la illustrazione del rapporto in parola avrebbe richiesto uno spazio ben più consistente di quello di cui ora dispongo. Mi trovo pertanto obbligato a far luogo ad una sintesi drastica che obbliga a vistoso sacrificio taluni passaggi argomentativi che, per vero, presenterebbero non secondario interesse al fine dell’analisi che mi accingo a svolgere ma che devono trovare altrove il luogo per la loro adeguata rappresentazione.
Dico subito che considero la lezione mazziniana ancora oggi di straordinaria attualità e marcato il segno da essa lasciato sull’impianto costituzionale, una volta epurata – naturalmente – dell’ispirazione religiosa che la pervade ed anima e riconciliata dunque con il carattere laico proprio della Carta repubblicana[4]. Certo, il contesto storico-politico in cui essa è maturata è profondamente diverso da quello odierno. L’idea di fondo però – come si tenterà di mostrare – non per ciò è venuta meno; piuttosto, si tratta di adattarla al nuovo contesto e di portarla – fin dove possibile – a frutto. D’altronde, un tempo di lotta era quello in cui è maturata la riflessione mazziniana e un tempo di guerra è quello presente. Una guerra – tengo a precisare, con riserva di approfondimenti altrove – che però non è come tutte le altre che si sono avute (e si hanno) nel pianeta, seminando distruzione e morte, vuoi per il fatto che essa ha per teatro l’Europa, laddove (non a caso) è cresciuto, diffondendosi quindi anche al di fuori del vecchio continente, il seme del secondo conflitto mondiale, e vuoi (e soprattutto) perché qui – se ci si pensa – si fronteggiano due concezioni ordinamentali e di vita di relazione reciprocamente incompatibili, l’una avendo il suo cuore pulsante nel riconoscimento dei diritti fondamentali e, specularmente, dei doveri inderogabili di solidarietà, ovverosia (e in breve) nel modello liberal-democratico, l’altra di contro misconosce i diritti stessi e, con essi, il modello di organizzazione funzionale alla loro salvaguardia. Il rischio, insomma, è che possa considerarsi prossimo il momento del redde rationem, dal momento che delle concezioni in parola si fanno portatori schieramenti di Stati pronti a farle valere ricorrendo anche all’uso delle armi.
Ebbene, il primo dei doveri gravanti su tutti noi è quello di batterci con tutte le forze di cui disponiamo per difendere con le unghie e coi denti il modello di società e di Stato che abbiamo ereditato proprio da coloro che vissero la sofferta ma esaltante stagione risorgimentale, se del caso dando dunque vita ad un nuovo Risorgimento e chiamando a raccolta al fine della sua affermazione quanti, nel nostro Paese come altrove, si riconoscono nel modello della liberal-democrazia: un modello nel quale centralità di posto hanno la pace e la dignità della persona quale centro di imputazione e – piace a me dire, riprendendo la mirabile (per sintesi e forza espressiva) formula dell’art. 2 della nostra Carta – punctum unionis di diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà.
La pace – mi sono sforzato di chiarire assai di recente e tenterò di precisare ancora meglio a momenti – è un bene assoluto per la collettività e l’intera umanità, così come lo è la dignità per ogni essere umano, che si pone al centro della costruzione ordinamentale d’ispirazione liberale[5]: la dignità appare, infatti, ai miei occhi essere una sorta di chiodo saldamente conficcato nella roccia dal quale, come in un’ideale scalata alpinistica, i componenti la comunità, tutti legati in cordata l’uno all’altro in un comune destino collettivo, si tengono per portarsi avanti, sempre più in alto, perlomeno fin dove le forze li assistano e la fortuna li soccorra.
Pace e dignità condividono, dunque, la qualità, loro propria ed irripetibile, della assolutezza e, perciò, della naturale refrattarietà a soggiacere a bilanciamento con qualsivoglia altro bene pure costituzionalmente protetto. Lo sono per il fatto di porsi quali precondizioni per il riconoscimento e – ciò che più importa – l’effettiva tutela di ogni diritto fondamentale, come pure per l’adempimento dei doveri costituzionalmente previsti, ai quali pertanto nessuno può, in alcun caso o modo, sottrarsi. Sono, insomma, degli a priori costituzionali, autentici punti fermi in funzione dei quali si giustificano e dai quali traggono costante alimento tanto i diritti fondamentali quanto i doveri, essi pure fondamentali (per quanto non così espressamente qualificati), per la elementare ragione che senza o al di fuori di essi non possono esservi gli stessi diritti e, senza questi ultimi, non v’è e non può esservi “Costituzione”, nell’accezione a tutt’oggi insuperata che se ne dà all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789.
Mi sta molto a cuore invitare a fermare l’attenzione sull’affermazione da ultimo fatta, dal momento che proprio in essa si trova la chiave interpretativa del senso profondo dei quesiti postici e la base su cui può dunque poggiare la risposta agli stessi data.
Ora, è bene non perdere, neppure per un momento, di vista che i diritti fondamentali non soltanto si fanno reciproco rimando, componendo un “sistema” unitario ed inscindibile nelle sue parti, ma anche, visti nel loro insieme, si implicano in modo inscindibile con i doveri, giustificandosi a vicenda, dandosi cioè costantemente e necessariamente mutuo soccorso ed alimento, al punto che gli uni non sarebbero pensabili senza gli altri, così come questi senza quelli.
V’è di più. Si danno circostanze al verificarsi delle quali si tocca con mano la reciproca integrazione e persino la immedesimazione che viene a determinarsi tra di essi.
Non molto tempo addietro, ho precisato[6] questo concetto rilevando come ciascuno di noi può trovarsi a rivendicare il diritto fondamentale di esercitare i propri doveri[7] e, circolarmente, il dovere di far valere i propri diritti[8].
Solo un paio di esempi per chiarire il senso di quest’affermazione che, ad una prima (ma erronea) impressione, potrebbe apparire singolare o, diciamo pure, bizzarra.
Ebbene, si pensi – per tornare alla notazione svolta all’inizio – all’ipotesi, oggi meno fantasiosa che mai, che il Paese sia attaccato dal nemico ed obbligato perciò ad entrare in guerra. Come negare, in questa avversa congiuntura, il diritto dei singoli e dell’intera collettività all’esercizio del dovere di difesa della patria? Solo facendolo effettivamente valere al massimo delle sue potenzialità espressive, possiamo infatti sperare di preservare l’integrità territoriale, i nostri beni e, soprattutto, la vita delle persone minacciate, assicurando la stessa trasmissione dell’ordinamento nel tempo[9], la quale poi si riporta non soltanto al dovere di difesa suddetto ma, allo stesso tempo, anche a quello di fedeltà alla Repubblica, col quale il primo fa tutt’uno, se è vero – com’è vero – che in una delle sue plurime e più genuine espressioni[10] il dovere in parola chiama a raccolta i componenti il gruppo sociale in vista del conseguimento del bene primario della integra trasmissione dell’ordinamento. Similmente, poi, per il caso di un moto eversivo dell’ordine costituzionale affermatosi in ambito interno, per il quale, ancora una volta, viene in rilievo il diritto e dovere a un tempo di resistenza individuale e collettiva, a difesa del quadro democratico sotto attacco degli artefici di un colpo di Stato[11].
D’altro canto, il dovere di esercitare i diritti (e di esercitarli magis ut valeant) ha una sua pronta ed immediata spiegazione nel fatto che, non mettendoli al riparo dalle insidie loro mosse dai prevaricatori e rassegnandosi supinamente davanti a chi li calpesta o ignora, per un verso, si abdicherebbe alla dignità – ciò che non è, in alcun caso o modo, ammissibile, se si conviene, come deve convenirsi, a riguardo della sua indisponibilità[12] – e, per un altro verso, verrebbero fatalmente ad impiantarsi ed a diffondersi pratiche imitative degeneri che porterebbero alla lunga allo sfilacciamento del tessuto sociale e, perciò, nuovamente, alla stessa dissoluzione dell’ordinamento.
Si ha, dunque, conferma – a me pare – di una indicazione nella quale da oltre trent’anni mi riconosco[13], secondo cui nella struttura dei diritti fondamentali si rinviene una componente deontica, che concorre a darne la essenza, il tratto distintivo dai diritti che fondamentali non sono. Altro discorso, poi, che però non possiamo qui nuovamente riprendere, è come si riconoscano gli uni dagli altri[14]. Per ciò che qui, in modo appena allusivo, può dirsene, a mio modo di vedere[15] i primi danno voce a bisogni elementari dell’uomo senza il cui appagamento l’esistenza stessa non sarebbe più – come dice la Carta[16] – “libera e dignitosa”. Se, poi, ci si interroga in merito ai c.d. nuovi diritti, costituzionalmente innominati, e ci si chiede pertanto come possano riconoscersi, senza soverchie incertezze, i bisogni suddetti, ebbene allo scopo non può che farsi luogo – a me pare – alla ricognizione di talune consuetudini culturali di riconoscimento degli stessi profondamente radicate e diffusamente avvertite in seno al corpo sociale. D’altronde, la stessa Costituzione e, a seguire, la normazione sottostante adottata al fine di darvi la prima, diretta e necessaria specificazione-attuazione, come pure la giurisprudenza in ciascuna delle sue articolazioni ed espressioni (comune, costituzionale, sovranazionale), sono chiamate, ciascuna per la propria parte, a dar voce ai bisogni in parola[17]. Ciò che, nondimeno, maggiormente importa ora mettere in chiaro è il rapporto di filiazione diretta che viene ad intrattenersi tra i diritti fondamentali e la dignità della persona; la stessa libertà, peraltro, si spiega e giustifica nel suo porsi in funzione servente nei riguardi della dignità stessa che, pertanto, si conferma essere – piace a me dire – un autentico valore “supercostituzionale”[18], anzi l’unico vero valore, al pari di quello della pace, dotato di siffatta qualità. Serventi nei riguardi della dignità sono altresì i doveri che, al pari dei diritti, concorrono a darvi senso e concretezza in alcune delle più salienti esperienze di vita sì da potersi affermare al pieno delle sue formidabili potenzialità espressive.
2. Non v’è prius o posterius nel rapporto tra diritti e doveri fondamentali che, proprio perché tali, si dispongono sullo stesso piano, dandosi mutuo sostegno e alimento
Se le cose stanno così come sono qui viste, se ne ha una prima conseguenza sulla quale giova fermare particolarmente l’attenzione, vale a dire che tra i diritti fondamentali e i doveri costituzionali non si dà alcuna scala di priorità astrattamente preconfezionata, un ordine cioè precostituito che veda ora questi ed ora quelli porsi in posizione privilegiata rispetto agli altri. Si dà, invece e naturalmente, un ordine che si rifà di volta in volta, in ragione delle peculiari e complessive esigenze dei casi, in sede di “bilanciamento”, così come – è risaputo – d’altronde si ha per gli stessi diritti inter se. Quanto ai doveri però – e il punto è molto importante e merita una speciale considerazione – la loro soggezione a “bilanciamento” appare essere problematicamente predicabile, perlomeno con riguardo a taluni di essi o ad alcune loro espressioni.
Si torni, ad es., a riconsiderare con la massima rapidità il dovere di fedeltà alla Repubblica che, nella sua più densa e qualificante accezione, quale si coglie ed apprezza in prospettiva assiologicamente orientata, rimanda ai principi fondamentali nel loro fare “sistema”, nei riguardi dei quali chiede ai componenti la comunità statale, prima (e più) ancora che rispetto accompagnato da comportamenti (in forma sia attuosa che omissiva) ad esso conseguenti, adesione, intimamente e intensamente avvertita.
Si fermi un attimo l’attenzione su quest’affermazione, prima di andar oltre. Con essa infatti intendo mettere in mostra la densa e pregnante connotazione assunta dai doveri costituzionali (qui, in ispecie, da quello di fedeltà alla Repubblica) una volta posti sotto la luce abbagliante dell’etica: in linea, per questo verso, come si vedrà a momenti, con una pregnante indicazione metodica offerta dalla riflessione mazziniana. Il dovere di fedeltà per come risulta dalla fredda lettera degli enunciati parrebbe accontentarsi dell’adozione di certi atti o comportamenti (attuosi ovvero omissivi) da parte dei componenti la comunità statale; rivisto, però, in una dimensione eticamente orientata è – come si diceva – adesione ai valori fondamentali positivizzati nella Carta, a ciò che essi hanno rappresentato dopo l’immane tragedia della seconda grande guerra ed a ciò che ancora al presente (e, anzi, proprio oggi) possono e devono rappresentare per ciascuno di noi.
Ora, tra i principi fondamentali ai quali naturalmente rimanda la fedeltà alla Repubblica vi è – come si sa – anche quello della pace che – è doloroso dover proprio nella presente congiuntura rammentare – non è, in alcun caso o modo, disponibile, per la elementare ragione che chi fa la guerra con finalità di aggressione, per ciò stesso, non riconosce alcun valore all’intera tavola dei diritti fondamentali e, dunque, alla dignità e, prima ancora, alla stessa vita degli esseri umani, vale a dire al “primo dei diritti inviolabili dell’uomo”[19].
C’è, dunque, il dovere di difesa della patria, dotato – come si sa – di esplicito fondamento nella Carta che però fa il suo ingresso sulla scena solo in occasione di attacchi portati specificamente al nostro Stato. Ma c’è anche (e prima ancora) un dovere gravante su ciascuno di noi di operare fattivamente per la salvaguardia della pace e della giustizia fra le Nazioni, il cui fondamento diretto è nel combinato disposto di cui agli artt. 11 e 54 ma che può farsi pianamente discendere dall’insieme dei valori fondamentali cui dà voce la Carta, per la elementare ragione che l’offesa recata alla pace ridonda a carico dell’intero sistema dei valori suddetti[20], in ispecie a quelli di libertà eguaglianza democrazia giustizia sociale (che riporto qui – tengo, ora, a rimarcare – non separati da virgola, come usualmente invece si fa, perché non possono esserlo, facendo nell’esperienza tutt’uno e solo assieme tenendosi assieme[21]).
Il punto è molto importante e – come si diceva – richiede un supplemento di riflessione ad esso specificamente dedicata.
La comune dottrina propende – com’è noto – a proiettare in primo piano i diritti, assumendo che essi soltanto si pongano quale il cuore pulsante della Costituzione, ciò che ne dà nel modo più genuino e fedele l’intima natura, l’essenza appunto[22]. È un modo di vedere le cose, questo, che ha per vero una sua innegabile giustificazione, apprezzabile in prospettiva tanto storico-politica quanto positiva. Sappiamo tutti, infatti, che la “lotta per la Costituzione” che infiammò i moti risorgimentali era, in buona sostanza, la lotta per i diritti[23] e che, perciò, non a caso, proprio di questi ultimi (e non pure dei doveri), nel già richiamato art. 16 della Dichiarazione del 1789, si fa esplicita menzione, quale una delle due componenti (e, anzi, proprio quella maggiormente qualificante[24]), unitamente alla separazione dei poteri. della Costituzione.
Diritti e Costituzione, insomma, sono una cosa sola[25]; ed è perciò che – come si è tentato di mostrare altrove – la teoria dei diritti è la stessa teoria della Costituzione, riguardata nel suo profilo maggiormente caratterizzante ed espressivo.
A portare, dunque, fino ai suoi lineari e conseguenti svolgimenti questo schema, se ne ha (o, meglio, se ne avrebbe) che i doveri possono essere imposti unicamente a condizione (e dopo) che siano stati riconosciuti ed effettivamente salvaguardati i diritti. Di qui, appunto, la primauté assiologico-positiva che spetterebbe ai primi rispetto ai secondi[26].
Questo schema, tuttavia, parrebbe essere esattamente ribaltato su sé stesso dal magistero mazziniano, secondo il quale i diritti si pongono quale “conseguenza di doveri adempiti”[27]: è da questi, perciò, che sgorgano quelli, non viceversa[28].
A mia opinione, l’una e l’altra rappresentazione teorica appaiono essere radicali e deformanti, non dandosi né un prius né un posterius tra situazione giuridiche soggettive fondamentali[29], proprio perché… tali, tutte parimenti fondamentali[30], caratterizzanti l’essenza costituzionale e, perciò, egualmente necessarie e bisognose di essere fatte valere al massimo delle loro capacità, pur soggiacendo – com’è naturale che sia – ad operazioni di “bilanciamento” secondo i casi.
Se la visione mazziniana appare dunque essere parziale e non fedelmente espressiva dell’idea liberale di Costituzione, non per ciò tuttavia essa smarrisce il suo significato profondo e – come si diceva – la sua straordinaria attualità.
Perfettamente coerente con l’impianto costituzionale, anche dopo l’avvento dei c.d. diritti sociali e il loro riconoscimento nelle Carte venute alla luce all’indomani del secondo conflitto bellico, è l’idea – direi – non “egoistica” dei diritti fondamentali che, nuovamente, proprio perché tali, richiedono di essere messi in campo e fatti valere non già per l’esclusivo tornaconto di chi ne reclama la tutela ma anche (e soprattutto) per il bene dell’intera collettività (e, ancora una volta, viene così a rimarcarsi quella loro componente deontica, cui si faceva poc’anzi cenno). Esemplare, al riguardo, è la chiara e lapidaria affermazione che si legge nella famosa opera mazziniana che ha dato lo spunto per questo studio, secondo cui scopo della vita di ciascun individuo non è “quello d’essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori”[31]. Colgo in ciò, se non ne traviso il senso, la fortunata intuizione che vede libertà e solidarietà mirabilmente congiunte e, anzi, fuse tra di loro in una sintesi mirabile, gravida di implicazioni e di benefici effetti sia per i singoli che per l’intera collettività.
3. Il magistero mazziniano su libertà e solidarietà, patria e umanità e il segno da esso lasciato sulla Costituzione
Allo stesso tempo, non taciuta è la consapevolezza che la libertà è vuota parola priva di senso alcuno in un contesto sociale profondamente segnato da non rimosse e gravi diseguaglianze, tra le quali quelle riportabili alla diversità dei sessi, cui il patriota genovese assegna particolare e preoccupato rilievo[32]. La libertà – dice Mazzini – di chi ha solo le braccia da offrire come “arnesi di lavoro” e null’altro possiede è una “illusione, un’amara ironia”[33]. È anche (e soprattutto) per ciò che, con inusitata crudezza ed asprezza linguistica, si rileva essere la società in cui viviamo “incadaverita”.
L’idea del fattivo e costruttivo operare, in spirito di autentica e disinteressata solidarietà, è poi ribadita nella rappresentazione mazziniana del rapporto tra individuo e legge.
Qui, il dato di maggior significato e meritevole di essere messo in evidenza si apprezza in relazione alla natura dei vincoli discendenti dalla legge, a giudizio di Mazzini non meramente negativi bensì anche positivi. Esemplare, al riguardo, l’affermazione secondo cui “non basta limitarsi a non operare contro la legge: bisogna operare a seconda della legge. Non basta il non nuocere, bisogna giovare ai vostri fratelli”[34].
Viene così a determinarsi la conversione della solidarietà in fraternità[35]: una fraternità sollecitata a spiegarsi a tutto campo, non soltanto verso chi è vicino ma anche verso chi è lontano[36], non solo verso chi è presente, specie se particolarmente bisognoso di amorevoli cure[37], ma anche verso chi verrà[38]. Quest’apertura a raggiera degli effetti dei diritti fattisi doveri è enunciata con particolare vigore espressivo soprattutto nel cap. IV, dedicato ai Doveri verso l’umanità: termine quest’ultimo che in sé racchiude siffatte plurime valenze. Una umanità che, nell’ideale mazziniano, è vista come una vera e propria “famiglia”, caratterizzata dall’armonia di intenti e di azione di tutti i suoi componenti, non a caso chiamati “fratelli”[39].
Come si vede dalle scarne ed approssimative notazioni svolte, patria ed umanità, riguardati dal punto di vista dei doveri, non soltanto non sono concetti incompatibili ma, di più, appaiono essere complementari e bisognosi perciò di affermarsi congiuntamente.
È chiaro che il contesto odierno è – come si diceva – assai diverso da quello che aveva sotto gli occhi Mazzini al tempo in cui ci consegnava le sue dense ed approfondite riflessioni. Le indicazioni di principio, di particolar significato etico, tuttavia resistono all’usura del tempo e, anzi, forse si presentano, per taluni versi, maggiormente suggestive, stimolanti, pressanti.
Si pensi, per fare solo il primo esempio che viene in mente, all’impegno immane oggi richiesto per un congruo adempimento dei doveri verso le generazioni future e verso l’umanità, cui si è appena fatto cenno, dalla revisione degli artt. 9 e 41 della Carta. Il riferimento alla salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema[40] sollecita infatti – com’è di tutta evidenza – a produrre uno sforzo collettivo poderoso, in spirito di solidale e fattiva cooperazione sia di coloro che operano in ambito interno e sia dei soggetti della Comunità internazionale.
E, ancora, si pensi a come può (e deve) essere oggi intesa la patria, al dovere su ciascuno di noi gravante di difenderla, preservarne l’identità e trasmetterla integra – sempre che la difficilissima congiuntura presente ce lo consentirà… – alle generazioni a venire[41], ancora una volta in considerazione del presente contesto segnato da vincoli crescenti che vengono dalla Comunità internazionale, nonché da una integrazione sovranazionale che, pur con moto non lineare e tra innegabili difficoltà, si va tuttavia portando faticosamente avanti.
L’identità della patria si coglie ed apprezza sotto plurimi angoli visuali ed a più piani di esperienza. È fatta di quel bagaglio di lingua, tradizioni e, in una parola, cultura che connota e distingue la singola Nazione dalle altre, ancorché affini per la comune appartenenza alla grande e nobile famiglia delle liberal-democrazie. I principi fondamentali della Carta ne danno una emblematica, pregnante rappresentazione[42]; ed è perciò che in funzione servente nei riguardi della patria, specie nella sua declinazione assiologicamente pregnante, non si pone – come si è accennato e si tenta ora di precisare meglio – solo il dovere che ad essa fa nominalmente riferimento, quello di difesa, ma i doveri costituzionali tutti nel loro fare “sistema” sia inter se che con i diritti fondamentali[43]. Negli uni e negli altri assieme, infatti, si specchiano i valori di libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia sociale: valori transepocali, seppur – ahimè (ed è storia triste di oggi) – non autenticamente (ma tendenzialmente) universali. Valori comuni – si diceva – agli Stati di tradizioni liberali, come pure – non si dimentichi – all’Unione europea, che nondimeno si rivestono quindi di forme e si caricano di valenze varie da luogo a luogo e, per uno stesso luogo, nel tempo[44]: un patrimonio assiologico comune che, tuttavia, è stato (ed è) messo a dura prova da condizioni oggettive di contesto difficilissime e, persino, per taluni aspetti, proibitive, che obbligano l’Unione a farsi carico di problemi invero di ardua soluzione, offrendo dunque credibili testimonianze di essere davvero ciò che il nome che porta dice essere[45].
D’altro canto, è pur vero che le pretese avanzate a salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo sono cresciute in misura esponenziale e non possono, dunque, essere poste a raffronto con quelle che facevano capo alle libertà “classiche” rivendicate al tempo della riflessione mazziniana. Sono, anzi, pretese che aumentano di continuo e fanno sì, dunque, che si allarghi altresì la forbice tra ciò che in concreto si fa da parte dei pubblici poteri e ciò che dovrebbe ancora di più farsi per darvi appagamento. La qual cosa, poi, si traduce in gravi tensioni e non rimosse contraddizioni emergenti in seno al corpo sociale, foriere le une e le altre di sviluppi ad oggi imprevedibili e – temo – nefasti.
4. La triade composta dai doveri di fedeltà alla Repubblica, solidarietà e cooperazione, la loro formidabile vis espansiva, l’afflato etico che accomuna la lezione mazziniana e la Costituzione
Ogni medaglia ha, tuttavia, il suo rovescio. Si fa, dunque, per un verso, sempre più vistosa la pressione sociale nei riguardi dell’apparato volta a far sì che si disponga di spazi viepiù estesi entro cui vedere affermati i diritti: quelli ereditati dalla esaltante stagione liberale e i nuovi venuti successivamente alla luce, solo di alcuni dei quali si ha – com’è noto – esplicito riscontro in Costituzione, mentre altri hanno avuto riconoscimento con legge comune e, soprattutto, per il tramite di una sensibile e coraggiosa giurisprudenza, interna e sovranazionale. Per un altro verso, però, si fanno ancora più gravosi i doveri. Non è – si faccia caso – tanto una questione di quantità quanto di qualità. E, per avvedersene, è sufficiente tenere a mente le implicazioni che si danno tra i tre doveri di fedeltà alla Repubblica, solidarietà, cooperazione[46].
Ciascuno di essi esibisce una formidabile vis espansiva, venendo pertanto ad occupare porzioni del campo materiale in cui si dispongono gli altri e, perciò, a confondersi con essi, fino a fare tutt’uno. Si ha, insomma, conferma di quella vocazione irresistibile che è propria di ogni situazione soggettiva di rilievo costituzionale ad integrarsi fino ad immedesimarsi del tutto con le altre. Alcune delle più salienti esperienze del tempo presente parrebbero, dunque, riportarsi all’uno come all’altro dei doveri componenti la triade in parola. Se ne ha, infatti, riprova non soltanto se si presta attenzione ai comportamenti, attuosi ovvero omissivi, dei componenti il gruppo sociale ma anche con riguardo all’azione dei pubblici poteri e della stessa Repubblica vista nel suo insieme.
Si pensi, ad es., ai vincoli che connotano le relazioni tra gli Stati appartenenti all’Unione che possono, a seconda della prospettiva da cui le stesse sono riguardate, riportarsi ora al principium cooperationis tra gli Stati ed ora a quello della mutua solidarietà. O ancora si pensi al dovere di fedeltà alla Repubblica che, rimandando – come si diceva poc’anzi – all’intera tavola dei principi fondamentali dell’ordinamento, per ciò stesso evoca in campo proprio la solidarietà, nelle sue plurime articolazioni e valenze.
Il vero è che ai diritti così come ai doveri si applica l’ingranaggio dei vasi comunicanti che si trasmettono a vicenda parte dei contenuti in ciascuno di essi ospitati, rendendosi pertanto assai problematico, specie in talune circostanze, il mantenimento della reciproca tipizzazione.
Ebbene, se crescono le pretese che fanno capo ai diritti e crescono pure quelle legate ai doveri, viene naturalmente a mettersi viepiù in evidenza il carattere etico della Costituzione.
Dando voce ai valori fondamentali che hanno fuori del diritto l’humus naturale nel quale si radicano e crescono, la Costituzione si conferma essere, in nuce, la legge fondamentale eticamente connotata per antonomasia; e le due più qualificanti espressioni di questa che è la vera anima costituzionale sono, appunto, i diritti e i doveri, nel loro fare “sistema” unitariamente significante.
Ebbene, la riflessione mazziniana e la Costituzione condividono un afflato etico idoneo a pervadere ogni vicenda umana, specie nelle sue più salienti espressioni, quali appunto si rendono visibili – come si è venuti dicendo – per il tramite dei diritti e dei doveri costituzionali[47]. Proprio per il fatto di rinvenire nella dimensione etica l’humus naturale nel quale si radicano e crescono, diritti e doveri hanno in interiore hominis la fonte da cui senza sosta si alimentano; e, tuttavia, la sola dimensione etica di per sé non basta. Occorre anche il sussidio apprestato dal diritto, strumento elettivo perché gli uni e gli altri possano farsi valere, alle condizioni oggettive di contesto.
Se n’è avuta una lampante, particolarmente attendibile, conferma proprio in occasione del dilagare della pandemia sanitaria che ad oggi ci affligge ed inquieta. Così, l’obbligo vaccinale è stato vigorosamente e ripetutamente caldeggiato, in primo luogo, dagli scienziati e quindi dagli stessi massimi organi di apparato, a partire dal Capo dello Stato e dal Governo che lo hanno appunto rappresentato quale dovere morale da adempiere con spirito di genuina, intimamente avvertita, solidarietà. La risposta del corpo sociale – come si sa – non è venuta meno. E, tuttavia, il modo più efficace per assicurare la massima diffusione del vaccino è – a me pare[48] – quello di prescriverne il carattere anche giuridicamente obbligatorio per tutti (eccezion fatta, naturalmente, per coloro ai quali, per ragioni di età o di salute, è sconsigliato).
5. Una succinta notazione finale a riguardo del mutuo sostegno che etica e diritto hanno da darsi al fine della loro ottimale affermazione
Il vero è che etica e diritto hanno da darsi – è ormai provato – mutuo sostegno. L’una proietta un fascio di luce lungo gli itinerari intrapresi dal secondo, il quale, a sua volta, col fatto stesso di ispirarsi a quella e di raccoglierne le più salienti espressioni, vi dà voce e ne consente l’ottimale radicamento nell’esperienza. Simul stabunt vel simul cadent, insomma.
L’orizzonte teorico avuto di mira dalla lezione mazziniana sui doveri si arrestava, in buona sostanza, ai confini, peraltro opportunamente rimarcati, della dimensione etica, non percependosi tuttavia fino in fondo le formidabili risorse di cui il diritto dispone e che può mettere a frutto al fine della diffusione e del massimo radicamento dei precetti etici in seno al corpo sociale. La Carta repubblicana ha raccolto ed originalmente rielaborato il senso profondo di questo magistero, offrendogli pertanto opportunità per farsi ancora oggi valere che altrimenti non avrebbe avuto.
Rimane, poi, da vedere se, nel travagliato presente, si danno davvero le condizioni oggettive perché la pianta dei doveri possa crescere e portare i frutti sperati. Molti segni, invero, farebbero pensare che essa possa appassire o rivelarsi sterile; e il conflitto tra Russia ed Ucraina, qualora dovesse – come, invero, è da temere – contagiare anche altri Paesi, fino ad assumere – Dio non voglia – carattere mondiale, potrebbe soffocare ogni residua aspettativa. La storia, d’altronde, insegna che ci sono momenti nel corso delle umane vicende in cui si mette in moto un meccanismo perverso che determina una sorta d’impazzimento collettivo incontrollabile, perlomeno fintantoché non si riesca a far tacere il sordo rumore delle armi. L’uomo dispone tuttavia – non si dimentichi – di formidabili risorse morali, che dalla lezione mazziniana e dall’intima adesione ai valori costituzionali possono (e devono) trarre costante e copioso alimento ed alle quali dunque attingere per tenere accesa, pure nei momenti più bui, la fiammella della speranza.
[1] … specie per i riflessi profondi che ha avuto, da noi come altrove, sull’economia e sui diritti fondamentali (a riguardo dei quali, da ultimo, in prospettiva comparata, AA.VV., I diritti fondamentali in epoca di pandemia: esperienze a confronto, a cura di G. Battaglia - G. Famiglietti - L. Madau, Pisa University Press, Pisa 2022).
[2] Torna, per vero, a più ondate ad affacciarsi, con andamento carsico, per quanto di sicuro non abbia manifestato (e seguiti a non manifestare) la stessa seduzione del tema dei diritti fondamentali. È pure vero, però, che non di rado chi tratta dei primi fa riferimento anche ai secondi, e viceversa (indicazioni in A. Spadaro, Dall’indisponibilità (tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento) dei diritti fondamentali. Lo sbocco obbligato: l’individuazione di doveri altrettanto fondamentali, in Pol. dir., 1/2006, 167 ss.; AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - E. Grosso - J. Luther, Giappichelli, Torino 2007; AA.VV., Diritti e doveri, a cura di L. Mezzetti, Giappichelli, Torino 2013; A.M. Poggi, I diritti delle persone. Lo Stato sociale come Repubblica dei diritti e dei doveri, Mondadori, Milano 2014, e AA.VV., Cos’è un diritto fondamentale?, a cura di V. Baldini, Editoriale Scientifica, Napoli 2017; altre indicazioni, in F. Grandi, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, Editoriale Scientifica, Napoli 2014 e R. Bin, Critica della teoria dei diritti, FrancoAngeli, Milano 2018). I doveri tuttavia – come rammenta ora I. Massa Pinto, Doveri, in AA.VV., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, 289 ss., spec. 291 ss. – si sono storicamente trovati nei documenti costituzionali in una condizione di “minorità” rispetto ai diritti restando “per lungo tempo confinati in una sfera morale”.
[3] Faccio qui riferimento alla versione della nota opera, venuta alla luce – come si sa nel 1860, quale edita da La Nuova Italia, Firenze 1972. Il seme della riflessione mazziniana, peraltro, si rinveniva già nella sua opera Fede ed avvenire del 1835, nella quale era già nitidamente presente il debito della sua teologia politica nei riguardi del pensiero di Lessing [rimarca il punto, ora, V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale, in Federalismi (www.federalismi.it), 4/2021, 10 febbraio 2021, spec. 325].
[4] Va, nondimeno, avvertito che la religiosità di Mazzini consta – com’è stato messo in chiaro da L. Trucco, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit. – di una “doppia anima”, quale “fatto politico e sociale (ovvero ‘strumento’ di potere) e […] come atto, invece, di fede individuale”.
Sulla visione escatologica mazziniana si è, di recente, soffermato V. Tondi della Mura, nello scritto sopra cit., spec. 322 ss. e 328 ss., a cui opinione la teorica del patriota genovese sarebbe pervenuta all’Assemblea Costituente “oramai sfiancata dalla storia” e non avrebbe pertanto lasciato un segno significativo sulla elaborazione della Carta. Mi chiedo, però, cosa ne sarebbe stato dei doveri senza la lezione mazziniana, in ispecie se se ne sarebbe fatta parola nell’art. 2. Lo stesso Tondi della Mura, peraltro, non tralascia di fare richiamo agli interventi avutisi in seno all’Assemblea nei quali esplicito è stato il riferimento all’insegnamento mazziniano, a partire da quello del Presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini [rimarcato opportunamente il segno lasciato dalla riflessione mazziniana sui lavori della Costituente anche dall’Editoriale su Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 8 marzo 2022 e, pure ivi, dalle risposte di molti partecipanti all’intervista curata da R. Conti, in ispecie di I. Nicotra e A. Morelli. Infine, v. D. Porena, Tra costituzionalismo rivoluzionario di fine Settecento e costituzionalismo liberale del XIX secolo: alcune riflessioni sul contributo di Giuseppe Mazzini, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2022, 27 marzo 2022, 116 ss.].
[5] Ho argomentato l’una qualifica nel mio La pace come bene assoluto, indisponibile e non bilanciabile, il diritto fondamentale a goderne e il dovere di preservarla ad ogni costo, Editoriale, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 27 febbraio 2022; la seconda, poi, che tengo qui pure a ribadire con forza, può vedersi in più scritti che ho al tema ex professo dedicato, tra i quali La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi), nella stessa Rivista, 2/2018, 3 giugno 2018, 392 ss.
[6] …nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, Intervento al Seminario preventivo di Amicus curiae su La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2022, 196 s.
[7] …e, naturalmente, prima ancora di averli [per una peculiare fattispecie, v. A. Rauti, Il diritto di avere doveri. Riflessioni sul servizio civile degli stranieri a partire dalla sent. cost. n. 119/2015, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2015, 16 ottobre 2015, 1 ss.] che, poi, naturalmente si riflette nel dovere di avere doveri [a riguardo del quale l’omonimo titolo di un libro di L. Violante, edito da Einaudi nel 2014; vi ha fatto cenno anche R. Rordorf, nella sua risposta alla seconda domanda del forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.].
[8] A riguardo di quest’ultimo, indicazioni possono aversi da AA.VV., La doverosità dei diritti. Analisi di un ossimoro costituzionale, a cura di F. Marone, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
[9] Per la medesima ragione, a mia opinione, il dovere di difesa della patria non può non ritenersi valevole altresì per gli stranieri stabilmente residenti nel territorio della Repubblica, essi pure minacciati nella vita, negli affetti, nei beni da una eventuale aggressione esterna. Potrebbero considerarsene sgravati gli stranieri appartenenti allo Stato che ci muova guerra, potendosi in una congiuntura siffatta avere conflitti di coscienza anche laceranti che è opportuno, per quanto possibile, risparmiare a siffatta categoria di persone. Di tutto ciò, nondimeno, in altro luogo.
[10] …per la cui illustrazione faccio qui richiamo solo degli studi, particolarmente approfonditi, di A. Morelli, in ispecie del suo I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano 2013.
[11] Un diritto-dovere, questo, che è talvolta espressamente riconosciuto in Costituzione (così – come si rammenterà – già nell’art. 35 del documento costituzionale francese del 1793: “quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”) e un diritto-dovere comunque necessario pur laddove non se ne abbia esplicito riscontro, quale extrema ratio avverso l’aggressione.
[12] Il punto è, per vero, fatto oggetto di divergenti valutazioni. A mia opinione, se è vero – come credo essere – che la dignità fa tutt’uno con la humanitas stessa della persona, resta avvalorata in pieno l’affermazione ora fatta nel testo. La differenza, infatti, tra la dignità e la vita è che quest’ultima è considerata, al ricorrere di certe condizioni di estrema sofferenza, disponibile (tesi, peraltro, dalla quale per plurime ragioni qui non riproponibili reputo tuttavia di dover prendere le distanze), la dignità invece non lo è mai. Quand’anche, poi, dovesse ammettersi questa eventualità, occorrerebbe pur sempre tenere distinto ciò che può materialmente aver luogo dalla sua giuridica qualificazione. D’altronde, così è per la stessa vita: ogni giorno accade che alcuni se la tolgano volontariamente ed altri se la vedano soppressa da assassini, senza che nondimeno l’uccisione di un essere umano possa essere, in alcun caso o modo, giustificata.
[13] Mi sono, ancora non molto tempo addietro, soffermato sul punto, di cruciale rilievo, nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, cit., 194 ss. Un richiamo al mio pensiero può ora vedersi anche in A. Morelli, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[14] Se n’è discusso in occasione del convegno del Gruppo di Pisa svoltosi a Cassino il 10 e 11 giugno 2016 su Cos’è un diritto fondamentale?, cit. Avverto che, nondimeno, di qui in avanti farò riferimento solo ai diritti fondamentali ma ometterò, per scorrevolezza della esposizione, il più delle volte di far menzione dell’aggettivo che ne dà la qualificazione.
[15] V., dunque, volendo, il mio Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, nel vol. coll. da ultimo cit., 337 ss. e, già, in Consulta OnLine (www.giurcost.org) 2/2016, 30 giugno 2016, 263 ss. Molto importanti, in tema, sono, ancora oggi, A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Enc. giur., XI (1989) e N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990; v., inoltre, almeno A. Pintore, I diritti della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; P. Ridola, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Giappichelli, Torino 2006; B. Celano, I diritti nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna 2013; AA.VV., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 2014 e G. Pino, Il costituzionalismo dei diritti. Struttura e limiti del costituzionalismo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2017, del quale, più di recente, Diritti fondamentali, in AA.VV., Grammatica del costituzionalismo, cit., 207 ss., e, ora, Chi deve essere il custode dei diritti? Sul costituzionalismo politico e i suoi limiti, in Dir. comp. (www.diritticomparati.it), anteprima 2022, e, nella stessa Rivista, R. Bin, Diritti: cioè? Dietro i diritti, oltre le corti. In tema, opportune precisazioni sono in M.C. Grisolia, Ragionando sui diritti fondamentali, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in ConsultaOnLine (www.giurcost.org), 31 ottobre 2019, 1 ss.
[16] … con specifico riguardo – come si sa – alla determinazione della retribuzione, laddove nondimeno si dà una indicazione dotata di generale valenza.
[17] Trattandosi, in tesi, di diritti fondamentali, idonei a partecipare ad armi pari con i vecchi ad operazioni di bilanciamento secondo i casi, la loro positivizzazione – si è tentato di mostrare altrove – dovrebbe aversi, a prima battuta, con legge approvata con le procedure di cui all’art. 138, rivestendosi pertanto la materia costituzionale – e qui viene in rilievo proprio la sua parte maggiormente qualificante ed espressiva – della forma sua propria. Il riconoscimento, stricto sensu inteso, dovrebbe dunque aversi con il massimo atto di normazione; la disciplina ulteriore, volta a dare la tutela dei diritti stessi, apprestando la necessaria specificazione-attuazione della disciplina di base, può poi pianamente aversi con legge comune (e, discendendo, altri atti ancora di normazione). Alla giurisprudenza, infine, è demandato il compito di garantire la osservanza di tutte le discipline suddette. Così, perlomeno, dovrebbe essere secondo modello, quale ai miei occhi appare. Sta di fatto, però, che, per ragioni varie il cui esame obbligherebbe questa riflessione ad una digressione qui non consentitale, questo modello non è riuscito, in buona sostanza, ad affermarsi. Di alcuni nuovi diritti fondamentali si ha riscontro direttamente nella legislazione comune, che nondimeno esibisce plurime e gravi carenze, mentre di altri non se ne ha traccia positiva alcuna, con l’effetto per cui risulta direttamente (e talora, appunto, esclusivamente) addossato sulla giurisprudenza l’onere gravosissimo di dare subito il riconoscimento dei diritti stessi e persino l’ulteriore loro disciplina, ricorrendo, se del caso, alla “invenzione” di tecniche decisorie inusuali (Cappato docet).
[18] La qualifica è, per la prima volta, apparsa in A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss.
[19] … come ha avuto modo di ribadire, ancora da ultimo, Corte cost. n. 50 del 2022 (in tema d’inammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p.), con richiamo, tra le altre, della sent. n. 223 del 1996.
[20] Non si dimentichi, d’altronde, la ragione che ha portato alla menzione della pace nella Carta, innalzata al rango dei principi fondanti la Repubblica. Si era appena chiusa la dolorosissima vicenda bellica, preceduta e determinata dall’avvento di regimi autoritari, e si aveva diffusa e piena consapevolezza del fatto che solo in un contesto internazionale pacificato le liberal-democrazie avrebbero potuto affermarsi e crescere rigogliose e salde, a beneficio dei bisogni maggiormente avvertiti in seno al corpo sociale.
[21] Non sarebbe infatti immaginabile, specie nella presente temperie storica, un ordinamento di tradizioni liberali, quale il nostro, in cui si abbia libertà ma non eguaglianza, o viceversa; e così pure per gli altri valori appena indicati [ha ripetutamente insistito sul punto, di cruciale rilievo, G. Silvestri, part. in Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009 e, da ultimo, nella Introduzione al convegno su Il referendum sull’art. 579 c.p.: aspettando la Corte costituzionale, Milano 15 dicembre 2021, a cura di M. D’Amico e B. Liberali, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2022, Quad. n. 4, 3 ss.].
[22] V. quanto ne dicono al riguardo I. Nicotra e L. Salvato, nelle loro risposte al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, in ispecie a quelle date al primo quesito.
[23] Per tutti, in tema, v. M. Dogliani, La lotta per la Costituzione, in Dir. pubbl., 2/1996, 293 ss.
[24] D’altronde la separazione in parola è stata pensata – come si sa – in funzione servente dei diritti [ne ha attentamente ripercorso le più salienti fasi storiche G. Silvestri, La separazione dei poteri, I, Giuffrè, Milano 1979; dello stesso A., per i profili di ordine dogmatico, v., poi, della stessa opera, II (1984); altri riferimenti, ora, in T.F. Giupponi, Separazione dei poteri, in AA.VV., Grammatica del costituzionalismo, cit., 97 ss.].
[25] …o, per dir meglio, lo sono negli ordinamenti retti da Costituzioni di tradizioni liberali. Cosa diversa, alla quale tuttavia non può qui riservarsi neppure un cenno, è se possa appropriatamente farsi utilizzo del lemma “Costituzione” anche in relazione ad ordinamenti di tutt’altro segno, da una sensibile dottrina escluso (v., al riguardo, part., A. Spadaro, in più scritti, tra i quali Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994).
[26] …testimoniata peraltro emblematicamente dall’attenzione da essi costantemente attratta da parte degli studiosi che vi hanno dedicato scritti innumerevoli, diversamente dai doveri ancora oggi fatti oggetto di studi, sì, meritevoli di ogni considerazione e tuttavia non comparabili – perlomeno per quantità – rispetto ai primi [una speciale menzione va qui, nondimeno, fatta della nota monografia di G. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Giuffrè, Milano 1967, cui si deve il risveglio della riflessione sui doveri da parte della nostra dottrina: su di essa, di recente, spunti ricostruttivi di particolare interesse sono offerti da contributi al convegno su Spazio e frontiera. In ricordo di Giorgio Lombardi (1935-2010), svoltosi il 2 ottobre 2020, nonché da V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale, cit., 304 ss., seguito ora da A. Gusmai, (Ri)leggere Lombardi, un esercizio “doveroso”, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2022, 7 marzo 2022, 372 ss.].
[27] Cap. I, dal titolo Agli operai italiani.
[28] In tema, v., part., A. Levi, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, Zanichelli, Bologna 1922 e G.M. Chiodi, Precedenza dei doveri sui diritti umani, che peraltro è meglio definire diritti fondamentali, in Id., Europa. Universalità e pluralismo delle culture, Giappichelli, Torino 2002, 141 ss., cui si richiama anche T. Greco, Dai diritti al dovere: tra Mazzini e Calogero, in AA.VV., Repubblicanesimo democrazia socialismo delle libertà- “Incroci” per una rinnovata cultura politica, a cura di T. Casadei, FrancoAngeli, Milano 2004, 137 ss., che, in chiusura della sua densa riflessione, rammenta un pensiero di Gandhi che dichiarò di aver appreso “dalla madre illetterata ma molto saggia che tutti i diritti degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto” (149). Di T. Greco, v., inoltre, utilmente, Prima il dovere. Una critica della filosofia dei diritti, in AA.VV., Il senso della Repubblica. Doveri, a cura di S. Mattarelli, FrancoAngeli, Milano 2007, 15 ss., e Giuseppe Mazzini. Per una democrazia dei doveri, in Cosmopolis (www.cosmopolisonline.it), 1/2021. Diffusi i richiami al pensiero mazziniano sul punto negli interventi al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.; in ispecie, L. Trucco ha messo in evidenza il rilievo assunto dai doveri nella giurisprudenza costituzionale, il loro porsi in funzione servente dei diritti, al fine della loro ottimale affermazione.
[29] Della loro “eguale dignità costituzionale” ha, ancora da ultimo discorso A. Morelli, nel suo intervento, già richiamato, al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[30] Lo stesso avverbio è, chiaramente, ridondante, dal momento che, ove così non fosse, non potrebbero appunto essere… fondamentali; preferisco, nondimeno, lasciarlo per rimarcare ancora di più il concetto.
[31] V., nuovamente, loc. ult. cit.
[32] Lucidamente avverte L. Trucco, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit., che Mazzini, se fosse vissuto oggi, avrebbe sposato la causa della “rappresentanza femminile (anche) nei luoghi di potere”.
[33] Op. et loc. ult. cit.
[34] Cap. III, intitolato La Legge. Si è opportunamente riferito a questo passo, particolarmente significativo, anche R. Rordorf, nella sua risposta alla quarta domanda del forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[35] Su di che, nella dottrina costituzionalistica, v., part. gli studi di F. Pizzolato, in ispecie il suo Il principio costituzionale di fraternità, Città Nuova editrice, Roma 2012; v., inoltre, utilmente, E. Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005 e AA.VV., La fraternità come principio del diritto pubblico, a cura di A. Marzanati e A. Mattioni, Città Nuova Editrice, Roma 2007. Per una ricostruzione del concetto diversamente orientata da quella qui accolta, v. I. Massa Pinto, Costituzione e fraternità. Una teoria della fraternità conflittuale: “come se” fossimo fratelli, Jovene, Napoli 2011.
Sul dovere di solidarietà, nella ormai incontenibile lett., dopo S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014, v. almeno i contributi di F. Giuffrè, tra i quali, ora, la voce Solidarietà per il Dig./Disc. pubbl., Agg., VIII (2021); A. Apostoli, La svalutazione del principio di solidarietà. Crisi di un valore fondamentale per la democrazia, Giuffrè, Milano 2012; M.C. Blais, La solidarietà. Storia di un’idea, Giuffrè, Milano 2012; F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà, Bononia University Press, Bologna 2016; v., inoltre, utilmente, AA.VV., Il dovere di solidarietà, a cura di B. Pezzini e C. Sacchetto, Giuffrè, Milano 2005; AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, cit., ed ivi, part., L. Violini, I doveri inderogabili di solidarietà: alla ricerca di un nuovo linguaggio per la Corte costituzionale, 517 ss.; E. Grosso, I doveri costituzionali, in AA.VV., Lo statuto costituzionale del non cittadino, a cura dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Napoli 2010, spec. 248 ss.; V. Tondi della Mura, La solidarietà fra etica ed estetica. Tracce per una ricerca, in Scritti in onore di A. Mattioni, Vita e Pensiero, Milano 2011, 666 ss. e, dello stesso, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale, cit.; A. Morelli, I principi costituzionali relativi ai doveri inderogabili di solidarietà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura e A. Morelli, Giuffrè, Milano 2015, 305 ss.; G.L. Conti, Il pendolo della solidarietà nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017, 463 ss.; G. Bascherini, La doverosa solidarietà costituzionale e la relazione tra libertà e responsabilità, in Dir. pubbl., 2/2018, 245 ss.; E. Rossi, La doverosità dei diritti: analisi di un ossimoro costituzionale?, in AA.VV., La doverosità dei diritti. Analisi di un ossimoro costituzionale, cit., 9 ss.; altri riferimenti, nella voce Doveri, sopra cit., di I. Massa Pinto, spec. 294 ss. Infine, A. Gusmai, (Ri)leggere Lombardi, un esercizio “doveroso”, cit., spec. 385 ss. Opportuni richiami della giurisprudenza costituzionale, da ultimo, nel contributo di L. Trucco al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit.
[36] In argomento, faccio qui richiamo solo delle riflessioni consegnateci da A. Spadaro in più scritti, tra i quali L’amore dei lontani: universalità e intergenerazionalità dei diritti fondamentali fra ragionevolezza e globalizzazione, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it); Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, e I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Riv. AIC (www.rivistaic.it), 4/2011, 6 dicembre 2011.
[37] …e così per i soggetti diversamente abili, i più vulnerabili per malattia [per tutti, M. Gensabella Furnari, Vulnerabilità e cura. Bioetica ed esperienza del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; G. RAZZANO, Le incognite del referendum c.d. «sull’eutanasia», fra denominazione del quesito, contenuto costituzionalmente vincolato e contesto storico, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 3/2021, 9 dicembre 2021, spec. 979 s., e, della stessa, ora, La proposta di legge sulle «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita»: una valutazione nella prospettiva costituzionale anche alla luce della sent. n. 50/2022, in Federalismi (www.federalismi.it), 9/2022, 23 marzo 2022, 53 ss.; P.F. Bresciani, Chi sono i “vulnerabili” che l’art. 579 c.p. deve proteggere?, in AA.VV., La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., cit., 45 ss.], per stato di bisogno economico [a riguardo dei quali, ora, R. Fattibene, Povertà e Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, nonché i contributi che sono in LavoroDirittiEuropa (www.lavorodirittieuropa.it), 1/2022], i minori, specie se stranieri, ancor più se non accompagnati [a riguardo dei quali, tra gli altri, A. Di Pascale - C. Cuttitta, La figura del tutore volontario dei minori stranieri non accompagnati nel contesto delle iniziative dell’Unione europea e della nuova normativa italiana, in Dir., imm., citt. (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.), 1/2019, 1 ss.; G. Moschella, La legislazione sull’immigrazione e le prospettive della tutela dei diritti fondamentali: L’ordinamento europeo e l’esperienza italiana, in Ord. int. dir. um (www.rivistaoidu.net), 3/2019, 15 luglio 2019, spec. 481 ss.; F. Izzo, La tutela internacional de los minores extranjeros no acompañados ¿Una facultad o una obligación para los Estados? La experiencia española a través del análisis de la comunicación n. 4/16 del Comité de los derechos del niño, in Ord. int. e dir. um. (www.rivistaoidu.net), 1/2020, 15 marzo 2020, 123 ss.; M. Tomasi, Verso la definizione di uno statuto giuridico dei minori stranieri non accompagnati in Europa? Modelli astratti e concreti di tutela della vulnerabilità, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2020, 20 marzo 2020, 519 ss.; C. Cottatellucci, Minori stranieri non accompagnati: linee evolutive del quadro normativo e questioni aperte, in AA.VV., Ius migrandi. Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia, a cura di N. Giovannetti e N. Zorzella, FrancoAngeli, Milano 2020, 327 ss.; pure ivi, E.S. Rizzi, I minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo, 852 ss.; C. Di Stasio, La violazione del diritto all’unità familiare dei minori stranieri non accompagnati: quali le possibili soluzioni nel diritto internazionale privato?, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2020, 13 maggio 2020, 273 ss. e, nella stessa Rivista, C. Valente, L’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati: un obiettivo raggiunto o raggiungibile?, 29 luglio 2020, 1439 ss.; F. Biondi Dal Monte, Il sistema di accoglienza e integrazione e i diritti dei minori stranieri. Riflessioni sulla disciplina introdotta dal d.l. n. 130/2020, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2021, 4 gennaio 2021, 120 ss.; A. Pitrone, La protezione dei minori stranieri non accompagnati nella giurisprudenza europea: quale possibile influenza sulle proposte contenute nel nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo?, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (http://www.fsjeurostudies.eu), 1/2021, 29 ss. e nella stessa Rivista, F. Di Gianni, Il “nuovo patto sulla migrazione e l’asilo” e la protezione dei minori migranti, 2/2021, 95 ss.; A. Amato - G. Mack, «Neanche per andare al bagno riuscivo a comunicare». Potersi esprimere ed essere ascoltati: un’indagine pilota tra i minori stranieri non accompagnati, in Dir., imm., citt. (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.), 3/2021, 168 ss., e nella stessa Rivista M. Benvenuti, Dubito ergo iudico. Le modalità di accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati in Italia, 1/2022, 172 ss.; A.M. Romito, I minori stranieri non accompagnati nell’Unione europea: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in AA.VV., Migrazioni internazionali. Questioni giuridiche aperte, a cura di I Caracciolo - G. Cellamare - A. Di Stasi - P. Gargiulo, Editoriale Scientifica, Napoli 2022, 643 ss.; M.C. Spena, La protezione del diritto alla salute per i minori stranieri non accompagnati tra integrazione sociosanitaria e profili di tutela, in Nuove aut., 1/2022] o i minori figli di madri detenute [su cui, per tutti, A. Vesto, Madri detenute e figli minori: il ruolo della responsabilità genitoriale tra affettività e tutela dei diritti umani, in Ord. int. dir. um. (www.rivistaoidu.net), 1/2019, 15 marzo 2019, 101 ss.], e via dicendo.
[38] Tema, quest’ultimo, particolarmente spinoso, a riguardo del quale è in corso da tempo un animato dibattito che tuttavia appare ad oggi caratterizzato da marcate divergenze di orientamenti. Su di esso, ex plurimis, R. Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale, FrancoAngeli, Milano 2008; AA.VV., Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, a cura di R. Bifulco e A. D’Aloia, Jovene, Napoli 2008; A. D’Aloia, Generazioni future (dir. cost.), in Enc. dir., Ann., IX (2016) e, dello stesso, Bioetica ambientale, sostenibilità, teoria intergenerazionale della Costituzione (2019), ora in Id., Il diritto e l’incerto del mestiere di vivere, Wolters Kluwer, Milano 2021, 159 ss.; AA.VV., Responsabilità verso le generazioni future. Una sfida al diritto all’etica e alla politica, a cura di F. Ciaramelli - F.G. Menga, Editoriale Scientifica, Napoli 2017; D. Porena, Il principio di sostenibilità. Contributo allo studio di un programma costituzionale di solidarietà intergenerazionale, Giappichelli, Torino 2017; A. Saitta, Dal bilancio quale “bene pubblico” alla “responsabilità costituzionale democratica” e “intergenerazionale”, in Giur. cost., 1/2019, 216 ss., spec. 223 ss.; G. Palombino, La tutela delle generazioni future nel dialogo tra legislatore e Corte costituzionale, in Federalismi (www.federalismo.it), 24/2020, 5 agosto 2020, 242 ss.; I. Ciolli, Diritti delle generazioni future, equità intergenerazionale e sostenibilità del debito. Riflessioni sul tema, in Bilancio Comunità Persona, 1/2021, 51 ss.; R. De Caria, Il principio della solidarietà tra generazioni tra mutualizzazione dei debiti e divieto di finanziamento monetario, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 28 giugno 2021, 120 ss.; AA.VV., Tutela dell’ambiente: diritti e politiche, a cura di M. Cecchetti - L. Ronchetti - E.B. Liberati, Editoriale Scientifica, Napoli 2021; v., poi, per taluni profili messi a fuoco da plurimi angoli visuali, i contributi che sono sotto il titolo I conflitti tra generazioni come questione di diritto costituzionale, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 3/2021, 25 febbraio 2022, ed ivi, in particolare, il saggio di A. Morelli, Ritorno al futuro. La prospettiva intergenerazionale come declinazione necessaria della responsabilità politica, 77 ss., e lo studio di M.A. Gliatta, Ambiente e Costituzione: diritti distributivi e riconfigurazione della responsabilità intergenerazionale, 102 ss.
[39] D’altronde, l’idea mazziniana di patria, nella sua densa e qualificante accezione – come ha fatto notare L. Trucco, nel suo intervento al forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit. – è quella di “casa dell’uomo e non dello schiavo”, che a tutti coloro che vi alloggiano riconosce pari dignità ed opportunità di affermazione della loro personalità, secondo l’indicazione poi ripresa e mirabilmente espressa dalla Carta costituzionale.
[40] … sul quale ha opportunamente richiamato l’attenzione, in occasione del forum su I doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi, cit., part. A. Morelli. Sul significato e sui possibili effetti conseguenti alla innovazione costituzionale in parola il dibattito si è subito avviato coinvolgendo un numero cospicuo di commentatori: ex plurimis, G. Amendola, L’inserimento dell’ambiente in Costituzione non è né inutile né pericoloso, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 25 febbraio 2022; R. Cabazzi, Dalla “contrapposizione” alla “armonizzazione”? Ambiente ed iniziativa economica nella riforma (della assiologia) costituzionale, in Federalismi (www.federalismi.it), 7/2022, 9 marzo 2022, 31 ss., e F. Mucci, Dal diritto internazionale alla Costituzione italiana: per una tutela dell’ambiente inevitabilmente antropocentrica ma ecologica, lungimirante e coerente, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2022, 15 marzo 2022, 447 ss.
[41] Riporta al dovere di fedeltà la trasmissione alle generazioni a venire del patrimonio dei valori fondanti la Repubblica A. Morelli, Ritorno al futuro. La prospettiva intergenerazionale come declinazione necessaria della responsabilità politica, cit., spec. 93 ss.
[42] Su di che, per tutti, P. Faraguna, Ai confini della Costituzione. Principi supremi e identità costituzionale, FrancoAngeli, Milano 2015.
[43] Mi sono sforzato di mettere in luce la connotazione assiologica, emblematicamente espressiva dell’etica pubblica repubblicana, dei doveri costituzionali nel mio Doveri fondamentali, etica repubblicana, teoria della Costituzione (note minime a margine di un convegno), in AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, cit., 551 ss.
[44] Il rapporto tra i principi di struttura dell’Unione e quelli degli Stati che la compongono appare, nondimeno, essere complesso, presentando essi tratti comuni e tratti reciprocamente distintivi. È da essi che discende la doppia appartenenza di ciascun cittadino allo Stato ed all’Unione, con i vincoli ad essa conseguenti, specificati dalle discipline normative poste in funzione servente dei principi stessi.
[45] Si pensi solo a come è stato fin qui gestito il flusso imponente di migranti irregolari, a riguardo del quale per vero ci si attendeva (e ci si attende) una più credibile testimonianza di solidarietà [in tema, ex plurimis, in aggiunta agli scritti dietro citt., AA.VV., Italia, Europa: i diritti fondamentali e la rotta dei migranti, a cura di M. Miedico e G. Romeo, in Federalismi (www.federalismi.it), num. spec. 2/2019, 25 marzo 2019, 1 ss.; S. Quadri, Sovranità funzionale e solidarietà degli Stati a tutela dei diritti dei migranti, in Dir. pubbl. comp. eur., 3/2019, 663 ss.; R. Russo, I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 10 gennaio 2020, e, pure ivi, della stessa, Le Sezioni Unite si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro, 1° ottobre 2021; M. Messina, Il fallimento della solidarietà nella gestione dei flussi migratori: la responsabilità degli Stati membri con la complicità delle istituzioni dell’Unione, in AA.VV., Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A vent’anni dal Consiglio europeo di Tampere, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 475 ss.; G. Morgese, La solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione europea in materia di immigrazione e asilo, in Federalismi – focus Human Rights (www.federalismi.it), 35/2020, 28 dicembre 2020, 16 ss.; M. Borraccetti, L’integrazione dei migranti tra politiche europee, azioni e tutela dei diritti, in Dir. pubbl., 1/2020, 15 ss.; I. Rivera, Il coraggio e la paura. La problematica gestione del fenomeno migratorio tra istanze solidariste e spinte sovraniste, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 21 aprile 2020, 1354 ss.; AA.VV., Verso un quadro comune europeo ed una nuova governance della migrazione e dell’asilo, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (www.fsjeurostudies.eu), 2/2021; ivi, part., M.C. Carta, Il “nuovo” patto europeo sulla migrazione e l’asilo: recenti sviluppi in materia di solidarietà ed integrazione, 9 ss.; AA.VV., Migrazioni internazionali. Questioni giuridiche aperte, cit. ed ivi part. C.M. Pontecorvo, La tutela internazionale dei “migranti climatici”, tra (persistenti) limiti normativi e (recenti) prospettive giurisprudenziali, 325 ss.; della stessa, inoltre, Towards litigating climate-induced migration? Current limits adn emerging trends for the protection of “climatedinducend migrants” in international law, in Ord. int. dir. um (www.rivistaoidu.net), 1/2022, 99 ss. Infine, se si vuole, possono vedersi anche i miei Cittadini, immigrati e migranti, alla prova della solidarietà, in Dir., imm., citt. (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.), 2/2019, 1° luglio 2019; Cittadini, immigrati e migranti al bivio tra distinzione e integrazione delle culture (note minime su una spinosa e ad oggi irrisolta questione), in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 3/2021, 20 novembre 2021, 393 ss. e Per i migranti ambientali: non muri o respingimenti ma solidarietà e accoglienza in Ord. int. dir. um. (www.rivistaoidu.net), 5/2021, 5 novembre 2021, 1154 ss.].
E si pensi ancora a come si è affrontata la dilagante ed incontrollata diffusione della pandemia sanitaria che ha, in buona sostanza, portato ciascuno Stato a determinarsi in modo indipendente dagli altri componenti l’Unione al fine di farvi fronte, mettendosi peraltro a dura prova le capacità di tenuta dell’ordine costituzionale delle competenze sul duplice versante dei rapporti tra gli organi della direzione politica e di quelli Stato-Regioni e autonomie territoriali in genere.
Da ultimo, si faccia caso alla reazione manifestata dall’Unione nei riguardi della vile aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, in relazione alla quale si è, perlomeno ad oggi (in un quadro dunque fluido ed incerto), avuta una risposta cauta e ferma allo stesso tempo, nel tentativo di conciliare – fin dove possibile – l’esigenza di non esasperare ulteriormente gli animi, facendo ancora di più crescere una tensione che è già assai elevata, e l’esigenza di non far passare sotto silenzio la (o, come che sia, mettere la sordina alla) dura condanna nei riguardi di Putin per la scellerata decisione presa di muovere guerra ad un Paese che null’altro pretendeva (e pretende) che di essere riconosciuto pleno iure sovrano.
[46] Quanto ai primi due doveri, si rimanda ai richiami dietro fatti; in tema di cooperazione, come si sa stranamente qualificata di solito come “leale” (quasi che possa ammettersi che sia priva di siffatto attributo…), riferimenti ed indicazioni possono aversi da A. Gratteri, I doveri di leale collaborazione, in AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, cit., 206 ss.; F. Covino, Leale collaborazione e funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Jovene, Napoli 2018; E. Gianfrancesco, Dimensione garantista e dimensione collaborativa nel disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2019, 10 luglio 2019, 193 ss.; B. Guastaferro, Autonomia sovranità rappresentanza. L’evoluzione della forma di Stato in Italia e Regno Unito, Wolters Kluwer-Cedam, Milano 2020, spec. 107 ss.; A. Paiano, Forme di raccordo fra Stato e autonomie territoriali: il principio di leale collaborazione e il sistema delle Conferenze, in Oss. fonti (www.osservatoriosullefonti.it), 1/2020, 227 ss.; A. Saporito, Il principio di leale collaborazione al tempo dell’emergenza sanitaria, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2020, 15 giugno 2020, 870 ss.; C. Padula, La pandemia, la leale collaborazione e la Corte costituzionale, in Le Regioni, 1-2/2021, 169 ss., e, nella stessa Rivista, A. Bartolini, Superiorem non recognoscens, ovvero quando la leale collaborazione non funziona, 3/2021, 523 ss., e G. Di Cosimo, Le forme della collaborazione al tempo della pandemia, 543 ss.; C. Caruso, Cooperare per unire. I raccordi tra Stato e Regioni come metafora del regionalismo incompiuto, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2021, 9 febbraio 2021, 283 ss. e, dello stesso, La leale collaborazione ai tempi del iudicial regionalism. Da metodo di governo a criterio di giudizio, in Quad. cost., 4/2021, 909 ss.; Q. Camerlengo, Le convenzioni costituzionali tra principio di leale collaborazione e teoria dei giochi, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2022, 10 gennaio 2022, 1 ss., spec. 9 ss.; A. Dirri, Pandemia e leale cooperazione: il modello regionale italiano alla luce di due “federalismi classici”, in Italian papers on federalism (www.ipof.it), 3/2021, 31 gennaio 2022, 96 ss.
[47] Forse, la più emblematica testimonianza dell’afflato in parola si rinviene nei doveri gravanti su ciascuno di noi verso sé stessi, sui quali Mazzini si sofferma nel cap. VII della sua opera, insistendo specificamente sul progresso che consegue all’adempimento dei doveri in parola. È per il loro tramite, infatti, che l’individuo afferma magis ut valeat la propria personalità della quale è parte integrante il godimento di diritti inviolabili e, non disgiunto da questo e in pari misura rispetto ad esso, l’adempimento di doveri a beneficio degli altri componenti il gruppo sociale e di quest’ultimo nella sua interezza. I doveri verso sé stessi, insomma, prendono forma – come si è venuti dicendo – anche per il tramite dell’esercizio dei doveri verso gli altri, in ispecie attraverso copiose e tangibili manifestazioni di solidarietà, in ciascuna delle sue plurime espressioni; e, quanto più tali doveri trovano opportunità e spazi per farsi valere, tanto più l’uomo dunque realizza sé stesso.
[48] V., infatti, quanto se ne dice nel mio Covid-19 e obbligo vaccinale, dal punto di vista della teoria della Costituzione, in Nuove aut. (www.nuoveautonomie.it), Speciale obbligo vaccinale, 1/2022, 21 febbraio 2022; nella stessa Rivista, altri punti di vista a commento di una decisione interlocutoria del CGA per la Regione siciliana (su quest’ultima, può inoltre utilmente vedersi B. Brancati, Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana. pronuncia un’ordinanza istruttoria per valutare se sollevare questione di costituzionalità sull’obbligatorietà dei vaccini anti SARS-CoV-2, in Foro it., 3/2022, III, 170 ss.). Lo stesso CGA, all’esito dell’istruttoria avviata con la decisione suddetta, si è, da ultimo, determinato a sollevare una questione di costituzionalità che ci si augura possa essere quanto prima definita.
In senso avverso alla tesi da me patrocinata in merito all’obbligo vaccinale, v., di recente, C. Iannello, Le «scelte tragiche» del diritto a tutela della salute collettiva. L’irragionevolezza di una vaccinazione obbligatoria generalizzata per il Sars-Cov-2, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2022, 20 gennaio 2022, 145 ss.
I papi del Novecento e le guerre
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Contro la «guerra mondiale a pezzi» - 2. Di fronte alla prima guerra mondiale - 3. I rapporti col nazismo e la seconda guerra mondiale - 4. Dalla guerra fredda ai giorni nostri - 5. Pace non è pacifismo.
1. Contro la «guerra mondiale a pezzi»
«La Guerra è una pazzia! Fermatevi per favore!». Le parole di papa Francesco, si riferiscono alla guerra in Ucraina, ma non valgono solo nei confronti di questo conflitto. Anche nel recente passato Francesco contro tutti quelli in corso in varie parti del mondo. Già durante l’Angelus del 9 agosto 2015 Francesco aveva esclamato: «Da ogni terra si levi un’unica voce: no alla guerra, no alla violenza, sì al dialogo, sì alla pace! Con la guerra sempre si perde. L’unico modo di vincere una guerra è non farla».
Questo rifiuto della guerra come tale è del resto chiaramente espresso nell’enciclica «Fratelli tutti», dell’ottobre del 2020. In essa Francesco lanciava un allarme che oggi suona profetico: «La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti» (Fratelli tutti n. 256).
In quel documento si sottolineava la drammaticità di tutti i conflitti armati con parole che sembrano scritte alla luce delle più recenti vicende: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace» (Fratelli tutti n.261).
Altrettanto appropriate a quanto sta accadendo appaiono le parole di Francesco a proposito delle conseguenze che anche una guerra apparentemente “locale” determina a livello planetario: «È importante aggiungere che, con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale» (Fratelli tutti n.259).
2. Di fronte alla prima guerra mondiale
Questa denunzia dell’assurdità della guerra, da parte di un papa, non è peraltro una novità.
Già all’inizio della prima guerra mondiale, Pio X (1903-1914) all’ambasciatore austriaco che lo sollecitava a benedire le truppe austro-ungariche, aveva risposto: «Io benedico la pace».
Il 2 agosto 1914, pochi giorni prima della sua morte, il pontefice espresse, nell’esortazione Dum Europa, tutta la sua sofferenza di fronte a ciò che stava accadendo: «Mentre quasi tutta l’Europa è trascinata nei vortici di una funestissima guerra (…) non possiamo (…) non sentirci straziare l’animo».
Ma toccò al suo successore, Benedetto XV (1914-1922), eletto papa poche settimane dopo l'inizio del conflitto, prendere più ampiamente posizione E lo fece, sia con la sua prima enciclica, «Ad Beatissimi Apostolorum principis», del novembre 1914, in cui si appellò ai governanti delle nazioni per far tacere le armi , sia con la «Nota di pace», indirizzata il primo agosto 1917 ai belligeranti, contenente la famosa espressione con cui il papa definiva la guerra in corso una «inutile strage».
3. I rapporti col nazismo e la seconda guerra mondiale
Il suo successore, Po XI (1922-1939), è soprattutto noto per aver firmato insieme a Mussolini, nel 1929 i Patti Lateranensi.
Non sempre si ricorda, però, che il 10 marzo 1937- quando Hitler era al culmine del suo potere - il papa pubblicò l’enciclica «Mit brennender Sorge» (“Con bruciante preoccupazione”), scritta direttamente in tedesco, ordinando di leggerla, durante la messa domenicale, in tutte le chiese della Germania (come effettivamente fu fatto, suscitando le ire del regime nazista). In essa si esortavano i fedeli tedeschi a respingere, malgrado le pressioni esercitate su di loro, «il mito del sangue e della razza». E si sottolineava che, quando «la razza o il popolo» o «lo Stato» vengono elevati «a suprema norma di tutto (…) divinizzandoli con culto idolatrico», si «perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato».
Il successore di papa Ratti, Pio XII (1939-1958), si trovò davanti alla scoppio della seconda guerra mondiale che egli – proprio all’indomani della sua elezione al pontificato, avvenuta nel marzo del 1939 - cercò disperatamente di fermare nel Radiomessaggio del 24 agosto, contenente il famoso appello: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra».
Poco prima, papa Eugenio Pacelli aveva inviato anche un messaggio personale a Hitler, esortandolo a occuparsi del vero benessere spirituale del popolo tedesco. E quando, infine, ormai si comprendeva chiaramente che la situazione stava precipitando, tentò un’ultima carta proponendo a Germania e Polonia di soprassedere per quindici giorni alle misure militari per incontrarsi in una conferenza internazionale di pace. Sappiamo che questi sforzi della Santa Sede furono vani, di fronte alla decisa volontà di Hitler di scatenare la guerra, che infatti cominciò il 1 settembre del 1939.
Il pontefice non si rassegnò. Un recente libro dello storico statunitense Mark Riebling («Church of Spies. The Pope’s Secret War against Hitler», del 2015) ha rivelato che nella prima fase del conflitto, egli prese parte, addirittura, a un complotto di alcuni generali tedeschi per spodestare Hitler e svolse il ruolo di intermediario nei contatti che intercorsi tra i cospiratori e la Gran Bretagna. Nell’aprile del 1940 ebbe diversi incontri segreti con i congiurati tedeschi e il rappresentante del governo inglese. Ma la cospirazione non andò in porto.
Dopo la guerra, nel 1946, Pio XII comprese il mutamento che l’irruzione dell’energia nucleare stava comportando e, in un Discorso al Sacro Collegio dei Cardinali, parlò della «potenza dei nuovi strumenti di distruzione che riconducono il problema del disarmo al centro delle discussioni internazionali con aspetti completamente nuovi».
A Pio XII è stato spesso rimproverato – come nel famoso dramma Il vicario, di Hochhuth, del 1963 - . di non avere mai condannato pubblicamente il nazismo, in particolare di non aver mai denunziato la politica di sterminio sistematico degli ebrei. Ed è sicuramente vero che, nei confronti delle spietate misure dei nazisti, papa Pacelli preferì affidarsi ad una occasionale negoziazione diplomatica per limitare l’asprezza delle persecuzioni e delle rappresaglie, convinto che una sua denuncia ufficiale dell'Olocausto non solo avrebbe provocato un incrudimento dell’atteggiamento dei tedeschi verso i cattolici, ma non avrebbe giovato agli stessi ebrei.
Le legittime perplessità di fronte a questa scelta, molto discussa e sicuramente discutibile, non devono però far dimenticare l’impegno del pontefice a favore delle vittime e dei perseguitati, come ad esempio la disposizione da lui data agli istituti religiosi di Roma di sospendere la regola della clausura per diventare luoghi di rifugio, nascondendo migliaia di ebrei Lo stesso accadde in Vaticano, dove trovarono rifugio diversi leader politici antifascisti.
E quando, il 27 settembre 1943, i tedeschi pretesero dalla comunità ebraica di Roma la consegna di 50 chili d’oro nel giro di 24 ore, minacciando la deportazione in Germania in caso di inadempienza, il rabbino capo di Roma Israel Zoller (il cui nome era stato cambiato, per ordine del fascismo, in Italo Zolli) chiese e ottenne l’aiuto proprio di Pio XII per avere i 15 kg che mancavano al totale richiesto. Un atto di pronta generosità che, terminata l'occupazione, venne ricordata in una solenne celebrazione nel Tempio Maggiore ebraico di Roma nel luglio del 1944, in cui la comunità ebraica espresse pubblicamente la sua riconoscenza al papa per l'aiuto dato loro durante la persecuzione nazista. Non è senza rapporto con tutto questo il fatto che, dopo la guerra, Zolli abbia abbandonato la carica di rabbino capo e si sia convertito al cattolicesimo, facendosi battezzare, in esplicito riferimento a papa Pacelli, col nome di Eugenio.
4. Dalla guerra fredda ai giorni nostri
Giovanni XXIII
Il successore di Pacelli, papa Giovanni XXIII (1958-1963) alla pace ha addirittura dedicato una enciclica, la «Pacem in terris», del 1963, scritta, quasi come un testamento spirituale, pochi mesi prima della sue morte. In essa egli sottolineava che «a tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale» (Pacem in terris n.87).
Nel 1962, in occasione della crisi provocata dall’invio di missili sovietici a Cuba, il pontefice non solo aveva rivolto attraverso Radio Vaticana un appello per la pace, ma si era rivolto anche direttamente al leader russo Kruscev, con un messaggio in cui lo invitava ad avere «il coraggio di richiamare le navi portamissili», motivando così la sua richiesta: «Potete sostenere di non essere religioso, ma la religione non è un insieme di precetti, bensì l’impegno all’azione nell’amore di tutta l’umanità, che quando è autentico si unisce all’amore di Dio, per cui anche se non se ne pronuncia il nome, si è religiosi».
Paolo VI
Anche Paolo VI (1963-1978) è stato strenuo assertore del valore, e al tempo stesso della precarietà, della pace. Nell’udienza generale del 26 agosto del 1964 egli sottolineava che la pace è «un bene supremo per l’umanità che vive nel tempo; ma è un bene fragile, risultante da fattori mobili e complessi, nei quali il libero e responsabile volere dell’uomo gioca continuamente. Perciò la pace non è mai del tutto stabile e sicura; deve essere ad ogni momento ripensata e ricostituita; presto si indebolisce e decade, se non è incessantemente richiamata a quei veri principii che soli la possono generare e conservare».
Anche in questo caso non si trattò solo di parole, ma di una costante azione volta a creare le condizioni della pace minacciata, soprattutto attraverso una costante azione diplomatica (emersa solo di recente dagli archivi di Washington) per porre fine alla guerra in Vietnam.
Giovani Paolo II
Il pontefice che più di ogni altro, dopo il secondo conflitto mondiale, si è messo personalmente in gioco contro la guerra è stato Giovanni Paolo II (1978-2005).
Nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, in una grande Preghiera per la pace, egli scriveva:
«Dio dei nostri Padri, (…)
Tu hai progetti di pace e non di afflizione, condanni le guerre e abbatti l’orgoglio dei violenti (…)
Ascolta il grido unanime dei tuoi figli, supplica accorata di tutta l’umanità:
mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra, spirale di lutti e di violenza; fai cessare questa guerra nel Golfo Persico, minaccia per le tue creature, in cielo, in terra ed in mare. (…)
Mai più la guerra
Amen».
La preghiera seguiva uno sforzo concreto per evitare la guerra. Nel 1990, alla vigilia dell’inizio dell’operazione «Desert storm», Wojtyla aveva inviato un messaggio sia a Saddam Hussein che a George Bush sr, supplicandoli di soprassedere al conflitto e ad avviare negoziati. Nella lettera al presidente americano scriveva: «Desidero adesso ripetere la mia ferma convinzione che è molto difficile che la guerra porti un’adeguata soluzione ai problemi internazionali e che, anche se una situazione ingiusta potesse essere momentaneamente risolta, le conseguenze che con ogni probabilità deriverebbero dalla guerra sarebbero devastanti e tragiche. Non possiamo illuderci che l’impiego delle armi, e soprattutto degli armamenti altamente sofisticati di oggi, non provochi, oltre alla sofferenza e alla distruzione, nuove e forse peggiori ingiustizie».
Anche nel conflitto della ex Jugoslavia Giovanni Paolo II cercò di fare quanto poteva per fermarlo. La guerra del Kosovo era iniziata il 24 marzo 1999 con i bombardamenti Nato. Il primo aprile il papa inviò a Belgrado il “ministro degli esteri”, l’arcivescovo Jean Louis Tauran, latore di un messaggio personale a Milosevic, con la richiesta della cessazione immediata delle operazioni di pulizia etnica nel Kosovo. Nel messaggio si proponeva anche, con l’accordo della Nato, una tregua per la Pasqua ortodossa. Quattro giorni dopo in effetti la tregua venne dichiarata, ma poi la guerra riprese con immutata violenza.
Una terza iniziativa il pontefice l’ha messa in atto in occasione della seconda guerra del Golfo. Quando ormai era tutto pronto per l’offensiva, il 5 marzo 2003, egli inviò il cardinale Pio Laghi a incontrare il presidente George W. Bush jr per chiedergli di rinunziare all’imminente azione militare. Il Cardinale Laghi disse a Bush che, se gli Stati Uniti avessero scatenato la guerra, sarebbero successe tre cose. Primo, il conflitto avrebbe causato un gran numero di vittime. Secondo, esso avrebbe condotto a una guerra civile. E, terzo, gli Stati Uniti sarebbero sì stati in grado di entrare in guerra, ma avrebbero avuto molta difficoltà ad uscirne. Si trattava di una diagnosi profetica, ma Bush fu irremovibile in una decisione che, disse, «era convinto che fosse la volontà di Dio».
Benedetto XVI
Sulla stessa linea dei suoi predecessori si è mosso papa Benedetto XVI (2005-2013). Nel 2009, in occasione del concerto “Giovani contro la guerra”, Benedetto ha ricordato «la tragedia della seconda guerra mondiale, dolorosa pagina di storia intrisa di violenza e di disumanità, che ha causato la morte di milioni di persone, lasciando i vincitori divisi e l’Europa da ricostruire».
«Nessuno purtroppo» – aggiungeva il papa - «riuscì a fermare quell’immane catastrofe: prevalse inesorabile la logica dell’egoismo e della violenza. Ricordare quei tristi eventi sia monito, soprattutto per le nuove generazioni, a non cedere mai più alla tentazione della guerra».
Nel messaggio per la Giornata della pace del 2012, il pontefice scriveva: «La pace non è un sogno, non è un'utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all'edificazione di un mondo nuovo».
5. Pace non è pacifismo
Sono sufficienti queste incomplete testimonianze a evidenziare che l’opposizione di Francesco alla guerra non è un fatto isolato, ma si inserisce in una forte tradizione che si ritrova espressa in tutti i papi del Novecento. Non si ha, tuttavia, un’idea chiara della posizione della Chiesa cattolica e dei pontefici sulla guerra se non si tiene conto del loro concetto di pace. Una felice sintesi di ciò che essa significa si può trovare in un discorso fatto da papa Francesco durante l’Angelus del 4 gennaio 2015: «La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con sé stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri. Tuttavia, far tacere le armi e spegnere i focolai di guerra rimane la condizione inevitabile per dare inizio ad un cammino che porta al raggiungimento della pace nei suoi differenti aspetti».
Anche Giovanni XXIII aveva fatto presente, aprendo la sua enciclica, che «la pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris n.1)
Echeggia in queste parole la definizione che Agostino aveva dato del concetto di pace come «tranquillità dell’ordine» (La Città di Dio, XIX,13). Dove “ordine” implica innanzi tutto verità e giustizia. Senza di esse, la pace si ridurrebbe a quella di cui parlava il ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca, con la famosa frase: «L’ordine regna a Varsavia».
In questa prospettiva, Giovanni Paolo II ha ribadito, nel messaggio per la pace del 2001, che «non c’è pace senza giustizia». Ciò spiega perché, nella stessa ricorrenza, nel 1984, papa Wojtyla abbia distinto il significato di “pace” da quello di “pacifismo”: l’uomo di pace, osservava il pontefice, «ha il coraggio di difendere gli altri che soffrono e rifiuta di capitolare davanti all'ingiustizia, di compromettersi con essa; e, per quanto ciò sembri paradossale, anche colui che vuole profondamente la pace rigetta ogni pacifismo che equivalga a debolezza o a semplice mantenimento della tranquillità. In effetti, quelli che sono tentati di imporre il loro dominio incontreranno sempre la resistenza di uomini e donne intelligenti e coraggiosi, pronti a difendere la libertà per promuovere la giustizia».
Ciò implica che, in casi estremi, la pace può aver bisogno, per essere salvata, del ricorso alla forza - contro un pacifismo che vuole mantenerla ad ogni costo - , per il semplice motivo che ci sono dei costi incompatibili con l’idea stessa di pace.
Perciò nella tradizione della Chiesa il concetto di “guerra giusta” è molto radicato. Il caso più tipico è quello della legittima difesa. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992 sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, si indicano le condizioni: «Occorre contemporaneamente: - che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; - che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; - che ci siano fondate condizioni di successo; - che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione»
La novità è che papa Francesco sembra aver preso le distanze da questa posizione. Proprio in occasione della guerra in Ucraina, egli ha detto: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell'umanità. Non esistono le guerre giuste, non esistono».
E già in un libro-intervista con il sociologo Dominique Wolton, uscito nel 2017, Francesco, alla domanda dell’intervistatore: «Vuole dire che non si può usare l’espressione ‘guerra giusta’?», aveva risposto: «Non mi piace usarla. Si dice: ‘Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi’. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace».
È vero, però, che, nella recente telefonata fatta a Zelins’kyi, non risulta che il papa abbia chiesto al presidente ucraino di deporre le armi. E, nell’agosto del 2014, di fronte al massacro di civili in Iraq e in Siria, è intervenuto affermando che «dove c’è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto - sottolineo il verbo, dico “fermare”, non bombardare o fare la guerra». E ha ribadito: «fermare l’aggressione ingiusto è lecito. Ma dobbiamo avere memoria, pure: quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una bella guerra di conquista?».
La domanda finale forse aiuta a chiarire il senso complessivo della posizione del papa. Egli sembrerebbe soprattutto preoccupato dell’uso scorretto che si può fare del richiamo alla “guerra giusta”, senza per questo escludere che ci si difenda da una “guerra ingiusta” mossa da altri. È solo un’ipotesi. Il problema – per il papa, come per tutti noi - resta dolorosamente aperto.
«È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale».[239] Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da eliminare».[240] La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene».[241] Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra![242]» (Fratelli tutti n.258)
«E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» (Fratelli tutti n.262).
«Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. “Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un`autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa” (Gaudium et spes, 79)» (Catechismo della Chiesa cattolica 2308).
«La Chiesa e la ragione umana dichiarano la permanente validità della legge morale durante i conflitti armati. “Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto” (Gaudium et spes n.79)» (Catechismo della Chiesa cattolica 2312).
«Si devono rispettare e trattare con umanità i non-combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongono, sono crimini. Non basta un`obbedienza cieca a scusare coloro che vi si sottomettono. Così lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come peccato mortale. Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un “genocidio”. Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato. Un rischio della guerra moderna è di offrire l`occasione di commettere tali crimini a chi detiene armi scientifiche, in particolare atomiche, biologiche o chimiche» (Catechismo della Chiesa cattolica 2313).
«Si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra, dati i mali e le ingiustizie di cui è causa» (Catechismo della Chiesa cattolica 2327).
Giovanni XXIII, Pacem in terris 1963
«La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris n.1).
«L’ordine tra gli esseri umani nella convivenza è di natura morale. Infatti, è un ordine che si fonda sulla verità; che va attuato secondo giustizia; domanda di essere vivificato e integrato dall’amore; esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani.» (Pacem in terris n.20)
«In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» (Pacem in terris n.5).
«I diritti naturali (…) sono indissolubilmente congiunti, nella stessa persona che ne è il soggetto, con altrettanti rispettivi doveri; e hanno entrambi nella legge naturale, che li conferisce o che li impone, la loro radice, il loro alimento, la loro forza indistruttibile» (Pacem in terris n.14).
«Le comunità politiche, le une rispetto alle altre, sono soggetti di diritti e di doveri; per cui anche i loro rapporti vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà. La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche» (Pacem in terris n.47).
«Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Paem in terris n.67).
«Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa; giacché il grado della sua prosperità e del suo sviluppo sono pure il riflesso ed una componente del grado di prosperità e dello sviluppo di tutte le altre comunità politiche» (Pacem in terris n.68).
«Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite — nelle strutture e nei mezzi — si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti» (Pacem in terris n.75).
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