ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’invasione dell’Ucraina e il rischio nucleare. Intervista di Giuseppe Amara a Francesca Giovannini
Francesca Giovannini, docente della Harvard University, direttrice esecutiva del Project on Managing the Atom presso il Belfer Center. Esperta di relazioni internazionali, con un focus di studio sul ruolo assunto dalle potenze regionali negli accordi di non proliferazione nucleare e nelle politiche di contrasto (alla proliferazione). Laureata all’Università degli Studi di Bologna, ha conseguito due master all’Università della California ed un dottorato di ricerca all’Università di Oxford. Ha iniziato la sua carriera lavorando per il Ministero degli Esteri italiano, per poi collezionare importanti collaborazioni con il Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty Organization (CTBTO), l’O.N.U., lavorando inoltre, per cinque anni, presso l’American Academy of Arts and Sciences di Boston come Direttore del Programma di Ricerca sulla Sicurezza Globale e gli Affari Internazionali.
Giuseppe Amara: Professoressa Giovannini, buon pomeriggio. Abbiamo ascoltato le Sue interviste sui possibili scenari che secondo Lei possono profilarsi nel conflitto Ucraina-Russia. Quanto questa previsione si basa sulla Sua pregressa esperienza internazionale nell’ambito dei programmi di ricerca sulla sicurezza mondiale ai quali Lei ha partecipato?
Francesca Giovannini: È una domanda complessa. La mia valutazione dei possibili rischi di uso di armi non convenzionali (anche tattiche nucleari) nel conflitto in Ucraina deriva in parte da precedenti storici importanti e in parte dalla mia esperienza diplomatica. Mi spiego meglio. Se guardiamo alla storia dei rischi nucleari, vediamo che in altri conflitti, paesi con armi atomiche hanno minacciato il loro uso per portare a conclusione il conflitto a loro vantaggio. L’amministrazione Eisenhower per esempio contemplò l’utilizzo di armi atomiche nel conflitto coreano per scoraggiare l’intervento della Cina. Israele nella famosa guerra dello Yom Kippur nel 1973 minacciò esplicitamente l’uso di armi nucleari per deterrenza nei confronti dell’invasione delle truppe arabe. In questi conflitti, tuttavia, i paesi con armi atomiche sono riusciti poi a prevalere con armi convenzionali e senza il ricorso alle armi nucleari. Abbiamo avuto altri conflitti che hanno coinvolto paesi con armi atomiche – l’Unione Sovietica in Afghanistan e l’America in Iraq – dove i paesi con arsenali atomici alla fine sono stati sconfitti ma non hanno fatto ricorso alle armi atomiche. A mio avviso la fondamentale differenza fra l’Ucraina oggi e l’Afghanistan del 1979 é l’importanza strategica che il paese riveste agli occhi del paese aggressore (e possessore di armi atomiche). Se l’obiettivo é fondamentale e considerato indispensabile, il rischio che si utilizzino armi atomiche cresce esponenzialmente. Poi un ultimo commento sulla Russia. Ho lavorato tanto con gli esperti nucleari russi. La Russia ha una straordinaria comunità di scienziati e di esperti tecnologici. Già da qualche anno, la dottrina difensiva della Russia prevedeva un ruolo molto centrale per l’arsenale atomico in parte per supplire all’inferiorità convenzionale nei confronti della NATO. L’ucraina ha messo in evidenza grandissime lacune logistiche, operative e di strategia della Russia. Temo che proprio per supplire a queste mancanze la Russia aumenterà ancora di più la sua dipendenza dalla deterrenza nucleare.
Giuseppe Amara: In base ai Suoi approfondimenti è ipotizzabile la conclusione in tempi brevi del conflitto?
Francesca Giovannini: No, per diversi motivi. Putin in questo momento non ha nulla su cui negoziare. La Russia non ha preso nessun obiettivo strategico e andare al tavolo dei negoziati in questo momento vorrebbe dire per la Russia negoziare da un punto di debolezza. Dall’altra parte, Zelensky non ha nessuno incentivo per il semplice motivo che gli ucraini in questo momento stanno resistendo e respingendo gli attacchi Russi. Andare al tavolo dei negoziati significherebbe per Zelensky dover negoziare dei territori che pensa ancora di poter preservare.
Sembra assurdo ma questo conflitto non ha ancora toccato un livello di “maturità” che consente delle aperture negoziali. Non ci sono sufficienti incentivi da nessuna parte perché entrambe le parti pensano di poter cambiare la dinamica del conflitto resistendo o aumentando la violenza.
Giuseppe Amara: Abbiamo ancora diverse settimane davanti prima che questo conflitto porti anche solo ad una mediazione seria. Più volte, anche di fronte alle recenti dichiarazioni di Biden sulle conseguenze di un potenziale attacco cibernetico su larga scala, Lei ha ipotizzato che il conflitto possa degenerare fino al punto da rendere concreto un rischio nucleare. Che cosa in concreto intende quando parla di rischio nucleare? L’uso di armi nucleari da parte della Russia cosa potrebbe determinare per l’Ucraina e per il mondo occidentale? E quali conseguenze determinerebbe?
Francesca Giovannini: La dottrina nucleare americana al momento (adottata durante l’amministrazione Trump) ha allargato notevolmente e pericolosamente il ruolo delle armi nucleari. Mi spiego. Per diversi decenni gli Stati Uniti hanno “utilizzato” la deterrenza nucleare solo per scoraggiare attacchi nucleari. Ma l’Amministrazione Trump ha previsto che in casi di attacchi catastrofici a infrastrutture vitali per il paese (parliamo del comando delle forze nucleari, o di griglie energetiche il cui funzionamento é vitale per milioni di americani), gli USA si riservano il diritto di rispondere con qualsiasi arma inclusa quella nucleare.
Che cosa significa in pratica? In realtà non lo sappiamo. La deterrenza nucleare funziona quando rimane ambigua e lascia quindi l’avversario immaginare quelle che potrebbero essere le conseguenze. Un escalation fra la Russia e gli USA anche convenzionale potrebbe portare velocemente ad un ricorso ad armi atomiche proprio per quello che dicevo prima. La Russia – data la sua debolezza convenzionale – per scoraggiare attacchi contro il suo territorio si riserva la possibilità di uso di armi nucleari anche a conflitto appena iniziato.
Le conseguenze? Difficile dirlo. Una degli scenari più difficili da studiare é lo scenario di “nuclear escalation” dopo l’uso iniziale di una bomba atomica da parte della Russia o degli USA. Il paese attaccato deciderà di rispondere elevando il conflitto o tentando di limitarlo? Non ci sono scenari chiari su quello che succederebbe dopo la prima bomba atomica. Mi lasci dire comunque che se ci dovesse mai essere un uso di bombe atomiche, il mondo cambierebbe in modo drammatico e radicale.
Giuseppe Amara: Quando si ipotizza uno scenario atomico nel conflitto è corretto pensare che tale scelta dipenda in via esclusiva dal Presidente di una delle nazioni che possiede armi atomiche ovvero esistono dei protocolli che possono condizionare tale scelta?
Francesca Giovannini: In generale sì. Il sistema di comando e controllo di queste armi é stato altamente centralizzato proprio per evitare rischi di inadvertent escalation. Questo é vero sia per la Russia che per gli USA. Per la Russia, Il presidente autorizza il lancio insieme al ministro della DIFESA e il capo delle forse strategiche. Per gli USA la consultazione di lancio coinvolge il Pentagono, il capo delle varie forze armate e navali e vari consiglieri di sicurezza ma la decisione spetta solo al Presidente.
Giuseppe Amara: Fra gli obiettivi militari della guerra in Ucraina hanno assunto un ruolo strategico le centrali nucleari. Abbiamo visto le battaglie intorno a Chernobyl con le truppe russe che, secondo una parte dell’informazione, avrebbero patito sintomi da esposizione radioattiva ed intorno a Zaporizhzhia dove, nella notte tra il 3 ed il 4 marzo, si è sfiorato quello che è stato definito il più grave potenziale incidente nucleare della storia. Qual è il peso sulla guerra del controllo delle centrali nucleari e quale il rischio correlato di incidenti?
Francesca Giovannini: Se posso dirle a mio avviso il pericolo che deriva dalle centrali nucleari é anche maggiore di quello di un possibile lancio di armi atomiche, specialmente adesso quando la guerra si sta spostando verso sud e verso est. Occorre dire che ci sono diversi trattati che vietano di utilizzare centrali nucleari come possibili target militari ma in questo conflitto mi sembra che ci sia una assoluta indifferenza verso il diritto internazionale. Quali sono i pericoli? Come sempre dipende da quale centrale nucleare stiamo parlando. Ogni centrale porta diversi rischi. Le scorie radioattive che sono conservate da 35 anni a Chernobyl, se colpite, non porterebbero ad un esplosione radioattiva ma la loro fuoriuscita causerebbe un danno permanente al territorio limitrofo con rischi anche di infiltrazione in sorgenti d’acqua. Un’attacco alla centrale di Zaporizhzhya invece potrebbe presentare notevoli rischi anche per i paesi limitrofi. Sappiamo che al momento nella centrale ci sono reattori nucleari in operazione. Questo vuol dire materiale radioattivo ad altissime temperature. Se il sistema di pompaggio dell’acqua fosse manomesso, lei potrebbe vedere un meltdown del reattore e un esplosione simile a quella di Chernobyl nel 1986. Finisco dicendo che in questo momento la sicurezza di tutte le centrali nucleari in Ucraina è in discussione per un semplice motivo: molti dei sensori che rilevano i livelli radioattivi sono stati dismessi o distrutti. La AIEA ha detto più volte di non ricevere più la trasmissione di dati dalle centrali ucraine. Per garantire la sicurezza di queste centrali l’unica possibilità è di avere un ispezione della AIEA. Ci sono stati negoziati su questo ma non c’é ancora un chiaro piano di lavoro.
Giuseppe Amara: Ritiene che, in questa prima fase della guerra, sia possibile parlare di un insuccesso dell’operazione militare russa, determinato da errata valutazione della forza di resistenza Ucraina ad opporsi all’invasione, oppure ritiene che l’obiettivo di Putin fosse, sin dall’inizio, occupare i territori a del Sud-Est dell’Ucraina, territori di estremo interesse economico e strategico per le risorse energetiche, estrattive e logistiche portuali?
Francesca Giovannini: Penso che ci siano stati fallimenti da diverse parti. I Russi hanno commesso gravissimi errori di valutazione delle loro forze e delle forze ucraine. Non c’é dubbio che l’obiettivo iniziale per i russi fosse quello di decapitare il governo Zelensky velocemente e con un’operazione rapida. Ma gli errori di valutazione li hanno portati a perdite pesantissime e ad una revisione della strategia. La seconda fase della guerra per i Russi dovrà essere vinta a tutti i costi. Di qui i rischi nucleari.
Ma c’è stato anche un gran fallimento di valutazione da parte dell’occidente. Per anni siamo andati avanti sovrastimando quelle che erano le capacità militari russe. Forse non abbiamo realmente apprezzato quanto le nostre politiche di espansione verso Est fossero veramente percepite come estremamente pericolose dalla Russia.
Giuseppe Amara: L’obiettivo della ricostituzione dei territori a maggioranza russofona è un obiettivo effettivo o solo il messaggio della propaganda del Cremlino per giustificare l’invasione?
Francesca Giovannini: No, penso che ci sia una genuina determinazione a proteggere la cultura russa e a far in modo che la Russia non perda la sua influenza culturale sull’Ucraina considerata come la madre della cultura russa.
Giuseppe Amara: Lo scenario internazionale ha visto una presa di posizione abbastanza netta contro l’azione militare russa in Ucraina. Malgrado questo, il conflitto continua ed i fenomeni migratori hanno assunto dimensioni molto significative. Quanto l’esperienza acquisita in occasione di altri conflitti – Siria, Palestina – può aiutare la gestione di tale situazione e quali politiche di accoglienza di breve e medio periodo i Paesi non direttamente coinvolti nel conflitto che ricevono la popolazione ucraina possono secondo Lei adottare per offrire sostegno concreto a nuclei familiari spesso frantumati in relazione alla scelta della popolazione maschile di rimanere al fronte per difendere la nazione ucraina?
Francesca Giovannini: Una domanda molto importante. A mio avviso specialmente dall’esperienza dei rifugiati dalla Siria abbiamo imparato diverse cose. 1. I rifugiati sono una risorsa preziosa. Molti arrivano con grandi esperienze professionali importanti e l’integrazione nel paese dove arrivano non può essere limitata semplicemente alla distribuzione di cibo e medicine. Questi rifugiati vogliono essere parte della società dove arrivano e contribuire e questo rende la loro esperienza più tollerabile. 2. Occorrono risorse che durino non solo 6-8 mesi (il tempo dell'emergenza). Per molti rifugiati la possibilità di rientrare nel paese d’origine non é una cosa immediata. Per i paesi che ospitano, ci devono essere risorse che continuano nell’assistenza e nell'integrazione dei rifugiati. 3. Proteggere i rifugiati da manipolazioni politiche: più l’integrazione é veloce e benefica, e più gli stati arrivano a gestire le manipolazioni politiche contro l’immigrazione.
Le Nazioni Unite sembrano bloccate in ragione del veto opposto dalla Russia ad iniziative che vedrebbero la maggioranza dei Paesi favorevoli all’immediata cessazione del conflitto.
Giuseppe Amara: Qual è secondo Lei il ruolo che possono giocare i Paesi europei nel conflitto?
Francesca Giovannini: A mio avviso, l’iniziativa diplomatica deve andare oltre l’Europa. Penso che sia estremamente controproducente continuare a parlare di questo conflitto come un problema fra la NATO e la Russia – in questo modo facciamo il gioco di Putin. A mio avviso, occorre che si formi una coalition of the willing, di vari paesi anche fuori dall’Europa che hanno interesse a proteggere il diritto internazionale e il futuro della pace nel mondo. Io penso che sia importante cercare di coinvolgere stati importanti come l’India e la Cina, certo ma anche vari altri stati come il Sud Africa, Il Brasile, L’Indonesia, grandi potenze regionali che aspirano a giocare un ruolo maggiore sulla scena internazionale.
Giuseppe Amara: "Per amor di Dio, quest'uomo non può restare al potere": quanto pesa sulle relazioni internazionali questa frase pronunciata dal Presidente Biden, sull’onda dell’emotività di un discorso pronunciato nella piazza del Castello Reale di Varsavia, luogo simbolo distrutto dai nazisti nel 1944? È l’inizio di una nuova guerra fredda o di nuovi scenari di conflitto e quali le conseguenze diplomatiche?
Francesca Giovannini: Guardando a quello che succede qui in America, occorre discutere di vari scenari. Non ci saranno più dialoghi diplomatici e strategici con la Russia di Putin almeno sotto l’amministrazione Biden. Qualsiasi tipo di collaborazione – anche in università come la mia – sono state sospese. E se Biden dovesse essere rieletto, questa “guerra fredda” continuerà. Ma non é cosi ovvio che i democratici vincano ancora. Se Trump corre e vince nel 2024, la situazione con la Russia potrebbe sbloccarsi velocemente. Come sappiamo Trump ha sempre ammirato Putin. Se i repubblicani dovessero vincere la Casa Bianca ma con un candidato che non è Trump, penso che la politica di isolamento delle Russia continuerebbe.
Ordine di demolizione e diritto all’abitazione. Riflessioni sulla perimetrazione del concetto di abuso di necessità (nota a T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 24 gennaio 2022, n. 474)
di Cristina Agliata
Sommario: 1. La vicenda. - 2. Brevi premesse sulla natura giuridica ripristinatoria delle sanzioni edilizie. - 3. Diritto all’abitazione. Il giudizio di bilanciamento tra interessi pubblici e private necessità. - 4. Rapporto tra ordine di demolizione e diritto all’abitazione: quando può parlarsi di abuso di necessità. - 5. Conclusioni.
1.La vicenda
Con la sentenza in commento il Tar Campania, Napoli, ha affrontato il delicato tema della applicabilità delle sanzioni ripristinatorie avverso opere edilizie abusive, in relazione al diritto all’abitazione[1] ed ai principi euro unitari a tutela dello stesso.
La vicenda riguarda, più in particolare, l’impugnativa del provvedimento emesso dal Comune di Santa Maria la Carità con il quale è stata ingiunta la demolizione di talune opere abusive rinvenute nel fabbricato di proprietà delle ricorrenti; opere consistenti nella realizzazione, su un immobile edificato in assenza di idoneo titolo abilitativo, di una tettoia di circa 35 mq, nonché nel completamento della porzione sita al piano terra della parte retrostante al fabbricato.
A sostegno delle proprie ragioni, le parti ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’articolo 1 del D.M 28 marzo 1985, la violazione dei principi di legittimo affidamento e buona fede, nonché la violazione del diritto all’abitazione previsto dagli articoli 6 e 8 della CEDU. Il collegio ha ritenuto le doglianze non meritevoli di accoglimento ed ha rigettato il ricorso.
Nel dirimere la controversia i giudici hanno, in primis, evidenziato come la conclamata abusività dell’intero plesso edilizio fosse da ritenersi elemento fondante il provvedimento gravato, giustificato dalla mancanza assoluta di un titolo abilitante; inoltre, hanno sottolineato come il decorso di un ampio lasso di tempo non fosse da considerarsi elemento idoneo ad inficiare la legittimità dell’ordine sanzionatorio emesso. Sul tema, il collegio ha richiamato i numerosi arresti in tema di ordini di ripristino intervenuti anche a distanza di anni rispetto alla realizzazione degli abusi e sulla non necessità di una motivazione specifica sulla attualità e prevalenza dell’interesso pubblico rispetto all’affidamento del privato[2].
In particolare il T.A.R. Campania ha ricordato che l’Adunanza Plenaria, con sentenza n.9 del 2017, ha affermato il principio secondo cui il decorso del tempo non incide sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della misura sanzionatoria: stante il suo carattere di vincolatività, l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, anche se adottata tardivamente, non necessita di specifica motivazione sulla prevalenza dell’interesse al ripristino della situazione quo ante, né comporta una puntuale comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti[3].
L’abuso edilizio è illecito permanente, pertanto, ogni provvedimento repressivo posto in essere dall’amministrazione, anche a distanza di tempo dalla commissione dello stesso, non è da ritenersi emanato nei riguardi di un illecito esaurito, bensì posto in essere avverso una situazione antigiuridica che perdura sino al momento del venire in essere della sanzione[4].
In relazione alla dedotta violazione del principio di affidamento, il collegio ha sottolineato che nel caso di abusi edilizi, non sussiste alcun affidamento incolpevole e come tale meritevole di tutela, ma piuttosto l’auspicio dell’inerzia sanzionatrice dell’ente locale.
Diversamente la tutela è invocabile laddove un privato che abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga da questa indotto con un suo provvedimento a ritenere legittimo il suo operato. Ci si riferisce, ad esempio, all’ipotesi del permesso di costruire dapprima rilasciato e poi successivamente annullato. In tal caso, infatti, recente giurisprudenza ha affermato che l’annullamento della concessione a seguito dell’accertamento della sua illegittimità non possa operare in automatico ma necessiti di una compiuta valutazione comparativa degli interessi in gioco. Fra questi, ad esempio, l'affidamento creato dalla Pubblica Amministrazione con il rilascio del permesso di costruire, la situazione di apparente legalità protratta nel tempo e la conseguente buona fede generata in capo al costruttore. L'annullamento in autotutela, dunque, necessita di una valutazione e comparazione degli interessi coinvolti. E’ solo mediante un’articolata e completa motivazione, infatti, che il provvedimento potrà dirsi legittimo. Tale obbligo, inoltre, sarà più stringente qualora le scelte pregresse che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati siano state non già frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturate in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato, apparentemente, dalla reciproca buona fede[5].
Per quanto concerne, invece, il presunto contrasto tra il provvedimento sanzionatorio ed i principi euro-unitari a tutela del diritto all’abitazione il collegio ha specificamente evidenziato come nella specie venisse in rilievo un immobile già oggetto di un ordine demolitorio non adempiuto e divenuto inoppugnabile per decorso del tempo, nonché una ‘nuova’ costruzione realizzata sul preesistente fabbricato abusivo, elementi questi connessi ad una maggiore fruibilità dell’edificio piuttosto che a soddisfare esigenze minime di abitazione , come tali inidonei a concretizzare un’ipotesi di abuso di necessità.
La demolizione è da ritenersi, ad avviso del collegio, conseguenza naturale e vincolata della violazione urbanistica; in tal senso, non sussisterebbe, pertanto, alcun diritto “assoluto” all’inviolabilità dello spazio abitativo, desumibile dai principi euro unitari, tale da precludere l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato al ripristino dell’ordine giuridico violato.
Utile a tale finalità il richiamo del collegio agli sviluppi giurisprudenziali nazionali che hanno portato a qualificare la demolizione, a differenza della confisca, non una “pena”, ma una “misura di riparazione del danno”[6].
In ultimo, è stata ritenuta infondata la presunta violazione del diritto all’abitazione, non avendo le parti provveduto a dimostrare in giudizio di non disporre di un immobile diverso da quello oggetto del provvedimento gravato.
2. Brevi premesse sulla natura giuridica ripristinatoria delle sanzioni edilizie
Differenti sono stati gli orientamenti giurisprudenziali susseguitesi nel tempo e, in particolare, due sono le impostazioni da considerare: una prima, ad avviso della quale le misure repressive previste dal d.P.R n.380 del 2001 sarebbero vere e proprie sanzioni a cui corrisponderebbero illeciti amministrativi[7] ed un’altra, ad oggi prevalente, ad avviso della quale le misure repressive in materia edilizia avrebbero natura ripristinatoria[8] in quanto provvedimenti rientranti nell’esercizio della funzione esecutiva della pubblica amministrazione[9]. Tali provvedimenti mirano non già a sanzionare un comportamento quanto piuttosto a rimuovere gli effetti che dal comportamento illecito derivano e che ledono l’assetto urbanistico-edilizio di una determinata porzione di territorio[10].
Tale impostazione, cristallizzando la considerazione sulla natura permanente degli illeciti edilizi, esclude che ad essi possa applicarsi il principio di irretroattività. L’adozione della sanzione è doverosa, la pubblica amministrazione, infatti, laddove accerti l’illiceità dell’intervento è tenuta ad emanare la sanzione repressiva che non è soggetta né al termine di prescrizione né tantomeno a quello di decadenza.
La natura amministrativa della sanzione emessa assolve, da un lato, all’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso e, dall’altro, riveste carattere reale e configura un obbligo di fare imposto per ragioni di tutela del territorio[11].
Il dibattito, stante la natura di illecito permanente della sanzione edilizia e la doverosità dell’azione amministrativa volta al ripristino del corretto assetto edilizio-urbanistico dell’area, si è concentrato sulla sussistenza o meno dell’obbligo motivazionale in relazione al richiamo al principio dell’affidamento in relazione agli abusi edilizi.
Maggioritaria e sedimentata giurisprudenza[12] ha affermato l’insussistenza di un obbligo motivazionale specifico, tenuto conto del fatto che l’ingiunzione di demolizione appare adeguatamente motivata mediante l’indicazione del carattere abusivo dell’opera e dei parametri normativi asseritamente violati. Il privato cui viene notificato l’ordine di demolizione, anche a distanza di tempo, non vanta alcuna posizione di legittimo affidamento, tra l’altro considerato impropriamente richiamato[13]; l’ordinamento, infatti, tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole e non nel caso in cui un soggetto abbia reiteratamente posto in essere azioni illecite. Come sottolineato anche dal collegio nella sentenza che si annota, il decorso tempo non può, in ogni caso, legittimare l’illiceità del comportamento di un soggetto che confida nell’omissione dei controlli o dell’inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
Ad avviso di un diverso e minoritario orientamento[14], invece, l’ingiunzione di demolizione sarebbe in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accentuata abusività fatta salva un’eccezione, rinvenibile nell’ipotesi in cui per un lungo lasso di tempo l’amministrazione preposta alla vigilanza abbia ingenerato un legittimo affidamento nel privato; in tal caso sussisterebbe un obbligo di motivazione da parte dell’amministrazione che dia conto, alla luce della tipologia di abuso di cui trattasi, del prevalente interesse pubblico fatto valere dall’amministrazione.
L’Adunanza Plenaria, con sentenza n.9 del 2017 ha aderito al primo orientamento affermando il principio secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pur tardivamente, la demolizione dell’immobile abusivo mai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata non richiede alcuna specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell’abuso”[15]. Tale principio, ad avviso della Plenaria, non ammette deroghe neppure nel caso in cui la demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso. Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione avverso un’edificazione sine titulo, infatti, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non è idonea a far divenire legittimo ciò che ha connotati di illegittimità ab origine[16].
L’ermeneutica fornita dalla Plenaria è in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte EDU[17] che ha ritenuto non in contrasto con l’art.1 protocollo 1 l’erogazione dell’ordine di demolizione, anche dopo un lungo lasso di tempo. Le argomentazioni dei giudici comunitari si fondano proprio sulla natura ripristinatoria della misura che, nel rispetto del principio di proporzionalità, è tendente alla riparazione effettiva di un danno e non è finalizzata, nella sua essenza, a punire i trasgressori[18].
L’ordinamento, dunque, tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva, concretizzandosi in una volontaria attività del costruttore contra legem, giustifica l’azione ripristinatoria posta in essere avverso l’illecito edilizio, che, in virtù del suo intrinseco carattere permanente, si protrae e conserva nel tempo la sua natura. L’azione demolitoria posta in essere dall’amministrazione tutela 'in re ipsa' l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso[19].
3. Diritto all’abitazione. Il giudizio di bilanciamento tra interessi pubblici e private necessità
Alla luce di quanto osservato in merito alla natura giuridica della sanzione edilizia, quale misura necessitata a carattere ripristinatorio, è possibile procedere con l’analisi della relazione sussistente tra il riconoscimento del diritto all’abitazione e il dovere sussistente in capo alla pubblica amministrazione di sanzionare la realizzazione di immobili abusivi.
La Costituzione italiana non prevede un espresso riconoscimento del diritto all’abitazione, così come invece risulta rinvenibile nelle Carte costituzionali di altri Stati (ad es. Belgio, Portogallo, Spagna[20]); tuttavia, tale diritto può ritenersi evincibile da una serie di enunciati dai quali dottrina e giurisprudenza ne hanno desunto la sussistenza e la relativa riconducibilità nel novero dei diritti sociali[21]. Anche con riguardo alla normativa sovranazionale, nonostante l’abitazione sia configurabile come bene primario da tutelare in modo concreto, non è rilevabile una norma che espressamente contempli tare diritto; è l’operato dei giudici comunitari, ancora una volta, che ridiscute l’esistenza dello stesso, mettendone in luce l’emersione progressiva, la necessaria ponderazione e la conseguente indivisibilità in relazione agli ulteriori diritti civili, politici e sociali coinvolti [22].
Il fondamento del diritto all’abitazione è stato rinvenuto, in primis, nell’art.42 comma 2 della Costituzione. Nella funzione sociale [23]del diritto di proprietà, infatti, è stato a più riprese posto il suo ancoraggio costituzionale e contestualmente la necessarietà della sua contemperazione con altri diritti costituzionalmente garantiti e tutelati dall’ordinamento. Emblematica in tal senso è la sentenza della Corte Costituzionale n.404 del 1988 che, nell’affermare l’esistenza di un diritto sociale[24] all’abitazione collocabile fra i diritti individuali dell’uomo riconducibili all’articolo 2 della costituzione, quale norma a fattispecie aperta[25], fa discendere da tale riconoscimento importanti conseguenze sul piano della effettività della tutela, specie in relazione al bilanciamento con altri interessi costituzionalmente rilevanti[26].
Il diritto all'abitazione, partecipando della doppia natura di diritto inviolabile, da un lato, e diritto sociale dall’altro, diviene poi diritto “condizionato”[27], anche finanziariamente[28], sicché le scelte d’indirizzo devono necessariamente confrontarsi con le risorse economiche disponibili.
Su questo scenario di riferimento l’amministrazione competente è chiamata a sostanziare la propria azione attraverso un continuo bilanciamento degli interessi in rilievo[29].
Nell’ottica del bilanciamento, i differenti diritti si limitano reciprocamente dando vita a un sistema aperto a contenere in sé stesso tutte le situazioni meritevoli di tutela. Il compito di scegliere tra i vari possibili punti di equilibrio spetta al legislatore con il limite invalicabile della doverosità di non operare alcuno ‘sbilanciamento’ tendente ad eliminare taluni dei diritti socialmente riconosciuti, pena la sua declaratoria d’incostituzionalità[30].
Ne rappresenta conferma la copiosa giurisprudenza costituzionale relativa, prevalentemente, alla disciplina sui condoni edilizi[31] nel tempo emanata ed in particolare sul suo carattere di specialità, ma anche all’utilizzo di beni del patrimonio comunale, appunto, per finalità abitative.
Esula dalla presente riflessione un’analisi compiuta della giurisprudenza costituzionale in tema di abitazione; merita però di essere richiamata la disposizione contenuta nell’art 4. della legge 14 ottobre 1993 della regione Sicilia, recante la previsione circa la possibilità di concedere un diritto di abitazione sul bene acquisito al patrimonio comunale, sempreché l’opera oggetto dell’abuso sia adibita a “dimora abituale e principale del responsabile dell’abuso e del suo nucleo familiare”[32].
Più volte richiamata la natura discrezionale del riconoscimento del diritto all’abitazione, la Corte Costituzionale ha affermato in relazione alla norma predetta la non irrazionalità della previsione[33] rispetto all’esigenza, di rilievo anche costituzionale, di disciplinare il problema dell’abusivismo edilizio e allo stesso tempo assicurare un’abitazione ai bisognosi[34]. La Consulta, in altri termini, contempla la possibilità di configurare la sussistenza di uno stato di necessità, con conseguente rimessione alla discrezionale valutazione da parte dell’amministrazione, circa la presenza dello stesso alla luce delle risultanze fattuali.
Nell’emettere un ordine di demolizione, l’amministrazione è tenuta, in tale ottica, ad operare un necessario e proporzionato bilanciamento tra la doverosità di porre in essere tutte le azioni necessarie a tutelare il territorio, ed impedire che tali attività illecite si protraggano sullo stesso, e il rispetto del diritto all’abitazione, così come identificato in sede giurisprudenziale.
Ci si può allora domandare se il diritto all’abitazione prevalga sull’onere dell’amministrazione di porre in essere tutte le azioni idonee a determinare un corretto governo del territorio, e, soprattutto, se lo stesso diritto possa essere qualificato in termini di diritto assoluto intrinsecamente sufficiente a determinare la dichiarazione di illegittimità del provvedimento di demolizione.
4. Rapporto tra ordine di demolizione e diritto all’abitazione: quando può parlarsi di abuso di necessità
Al fine di rispondere a tale interrogativo, occorre evidentemente indagare il rapporto sussistente tra l’ordine di demolizione ed il diritto all’abitazione, nei casi in cui, come quello oggetto della pronuncia in commento, le parti intendano rimarcare la sussistenza di uno stato di necessità alla base della violazione edilizia posta in essere.
La premessa giuridica da cui partire è, come detto, la natura giuridica della sanzione amministrativa in oggetto, ovvero dalla sua riconosciuta finalità ripristinatoria (indirizzata ad assicurare la ricomposizione dell'originario assetto del territorio) e giammai punitiva (non costituente pena nel senso indicato dalla giurisprudenza della Corte EDU). Inoltre, il provvedimento di demolizione determina un obbligo di fare ed ha natura reale, nel senso che produce effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso[35].
Giova preliminarmente richiamare la sentenza delle Corte EDU, n. 46577 del 2015 che, nel ribadire l’esigenza di effettiva tutela del principio di proporzionalità[36] nell’esercizio dell’azione sanzionatoria, introduce una questione di indubbio interesse: l’azionabilità della scriminante[37] dello stato di necessità in relazione agli abusi edilizi posti in essere da parte di soggetti del tutto privi di idonee soluzioni abitative. La Corte EDU nella succitata pronuncia ha, di fatto, sancito il principio secondo il quale il giudice dell’esecuzione, nell’emettere l’ordine di demolizione, deve valutare la proporzionalità della stessa rispetto allo scopo, nel caso in cui le opere illecite siano necessarie per esigenze abitative. La Corte EDU ha, in relazione al caso di specie, precisato la doverosità, a fronte dell’emanazione di misure invasive poste in essere a salvaguardia della legalità, di procedere ad una valutazione circa le condizioni economiche e personali in cui versano i soggetti destinatari delle stesse.
Alla luce della succitata pronuncia, il collegio ha ritenuto che l’ordine di demolizione posto in essere non fosse in contrasto con quanto stabilito dai giudici sovranazionali, osservando come in tema di reati edilizi non sia invocabile un diritto ‘assoluto’ all’abitazione, tale da precludere l’esecuzione dell’ordine di demolizione.
Come già osservato, ad avviso della giurisprudenza prevalente, il diritto all’abitazione deve necessariamente essere contemperato, alla luce del succitato principio di proporzionalità, con l’obiettivo di ripristinare l’ordine giuridico violato dal comportamento dell’autore dell’abuso edilizio, e non può essere invocato con l’intento di dichiarare illegittimo, sic et simpliciter, l’ordine di demolizione, essendo lo stesso una doverosa espressione del diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato[38].
Tale diritto, infatti, riconducibile agli articoli 2 e 3 Cost. e all’articolo 8 CEDU, non è tutelabile in termini assoluti e deve necessariamente essere contemperato con gli altri valori di rango costituzionale come, ad esempio, l’ordinato sviluppo del territorio[39]. Il contemperamento dei differenti interessi coinvolti e la riconducibilità del diritto all’abitazione nel catalogo dei diritti sociali[40] rende quanto mai opportuno comprendere in che modo il dovere dello Stato di intervenire per dare attuazione concreta ai precetti costituzionali possa dirsi adempiuto nel caso in cui i soggetti coinvolti invochino una violazione di tale diritto. Da un lato, il diritto all’abitazione nella sua più ampia accezione, e dall’altro, l’interesse pubblico connesso al ripristino dello status quo ante.
Partendo dal richiamato principio, ad avviso del quale non è giuridicamente apprezzabile una assoluta prevalenza del diritto all’abitazione sull’interesse pubblico a ristabilire l’ordine giuridico violato, è doveroso affermare la sussistenza del dovere dell’amministrazione di procedere ad una compiuta valutazione delle risultanze fattuali del caso concreto[41].
La fattispecie dello stato di necessità si connota per l'intima connessione causale tra due fatti giuridici: la "situazione di necessità" ed il "comportamento necessitato"[42] ed è doveroso comprendere in che misura le stesse si trovino in relazione per verificarne la sussistenza e l’azionabilità dello stesso come scriminante atta ad eliminare l’antigiuridicità di un determinato comportamento[43], valutazione da porre in essere ponderando in che misura gli interessi coinvolti siano in relazione nel caso concreto.
Giurisprudenza e letteratura si sono interrogati sul tema, al fine di individuare in che misura possa essere riconosciuta l’esimente dello stato di necessità in capo ai soggetti che vertano in una situazione di emergenza abitativa e siano destinatari di un ordine di demolizione.
Ci si è chiesti, in particolare, se tale riconoscimento possa trovare fondamento nel concetto di danno grave alla persona, secondo quanto previsto dall’ articolo 54 c.p. e se allo stesso possano considerarsi connesse anche situazioni che solo indirettamente pongano in pericolo l’integrità fisica dei soggetti[44]. È nell’interpretazione più o meno rigorista del concetto di danno grave alla persona che, ad avviso di parte della dottrina[45] e di copiosa giurisprudenza[46], è rinvenibile l’applicabilità dello stato di necessità, inteso in tutte le sue sfaccettature.
Il pericolo predetto, si rileva per alcuni nella minaccia di un danno grave alla persona, consistente nella lesione di un diritto non patrimoniale[47], ma personale[48], che comprende in sé non solo i beni della vita e dell’integrità fisica ma anche della personalità e della moralità; al contrario, per altri, tale danno non è riscontrabile in base ad una astratta valutazione della necessità connessa ai casi di bisogno economico[49].
È opportuno chiedersi, dunque, se di tale pericolo possa essere delineata una cornice tale da consentirne una automatica applicazione, oppure se sia opportuno valutare compiutamente le circostanze fattuali delle differenti situazioni oggetto di analisi.
Il concetto di casa, connesso a quello di abitazione, ha valenza autonoma che non dipende necessariamente dalla classificazione che ne fa il diritto interno. Occorre al riguardo intendersi su cosa rende un luogo ‘casa’[50]; la classificazione del bene e la tutela dello stesso o le circostanze di fatto, i collegamenti continui con un luogo specifico la cui demolizione determinerebbe il venir meno di una condizione di sicurezza per un soggetto determinato[51].
Come è noto, ampio margine di discrezionalità è riconosciuto all’autorità preposta a tale valutazione, che nell’esplicare la propria attività deve tener conto di una serie di fattori[52]. Quando, come nel caso in esame, un'abitazione o una pertinenza di essa sia stata costruita senza alcun titolo abilitativo, in assenza dell'autorizzazione necessaria ai sensi della legislazione nazionale, vi è dunque un conflitto tra il diritto della persona al rispetto della propria casa, e il diritto degli altri membri della comunità alla tutela del corretto assetto di un determinato territorio[53].
Un conflitto da cui deriva una interferenza, che determina la lesione di uno dei due beni di cui si chiede tutela, e al venire in essere della quale è lecito domandarsi se la stessa sia del tutto giustificata dall’ esecuzione di un provvedimento venuto in essere per scopi di interesse pubblico.
Ciò a maggior ragione se si considera la difficile perimetrazione del riconoscimento del diritto all’abitazione, diritto ancora oggi dai confini indefiniti[54]. Il diritto all’abitazione, infatti, è concepito come strumento indispensabile per consentire la concreta attuazione dei diritti fondamentali dell’individuo; la possibilità di fruire di una casa, ad esempio, rappresenta una garanzia di protezione della riservatezza dell’individuo, ma tale garanzia non è da sola elemento sufficiente a fondare lo stato di necessità.
Interessante è anche l’ermeneutica fornita in merito, dal giudice penale[55] e dai richiami ulteriori dallo stesso delineati. E così non è legittimo invocare un diritto alla casa[56] così come un generico diritto ad una vita sana o, ancor più in astratto, un diritto ad una vita privata e familiare. In particolare, il giudice di legittimità ha specificato che l’ordinamento, nel porre in essere l’ordine di demolizione non ha lo scopo di violare in astratto il diritto individuale di un soggetto, bensì quello di rimuovere la lesione di un bene costituzionalmente tutelato al pari del diritto all’abitazione.
Necessario è, dunque, valutare compiutamente le risultanze fattuali del caso concreto, nel rispetto dei principi e degli interessi coinvolti e tutelati tanto a livello nazionale quanto sovranazionale, tenuto conto dell’ingerenza che i provvedimenti ripristinatori in questione hanno sulla vita privata dei soggetti e della proporzionalità degli stessi con il succitato scopo di tutelare l’assetto urbanistico territoriale.
5. Conclusioni
La caratterizzazione della natura giuridica dell’ordine di demolizione[57] ha messo in luce come da tale provvedimento non solo derivi un obbligo di fare ma discenda altresì una incisione degli interessi del soggetto destinatario, producendo effetti nella sfera giuridica dello stesso. Ciò ha reso quanto mai opportuno comprendere in che termini il diritto del soggetto al mantenimento dell’abitazione oggetto dell’illecito potesse dirsi prevalente nell’ipotesi in cui l’immobile gravato fosse l’unico in possesso del destinatario del provvedimento.
La giurisprudenza sia nazionale che comunitaria ha, sostanzialmente, ridefinito la fattispecie. La natura ripristinatoria predetta, unitamente con la determinazione circa l’insussistenza di un obbligo motivazionale specifico nel caso in cui fosse decorso un certo arco di tempo tra la produzione dell’illecito ed il provvedimento hanno dato modo di rilevare l’insensibilità del provvedimento di demolizione al decorso del tempo, sottolineando l’infondatezza di qualsiasi determinazione circa il legittimo affidamento del privato che, all’esito dell’inerzia dell’amministrazione, avrebbe erroneamente radicato il proprio affidamento nel mantenimento della situazione di illiceità perpetrata.
In relazione a quanto detto, è stato più volte messo in evidenza un presunto contrasto con l’art 8 della CEDU per la sua finalità di tutela del singolo da indebite azioni dei pubblici poteri; contrasto questo che impone di valutare i caratteri di tale indebita ingerenza al fine di poterla, eventualmente, ‘arginare’, posto che il confine tra obblighi positivi e negativi posti a carico degli Stati contraenti, non si presta però ad una definizione univoca.
Nell'adempiere ad entrambi gli obblighi, infatti, lo Stato deve trovare un giusto equilibrio tra i concorrenti interessi generali e particolari, nell'ambito del margine di apprezzamento che gli è conferito. Una procedura, questa, da esplicarsi equamente[58], ricorrendo al principio di proporzionalità tra la misura posta in essere e lo scopo perseguito.
La Corte Edu, dunque, ha l’onere di verificare che le autorità statuali abbiano effettuato un corretto bilanciamento tra gli interessi concorrenti dell'individuo e della collettività ed è forse per tale motivo che spesso, sul tema, viene richiamato tale bilanciamento, per comprendere in che misura l’operato concreto dell’amministrazione si sia svolto in ottemperanza dei principi comunitari. L'art. 8, però, come più volte specificato tanto dalla stessa Corte Edu quanto dalla Corte di Cassazione, non configura, in relazione all’abitazione, un diritto avente carattere ‘assoluto’, considerato, piuttosto, frutto di un ragionevole contemperamento tra più interessi coesistenti concorrenti, ed è proprio questo che ne ha evidenziato non pochi profili problematici.
Al diritto all’abitazione inteso nella sua più ampia accezione, infatti, non è stata riconosciuta valenza di diritto assoluto, azionabile come metro idoneo a valutare in astratto l’illegittimità del provvedimento di demolizione, ma un valore rinvenibile nella sua accezione di ‘diritto sociale’, da leggere in un bilanciamento con altri interessi giuridicamente rilevanti. Tali diritti, sostanziandosi in pretese all’ottenimento di prestazioni positive da parte dello Stato in materia sociale ed economica, vengono necessariamente ad essere condizionati, nella loro attuazione, dal bilanciamento con altri interessi tutelati dalla Costituzione.
Tale necessaria opera di bilanciamento presuppone però un’indubbia interferenza, intercorrente fra il diritto di un soggetto al mantenimento e alla tutela della propria abitazione e la necessarietà dell’ordine di demolizione emesso al fine di tutelare il corretto assetto del territorio e la legalità dello stesso.
Nel caso di specie, la questione confluisce nella doverosa attuazione da parte dell’amministrazione competente dell’obbligo di emanare un provvedimento di ripristino della legalità violata, più in particolare l’ordine di demolizione, nel caso in cui si accerti l’abusività ab origine di una determinata costruzione. Non si tratta quindi di interferenza tra due diritti ma tra un diritto ed un obbligo, quello statuale, di provvedere ad eliminare le improprie modifiche dell’assetto territoriale.
Ciò rende quanto mai opportuno comprendere il discrimen tra queste due posizioni e la ratio sottesa alla scelta, discrezionale, di azionare una tutela che sia aperta a riconoscere centralità alla situazione concreta. Una valutazione che tiene conto delle differenti situazioni coinvolte e non più incentrata sulla delineazione di un contorno rigido come, forse, si era orientati a ritenere in precedenza.
Nell’ipotesi in cui le parti dichiarino la sussistenza di uno stato di necessità a fondamento del determinato abuso, l’amministrazione dovrà valutare compiutamente le risultanze fattuali al fine di giungere ad una determinazione sull’opportunità o meno di porre in essere l’azione ripristinatoria nel rispetto del principio di proporzionalità.
Proporzionalità e bilanciamento sono d’altronde concetti chiave del nostro sistema costituzionale, genesi di modelli giuridici e tecniche argomentative che, nel tempo, si sono occupati su vari livelli della protezione dei diritti dell’uomo. La proporzionalità, intesa nella sua più ampia accezione, trova applicazione in diversi ambiti del diritto; nel diritto costituzionale, ad esempio, è vincolo generale dell’attività legislativa nonché parametro di legittimità della legislazione statale; nel diritto amministrativo, invece, si pone come metro per rilevare i vizi dell’atto, spostando il focus sul rapporto amministrativo e mettendo in luce in canone della ragionevolezza dell’azione amministrativa[59]. Così anche nell’ordinamento dell’unione europea la proporzionalità è divenuta nel tempo criterio di interesse generale, avente una propria autonomia ed idoneo a delimitare le libertà in modo che vi fosse un concreto bilanciamento tra le diverse posizioni tutelate.
Nel contesto del sistema convenzionale, il principio di proporzionalità non ha assunto un ruolo di ‘barriera’[60] quanto piuttosto di clausola limitativa di specifici diritti garantiti dalla Cedu. E forse, proprio per tale motivo, il presunto contrasto con la disciplina della Corte Edu è stato più volte rimarcato in tema di ordine di demolizione.
L’azione dei pubblici poteri, infatti, è tenuta al rispetto della legge ma la sua attuazione è da operarsi nel doveroso bilanciamento dei differenti interessi coinvolti, e ciò diviene ancor più pregnante, nel caso in cui vi sia da disporre un provvedimento che si assuma essere di gravità tale da poter compromettere la vita del soggetto destinatario.
Il principio di proporzionalità, dunque, riconosciuto e tutelato tanto a livello nazionale quanto comunitario, deve orientare il provvedimento amministrativo, che sarà ritenuto legittimamente emesso, appunto, nella misura in cui si ritenga essere proporzionale, all’esito di una compiuta istruttoria del caso concreto, alla funzione che intende perseguire.
In tema d’illeciti edilizi il concetto di proporzionalità è stato individuato dalla giurisprudenza interna, prima, e da quella convenzionale, poi, come rilevante, quale punto di equilibrio tra la legittima pretesa dell’ordinamento di rimuovere ciò che ha leso l’interesse pubblico e la rilevanza che determinate condizioni oggettive o soggettive possano assumere come limitazione alla pretesa azionata.
Il principio assume rilievo solo quando venga in gioco il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di una persona e non anche quando venga invocato un generico diritto alla tutela della proprietà. Ne consegue, dunque, che il rispetto del principio di proporzionalità è configurabile esclusivamente in relazione ad un immobile che sia destinato ad abituale abitazione della dimora.
Tuttavia, tale assunto, finisce per essere foriero di non pochi dubbi interpretativi, terreno fertile per il proliferarsi di differenti argomentazioni. Il principio di proporzionalità, da leggere nella sua dimensione procedurale e sostanziale, si rende applicabile, in relazione alle misure ripristinatorie, nella misura in cui sussistano determinate condizioni di emergenza, dai contorni ampi e senza dubbio non facilmente individuabili, lasciando uno spazio aperto ad incertezze probatorie e continue rideterminazioni.
[1]Sul diritto all’abitazione, ex multis: F. BESTAGNO, La dimensione sociale dell’abitazione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2009; G. VENTURINI, S. BARIATTI (a cura di) Diritti individuali e giustizia internazionale, Milano, 2009.G. MARCHETTI,La tutela del diritto all'abitazione tra Europa, Stato e Regioni e nella prospettiva del Pilastro europeo dei diritti sociali, in Federalismi.it, 4/2018, 184 ss.; P. VIPIANA, La tutela del diritto all’abitazione a livello regionale, in Federalismi.it, 10/2014, 1 ss.; P. LOMBARDI, Riflessioni sul diritto all’abitazione tra Carta sociale europea, Corte costituzionale e PNRR, in Federalismi.it, 7/2022.
[2] T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 22.02.2010 n.860. Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, sez. VI, 27.3.2017, n. 1386; id., sez. VI, 6.3.2017, n. 1060).
[3]“Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica o praeter legem” in tal senso: Cons. Stato, Adunanza Plenaria sentenza n. 9/2017. Nel caso in cui l’Amministrazione adotti un ordine di demolizione di opere abusive a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, sostanziandosi in un atto di natura vincolata non è richiesta alcuna specifica motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’irrogazione della sanzione in questione, non potendosi ritenere sussistente alcuna posizione di affidamento meritevole di tutela in capo al privato in ragione della prolungata inerzia della pubblica amministrazione.
[4] “L'ordinanza di demolizione, in quanto atto ad adozione e contenuti vincolati, non abbisogna … nemmeno della valutazione di un affidamento alla conservazione della situazione di fatto, che il decorso del tempo non potrebbe mai legittimare” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 04.01.2021, n. 12; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 1.10.2020 n. 679); “il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell'opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita” (Cons. Stato, sez. V, 26.02.2021, n. 1637). In termini v. anche T.A.R. Campania Napoli, Sez. II, 9.5.2019, n. 2500.
[5] In tal senso: Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 20.5.2020, n. 325.
[6] Cass. pen., sez. III, 05.12.2016, n. 51709; Corte EDU, 29.10.2013, Varvara c. Italia; Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi c/ Italia.
[7] Ex multis: Cass. pen., 20.5.2014, n.20636; Id., 5.3.2008, n.9982. Ad avviso di tale orientamento alla confisca era attribuibile natura di sanzione amministrativa corrispondente all’illecito posto in essere, la lottizzazione abusiva.
[8] In tal senso, ex multis: T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 9.12.2020, n. 5940.
[9] Sulla funzione esecutiva della pubblica amministrazione, F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento e processo, prolusione al corso di diritto amministrativo del 1951 presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’università di Padova, 123: “Nel parlare di funzione esecutiva, o anche amministrativa non s’ intende riferirsi a ciò che fa l’amministrazione nel concretare il potere di una norma in un atto o questo stesso concretarsi del potere nel singolo atto: ci si riferisce invece alla serie di atti emanati da un soggetto o da un organo di amministrazione, in relazione al loro fine o al loro risultato; ovvero ci si riferisce alla capacità di quel soggetto o alla competenza di quell’organo in relazione agli atti e quindi al loro risultato. Si accetta cioè il significato empirico dell’espressione “funzione” e vi si attribuisce ora un valore oggettivo, ora un valore soggettivo”.
[10] In tal senso: F.G. SCOCA, Diritto amministrativo, Torino 2017; A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989.
[11] P. TANDA, La rilevanza del decorso del tempo sugli illeciti urbanistico-edilizi tra tutela del territorio ed esigenze processuali, in Rivista giuridica dell’edilizia, 6, 2018, 1707 ss.
[12] In tal senso, ex multis: T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 17.6.2008, n. 2045; Cons. Stato, 28.12.2012, n.6702; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 19.2.2009, n. 1318; Cons. Stato, 29.5.2006, n. 3270.“L’ordine di demolizione è da ritenersi adeguatamente esplicativo se contiene, l’esatta descrizione delle opere abusive attraverso il confronto con quelle autorizzate, tanto più che, come sopra evidenziato, da questo è dato agevolmente inferire la sussistenza della fattispecie della totale difformità” cfr. Cons. Stato, n. 5921/2021. Ex multis: Cons. Stato, 6.09.2017 n. 4243 e Cons. Stato, 6.12. 2019 n. 6055 ad avviso del quale “l’ordine di demolizione è atto vincolato che non richiede una specifica ponderazione di particolari ragioni di interesse pubblico, né comporta la necessità di una comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati”.
[13] Il richiamo di tale principio, infatti, se ritenuto sussumibile e declinabile nella buona fede oggettiva, appare improprio difronte a vicende che traggono origine da una consapevole violazione della materia urbanistica. E. ZAMPETTI, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.; V. CERULLI IRELLI, Sul principio del legittimo affidamento, in Rivista italiana delle scienze giuridiche, 2014.
[14] Cons. Stato, sez. V, 25.6.2002, n. 3443; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 23.4.2001, n. 183; Cons. Stato, sez. V, 19.3.1999 n. 286; Cons. Stato, sez. V, 29.5.2006, n. 3270.
[15] Tale sentenza, recependo l’indirizzo maggioritario che ritiene legittima l ’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo adottata a distanza di un notevole lasso temporale intercorso tra commissione dell’abuso anche in assenza di specifica motivazione, esclude la sussistenza di ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso; P. TANDA, La rilevanza del decorso del tempo sugli illeciti urbanistico-edilizi tra tutela del territorio ed esigenze processuali, nota a cassazione penale, cit.
[16] Differente sarebbe il caso in cui l’amministrazione procedesse ad un tardivo rinvio in autotutela di un titolo edilizio adottato ovvero del provvedimento in sanatoria rilasciato, in tal caso il legittimo affidamento risulterebbe sussistente e di conseguenza anche l’onere motivazionale in capo all’amministrazione.
[17] Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 aprile 2016, ric. n. 46577/15.
[18] Sul tema, ex multis, Cass. pen, 4.10.2016, n. 41475: “l’ordine di demolizione dell’opera abusiva, disciplinato dagli articoli 27 e ss. del Testo Unico Edilizia (d.lgs. 380/2001) si qualifica in termini di sanzione amministrativa, non essendo ad esso pertinenti gli indici sintomatici della natura di norma ontologicamente penale elaborati dalla Corte EDU; pertanto non può applicarsi analogicamente all’istituto l’art. 173 c.p., che disciplina la prescrizione dell’arresto e dell’ammenda, né sotto il profilo dell’analogia legis, né sotto quello dell’analogia iuris”.
[19] Ex multis: Cons. Stato, 13.5.2016, n. 1948; Id., 5.5.2016, n. 1774.
[20] Cost. Belgio (1994) art. 23, comma 3, n. 3) che elenca fra i diritti sociali «il diritto ad un'abitazione decorosa»; Cost. Portogallo (1974) art. 65, comma 1 che attribuisce a tutti il «diritto ad una abitazione di dimensione adeguata, in condizioni di igiene e comodità e che preservi l'intimità personale e la riservatezza familiare» e comma 2, che demanda allo Stato, anche in collaborazione con gli enti locali, una serie di compiti per «assicurare il diritto all'abitazione»; Cost. Spagna (1978) art. 47 il quale prevede che «tutti gli spagnoli hanno diritto a un'abitazione decorosa e adeguata» e che «i poteri pubblici si adopereranno per creare le condizioni necessarie e fisseranno le relative norme per rendere effettivo questo diritto.
[21] Sul tema, P. VIPIANA, La tutela del diritto all’abitazione a livello regionale, in Federalismi.it, 10/2014, 1 ss.
[22]F. BESTAGNO, La dimensione sociale dell’abitazione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in G. VENTURINI ― S. BARIATTI (a cura di), Diritti individuali e giustizia internazionale, Milano, 2009, 19 ss.
[23] La Corte costituzionale, nella sentenza n. 217 del 1988 afferma che «Il “diritto all'abitazione” rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la società cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione».
[24] Tali diritti emergono, come noto, nel XX secolo, in occasione dell’affermazione dello stato sociale e delle democrazie popolari, con la relativa individuazione dei diritti economici, sociali e culturali, orientati a promuovere il principio di eguaglianza sostanziale tra i cittadini. I diritti di seconda generazione trovano il loro nucleo principale dalla richiesta dei cittadini allo stato relativa alla soddisfazione dei loro bisogni (in cambio di un’adeguata tassazione). Sulla tematica, fondamentale è il contributo di N. BOBBIO L’età dei diritti, Torino 1997.
[25] Si definisce tale una norma che non intende fare riferimento a una serie tassativa, determinata e chiusa di diritti, la quale non potrebbe essere ampliata o modificata se non con legge costituzionale, ma che postulerebbe la possibilità di ricomprendere nella stessa ogni diritto che potesse ritenersi “inviolabile” in considerazione dell’evoluzione storica”. S. RUSTICELLI, I diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione, fattispecie aperta o chiusa? L’annoso dibattito in: www.iuribus.com. Sulla tematica, in termini più ampi, A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, parte generale, Padova, 1990.
[26] Cfr. Corte. cost. nn. 404 del 1988 e 209 del 2009. In dottrina, con divergenti posizioni, cfr. A. PACE, Il convivente more uxorio, il «separato in casa» e il c.d. diritto «fondamentale» all’abitazione, in Giur. cost., 1988, 1801 ss.; F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995.
[27] Un diritto costituzionalmente condizionato all'attuazione che il legislatore ne dà, attraverso il bilanciamento dell'interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e finanziarie, di cui l'apparato dispone.
[28] Il diritto all’abitazione, nella specie, sarebbe condizionato nel senso che richiede un’attività erogatrice delle prestazioni che deve necessariamente contemperarsi con le esigenze del bilancio statale. Sul tema: F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1995.
[29] “La necessità di bilanciare principi o diritti costituzionali ha come presupposto il fatto che principi o diritti confliggano, ossia una situazione in cui due o più diritti non possono essere soddisfatti contemporaneamente”, G. PINO, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in Etica & Politica, 2006, 1 ss.
[30]L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, Roma-Bari, 2001, 15; Id. Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007, in F.PALLANTE, Il problema costituzionale dell’attuazione dei diritti sociali (con particolare riguardo al diritto all’abitazione).
[31] Con la pronuncia n. 416 del 1995 e già prima con la sentenza n. 369 del 1988, la Corte ha svolto alcune considerazioni di carattere generale sull’ammissibilità della sanatoria edilizia che hanno poi trovato notevole sviluppo nella giurisprudenza successiva alla riforma del Titolo V della Costituzione. Essa infatti, dopo aver sancito la sostanziale legittimità dell’intervento, precisa che “ben diversa sarebbe [...] la situazione in caso di altra reiterazione di una norma del genere” e “conseguentemente differenti sarebbero i risultati della valutazione sul piano della ragionevolezza, venendo meno il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma [...] in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilità in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l’uomo. La gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono- sanatoria con conseguente convinzione di impunità, tanto più che l’abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non segua la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l’ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale”. D. BALDAZZI, focus sulla giurisprudenza costituzionale in materia di condono edilizio, consultabile in: https://www.regione.emilia-romagna.it/
[32] Corte. Cost., 5.5.1994, n. 169.
[33] La Corte con sentenza n. 169 del 1994 ha affermato che “alla stregua di un'interpretazione conforme a Costituzione, che l'atto di concessione del diritto di abitazione è provvedimento discrezionale, sia relativamente all' an (il sindaco può concedere solo se ricorre l'interesse pubblico primario sotteso all'intera legge regionale, nel senso che sussista l'esigenza di assicurare l'abitazione a chi ne ha bisogno, in considerazione del reddito, delle condizioni di vita, etc.), sia relativamente al quid (il diritto di abitazione può essere concesso solo se l'opera abusiva costituisca già l'effettiva dimora del richiedente e del suo nucleo familiare, proporzionata a quelle esigenze minime rispetto a una vita dignitosa dell'effettivo nucleo familiare, garantite dalla Costituzione e dalla legislazione ordinaria sull'edilizia residenziale pubblica)… il diritto di abitazione non può esser concesso relativamente a edifici aventi caratteristiche di abitazione di lusso o di "seconda casa": in questi casi, infatti, si esorbiterebbe dall'interesse pubblico (costituzionalmente tutelato) che presiede al provvedimento del sindaco, diretto a soddisfare un'esigenza abitativa primaria, riferibile soltanto ai bisognosi (chi non ha altra casa) e nei limiti di tale diritto sociale (necessità di assicurare un livello di vita che non sia inferiore a quello di una "vita dignitosa"). Nel complesso, dunque, il secondo comma dell'art. 4 - chiarite queste premesse interpretative e ferme le declaratorie di illegittimità di cui infra - contiene un bilanciamento non irrazionale (nell'àmbito del potere che ogni comune ha di utilizzare opere abusive non demolite a fini di soddisfazione dei bisogni di edilizia residenziale pubblica) tra l'esigenza di disciplinare il grave problema dell'abusivismo edilizio e l'esigenza (di rilievo anche costituzionale: v. sentenza n. 49 del 1987) di assicurare un'abitazione ai bisognosi”.
[34] Corte. Cost. 17.2.1987, n. 49.
[35]P. TANDA, Le conseguenze della natura giuridica di sanzione amministrativa dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31, comma 9, t.u.e. in Rivista Giuridica dell'Edilizia, 3, 2016, 307 ss. Sul punto, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2017, n. 3210, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 29.4.2021, n. 2835; id., 22.3.2021, n. 1896.
[36] Secondo la Corte EDU, infatti, poiché la perdita della casa di abitazione costituisce la forma più grave ed estrema di ingerenza statale nel diritto al rispetto della propria abitazione “gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare un esame giudiziale della complessiva proporzionalità di misure così invasive, come la demolizione della propria abitazione, e a riconsiderare l’ordine di demolizione della casa abitata dai ricorrenti alla luce delle condizioni personali degli stessi, che vi vivevano da anni e avevano risorse economiche limitate”- Corte EDU 21/4/2016 Ivanova And Cherkezov Vs Bulgaria.
[37] In diritto penale la scriminante dello stato di necessità è disciplinata dall' 54 c.p., che afferma: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo…”. La ratio legis dello stato di necessità come scriminante trova attuazione nel rispetto del principio del bilanciamento degli interessi, in cui uno di essi viene considerato prevalente rispetto agli altri e perciò la condotta, qualora integri tutti i requisiti richiesti dalla norma, non sarà punibile. F. VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000. F. CONSULICH, Lo statuto penale delle scriminanti Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, 2018.
[38] In tal senso T.A.R. Lazio, Roma, 3.5.2021, n. 5097 : “l’ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’art. 8 CEDU, neanche nell’ipotesi in cui l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio riguardi un immobile costituente l’unica abitazione del contravventore e quest’ultimo sia un soggetto in età avanzata e si trovi in precarie condizioni reddituali, qualora la situazione personale del destinatario dell’ordine demolitorio non assuma un peso determinante a fronte della consapevole realizzazione della costruzione edilizia in un’area vincolata paesaggisticamente, in assenza di qualsivoglia autorizzazione, dovendo ritenersi la demolizione frutto di un’adeguata valutazione della necessità e proporzionalità da parte delle autorità nazionali nel dare prevalenza all’interesse pubblico generale presidiato dalle norma urbanistiche e paesaggistiche”.
[39] A. SCARCELLA, Sul bilanciamento operato dalla corte di Strasburgo fra l'interesse generale alla protezione dell'ambiente e del paesaggio e l'ordine di demolizione di un manufatto abusivo quando l'immobile costituisca l'unica abitazione del proprietario, in Cass. pen., 1/2021, 359 ss.
[40] Sui diritti sociali: C. SALAZAR, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali, Torino, 2000; P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, in Federalismi, 2018; A. BALDASSARRE, Diritti Sociali, in Enciclopedia Giuridica, XI, Roma, 1989. M. BENVENUTI, I diritti sociali, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 2012.
[41] L'eventuale violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, va verificata sotto il profilo della proporzionalità dell’ordine di demolizione rispetto alle condizioni personali e familiari dei destinatari della sanzione. Sul tema, ex multis: Cass. pen., 20.08.2019, n. 36257; Cass. pen., 13.01.2020, n. 844.
[42] S. PORRECA, L'occupazione di alloggio pubblico non è abusiva se c'è lo stato di necessità, in Responsabilità Civile e Previdenza, 9, 2008, 1885.
[43] La Cass. pen., con la sentenza n. 7183 del 2008 ha escluso l'operatività dell'esimente essendo stato accertato un mero stato di disagio abitativo, ma non quella urgenza assoluta ed improrogabile di procurarsi un alloggio che, sola, avrebbe potuto necessitare l'occupazione.
[44]A. MEREU, La configurabilità dello stato di necessità nelle ipotesi problematiche di necessità economica e abitativa, in Cass. pen., 3, 2008, 1024 ss.
[45] Per un’analisi approfondita della problematica cfr: G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto Penale. Parte Generale, Bologna, 2019; F. VIGANO’, Stato di necessità e conflitti di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000.
[46] Sul tema, ex multis, Cass., 26.9.2007, n. 35580; Cass. pen., 1.2.2012, n. 4292; Cass. pen., 2.7.2015, n. 28067.
[47]Per una compiuta analisi della categoria “diritto non patrimoniale”, è interessante ricordare il difficile cammino del “danno non patrimoniale” e l’incidenza che su di questa ha avuto la giurisprudenza di legittimità. In ragione di questa viene in rilievo la lesione di un interesse protetto dall’ordinamento ed avente ad oggetto utilità per le quali non sussiste un mercato. Lo stesso, definito come danno “determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica” (Cass. Sez. Un. n. 26972 del 2008), va inteso come categoria generale che attiene alla lesione di interessi inerenti la persona, non connotati da valore di scambio; ha quindi natura composita e si articola in una pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali ad esempio il danno biologico, il danno morale, il danno da perdita del bene vita, la perdita di chances ed il danno da mancato raggiungimento del risultato.
[48] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2007.
[49] T. PADOVANI, Invasione di edifici e stato di necessità, in Arch. Pen, 1970, II, 426 ss., A. MEREU, La configurabilità dello stato di necessità nelle ipotesi problematiche di necessità economica e abitativa, cit.
[50] Interessanti sono gli arresti della Corte Costituzionale sul tema, che hanno, nel tempo, evidenziato le peculiarità e le criticità, per certi versi, nell’opera di riconoscimento di tale diritto. Con la sentenza n. 168 del 1971 nella quale la Corte ha evidenziato che “i diritti primari e fondamentali dell’uomo diverrebbero illusori per tutti, se ciascuno potesse esercitarli fuori dall’ambito della legge, della civile regolamentazione, del costume corrente, per cui tali diritti devono venir contemplati con le esigenze di una tollerabile convivenza”; la sentenza n. 217 del 1988 ha affermato la rilevanza costituzionale del diritto all’abitazione, riconoscendolo come diritto sociale fondamentale collegato all’universale principio della dignità umana e facendolo rientrare tra “i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione”; nella sentenza n. 252 del 1989, confermata dalla sentenza 121 del 1996, si legge che “come ogni altro diritto sociale, anche quello all’abitazione, è diritto che tende ad essere realizzato in proporzione alle risorse della collettività; solo il legislatore, misurando le effettive disponibilità e gli interessi con esse gradualmente satisfattibili, può razionalmente provvedere a rapportare mezzi a fini, e costruire puntuali fattispecie giustiziabili espressione di tali diritti fondamentali”. La disciplina costituzionale dei diritti di proprietà, indirizzando l’intervento del legislatore in chiave di conformazione della disciplina dei beni al fine di “assicurarne la funzione sociale” e di rendere la proprietà “accessibile a tutti”, ne orienta gli sviluppi in chiave di realizzazione del programma costituzionale di attuazione dell’eguaglianza sostanziale, in un contesto ordinamentale che, tenendo conto della complessità economico-sociale, aspiri ad una equilibrata composizione legislativa degli interessi dei consociati (F. BILANCIA, Brevi riflessioni sul diritto all’abitazione, in Scritti in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011). Si veda anche sul tema M. MEZZANOTTE, Quando la casa è un diritto, in Forum Quad. cost., 2009, 1 ss.
[51] A. SCARCELLA, Sul bilanciamento operato dalla corte di Strasburgo fra l'interesse generale alla protezione dell'ambiente e del paesaggio e l'ordine di demolizione di un manufatto abusivo quando l'immobile costituisca l'unica abitazione del proprietario, cit.
[52] Corte Edu, 17.10.2013, Winterstein e altri c. Francia- partendo dal presupposto che tale interferenza fosse prevista dalla legge e volta a perseguire scopi legittimi, inclusa la tutela della sicurezza e della salute pubblica, è risultato dirimente stabilire se essa potesse definirsi anche necessaria in una società democratica alla luce della condizione di particolare vulnerabilità riconosciuta a taluni soggetti.
[53] A. SCARCELLA, Sul bilanciamento operato dalla corte di Strasburgo fra l'interesse generale alla protezione dell'ambiente e del paesaggio e l'ordine di demolizione di un manufatto abusivo quando l'immobile costituisca l'unica abitazione del proprietario, cit.
[54] A. MEREU, La configurabilità dello stato di necessità nelle ipotesi problematiche di necessità economica e abitativa, cit.
[55] Cass. pen., 17.09.2021, n.34607.
[56]“Dal carattere troppo ampio da essere potenzialmente idoneo a superare e vanificare ogni prescrizione amministrativa”: Cass. Pen., n.34607/2021.
[57]Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una "pena" nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 c.p. (Sez. 3 n. 49331 del 10.11.2015, RV 265540).
[58] A. SCARCELLA, Sul bilanciamento operato dalla corte di Strasburgo fra l'interesse generale alla protezione dell'ambiente e del paesaggio e l'ordine di demolizione di un manufatto abusivo quando l'immobile costituisca l'unica abitazione del proprietario, cit., 359.
[59] G. SCACCIA, Proporzionalità e bilanciamento tra diritti nella giurisprudenza delle corti europee, in Rivista AIC, 2017, 2 ss.
[60] G. SCACCIA, Proporzionalità e bilanciamento tra diritti nella giurisprudenza delle corti europee, cit., 13.
Operazioni inesistenti e reverse charge: quale disciplina sanzionatoria?
di Loredana Carpentieri
Sommario: 1. L’inquadramento del tema - 2. Il principio di cartolarità, la neutralità dell’imposta, il diritto alla detrazione (e il suo concreto esercizio) - 3. Operazioni inesistenti e detrazione Iva - 4. Errata applicazione dell’imposta e detrazione Iva. L’equivoca formulazione dell’art. 6, comma 6, del decreto legislativo n. 471 del 1997: il rischio di un corto circuito normativo e la complessa “riperimetrazione” della disposizione ad opera della giurisprudenza - 5. Il reverse charge e la sua errata applicazione con riferimento alle operazioni esenti, non imponibili o escluse: quali conseguenze sul debito d’imposta e sulle sanzioni? - 6. Il reverse charge e la sua operatività con riferimento alle operazioni inesistenti: i dubbi della Cassazione sul trattamento sanzionatorio - 7. Alla ricerca di un filo di Arianna: la correlazione dell’art. 6, comma 9-bis.3 del decreto legislativo n. 471 del 1997 con l’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633.
1. L’inquadramento del tema
L’ordinanza n. 1703 del 2022 porta davanti alle sezioni unite della Cassazione una questione di rilevante impatto e sulla quale si sono fino ad oggi registrati orientamenti contrastanti tra le diverse sezioni della stessa Suprema Corte: si tratta di stabilire “se, e in quali limiti, alle operazioni inesistenti soggette al regime d’inversione contabile si applichi la normativa sanzionatoria sopravvenuta introdotta dal D. Lgs.vo n. 158/2015, che ha novellato l’art. 6 del D. Lgs.vo n. 471/1997, introducendo i commi 9-bis, 9-bis.1, 9-bis.2 e 9-bis.3, oppure se in questi casi sèguiti ad applicarsi il comma 1 del medesimo articolo, unitamente, ricorrendone i presupposti, all’art. 5, comma 4, dello stesso decreto”.
Il tema è quello dell’esatta individuazione del perimetro applicativo del comma 9-bis.3 del citato art. 6, il quale prevede che “Se il cessionario o committente applica l’inversione contabile per operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette ad imposta, in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto nelle liquidazioni dell’imposta che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette, fermo restando il diritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non detratta ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, comma 3, e del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2. La disposizione si applica anche nei casi di operazioni inesistenti, ma trova in tal caso applicazione la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro”.
La questione da chiarire, in particolare, è se le operazioni inesistenti fatturate in regime di reverse charge cui si riferisce il citato secondo periodo del comma 9-bis.3 (e il relativo trattamento sanzionatorio) siano solo quelle astrattamente esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta di cui al primo periodo, oppure tutte le operazioni inesistenti tout court.
Il comma 9-bis.3 dell’art. 6 è, a ben guardare, il crocevia nel quale convergono e s’incrociano profili e istituti fondamentali del meccanismo di funzionamento dell’Iva: il principio di cartolarità, la neutralità dell’imposta garantita dalla combinazione tra obbligo di rivalsa e diritto alla detrazione, il corretto esercizio di tale ultimo diritto, la patologia rappresentata dall’errata o indebita applicazione dell’imposta in fattura e il relativo trattamento sanzionatorio, le operazioni inesistenti e, infine, il reverse charge. Se vogliamo tentare di dare, di questa disposizione, una lettura coerente con il sistema dell’IVA, come disegnato dalle direttive europee ed elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, sembra opportuno cercare di dipanarne con ordine tutti i nodi; senza mancare di rilevare, fin da subito, che una normazione eccessivamente analitica porta sempre con sé, come scoprirà il lettore di questo contributo, il rischio della paralysis by analysis.
2. Il principio di cartolarità, la neutralità dell’imposta, il diritto alla detrazione (e il suo corretto esercizio)
L’art. 203 della direttiva del Consiglio 2006/112 stabilisce, senza possibilità di equivoci interpretativi, che “l’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”. L’obbligo di versamento dell’Iva può nascere dunque per effetto di una fattispecie meramente cartolare, rappresentata dall’emissione della fattura; sul punto l’orientamento della giurisprudenza europea può ritenersi costante[1]. La norma interna che implementa, nel nostro ordinamento, la richiamata disposizione della direttiva è ancora più netta: l’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 prevede infatti che “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni e le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura.”
Sulla base del principio di cartolarità, la semplice esposizione dell’Iva in fattura implica che tale imposta vada comunque computata in liquidazione e concorra alla determinazione dell’imposta a debito (o alla formazione di un minor credito, qualora dalla liquidazione emerga una eccedenza di imposta detraibile), a nulla rilevando la circostanza che l’Iva non dovesse essere effettivamente applicata e addebitata al cliente in via di rivalsa. Ciò resta vero non solo nel caso di mero errore nella fatturazione ma anche nel caso patologico in cui ad essere fatturate siano operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti; la ratio del principio di cartolarità declinato nell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 - e considerato da una parte della dottrina [2] una sorta di previsione “polifunzionale”, con natura di tributo che di sanzione – sembra dunque ricollegarsi alla circostanza che la fattura “crea” un credito per il cliente che detrae (con il conseguente rischio, per l’erario, di un fornitore che non versa l’Iva mentre il suo cliente se la detrae[3]). Dunque, l’art. 203 della direttiva (così come la norma interna che lo attua all’interno del nostro ordinamento) “mira a eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale che può derivare dal diritto a detrazione” [4].
All’addebito dell’imposta dovrebbe sempre fare riscontro, per garantire il pieno rispetto del principio di neutralità per i soggetti Iva, il diritto alla detrazione dell’imposta versata sugli acquisti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa o nella professione; rivalsa e detrazione sono, come noto, i due meccanismi giuridici posti a presidio del corretto funzionamento dell’Iva quale imposta neutrale [5]. Il cedente o il prestatore addebita l’Iva dovuta sull’operazione imponibile al destinatario della cessione del bene o della prestazione del servizio (realizzando così la traslazione economica dell’imposta) e detrae, dall’imposta dovuta, l’Iva che a sua volta gli è stata addebitata sull’acquisto di beni o servizi inerenti ad operazioni soggette a imposta nell’ambito della sua attività economica. In questo modo, il prelievo dell’imposta viene opportunamente sterilizzato nella sfera giuridica dei soggetti Iva: il soggetto Iva determina il proprio debito tributario al netto dell’imposta che ha gravato sui beni e sui servizi da lui stesso utilizzati per la sua attività di produzione di beni e/o prestazione di servizi[6].
Il diritto alla detrazione, opportunamente tutelato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia[7], è disegnato dall’art. 168 della direttiva, il quale prevede che “nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: a) L’Iva dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo”[8].
A livello domestico, il meccanismo della detrazione è disciplinato dall’art. 19 del d.PR. n. 633 il quale prevede che “per la determinazione dell’imposta dovuta…è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa arte o professione”.
Se ragionassimo in termini di assoluta simmetria, all’addebito dell’Iva in rivalsa da parte del cedente/prestatore soggetto Iva nei confronti del cessionario/committente soggetto Iva dovrebbe sempre corrispondere il diritto alla detrazione da parte di detto cessionario/committente; e ciò anche nel caso in cui l’Iva sia stata addebitata dal cedente/prestatore in assenza dei presupposti per l’applicazione dell’imposta. Infatti, poiché l’obbligo di versare l’Iva indicata in fattura “non deve arrecare un pregiudizio eccessivo al principio di neutralità dell’Iva” [9], sembrerebbe doversi sempre riconoscere alla controparte il diritto a detrarre (o ad ottenere il rimborso) dell’imposta che, pur se in relazione ad un’operazione inesistente, è stata (o avrebbe dovuto essere) versata[10].
Tuttavia, potrebbe emergere, in questa prospettiva, il problema rappresentato dal recupero in via civilistica dell’Iva indebitamente esposta in fattura e del conseguente rischio di un “doppio” recupero; e, proprio con riferimento alle esigenze di tutela del gettito IVA e di contrasto alle frodi, la Corte di Giustizia ha ammesso che il principio di neutralità possa cedere il passo nel caso di comportamenti illegali [11].
La salvaguardia del principio di neutralità e l’esercizio del diritto alla detrazione presuppongono infatti l’esistenza di un’operazione effettivamente rilevante ai fini Iva, non essendo a tal fine sufficiente il mero addebito dell’imposta in fattura; in altri termini, “è inerente al meccanismo dell’Iva il fatto che un’operazione fittizia non possa dare diritto ad alcuna detrazione di tale imposta” [12] e dunque l’esercizio della detrazione “è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’Iva o versate in quanto erano dovute”[13].
In questo contesto, la sussistenza di una fattura che esponga l’applicazione dell’imposta è sì elemento necessario a legittimare il diritto alla detrazione[14], ma non ancora sufficiente; è solo “il biglietto di entrata al diritto di detrazione”[15], anche se da ultimo la stessa Corte di Giustizia [16], richiamando numerosi suoi precedenti, ha opportunamente sottolineato che “i principi che disciplinano l’applicazione, da parte degli Stati membri, del regime comune dell’IVA, in particolare quelli di neutralità fiscale e di certezza del diritto, ostano a che, in presenza di semplici sospetti non suffragati dell’amministrazione tributaria nazionale quanto all’effettiva realizzazione delle operazioni economiche che hanno portato all’emissione di una fattura fiscale, al soggetto passivo destinatario di questa fattura venga negato il diritto alla detrazione dell’IVA se esso non sia in grado di fornire, oltre a detta fattura, ulteriori prove a sostegno dell’effettiva esistenza delle operazioni economiche realizzate [v., in tal senso, sentenze del 22 ottobre 2015, PPUH Stehcemp, C‑277/14, EU:C:2015:719, punto 50, nonché del 4 giugno 2020, C.F. (Verifica fiscale), C‑430/19, EU:C:2020:429, punti 44 e 49]. Il beneficio del diritto a detrazione non può neppure essere negato sulla base di supposizioni (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2021, Ferimet, C‑281/20, EU:C:2021:910, punto 52 e giurisprudenza ivi citata)”.
Più rigido rispetto alle recenti aperture della Corte di Giustizia resta il consolidato orientamento della Cassazione [17], la quale ritiene superata l’impostazione formalistica e “cartolare” secondo cui la detraibilità dell’Iva sarebbe legittimata dal mero addebito dell’imposta in un documento contabile: la Suprema Corte sposa l’approccio sostanziale secondo cui l’imposta, per poter essere portata in detrazione, deve essere anzitutto “dovuta”. Questo orientamento peraltro non contrasterebbe, come potrebbe sembrare in prima approssimazione, con la ricordata disposizione contenuta nell’art. 203 della direttiva del Consiglio 2006/112, secondo cui l’Iva è dovuta da chiunque indichi tale imposta in un documento contabile [18]: tale disposizione verrebbe, infatti, letta e interpretata, dall’angolo visuale del diritto alla detrazione, nel contesto del complessivo meccanismo dell’Iva, nell’ambito del quale la fattura è – come detto – porta di accesso al diritto alla detrazione, ma nel quale il suddetto diritto resta in ogni caso subordinato alla sussistenza dei requisiti sostanziali per l’assoggettamento ad Iva dell’operazione sottostante.
Più in dettaglio, nella patologia del rapporto, le diverse ipotesi di errata applicazione dell’Iva da parte del cedente/prestatore conducono a effetti diversi in punto di detrazione dell’imposta da parte del committente/cessionario.
È stata a lungo dibattuta in giurisprudenza la questione relativa alla detraibilità, da parte del committente/cessionario, dell’Iva erroneamente addebitatagli.
Prima dell’intervento normativo operato con la legge n. 205 del 2017, la ricezione di una fattura recante un’imposta in tutto o in parte non dovuta non consentiva al cessionario o committente di operare la detrazione dell’imposta sopportata in via di rivalsa; di conseguenza, l’imposta in questione finiva per rappresentare un onere improprio per il soggetto che aveva subito la rivalsa[19]. I possibili rimedi a questa situazione cambiavano a seconda dell’atteggiarsi della situazione concreta. Se il cessionario o committente si accorgeva dell’errore poteva opporsi alla rivalsa contestandone l’addebito e il fornitore poteva, riconoscendo a sua volta il proprio errore, applicare le disposizioni dell’art. 26, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 rettificando l’inesattezza della fatturazione: in questo modo il fornitore poteva portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione registrandola come un acquisto ai sensi dell’art. 25 e l’acquirente che avesse già annotato la fattura nel registro degli acquisti doveva registrare una variazione nel registro delle fatture emesse o dei corrispettivi. Questa procedura, tuttavia, era ed è tuttora possibile solo entro un anno dall’effettuazione dell’operazione; decorso questo termine, l’imposta erroneamente applicata avrebbe potuto essere recuperata solo presentando istanza di rimborso entro il termine biennale di cui all’art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992[20].
Il suddetto termine biennale, tuttavia, era comunque notevolmente più breve del termine entro cui l’Amministrazione finanziaria può contestare l’erronea applicazione dell’imposta; conseguentemente, ben poteva accadere che, alla suddetta contestazione, risultasse ormai decorso il biennio per chiedere il rimborso. Il fornitore rischiava dunque, in questi casi, di essere chiamato dal suo cliente – nel più ampio termine di prescrizione decennale – a restituire l’imposta addebitata in via di rivalsa, senza più avere la possibilità di recuperare, a sua volta, la stessa imposta dall’erario per avvenuto decorso del termine biennale. Oltre a ciò, il sistema conduceva ad applicare sanzioni anche nei confronti del cessionario o committente che avesse in buona fede detratto l’imposta, ritenendo che fosse stata correttamente applicata dal proprio fornitore.
Chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità delle suddette procedure con i meccanismi di derivazione unionale che presiedono alla materia, la Corte di Giustizia[21] ha ribadito che, nonostante l’astratta conformità al principio di effettività della previsione di un diverso termine concesso al cedente/prestatore rispetto a quello concesso al cessionario/committente per il rimborso dell’Iva non dovuta, il disallineamento tra i suddetti termini non può esser tale da “privare completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’amministrazione finanziaria il rimborso dell’IVA non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi”. Da qui la sollecitazione al legislatore nazionale – a seguito della procedura d’infrazione EU Pilot 9164/17/TAXU avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia – perché intervenisse in materia di restituzione dell’Iva indebita per contemperare le esigenze di tutela delle finanze erariali con la necessità di garantire al cedente/prestatore la possibilità di esercitare il diritto di rimborso in modo meno difficoltoso.
Sul tema il legislatore italiano è intervenuto in due tempi.
Anzitutto, con l’art. 8, comma 1, della legge n. 167 del 2017 ha inserito nel corpus del d.P.R. n. 633 l’art. 30-ter il quale stabilisce che “Il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione. Nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”.
Il suddetto art. 30-ter ha così introdotto un meccanismo speciale per il recupero dell’Iva non dovuta; meccanismo, che, laddove sia intervenuto un accertamento definitivo dell’Amministrazione finanziaria, consente al cedente/prestatore di chiedere all’erario la restituzione dell’imposta anche oltre il termine biennale (ma tale disciplina non può, ai sensi del comma 3 dell’art. 30-ter, trovare applicazione in caso di versamento avvenuto nel quadro di una frode fiscale [22]).
Dopo aver disciplinato il suddetto rimborso speciale per l’Iva non dovuta a favore del cedente/prestatore, il legislatore è intervenuto anche sulla disciplina applicabile al cessionario/committente che ha subito l’errata applicazione dell’imposta in via di rivalsa. Con l’art. 1, comma 935, della legge n. 205 del 2017 è stato infatti modificato l’art. 6, comma 6, del decreto legislativo n. 471 del 1997, per inserirvi il periodo secondo cui “in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli articoli 19 e seguenti …, l’anzidetto cessionario o committente è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 euro e 10.000 euro. La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”.
Su questa disposizione tornerò più approfonditamente nel successivo par. 4.
3. Operazioni inesistenti e detrazione Iva
Passiamo ora ad esaminare l’impatto della detrazione nelle operazioni inesistenti. Tali operazioni, prive di definizione a livello di normativa europea[23], sono in prima approssimazione identificabili nelle operazioni caratterizzate, nell’Iva, da ogni tipo di divergenza tra realtà documentata (in fattura) e realtà effettiva[24].
L’inesistenza può assumere carattere oggettivo o soggettivo, come emerge con chiarezza dalla definizione di operazione inesistente che emerge dall’art. 1, comma 1, lett. a) del decreto n. 74 del 2000, il quale prevede che “per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” “si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
L’emissione di una fattura per operazioni inesistenti determina, quale effetto, l’addebito dell’imposta (sempre dovuta, come detto, per effetto della fatturazione, anche qualora la fattura non sottenda una effettiva cessione o prestazione rilevante ai fini dell’imposta) ma – per quanto si è detto nel paragrafo precedente – non può automaticamente legittimare il diritto alla detrazione in capo al cessionario. Proprio in base al dettato comunitario secondo cui l’Iva è detraibile nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di operazioni attive soggette ad Iva, l’Iva detraibile è infatti solo quella connessa a cessioni di beni e prestazioni di servizi realmente effettuate, non potendo esercitarsi alcuna detrazione nel caso di inesistenza dell’operazione sottostante.
La conferma della correttezza di una tale ricostruzione si rinviene nella sentenza della Corte di Giustizia 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding BV nella quale si afferma espressamente che l’esercizio del diritto alla detrazione contemplato dalla direttiva non si estende all’imposta dovuta esclusivamente per il fatto di essere indicata in fattura: le fatture emesse per operazioni inesistenti non possono dunque dar luogo ad alcun diritto alla detrazione in capo al soggetto acquirente del bene o committente del servizio. In questo senso è ormai pacificamente orientata anche la giurisprudenza della Cassazione[25].
Peraltro, dalla definizione di operazione inesistente contenuta nel citato art. 1, comma 1, lett. a) del decreto n. 74 del 2000 emergono, come già segnalato, due distinte tipologie di operazioni inesistenti: le operazioni “soggettivamente” inesistenti – cioè quelle realmente poste in essere, ma tra soggetti diversi da quelli che appaiono cartolarmente[26]– e le operazioni “oggettivamente” inesistenti, cioè quelle che si esauriscono, in tutto o in parte, nella loro dimensione cartolare e generalmente nascono allo scopo di generare costi fittizi destinati a ridurre la base imponibile delle imposte sui redditi o dell’Iva. Le operazioni oggettivamente inesistenti possono distinguersi, a loro volta, in operazioni “assolutamente” inesistenti (nelle quali, cioè, la fattura documenta un’operazione che non è mai stata effettuata e che dunque esiste solo nella sua dimensione cartolare) e operazioni “relativamente inesistenti” (nelle quali l’operazione è stata effettuata ma per quantitativi inferiori rispetto a quelli indicati in fattura – sovrafatturazione quantitativa – o per corrispettivi inferiori a quelli che sarebbero dovuti per i beni e i servizi effettivamente forniti – sovrafatturazione qualitativa. Potrebbero farsi rientrare nella nozione di operazioni relativamente inesistenti anche quelle oggetto di un’errata qualificazione; si pensi a una cessione di beni erroneamente qualificata come cessione di azienda).
Queste distinzioni tra le diverse tipologie di operazioni inesistenti assumono rilevanza quando si tratta di individuare quella buona fede del soggetto passivo che ha partecipato all’operazione inesistente che la giurisprudenza, tanto europea quanto nazionale, valorizza quale elemento discriminante al fine di permettere o meno la detrazione dell’Iva da parte del destinatario della fattura[27]. Se l’operazione è oggettivamente inesistente, il destinatario della fattura ne è in generale consapevole; ma se l’operazione è soggettivamente inesistente, non può escludersi che il cessionario o committente dell’operazione effettivamente realizzata non sia, in buona fede, a conoscenza della diversità soggettiva tra chi ha emesso la fattura e chi ha posto in essere l’operazione.
Sulla detraibilità dell’Iva riguardante operazioni inesistenti si è sviluppato, in passato, un ampio dibattito giurisprudenziale, sia a livello europeo che a livello interno. La Cassazione in un primo e più risalente orientamento ha negato tout court la detrazione a fronte di un’operazione inesistente, senza accordare rilevanza all’eventuale buona fede del soggetto passivo[28]; oggi invece disconosce il diritto alla detrazione al solo operatore che abbia preso parte attiva alla frode o ne abbia avuto coscienza, riconoscendo invece lo stesso diritto al soggetto passivo in buona fede che, pur avendo adottato controlli ragionevoli e proporzionati per assicurarsi dell’affidabilità del fornitore, secondo il canone della diligenza della prassi commerciale, non poteva né avrebbe potuto rendersi conto che l’acquisto proveniva da un’operazione o da una catena di operazione nelle quali era stata evasa l’Iva.
Dall’esame della più recente giurisprudenza risulta che nelle operazioni oggettivamente inesistenti la detrazione non dovrebbe mai essere riconosciuta, posto che il destinatario della fattura dovrebbe essere a conoscenza della fittizietà dell’operazione. La Corte di Giustizia, anche nella recente sentenza resa in causa C-281/20 del 2021 ha concluso per il disconoscimento della detrazione Iva esercitata dal cessionario in un contesto frodatorio. L’operatore coinvolto nella frode viene punito – e il gettito viene recuperato – negando al cliente la detrazione dell’Iva; in tal modo, l’indetraibilità dell’Iva opera a tutela dell’erario, per evitare il pericolo (anche solo potenziale) che il cessionario/committente detragga l’Iva senza che il cedente/prestatore l’abbia versata.
Nel caso delle operazioni soggettivamente inesistenti, sulla spettanza della detrazione incide invece, come già rilevato, lo status soggettivo (e cioè l’eventuale buona fede) di colui che riceve la fattura[29]; status soggettivo la cui rilevanza viene giustificata dalla dottrina quale risultato del bilanciamento tra interessi contrapposti, quasi che la buona fede assurga al rango di elemento integrativo, se non costitutivo, del diritto di detrazione [30].
4. Errata applicazione dell’imposta e detrazione Iva. L’equivoca formulazione dell’art. 6, comma 6, del decreto legislativo n. 471 del 1997: il rischio di un corto circuito normativo e la complessa “riperimetrazione” della disposizione ad opera della giurisprudenza
L’attuale formulazione dell’art. 6, comma 6, del decreto legislativo n. 471 del 1997 prevede espressamente che “in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione … l’anzidetto cessionario o committente è punito con la sanzione amministrativa compresa tra 250 e 10.000 euro. La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”.
In sostanza, questa disposizione riconosce al cessionario o committente il diritto di detrarre l’imposta erroneamente assolta dal cedente o prestatore, punendo il suddetto cessionario o committente con una sanzione fissata entro i limiti sopra stabiliti e non più proporzionale all’Iva detratta (come è logico che sia, dato che la detrazione viene espressamente ammessa) [31].
La disposizione in esame – la cui ratio sembra quella di delineare un meccanismo più semplice e veloce rispetto a quello introdotto con l’art. 30-ter del d.P.R. n. 633 con il quale porre rimedio a tutti i casi in cui il recupero civilistico dell’imposta erroneamente addebitata risulti complesso, consentendo al cliente soggetto passivo Iva di chiederne il rimborso direttamente all’Amministrazione finanziaria [32] – letteralmente si riferisce a tutti i casi di “erroneo” assolvimento dell’imposta in misura superiore a quella effettiva: dunque, sembrerebbe potersi riferire tanto ai casi in cui il cedente/prestatore abbia semplicemente applicato un’aliquota superiore a quella corretta quanto ai casi in cui il cedente/prestatore abbia erroneamente applicato l’imposta a fronte di operazioni esenti, non imponibili o addirittura escluse da Iva.
Secondo un orientamento minoritario, sostenitore della necessaria simmetria rivalsa-detrazione in un sistema volto ad assicurare la neutralità dell’imposta, la detraibilità dell’iva non dovuta dovrebbe riconoscersi indipendentemente dal tipo di errore commesso dal cedente/prestatore, potendo in astratto applicarsi anche al caso limite di chi abbia erroneamente applicato l’Iva in luogo dell’imposta di registro. Tale più ampio riconoscimento del diritto alla detrazione troverebbe giustificazione proprio nel fatto che l’imposta erroneamente esposta in fattura è comunque dovuta ai sensi dell’art. 21, comma 7 e che, d’altro canto, gli eventuali abusi suscettibili di derivare dal riconoscimento del diritto alla detrazione potrebbero ritenersi superati per effetto della precisazione secondo cui il recupero dell’imposta viene escluso se il versamento è avvenuto in un contesto di frode fiscale[33].
Un orientamento più restrittivo è invece quello che sembra essersi affermato nella giurisprudenza della Cassazione, la quale ha sostenuto che “come chiaramente si evince dal tenore letterale della richiamata disposizione” l’art. 6, comma 6, “trova applicazione solo in relazione alle operazioni imponibili, allorquando sia stata corrisposta l’IVA in base ad un’aliquota superiore a quella effettivamente dovuta e non anche con riferimento alle ipotesi di operazioni non imponibili … La menzionata disposizione si applica unicamente alla diversa ipotesi in cui, a seguito di un’operazione imponibile, l’IVA sia stata erroneamente corrisposta sulla base di un’aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta”. In questa prospettiva, il riconoscimento del diritto alla detrazione cui fa riferimento l’art. 6, comma 6, riguarderebbe solo le ipotesi nelle quali sia stato addebitato un importo di Iva superiore a quello correttamente addebitabile per l’operazione in questione; dunque, una fattispecie sempre patologica, ma meno grave del caso in cui sia stata applicata l’Iva per un’operazione esente, non imponibile o esclusa. Nello stesso senso la Cassazione [34] ha affermato che “l’imposta erroneamente corrisposta in relazione ad un’operazione non imponibile non può essere portata in detrazione dal cessionario, nemmeno a seguito della modifica apportata dall’art. 1, comma 935, della legge n. 205 del 2017 all’art. 6, comma 6, del D. Lgs.vo n. 471 del 1997. Invero…la menzionata disposizione si applica unicamente alla diversa ipotesi in cui, a seguito di un’operazione imponibile, l’IVA sia stata erroneamente corrisposta sulla base di un’aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta”.
In tal modo, l’applicazione dell’art. 6, comma 6, del decreto legislativo n. 471 del 1997 – e il conseguente riconoscimento del diritto a detrazione da parte del cessionario/committente – sono stati circoscritti all’ipotesi in cui, in relazione a un’operazione pur sempre imponibile, l’Iva sia stata erroneamente applicata e corrisposta sulla base di un’aliquota diversa da quella che avrebbe dovuto essere applicata, escludendo viceversa dal perimetro della disposizione le fattispecie caratterizzate dall’errata applicazione dell’imposta ad operazioni esenti, non imponibili o escluse [35].
5. Il reverse charge e la sua errata applicazione con riferimento alle operazioni esenti, non imponibili o escluse: quali conseguenze sul debito di imposta e sulle sanzioni?
La tenuta degli arresti giurisprudenziali sui quali ci siamo soffermati va misurata quando combiniamo i temi legati alle patologie della fatturazione e della detrazione con il meccanismo del reverse charge.
Il reverse charge è un meccanismo impositivo derogatorio rispetto alle regole ordinarie di funzionamento dell’Iva, nato dall’esigenza di circoscrivere le possibilità di frode, con particolare riferimento a determinate tipologie di operazioni. Il reverse charge, come traspare dalla stessa locuzione, opera un’inversione contabile, cioè “sposta” gli obblighi Iva – ordinariamente gravanti sul cedente e sul prestatore – a carico del cessionario o del committente, cioè sul destinatario della cessione o della prestazione, il quale diviene così debitore di imposta. Nelle ipotesi in cui opera il reverse charge, il cedente/prestatore emette fattura senza addebito d’imposta; il cessionario/committente che riceve tale fattura senza indicazione dell’Iva a debito deve integrarla con l’indicazione dell’aliquota e della relativa Iva dovuta, provvedendo ad annotarla sia nel registro delle fatture emesse che in quello degli acquisti. Con il reverse charge, posizione debitoria e creditoria ai fini Iva nascono e si concentrano dunque in capo al medesimo soggetto (il cessionario/committente): in condizioni normali, quando cioè il soggetto ha pieno diritto alla detrazione, l’imposta si elide, evitando al cessionario/committente la materiale anticipazione monetaria; se invece si versa in una situazione in cui il diritto di detrazione è limitato, al debito si accompagnerà un credito limitato o nullo, determinando così un obbligo di versamento della differenza. Sarà però il cessionario e non il cedente ad essere obbligato all’assolvimento dell’imposta.
Le sanzioni amministrative applicabili in caso di irregolare applicazione del meccanismo di reverse charge sono state definite dal decreto legislativo n. 158 del 2015, il quale è intervenuto a riformare il sistema sanzionatorio tributario nazionale – ed anche, come detto, l’art. 6 del decreto legislativo n. 461 del 1997 – ispirandosi ai “principi di effettività, proporzionalità e certezza della risposta sanzionatoria dell’ordinamento di fronte a condotte illecite, rilevanti tanto in sede amministrativa quanto in sede penale” così da modulare le sanzioni in relazione al diverso disvalore della violazione commessa e rendere il sistema sanzionatorio dell’Iva coerente con i principi sanciti dalla Corte di Giustizia in tema di proporzionalità, efficacia ed equivalenza della sanzione[36].
Prima delle modifiche introdotte dal decreto n. 158, il testo del decreto n. 471 del 1997 non prevedeva sanzioni specifiche per l’errata applicazione del meccanismo del reverse charge.
Oggi, sono i commi 9-bis.1 e 9-bis.2 dell’art. 6 a disciplinare i casi di errore nell’applicazione del reverse charge: in particolare, il comma 9-bis 1 disciplina l’ipotesi in cui, in presenza dei requisiti per il reverse charge, l’Iva sia stata erroneamente assolta dal cedente o prestatore nei modi ordinari; il comma 9-bis.2 disciplina l’ipotesi speculare in cui l’imposta sia stata “erroneamente assolta dal cessionario/committente con il meccanismo dell’inversione contabile…per operazioni riconducibili alle ipotesi di reverse charge ma per le quali non ricorrevano tutte le condizioni per la sua applicazione.”[37] Si tratta, dunque, di fattispecie nelle quali l’imposta è dovuta e l’errore verte solo sull’indicazione del soggetto – cedente o cessionario – tenuto ad applicarla. In queste fattispecie l’errata modalità di applicazione dell’imposta – salve le ipotesi di frode – non ha arrecato pregiudizio all’Erario; la sanzione sarà dunque in misura fissa e il ripristino della neutralità dell’imposta immediato. In entrambi i casi, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione, tale soggetto non è dunque tenuto all’assolvimento dell’imposta, ma è punito con la sanzione amministrativa tra 250 e 10.000 euro, a meno che l’applicazione dell’imposta nei modi ordinari anziché mediante il reverse charge non sia stata determinata da un intento di evasione o frode del quale sia provato che il cessionario o committente era consapevole (casi in cui tornano applicabili le più pesanti sanzioni previste dal comma 1 dell’art. 6).
Si tratta di previsioni che appaiono coerenti con quanto affermato dalla Corte di Giustizia sulla necessità di salvaguardare il diritto alla detrazione, tranne nei casi in cui tale diritto sia invocato fraudolentemente[38].
Diverse sono le fattispecie alle quali si rivolge la disposizione contenuta nel successivo comma 9-bis.3; disposizione[39] sul cui perimetro applicativo sono oggi chiamate a pronunciarsi le sezioni unite della Cassazione.
Il comma 9-bis.3 dell’art. 6, come ricordato in premessa, disciplina nel primo periodo le ipotesi in cui l’errata applicazione del meccanismo del reverse charge abbia dato luogo all’errata applicazione dell’Iva a operazioni esenti, non imponibili o non soggette ad imposta (casi in cui “l’errore ha dato luogo alla creazione documentale di materia imponibile”[40]); il secondo periodo disciplina le ipotesi in cui l’errata applicazione del reverse charge riguardi invece operazioni inesistenti.
Oggetto del primo periodo del comma 9-bis.3 sono le fattispecie in cui il cessionario/committente, che riceve una prestazione esente, non imponibile o comunque non soggetta ad imposta, ritiene per errore l’operazione imponibile ad Iva e assolve l’imposta con il meccanismo dell’inversione contabile. In sostanza si tratta di operazioni esistenti ma erroneamente qualificate dal cessionario/committente come imponibili, per le quali dunque viene indicata in fattura, con il meccanismo del reverse charge, un’imposta in misura superiore a quella reale. Dunque, un doppio errore commesso dal cessionario/committente: un errore sulla qualificazione dell’operazione come imponibile e un errore nell’applicazione del regime del reverse charge, ma pur sempre con riferimento ad operazioni esistenti.
Quando, al di fuori del regime di reverse charge, si assoggetta per errore a Iva un’operazione esente, non imponibile o non soggetta, la norma applicabile – come rilevato in precedenza – è l’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633: il cedente può, se non si versa in una ipotesi di fraudolenza, recuperare l’imposta erroneamente applicata effettuando una variazione in diminuzione della fattura emessa o presentando istanza di rimborso ex art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992 (ora anche attraverso la particolare procedura dell’art. 30-ter del d.P.R. n. 633); l’acquirente non potrà invece – sempre per quel che si è detto – detrarre la somma erroneamente esposta in fattura, in quanto non si tratta di un’Iva correttamente assolta o addebitata in via di rivalsa: dovrà dunque recuperare la somma erroneamente addebitatagli agendo nei confronti del cedente [41].
Quando un’operazione esente, non imponibile o esclusa viene erroneamente assoggettata ad Iva in regime di reverse charge, la soluzione è ancora più semplice perché, per effetto dell’applicazione del reverse charge, l’imposta erroneamente applicata è stata (sempre che non operi un pro rata) detratta dallo stesso soggetto che l’ha computata nella propria liquidazione attiva. In questo caso, il comma 9-bis.3, primo periodo, prevede che, in conseguenza del mancato pregiudizio subito dall’Erario, gli effetti dell’erronea applicazione dell’Iva e dell’indebita detrazione della medesima imposta operate dal medesimo soggetto (cessionario/committente) possano pertanto elidersi: in tal senso, si prevede che in sede di accertamento debbano essere espunti tanto il debito computato dal soggetto nelle liquidazioni periodiche quanto la detrazione operata nelle suddette liquidazioni. Resta salvo il diritto del soggetto di recuperare l’imposta eventualmente non detratta, attraverso l’emissione di una nota di variazione ai sensi dell’art. 26, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 o attraverso un’istanza di rimborso ai sensi dell’art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale nazionale e unionale[42]. Dunque, l’erroneo assoggettamento a Iva, in regime di reverse charge, di un’operazione esente, non imponibile o esclusa non comporta conseguenze né sotto il profilo della detrazione, né sotto il profilo delle sanzioni.
6. Il reverse charge e la sua operatività con riferimento alle operazioni inesistenti: i dubbi della Cassazione sul trattamento sanzionatorio
Il primo periodo del comma 9-bis.3 si applica, per espressa previsione del secondo periodo dello stesso comma, “anche nei casi di operazioni inesistenti”, ma né la formulazione letterale del comma 9-bis.3, né la relazione illustrativa al decreto n. 158 chiariscono se le operazioni inesistenti fatturate in regime di reverse charge cui si riferisce il secondo periodo del comma 9-bis.3 siano solo quelle di cui al primo periodo (cioè le operazioni astrattamente esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta), oppure siano le operazioni inesistenti tout court.
Dalla lettera del comma 9-bis.3 emerge poi che per le fattispecie del primo periodo del comma, come abbiamo detto, non sono previste sanzioni, mentre per le fattispecie disciplinate dal secondo periodo (operazioni inesistenti fatturate in regime di reverse charge) è prevista l’applicazione della sanzione amministrativa compresa tra il 5 e 10 per cento dell’imponibile, con un minimo di 1000 euro; si tratta [43] della stessa sanzione applicabile, ai sensi dell’art. 6, comma 9-bis, al cessionario che ometta gli adempimenti relativi all’inversione contabile cui pure è tenuto.
Chiamata ad affrontare il tema, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo comma 9-bis.3, la Cassazione ha in un primo momento sostenuto [44] che il perimetro applicativo del secondo periodo del comma in questione ricalcasse quello del primo periodo e potesse dunque riguardare le sole operazioni inesistenti “che siano astrattamente esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, assoggettate ad imposta e che siano regolate dal cessionario con l’inversione contabile interna”. In questa prospettiva, sarebbero risultate escluse dal più favorevole trattamento fiscale e sanzionatorio previsto dal comma 9-bis.3 “le operazioni imponibili soggettivamente inesistenti ancorché regolate in regime domestico d’inversione contabile”; per tali operazioni il contribuente sarebbe stato tenuto al versamento dell’imposta, in applicazione dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 oltre ad essere assoggettato alle sanzioni per indebita detrazione e infedele dichiarazione.
L’ardua distinzione operata dalla Cassazione tra operazioni inesistenti “astrattamente esenti, non imponibili o comunque non soggette ad imposta” e operazioni inesistenti “astrattamente imponibili” presuppone, in effetti, un non indifferente sforzo di astrazione. Trattandosi in entrambi i casi di operazioni che (soggettivamente od oggettivamente) non esistono, non sembra facile immaginarne l’astratta imponibilità, piuttosto che la natura di operazione esente, non imponibile o esclusa da Iva. Al più, la distinzione della Cassazione potrebbe apparire plausibile, in prima approssimazione, con riferimento alle operazioni soggettivamente inesistenti; tuttavia, a ben guardare proprio nelle operazioni soggette a reverse charge il profilo soggettivo assume ancora maggior rilevanza, posto che se non si conosce la reale identità del fornitore del bene o del servizio non è possibile comprendere se il cessionario sia tenuto o meno ad assolvere l’imposta secondo le modalità del reverse charge. Oltre a questo, escludere le operazioni soggettivamente inesistenti dal perimetro del comma 9-bis.3 conduce alla paradossale conseguenza di escludere che il più tenue regime sanzionatorio da tale disposizione previsto possa essere applicato in caso di errori commessi in buona fede dall’operatore coinvolto nella transazione [45].
Più di recente, la Cassazione ha dunque mutato orientamento[46], sostenendo che il secondo periodo del comma 9-bis.3 disciplinerebbe tutti i casi di operazioni inesistenti cui sia stata applicata l’Iva col meccanismo del reverse charge. In tal senso sembra essersi espressa anche l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 16/E del 2017, di commento al nuovo sistema sanzionatorio del reverse charge.
7. Alla ricerca di un filo di Arianna: la correlazione dell’art. 6, comma 9-bis.3 con l’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633
Un possibile filo di Arianna per cercare di orientarsi in questo labirinto di disposizioni e fattispecie diverse e cercare di definire in modo sistematicamente appagante il perimetro applicativo del secondo periodo del comma 9-bis.3 e del più tenue trattamento sanzionatorio ivi previsto può essere rinvenuto riflettendo sulla contestuale modifica dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, anch’essa operata con decreto n. 158 del 2015[47].
Prima dell’intervento operato con il decreto n. 158, l’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 imponeva tout court la debenza dell’Iva a seguito dell’emissione di fattura: non a caso si rivolgeva a “chiunque”, anche non soggetto Iva, emettesse documenti con vesti di fattura. Il baricentro di quella previsione normativa era rappresentato proprio dalla genericità del soggetto che avesse emesso fattura; e tale formulazione normativa legittimava la convinzione che la debenza dell’Iva dovesse e potesse riguardare anche eventuali operazioni inesistenti fatturate con Iva in regime di reverse charge[48].
A seguito della modifica apportata dal decreto n. 158 del 2015, l’art. 21, comma 7, prevede oggi che “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”.
Dal confronto tra la precedente e l’attuale formulazione del comma 7 dell’art. 21, emerge con chiarezza che tale disposizione non può più ritenersi applicabile né alla fatturazione di eventuali operazioni inesistenti poste in essere da soggetti operanti in regime di reverse charge [49], né alle ipotesi in cui la fattura venga emessa da un non soggetto Iva [50]; tali operazioni dovranno dunque essere tutte ricondotte al diverso ambito applicativo del comma 9-bis.3 dell’art 6. In tal senso è chiara la relazione illustrativa al decreto legislativo n. 158 del 2015, la quale parla della modifica al comma 7 dell’art. 21 come di una modifica introdotta “al fine di rendere chiaro che la relativa prescrizione non riguarda le ipotesi di operazioni soggette a reverse charge”.
Tutte le operazioni inesistenti fatturate con Iva in regime di reverse charge sembrano dunque doversi ricondurre unicamente al campo di applicazione del comma 9-bis.3. Per tali operazioni, come per quelle del primo periodo del comma 9-bis.3, la registrazione dell’Iva a debito e quella dell’Iva a credito si elidono e dunque non emerge un danno per l’erario[51]; ad esse non si rende applicabile l’art. 21, comma 7, e in relazione alle stesse – ferma restando la sanzione penale – torna applicabile la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1000 euro [52].
In effetti, per le operazioni inesistenti fatturate in regime di reverse charge, data l’esclusione del pregiudizio per l’erario e la doppia elisione delle registrazioni a debito e a credito per l’Iva integrata nelle suddette fatture, non avrebbero avuto senso sanzioni proporzionali al suddetto debito; viceversa, la prevista sanzione tra il 5 e il 10 per cento dell’imponibile, con il minimo di 1000 euro, appare maggiormente in linea con il principio di proporzionalità, il quale impedisce di imporre sanzioni che eccedano quanto necessario “per conseguire gli obiettivi consistenti nell’assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e nell’evitare l’evasione” [53].
Alla conclusione raggiunta dai più recenti arresti della Cassazione ed esplicitamente sostenuta dalla stessa Agenzia delle entrate nella ricordata circolare n. 16/E del 2017 conducono l’esame dell’intento legislativo, la lettera della disposizione e anche la riflessione in ordine alla contestuale modifica, operata con decreto n. 158 del 2017, sull’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Vero è, come rilevato dalla dottrina [54], che questa interpretazione potrebbe avvantaggiare anche “tutti coloro che, con intento fraudolento, fatturano, in regime di inversione contabile, tanto interno quanto intracomunitario, operazioni inesistenti”, ma il vulnus maggiore al generale obiettivo di contrastare le frodi in materia di Iva in realtà deriva non tanto dalla proposta lettura del secondo periodo del comma 9-bis.3 quanto piuttosto dall’attuale formulazione dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633, che ormai esclude a priori la debenza dell’Iva ogni volta che la fattura sia emessa, anche per operazioni inesistenti, da un soggetto non suscettibile di essere qualificato come cedente o prestatore.
[1] Cfr.: Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding BV, punto 19; 15 marzo 2006, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken, punto 23; 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans, punto 38 e C-643/11, LVK, punto 34; 27 giugno 2018, cause C-459/17 e C-460/17, SGI e Valériane, punto 37.
[2] Cfr.: L. DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 2011. Nella sentenza della Corte di Giustizia 31 gennaio 2013, causa C-643/11, LVK – 56 EOOD al punto 38 si afferma che “tenuto conto, da un lato, di tale possibilità di rettifica e, dall’altro, del rischio che la fattura che menziona indebitamente l’Iva sia utilizzata ai fini dell’esercizio del diritto a detrazione, non si può ritenere che l’obbligo previsto all’articolo 203 della direttiva 2006/112 conferisca al pagamento dovuto un carattere di sanzione”. Sul tema v. anche M. LOGOZZO, Iva e fatturazione per operazioni inesistenti, in Riv. dir. trib., 2011, I, pp. 287 ss.
[3] In tal senso la Corte di Giustizia nelle sentenze 8 maggio 2019, causa C-712/17, En.sa., punto 31 e 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans, punto 31 rileva che “il rischio di perdita di gettito fiscale non è, in linea di principio, eliminato, fintantoché il destinatario di una fattura che indica un’IVA non dovuta possa utilizzarla al fine di ottenere la detrazione di tale imposta”. In senso analogo anche Cass. n. 309 del 2006.
[4] Cfr.: Corte di Giustizia, sentenza 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans, cit., punto 43.
[5] Sulla neutralità dell’Iva, garantita dai meccanismi della rivalsa e della detrazione A. MONDINI, Il principio di neutralità nell’IVA, tra mito e (perfettibile) realtà, ne I principi europei del diritto tributario a cura di A. DI PIETRO e T. TASSANI, Padova, 2013, p. 271; M. GREGGI, Il principio di inerenza nel sistema d’imposta sul valore aggiunto, Pisa, 2013, pp. 37 ss..
[6] I soggetti passivi che effettuano operazioni esenti sono invece considerati alla stregua di consumatori finali sotto il profilo Iva, pur potendo dedurre l’Iva indetraibile sotto il diverso profilo della determinazione del reddito.
[7] Corte di Giustizia, 21 settembre 1998, causa C-50/87, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese; Corte di giustizia, 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Péter David, secondo cui (punti 38 ss.) “ …il diritto a detrazione previsto negli articoli 167 e seguenti della direttiva 2006/112 costituisce parte integrante del meccanismo dell’Iva e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni. … Il regime delle detrazioni mira a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’Iva dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’Iva garantisce, di conseguenza, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’Iva…”. Sul diritto, spettante ai soggetti passivi, di detrarre dall’Iva della quale sono debitori l’Iva dovuta o assolta sui beni acquistati e sui servizi ricevuti a monte quale espressione del principio di neutralità ed elemento fondamentale del sistema comune istituito dalla normativa europea v. più di recente Corte di Giustizia 18 marzo 2021, C-895/2019, par. 32.
[8] Sul tema v. L. SALVINI, La detrazione Iva nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, in Riv. dir. trib., 1998, I, p. 132 ss..
[9] Così Corte di Giustizia 8 maggio 2019, causa C-712/17, En.sa, cit.
[10] Il principio di neutralità, informando di sé la natura stessa dell’IVA, “in linea di principio non può essere soggetto a limitazioni”; così Corte di Giustizia, 18 novembre 2021, causa C-358/20, Promexor Trade s.r.l. In termini anche le precedenti sentenze, sempre della Corte di Giustizia, 9 novembre 2017, causa C-552/16, Wind Innovation, punto 32; 17 marzo 2018, causa C-159/17, Dobre, punti 29-30; 12 aprile 2018, causa C-8/17, punti 28-29, in Riv. dir. trib., 2018, III, p. 127 ss. con nota di M. RAVACCIA, L’Iva addebitata in rivalsa a seguito di accertamento e la decorrenza del termine per la detrazione.
[11] Cfr: Corte di Giustizia, sentenza Stroy Trans, cit., punto 32. Sul tema, per approfondimenti, cfr.: M. GREGGI, Frodi fiscali e neutralità del tributo nella disciplina dell’IVA, in Dir. prat. trib., 2016, I, pp. 10115.
[12] Così sentenza 8 maggio 2019, causa C-712/17, En.sa, cit., punto 27.
[13] Cfr.: Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding BV, cit., punti 13-15; 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strobel, punto 53; 6 novembre 2003, cause riunite C-78/02, C-79/02 e C-89/02, Karageorgou e altri, punto 50; 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken, cit., punto 23; 27 giugno 2018, cause C-459/17 e C-460/17, SGI e Valèriane.
[14] “Se il diritto alla deduzione dell’IVA esiste chi lo invoca deve dimostrare di aver pagato l’imposta. Nell’ambito del sistema comunitario dell’Iva, la fattura è un mezzo fondamentale – probabilmente il più chiaro che ci sia per fornire tale prova. Per questo motivo ogni soggetto passivo titolare del diritto alla detrazione dell’Iva deve procurarsi e conservare meticolosamente la documentazione necessaria per evitare di vedersi respingere, in quanto infondata, la domanda di deduzione”; così le conclusioni dell’Avvocato generale G. Jacobs, presentate il 23 ottobre 2003 nella causa C-90/02, Bockemuhl.
[15] Così le conclusioni dell’Avvocato generale Gordon Slynn, presentate il 31 maggio 1988 nelle cause riunite 123 e 330/87.
[16] Cfr.: sentenza 24 febbraio 2022, causa C-582/20, SC Cridar Cons SRL, punto 39.
[17] Ex multis: Cass. nn. 8786 del 2001; 12756 del 2002; 4419, 8959 e 11110 del 2003; 12146 del 2009; 15068 del 2013, n. 24289 del 2020.
[18] Cfr.: Corte di Giustizia, 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strobel.
[19] Come rilevato nella circolare Assonime n. 12 del 2018, p. 6, “l’Iva non dovuta configurava, così, un fattore che incideva negativamente sulla neutralità del tributo perché andava a gravare, contrariamente alla logica del tributo, su uno degli operatori che concorrevano alla produzione o commercializzazione del bene o servizio destinato al consumo finale”.
[20] Sul punto, per maggiori dettagli e per richiami giurisprudenziali, si rinvia alla citata circolare Assonime n. 12 del 2018.
[21] Corte di Giustizia, sentenza 15 dicembre 2011, causa C-427/10, Banca Antoniana Popolare Veneta.
[22] Su quest’ultimo punto si vedano peraltro le osservazioni critiche di L. SALVINI, IVA non dovuta: una nuova disciplina poco meditata, in Corr. trib. 2018, pp. 1607 ss., la quale sottolinea che il suddetto comma 3 non sarebbe conforme a quell’orientamento della Corte di Giustizia secondo cui, anche in un contesto di frode, il recupero dell’Iva a debito dovrebbe essere comunque ammesso, laddove non vi siano rischi di perdite di gettito per l’Erario.
[23] Cfr.: E. DELLA VALLE, Le operazioni inesistenti nell’ordinamento penal-tributario, in Rass. trib., 2015, p. 433 ss.; M. RAVACCIA, Fatture per operazioni inesistenti senza danno erariale: alcune conferme e una violazione per eccesso di sanzioni della normativa italiana (nota a Corte Giustizia, causa C-712/17 dell’8 maggio 2019) in Riv. dir. trib., 2019, IV, p. 149.
[24] Cfr.: circolare n. 1/2018 della Guardia di finanza, vol. I, parte II, cap. 1, par. 3.b. Secondo la giurisprudenza della Cassazione (cfr.: sent. n. 11661 del 2015) “la nozione di operazione inesistente va riferita non soltanto all’ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata sul piano fattuale, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra realtà commerciale e sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di “inesistenza soggettiva”.
[25] Cfr.: Cass. n. 7289/2001 e n. 14337/2002, in Dir. prat. trib., 2003, II, pp. 20646 con nota di M. RAVACCIA, Indetraibilità dell’Iva indicata su fatture per operazioni inesistenti.
[26] V. MEF, Direzione della giustizia tributaria, Le operazioni soggettivamente inesistenti: giurisprudenza sui profili fiscali e dialogo tra Corti, luglio 2021, n. 2.
[27] In tal senso M. RAVACCIA, Fatture per operazioni inesistenti …, cit., p. 151.
[28] Cfr.: Cass. n. 2847/2008, secondo cui “la semplice buona fede … intesa come inconsapevolezza della frode altrui … non può essere invocata da parte di chi sfrutti gli effetti favorevoli di operazioni accertate come inesistenti.”
[29] Cfr.: Corte di Giustizia 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen; 6 luglio 2006, cause riunite C-439/04 e C-440/04, Axel Kittel; 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagèben Kft e Pèter Dàvid; 6 dicembre 2012, causa C-285/11, Bonik; 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans.
[30] Cfr. in tal senso M. RAVACCIA, Fatture per operazioni inesistenti, cit., p. 157, il quale richiama, a sostegno di tale posizione, A. MONDINI, Corresponsabilità tributaria per le evasioni Iva commesse da terzi, in Rass. trib., 2014, p. 453 con rinvio a E. MARELLO, Oggettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, in Riv. dir. fin. 2008, I, p. 2 e A.M. PROTO, Nozione di antieconomicità e rilevanza della buona fede del contribuente nell’Iva, in Rass. trib., 2010, p. 1419.
[31] Cfr.: circolare Assonime n. 12 del 2018, p. 13.
[32] E sotto questo profilo, la dottrina (cfr. A. PAROLINI, Detrazione Iva indebita tra vincoli UE, cit.) ne ha sostenuto la natura “procedurale”, trattandosi di una disposizione finalizzata proprio a evitare il più complesso ricorso al meccanismo dell’art. 30-ter.
[33] Così circolare Assonime n. 12 del 2018, pp. 13-14, secondo cui “sarebbe difficile trovare una giustificazione sistematica al principio secondo cui sia detraibile l’imposta applicata in misura superiore a quella dovuta, e non anche quella non dovuta per altri motivi, ad esempio perché l’operazione in questione è esente o non imponibile, o addirittura esclusa, come nel caso … della cessione di azienda. Anche in tali situazioni, infatti, risulta applicata un’imposta superiore a quella effettivamente dovuta secondo la disciplina del tributo”. In senso conforme alla soluzione prospettata nella circolare Assonime, oltre alla circolare della Guardia di finanza 13 aprile 2018, prot. 114153, allegato 2, p. 22, cfr. anche M. FANNI, L’indebita detrazione IVA dopo la legge europea 2017 e la legge di bilancio 2018, in Corr. Trib., 2018, p. 249; A. PAROLINI, Detrazione Iva indebita tra vincoli UE e interpretazione alternativa ed “europeisticamente” orientata, in Corr. Trib., 2021, pp. 148-149.
[34] Cfr.: sentenza n. 24289 del 2020, criticata da A. PAROLINI, Detrazione Iva indebita, cit. In linea con l’interpretazione della Cassazione si è pronunciata l’Agenzia delle entrate con circolare n. 52/E del 2021, negando al cessionario il diritto a detrarre l’Iva erroneamente corrisposta in relazione a un’operazione non imponibile o esente e punendolo, in caso di avvenuta detrazione, con una sanzione pari al 90 per cento dell’ammontare della detrazione illegittimamente compiuta.
[35] Di recente la Cassazione (cfr.: sentenza n. 10439 del 2021) sembra essere andata addirittura oltre nella lettura dell’art. 6, comma 6, affermando che, essendo il giudice nazionale vincolato ad interpretare ed applicare il diritto interno in senso conforme al testo ed alla finalità della Direttiva IVA, l’inciso … “fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli articoli 19 e seguenti” “va considerato quale riconoscimento della detrazione dell’IVA … nei limiti dell’imposta effettivamente dovuta in ragione della natura delle caratteristiche dell’operazione posta in essere”. Per un commento molto critico a tale orientamento giurisprudenziale cfr.: M. FANNI, Indetraibile (anche) l’IVA con aliquota superiore a quella dovuta. La cassazione teorizza la sostanziale abrogazione della disposizione che, in assenza di danno o frodi, “tiene fermo il diritto alla detrazione”, in GT n.6/2021, p. 504 ss.; secondo tale autore, “tale interpretazione inferisce un colpo mortale alla disposizione, poiché l’imposta indebitamente detratta oggetto di accertamento da parte dell’Agenzia sarà ovviamente sempre e solo la parte eccedente rispetto a quella per legge applicabile, sicché la lettura della norma proposta dalla Cassazione equivale ad una sua abrogazione implicita”.
Sul tema da ultimo vedi anche Cass. n. 8589 del 2022, secondo cui “l’interpretazione conforme al diritto unionale induce a propendere per la tesi per cui la riforma del D. Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, va intesa nel senso che si sia limitata a modificare, rendendolo più mite, il regime sanzionatorio applicabile ai casi di indebita detrazione dell’Iva, in quanto operata per un importo superiore rispetto a quella dovuta in relazione all’operazione posta in essere, benché coincidente con quella indicata in fattura. In tale ottica, l’inciso ivi contenuto “fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli articoli 19 e ss.” va considerato quale riconoscimento del diritto alla detrazione dell’Iva nei limiti di quanto dovuto ai sensi delle disposizioni richiamate, le quali, per le ragioni suindicate, non consentono di detrarre l’imposta versata nel suo intero ammontare, laddove non dovuta per intero o in parte e, dunque, nei limiti dell’imposta effettivamente dovuta in ragione della natura delle caratteristiche dell’operazione posta in essere”. A quanto è dato comprendere, questa pronuncia sembra peraltro circoscrivere la ratio della riforma dell’art. 6 alla scelta di introdurre sanzioni più miti per il caso di indebita detrazione dell’Iva; ma, se così fosse, tale più mite trattamento sanzionatorio dovrebbe trovare applicazione in tutte le ipotesi di indebita detrazione (v. successivo par. 7).
[36] Su queste modifiche v. P. ARGINELLI – A. ROTTOLI, Le nuove sanzioni amministrative applicabili in caso di irregolare assolvimento dell’Iva mediante reverse charge, in Riv. dir. trib., supplemento online; M. LEO, Ancora incertezze sulle sanzioni Iva: il caso delle operazioni inesistenti in regime di reverse charge, in Corr. trib., 2021, pp. 39 ss.
[37] Così la relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 158 del 2015.
[38] Cfr.: Corte di Giustizia, 11 dicembre 2014, causa C-590/13, Idexx Laboratories, punti 31-34.
[39] Definita nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 16/E del 2017 (p. 14) “più a carattere procedurale che sanzionatorio”.
[40] Così L. SALVINI – A.M. LA ROSA, Reverse charge e operazioni inesistenti: brindano i missing traders o ha ragione la Cassazione? , in Corr. trib., 2016, p. 3287 ss.
[41] Salvo il caso estremo di impossibilità; cfr.: Corte di Giustizia, 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken; 15 dicembre 2011, causa C-427/10, Banca Antonveneta.
[42] Cfr.: Cass. nn. 5427 del 2000; 2274 e 3306 del 2004; 4416 e 5094 del 2005; 9437 del 2006; 7330 del 2012.
[43] Cfr.: L. SALVINI, A.M. LA ROSA, Reverse charge e operazioni inesistenti … cit., pp. 3287 ss
[44] Cfr. sentenza n. 16679 del 2016, su cui L. SALVINI – A.M. LA ROSA, Reverse charge e operazioni inesistenti, cit., pp. 3287 ss. e F. FARRI, Sanzioni IVA e principio di proporzionalità: nuove prospettive dalla Cassazione, in Riv. dir. trib. online, 13 settembre 2016. Nello stesso senso anche le successive sentenze di Cass. nn. 12649 del 2017 e 958 del 2018.
[45] Cfr. ancora: L. SALVINI, A.M. LA ROSA, Reverse charge e operazioni inesistenti, cit.
[46] Cfr.: Cass. nn. 32552, 32553 e 32554 del 2019; Cass. n. 16367 del 2020.
[47] In questo stesso senso anche M. LEO, Ancora incertezze sulle sanzioni Iva: il caso delle operazioni inesistenti in regime di reverse charge, in Corr. trib., 2021, pp. 39 ss..
[48] Cfr.: Cass. n. 5072 del 2015.
[49] Soggetti che, anche ragionando nell’ottica della giurisprudenza europea, ben potrebbero considerarsi coerentemente esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633, dato che la ratio dell’art. 203 della direttiva 112/2006 (matrice europea dell’art. 21, comma 7) consiste nella finalità di eliminare rischi di perdite di gettito derivanti dal diritto a detrazione; rischi che evidentemente non si corrono con l’inversione contabile.
[50] Sotto questo profilo, come rilevano L. SALVINI – A.M. LA ROSA, cit., “sembrerebbe che chiunque possa dilettarsi in questo discutibile passatempo” (emissione di fattura) “senza temere alcunché ai fini Iva. E ciò è appunto il risultato di una norma che ora, in termini vagamente surreali, radica la debenza dell’imposta in capo a chi cede un bene o presta un servizio oggettivamente o soggettivamente inesistente. In capo a chi, quindi, dal punto di vista sostanziale, non è affatto un cedente o un prestatore, visto che l’operazione rispetto alla quale afferma documentalmente di essere tale in realtà non esiste: per dare un significato a tale norma bisognerebbe ragionevolmente ritenere che sia tale un soggetto che emette una fattura per operazioni inesistenti avendo almeno la veste formale di soggetto Iva”.
[51] Può trattarsi di operazioni che sottendono anche intenti fraudolenti, ma sotto profili diversi dall’Iva; il danno all’erario può derivare semmai, ai fini dell’imposizione diretta, dal maggior costo portato in deduzione ai fini della determinazione del reddito.
[52] Nello stesso senso M. LEO, Ancora incertezze sulle sanzioni Iva, cit., il quale rileva che circoscrivere il perimetro applicativo del comma 9-bis.3 alle sole operazioni inesistenti “esenti, non imponibili o non soggette ad imposta” e, per l’effetto, riconoscere la rettificabilità dell’imposta indebitamente autofatturata anche in assenza di un danno per l’erario equivarrebbe a determinare, per le operazioni inesistenti in regime di reverse charge, un triplo effetto negativo: indetraibilità dell’imposta e applicazione delle sanzioni per infedele dichiarazione e indebita detrazione.
[53] Cfr.: Corte di Giustizia, sentenza 15 aprile 2021, causa C-935/19, Grupa Warzywna Sp. z o.o, punto 35.
[54] Cfr.: L. SALVINI – A.M. LA ROSA, op. cit., loc. ult. cit.
Alla ricerca di un accesso effettivo e proporzionato alla risorsa giurisdizionale: la brutta pagina della stretta legislativa alla c.d. impugnativa degli estratti di ruolo
di Alberto Marcheselli
1. Oggetto di queste brevi riflessioni è la recente novella in materia di impugnabilità degli estratti di ruolo e impugnabilità c.d. diretta dei ruoli e delle cartelle asseritamente non validamente notificate.
L’esclusione della impugnabilità dell’estratto di ruolo è invero assai poco problematica. L'oggetto della disposizione è chiaro: disciplina gli atti impugnabili davanti al giudice tributario, escludendo dal novero l'estratto di ruolo.
Il contenuto della disciplina è altrettanto chiaro e in piena continuità con la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno riconosciuto che l'estratto di ruolo è un'attestazione da cui risultano dei provvedimenti, ma non è un provvedimento in sé, e quindi non è impugnabile.
Norma chiara, non innovativa e certamente non foriera di problemi di diritto intertemporale: tale regime era già proprio del diritto vigente.
2. I problemi sono altri e derivano dal fatto che dall'estratto di ruolo - in quanto attestazione -risultano altri provvedimenti: in particolare, ad esempio, una iscrizione a ruolo e, eventualmente, cartelle di pagamento, o altri atti del procedimento impositivo.
Il problema, allora, non è se sia impugnabile l’estratto di ruolo ma:
1) se la conoscenza derivante dall'accesso all'estratto di ruolo consenta l'impugnazione di atti precedenti ignorati, senza dover attendere, ai sensi dell’art. 19, comma 3 d. lgs. 546/1992, la notificazione di atti successivi eventuali, come ad esempio il pignoramento;
2) se la acquisita conoscenza dell’estratto di ruolo consenta la rimozione di iscrizioni pregiudizievoli, indipendentemente dall’esistenza di altri atti precedenti non conosciuti, per esempio la cancellazione dal ruolo di pretese cadute in prescrizione.
La novella, nella sua seconda parte, si occupa di questo e in particolare di quanto sub 1) (lasciando invece scoperto il non lieve problema della tutela delle situazioni sub 2) ed ha sicuramente una portata innovativa alla luce della giurisprudenza pregressa delle sezioni unite della Corte di Cassazione, in particolare della sentenza 19704 del 2005.
A mente di essa, attendere la notifica di un atto successivo non è l'unica via per ottenere tutela in caso di omessa notifica dell'atto precedente. In tale caso è possibile infatti - deve essere possibile, dice la Corte di Cassazione, in base a una interpretazione costituzionalmente orientata - impugnare anche se l'atto precedente di cui si contesta la notifica viene ad essere conosciuto per esempio attraverso l'estratto di ruolo. Le Sezioni Unite riconoscono che questa ammissione della tutela è una tutela efficiente e costituzionalmente dovuta, perché adeguata sia alla tutela delle ragioni del singolo, sia perché realizza anche il principio di buon andamento della pubblica amministrazione: può impedire l'avanzamento di un procedimento illegittimo, che poi andrebbe incontro ad un'eventuale annullamento, con dispersione anche della risorsa amministrativa.
Si tratta, insomma, di un uso proporzionato e buono della risorsa giurisdizionale.
Questa giurisprudenza è, inoltre, sistematicamente coerente con quella, parallela, che consente l'impugnazione dei cosiddetti avvisi bonari: anche in quel caso si tratta della possibilità di ottenere tutela anticipatamente, in modo efficace e produttivo, evitando l'emissione di provvedimenti che potrebbero comunque essere annullati.
Profilo non univoco, invece, era semmai se questa impugnazione facoltativa dovesse esercitarsi entro un termine. In senso positivo, ad esempio, la sentenza 23076 del 2019.
In ogni caso era tendenzialmente acquisito che la impugnazione degli atti conosciuti per il tramite dell'estratto di ruolo (e non dell'estratto di ruolo) fosse consentita e fosse facoltativa.
3. La novella, quindi, nella parte in cui limita la possibilità di impugnare gli atti conosciuti attraverso l'estratto di ruolo è sicuramente innovativa.
Essa fa riferimento all'impugnazione diretta che tutti interpretano - più propriamente - come impugnazione immediata, cioè autonoma e non associata all'impugnazione di un atto successivo. In sostanza, l'impugnazione diretta sarebbe un'impugnazione diversa da quella prevista dall'articolo 19 comma 3 del decreto sul contenzioso: è possibile impugnare senza attendere che sia notificato l'atto successivo.
La norma fa, poi, un riferimento alla dimostrazione di un interesse qualificato. Anche quanto a questo aspetto, si tratta di una terminologia abbastanza inusuale - e forse impropria: nel processo non si danno dimostrazioni ma si forniscono prove, si formulano allegazioni e si prospettano argomentazioni.
4. Esaurita questa premessa si affrontano innanzitutto tre problemi: il primo problema è se questa impugnazione, alla luce della nuova disciplina, rimanga tuttora una impugnazione facoltativa; il secondo problema è se, per questa impugnazione facoltativa, sia previsto un termine di esercizio; il terzo problema è se questa impugnazione, o meglio se questa nuova disciplina, sia applicabile anche i processi in corso.
Per quanto riguarda il primo problema, l'alternativa, se ben si intende, è tra ritenere che gli atti conosciuti di cui la nuova disciplina si occupa siano impugnabili facoltativamente oppure ci sia un onere di impugnarli a pena di decadenza.
Per una tesi, l'impugnazione non sarebbe più facoltativa ma il contribuente ne sarebbe onerato, se vuole contestare l’atto di cui è così venuto a conoscenza.
Se non ci si inganna, ciò significa che, sussistendo l'onere di impugnarlo, l'atto, se non impugnato in questa sede, non sarebbe più contestabile.
A questa soluzione possono opporsi alcune obiezioni.
La prima è che la norma, in effetti, non lo dice affatto. La disposizione si limita ad affermare che quegli atti sono suscettibili di impugnazione diretta solo se c’è un interesse qualificato. Non che quegli atti sono suscettibili solo di impugnazione immediata. Ergo, l'impugnazione autonoma anticipata è ancora ammissibile, ma in ipotesi più restrittive rispetto all'apertura che era stata effettuata dalle Sezioni Unite. Ciò non pare voglia significare che ora è possibile solo l'impugnazione anticipata, ma solo che l'impugnazione anticipata resta possibile in ipotesi più ristrette.
Per usare una metafora …autostradale, pare che la novella equivalga a una disciplina innovativa del regime del traffico. Premesso che, per andare da Genova a Roma, si può passare da La Spezia o da Voghera e Piacenza, l'intervento legislativo equivale a una prescrizione che stabilisca che, visto che le autostrade liguri sono i condizioni tragiche, è consentito passarci soltanto per ragioni di stretta necessità. Ma una disposizione che dicesse che per La Spezia si passa solo per ragioni necessità non vuol dire che… si sia obbligati a passare dalla Spezia. Soltanto che, se si vuol passare dalle 5 Terre, bisogna dimostrare di avere una ragione speciale.
5. E non basta, non solo questa ipotesi pare fuori dall’area semantica e logica della disposizione, ma pare crei non pochi problemi applicativi.
Facciamo qualche esempio.
Se Tizio acquisisce l'estratto di ruolo e ha l'onere di impugnare l’atto sottostante, la prima domanda è: l'ha sempre questo onere, anche se non ha l'interesse qualificato? Se rispondiamo di si, dalla richiesta dell'estratto di ruolo fatta in assenza dei particolari casi di interesse qualificato scatterebbe una specie di roulette russa. Se si sceglie di non impugnare perché non sussiste l’interesse, scatterebbe il rischio di perdere il diritto di impugnare l'atto (che, magari, era ingiusto): sussisteva l'onere di impugnarlo e non lo si è adempiuto. Se, invece, l’impugnazione interviene, si deve sperare che sopravvenga l'interesse, sennò si va incontro a una pronuncia di inammissibilità. E, di nuovo, non è che si consolida il provvedimento?
Se così fosse, si avrebbe una sorta di sanzione per la curiosità: la richiesta dell’estratto di ruolo troppo presto comporterebbe delle potenziali conseguenze sfavorevoli.
Ovviamente, la soluzione potrebbe essere anche diversa: che l’onere scatti solo se sussisteva l'interesse qualificato. Ma ciò crea una situazione alquanto arzigogolata: se si impugna successivamente si potrebbe veder opposta una eccezione così fondata: a) è intervenuta decadenza perché era stato chiesto un estratto di ruolo quando b) sussisteva l’interesse qualificato. Cioè, a ritroso, bisognerebbe accertare se e quale estratto di ruolo era stato rilasciato, e che interessi sussistevano allora: un accertamento di difficile gestione. Non solo una interpretazione forzata, ma anche una soluzione molto complessa da gestire anche in giudizio.
E non basta: si supponga che Tizio impugni l’atto sotteso all’estratto di ruolo e sia titolare dell’interesse qualificato previsto la legge, ma che questo interesse venga meno, durante il processo, perché, per esempio, nel frattempo vengono risolte le pendenze con l'amministrazione. Ne dovrebbe conseguire che, venuto meno l’interesse, non si avrebbe più diritto ad ottenere una decisione (viene meno una condizione dell’azione). Ma anche qui sorge l’interrogativo: dato che il provvedimento poteva essere impugnato – a pena di decadenza - solo nella sede anticipata, esso dopo non è più impugnabile? Cioè, il venir meno e dell'interesse priva definitivamente del diritto di impugnare il provvedimento (che magari era ingiusto)? Oppure, se viene meno l'interesse, si riespande la possibilità di impugnare successivamente?
Appare evidente che la seconda è la conclusione equa.
Tra l’altro, questo problema la nuova disciplina lo determina sempre… se anche non sussiste l’onere di avanzare la impugnativa facoltativa ma essa viene proposta, cosa succede se viene meno l’interesse? Viene meno il diritto alla decisione. Ma non è più consentito impugnare, né facoltativamente, né insieme agli atti successivi?
La soluzione non può essere questa.
Ma, allora e addirittura, la regola nata per diminuire i processi li raddoppierebbe!
6. In realtà, a risolvere la questione dovrebbe bastare la logica giuridica.
La logica giuridica ci dice che questo intervento normativo intende limitare le impugnazioni anticipate: affermare che ora si tratterebbe delle uniche forme di impugnazione consentite non è affatto implicato nell'obiettivo di limitare le impugnazioni anticipate, ma è una cosa completamente diversa. Il legislatore ha limitato le impugnazioni facoltative, non ha abolito le impugnazioni facoltative.
Tra l'altro, se fossero abolite, per coerenza sistematica dovrebbe essere non più possibile avanzare nessuna impugnazione facoltativa, quindi neppure avverso gli avvisi bonari e simili.
Nuovamente, si tratta di una deriva concettuale scivolosa e contraddittoria rispetto alle finalità, atteso che, tra l’altro, incentiverebbe il contenzioso: nel dubbio indurrebbe a impugnare qualsiasi atto, anche la comunicazione più informale, nel timore di incorrere in (inesistenti) decadenze.
7. Il secondo problema è se ci sia un termine di decadenza per l'impugnazione.
Ovviamente sì, cioè esso deve sussistere, se la si ritiene oggetto di onere, è invece incerto se la si ritenga facoltativa.
Per vero, in questo secondo caso potrebbero non sussistere ragioni sistematiche per ritenere, in radice, che il termine vi debba essere.
E comunque il problema, forse, non dovrebbe essere drammatizzato.
Il termine perentorio serve a dare certezza, ma l'esigenza di certezza scatta se dall'altro lato vi è un provvedimento idoneo a diventare definitivo. Esiste una simmetria: l'ente procedente ha fatto tutto quello che serve per rendere la pretesa definitiva e il contribuente può contestarla, ma entro un termine di decadenza, oltre il quale il provvedimento è definitivamente consolidato.
Quando, in ipotesi, l'atto non sia notificato, o meglio si contesti che non sia stato notificato, pare mancare il presupposto per la necessità della decorrenza di un termine di decadenza.
Non solo, anche ammettendo che il termine vi sia, verrebbe da domandarsi: se non interviene impugnazione ma poi viene ottenuto un altro estratto di ruolo, quale è la ragione per cui non dovrebbe aprirsi la finestra per impugnare, se la prima impugnazione, facoltativa, non è avvenuta?
L’obiezione è: con la conoscenza si deve consumare la facoltà di impugnazione anticipata.
Ma si potrebbe anche ragionare diversamente, senza perdere di alcuna coerenza sistematica: il fine da realizzare è evitare impugnazioni pretestuose e che si sprechi risorsa giurisdizionale, cioè si instaurino cause pretestuose o si moltiplichi la tutela. È allora facile osservare che, fino a quando non c’è stata impugnazione, non c’è, per definizione, stata alcuna impugnazione pretestuosa o una doppia tutela.
Insomma, escludere un termine pare soluzione a) coerente con la giurisprudenza delle Sezioni Unite e b) coerente con la ratio di sistema.
Non solo, la previsione di un termine riporta alle aporìe di cui sopra. Da quando decorre il termine? Dall'estratto di ruolo? Ma potrebbe non sussistere l’interesse! Dal sorgere dell'interesse? Ma non è elemento semplice da accertare, specie ai fini della decorrenza di un termine (che dovrebbe essere una questione di pronta soluzione).
Pare che non dovrebbero essere confuse le istanze di una pubblica amministrazione non perfettamente efficiente (che porta a mal sopportare le richieste di accesso agli atti e, quindi, a trovare meccanismi per scoraggiarle) con le finalità di giustizia, che coincidono con lo scoraggiare (non la conoscenza degli atti ma) l'impugnazione pretestuosa o duplicazioni di tutela, perché la giustizia è una risorsa scarsa che va usata con raziocinio.
8. Il terzo problema da risolvere è, poi, quello dell'efficacia nel tempo della nuova disciplina.
La finalità della norma non è risolutiva: essa è deflazionare il processo tributario, ma indubbiamente deflaziona il processo tributario anche ritenere che la restrizione si applichi solo per il futuro. Deflaziona di meno, ma deflaziona.
È quindi necessario ricorrere ad altri argomenti: l'oggetto della disciplina e la sua natura.
Quanto all'oggetto va detto quanto segue.
Se la norma disciplinasse l'atto impugnabile, essa varrebbe solo per il futuro, idem se disciplinasse il ricorso, il suo contenuto, la sua presentazione. Taluno opina che siano disciplinati gli effetti del ricorso e gli effetti del ricorso non potrebbero cambiare dopo che il ricorso è stato presentato, quindi la disciplina non potrebbe applicarsi ai processi già instaurati. Per vero, ciò appare dubbio. In effetti, la disciplina sembra regolare il diritto di avere una decisione. Esso presuppone il ricorso, ma non è affatto detto che sia garantito per il solo fatto di presentare ricorso e dalla situazione di fatto e di diritto a quel momento esistente (basti pensare alla cessazione della materia del contendere).
Se la nuova disciplina concernesse la decisione, si applicherebbe, invece, sicuramente anche i procedimenti in corso.
Se invece riguardasse un atto processuale, essa si applicherebbe agli atti processuali ancora da compiere.
Non pare che la nuova disciplina disciplini alcunché di tutto ciò: non il ricorso, non la presentazione, non la decisione, non atti processuali.
Neppure i motivi, come pure autorevolmente sostenuto, atteso che i motivi sono le ragioni di illegittimità e infondatezza dell’atto impugnato, mentre qui si tratta del perché si impugna in un senso diverso da quale difetto si fa valere: per evitare quale lesione. Altrimenti, sarebbe un motivo (di impugnazione di una sentenza) anche la soccombenza, quando è evidente che potrebbe essere sbagliata una sentenza che mi dà ragione (e quindi esserci motivi, ma non l’interesse) ovvero esserci l’interesse (perché soccombenti) ma la sentenza essere perfetta (e quindi mancare lo spazio per motivi fondati).
Appare chiaro che si tratta di una disciplina dell’interesse ad agire.
Per altro verso, il problema sarebbe meno complesso se l'oggetto della disciplina fossero non atti, ma la interpretazione delle norme e la sua natura fosse interpretativa. Se infatti la norma fosse interpretativa essa si applicherebbe anche ai fatti precedenti e il problema si ridurrebbe a verificare se si tratti di una interpretazione costituzionalmente legittima, in quanto non sorprendente. La disposizione, però, non si presenta come interpretativa, ma appare palesemente innovativa, in quanto volta a modificare l’assetto del diritto vigente.
Se, allora, essa è una nuova disciplina dell'interesse ad agire, poiché l'interesse ad agire è una condizione dell'azione che deve sussistere fino al momento della decisione, essa è suscettibile di applicazione anche ai processi in corso: se è una regola di economia della risorsa giurisdizionale, essa si dovrebbe applicare processi in corso: consente di non disperdere energie processuali, decisionali, motivazionali per fattispecie non valutate più come meritevoli.
9. Tanto premesso, però, ci sono almeno due ulteriori considerazioni da fare.
La prima si appunta sul fatto che va valutato se sia differente l’ipotesi in cui sia iniziato un processo utile perché sussisteva l'interesse, che poi diventi inutile perché l’interesse viene meno (in questo caso è pacifico che non ci sono ostacoli concettuali a fermare il processo), rispetto alla ipotesi in cui, senza che cambi la situazione di fatto che rappresenta l'interesse, cambi la regola sulla soglia di interesse da ritenere meritevole. Per ricorrere nuovamente a una metafora banale, si tratta dell’equivalente, per esempio, a una modifica in itinere delle regole per la partecipazione a una gara olimpica. Si ipotizzi che in origine, per qualificarsi alla gara di salto in alto, fosse richiesto un salto di 2 m, e poi sia elevato a 2,20 m. La questione equivale a domandarsi se chi fosse qualificato e sia sul punto di partecipare alla gara possa esserne escluso. A rigore, se si tratta di disciplinare l’uso proporzionato della risorsa, la regola può cambiare anche durante l'uso della risorsa e fino a che non è esaurito. L’applicazione della nuova regola fa comunque risparmiare risorse. Nel processo risparmia, quantomeno, motivazione.
Secondo una diversa impostazione, che venga meno l'interesse ad agire in fatto sarebbe una cosa: il processo è diventato inutile, mentre, se cambia la valutazione dell'interesse ad agire, sussisterebbe una limitazione del diritto di azione, che non potrebbe colpire i processi in corso. Non sarebbe una variazione dell'interesse ad agire ma una limitazione del diritto di azione: chi assume questa posizione assume che l'interesse continui ad esserci ma, da un certo punto in poi, non gli corrisponderebbe più la possibilità di agire.
La questione diviene sottile e dubbia: un tale tipo di norma fa venir meno l’interesse o limita le possibilità di tutelare l’interesse? A questa seconda tesi può, in effetti, obiettarsi che l'interesse ad agire è sempre una nozione e fattispecie giuridica: ha una componente fattuale e una componente di qualificazione. Non è un fatto mero, quindi, perché sussiste interesse ad agire solo se l'ordinamento lo riconosce: quindi, se viene meno perché viene valutato diversamente, viene comunque meno la fattispecie rilevante. Per la diversa opinione, invece, modificare la soglia rilevante, in assenza di mutamenti dello stato di fatto, sarebbe operazione sul diritto di azione, che non potrebbe restringersi a processo in corso.
Incidentalmente, può rilevarsi che è abbastanza anomalo che sia legislatore a operare questa valutazione, atteso che di norma essa è affidata al saggio apprezzamento del giudice.
10. Giunti fin qui, la questione resta molto sottile e aperta.
Forse, tuttavia, i criteri fin qui individuati non sono decisivi o potrebbero risultare assorbiti da ulteriori considerazioni.
In effetti, si tratta di un intervento normativo che, non solo non è né dichiaratamente né sostanzialmente interpretativo, ma è – addirittura – una radicale inversione rispetto alla giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione. Non vi era un ragionevole dubbio interpretativo e si tratta di un radicale sovvertimento delle regole della partita. Si potrebbe pertanto ipotizzare che la partita deve avere delle regole stabilite fino, che le regole del gioco non possano cambiare a partita in corso. Per ricorrere all’ennesima metafora, questa fattispecie pare equivalere a quella in cui, dopo un incontro di calcio finito uno a zero, le squadre siano informate del fatto che per ottenere la vittoria è necessario uno scarto di due reti. Non si tratta di una situazione equivalente a una revisione al VAR delle immagini, per affermare che il goal era in fuorigioco, oppure che un tiro dell'avversario aveva superato la linea di porta e, quindi, in realtà la partita è finita in pareggio. In tali ultimi casi non cambiano le regole, mentre nel primo, e nel caso della riforma dell’interesse, esse cambiano. Esse cambiano in modo del tutto sorprendente e irrimediabile.
E ciò non basta, c’è anche un terzo fattore, cioè ragionevolezza e proporzionalità. Non solo si tratta di una modifica sorprendente, ma di una modifica di dubbia razionalità, sotto molteplici profili. Innanzitutto, rispetto alle premesse sistematiche e logiche.
La dichiarata ratio dell’intervento riformatore è l’eccesso di impugnazioni pretestuose e riferite a crediti antichi, prescritti, insuscettibili di esecuzione.
È fin troppo facile rilevare due cose.
La prima è che, se il problema sono le impugnazioni pretestuose, la soluzione è scoraggiarle o contrastarle, non limitare le possibilità di tutela di chi non abusa della risorsa giurisdizionale. Gli strumenti esistono (una condanna alle spese, eventualmente per lite temeraria) o sono facilmente realizzabili. Ad esempio, perché non ritenere onerato chi eccepisce un vizio di notifica dal compito di fare un accesso agli atti per ottenere informazioni sulle notifiche intervenute? Se gli viene fornita copia di una notifica valida la lite può essere temeraria, in caso di evidenza. Se non ottiene alcuna informazione non può essere ritenuta pretestuosa la lite. Se no, la riforma apparirebbe tragicamente equivalente a stabilire, rilevato che i pronto soccorso sono affollati di persone che si fingono invalide per non lavorare, che al pronto soccorso si possano presentare soltanto le persone colpite da infarto ma non le vittime degli incidenti stradali. L’abnormità della scelta è manifesta.
La seconda evidente illogicità è che l'altra giustificazione sistematica della novella legislativa riposa sul fatto che i ruoli, non essendo aggiornati, recano molti titoli prescritti e insuscettibili di esecuzione, di tal che l’impugnazione per difetto di notifica dell’atto impositivo sarebbe sostanzialmente inutile. Ora, a tacere del fatto che la permanenza di un debito inesistente nel ruolo è in se un elemento lesivo degli interessi del debitore, per il quale, tra l’altro, risulta tutt’ora difficile trovare un rimedio e una giurisdizione, sta il fatto che l’intervento normativo difetta ancora una volta macroscopicamente di proporzionalità. Se la causa è il mancato aggiornamento dei ruoli ciò si corregge obbligando alla tenuta in ordine dei medesimi, non limitando le possibilità di azione di coloro che (anche del disordine dei ruoli) sono vittime. È sufficiente por mente al fatto che iscritti a ruolo non sono soltanto evasori e delinquenti ma anche - non importa quanti - contribuenti onesti che non hanno ricevuto la valida notifica di un provvedimento errato (o comunque non sono più debitori). Ebbene, non pare assolutamente né proporzionato né equo far attendere a costoro un eventuale pignoramento (o continuare a subire gli effetti di una iscrizione non più corrispondente a un titolo esistente) solo perché altri impugnano pretestuosamente (o perché gli enti non aggiornano periodicamente i ruoli).
In definitiva, la novella legislativa difetta gravemente di logica sistematica e di proporzionalità, tanto da essere di assai dubbia costituzionalità, per cui la più robusta ragione per risolvere il problema del l'efficacia intertemporale è che si tratta di limitare la applicazione di una normativa che, già solo per questi motivi, oltre che per quelli relativi alla irragionevole selezione degli interessi che attribuiscono il diritto alla tutela, appare contraria alla Costituzione.
La Grande Sezione della Corte di giustizia elabora (finalmente) un test unico per il ne bis in idem[1]
di Marco Cappai e Giuseppe Colangelo
Sommario: Premessa - 1. L’acquis Schengen - 2. Lo statuto speciale del diritto antitrust e la (prima) occasione persa per giungere a un’unificazione del test sull’idem - 3. Ne bis in idem 2.0: l’arresto A & B c. Norvegia e la giurisprudenza Menci - 4. La (seconda) occasione persa dal diritto antitrust per giungere a un’unificazione del test sull’idem - 5. I rinvii pregiudiziali bPost e Nordzucker - 6. Le pronunce della Grande Sezione: l’unificazione del test sull’idem - Conclusioni.
Premessa
Il divieto di bis in idem (o double jeopardy) di diritto europeo – introdotto dall’art. 54 della Convenzione di Schengen (CAAS)[2] con l’intento di creare un’area di libertà, sicurezza e giustizia[3] – è oggi codificato all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFEU), che, con il Trattato di Lisbona, assume portata vincolante per l’Unione e per gli Stati membri[4]. Il campo di applicazione territoriale della garanzia è più ampio rispetto alla protezione accordata dall’art. 4, Protocollo 7 Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), caratterizzata da una portata interna allo Stato firmatario. Mentre la Convenzione richiede che la violazione si radichi all’interno della medesima giurisdizione (nel senso che i due procedimenti giudiziari e/o amministrativi devono essere avviati, avverso lo stesso soggetto, dallo stesso Stato), il ne bis in idem europeo vincola le istituzioni e gli organi euro-unitari, unitamente agli Stati membri e le relative articolazioni, nella misura in cui questi diano attuazione, anche in diversi territori, al diritto dell’Unione[5].
Secondo la dottrina internazionalista, l’esperienza europea costituisce il primo caso di applicazione transnazionale del principio in parola.
I diritti codificati nella Carta devono essere interpretati in modo conforme ai corrispondenti diritti enucleati dalla Convenzione[6].
Uno dei contributi maggiori forniti dalla la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) alla costruzione del ne bis in idem europeo è quello dell’estensione della garanzia penalistica in parola anche alle sanzioni amministrative di natura “sostanzialmente penale”[7], tra le quali sono pacificamente annoverabili, ad esempio, le ammende antitrust[8].
1. L’acquis Schengen
Nonostante la dichiarata convergenza d’intenti e di scopo, il dialogo tra la Corte di giustizia (CGUE) e la Corte EDU si è sovente caratterizzato per un approccio autonomo del Giudice di Lussemburgo (c.d. Charter-centrism).
In tale contesto, tradendo in qualche modo il ruolo di institutional empowerment che tipicamente le appartiene in sede pregiudiziale, la Corte ha graduato l’intensità della garanzia di ne bis in idem in funzione della policy area volta per volta interessata, dando a lungo vita a un mosaico frammentario di tutele, non esente da critiche. Da un lato, nella materia penale in senso classico[9] la CGUE ha applicato l’art. 54 CAAS accogliendo una nozione materialistica del concetto di idem, da intendersi quale idem factum. Essa ha in particolare statuito che “l’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione dell’art. 54 della CAAS è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro”[10]. Nel corso degli anni, in forza dell’art. 50 CDFUE tale approccio è stato esteso – si dirà – anche alle sanzioni amministrative di carattere punitivo irrogate, ad esempio, a seguito della violazione di oneri dichiarativi in materia di imposta a valore aggiunto o di inosservanza degli obblighi di trasparenza vigenti nei mercati finanziari.
2. Lo statuto speciale del diritto antitrust e la (prima) occasione persa per giungere a un’unificazione del test sull’idem
Dall’altro lato, in materia antitrust si è affermato un orientamento più stringente, che declinava la nozione di idem secondo il criterio dell’idem crimen. Segnatamente, si è a lungo affermato che l’applicazione del principio del ne bis in idem in ambito concorrenziale “è soggetta ad una triplice condizione di identità dei fatti, di unità del contravventore e di unità dell’interesse giuridico tutelato. Tale principio vieta quindi di sanzionare lo stesso soggetto più di una volta per un medesimo comportamento illecito, al fine di tutelare lo stesso bene giuridico”[11]. In tale contesto, si riteneva che il diritto europeo e nazionale della concorrenza proteggessero differenti interessi giuridici. Si tratta di una lettura che può apparire a prima vista singolare, dato che in tale area l’Unione ha sempre detenuto, sin dal Trattato di Roma, una competenza esclusiva per la tutela della concorrenza[12] e considerato che, proprio con riferimento a questa materia, la Corte ha riconosciuto il principio del ne bis in idem per la prima volta (ancorché in una versione depotenziata)[13], persino prima della ratifica della Convenzione di Schengen.
In realtà, nella fase embrionale del processo d’integrazione europea vi erano ragioni che potevano supportare, almeno in parte, un simile approccio bipartito: nell’area Schengen, l’esigenza di creare un’area di libertà, sicurezza e giustiziaimponeva agli Stati contraenti di riporre mutua fiducia nei rispettivi sistemi di giustizia penale[14] e al contempo induceva a promuovere la libertà di circolazione degli individui[15]; nella seconda policy area, la mera preordinazione del diritto europeo della concorrenza “primitivo” a eliminare gli ostacoli alla creazione di un mercato interno[16]lasciava agli ordinamenti nazionali la facoltà di dettare discipline più severe (paradigmatico il caso tedesco).
Nel corso del tempo, però, sono venute a modificarsi alcune importanti condizioni di contesto. All’indomani della modernizzazione del diritto della concorrenza[17] i sistemi nazionali di antitrust enforcement sono stati fortemente ravvicinati e armonizzati, a livello sia sostanziale che procedurale, con la creazione dell’European Competition Network (ECN). Ma soprattutto, nel 2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, che – come anticipato – attribuisce valore vincolante alla Carta.
Pur essendo maturi i tempi per un revirement, la Corte di giustizia ha confermato il proprio orientamento sul ne bis in idem anche nello scenario così ridisegnato. Tanto sul rilievo che il Regolamento 1/2003, avendo optato per l’applicazione parallela e contestuale degli artt. 101 e 102 TFUE e del pertinente diritto naturale – purché il secondo non pregiudichi l’effet utile del primo – avrebbe consentito di mantenere in vita la tesi della duplicità di interessi giuridici protetti (c.d. doppia barriera)[18].
3. Ne bis in idem 2.0: l’arresto A & B c. Norvegia e la giurisprudenza Menci
Il camouflaged overruling della Corte EDU nel caso A & B v. Norvegia ha riacceso il dibattito[19]. Discostandosi da quanto statuito nel caso Grande Stevens c. Italia[20], in tale sede la Grande Camera di Strasburgo ha aperto le porte al doppio binario sanzionatorio (nella specie, penale e amministrativo) per lo stesso fatto avverso il medesimo soggetto. Come noto, pur mantenendo una nozione materialistica di idem – centrata, dopo alcune incertezze iniziali[21], sul concetto di “identical facts or facts which are substantially the same”[22] – nel leading case del 2016 la Corte di Strasburgo ha allentato quella di bis, ammettendo doppi binari sanzionatori, purché idonei ad assicurare una sufficientemente stretta connessione, nella sostanza e nel tempo, tra i due piani di intervento repressivo[23].
Alla base del revirement troviamo una forte azione di pressione degli Stati firmatari, desiderosi di riappropriarsi del proprio ius puniendi, prerogativa tipica della sovranità.
Il controcanto della Corte di giustizia al “nuovo corso” del ne bis in idem ha seguito una traiettoria teorica diversa, ma, per le medesime pressioni di cui sopra, è giunto ad approdi sostanzialmente similari negli effetti[24].
In primo luogo, la Corte ha chiarito che l’avvio o la prosecuzione di un procedimento (amministrativo o penale) dopo che sia intervenuta una decisione definitiva per lo stesso fatto avverso il medesimo soggetto costituisce sempre, in linea di principio, una violazione del divieto di bis in idem. In ciò la posizione di Lussemburgo si differenzia da quella di Strasburgo, che – data anche l’impossibilità di derogare ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione[25] –interviene a monte del problema, escludendo l’integrazione della condizione del bis in presenza di alcuni presupposti (come visto, “close connection in substance and time” dei due procedimenti amministrativi o giudiziari).
In secondo luogo, la CGUE ha chiarito che, al ricorrere di determinate condizioni, la Carta può tollerare delle compressioni (purché prevedibili, ragionevoli e proporzionate) dei diritti riconosciuti. Il viatico argomentativo passa per la limitation of rights clause, in virtù della quale “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”[26]. Su tali basi, la CGUE ha statuito che il ne bis in idem europeo non è di per sé ostativo a un doppio binario, alla triplice condizione che: i) ciò sia previsto dalla legge ed essa persegua obiettivi di interesse generale che giustificano la duplicazione procedimentale/sanzionatoria; ii) la legge assicuri meccanismi di coordinamento tali da ridurre entro quanto strettamente necessario lo “svantaggio marginale” di un procedimento/sanzione aggiuntivo; iii) la legge preveda meccanismi tali da assicurare che il trattamento sanzionatorio complessivo sia comunque proporzionato alla gravità dell’offesa.
4. La (seconda) occasione persa dal diritto antitrust per giungere a un’unificazione del test sull’idem
L’apertura di una simile clausola di flessibilità avrebbe potuto favorire un intervento, legislativo e/o giurisprudenziale, teso a superare l’(oramai ingiustificato) approccio differenziato al ne bis in idem in materia antitrust. E infatti, in forza della giurisprudenza Menci non vi era più necessità di negare, in radice, un problema di bis in idem a fronte di duplici repressioni del diritto antitrust, in quanto l’avvio di procedimenti paralleli sulla medesima infrazione anticoncorrenziale avrebbe potuto aver luogo, nel rinnovato contesto, in presenza di adeguati meccanismi, previsti per legge, di raccordo verticale (tra Commissione europea e autorità della concorrenza nazionali) o orizzontale (tra autorità nazionali).
Tuttavia, così non è stato.
Nel potenziare i poteri delle autorità nazionali competenti (ANC) e il livello di integrazione amministrativa tra le stesse e la Commissione europea, la Direttiva ECN+[27] non ha introdotto meccanismi di case allocation, lasciando dunque che la divisione del lavoro tra enforcer continuasse a esser regolata dagli esistenti strumenti di soft law[28]. Tuttavia, questi ultimi non impegnano le Amministrazioni nei confronti del cittadino, come recentemente confermato dall’ordinanza resa dal Tribunale UE sul caso Amazon buy-box[29]. Dal suo canto, nel caso Slovak Telekom la Corte di giustizia ha ribadito, ancora una volta, il test tripartito sull’idem (identità di persona, condotta e interesse), confermando dunque la rilevanza, in materia antitrust, del criterio dell’interesse giuridico protetto[30].
È interessante notare che sia Aalborg Portland[31] che Toshiba[32] e Slovak[33], pur avendo elaborato il test tripartito, in concreto non lo hanno dovuto applicare, in quanto le vicende conosciute concernevano sempre fatti che, secondo la stessa Corte, erano similari ma non identici, sicché la prima sotto-condizione (“identità dei fatti”) non poteva dirsi soddisfatta.
5. I rinvii pregiudiziali bPost e Nordzucker
Con una coppia di rinvii pregiudiziali la questione è stata sottoposta all’attenzione della Grande Sezione.
Nel primo caso (bpost) l’autorità postale belga ha irrogato una sanzione contro l’impresa incaricata del pubblico servizio. Tale decisione è stata in seguito annullata con sentenza definitiva. La medesima condotta veniva quindi sanzionata anche dall’autorità antitrust del medesimo Stato (che tuttavia teneva conto dell’intervento del Regolatore ai fini della quantificazione dell’ammenda). Si tratta di un caso di estrema attualità perché, a differenza dei precedenti, concerne l’overlap tra antitrust e regolazione, fattispecie certo non di scuola e destinata anzi a verificarsi sempre più frequentemente con l’approvazione del Digital Markets Act[34], che persegue finalità pro-concorrenziali chiaramente sovrapponibili alla normativa, europea e nazionale, antitrust[35].
Il secondo caso concerne un’intesa restrittiva della concorrenza indagata, a seguito di domanda di clemenza, sia dall’autorità nazionale austriaca che da quella tedesca, in entrambi i casi per violazione dell’art. 101 TFUE in combinazione con le norme nazionali di riferimento.
Sull’assunto che, ad oggi, non sussistono valide ragioni per graduare l’intensità della garanzia fondamentale del ne bis in idem a seconda della policy area interessata, nelle sue conclusioni l’A.G. Bobek ha proposto di adottare un testunificato, assumendo come modello il test tripartito elaborato in materia antitrust, che, superando definitivamente la giurisprudenza Menci, sarebbe dunque dovuto diventare il parametro interpretativo esclusivo dell’art. 50 CDFUE[36].
Condividendo l’assunto di partenza dell’Avvocato generale, chi scrive ne ha tratto conclusioni opposte, proponendo di elevare la giurisprudenza Menci a test unico per il ne bis in idem, e accantonando, invece, la versione alternativa sviluppatasi in materia antitrust[37]. Ciò sul duplice presupposto che la soluzione tratteggiata dalla Grande Sezione nelle tre decisioni gemelle del 2018 apparisse più rigorosa (in quanto non nega, a priori, l’esistenza di un’ipotesi di double jeopardy) e che un simile revirement non avrebbe necessariamente pregiudicato l’effettività del diritto europeo (giacché procedimenti paralleli sarebbero stati comunque ammessi, qualora il Legislatore, europeo e nazionale, fosse riuscito a soddisfare le condizioni per azionare la limitation of rights clause).
6. Le pronunce della Grande Sezione: l’unificazione del test sull’idem
Con le sentenze in commento, la Grande Sezione ha seguito questa seconda strada.
In via preliminare, la CGUE è finalmente giunta ad ammettere che “la portata della tutela conferita [dall’art. 50 CDFUE] non può, salvo disposizione contraria del diritto dell’Unione, variare da un settore di quest’ultimo a un altro”. Una volta compiuta questa fondamentale operazione di reductio ad unum, la Corte non ha avuto motivo di abbandonare il criterio “dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro che hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato”, che, di qui in avanti, dovrà dunque trovare applicazione anche nei casi in cui viene in rilievo il diritto della concorrenza (da solo o in combinazione con la regolazione di settore)[38].
Coerentemente con la giurisprudenza Menci, la Corte ha tuttavia ricordato che la regola può conoscere eccezioni, se sono rispettati i presupposti fissati dall’articolo 52(1) CDFUE. In forza di tale previsione, eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta devono: i) essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà; ii) essere necessarie e rispondere effettivamente a “finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione” (o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui); iii) rispettare il principio di proporzionalità[39].
Conclusioni
L’arresto della Grande Sezione ha l’indubbio merito di sgomberare il campo dall’equivoco teorico che ha a lungo investito la nozione di idem, declinata per circa due decadi in modo differente a seconda dell’area del diritto europeo interessata (idem crimen, nel diritto della concorrenza; idem factum, in tutti gli altri settori). Si auspica che questa (lungamente attesa) opera di razionalizzazione possa favorire l’emersione di un acquis giurisprudenziale maggiormente coerente e completo. Grazie a queste pronunce, infatti, le esperienze maturate ciascun settore del diritto europeo potranno contribuire allo sviluppo di una matrice condivisa del principio di ne bis in idem.
Sbaglierebbe, tuttavia, l’interprete a pensare che bPost e Nordzucker risolvano ogni problema. Una serie di questioni restano, infatti, aperte.
In primo luogo, l’esperienza pratica insegna che, a fronte di condotte anticoncorrenziali con oggetto o effetto transnazionale, la condizione dell’identità del fatto materiale non è stata sin qui mai ritenuta soddisfatta dalla Corte di giustizia. E le decisioni in commento ne spiegano perfettamente la ragione: “il principio del ne bis in idem non trova applicazione quando i fatti di cui trattasi non sono identici, bensì soltanto analoghi”[40].
In secondo luogo, in questo stadio ancora acerbo dell’elaborazione giurisprudenziale sui criteri Menci le condizioni che permettono di azionare la limitation of rights clause appaiono declinate, nel concreto, in modo piuttosto (e, forse, eccessivamente) blando e generico.
E infatti, dopo aver depurato il test sull’identità del fatto del criterio dell’interesse giuridico protetto, la Corte lo ha recuperato per valutare una delle condizioni di esenzione, ossia quella della rispondenza del secondo procedimento o della seconda sanzione a “un obiettivo di interesse generale”. Ebbene, secondo la Grande Sezione sussiste un obiettivo di interesse generale quando “le due normative di cui trattasi […] perseguono obiettivi legittimi distinti”[41]. Ad esempio, in bPost il primo intervento repressivo era funzionale ad accompagnare il graduale processo di liberalizzazione del settore postale, mentre il secondo era preordinato a tutelare le dinamiche competitive, sicché, secondo la Corte (che lascia tuttavia al giudice del rinvio ogni valutazione in merito), in un caso come quello in esame il requisito dell’obiettivo di interesse generale risulterebbe soddisfatto[42]. Analogo ragionamento viene svolto in punto di proporzionalità: la duplicazione degli interventi in tanto è proporzionata, in quanto questi perseguano “obiettivi di interesse generale distinti”, sì da porsi in rapporto di complementarietà[43]. Tale linea di ragionamento rischia di riportare l’interprete al punto di partenza, in quanto – ammoniva anche l’A.G. Bobek[44] – un legislatore ben potrebbe affermare di voler salvaguardare interessi giuridici diversi da quelli in concreto protetti, laddove questi ultimi già ricevano protezione in altri corpi normativi. Il caso del Digital Markets Act e del diritto europeo e nazionale della concorrenza ci pare, al riguardo, piuttosto illustrativo: ancorché tra le finalità del DMA vi sia, al pari del diritto antitrust, quella di garantire mercati digitali contendibili, l’art. 1(6) del regolamento lascia impregiudicata l’applicazione degli articoli 101 e 102 TFUE, nonché delle norme antitrust nazionali, sul presupposto che non sussista identità di scopo tra tali plessi disciplinari. Va però detto, al riguardo, che l’approccio seguito dalla Corte nel caso Nordzucker sembra denotare la crescente volontà di cogliere l’essenza dei fenomeni giuridici analizzati, andando oltre le etichette utilizzate dai legislatori[45].
Per altro profilo, nel guidare il giudice del rinvio nella verifica del requisito della “necessarietà” della duplicazione procedimentale/sanzionatoria, la Corte ha richiamato il criterio della sufficiente connessione sostanziale e temporale elaborato dalla Corte di Strasburgo in A & B c. Norvegia. In tale contesto, essa ha precisato che la mera “esistenza di una disposizione di diritto nazionale [o europeo] che preved[a …] la cooperazione e lo scambio di informazioni tra le autorità interessate [potrebbe costituire] un quadro pertinente per assicurare il coordinamento”[46]. Si tratta di un requisito non particolarmente difficile da integrare: ad esempio – per rimanere sul medesimo esempio – il Digital Markets Act prevede meccanismi di dialogo che, in astratto, paiono in linea con tale criterio. Donde l’esigenza, imprescindibile, di compiere una verifica ex post circa l’effettività del suddetto coordinamento, che non dovrà esser solo previsto sulla carta, ma anche garantito in concreto[47].
Alla luce di quanto precede, è dunque agevole riscontrare che l’effettiva salvaguardia del diritto di ne bis in idem passa per la il modo in cui la Corte e i giudici nazionali daranno esplicitazione ai singoli aspetti scriminanti che condizionano l’applicabilità della limitation of rights clause. Esiste insomma il rischio che, a fronte di atteggiamenti eccessivamente laschi, l’eccezione al diritto di ne bis in idem divenga regola, di modo da vanificare, a livello pratico, l’apprezzabile sforzo teorico compiuto dalla Grande Sezione.
Ma questo è un problema successivo. Intanto, è fuor di dubbio che la rotta sia stata corretta.
[1] Il contributo è frutto della riflessione congiunta degli autori. Tuttavia, la Premessa e i §§ 1-4 sono specificamente riferibili a Marco Cappai; i §§ 5-6 a Giuseppe Colangelo; le Conclusioni a entrambi.
[2] La Convenzione è nata nel perimetro del Terzo Pilastro (titolo VI del Trattato sull’Unione europea, relativo alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), caratterizzato da un approccio intergovernativo, ed è stata successivamente “comunitarizzata” con il Protocollo (n. 2) al Trattato di Amsterdam sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea.
[3] Correnti artt. 3(2) TUE e 67 TFUE.
[4] art. 6(1) TUE.
[5] Art. 51 CDFUE.
[6] Artt. 52(3) CDFUE e 6(1) TUE.
[7] Corte EDU, Grande Camera, 23 novembre 1976, Engel c. Paesi Bassi, ric. nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72, 5370/72, §§ 82-83. I criteri Engel sono stati direttamente applicati dal Giudice di Lussemburgo per la prima volta in CGEU, Grande Sezione, 5 giugno 2012, Lukasz Marcin Bonda, C-489/10, §§ 37 ss.
[8] Corte EDU, 3 dicembre 2002, Lilly v. France (dec.), ric. n. 53892/00; A. Menarini Diagnostics S.R.L. c. Italia, ric. n. 43509/08, 27 settembre 2011; 23 ottobre 2018, Produkcija Plus Storitveno podjetje d.o.o. c. Slovenia, ric. n. 47072/15.
[9] Secondo la presa di posizione dell’A.G. del 2 maggio 2014 sul caso C‑129/14 PPU, Zoran Spasic, § 41 e nt. 30, si intende per “«classico» il diritto penale repressivo, il quale esprime una severa condanna sociale o morale dell’atto in questione ed è qualificato come tale dal diritto applicabile”.
[10] CGUE, Sez. II, 9 marzo 2006, Van Esbroek, C-436/04, § 36. Nel caso di specie, l’interessato era stato condannato in Norvegia il 2 ottobre 2000 per importazione illegale di sostanze vietate e, in Belgio, il 19 marzo 2003 per esportazione illegale dei medesimi prodotti.
[11] CGUE, Sez. V, 7 gennaio 2004, Aalborg Portland, C-204/00 P e a., § 338.
[12] Oggi, art. 3(1)(b) TFUE.
[13] Muovendo da esigenze di “natural justice”, si richiedeva alle autorità che sanzionassero o perseguissero, nei confronti del medesimo soggetto, la stessa condotta, la prima volta in forza del diritto europeo e la seconda in base al diritto nazionale (o viceversa), di giungere a un trattamento sanzionatorio complessivamente proporzionato (c.d. accounting principle): cfr. CGUE, 14 dicembre 1972, C-7/72, Boehringer.
[14] CGUE, 11 febbraio 2003, C‑187/01 e C‑385/01, Gözütok e Brügge, § 33.
[15] CGUE, Sez. V, 10 marzo 2005, C‑469/03, Miraglia, § 32.
[16] Attuali artt. 3(3) TUE e 26 TFUE.
[17] Reg. (CE) n. 1/2003.
[18] CGUE, Grande Sezione, 14 febbraio 2012, C-17/10, Toshiba, §§ 81-83 e 97.
[19] Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, ricc. nn. 24130/11 e 29758/11.
[20] Corte EDU, Sez. II, 4 marzo 2014, ricc. nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10.
[21] Corte EDU, 30 luglio 1998, Oliveira c. Svizzera, ric. n. 25711/94, § 26 ha abbandonato la nozione di “same conducts”, inizialmente abbracciata in Gradinger c. Austria (28 settembre 1995, ric n. 15963/90, § 55), in favore di quella di “same offence”.
[22] Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia, ric. n. 14939/03, § 82.
[23] Corte EDU, GC, A. & B. cit., §§ 123-130.
[24] CGUE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, Menci, C-524/15; Garlsson, C-537/16; Di Puma - Zecca, C-596/16 e C-597/16.
[25] Art. 15(2) CEDU.
[26] Art. 52(1) CDFUE.
[27] Direttiva 2019/1/UE.
[28] Comunicazione della Commissione sulla cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza (2004/C 101/03).
[29] Tribunale UE, Sez. I, ord. n. 14 ottobre 2021, Amazon.com e al. c. Commissione, T-19/21.
[30] CGUE, Sez. VIII, 25 febbraio 2021, C-857/19, § 43.
[31] CGUE, V, C-204/00 P cit., § 340.
[32] CGUE, GS, C-17/10 cit., §§ 98-99.
[33] CGUE, VIII, C-857/19 cit., § 45.
[34] https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20220315IPR25504/deal-on-digital-markets-act-ensuring-fair-competition-and-more-choice-for-users.
[35] M. Cappai - G. Colangelo, Taming digital gatekeepers: the more regulatory approach to antitrust law, in Computer Law & Security Review, n. 41/2021, 105559.
[36] Conclusioni del 2 settembre 2021 in C‑117/20 (bPost) e in C-151/20 (Nordzucker).
[37] M. Cappai - G. Colangelo, A Unified Test for the European Ne Bis in Idem Principle: The Case Study of Digital Markets Regulation, SSRN working paper (27 ottobre 2021), https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3951088.
[38] CGUE, Grande Sezione, 22 marzo 2022, bPost, C‑117/20, §§ 33-35 e Nordzucker, C‑151/20, §§ 38-40.
[39] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 41; Nordzucker, C‑151/20 cit., § 50.
[40] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 36.
[41] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 44.
[42] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 47.
[43] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 49.
[44] Conclusioni in bPost, C‑117/20 cit., §§ 131 e 139.
[45] Sfatando la superstizione della “doppia barriera”, la Grande Sezione ha infatti ritenuto che “nell’ipotesi in cui due autorità nazionali garanti della concorrenza perseguissero e sanzionassero gli stessi fatti al fine di garantire il rispetto del divieto di intese in applicazione dell’articolo 101 TFUE e delle corrispondenti disposizioni del loro rispettivo diritto nazionale, tali due autorità perseguirebbero lo stesso obiettivo di interesse generale”, sicché un cumulo dei procedimenti e delle sanzioni non potrebbe in ogni caso essere giustificato (CGUE, GS, Nordzucker, C‑151/20 cit., §§ 56-57). Non è tuttavia detto che in futuro la Corte perverrà alla medesima conclusione a fronte di duplicazioni procedimentali/sanzionatorie per abuso di posizione dominante, in quanto, ai sensi dell’art. 3(2) Reg. (CE) n. 1/2003, con riferimento alle condotte unilaterali il diritto nazionale può andare oltre l’art. 102 TFUE, potendosene dunque differenziare in taluni aspetti. In simili circostanze, la Corte potrebbe dunque considerare che l’art. 102 TFUE e il diritto nazionale volto a colpire condotte anticoncorrenziali unilaterali, nonostante la parziale coincidenza di scopo, perseguono finalità distinte.
[46] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 55.
[47] CGUE, GS, bPost, C‑117/20 cit., § 52.
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