ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Scheda n. 16 - Le pene sostitutive di pene detentive brevi (art. 20-bis c.p., artt. 53 ss. l. 689/81 e art. 545-bis c.p.p.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Attraverso la codificazione e ridefinizione del sistema delle sanzioni sostitutive, finora disciplinato esclusivamente dalla Legge speciale n. 689/1981, il legislatore della riforma mira a favorirne l’applicazione da parte del giudice della cognizione, a fini di deflazione processuale e penitenziaria.
L’ampliamento dei limiti di applicabilità alle pene detentive fino a quattro anni di reclusione, unitamente alla ridefinizione della tipologia di sanzioni (detenzione domiciliare e semilibertà, mutuate dal novero delle misure alternative alla detenzione, lavori di pubblica utilità, introdotti in via generalizzata per tutte le tipologie di reati, e pene pecuniarie) mira ad incentivare la scelta di riti alternativi, e, in particolare, del patteggiamento, con applicazione delle pene sostitutive già in sede di cognizione. Ne dovrebbe conseguire l’alleggerimento del carico della magistratura di sorveglianza, e, sul versante penitenziario, la riduzione del sovraffollamento carcerario, evitando l’ingresso in carcere dei condannati, con incentivazione di misure volte alla risocializzazione del condannato.
ART. 20-BIS C.P. E ART. 53 L. 689/81:
TIPOLOGIE DI PENE SOSTITUTIVE DI PENE DETENTIVE BREVI
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 20-bis c.p. – Pene sostitutive delle pene detentive brevi. 1. Salvo quanto previsto da particolari disposizioni di legge, le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto sono disciplinate dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, e sono le seguenti: 1) la semilibertà sostitutiva; 2) la detenzione domiciliare sostitutiva; 3) il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; 4) la pena pecuniaria sostitutiva. 2. La semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva possono essere applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni. 3. Il lavoro di pubblica utilità sostitutivo può essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni. 4. La pena pecuniaria sostitutiva può essere applicata dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno. |
TESTO PREVIGENTE | TESTO RIFORMATO |
Art. 53 L. 689/1981 - Sostituzione di pene detentive brevi. 1. Il giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, quando ritiene di dovere determinare la durata della pena detentiva entro il limite di due anni, può sostituire tale pena con quella della semidetenzione; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla anche con la libertà controllata; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di sei mesi, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente. *** *** *** *** *** *** 2. La sostituzione della pena detentiva ha luogo secondo i criteri indicati dall'articolo 57. Per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell'ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall'articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l'articolo 133-ter del codice penale. 3. Le norme del codice di procedura penale relative al giudizio per decreto si applicano anche quando il pretore, nei procedimenti per i reati perseguibili d'ufficio, ritiene di dover infliggere la multa o l'ammenda in sostituzione di una pena detentiva. Nel decreto devono essere indicati i motivi che determinano la sostituzione. 4. Nei casi previsti dall'articolo 81 del codice penale, quando per ciascun reato è consentita la sostituzione della pena detentiva, si tiene conto dei limiti indicati nel primo comma soltanto per la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave. Quando la sostituzione della pena detentiva è ammissibile soltanto per alcuni reati, il giudice, se ritiene di doverla disporre, determina, al solo fine della sostituzione, la parte di pena per i reati per i quali opera la sostituzione. | Art. 53 L. 689/1981- Il giudice delle pene detentive brevi. 1. Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni, può sostituire tale pena con quella della semilibertà o della detenzione domiciliare; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di tre anni, può sostituirla anche con il lavoro di pubblica utilità; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente, determinata ai sensi dell’articolo 56-quater. 2. Con il decreto penale di condanna, il giudice, su richiesta dell’indagato o del condannato, può sostituire la pena detentiva determinata entro il limite di un anno, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità. Si applica l’articolo 459, commi 1-bis e 1-ter del codice di procedura penale. *** *** *** *** *** *** *** *** *** 3. Ai fini della determinazione dei limiti di pena detentiva, entro i quali possono essere applicate pene sostitutive, si tiene conto della pena aumentata ai sensi dell’articolo 81 del codice penale. *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** |
Il giudice della cognizione potrà irrogare, con sentenza di condanna o di applicazione della pena:
- la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni;
- il lavoro di pubblica utilità sostitutivo in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni;
- la pena pecuniaria sostitutiva in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno
La principale innovazione, accanto al nomen iuris (non più “sanzioni” ma “pene” sostitutive), consiste nell’estensione dei limiti di pena che ammettono la sostituzione, aumentati da due a quattro anni, con gradazione delle sanzioni applicabili in base all’entità della pena.
Inoltre sono abrogate la semidetenzione e la libertà controllata, sostituite dalla semilibertà e dalla detenzione domiciliare sostitutive, mutuate dal novero delle misure alternative alla detenzione, applicate dal giudice di sorveglianza.
I LPU sono introdotti quale sanzione sostitutiva generalizzata, non più applicabile soltanto a determinate fattispecie (quali le contravvenzioni della guida in stato di ebbrezza e in stato di alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti, 186, co. 9-bis d.lgs. n. 285/1992 e 187, co. 8-bis d.lgs. n. 285/1992, e i reati in materia di stupefacenti, art. 73, co. 5-bis d.P.R. n. 309/1990), ma per tutti i reati per i quali sia stata irrogata una pena non superiore a tre anni.
La riforma, inoltre, consente che anche il G.I.P., in sede di emissione del decreto penale di condanna, su richiesta dell’indagato o del condannato, possa sostituire la pena detentiva determinata entro il limite di un anno, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità.
Al riguardo trovano applicazione i commi 3-bis e il nuovo 3-ter dell’art. 459 c.p.p., che prevedono, rispettivamente, i criteri di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria in sede di emissione del decreto penale di condanna e la possibilità per il condannato, nei cui confronti sia stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva, di proporre istanza di sostituzione con i LPU.
Infine, la pena pecuniaria sostitutiva può essere applicata in caso di pena detentiva fino ad 1 anno (e non più sei mesi).
LA DISCIPLINA SOSTANZIALE E PROCESSUALE DELLE NUOVE PENE SOSTITUIVE:
ARTT. 53 ss. L. 689/81 e 545-bis c.p.p.
La capillarità della riforma non consente, in questa sede, un richiamo integrale alle norme della Legge 689/1981, cui si fa rinvio. Di seguito verranno, quindi, illustrati i tratti principali della disciplina sostanziale e processuale delle pene sostitutive.
1. LA DETERMINAZIONE DEI LIMITI DI PENA
L’art. 53, u.c. prevede si debba tenere conto, ai fini della determinazione dei limiti di pena detentiva, entro i quali possono essere applicate pene sostitutive, degli aumenti determinati ai sensi dell’art. 81 c.p. per concorso formale di reati e continuazione.
2. LA SEMILIBERTÀ SOSTITUTIVA E LA DETENZIONE DOMICILIARE SOSTITUTIVA
L’art. 55 disciplina la semilibertà sostitutiva. La pena è così strutturata: obbligo di permanenza di almeno otto ore in istituto di pena e, per il restante tempo, impegno del condannato in attività risocializzanti (studio, lavoro, formazione, ecc…), secondo un programma concordato con l’UEPE (cfr. sul punto l’art. 545-bis c.p.p., § 10).
L’art. 56 prevede la detenzione domiciliare sostitutiva, che comporta l’obbligo di permanenza nel luogo di privata dimora o in luogo di cura, comunità o casa famiglia, per non meno di dodici ore al giorno, tenuto conto delle esigenze familiari, di studio, formazione, lavoro e salute, con facoltà per il condannato di allontanarsi dal domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle indispensabili esigenze di vita e di salute.
La detenzione domiciliare può essere rafforzata dalla previsione di procedure di controllo con mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, qualora ritenuti dal giudice necessari per prevenire il pericolo di commissione di altri reati o per tutelare la persona offesa.
L’indisponibilità di tali mezzi, tuttavia, non può ritardare l’esecuzione della pena. Sarà necessario verificare, quindi, se i dispositivi siano immediatamente disponibili, laddove la pena sia ritenuta congrua solo con l’applicazione degli stessi.
Le pene in esame potrebbero non avere fortuna nella prassi, non risultando appetibili né in sede di patteggiamento, né all’esito del dibattimento, a seguito della pronuncia di un dispositivo di condanna a pena detentiva superiore ai tre anni ed inferiore o uguale a quattro anni, ovvero al limite previsto per la sostituzione.
Si osserva, infatti, che le pene fino a tre anni possono essere sostituite con i LPU, mentre rimane tuttora accessibile al condannato ad una pena superiore ai tre anni, ma inferiore ai quattro (sostituibile solo con semilibertà e detenzione domiciliare) la più appetibile misura alternativa dell’affidamento in prova, da richiedere al Tribunale di sorveglianza a seguito del passaggio in giudicato della sentenza.
Il successivo art. 67, inoltre, vieta l’applicazione delle misure alternative ai condannati con pene sostitutive, salvo quanto previsto dal nuovo comma 3-ter dell’art. 47 ord. pen., che prevede che con l’applicazione della semidetenzione o semilibertà sostitutive non vi sarà possibilità di chiedere l’affidamento in prova se non nei casi in cui il condannato “dopo l’espiazione di almeno metà della pena, abbia serbato un comportamento tale per cui l’affidamento in prova appaia più idoneo alla rieducazione del condannato e assicuri comunque la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 59, i reati c.d. ostativi alla concessione di misure alternative alla detenzione di cui all’art. 4-bis l. ord. pen. precludono altresì la sostituzione della pena (cfr. § 8).
3. I LAVORI DI PUBBLICA UTILITÀ
L’art. 56-bis riprende la nozione di LPU dall’art. 54, comma 2 D. Lgs. 274/2000, definendoli come una “prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”.
Riguardo al luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, si prevede che il lavoro debba essere svolto “di regola” nella regione in cui risiede il condannato.
Quanto alla durata, la prestazione deve consistere in non meno di sei e non più di quindici ore di lavoro settimanale. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore, non eccedente le otto ore giornaliere.
Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di due ore di lavoro.
Si specifica che la prestazione lavorativa non debba pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato.
In caso di risarcimento del danno o di eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, è prevista la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria.
L’articolo in esame demanda ad un decreto del Ministro della giustizia, d’intesa con la Conferenza unificata, la definizione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità.
Nelle more dell’adozione del decreto ministeriale attuativo, entrando le nuove norme immediatamente in vigore, l’art. 56-bis prevede che si dovrà fare riferimento, per quanto compatibili, ai decreti del Ministro della giustizia 26 marzo 2001 e 8 giugno 2015 n. 88, adottati, rispettivamente, per il lavoro di pubblica utilità quale pena principale irrogabile dal giudice di pace e quale contenuto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (cfr. disciplina transitoria).
Oltre alle prevedibili difficoltà, di carattere pratico, legate al reperimento dell’ente disponibile allo svolgimento dei LPU (ricerca che si rivela già oggi difficoltosa nell’ambito della predisposizione del programma di trattamento M.A.P.), una volta ottenuta tale disponibilità, si porrà altresì il problema dell’effettività della pena sostitutiva, attesa l’ineseguibilità dei lavori in pendenza di impugnazione della sentenza che li dispone e le possibili difficoltà di coordinamento con l’ente una volta terminato il giudizio di impugnazione con esito di conferma.
Al riguardo, l’art. 593 c.p.p. limita il problema della dilatazione dei tempi di esecuzione della sentenza, prevedendo la non appellabilità delle sentenze di condanna alla pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità, che sono quindi soltanto ricorribili per cassazione.
4. PRESCRIZIONI COMUNI ALLE PENE SOSTITUTIVE DELLA SEMILIBERTÀ, SEMIDETENZIONE E LPU
L’art. 56-ter prevede prescrizioni comuni, da impartire unitamente alle pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e dei LPU, quali, ad esempio, il divieto di tenere armi, di frequentare pregiudicati e persone sottoposte a misure di sicurezza, l’obbligo di dimora in un determinato territorio (di regola regionale), il ritiro del passaporto e la sospensione della validità all’espatrio di ogni altro documento equipollente, eventualmente il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
5. LA PENA PECUNIARIA SOSTITUTIVA
L’art. 56-quater detta i criteri di ragguaglio della pena pecuniaria sostitutiva, prevedendo che l’ammontare sia determinato dal giudice individuando il valore giornaliero e moltiplicandolo per i giorni di pena detentiva.
Tale valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.
Si applica la possibilità di pagamento rateale prevista dall’articolo 133-ter c.p. (da 3 a 30 rate mensili comunque non inferiori a 15 euro) salva la possibilità di estinguere la pena, in ogni momento, mediante un unico pagamento.
All’evidenza l’applicazione della pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva presuppone la disponibilità, da parte del giudice, di informazioni circa le predette “condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare”.
6. DURATA DELLE PENE SOSTITUTIVE DELLA SEMILIBERTÀ, DELLA DETENZIONE DOMICILIARE E DEI LPU
L’art. 57, in punto di durata delle pene sostitutive, prevede che:
- semilibertà e detenzione domiciliare abbiano la stessa durata della pena detentiva irrogata;
- LPU abbiano durata corrispondente a quella della pena detentiva, secondo i parametri di ragguaglio dell’art. 56-bis (che sono quelli dell’art. 54 D. Lgs. 274/2000: 1 giorno di LPU = 2 ore di lavoro, con il limite di 8 ore giornaliere e da un minimo di 6 ad un massimo di 15 ore a settimana).
7. CRITERI DI SCELTA DELLA PENA SOSTITUTIVA, ONERE DI MOTIVAZIONE E DISPOSTIVO
L’art. 58, quanto alla scelta della pena e alla motivazione sul punto, prevede il potere discrezionale del giudice, che individua la pena sostitutiva più idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato, con il minor sacrificio della libertà personale.
Il giudice è chiamato a motivare la scelta del tipo e delle modalità applicative della pena sostitutiva. In particolare, quando la misura sostituisce una pena nel limite dei tre anni o di un anno, l’applicazione della semilibertà o della detenzione domiciliare deve essere motivata, indicando le ragioni per cui non sono idonei, nel caso concreto, rispettivamente i lavori di pubblica utilità o la pena pecuniaria.
Nel compiere le valutazioni di cui sopra, il giudice dovrà tenere conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del condannato, secondo quanto prescritto dall’art. 133 c.p.. Dovrà inoltre tenere conto dell’età, della salute fisica o psichica, della condizione di maternità o (secondo quanto previsto dall’art. 47-quinquies, comma 7, legge n. 354 del 1975) di paternità dello stesso.
L’art. 61, in punto di formulazione del dispositivo, prevede che il giudice, nel dispositivo della sentenza o del decreto penale, indichi la specie e la durata sia della pena sostituita, sia della pena sostitutiva ovvero, nel caso della pena sostitutiva pecuniaria, il suo ammontare.
8. SITUAZIONI SOGGETTIVE OSTATIVE ALL’APPLICAZIONE DELLE PENE SOSTITUTIVE
Ai sensi dell’art. 59, vi è divieto di applicazione di una pena sostitutiva per chi:
a) ha commesso il reato per cui si procede entro tre anni dalla revoca della pena sostitutiva, effettuata per i motivi contemplati dall’articolo 66 della L. n. 689/81 (cfr. § 11) o ha commesso un delitto non colposo durante l’esecuzione delle medesime pene sostitutive. In tali casi è fatta comunque salva la possibilità di applicare una pena sostitutiva di specie più grave di quella revocata;
b) non abbia proceduto al pagamento di una pena pecuniaria, anche sostitutiva, nei precedenti cinque anni. In tal caso sono comunque salvi i casi di conversione per insolvibilità del condannato disciplinati dagli articoli 71 e 103 della Legge n. 689/81;
c) sia sottoposto a misura di sicurezza personale, salvi i casi di parziale incapacità di intendere e di volere;
d) sia imputato di uno dei reati per i quali non è consentita l'applicazione dei benefici penitenziari (art. 4-bis, legge n. 354 del 1975), salvo il riconoscimento della circostanza di cui all’art. 323-bis c.p.
Quanto alla verifica della sussistenza delle situazioni ostative di cui alle lettere a), si osserva che l’art. 82, in materia di modifiche in tema di provvedimenti iscrivibili nel certificato del casellario giudiziale, non prevede l’iscrizione dei provvedimenti di revoca delle sanzioni sostitutive, ma solo dei provvedimenti di conversione della pena pecuniaria in caso di inadempimento (cfr. § 11). Tuttavia, se la conversione non vi è ancora stata, nonostante l’inadempimento, nemmeno i provvedimenti di conversione saranno conoscibili dal giudice della cognizione, se non su segnalazione della parte interessata.
9. SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA E NON MENZIONE
Alla pena sostitutiva non è applicabile la sospensione condizionale della pena (art. 61-bis), ma può essere concessa la non menzione (art. 175 c.p., come modificato dall’art. 1 lett. n) del decreto legislativo delegato).
1O. CONDANNA A PENA SOSTITUTIVA: ART. 545-BIS C.P.P.
ARTICOLO INTRODOTTO |
Art. 545-bis c.p.p. - Condanna a pena sostitutiva. 1. Quando è stata applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni e non è stata ordinata la sospensione condizionale, subito dopo la lettura del dispositivo, il giudice, se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, ne dà avviso alle parti. Se l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, acconsente alla sostituzione della pena detentiva con una pena diversa dalla pena pecuniaria, ovvero se può aver luogo la sostituzione con detta pena, il giudice, sentito il pubblico ministero, quando non è possibile decidere immediatamente, fissa un’apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente; in tal caso il processo è sospeso. 2. Al fine di decidere sulla sostituzione della pena detentiva e sulla scelta della pena sostitutiva ai sensi dell’articolo 58 della legge 24 novembre 1981 n. 689, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni relative, il giudice può acquisire dall’ufficio di esecuzione penale esterna e, se del caso, dalla polizia giudiziaria tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale, economica e patrimoniale dell’imputato. Il giudice può richiedere altresì all’ufficio di esecuzione penale esterna il programma di trattamento della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità con la relativa disponibilità dell’ente. Agli stessi fini, il giudice può acquisire altresì dai soggetti indicati dall’articolo 94 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 la certificazione di disturbo da uso di sostanze o di alcol ovvero da gioco d’azzardo e il programma terapeutico, che il condannato abbia in corso o a cui intenda sottoporsi. Le parti possono depositare documentazione all’ufficio di esecuzione penale esterna e fino a cinque giorni prima dell’udienza possono presentare memorie in cancelleria. 3. Acquisiti gli atti, i documenti e le informazioni di cui ai commi precedenti, all’udienza fissata, sentite le parti presenti, il giudice, se sostituisce la pena detentiva, integra il dispositivo indicando la pena sostitutiva con gli obblighi e le prescrizioni corrispondenti; si applicano gli articoli 57 e 61 della legge 24 novembre 1981 n. 689. In caso contrario, il giudice conferma il dispositivo. Del dispositivo, integrato o confermato è data lettura in udienza ai sensi e per gli effetti dell’articolo 545. 4. Quando il processo è sospeso ai sensi del primo comma, la lettura della motivazione redatta a norma dell’art. 544 comma 1 segue quella del dispositivo integrato o confermato e può essere sostituita con un’esposizione riassuntiva. Fuori dai casi di cui all’articolo 544, comma 1, i termini per il deposito della motivazione decorrono, ad ogni effetto di legge, dalla lettura del dispositivo, confermato o integrato, di cui al comma 3. |
L’art. 545-bis c.p.p. disciplina la fase applicativa delle pene sostitutive, prevedendo la possibilità, per il giudice della cognizione, di sostituire la pena irrogata a seguito della lettura del dispositivo di condanna, secondo le seguenti modalità e scansioni processuali.
i) Subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza che applica una pena detentiva non superiore a quattro anni, il giudice, se ricorrono le condizioni – in astratto – per sostituire la pena detentiva breve con una pena sostitutiva di cui all’art. 53 legge n. 689/1981 (entità della pena, non concessione della sospensione condizionale, assenza delle cause ostative di cui all’art. 59, su cui v. infra), ne dà avviso alle parti.
Rispetto alle pene sostitutive diverse da quella pecuniaria, l’imputato (o il suo difensore munito di procura speciale) deve acconsentire alla sostituzione con una pena diversa da quella pecuniaria. Quanto, invece, alla pena pecuniaria, sembrerebbe sufficiente la sussistenza delle sole condizioni materiali per l’adempimento (“se l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, acconsente alla sostituzione della pena detentiva con una pena diversa dalla pena pecuniaria, ovvero se può aver luogo la sostituzione con detta pena”).
ii) In mancanza degli elementi necessari per decidere immediatamente, il giudice, avvisate le parti e raccolto il consenso dell’imputato, dispone la sospensione del processo e la fissazione di un’apposita udienza non oltre sessanta giorni, con avviso alle parti e all’UEPE competente (per gli stessi motivi può essere sospeso il processo in sede di patteggiamento ai sensi dell’art. 448, nuovo comma 1-bis c.p.p. e di procedimento per decreto penale di condanna ex art. 459, nuovo comma 1-ter c.p.p.). Durante il periodo di sospensione, dovranno quindi pervenire al giudice dall’ufficio dell’esecuzione penale esterna (o dalla polizia giudiziaria) tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale, economica e patrimoniale dell’imputato, oltre al “programma di trattamento della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità con la relativa disponibilità dell’ente”.
iii)All’udienza fissata per la decisione sulla sostituzione della pena detentiva, il giudice – lo stesso che ha disposto la condanna – deciderà se e come sostituire la pena detentiva, avendo acquisito dall’UEPE (o dalla polizia giudiziaria) gli elementi utili per individuare il trattamento sanzionatorio più adeguato:
- se il giudice ritiene di poter sostituire: integra il dispositivo “indicando la pena sostitutiva con gli obblighi e le prescrizioni corrispondenti”;
- se il giudice ritiene di non poter sostituire, conferma il dispositivo.
Si rileva, allo stato e in attesa di un adeguamento delle strutture territoriali dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna, la ristrettezza delle tempistiche per ottenere le informazioni necessarie dall’UEPE che di regola necessita di un periodo ben più lungo di 60 giorni per l’elaborazione di un programma di trattamento nell’ambito del rito speciale della MAP[1].
11. L’ESECUZIONE DELLE PENNE SOSTITUTIVE E LA MODIFICABILITÀ DELLE STESSE IN SEDE ESECUTIVA
La materia è disciplinata dagli artt. 62-64 e dall’art. 71.
In particolare, l’art. 62 prevede che l’esecuzione della semilibertà e della detenzione domiciliare sia curata dal magistrato di sorveglianza del luogo di domicilio del condannato, a seguito della trasmissione della sentenza a cura del Pubblico Ministero.
Il magistrato di sorveglianza procede a norma dell’articolo 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, e, previa verifica dell’attualità delle prescrizioni ed entro il quarantacinquesimo giorno dalla ricezione della sentenza, provvede con ordinanza con cui conferma e, ove necessario, modifica le modalità di esecuzione e le prescrizioni della pena.
L’art. 63 descrive il procedimento di esecuzione della pena degli LPU, in cui sono coinvolti per la consegna del provvedimento all’imputato, l’ingiunzione al rispetto delle prescrizioni e la verifica del rispetto delle stesse, “l’ufficio di pubblica sicurezza o, in mancanza di questo, al comando dell’Arma dei carabinieri competenti in relazione al comune in cui il condannato risiede, nonché all’ufficio di esecuzione penale esterna”.
L’UEPE è tenuto a relazionare periodicamente il giudice che ha applicato la pena sostitutiva e, all’esito dei lavori, quest’ultimo dovrà dichiarare eseguita la pena, estinto ogni altro effetto penale (ad eccezione delle pene accessorie perpetue) e revocare la confisca ex art. 56-bis.
L’art. 64 disciplina le modalità di modifica -per comprovate ragioni- delle prescrizioni, prevedendo espressamente la competenza del magistrato di sorveglianza in relazione alle pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare, del giudice che ha applicato la pena sostitutiva, invece, in relazione ai lavori di pubblica utilità.
Gli artt. 71, 102 e 103 disciplinano, infine, l’esecuzione della pena pecuniaria sostitutiva, rinviando all’art. 660 c.p.p., che a sua volta demanda alle leggi e ai regolamenti l’esecuzione delle pene pecuniarie.
12. VICENDE ACCIDENTALI DELLE PENE SOSTITUTIVE IN FASE ESECUTIVA
La legge 689/1981, infine, così come novellata, prevede la revoca delle sanzioni sostitutive (art. 66), disposta dal giudice che ha applicato i lavori di pubblica utilità o dal magistrato di sorveglianza, in caso di mancata esecuzione della pena sostitutiva, ovvero di violazione grave o reiterata degli obblighi e delle prescrizioni ad essa inerenti, con conversione della parte residua nella pena sostituita o in pena sostitutiva più grave.
Il mancato pagamento della pena pecuniaria determina la conversione della stessa in semilibertà o semidetenzione sostitutiva, salvo l’inadempimento sia dovuto alle condizioni economiche e patrimoniali del condannato, con conseguente conversione- in questo caso- della pena pecuniaria in lavori di pubblica utilità o di detenzione domiciliare sostituiva (art. 71).
L’art. 72, inoltre, prevede la responsabilità penale, ai sensi dell’art. 385 c.p., del condannato alla semilibertà e alla detenzione domiciliare, che si allontani dall’istituto di pena o dal domicilio per più di 12 ore senza giustificato motivo. Analogamente, la mancata presentazione presso il luogo di svolgimento dei lavori di pubblica utilità ovvero il suo abbandono integra il reato di cui all’art. 56 D. Lgs. 274/2000, punito con la reclusione fino ad un anno.
Gli artt. 68 e 69 disciplinano la possibilità di sospensione delle pene e, per i condannati alla semilibertà e alla semidetenzione, di conseguire licenze.
In caso di esecuzione di una pluralità di pene sostitutive concorrenti si applicano i criteri di cui all’art. 70.
DISCIPLINA TRANSITORIA
L’art. 95 prevede che, in quanto più favorevoli, le nuove norme trovino applicazione nei procedimenti pendenti in primo grado e in grado di appello nel momento di entrata in vigore, quindi il 30 dicembre.
Per i procedimenti pendenti in Cassazione è previsto un termine di 30 giorni dall’irrevocabilità della sentenza per la proposizione al giudice dell’esecuzione, da parte del condannato a pena non superiore a 4 anni, di istanza di applicazione di una pena sostitutiva.
Ai condannati alle abrogate sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata è prevista l’applicazione della normativa previgente, salvo possibilità per i condannati alla semidetenzione di chiedere al magistrato di sorveglianza l’applicazione della semilibertà, di contenuto analogo.
Infine, per quanto riguarda gli LPU, le modalità attuative sono demandate ad un decreto attuativo del Ministero (art. 56-bis L. 689/1991). Nelle more si dovrà fare riferimento, per quanto compatibili, ai decreti del Ministro della giustizia 26 marzo 2001 e 8 giugno 2015 n. 88, adottati, rispettivamente, per il lavoro di pubblica utilità quale pena principale irrogabile dal giudice di pace e quale contenuto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.
[1] cfr. circolare 3/2022 del Ministero della Giustizia- Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, p. 11 ss., sul potenziamento del ruolo di assistenza dell’UEPE all’autorità giudiziaria nelle diverse fasi della predisposizione dei programmi e dell’esecuzione delle pene sostitutive.
Proseguono le uscite dedicate alla riforma Cartabia - settore penale. Dopo lo scritto introduttivo di Spangher e le due "instant notes", partiamo oggi con le prime due (di 18) schede di presentazione delle norme più significative modificate dal testo di riforma.
La riforma Cartabia in schede
I 99 articoli del Decreto legislativo n. 150 (anzi, 100 dopo che il D.L. n. 162 ha introdotto l’art. 99-bis…) hanno modificato oltre 200 articoli del codice di procedura penale e qualche decina di articoli del codice penale e di altre leggi.
Bastano questi numeri per definire la riforma Cartabia, per le dimensioni mai viste e l’introduzione di nuovi istituti, come una risistemazione complessiva del processo penale; non esagerando qualcuno ha parlato di un “nuovo” codice.
Ancora: la pubblicazione solo il 17 ottobre del decreto destinato ad entrare in vigore il 2 novembre ha creato preoccupazione, solamente alleviata dalla inusuale emanazione del citato decreto legge che ne ha differito l’entrata in vigore al 30 dicembre (per rispettare i termini del PNRR).
I 14 giudici della sezione penale di Vicenza, sia dell’Ufficio GIP-GUP che dell’Ufficio dibattimento, hanno affrontato l’emergenza di doverne fare applicazione concreta in tempi così ristretti suddividendo lo studio della riforma nei vari argomenti sostanziali e processuali, per poi farne patrimonio collettivo. Ne sono nate così le Schede che da oggi la Rivista pubblica.
Si tratta di schede tecniche, con l’evidenziazione delle norme di legge e la divisione del testo in paragrafi; l’obiettivo è di esporre in modo sintetico e chiaro le novità normative e le loro implicazioni; e di essere uno strumento agile e di lettura rapida, per favorirne l’applicazione pratica.
Coordinatore di questa attività è Lorenzo Miazzi, supportato da Francesca Dell’Orso.
I contributi sono di:
Roberto Venditti
Antonella Crea
Matteo Mantovani
Nicolò Gianesini
Antonella Toniolo
Chiara Cuzzi
Filippo Lagrasta
Giulia Poi
Veronica Salvadori
Alessia Russo
Luigi Lunardon
Elisabetta Pezzoli
Claudia Molinaro
Scheda n. 2 - Le modifiche alla costituzione di parte civile
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’obiettivo della riforma appare da un lato quello di precisare le modalità con cui il difensore nominato può essere sostituito in udienza e dall’altro quello di richiedere, in sede di costituzione di parte civile e di istanza di natura civilistica presentata all’interno del processo penale, una prova documentale più stringente delle pretese risarcitorie.
FORMALITÀ DELLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE
TESTO PREVIGENTE | TESTO RIFORMATO |
Art. 78 c.p.p. - Formalità della costituzione di parte civile. 1. La dichiarazione di costituzione di parte civile è depositata nella cancelleria del giudice che procede o presentata in udienza e deve contenere, a pena di inammissibilità: a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell'associazione o dell'ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante; b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo; c) il nome e il cognome del difensore e l'indicazione della procura;0 d) l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda; e) la sottoscrizione del difensore. *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** (Omissis) | Art. 78 c.p.p. - Formalità della costituzione di parte civile. 1. La dichiarazione di costituzione di parte civile è depositata nella cancelleria del giudice che procede o presentata in udienza e deve contenere, a pena di inammissibilità: a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell'associazione o dell'ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante; b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo; c) il nome e il cognome del difensore e l'indicazione della procura; d) l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda agli effetti civili; e) la sottoscrizione del difensore. 1-bis. Il difensore cui sia stata conferita la procura speciale ai sensi dell’articolo 100, nonché la procura per la costituzione di parte civile a norma dell’articolo 122, se in questa non risulta la volontà contraria della parte interessata, può conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione. (Omissis) |
È precisato che la costituzione di parte civile deve contenere l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda “agli effetti civili”: il legislatore sembra seguire l’orientamento maggioritario della giurisprudenza formatosi sulla causa petendi dell’atto di costituzione di parte civile prima della riforma.
Le ragioni che giustificano la domanda, anche prima della novella legislativa, dovevano concretizzarsi nella descrizione del nesso di causalità tra la condotta dell'imputato ed i danni che dalla condotta di questo sono derivati. La giurisprudenza, pressoché all'unanimità, pretendeva una descrizione, se non analitica perlomeno inequivoca, del rapporto esistente tra il danno lamentato e il comportamento attribuibile all'imputato respingendo come non pertinente al requisito di cui alla lett. d) la semplice intenzione di ottenere il risarcimento dei danni subiti o la restituzione di quanto sottratto.
La causa petendi dell'atto di costituzione di parte civile della persona offesa dal reato era ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente delineata con riferimento al capo di imputazione soltanto quando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risultasse con immediatezza (così da ultimo Cas. Sez. II sent. n. 23940/2020).
Il comma 1-bis art. 78 c.p.p. prevede che il difensore munito della procura, sia ai sensi dell’art. 100 c.p.p. che dell’art. 122 c.p.p., possa conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione, salvo che risulti volontà contraria della parte interessata.
La questione se il sostituto processuale potesse depositare la costituzione di parte civile era già stata affrontata dalla giurisprudenza con l’intervento delle Sezioni unite n. 12213 del 21.12.2017 che hanno affermato che il sostituto processuale del difensore, al quale il danneggiato abbia rilasciato procura speciale al fine di esercitare l'azione civile nel processo penale, non ha la facoltà di costituirsi parte civile, salvo che detta facoltà sia stata espressamente conferita nella procura ovvero che la costituzione in udienza avvenga in presenza del danneggiato, situazione questa che consente di ritenere la costituzione come avvenuta personalmente.
Con la novella legislativa, viene rovesciata la prospettiva, in quanto si prevede che il difensore, al quale sono state conferite entrambe le procure ex artt. 100 e 122 c.p.p., salva diversa volontà della parte, possa conferire al proprio sostituto, con atto scritto, anche successivo pertanto alla procura medesima, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione.
Verificata, pertanto, la sussistenza di entrambe le procure che coerentemente ai principi generali di conservazione dell’atto e di prevalenza della sostanza sulla forma possono coesistere in unico atto, occorre verificare se la parte ha espresso volontà contraria al conferimento al sostituto dei poteri indicati, per poi accertarsi se con atto scritto il difensore procuratore speciale abbia conferito a un sostituto il potere di sottoscrivere e depositare l’atto.
TERMINE PER LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE
TESTO PREVIGENTE | TESTO RIFORMATO |
Art. 79 c.p.p. - Termine per la costituzione di parte civile. 1. La costituzione di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare e successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'articolo 484. *** *** *** *** 2. Il termine previsto dal comma 1 è stabilito a pena di decadenza. 3. Se la costituzione avviene dopo la scadenza del termine previsto dall'articolo 468 comma 1, la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici. *** *** *** | Art. 79 c.p.p. - Termine per la costituzione di parte civile. 1. La costituzione di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare e successivamente, prima che siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, o, quando manca l’udienza preliminare, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'articolo 484 o dall’articolo 554-bis, comma 2. 2. I termini previsti dal comma 1 sono stabiliti a pena di decadenza. 3. Quando la costituzione di parte civile è consentita fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484, se la stessa avviene dopo la scadenza del termine previsto dall'articolo 468 comma 1, la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici. |
Cambiano i termini per costituirsi parte civile, distinguendo a seconda che si celebri o meno l’udienza preliminare:
- se si tiene udienza preliminare, il termine è quello degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti in udienza preliminare e non anche in dibattimento;
- se manca l’udienza preliminare, il termine è quello degli accertamenti della costituzione delle parti ex art. 484 c.p.p. o 554-bis co. 2 c.p.p. (udienza predibattimentale di nuova applicazione).
Viene precisato che i termini sono posti a pena di decadenza (non più il termine, ma i termini al plurale) e che, se la costituzione avviene ex art. 484 c.p.p. dopo la scadenza del termine di cui all’art. 468 co. 1 c.p.p., la parte non può presentare lista testi. Sul punto non vi sono mutamenti rispetto alla disciplina previgente, fermo restando che la parte danneggiata che sia anche persona offesa può presentare lista testi nel termine dell’art. 468 c.p.p. e poi costituirsi nel termine dell’art. 484 c.p.p.
DISCIPLINA TRANSITORIA
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 85-bis d.lgs. n. 150/2022 – Disposizioni transitorie in materia di termini per la costituzione di parte civile. 1. Nei procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono già stati ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare, non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 1, lettera c), del presente decreto e continuano ad applicarsi le disposizioni dell’articolo 79 e, limitatamente alla persona offesa, dell’articolo 429, comma 4, del codice di procedura penale, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore del presente decreto. |
La legge di conversione del d.l. 162/2022 ha introdotto l’art. 85-bis al d.lgs. 150/2022 in cui viene specificato che la nuova disciplina di cui all’art. 79 c.p.p. che muta i termini di costituzione di parte civile si applica solo nei procedimenti nei quali alla data del 30.12.2022 (data di entrata in vigore del d.lgs. 150/2022) non sono stati ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare.
I punti salienti dell’attuazione della riforma del processo civile di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149[1]
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. La trattazione delle sole questioni principali. - 2. Gli atti processuali. - 3. Le udienze. - 4. Le ordinanze di accoglimento oppure di rigetto in via breve delle domande. - 5. L’inammissibilità dell’appello. - 6. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. - 7. I procedimenti in materia di famiglia. - 8. Le sanzioni.
1. Premessa. La trattazione delle sole questioni principali
Il 10 ottobre 2022 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 149 emanato dal Governo in attuazione della legge delega di riforma del processo civile 26 novembre 2021 n. 206.
Come previsto dall’articolo 1, comma 1, della legge delega, e come precisato nella stessa Relazione illustrativa del Ministro della Giustizia, anch’essa apparsa in Gazzetta Ufficiale del 19 ottobre 2022, il testo legislativo elaborato dal Governo si propone di realizzare un riassetto formale e sostanziale completo della disciplina del processo civile, comprensivo del processo di cognizione, del processo di esecuzione, dei procedimenti speciali e degli strumenti alternativi di composizione delle controversie, e ciò mediante interventi sul codice di procedura civile, sul codice civile, sul codice penale, sul codice di procedura penale e su numerose leggi speciali, in funzione degli obiettivi di “semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile”.
Dal punto di vista temporale il decreto legislativo è stato presentato nel rispetto delle tempistiche imposte dal comma 2 della legge delega, e in conformità a quanto stabilito nel PNRR.
Ovviamente, questo mio intervento non intende costituire guida ragionata della riforma, poiché essa necessiterebbe di spazi da monografia.
Questo mio scritto ha ad oggetto le sole novità che mi sono sembrate le principali, e, proprio per questa loro maggiore incisività, più bisognose di una qualche analisi critica.
Queste, come agevolmente può comprendersi dall’indice, sono quelle degli atti processuali, delle udienze, delle ordinanze di accoglimento oppure di rigetto in via breve delle domande, dell’inammissibilità dell’appello, del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, dei procedimenti in materia di famiglia, e infine delle sanzioni pecuniarie.
2. Gli atti processuali
Circa la forma degli atti processuali, la riforma ha modificato in primo luogo l’art. 121 c.p.c., che oggi ha aggiunto la statuizione secondo la quale: “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” (aggiunte analoghe sono state poste negli artt. 163, 167, 342, 366 e 473 bis 12, c.p.c.), e poi, soprattutto, ha riscritto l’art. 46 disp. att. c.p.c. sulla base di un più ridotto testo contenuto nella legge delega[2].
2.1. Orbene, a me sembra in primo luogo che se si confronta la norma del decreto legislativo con quella della legge delega, si rileva un eccesso di delega.
a) La legge delega ribadiva il principio della libertà delle forme nella redazione degli atti processuali, stabilendo che questi possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, mentre il decreto legislativo ha abbandonato il criterio della libertà delle forme degli atti ed ha espressamente previsto che un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti, disponendo altresì che l’atto processuale debba avere in ogni caso un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso.
b) La legge delega, poi, semplicemente prevedeva che gli atti processuali dovessero essere redatti in modo da assicurare la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, mentre il decreto legislativo ha disposto, oltre ciò, che con decreto del Ministro della Giustizia sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell'intestazione e delle altre indicazioni formali dell'atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale.
Par evidente che tutta questa seconda parte non era prevista dalla legge delega, e si presenta per la prima volta nel solo decreto legislativo di attuazione.
c) La legge delega, infine, giustificava l’inquadramento e la regolamentazione degli atti processuali semplicemente sulla esigenza della raccolta dati nel processo telematico, ovvero strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo; il decreto legislativo supera al contrario questa ratio e prevede una regolamentazione ministeriale di tipo generale (……rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione……), in grado così di investire gli atti processuali in ogni momento, e non solo in quello della raccolta telematica dei dati.
Espressamente un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà, infatti, lo ripetiamo ancora, i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti.
2.2. Se dunque l’art. 46 disp. att. c.p.c. presenta dubbi di costituzionalità per eccesso di delega, parimenti la norma non sembra rispettosa nemmeno degli artt. 24, 101 e 110 Cost.
Premesso che per atti processuali devono intendersi sia gli atti del giudice che quelli degli avvocati, e ciò non solo per il chiaro tenore letterale della norma, quanto perché altrimenti non si comprenderebbero le ragioni per le quali il decreto del Ministro della Giustizia debba essere adottato sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, e premesso che il parere di questi due organi, per come è disposta la norma, appare meramente consultivo e non vincolante (ma poco cambierebbe, a mio parere, anche ove il parere fosse vincolante), non si vede come il Ministro della Giustizia possa stabilire le modalità con le quali le parti debbano chiedere giustizia e il giudice debba renderla, ovvero non si comprende come il Ministro della Giustizia possa stabilire la struttura di una citazione, di un ricorso, di una ordinanza oppure di una sentenza.
Si deve così ricordare che l’art. 110 Cost. esclude che il Ministro della Giustizia possa avere simili poteri, poiché tutto al contrario ad esso spettano solo “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, e certo non rientrano, ne’ sono mai rientrati, nel concetto di servizi relativi alla giustizia le modalità di stesura degli atti processuali.
Dal che, non può che essere ribadito che ogni regolamentazione degli atti processuali deve concernere aspetti meramente telematici e informatici, e non può assolutamente incidere ne’ sull’esercizio della funzione giurisdizionale, ne’ sul diritto di azione, poiché altrimenti la disposizione si pone in contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost.
E a niente serve prevedere che la violazione del regolamento ha conseguenze solo sulle spese, poiché gli spazi degli atti potrebbero essere predeterminati dal sistema informatico, cosicché, di fatto, potrebbe essere impedito a giudici e/o avvocati di inserire nel sistema atti che non corrispondano ai limiti dimensionali e/o tipologici previsti dal Ministro della Giustizia.
Si tratta di un punto fondamentale, che non può essere sottovalutato.
3. Le udienze
Per quanto concerna le udienze, la riforma prevede oggi non solo che le stesse stiano sotto la direzione del giudice, cosa che da sempre è così, ma anche che “il giudice può disporre che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza o sia sostituita dal deposito di note scritte” (nuovo art. 127, 3° comma c.p.c.).
Si tratta di una novità importante, che oggi trova infatti disciplina nell’art. 127 bis c.p.c. quanto all’udienza mediante collegamenti audiovisivi e nell’art. 127 ter c.p.c. quanto al deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza.
Si tratta di disposizioni in parte analoghe, ed esattamente entrambe statuiscono che il giudice possa, nelle udienze che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice, disporre, a sua discrezione, (può essere disposto dal giudice) ora l’udienza mediante collegamenti audiovisivi, ora il deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza.
3.1. Dunque, al giudice spetta la scelta circa le modalità di svolgimento delle udienze, e la decisione presenta queste caratteristiche:
a) si tratta di un decreto privo di motivazione, visto che i decreti sono motivati solo se la legge dispone che debbano esserlo (art. 135, 4° comma c.p.c.) e gli artt. 127 bis e ter c.p.c., al contrario, non prevedono che la decisione del giudice debba essere motivata.
b) Si tratta di determinazione completamente discrezionale, poiché la legge non prevede in quali casi l’udienza possa essere sostituita mediante collegamenti audiovisivi o mediante il deposito di note scritte, dal che il giudice può farlo liberamente e senza specifiche ragioni; fino ad oggi la scelta era motivata da ragioni di sicurezza sanitaria, ma da domani la determinazione delle modalità di svolgimento dell’udienza sarà rimessa alla piena libertà del giudice.
c) Le parti possono opporsi all’udienza con collegamento audiovisivo; tuttavia in questi casi Il giudice provvede con decreto non impugnabile, con il quale può anche disporre che l’udienza si svolga alla presenza delle parti che ne hanno fatto richiesta e con collegamento audiovisivo per le altre parti. In tal caso resta ferma la possibilità per queste ultime di partecipare in presenza.
Dal che, se il giudice può anche disporre che l’udienza si svolga alla presenza delle parti, significa, sic et simpliciter, che il giudice può anche disporre che al contrario l’udienza si tenga nei modi che questi aveva già determinato, ovvero significa che l’istanza della parte ben può essere respinta dal giudice.
E cosa analoga si ha nelle ipotesi in cui l’udienza sia sostituita con il deposito di note scritte; in questo caso, a seguito dell’opposizione, il giudice in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità; il che significa che il giudice è tenuto allo svolgimento dell’udienza in presenza solo se la richiesta proviene da entrambi le parti, poiché se al contrario la richiesta è solo di una parte, il giudice può ben disattendere la richiesta e confermare che la stessa sia sostituita dal deposito di note scritte.
3.2. Ora, io credo sia preoccupante che il giudice, con decreti non impugnabili e non motivati, abbia assoluta libertà di scegliere le modalità di svolgimento delle udienze, e ciò sia perché le norme in questione rompono un principio di trattamento paritario delle parti, in quanto i giudici, ognuno in base alla propria sensibilità, potranno fare scelte diverse, che daranno vita a diverse modalità di svolgimento dei processi tra parti e parti, e sia perché, è bene sottolineare, le modalità di svolgimento dell’udienza attengono molto più all’esercizio del diritto di azione e di difesa che non a quello decisionale, poiché, ancora, par evidente, mentre le modalità di svolgimento dell’udienza possono modificare e/o comprimere il diritto all’azione e alla difesa, le stesse lasciano invece sostanzialmente invariato il diritto/dovere del giudice di decidere.
In questi termini pareva necessario che il giudice potesse accedere a queste modalità alternative di svolgimento delle udienze solo se a questi proveniva richiesta congiunta di tutte le parti; mentre la riforma ha pensato al contrario che l’opinione delle parti non rilevassero, e che il giudice potesse determinare dette modalità a prescindere dai desiderata dei litiganti.
E in questo contesto, nessun senso ha l’opposizione prevista dagli artt 127 bis e ter c.p.c., poiché il giudice può egualmente confermare la sua decisione con provvedimento non impugnabile e non motivato, e la parte quindi non farai mai un’opposizione del genere, che non le assicura alcun risultato utile e che le servirebbe solo a rendersi antipatico agli occhi del giudice.
3.3. Seppur sia comodo fare udienze a distanza, o preferibile depositare una nota scritta piuttosto che recarsi in un palazzo di giustizia, io credo che noi dobbiamo ancora batterci per un processo che faccia dell’incontro il fulcro della sua funzione, poiché è proprio l’incontro che meglio consente, indiscutibilmente, l’esercizio dell’azione e della difesa.
Per questo mi sembra che gli artt. 127 bis e ter c.p.c. siano da ripensare:
a) perché la regola rimanga quella dell’udienza in presenza;
b) e perché l’eccezione non sia rimessa alla discrezionalità del giudice, da esercitare con decreti privi di motivazione e non impugnabili, e senza che la legge fissi le condizioni con le quali una udienza può essere sostituita con mezzi audiovisivi o note scritte.
4. Le ordinanze di accoglimento oppure di rigetto in via breve della domanda
La riforma, poi, introduce nel codice di rito due nuove norme con le quali, in limite litis, il giudice può accogliere (art. 183 ter c.p.c.) oppure rigettare (art. 183 quater c.p.c.) la domanda fatta valere in giudizio dall’attore.
Esattamente, il diritto alla difesa può subire una contrazione che consente al giudice di non portare al termine il processo accogliendo immediatamente la domanda quando “i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate” (art. 183 ter c.p.c.), e parimenti il diritto di azione può subire egualmente una contrazione che consente al giudice, all’esito dell’udienza ex art. 183 c.p.c., di rigettare la domanda “quando questa è manifestamente infondata” (art. 183 quater c.p.c.).
Entrambe queste disposizioni avvertono: a) che le ordinane sono reclamabili ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.; b) che in assenza di reclamo, oppure nel caso di rigetto del reclamo, le ordinanze definiscono il giudizio; c) e che infine le stesse non acquistano efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c., ne’ la loro autorità può essere invocata in altri processi.
4.1. Queste disposizioni prestano il fianco, a mio parere, alle seguenti osservazioni:
a) in primo luogo, se queste nuove norme consentono una abbreviazione dei tempi del singolo processo ove vengono pronunciate, non consentono tuttavia una riduzione delle attività processuali in generale, in quanto l’assenza degli effetti di giudicato di queste ordinanze consentirà alla parte soccombente di ripresentare la domanda, e quindi di ripetere per la seconda volta, e in contrasto con un principio di economia processuale, il medesimo processo; inoltre, in caso di reclamo, si impegna un collegio non per stabilire se la domanda o la difesa sono fondate o infondate nel merito, bensì se le stesse sono o non sono manifestamente infondate, per poi far svolgere le attività di merito, e se del caso, ad un altro giudice, di nuovo con un raddoppio delle attività processuali necessarie alla definizione del giudizio.
b) In secondo luogo queste nuove disposizioni, per come sono congegnate, istituiscono una sorta di nuova ammissibilità della domanda e della difesa, che è quella della loro non manifesta infondatezza, cosicché, presentata al giudice una domanda oppure una difesa, il giudice non deve stabilire se queste sono o non sono fondate, ma deve preliminarmente valutare che queste non siano, appunto, manifestamente infondate, e solo se non hanno questa caratteristica esse saranno poi ammesse al giudizio di merito.
L’idea, così, dell’inammissibilità della domanda per manifesta infondatezza, che al momento esiste solo per il ricorso per cassazione ex art. 375 n. 5 c.p.c., può suscitare a mio parere dubbi se estesa ad un giudizio di merito, soprattutto quando riferita al diritto di difesa.
4.2. Ed infatti, deve rilevarsi che la manifesta infondatezza è concetto giuridico vago, e quindi le norme, nella sostanza, rimettono alla discrezionalità del giudice il proseguimento o meno del processo; e quale rovescio della medaglia gli artt. 183 ter e quater c.p.c. costituiscono per gli avvocati, e quindi per le parti, disposizioni particolarmente pericolose, in quanto consentono, senza regole precise e/o predeterminate, la chiusura del processo.
Dunque gli avvocati stiano bene attenti nella composizione degli atti introduttivi del giudizio, poiché imminente incombe su di loro sempre il rischio che tutto possa definirsi senza una reale cognizione piena dell’oggetto del contendere.
Peraltro, a mio sommesso parere, v’è da chiedersi se tutto questo sia conforme all’art. 24 Cost.
E la domanda è semplice: è costituzionalmente legittimo che il giudice, sulla base di una valutazione elastica e discrezionale, possa impedire il pieno esercizio dell’azione o della difesa chiudendo in via breve il processo?[3]
5. L’inammissibilità dell’appello
Se l’art. 121 c.p.c. statuisce che “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” senza aggiungere altro, e quindi senza prevedere quali siano le conseguenze di un atto processuale privo di chiarezza e sinteticità, qualcosa di più nebuloso si trova invece nel nuovo art. 342 c.p.c. in base al quale “L’appello deve essere motivato e per ciascuno dei motivi deve indicare, a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico”, ecc…….
Per questa ultima norma, infatti, sembra che la chiarezza e la sinteticità possano costituire condizioni di ammissibilità dell’impugnazione, cosicché si pone un problema di interpretazione della norma.
La cosa non è anodina poiché certo, se a qualcuno venisse in mente che le Corti di Appello, peraltro nel rispetto dell’obiettivo della riduzione dei tempi del contenzioso, possono dichiarare inammissibili tutte le impugnazioni che, prima facie, appaiono di non facile lettura, oppure non ben centrate sulle questioni rilevanti, o ancora inutilmente sovrabbondanti nelle esposizioni dei fatti o nello sviluppo delle argomentazioni giuridiche, va da sé che la classe forense, e con essa tutti i cittadini, avrebbero di che preoccuparsi.
In verità, la norma subordina l’inammissibilità dell’impugnazione all’assenza dei requisiti dei nn. 1, 2 e 3 del medesimo art. 342 c.p.c., ovvero l’appello è inammissibile, quando lo stesso non indichi il capo della decisione di primo grado che venga impugnato (n. 1), le censure proposte alla ricostruzione dei fatti (n. 2), o le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza (n. 3), il tutto secondo schemi non molto diversi da quelli già rodati con il vecchio art. 342 c.p.c.
Io, sinceramente, dubito che le Corti di Appello possano dichiarare inammissibile una impugnazione solo per carenze formali, se non addirittura per stile degli atti; e allora, forse, non è inutile precisare che:
a) l’inammissibilità dell’appello si ha quando l’atto non presenta i requisiti di cui ai punti 1, 2 e 3 dell’art. 342 c.p.c., non quando l’esposizione di tali punti è carente sotto il profilo della chiarezza, oppure della specificità, o ancora della sinteticità;
b) per contro, se l’atto contiene i requisiti di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’art. 324 c.p.c. ma la loro esposizione non è chiara o sintetica, il giudice dell’appello può regolare il fenomeno sotto il profilo delle spese, così come recita l’art. 46 disp. att. c.p.c., ma non già dichiarare inammissibile l’impugnazione, pena altrimenti la violazione dell’art. 342 c.p.c., nonché, probabilmente, dello stesso art. 24 Cost.
5.1. Il problema, se del caso, è che corre un filo sottilissimo tra un atto di impugnazione che manca dei requisiti di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’art. 324 c.p.c. e un atto di impugnazione che presenta tale esposizione in modo non chiaro oppure non sintetico ne’ specifico; e allora le Corti di Appello potrebbero essere tentate non già di affermare che la chiarezza e la sinteticità dell’atto di appello è condizione di ammissibilità dell’impugnazione, bensì che l’assenza di chiarezza e/o di specificità può comportare la carenza dei medesimi nn. 1, 2 e 3 dell’art. 324 c.p.c., e conseguentemente, e indirettamente, l’atto di appello non chiaro, sintetico o specifico può parimenti essere un atto che non consente la decisione di merito in ordine all’impugnazione.
Quid iuris?
È possibile una simile lettura della norma?
A mio sommesso parere le Corti di Appello non possono dare una esegesi della disposizione di questo genere, poiché l’inammissibilità di una impugnazione deve discendere da una condizione specifica, e non da presupposti incerti e rimessi alla discrezionalità del giudice.
È la legge che, per prima, deve indicare in modo chiaro e specifico quali siano le ragioni di una possibile inammissibilità dell’impugnazione; e tra queste non possono esservi, nemmeno in via mediata e indiretta, quelle della chiarezza e/o sinteticità dell’atto di impugnazione.
Tra il serio e faceto si potrebbe allora concludere così: che la chiarezza, la sinteticità e la specificità dell’atto non possono costituire condizioni di inammissibilità dell’impugnazione, poiché, a loro volta, non sono condizioni chiare e specifiche.
6. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione
Con il nuovo art. 363 bis c.p.c. il giudice del merito può rimettere in ogni tempo alla Corte di cassazione la risoluzione di un dubbio giuridico, se la questione è nuova, di particolare importanza e suscettibile di porsi in numerose future controversie.
In questo caso il processo è sospeso fino alla decisione della Corte di cassazione, e successivamente il giudice del merito, al pari di un giudice del rinvio, deve attenersi al principio enunciato dalla cassazione, che resta vincolante “nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione”.
Il parere anticipato della Corte di cassazione, evidentemente, è vincolante solo per il giudice che lo ha richiesto; tuttavia la riforma rischia egualmente, a mio sommesso parere, di andar oltre il principio di cui all’art. 101, 2° comma Cost. (e per il quale, come è noto, il giudice – persona fisica – è soggetto soltanto alla legge) almeno sotto due profili:
a) perché il parere dato dalla cassazione può vincolare anche un giudice – persona fisica - diverso da quello che abbia richiesto il parere; ad esempio ciò può avvenire se muta il giudice della causa, o se la stessa passa da una fase ad un'altra fase (ad esempio con un reclamo al collegio) oppure da un grado ad un altro grado (ad esempio a seguito di appello), in quanto, appunto, il parere è vincolate non per il giudice che abbia richiesto il parere ma nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione.
b) E perché, par evidente, nello spirito della riforma, una volta che la cassazione si sia pronunciata sulla questione di diritto a lei rimessa in via anticipata, tutti i giudici, e non solo il remittente, sono tenuti, in un certo modo e in una certa misura, ad adeguarsi a quel dettato, visto che la riforma si giustifica con una esigenza di uniformità delle decisioni, anche nel rispetto dell’art. 3 Cost., e non vi sarebbe alcuna uniformità, e quindi alcuna giustificazione della riforma, se non si pretendesse che tutti i giudici, e non soltanto il remittente, si adeguino poi al parere preventivo manifestato dalla cassazione.
In questo modo l’istituto, più che volto a rispettare un principio di nomofilachia, a me sembra invece finalizzato ad introdurre surrettiziamente un principio di vincolatività dei precedenti; e mi sia consentito sottolineare che non è la stessa cosa, poiché una è la nomofilachia, altra la vincolatività dei precedenti; e nella misura in cui si pretende (di fatto) che tutti i giudici e non solo i rimettenti, si adeguino nei futuri giudizi al parere della cassazione, lì si inizia a cementare un istituto che fino ad ieri si riteneva invece inesistente nel nostro ordinamento.
6.1. Qualcuno ha ritenuto però che queste lamentele siano infondate, e per dimostrare ciò ha richiamato l’art. 393 c.p.c. il quale, nel caso di estinzione o di mancata attivazione del processo di rinvio dispone comunque che: “la sentenza della Corte di Cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”.
Si è detto che se un giudice diverso da quello del rinvio, ovvero il giudice della riproposizione della domanda, è egualmente tenuto a rispettare l’effetto vincolante della decisione della cassazione, qual è il problema a rendere vincolante il parere della cassazione a tutti i giudici e non solo al giudice che abbia rimesso in via pregiudiziale la questione?
E parimenti, se nessuno ha mai avuto niente da eccepire sulla disciplina dell’art. 393 c.p.c., perché viceversa qualcuno si lamenta della disciplina del nuovo art. 363 bis c.p.c.?
Ora, io credo che porre sullo stesso piano l’art. 393 con l’art. 363 bis c.p.c. sia errato.
Nel caso dell’art. 393 c.p.c. noi siamo di fronte ad un processo già fatto e deciso, mentre nel caso dell’art. 363 bis c.p.c. noi siamo viceversa di fronte ad un processo da fare e da decidere (e/o comunque da completare nel suo iter); in un caso si ha una vera e propria pronuncia della Corte di Cassazione a seguito di impugnazione, che, ove non fosse vincolante in assenza di rinvio o nel caso di estinzione del giudizio di rinvio, consentirebbe alle parti di raggirare la decisione stessa, permettendo l’omissione o l’abbandono del giudizio di rinvio; nel caso dell’art. 363 bis c.p.c. questa esigenza è assente, poiché siamo di fronte solo all’affermazione di un principio generale fuori da ogni meccanismo di impugnazione.
L’art. 393 c.p.c. risponde per questo al divieto del ne bis in idem, in quanto in sua assenza sarebbe consentito fare un nuovo processo in ordine ad un giudizio già svolto e deciso, tanto che la sua ratio sta infatti nel fatto che sui capi e punti non cassati si ha cosa giudicata[4]; l‘art. 363 bis c.p.c. non risponde a questa esigenza, poiché il rispetto del parere della cassazione non evita il ne bis in idem, in quanto la causa è ancora da definire[5].
Se poi si aggiunge, come abbiamo rilevato, che il nuovo artt. 363 bis c.p.c. mira altresì a superare il concetto di nomofilachia e introdurre nel nostro ordinamento un principio di vincolatività dei precedenti, ovvero mira ad obiettivi del tutto assenti con riferimento all’altra più vecchia norma di cui all’art. 393 c.p.c., va da sé che l’una non possa essere paragonata all’altra, e che quindi la novità dell’art. 363 bis c.p.c. può essere davvero fonte di legittime perplessità.
7. Dei procedimenti in materia di famiglia
E passiamo al processo di famiglia.
Brevemente, esso presenta una novità ordinamentale ed altre relative al procedimento.
7.1. Per quanto riguarda gli aspetti ordinamentali, è condivisibile l’idea di sopprimere i tribunali per i minorenni e prevedere, con il nuovo art. 49 r.d. 12/1941, un tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie, “….il quale si articola in una sezione distrettuale e in una o più sezioni distaccate circondariali”.
Il problema, però, è che nei moltissimi piccoli tribunali della nostra penisola, è difficile avere un numero sufficiente di magistrati da assegnare alle sezioni distaccate circondariali della famiglia; dal che l’idea del tribunale unico, per quanto pregevole, appare lontana dalla possibilità di essere realizzata in concreto, e si vedrà quali accorgimenti pratici il legislatore intenderà adottare per sormontare un problema di carenza di mezzi e persone che, al momento, sembra davvero difficile.
7.2. Per quanto invece riguardi il procedimento, il decreto legislativo continua ad affidare al giudice della famiglia poteri d’ufficio che nel processo civile non sussistono, e prevede infatti, con l’art. 473 bis 2 c.p.c., che il giudice non sia tenuto ne’ al rispetto della domanda, ne’ a quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ne’ infine a quello dispositivo in ordine alle prove.
Si giustifica questa eccezione in considerazione del fatto che le deroghe vanno a tutela dei minori, e quindi concernono diritti indisponibili.
Ma, sia consentito, a parte la circostanza che il secondo comma della medesima disposizione, regolando gli aspetti economici, non precisa che il potere d’ufficio del giudice possa disporsi solo a vantaggio dei minori e non per tutte le altre parti del processo[6], ma, a parte ciò, l’indisponibilità dei diritti non comporta di regola il venir meno dei principi di cui agli artt. 99, 112 e 115 c.p.c., e tutto il nostro sistema processuale è infatti intessuto di diritti indisponibili che tuttavia mantengono i classici limiti del rispetto della domanda, di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, e dispositivo.
Si osserva che nella misura in cui al minore può essere nominato il curatore speciale, e nella misura in cui vigila sui minori anche l’ufficio del pubblico ministro, che ha tutti i poteri di cui all’art. 473 bis 3 c.p.c., non si vedono poi le ragioni per le quali, oltre ciò, il giudice possa operare fuori dalle regole della giurisdizione.
Non può quindi sostenersi che la deroga al principio della domanda sia giustificata dalla indisponibilità dei diritti o dall’interesse superiore del minore, poiché questi interessi sono assicurati dalla presenza del PM e del curatore speciale, mentre il giudice deve rimanere terzo e imparziale anche quando giudica sui minori, e non può trasformarsi in un funzionario, come diceva Piero Calamandrei, che “si mette in viaggio alla scoperta dei torti da raddrizzare”[7], poiché ciò comprometterebbe la terzietà della sua funzione.
Dal che io credo che, proprio in ossequio alla terzietà e indipendenza del giudice, norme quali l’art. 473 bis 2 c.p.c. andrebbero rimeditate.
8. Le sanzioni
Infine le sanzioni.
Non meritano commento.
Costituiscono semplicemente un altro modo di intendere i rapporti tra avvocati e giudici, tra cittadini e Stato, un’onta, a mio sommesso parere, alle nostre tradizioni processuali.
È qui sufficiente solo ricordare quelle nuove che questa ultima riforma ha ritenuto di aggiungere e/o rivedere, ricordando (tristemente) che addirittura con DM del Ministero della Giustizia 20 ottobre 2022, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 28 ottobre 2022 n. 253, sono oggi date le “Disposizioni relative alla tenuta, in forma automatizzata, di un registro dei provvedimento di applicazione delle sanzioni pecuniarie civili”.
Art. 96, 4° comma c.p.c.: “Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00”
Art. 118, 2° comma c.p.c. e 210, 4° comma c.p.c.: “Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice la condanna ad una pena pecuniaria da € 500,00 ad € 3.000,00……se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna ad una pena pecuniaria da € 250,00 ad € 1.500,00”.
Art. 283, 3° comma c.p.c.: “Se l’istanza prevista dal primo e dal secondo comma che precede è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta al pagamento in favore della cassa delle ammende di una pena pecuniaria non inferiore ad € 250,00 e non superiore ad € 10.000,00”.
Art. 473 bis 18 c.p.c.: “Il comportamento della parte che in ordine alle proprie condizioni economiche rende informazioni o effettua produzioni documentali inesatte o incomplete è valutabile ai sensi del secondo comma dell’articolo 116, nonché ai sensi dell’articolo 92 e dell’articolo 96” (dunque può essere sanzionato con la pena pecuniaria in favore delle casse delle ammende di cui all’art. 96, 4° comma c.p.c.).
Art. 12 bis, 2° e 3° comma d. lgs. 4 marzo 2010 n. 28: “Quando la mediazione costituisce condizione di procedibilità, il giudice condanna la parte costituita che non ha partecipato al primo incontro senza giustificato motivo al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio. Nei casi di cui al comma 2, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto, può altresì condannare la parte soccombente che non ha partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione”.
[1] Si tratta della composizione di due relazioni tenute la prima in Firenze, il 4 novembre 2022, organizzata dall’Unione nazionale delle camere civili e dalla Fondazione dell’Ordine degli avvocati di Firenze, e la seconda nel Convento di Camaldoli (AR), l’11 novembre 2022, in un incontro di studio organizzato dal Centro fiorentino di studi giuridici.
[2] L’art. 1, 17° comma, lettera d) della legge delega 26 novembre 2021 n. 206, prevedeva infatti semplicemente che: “….i provvedimenti del giudice e gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della Giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”.
[3] Questo dubbio, tuttavia, non esclude che il legislatore possa egualmente utilizzare uno o più provvedimenti interinali al fine di evitare le attività processuali defatigatorie.
È sufficiente che gli artt. 183 ter e quater c.p.c., invece di far riferimento ad una condizione vaga qual è quella della manifesta infondatezza, facciano riferimento a tecniche più rigorose riconducibili ai criteri dell’onere della prova.
Sostanzialmente, la riscrittura degli artt. 183 ter e quater c.p.c. si sostanzierebbe in ciò: se in prima udienza, o anche successivamente nel corso del processo, sussiste la prova dei fatti costitutivi e al tempo stesso non sussiste prova dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi fatti valere da chi si difende, e quindi in prima udienza l’attore ha provveduto all’adempimento degli oneri che la legge fa gravare su di lui ex art. 2697 c.c., e lo stesso non può dirsi per il convenuto, il giudice accoglie in via provvisoria la domanda e condanna il convenuto a quanto dovuto; al contrario, se in prima udienza, o anche successivamente nel corso del processo, manca la prova dei fatti costitutivi, oppure, anche in presenza della prova dei fatti costitutivi, v’è già la prova di almeno un fatto estintivo, impeditivo o modificativo, allora non può dirsi che l’attore abbia già l’evidenza del suo diritto, e dunque in quei casi il giudice respinge provvisoriamente la domanda; il tutto, con le medesime regole e le stesse logiche tecnico/giuridiche con le quali si pronuncia sentenza al termine della lite, e ciò anche con riferimento ad ogni altra valutazione de iure.
Se si fa questo, semplicemente si dà attuazione ad un principio secondo il quale, i tempi del processo vanno a danno della parte che ha bisogno della trattazione della causa.
Ed infatti, nel sistema attuale, la durata del processo è sempre addossata alla parte attrice, che per ottenere soddisfazione deve necessariamente attendere tutti i tempi dell’istruzione e della decisione; con questa riscrittura degli artt. 183 ter e quater c.p.c., i tempi del processo verrebbero al contrario ripartiti fra attore e convenuto in base a chi abbia bisogno della trattazione della causa; inoltre i provvedimenti anticipatori qui delineati non chiuderebbero il processo come oggi invece si prevede, poiché, tutto al contrario, il processo proseguirebbe dopo la loro pronuncia per l’accertamento a cognizione piena dei diritti e delle eccezioni, così evitando d’essere tacciati di incostituzionalità; e ciò nonostante, infine, questi provvedimenti in via breve non di meno svolgerebbero una funzione di contrasto agli abusi, poiché è evidente che dopo la loro pronuncia i processi proseguirebbero solo se seri e non defatigatori.
[4] Così espressamente Cass. 5 settembre 1997 n. 8592.
[5] Resistono così alla estinzione del giudizio di rinvio tutte quelle pronunce “già coperte da giudicato, in quanto non investite da appello o ricorso per cassazione, in base ai principi della formazione progressiva del giudicato” (v. Cass. 18 gennaio 1983 n. 465; Cass. 17 novembre 2000 n. 14892), mentre niente di ciò si dà con la disciplina del nuovo art. 363 bis c.p.c.
Ancora, ove non vi fosse l’art. 393 c.p.c. verrebbe meno, ai sensi dell’art. 2945, 3° comma c.c., il permanere dell’effetto interruttivo della prescrizione dovuto all’esercizio della domanda giudiziale (v. Cass. 27 gennaio 1993 n. 986), ed inoltre l’art. 393 c.p.c. serve altresì per coordinare l’ipotesi dell’estinzione del giudizio a quella dell’opposizione a decreto ingiuntivo di cui all’art. 653 c.p.c. (v. Cass. sez. un. 22 febbraio 2010 n. 4071), esigenze tutte di nuovo inesistenti a fronte dell’art. 363 bis c.p.c.
[6] L’art. 473 bis 2, 2° comma c.p.c.: “Con riferimento alle domande di contributo economico, il giudice può d’ufficio ordinare l’integrazione della documentazione depositata dalle parti e disporre ordini di esibizione e indagine sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, anche nei confronti di terzi, valendosi se del caso della polizia tributaria”.
[7] CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 113.
Abuso d’ufficio e “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge”. In margine a Cassazione Sez. VI n. 37341/2022, osservazioni sul problema della integrazione della norma penale con l’ordinamento amministrativo
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Posizione del problema - 3. I fatti - 4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema - 5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale.
1. Introduzione
La sentenza in esame è di un certo interesse, perché riconosce che vi sia abuso d’ufficio nel rilascio di un permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore comunale e, in continuazione (art. 81 c.p.), nell’atto di rifiuto di accesso ai documenti, adottato al di fuori delle ipotesi in cui si potrebbe escludere l’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
In questo modo, la sentenza contribuisce a individuare le “specifiche regole di condotta” che oggi figurano nel nuovo testo dell’art. 323 del c.p., riformato dall’art. 23 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
L’esame della sentenza offre dunque l’occasione di riflettere sulla nuova versione, nella parte che più interessa il diritto amministrativo.
2. Posizione del problema
Oggi il testo dell’art. 323 è il seguente “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni” [i].
Come si vede, al centro della nuova norma figura l’espressione per cui l’abuso è in violazione di “specifiche regole di condotta”. Questa formula costituisce la parte essenziale dell’abuso e pertanto è fondamentale per intenderne la fattispecie. Pone all’interprete il problema di identificare con esattezza la norma violata. In questa prospettiva, la norma è chiara nell’escludere i “margini di discrezionalità” e dunque la giurisprudenza di esordio esclude il vizio di eccesso di potere; altresì, poiché l’art. 323 c.p. menziona regole “espressamente previste dalla legge”, si tende ad escludere tutte le norme secondarie e, talora, i principi[ii].
L’interpretazione prevalente, dunque, si va ispirando a una lettura restrittiva.
In questa prospettiva, che significa “specifica regola di condotta” ?
E quale norma dell’ordinamento amministrativo può venire a costituirla come “specifica”, integrandosi nella norma penale, con un certo valore e significato, restituendo all’abuso d’ufficio un senso compatibile con i principi dell’ordinamento penale e di quello amministrativo?
Sono i problemi dell’integrazione. Affiorano dal nuovo testo e sono ben esemplificati nei due casi particolari decisi dalla sentenza in commento.
3. I fatti
Un funzionario comunale rilasciava un permesso di costruire in sanatoria e poi rifiutava la domanda di accesso ad un soggetto terzo, controinteressato, poi “denunciante” [iii].
In particolare, quanto al primo fatto, il permesso veniva rilasciato in violazione dell’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale, in assenza di un piano di recupero e in contraddizione con un parere comunale interlocutorio, che consigliava di approfondire la questione.
Il permesso di costruire riguardava la costruzione di un portico, che ricade in una zona di “antica formazione”, nella quale, per l’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del p.r.g., l’edificazione è sottoposta alla adozione di un piano di recupero e ad un parere comunale. Nei fatti, il piano di recupero non è stato adottato e il parere manca (al suo posto c’è solo una sorta di parere sospensivo, che consiglia di approfondire la questione). Ne consegue, per la sentenza, che il permesso è adottato in “assenza” del piano e in assenza del parere, e, dunque, che è in “contrasto con le norme di piano”. Precisamente, risulta in contrasto con l’art. 13 delle norme tecniche e, di conseguenza, con l’art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001. Difatti, secondo la sentenza, la disposizione del piano regolatore “integra la disciplina di legge relativa alla concessione del permesso di costruire”. Si ricorda che nel testo unico dell’edilizia l’art. 12 è norma legislativa e prevede che “Il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.”
Si tratterebbe dunque di un caso di eterointegrazione, sul quale si tornerà, perché potrebbe rappresentare un problema, con più soluzione aperte, rispetto ai principi di legalità e di interpretazione della legge penale e della norma extrapenale.
Quanto al secondo fatto, il rifiuto di accesso era motivato per esigenze di privacy, ma in appello si accertava che “non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti”. Dunque, secondo la sentenza, non si applica l’ipotesi prevista dall’art. 24, secondo comma, lett. d), della legge n. 241 del 1990, che permette di escludere il diritto di accesso quando i documenti riguardino la “vita privata o la riservatezza”. Di conseguenza, l’atto di rifiuto che non risponde ai casi dell’art. 24 è “integralmente privo di una base legale”. La regola specifica che poi la sentenza ricava è che l’accesso era consentito, il che deriva dal principio per cui al di fuori del limite tutto è visibile, ai sensi dell’art. 22. Anche su questo aspetto si tornerà.
4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema
I problemi specifici che sorgono dal caso di specie sono in fondo comuni alle questioni decise dalle prime sentenze rese sul nuovo testo e manifestano tutta la difficoltà di identificare le “specifiche regole” utili a integrare la fattispecie dell’art. 323 c.p. Per esempio, la prima decisione nota è Cassazione sez. VI 8 gennaio 2021 n. 442, che sembra importante per i principi e i limiti che imprime all’abuso. Anzitutto, il fatto è costituito da un atto di un commissario straordinario che riorganizza una Ausl, riducendo una struttura da complessa a semplice, ma con l’effetto di demansionare il direttore della struttura; nella specie, la Cassazione stabilisce che non vi è responsabilità, perché l’atto in questione è discrezionale e, soprattutto, non viola una regola “cogente” e “puntuale”; più ampiamente, in obiter dictum, la Sezione stabilisce che la nuova fattispecie è più restrittiva di quella precedente, sottraendo al giudice penale la “inosservanza dei principi generali” e di “ogni fonte normativa di tipo regolamentare”, escludendo persino “il classico schema della eterointegrazione, cioé della violazione mediata di norme di legge interposte”. Questa prima sentenza della Cassazione fa dunque trasparire con immediatezza anche i due problemi che sono specifici alla decisione presa con la sentenza in commento.
Può la “specifica regola” essere costituita da un principio ?
Può la specifica regola di condotta essere costituita dalla eterointegrazione di una norma di legge che viene interposta ?
Per esempio, quanto ai principi e sempre osservando le prime decisioni, Cass, Sez. VI 15 aprile 2021 n. 14214 esclude la violazione dell’art. 97 Cost., nel caso di un concorso bandito dall’Università per il conferimento di un incarico, pur davanti ad uno “sbilanciamento” a favore di un candidato (cd. “favoritismo privato”), emergente da vari indizi nella redazione dei criteri e nella valutazione delle domande; la sentenza riconosce che ad essere violato potrebbe essere, in astratto, il principio di imparzialità, ma che esso non rientra nell’art. 323 c.p., perché nell’oggetto dell’art. 97 Cost. non sono contemplate regole di condotta.
Si pone dunque un problema di esatta identificazione della norma violata. Su questo punto, sembra pertinente Cass. Sez. VI, 1 marzo 2021 n. 8057. E’ il caso di un funzionario che affida un appalto senza gara, dichiarando un importo sottosoglia, che però veniva appositamente alterato, omettendo il calcolo di alcune componenti; in questo caso la Cassazione identifica la noma violata nell’art. 125 del codice degli appalti pubblici e quindi ne trae la violazione di una “specifica regola di condotta”.
Il problema emerso consente alcune osservazioni teoriche.
5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale
Come si vede, la giurisprudenza di esordio rivela tutte le difficoltà e le incongruenze della nuova norma. Ne coglie però lo spirito: quello di intendere l’abuso in un senso restrittivo. Quello della restrizione è un criterio utile per identificare la “specifica regola di condotta”, il più grande interrogativo dell’abuso odierno.
In questa prospettiva, il caso deciso dalla sentenza rappresenta un buon esempio. Il caso, come visto, pone due problemi specifici e distinti: il problema della eterointegrazione della specifica regola di condotta e quello del rapporto tra regola e principio. In comune ai due termini- regola specifica e principio- c’è il problema generale della integrazione della norma penale con un elemento extrapenale, che deriva dall’ordinamento amministrativo. Sullo sfondo, dunque, c’è un problema di interpretazione e di legalità, in senso sostanziale.
Si svolgono qui alcune brevi osservazioni, al solo scopo di mostrare la dimensione dei problemi e di far intravedere alcune soluzioni.
Aprendo il capitolo della integrazione in materia penale, bisogna separare il caso dell’art. 323 c.p. dalle altre specie di integrazione, come la norma penale in bianco o il caso dell’illecito penale che stabilisce il rinvio esplicito a disposizioni extrapenali, come regolamenti, atti amministrativi, leggi regionali, e, nel contenuto, richiama standard, criteri, soglie, parametri, ovvero misure integrative di un precetto già determinato dalla legge penale, nella misura ristretta riconosciuta dalla logica della prevalente giurisprudenza della Corte costituzionale, per cui l’integrazione è ammissibile solo se la norma incriminatrice rinvia ad una disposizione precisamente denominata e soprattutto solo se la norma penale determina il nucleo essenziale della condotta, mentre la disposizione diversa può solo determinare un particolare della condotta[iv]. In ogni caso, si tratta di un rinvio a un termine eterogeneo e quindi spesso presuppone un concorso di fonti, molto visibile per esempio nelle sanzioni amministrative, in cui però il fondamento costituzionale cambia, spostandosi dall’art. 25 Cost. all’art. 23 Cost., dove la riserva di legge è relativa.
Rispetto a queste figure, la specie giusta in cui inserire il caso delle “specifiche regole di condotta” del nuovo art. 323 è la categoria dell’elemento normativo extrapenale. E’ contemplato dalla stessa norma penale. La norma lo assume in sé, quale sua parte integrante, a costituire direttamente il precetto penale; è il caso dei fatti di reato che sono costituiti dalla mancanza di un provvedimento amministrativo o dalla violazione di un provvedimento amministrativo o infine dalla violazione di una norma amministrativa; per esempio i reati ambientali o la precedente versione dell’abuso, che prevedeva la “violazione di norme di legge o di regolamento”. Questo caso, dunque, è diverso dagli altri: mentre quelli visti prima designano un rinvio ad altro ordinamento e spesso provocano un concorso di fonti, questo caso, concettualmente, presuppone che la norma penale assuma in sé l’elemento extrapenale[v]. Questo elemento diventa una parte del precetto. Rappresenta una forma di integrazione o, talvolta, si vedrà, di incorporazione.
Il caso dell’art. 323 c.p. può dunque appartenere a questa categoria, con una precisazione: qui l’elemento che viene incorporato, l’elemento normativo extrapenale, è la specifica regola di condotta ed è di rango legislativo, perché l’art. 323 vuole “specifiche regole”, “espressamente previste dalla legge”. La norma dell’art. 323 c.p. sembra dunque conforme all’art. 25 Cost. e alla riserva assoluta di legge.
Può dirsi lo stesso dal punto di vista della determinatezza e del principio di legalità in senso sostanziale?
Qui l’interprete è sfiorato dal dubbio che l’art. 323 c.p. non abbia quella “autonomia precettiva” richiesta dalla Corte costituzionale per soddisfare il principio di legalità sostanziale (C. cost. n. 199/1993). Certo è che la nuova formulazione dell’art. 323 ha un difetto, perché allude a “specifiche regole di condotta” e le nomina senza indicarle: l’art. 323 non è autosufficiente. E infatti ha bisogno di una integrazione extrapenale, che si trae dalle norme dell’ordinamento amministrativo. Il che significa, sul piano dell’interpretazione, che la norma penale va integrata con la norma amministrativa, nel senso che “l’una non può vivere senza l’altra” (C. cost. n. 199/1993). Dunque l’art. 323 c.p. non è una norma autonoma e suppone una certa integrazione. Per questo lascia aperto un interrogativo di fondo: quale è la “regola specifica”?
E ancora: il suo essere specifica che senso o valore può acquistare nel momento della integrazione tra norme?
Le norma penale, in sé considerata, non dà una risposta a questo problema di integrazione. Pertanto, si può leggere questa integrazione non come relazione tra norme ma come relazione tra due ordinamenti, tra ordinamento penale e ordinamento amministrativo, considerando che il bene giuridico protetto è comune ed è l’art. 97 Cost.; dunque non resta che vedere come quella relazione si possa atteggiare e questo, secondo la teoria generale, può avvenire solo in due modi: come dipendenza o come indipendenza dell’ordinamento penale, ovvero, si vedrà, come integrazione o come incorporazione dell’art. 97 Cost.
Prima ipotesi, l’integrazione: se si ritiene che l’ordinamento penale sia dipendente dall’ordinamento amministrativo, è possibile tutelare l’art. 97 Cost. integrando l’ordinamento amministrativo nell’ordinamento penale e allora il giudice penale – per un principio di collateralità con l’ordinamento di riferimento- può ragionare come il giudice amministrativo e quindi può trasfondere i principi in regola specifica o trasfondere una regola amministrativa in una norma di legge, ovvero, nel caso deciso, può trasfondere in regola il principio di trasparenza oppure può trasfondere l’art. 13 del piano regolatore nell’art. 12 del Testo unico dell’edilizia, compiendo una eterointegrazione. Ovvero: la regola extrapenale vive nell’abuso come regola amministrativa, perché in ogni caso è un riflesso dell’art. 97 Cost.
Seconda ipotesi, l’incorporazione: se la relazione di base si atteggia a indipendenza dell’ordinamento penale, la norma penale protegge l’art. 97 Cost. a modo suo e quindi incorpora la norma amministrativa e la trasfigura, la rende omogenea, come se fosse una norma penale e, così, la assoggetta alla regola della stretta interpretazione e la determina come “specifica regola” dell’abuso. Il che significa che qui l’interpretazione deve generare sempre una regola che sia “specifica” nel senso che deve essere ben visibile, già in anticipo. Il che porta a determinarne il senso con un criterio preciso: quello di scoraggiare una lettura dell’art. 323 c.p. che faccia uso di una ulteriore eterointegrazione, come quella di una norma legislativa edilizia con una disposizione di p.r.g che è secondaria; e lo stesso può valere per il principio di trasparenza che diventa regola specifica dell’accesso. Una interpretazione del genere, in eterointegrazione ed in estensione, potrebbe risolversi in un risultato contrario al principio di legalità sostanziale: quello di non fare comprendere in anticipo quale sia il fatto punito dalla legge penale; ovvero, nell’art. 323, quale sia la “specifica regola” espressamente prevista dalla legge. Per questo motivo, sembra preferibile un’interpretazione che dia un risultato netto. Così, nella incorporazione penale, nella scelta e nella interpretazione della norma amministrativa e del suo ordinamento, par meglio identificare ed elaborare una regola che sia adeguata alla legge penale, una regola che dia il precetto della condotta, che si risolva in un preciso dovere giuridico, senza alternative; e non a caso l’art. 323 c.p. esclude la discrezionalità. Sarebbe solo questa la scelta interpretativa che l’incorporazione dell’art. 323 c.p. permette di realizzare. Ovvero, in altro piano, il margine di creatività insito in questa interpretazione, alla luce del principio di legalità sostanziale.
Quest’ultima tesi sembra a chi scrive maggiormente aderente al principio di legalità sostanziale, per un motivo molto semplice, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Nel principio, infatti, vi è tutta l’idea della determinatezza, un ’idea di precisione semantica e di rispondenza alla realtà, anche alla realtà normativa extra penale.
La lunga storia dell’abuso nelle sue precedenti versioni invita a questa prudenza ermeneutica.
[i] Sulla nuova fattispecie, limitatamente ai profili di diritto amministrativo, a livello monografico, v. S. PERONGINI, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020”, Torino, 2020, e, nella dottrina più recente, per una impostazione teorica del problema della responsabilità penale, v. G. BOTTINO, Il conflitto tra il legislatore e la giurisprudenza come causa della “burocrazia difensiva”, la responsabilità penale per “abuso d’ufficio” come paradigma, Il lavoro nelle pubbliche Amministrazioni, n. 2/2022, pag. 242 ss. In questa Rivista: v. R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio eclettico, Giustiziainsieme, 22 luglio 2020. A livello di studi e seminari, v. M.A. SANDULLI (a cura di), Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, Webinar del 13 luglio 2020.
[ii] v. C. cost. sentenza 8/2022: “La norma censurata, infatti, richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare margini di discrezionalità, nega rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere, con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale - specie nel raffronto con la "norma vivente" come disegnata dalle interpretazioni giurisprudenziali -, operanti, come tali, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi).”; v. anche Cass. Sez. VI 8 gennaio 2021 n. 424, meglio analizzata nel par. 4.
[iii] “in violazione dell'articolo 13 delle Norme Tecniche di Attuazione al P.G.T. del Comune di Marone, rilasciava indebitamente (e con tempi insolitamente rapidi, domanda del 5 febbraio 2015), il permesso di costruire in sanatoria n. 4979 del 23 febbraio 2015 a (OMISSIS), nonostante il parere sospensivo emesso dalla commissione edilizia nella seduta del 5 febbraio 2015 in ragione di una piu' attenta valutazione delle opere edilizie oggetto delle difformita'; - in violazione della L. n. 241 del 1990, articolo 22 perche' negava accesso alle pratiche edilizie delle quali il denunciante (OMISSIS) aveva richiesto copia, in mancanza di motivi ostativi, atteso che non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti, come confermato dalla sentenza del Tar Lombardia Brescia sentenza 009904/2016, rifiutava indebitamente un atto del suo ufficio, che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo, cagionando un ingiusto profitto a (OMISSIS), nel mantenere le opere edili abusive, e un danno ingiusto a (OMISSIS), consistito nel ricevere un ingiustificato e illegittimo diniego di accesso alla documentazione di cui aveva diritto di accedere e prenderne copia.”
[iv] v. C. cost. Sent. n. 199/1993, C. cost. Sent. n. 282/1990, C. cost. Sent. n. 58/75 e, di recente, C. cost. Sent. n. 5/2021, C. cost. sentenza n. 134/2019.
[v] Cfr. A. CIOFFI, Eccesso di potere e violazione di legge nell’abuso d’ufficio. Profili di diritto amministrativo, Milano, 2001, 38 ss.
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