ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Fra Confederazione continentale e Federazione europea: il futuro delle relazioni fra mondo slavo e Unione europea dopo la guerra in Ucraina
di Pier Virgilio Dastoli
Nella storia più recente dell’umanità ci sono stati alcuni leader che, pur essendo costretti a cedere al dominio della forza, hanno contribuito a cambiare il corso degli avvenimenti non solo per il loro paese ma per un insieme più vasto di popoli e di stati.
Fra questi leader c’è stato certamente Michail Gorbačëv che divenne segretario del PCUS dal 1985 e presidente del Soviet Supremo dal maggio 1989 e cioè cinque mesi prima della caduta del Muro di Berlino e della fine della “guerra fredda”.
In occasione delle annuali commemorazioni del 9 novembre 1989 pochi ricordano il ruolo determinante di Michail Gorbačëv nell’impedire che Berlino diventasse una nuova Budapest (1956) o una nuova Praga (1968) e che la fine della guerra fredda avrebbe potuto rappresentare il primo passo verso la costituzione della “casa comune europea” di cui parlò lo stesso Gorbačëv nel 1989 davanti al Consiglio d’Europa.
Così non è stato perché i leader europei non furono capaci di costruire al posto della cortina di ferro un solido sistema integrato per la sicurezza e la pace in Europa nel quadro della “confederazione” proposta a Praga da François Mitterrand nel 1989, che avrebbe dovuto unire le tre culture continentali: il mondo slavo, il mondo greco-romano e il mondo anglo-sassone e al cui interno avrebbe dovuto essere preservato il modello sovranazionale delle comunità europee in una prospettiva federale.
È stato così che dal dissolvimento dell’Unione sovietica è nata la Federazione russa governata dopo Michail Gorbačëv dall’autocrate Boris Eltsin e poi dal nuovo zar Vladimir Putin, che la prima vittima di questa situazione è stato il popolo russo e che i paesi dell’Europa centrale liberati dall’imperialismo sovietico hanno sviluppato nel tempo la convinzione che l’adesione alla NATO e all’Unione europea sarebbe stata lo strumento per garantire la loro sovranità nazionale.
Nonostante questa convinzione, la dissoluzione dell’Unione sovietica e la conquista o riconquista della democrazia e della libertà in Europa centrale hanno determinato il fatto storico e culturale, oltre che politico ed economico, della ricomposizione della frattura fra una buona parte del mondo slavo (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Bulgaria, Slovenia, Lituania e Lettonia, Croazia) ed i mondi anglo-sassone e greco-romano con l’adesione di questi paesi all’Unione europea a cui dovrebbe seguire il futuro ingresso degli altri Stati che appartenevano alla Federazione jugoslava (Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Macedonia del Nord).
Contrariamente alla Cina popolare, che rappresenta per l’Unione europea un “rivale sistemico”, il mondo slavo, il mondo greco-romano e il mondo anglo-sassone appartengono tutti e tre alla storia europea o per essere più precisi alla storia indoeuropea frutto di identità culturali multietniche e multireligiose che affondano le loro radici nei secoli anche se fra i tre mondi ci sono state fratture che sono state cause di guerre secolari, che hanno portato alla creazione – dopo la pace di Vestfalia nel 1648 e dal Portogallo al Mar Nero - dell’invenzione europea degli Stati-nazione con l’eccezione dell’impero austro-ungarico fino al 1918 e della “grande Russia” divenuta nel 1917 l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e poi l’impero sovietico e che hanno comportato la soppressione di una parte delle identità delle nazioni slave.
Vale la pena di ricordare che, fra gli obiettivi dell’integrazione europea il primo è stato la promozione della pace, consacrato all’inizio dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea. Non a caso, nell’ottobre 2012 è stato conferito all’Unione europea il Premio Nobel per la Pace, così riconoscendo il contributo dell’Unione alla pace ed alla riconciliazione fra i popoli, grazie al quale gran parte del continente è stato trasformato da un teatro di guerre a un’area di pace. Ma tale risultato, da tutelare e preservare quotidianamente, è considerato storico alla luce del passato del nostro Continente, diviso in due principali fasi.
Nella prima, alle radici filosofiche elleniche, che influenzano tutto l’Occidente, fanno seguito la pax e il diritto romano che uniscono gli antenati di tanti fra gli attuali popoli europei, plasmandone le coscienze giuridiche. Il cristianesimo poi, che condivide radici storiche con l’ebraismo, diffonde fra gli europei e fra tante genti che arrivano sul nostro continente le medesime norme morali riconoscendo ai sovrani l’autorità civile di tradurle in leggi, insieme agli istituti romanistici. La lingua latina, con quella greca (lingua franca la prima e koiné dialektos la seconda) – senza dimenticare il protoslavo che deriva dal protoindoeuropeo, l’antenato comune di tutte le lingue indoeuropee - permette, per secoli, la comunicazione a livello delle élites politiche e intellettuali; nutrite anche dagli innesti culturali arabo-berberi e dalle loro conoscenze, specie matematiche, geometriche e mediche. Per queste ragioni l’Europa medievale, nonostante le difficoltà di comunicazione e le costanti guerre intestine, viene ricordata come un universo culturale alquanto omogeneo.
Nella seconda le rotture religiose fra le componenti cattolica, protestante e ortodossa insieme a quelle politiche, i terribili e lunghi conflitti feriscono quest’unità europea e favoriscono l’affermarsi delle nazioni, con le loro lingue, il loro credo, le loro ambizioni e aspre rivalità. Le nuove unità statali rivendicano un principio di legittimità autonomo, dando vita a nuove forme di governo e di autorità in Europa che si combattono per il predominio, durante secoli di conflitti ovunque nel mondo dove si contendono i domini coloniali. Le potenze dell’Europa divisa, alternando le alleanze e guerreggiando, puntano a conquistare il primato ciascuna per sé.
In quei tempi, l’idea dell’unificazione europea - con rare eccezioni di qualche filosofo o pensatore illuminato - era appannaggio di chi intendeva imporre la sua egemonia o il suo imperialismo sugli altri, sconfiggendoli e conquistandone i territori. Il culmine di questa disastrosa deriva plurisecolare degli Stati nazione sono state le due guerre del ventesimo secolo, definite “mondiali” per la dimensione devastatrice.
Eppure, gli stessi fermenti e le tragedie che ci hanno diviso e contrapposto hanno finito, a ben vedere, per creare un ulteriore legame perché hanno coinvolto tutte le popolazioni europee, per decine e decine di generazioni, nel medesimo turbinio. Così è stato durante la Seconda Guerra Mondiale con la resistenza combattente sotto diverse bandiere nazionali ma con unico spirito e un unico obiettivo. Ecco perché la ricerca della pace rappresenta il primo elemento distintivo dell’identità europea.
Come è avvenuto nel 1950 quando la Germania (occidentale) e la Francia hanno cancellato secoli di rivalità dopo la dissoluzione del Terzo Reich per avviare con l’integrazione comunitaria un processo di unificazione fondato sulla via della pace rivolgendosi agli altri paesi dell’Europa democratica e occidentale, così la sconfitta della Russia di Vladimir Putin - e dei suoi complici in Bielorussia, in Cecenia, in Kazakistan, in Crimea ma anche in Armenia - dopo l’invasione dell’Ucraina dovrà aprire la strada ad una Conferenza sulla pace e sulla sicurezza nel continente europeo sul modello degli accordi di Helsinki del 1975 (Helsinki-2) ricomponendo la frattura fra tutto il mondo slavo con i mondi greco-romano e anglo-sassone - così come la ripresa e l’approfondimento del dialogo interreligioso fra le religioni monoteiste e fra esse e la cultura umanista - nel quadro della Confederazione auspicata da François Mitterrand a Praga nel 1989 al cui interno dovrà essere rafforzata - attraverso un processo costituente - l’unità politica fra i paesi ed i popoli pronti a rinunciare ad illusorie sovranità assolute per condividere un progetto secondo un modello federale fondato sul rispetto dello stato di diritto.
Questo processo parallelo di cooperazione sul continente europeo dovrà essere rafforzato dal ritorno alle dimensioni transnazionali del popolarismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale a cui si è aggiunto negli ultimi quarant’anni il movimento ambientalista all’interno di uno spazio pubblico che garantisca il libero confronto fra la democrazia rappresentativa, la democrazia partecipativa e la democrazia di prossimità.
Iniziativa con Salvatore Borsellino all’IC “Vittorio Alfieri” di Crotone per il progetto “I colori della legalità”
Nella mattinata del 7 aprile, si è svolta presso l’IC “Vittorio Alfieri” di Crotone un’iniziativa, inserita nel progetto “I Colori della legalità”, afferente all’Educazione civica; la presenza dell’ing. Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino, ha sostanziato e arricchito con un’altissima testimonianza umana e civile i contenuti del percorso didattico sviluppato dalle classi III sez. D e B.
Dopo i saluti istituzionali da parte della dirigente, prof.ssa Gisella Parise e della referente della commissione di Educazione civica, prof.ssa Giusy Lauro, il prof. Romano Pesavento, promotore dell’evento, ha illustrato gli aspetti fondanti dell’UDA “I colori della legalità”.
Il progetto consiste, in una prima fase, nel presentare agli studenti dell’infanzia, della scuola primaria, della scuola secondaria di primo grado i contenuti della cittadinanza responsabile e della legalità, mediante la conoscenza dei protagonisti della società civile italiana e la riflessione sul loro sacrificio. Comprendere i valori della legalità e della cittadinanza responsabile attraverso lo studio della figura e dell’operato dei protagonisti della legalità costituisce l’obiettivo finale del progetto; nella fase conclusiva, prevista per giorno 23 maggio, Giornata nazionale della legalità, verranno intitolate le aule scolastiche a un protagonista della legalità; inoltre ciascun ambiente scolastico degli studenti verrà impreziosito con i contributi grafici, testuali, poetici realizzati dagli allievi stessi.
Successivamente i referenti dei vari plessi hanno letto i nomi dei protagonisti della legalità assegnati alle varie aule scolastiche.
Gli studenti hanno lavorato con serietà e responsabilità, comprendendo perfettamente l’importanza dei valori rappresentati dalle illustri personalità cui hanno intitolato le loro aule e proponendo una serie di contributi personali veramente di pregio: cartelloni, poesie, power point, l’albero della legalità e un plastico veramente realistico sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Emozionante, drammatico e intenso è stato il contributo dell’ing. Borsellino, il quale, dopo aver ampiamente elogiato l’impegno e la dedizione che hanno manifestato gli studenti nel realizzare tanti elaborati e manufatti tutti dedicati alla commemorazione dei due giudici Falcone e Borsellino, ha raccontato diversi aspetti privati e pubblici del fratello, proprio per spiegare ai giovani quanta determinazione e amore per le istituzioni e la sua gente lo avessero guidato alla ricerca appassionata della verità e condotto anche al sacrificio estremo, considerato un viatico tragico, ma inevitabile in funzione di un riscatto o una reazione civile della nazione intera rispetto allo strapotere della mafia. L’ing. Borsellino ha ricordato la scelta coraggiosa e amorevole della madre di piantare nel luogo in cui era esploso l’ordigno fatale per il giudice e la sua scorta un ulivo proveniente da Betlemme perché un simbolo di pace campeggiasse lì dove la violenza e il crimine contavano erroneamente di spadroneggiare impunemente. Oggi persone di ogni età rendono omaggio a quell’albero e a quanto rappresenta: chi lascia un oggetto personale; chi un pensiero perché la gratitudine e l’amore nei confronti dei servitori veri dello Stato non moriranno mai. Tutte le volte in cui ritorna nella città natale, Palermo, Salvatore Borsellino si reca dal “suo” albero, l’emblema di Paolo, l’emblema della giustizia.
Ha rivolto un appassionato appello ai giovani perché amino la giustizia e perseguano l’onestà; con amarezza ha rievocato gli episodi in cui indifferenza e sospetto erano stati alimentati appositamente per screditare le indagini condotte dal pool. Molti aspetti della società attuale lo impensieriscono e lo turbano, crede ancora nell’affermazione della verità e spera che l’agenda rossa di suo fratello venga ritrovata per far luce su tanti enigmi della storia italiana. Continuerà a dialogare con i giovani perché ha molta fiducia nelle nuove generazioni ed effettivamente, a giudicare dalla commozione e la partecipazione manifestate dagli studenti dell’IC “Vittorio Alfieri”, siamo certi che molti seguiranno le orme della cittadinanza attiva e responsabile.
Machina delinquere non potest*
di Costanza Corridori
Quarta rivoluzione industriale: il dominio della digitalizzazione e dell’automazione. L’intelligenza artificiale entra nelle nostre vite e nei vari ambiti della società: che impatti può avere nel mondo del diritto penale?
Cosa significa intelligenza? Esiste una differenza tra un cervello elettronico e uno umano? Cosa accadrebbe qualora un robot causasse la morte di un individuo? L’algoritmo può commettere illeciti? Chi ne risponderebbe penalmente?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che tale articolo mira a sottolineare. Nonostante la rapidità del progresso tecnologico ci permetta oggi di affrontare tematiche come le auto a guida autonoma, i robot chirurghi e le chatbot, il diritto (soprattutto in ambito penale) non è ancora riuscito ad adattarsi al cambiamento culturale: non esistono normative idonee a disciplinare la responsabilità penale in caso di reati commessi dall’intelligenza artificiale.
I rischi sono molti, soprattutto per i diritti fondamentali degli esseri umani: per questo, l’articolo mira a fornire un’informazione generale sull’evoluzione storico-tecnologica realizzatasi fino ad oggi in tema di intelligenza artificiale, per poi passare alla trattazione della tesi di Gabriel Hallevy, che ha come obiettivo l’introduzione di una terza categoria giuridica (la personalità elettronica) da affiancare alla persona fisica e giuridica. Infine, si affronterà specificamente il problema della interazione tra l’intelligenza artificiale e il diritto penale, principalmente in tema di responsabilità stradale, di responsabilità medica e di cybercrime “in senso ampio”.
Lo scopo dell’articolo non è quello di fornire una risposta univoca ai quesiti che, inevitabilmente, si pongono in relazione all’intelligenza artificiale. L’obiettivo è far riflettere il lettore e fornire un quadro di analisi chiaro per spingere il giurista verso un futuro non molto lontano in cui esseri umani e tecnologia collaboreranno allo scopo di migliorare la vita degli individui.
Sommario: 1. “Le macchine sono in grado di pensare?” – 2. Tra scienza e dato normativo: la problematica definizione dell’intelligenza artificiale – 3. La personalità elettronica: un terzo genus? – 4. Machina delinquere non potest – 5. I reati “robotici” – 5.1 Le self-driving cars e i reati di omicidio e lesioni stradali – 5.2 L’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario e la responsabilità colposa del medico in caso di errore – 5.3 I cybercrime in senso ampio realizzati attraverso l’intelligenza artificiale – 6. Il diritto penale della società del rischio
1. “Le macchine sono in grado di pensare?”[1]
Si tratta di una delle frasi più celebri di Alan Turing: il padre dell’informatica. Siamo giunti in quella che viene comunemente denominata la quarta rivoluzione industriale, dominata da robot e macchine pensanti. Tali apparecchi informatici ed elettronici ci supportano e aiutano nella quotidianità, dagli assistenti vocali come Alexa o Siri, agli elettrodomestici che comunicano tra di loro, passando per le vetture dotate di guida autonoma.
Se di punto in bianco tutti i sistemi dotati della cosiddetta intelligenza artificiale dovessero sparire, la società rimarrebbe paralizzata. Molte attività, prima tipicamente manuali, sono state ora interamente automatizzate. Le macchine hanno sostituito gli esseri umani nel mondo del lavoro ma, al contempo, la tecnologia ha generato una richiesta continua di personale altamente specializzato che si possa occupare di realizzare ed educare l’algoritmo di machine learning contenuto all’interno di un software di intelligenza artificiale.
2. Tra scienza e dato normativo: la problematica definizione dell’intelligenza artificiale
Di recente capita sempre più spesso di assistere a conferenze di giuristi in cui si sente parlare di algoritmi, di digitalizzazione, di software e di automatizzazione, in cui si tratta di giudici robot, della integrale sostituzione degli avvocati con dei sistemi per il computer, ovvero di cybercrime, di chatbot e di deep-fake. Il mondo dell’informatica sta entrando nelle varie branche del diritto e non solo: in ambito sanitario si possono osservare robot che operano i pazienti sotto la supervisione del chirurgo[2] e algoritmi che possono suggerire al medico la migliore diagnosi e cura per il singolo soggetto. [3]
Sembra la descrizione di un mondo idilliaco in cui macchine intelligenti e esseri umani possono convivere supportandosi a vicenda.
Ma cosa succede se un veicolo autonomo dotato di intelligenza artificiale investe un pedone? Chi risponde se il robot chirurgo sbaglia l’approccio medico? E se una chatbot inizia a diffamare un utente su una piattaforma social?
Non stiamo parlando di film fantascientifici, ma di realtà attuali che presto il legislatore dovrà affrontare al fine di adottare una disciplina di diritto penale che sia idonea a tutelare i vari interessi in gioco.
La prima difficoltà riscontrabile dal legislatore e dai giuristi in generale risulta essere l’assenza di una definizione scientifica universalmente accettata di cosa sia l’intelligenza artificiale che comporta di conseguenza difficoltà di definizione normativa.
La data di nascita (convenzionale) dell’intelligenza artificiale è il 1955 quando il matematico John McCarthy introdusse tale concetto al convegno al Dartmounth College di Hanover, New Hamphsire,[4] e affidandoci alla definizione fornitaci dal matematico statunitense Marvin Minsky, anch’esso presente al convegno: l’intelligenza artificiale è “la scienza di far fare alle macchine cose che richiederebbero intelligenza se fatte dall'uomo.”[5] In realtà, l’evoluzione scientifica iniziò secoli prima, dall’abaco del 400 a.C., e proseguì oltre, fino ad arrivare al robot umanoide che forse verrà lanciato quest’anno da Elon Musk[6].
La straordinarietà dell’intelligenza artificiale è dovuta al fatto che tali sistemi hanno la capacità di interagire con il mondo esterno grazie ad un software basato su un algoritmo di autoapprendimento che trasforma gli input appresi dall’esterno in output permettendo alla macchina di migliorarsi autonomamente imparando dall’esperienza potendosi quindi discostare, in modo non sempre prevedibile, da quanto programmato dal suo creatore. L’oscurità dell’algoritmo gli garantisce la definizione di black box algorithm.
Nel mondo del diritto, queste difficoltà si riflettono a cascata, infatti, ad oggi, l’unica parvenza di testo vincolante risulta essere la Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo del 21 aprile 2021[7] che ha come obiettivo la correttezza, la sicurezza e la trasparenza dell’intelligenza artificiale dividendola in base a due livelli di rischio: intollerabile (e vietato), perché in contrasto con i valori dell’Unione Europea e ad alto rischio, permessa nel rispetto di alcuni requisiti necessari allo scopo di garantire la sicurezza nell’uso. La Proposta, però, inoltre, non tratta di aspetti di diritto penale afferenti all’intelligenza artificiale che ad oggi non viene disciplinata da nessuna norma specifica nonostante la stessa si stia facendo sempre più spazio in ambito processuale e sostanziale. Infatti, in fase di indagini, nelle operazioni polizia predittiva e di intercettazioni, l’intelligenza artificiale ricopre un ruolo di fondamentale ausilio per le operazioni di prevenzione degli illeciti e di raccoglimento delle prove; in fase di giudizio, l’intelligenza artificiale viene utilizzata (soprattutto negli Stati Uniti d’America[8] e in Cina) come sostegno e come sostituto del giudice nelle sue decisioni attraverso l’utilizzo di algoritmi per la valutazione della pericolosità sociale (non ancora ammessi in Italia per i limiti costituzionali dovuti al rischio di oscurità della motivazione e della non trasparenza della decisione); in sede di digitalizzazione della giustizia, l’intelligenza artificiale risulta risolutiva per lo scopo di velocizzare la ricerca di documenti e di facilitare l’accesso alle fonti; infine, in ambito di diritto penale sostanziale, l’intelligenza artificiale può rilevare come strumento, vittima o autore del reato (nel caso in cui venisse accettata la possibilità di riconoscere ai robot la personalità elettronica, di cui tratteremo a breve).
L’evoluzione porta con sé aspetti fortemente positivi ma al contempo, i rischi sono sempre dietro l’angolo. Proprio per questo, parlando di automazione è importante trattare del rapporto tra gli illeciti e l’intelligenza artificiale per comprendere chi debba essere considerato come penalmente responsabile per i reati commessi da tale tecnologia.
3. La personalità elettronica: un terzo genus?
Alla base di tale argomento sussiste una semplice e al contempo complessa domanda apparentemente estranea alle questioni giuridiche: cosa significa essere intelligenti? Le macchine possono realmente essere considerate tali? O si tratta di una mera razionalità connotata da un’assenza di libero arbitrio?
Le teorie di Gabriel Hallevy[9], un giurista israeliano, connesse all’ipotesi di istituire una personalità elettronica per i robot da affiancare alle comuni categorie dei soggetti di diritto (persona fisica e giuridica) al fine di affermare la sussistenza di una responsabilità penale in capo ai sistemi di intelligenza artificiale, vengono criticate[10] da questioni fondate essenzialmente sulla impraticabilità dell’analogia tra la mente umana e quella robotica, sul concetto di libero arbitrio e sull’effettiva coscienza e volontà di movimento posseduta da un sistema intelligente.
Secondo Hallevy le azioni poste in essere dall’intelligenza artificiale possono essere paragonate a quelle umane in quanto i robot sono dotati di una fisicità che gli permette di muoversi nello spazio e di modificare l’ambiente circostante e, inoltre, essi sono mossi verso un obiettivo; dunque, i robot sono dotati di autonomia e razionalità che gli consente di rappresentarsi e di volere un determinato risultato, In tal modo si va a riconoscere la soddisfazione dei requisiti oggettivi e soggettivi del reato. Considerando tale teoria positiva, sarebbe così possibile far rispondere direttamente l’intelligenza artificiale dotata di personalità elettronica delle azioni illecite che va a realizzare.
In realtà, per quanto l’algoritmo si basi sul machine learning (che permette al sistema di apprendere dall’ambiente e di modificare il proprio comportamento esteriore), allo stato attuale della tecnica, i robot sono fortemente vincolati all’algoritmo che li domina, non hanno possibilità di decidere in modo pienamente autonomo e cosciente le azioni da intraprendere. Risultano dunque entità determinate, e quindi l’elemento soggettivo riscontrato è solo apparente: comportarsi come un essere umano non significa essere un essere umano.
4. Machina delinquere non potest
Dunque, risulta veritiero il brocardo “machina delinquere non potest” (formulato sulla falsa riga di quello prima applicabile alle società)?[11] Può un sistema intelligente essere considerato responsabile per gli illeciti che realizza?
Ad oggi sembra possibile dare una risposta affermativa al primo quesito: i sistemi intelligenti non sono ancora abbastanza autonomi da poter essere considerati come responsabili delle proprie azioni. Questo non può però affermarsi come certezza per il futuro, infatti, vista la rapidità di evoluzione della tecnologia, non è possibile escludere che in pochi anni l’abilità delle macchine e la loro autonomia superi o equivalga quella dell’essere umano.
Nell’attesa, per i reati commessi dai robot intelligenti, che non possono essere considerati come titolari di diritti e di doveri e che dunque non possono essere soggetti al diritto penale, siamo chiamati a valutare le possibili forme di responsabilità in capo a soggetti umani e quindi in base agli attuali canoni normativi in tema di responsabilità penale: la sussistenza di una posizione di garanzia in capo ad un soggetto specifico, un nesso causale tra l’azione della persona fisica e l’evento realizzato dalla macchina e soprattutto, l’esistenza di un elemento soggettivo, almeno al livello della colpa, al fine di evitare di ricadere in forme di responsabilità oggettiva.
Ipotizzare una responsabilità in capo al programmatore o utilizzatore, se si procede sulla scorta di automatismi, sconta il rischio di violare il principio di personalità e colpevolezza della responsabilità penale, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione, ricadendo in inammissibili ipotesi di responsabilità oggettiva che il diritto penale non ammette. Dunque, risulta necessario analizzare le azioni del robot, i cui meccanismi sono spesso oscuri (come una black box), per valutare se le persone fisiche che lavorano e agiscono intorno, tramite e attraverso i sistemi intelligenti, possano nel caso concreto prevedere a priori la realizzazione dell’evento lesivo.
Sarà configurabile, ovviamente, una responsabilità di tipo doloso in capo al soggetto utilizzatore o programmatore che utilizzi o programmi il sistema intelligente allo scopo di commettere illeciti.
Più complesso il tema della responsabilità colposa dell’operatore, in quanto, al fine di evitare di ricadere in forme di responsabilità oggettiva, sarà necessario valutare la sussistenza di un controllo significativo del programmatore sull’operato della macchina. Infatti, in base all’articolo 41 co.2 c.p., l’azione autonoma dell’intelligenza artificiale rientra nel concetto di causa sopravvenuta che rompe il nesso di causalità tra l’azione di programmazione posta in essere dal creatore dell’algoritmo e l’evento lesivo realizzato dal robot. Dunque, la persona fisica risponderà solo se possiede, in concreto, il potere e il dovere di evitare l’evento (articolo 40 cpv. c.p.).
In generale, invece, nel caso di responsabilità colposa del programmatore e del produttore, qualora gli stessi abbiano messo in commercio un robot intelligente consapevoli dei suoi rischi senza fare nulla per impedirli, si applicheranno, non sempre in modo chiaro e lineare, i criteri mutuati dalla responsabilità da prodotto difettoso (Direttiva 85/374/CEE)[12]. Allo stesso modo, non risulta semplice individuare un unico soggetto direttamente responsabile, in quanto, alla realizzazione di ogni singolo sistema intelligente collaboreranno un numero consistente di programmatori, ingegneri, scienziati, produttori e società.
5. I reati “robotici”
Tali disquisizioni possono risultare apparentemente solo teoriche e senza risvolti pratici. Proprio per questo è auspicabile, adesso, entrare nel vivo dei reati e del diritto penale così da comprendere a pieno che impatto l’intelligenza artificiale possa avere nella vita degli esseri umani.
Focalizzando, quindi, la nostra attenzione solo su tre tipologie di reati “robotici” (l’omicidio e le lesioni colpose stradali, la responsabilità medica e i cybercrime in senso ampio) è già possibile astrattamente immaginare le ricadute imponenti che l’intelligenza artificiale può avere sui diritti fondamentali degli individui e sui beni giuridici tutelati dall’ordinamento.
5.1. Le self-driving cars e i reati di omicidio e lesioni stradali
Infatti, con i veicoli autonomi i dubbi relativi alla responsabilità per i danni arrecati da un’autovettura non guidata da un essere umano, risultano notevoli: la possibilità di un controllo ex ante ed uno realizzato dal “guidatore-passeggero” persona fisica, l’ipotesi di realizzazione di un algoritmo del rischio che scelga lui discrezionalmente quale bene giuridico tutelare maggiormente e il tema dell’affidabilità dei sistemi intelligenti (connesso alla fiducia che la collettività può dargli). Difatti le autovetture autonome possono essere suddivise in sei livelli di automazione (da “zero” a “cinque”).[13] Fino al livello “due” non si riscontrano particolari problematiche relative all’individuazione del soggetto responsabile per i reati di cui agli articoli 589 bis e 590 bis c.p. perché non sussiste alcuna sostituzione del guidatore da parte dell’intelligenza artificiale. Ciò perché, finché è presente un guidatore effettivo sul veicolo sarà lui il titolare dell’obbligo di prudenza, di controllo del veicolo e di rispetto del codice della strada e di conseguenza sarà lui a dover essere considerato come penalmente responsabile delle azioni di omicidio o lesioni gravi o gravissime dovute alla violazione del codice della strada. Le problematiche si iniziano a scorgere a partire dal livello “tre”, ossia le vetture semi autonome in cui parte delle attività normalmente poste in essere dal guidatore, vengono delegate all’intelligenza artificiale. In tal caso, il guidatore continua ad essere presente sul veicolo e di conseguenza sarà lui a dover essere considerato come responsabile ma risulta complesso valutare l’effettivo controllo sull’autovettura che il soggetto possa esercitare: si rischia infatti di ricadere in una mera fictio iuris. Al livello “quattro” si può finalmente parlare di self-driving car in quanto il guidatore interviene solo eventualmente in situazioni di rischio, tutto il resto è delegato all’intelligenza artificiale. A tale livello, considerare il guidatore come il soggetto responsabile comporterebbe un passaggio da una condotta attiva (di guida non conforme) a una condotta passiva (di omesso controllo sul veicolo autonomo). Infine, nelle autovetture di livello “cinque”, la figura del guidatore scompare del tutto, trasformandosi in un mero passeggero. Di conseguenza, qualora dovessimo giungere a tale livello di automazione, il legislatore dovrà necessariamente valutare nuove ipotesi di responsabilità o adattare le attuali norme sulla scorta, ad esempio, della responsabilità del produttore in caso di difetto del prodotto.
5.2. L’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario e la responsabilità colposa del medico in caso di errore
Passando all’ambito medico e sanitario, le scoperte tecnologiche permettono ai pazienti di riprendere la mobilità di arti paralizzati[14], di controllare il tremore del Parkinson e di mantenere sotto controllo i parametri vitali del soggetto al fine di somministrargli correttamente i farmaci. Inoltre, gli algoritmi intelligenti supportano il medico nelle sue decisioni e diagnosi. Ma in caso di errore? Le vigenti fattispecie criminose risultano idonee ad affrontare anche tali situazioni?
Infatti, i rischi di bias dovuti a dati discriminatori che si ripercuotono sulla salute dei pazienti sono notevoli e questi possono andare ad influenzare le decisioni del medico ledendo dunque i diritti fondamentali dei soggetti.
In caso di errori sanitari, basandoci sull’articolo 590 sexies c.p., per come interpretato dalla Sentenza della Cassazione Penale a Sezioni Unite n. 8770 del 22 febbraio 2018[15], l’operatore sanitario sarà esonerato da responsabilità nel caso di imperizia lieve in fase esecutiva nonostante il rispetto delle linee guida pubblicate ai sensi di legge e delle buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto. [16]
La domanda da porsi è quindi se esistano linee guida idonee a regolare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario. Purtroppo, ad oggi non sono presenti e infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel giugno del 2021 ha realizzato un report intitolato “Ethics and Governance of Artificial Intelligence for Health” [17] in cui spinge gli Stati ad adottare delle linee guida mirate per tali situazioni andando ad elencare i principi da dover rispettare al fine di tutelare i vari interessi in gioco. All’interno del documento, suddiviso in nove sezioni, viene fornita una definizione, di intelligenza artificiale e di big data sanitari, utile per individuare le principali applicazioni di tale tecnologia in medicina (come la ricerca, la gestione dei sistemi sanitari e il monitoraggio della salute pubblica). Vengono poi trattate le leggi e i principi (tutela dei diritti fondamentali, protezione dei dati personali, norme sull’utilizzo dei dati sanitari), anche di stampo etico, da dover rispettare nell’utilizzo della tecnologia innovativa. Infine, il report fornisce linee guida pratiche che dovrebbero essere seguite da parte di programmatori, ministeri della salute e operatori sanitari.
A seguito di tale analisi, l’OMS, nel rispondere alle domande sulla responsabilità del medico che si sia affidato al suggerimento proposto dal dispositivo intelligente, successivamente tradottosi in un errore, sottolinea le problematiche relative sia all’eccessiva limitazione sia all’eccessiva liberalizzazione dell’utilizzo dei sistemi intelligenti. Infatti, qualora si dovesse penalizzare il medico a causa di un errore dovuto all’essersi affidato al dispositivo intelligente, si limiterebbe fortemente l’evoluzione scientifica e tecnologica in abito sanitario che frenerebbe lo sviluppo di tali tecnologie in campo medico. Al contempo, qualora si giustificasse sempre il medico che pone in essere un’azione lesiva sul paziente, per il solo fatto di essersi affidato all’intelligenza artificiale, si causerebbe un’eccessiva automatizzazione delle scelte mediche.
Sarebbe dunque opportuno realizzare delle linee guida accreditate specifiche per l’intelligenza artificiale per far si che il medico possa affidarsi ad esse potendosi così muovere all’interno di binari stabiliti e certi per non rischiare di ricadere in responsabilità dovendosi affidare a linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali frammentarie e non aggiornate. Allo stato attuale sembra non esserci spazio per un’esenzione della responsabilità dell’operatore sanitario dovuta ad errore del sistema intelligente, in quanto non è possibile imputarla al robot essendo effettivamente un mero strumento nelle mani del medico; salvo, naturalmente, ipotesi di responsabilità da prodotto difettoso nel caso in cui i danni siano dovuti ad un difetto del software.
In tali due tipologie di reati (omicidio e lesioni personali stradali e responsabilità medica), il soggetto (guidatore o medico) non agisce con lo scopo di commettere un reato, ma l’evento lesivo si realizza comunque: bisognerà quindi valutare, per il guidatore, l’osservanza delle disposizioni dettate in materia di circolazione stradale, e per il medico, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziale. Solo nel caso in cui tali norme cautelari non vengano rispettate allora potrà essere ipotizzata una responsabilità colposa di tali soggetti.
5.3. I cybercrime in senso ampio realizzati attraverso l’intelligenza artificiale
Da ultimo, il tema dei reati informatici. La diffamazione e le fake-news rischiano di essere automatizzate tramite chatbot intelligenti che comunicano con gli utenti sui social network e imparano dai loro atteggiamenti: come avvenne nel 2016 con la chatbot “Tay – Thinking About You”[18] che attraverso il sistema di machine learning imparò dagli utenti della piattaforma “Twitter” a diffondere messaggi di odio e di discriminazione e per questo nell’arco di pochi giorni fu tolta dal mercato.[19] Inoltre, un fenomeno alquanto preoccupante riguarda il deep-fake, l’abilità di alcuni sistemi intelligenti di realizzare video falsi raffiguranti persone vere: possono consistere in falsi discorsi politici o in falsi video pornografici andando così a “spogliare” virtualmente un soggetto non consenziente. [20] È abbastanza evidente l’impatto che questo potrebbe avere sull’informazione e sulla vita personale delle vittime: una nuova frontiera del revenge porn. Difatti, il deep-fake è considerabile come una dual-use technology, in quanto può essere utilizzato sia per scopi leciti (come la realizzazione di film o videogiochi) che per scopi illeciti potendo rientrare in differenti fattispecie penali. Analizzando, però, attentamente l’articolo 612 ter c.p. punisce la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso del soggetto raffigurato, è facile rendersi conto di come la norma non faccia alcun riferimento ai contenuti non reali e dunque, nel rispetto del principio di tassatività della legge penale, le azioni di diffusione di immagini sessualmente esplicite senza il consenso della vittima ma realizzate attraverso la tecnica del deep-fake, nonostante siano comunque fortemente lesive della sfera intima del soggetto offeso, non potrebbero rientrare all’interno di tale fattispecie di reato. [21] Diametralmente opposta è invece la situazione relativa all’articolo 600 quater 1 c.p. che punisce la pornografia virtuale intesa come la realizzazione di video falsi raffiguranti minori andando ad anticipare la tutela della loro libertà sessuale. Infatti, tale fattispecie contempla la tecnica del deep-fake in quanto per video falsi si intendono anche le manipolazioni delle immagini e i fotomontaggi.
Dunque, sarebbe auspicabile un intervento legislativo che possa tutelare maggiormente le vittime di tali azioni lesive commesse con dolo (a differenza della responsabilità medica o per omicidio e lesioni stradali).
6. Il diritto penale della società del rischio
Concludendo, quando si sente parlare di tali sistemi, sembra sempre che riguardino un mondo lontano, futuro e inaccessibile. Invece, non è così. Il futuro è adesso ed è bene che si inizi ad affrontarlo. Il mondo dei reati robotici è già reale. Il diritto (come sempre) arriva in ritardo (e il penale in particolar modo): è normale, esso disciplina le situazioni concrete che di volta in volta si vanno a realizzare e non può ipotizzare situazioni future. Il legislatore rincorre i fenomeni che avvengono nella quotidianità e la funzione stessa del diritto penale impone che sia così, non essendo ammissibile in una democrazia occidentale avanzata l’utilizzo del sistema penale per “correggere” e “indirizzare” le condotte dei consociati verso scopi superindividuali. Il diritto penale, e quello punitivo latamente inteso, deve rimanere l’ultima ratio.
Infatti, per quanto possiamo girare la testa dall’altra parte e non pensare alle conseguenze (positive e negative) dell’evoluzione tecnologica, queste ci coinvolgono da vicino. Ed è necessario effettuare un bilanciamento in modo tale da non frenare lo sviluppo tecnologico e al contempo tutelare i diritti degli individui. Dunque, è prospettabile ipotizzare una legislazione penale basata sul principio della società del rischio.[22] Si tratta di un passaggio da una prospettiva ex post del diritto penale ad una prospettiva ex ante grazie all’individuazione di norme cautelari che devono essere rispettate dagli operatori che risulteranno in tal caso esenti da responsabilità perché si rientrerebbe in un’area di rischio consentito, tutelando così il progresso scientifico e l’essere umano.
*Cfr. in questa Rivista sul medesimo tema Algoritmi e intelligenza artificiale alla ricerca di una definizione: l’esegesi del Consiglio di Stato, alla luce dell’AI Act di Federica Paolucci dell’8 aprile 2022; La tecnologia amica del processo: dall’eredità dell’emergenza pandemica ai sistemi di giustizia predittiva di Roberto Natoli e Pierluigi Vigneri del 16 marzo 2022; e Il draft di regolamento europeo sull’intelligenza artificiale di Antonello Soro del 6 maggio 2021.
[1] A. M. Turing, “Computing Machinery and Intelligence,” Mind 59, no. 236, 1950 (pag. 433–460).
[2] L. Mischitelli, “Così i robot aiutano i chirurghi a operare meglio: progressi e prospettive della tecnologia”, in Agendadigitale.eu, 4 giugno 2021: https://www.agendadigitale.eu/sanita/cosi-i-robot-aiutano-i-chirurghi-a-operare-meglio-progressi-e-prospettive-della-tecnologia/
[3] M. Moruzzi, “Robot sanitari alla sfida autonomia: la svolta «quinta dimensione»”, in Agendadigitale.eu, 21 ottobre 2020: https://www.agendadigitale.eu/sanita/robot-sanitari-alla-sfida-autonomia-la-svolta-quinta-dimensione/
[4]J. McCarthy, M. L. Minsky, N. Rochester e C.E. Shannon, “A proposal for the Dartmouth summer research project on artificial intelligence”, Dartmouth College, Hanover, New Hamphsire, 1955: http://jmc.stanford.edu/articles/dartmouth/dartmouth.pdf .
[5] M.L. Minsky, “Semantic information processing”, Cambridge, 1969.
[6]S. Campanelli, “2022 anno del Tesla Bot, il robot umanoide da lavoro di Elon Musk”, Huffpost, 20/08/2021: https://www.huffingtonpost.it/entry/tesla-bot-il-robot-umanoide-metallico-di-elon-musk_it_611f881ae4b0e8ac791d153d.
[7] Commissione Europea, “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell'unione”, COM2021/206 final, Bruxelles 21/04/2021: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/txt/?uri=celex:52021pc0206
[8] State v. Loomis, 881 N.W.2d 749 (2016) 754 (USA).
[9] G. Hallevy, “The Criminal Liability of Artificial Intelligence Entities - from Science Fiction to Legal Social Control”, Akron Intellectual Property Journal: Vol. 4: Iss. 2, Article 1: https://ideaexchange.uakron.edu/akronintellectualproperty/vol4/iss2/1
[10] C. Piergallini, “Intelligenza artificiale: da ‘mezzo' ad ‘autore' del reato?” Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dicembre 2020, pag. 1745; Paragrafo 4.1 “Machina artificialis delinquere et puniri potest? Grundlinien di un (improbabile) diritto penale ‘robotico'”.
A. Cappellini, “Machina delinquere non potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale”, in Criminalia: Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, 2018, Pisa: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cappellini-Machina-delinquere-non-potest.pdf
M.B. Magro, “Decisione umana e decisione robotica un’ipotesi di responsabilità̀ da procreazione robotica”, in La Legislazione penale, Giustizia Penale e nuove tecnologie, 2020, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino, Torino: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/05/Magro-Giustizia-penale-e-nuove-tecnologie.pdf
[11] A. Cappellini, “Machina delinquere non potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale”, in Criminalia: Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, 2018, Pisa: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cappellini-Machina-delinquere-non-potest.pdf
[12]Direttiva 85/374/CEE del Consiglio del 25 luglio 1985 relativa al “Ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi”: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31985L0374&from=IT
[13] A. Cappellini, “Profili penalistici delle self-driving cars” (pag. 325 – 353) in “Nuove frontiere tecnologiche e sistema penale. Sicurezza informatica, strumenti di repressione e tecniche di prevenzione”, IX Corso di formazione interdottorale di Diritto e Procedura penale “Giuliano Vassalli” per dottorandi e dottori di ricerca. AIDP Gruppo Italiano, Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights – Siracusa, 29 novembre – 1 dicembre 2018. In Diritto penale Contemporaneo, Rivista trimestrale 2/2019. Paragrafo 2 (pag. 327 – 328) “Dalle auto semi-autonome a quelle totalmente self-driving: i “livelli” di automazione”.
I. Salvadori, “Agenti artificiali, opacità tecnologica e distribuzione della responsabilità penale”, Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2021, pag. 83; Paragrafo 3, “Dall'automazione all'autonomia: classificazione degli agenti artificiali”.
[14] M. B. Magro, “Biorobotica, robotica e diritto penale”, in D. Provolo, S. Riondato, F. Yenisey (a cura di), Genetics, Robotics, Law, Punishment, Padova University Press, 2014, pp. 510 s.
[15] Sentenza della Cassazione Penale, Sezioni Unite, n. 8770 del 22 febbraio 2018: https://www.biodiritto.org/ocmultibinary/download/3259/31842/8/ba374071a4619dfb28edf5d0587fb316/file/cass-pen-sez-un-2018-8770.pdf
[16] F. Cembrani, “Irresponsabilità penale del medico e qualità metodologica del sapere scientifico codificato medical and methodological quality of the scientific code”, Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc.2, 1 aprile 2019.
[17] WHO, World Health Organization, “Ethics and Governance of Artificial Intelligence for Health: WHO Guidance”, Ginevra, 2021: https://www.who.int/publications/i/item/9789240029200
[18] E. Hunt, “Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter”, The Guardian, 24/03/2016: https://www.theguardian.com/technology/2016/mar/24/tay-microsofts-ai-chatbot-gets-a-crash-course-in-racism-from-twitter
[19]E. Capone, “Le intelligenze artificiali fra razzismo e questione etica”, 06/04/2021, IT Italian.Tech, Parte del gruppo GEDI e la Repubblica: https://www.italian.tech/2021/04/06/news/le-intelligenze-artificiali-fra-razzismo-e-questione-etica-299491573/
[20] F.M.R. Livelli, “Deepfake e revenge porn, combatterli con la cultura digitale: ecco come”, in Network Digital 360 – Cybersecurity 360, 8 febbraio 2021: https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/deepfake-e-revenge-porn-combatterli-con-la-cultura-digitale-ecco-come/
[21] N. Amore, “La tutela penale della riservatezza sessuale nella società digitale. Contesto e contenuto del nuovo cybercrime disciplinato dall’art. 612 ter c.p.”, in Legislazione penale, 20 gennaio 2020: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/01/N.-Amore-Approfondimenti-1.pdf
[22] S. Arcieri, “Percezione del rischio e attribuzione di responsabilità”, in Diritto Penale e Uomo (DPU) – Criminal Law and Human Condition, Fascicolo 10/2020, 28 ottobre 2020, Milano: https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2020/10/douglas_DPU.pdf.
Ambiente e Costituzione
di Alessandro Cioffi e Rosario Ferrara
Con la legge costituzionale 11 febbraio 2022 n.1 (Modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente) l’ambiente ha fatto la sua comparsa nella prima parte della Costituzione. Le disposizioni costituzionali sono state modificate prevedendo che la Repubblica “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” (art. 9) e che l’iniziativa economica “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali” (art. 41).
La riforma può essere letta e studiata da un punto di vista tipicamente costituzionalistico, facendo specifico riferimento al dibattito che sinora si è svolto soprattutto intorno al significato dei nuovi termini inseriti nel testo dell’art. 9 Cost., la “biodiversità”, gli “ecosistemi”, “l’interesse delle future generazioni”, sullo sfondo della questione della discendenza dell’ambiente da idee eterogenee, come l’idea antropocentrica o l’idea ecologica (v. Dossier Senato n. 405/3 7-2 2022 -sul progetto di legge cost. n. 452/3- Modifiche agli artt. 9 e 41 Cost. in materia di tutela dell’ambiente, a cura del Servizio studi del Senato; nonché il dossier n. 396 del giugno 2021- Tutela dell’ambiente in Costituzione).
Può essere letta e studiata anche sotto un profilo più prettamente amministrativistico, focalizzando l’attenzione sulla dimensione dell’ambiente come interesse pubblico. A seguito dell’inserimento negli artt. 9 e 41 Cost., l’ambiente assume il rango di interesse primario e costituisce uno specifico problema di tutela. L’analisi, dunque, potrebbe tornare ad occuparsi di due fondamentali e note questioni. La prima: ambiente e paesaggio, con le reciproche distinzioni e implicazioni, alla luce del nuovo comma dell’art. 9 Cost.; questione che, vista la forte novità, è qui impostata secondo il metodo ad essa più rispondente, quello della “integrazione” (v. F. DE LEONARDIS, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost. e la riforma “programma” dell’art. 41 Cost.: suggestioni a prima lettura, in AC- Aperta Contrada, marzo 2022). La seconda: l’ambiente come limite della libertà economica; questione che, alla luce del nuovo testo dell’art. 41 Cost. e considerando la usuale forza insita nel limite, rivela una certa carica dialettica, e, quindi, sembra preferibile impostare secondo un’interpretazione ben consolidata (v. l’impostazione di M.A. SANDULLI, Tutela dell’ambiente e sviluppo economico e infrastrutturale: un difficile ma necessario contemperamento, in Riv. giur. ed., 2000, 2, 3 ss.).
Sotto il primo profilo, il tema è stato già trattato in questa Rivista nel saggio a due voci che ha espresso una profonda critica alla riforma (v. G. SEVERINI, P.CARPENTIERI, Sull’inutile anzi dannosa modifica dell’art. 9 della Costituzione, in Giustiziainsieme, settembre 2021). Il primato del paesaggio, in questo scritto, emerge in modo assai chiaro. Con esso, la distinzione del paesaggio dall’ambiente.
Questa prospettiva si rivela anche in giurisprudenza, per esempio in Cons. St. sez. VI 29 gennaio 2013 n. 535. Nel caso di specie, si trattava del vincolo paesistico imposto sull’Ambito meridionale dell’agro romano, a discapito di interessi privati e di un interesse definito “ambientale”; la decisione separa l’ambiente dal paesaggio e stabilisce che il paesaggio è l’interesse prevalente, perché è interesse “nazionale”, che ha rango primario, in quanto è fondato sull’art. 9 e, dunque, sulla prima parte della Costituzione.
Rispetto a questa tradizione, in tempi recentissimi, e sempre seguendo il filo della nostra giurisprudenza, la distinzione tra paesaggio e ambiente sembra lasciare spazio a una reciproca implicazione, che sembra molto visibile in Cons. Giust. amm. Sicilia 16 febbraio 2022 n. 215 (est. Immordino), sentenza non definitiva, che, nel caso di vincolo archeologico sulla Valle dei templi di Agrigento, rimette alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale siciliana n. 17 del 1994: leggendo in breve il presupposto della rimessione, e isolando il significato di “ambiente”, emerge il fatto che il vincolo in questione è un vincolo archeologico, che, però, può valere come vincolo paesistico, per il suo “valore ambientale”. E il valore ambientale, a sua volta, è ritenuto “speculare” all’insieme dei valori “culturali”, “estetici” e “urbanistici” del territorio stesso (v. par. 19.1 di Cons. Giust. Amm. Sicilia, 16 febbraio 2022 n. 215).
In altre parole: l’ambiente è il riflesso del paesaggio.
Del resto, l’ambiente, in senso figurato, è il paesaggio colto nel suo aspetto visivo, come ricorda la Corte costituzionale (v. Corte cost. sen. n. 378/2007).
Certo, l’ambiente può esistere ed essere concepito anche come bene giuridico autonomo e distinto (v. Corte cost. sen. n. 225/2009); e, a questo punto, avrebbe bisogno di un continuo bilanciamento con il paesaggio (v. G. MONTEDORO,Costituzione e ambiente. Effetti sulla divisione dei poteri di una revisione largamente condivisa, in Ac- Aperta contrada, 14 marzo 2022), secondo l’impostazione qui ricevuta, che assume il punto di vista di chi legge il tema alla luce di un principio di integrazione e di sostenibilità (ex multis: E. SCOTTI, Poteri pubblici, sviluppo sostenibile ed economia circolare, Il dir. dell’economia, 2019, 493; F. FRACCHIA, I doveri intergenerazionali. La prospettiva dell’amministrativista e l’esigenza di una teoria generale dei doveri intergenerazionali, in Il dir. dell’economia, 2021, 55; F. DE LEONARDIS, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost.… cit.; F. KARRER, Gli effetti della riforma dell’Art. 9 della Costituzione sulla pianificazione paesaggistica e territoriale- urbanistica: una prima interpretazione, in Ac- Aperta contrada, in corso di pubblicazione, marzo-aprile 2022).
Resta dunque aperto un interrogativo di fondo: quale sia il concetto di ambiente. Ad avviso di chi scrive, par meglio vedere l’ambiente come valore giuridico, per quel che vale come interesse. Specialmente, per la tutela che restituisce nel sistema.
La presentazione del volume Casi di diritto dell’ambiente (Giappichelli, 2021), avvenuta lo scorso 3 febbraio a Roma presso la LUISS, ha offerto lo spunto per raccogliere l’opinione al riguardo del Prof. Rosario Ferrara, curatore delvolume assieme a Francesco Fonderico e ad Alberta Milone. Il volume è suddiviso in quattro parti che seguono una progressione non casuale (Principi, Competenze, Procedimenti, Voci dall’Europa) e che raccolgono pronunce giurisprudenziali e commenti degli Autori (L. Aristei, M. Santini, P. Mascaro, A. Milone, F. Fonderico) nell’ambito di una cornice unitaria data dal nesso dell’ambiente con il diritto pubblico.
L’intervista al Prof. Rosario Ferrara è stata realizzata in occasione della presentazione del volume con la collaborazione di Alberta Milone e Maria Laura Maddalena.
A. CIOFFI Incontrando il Prof. Rosario Ferrara, che ringraziamo vivamente, la tentazione di una prima domanda che sia anche provocazione sull’idea di fondo è quasi inevitabile. Difatti, la selezione dei casi è già una scelta, è già un’idea; e un anticipo può venire al lettore scorrendo l’indice, ove s’incontra il primo titolo: Principi; titolo significativo, che evoca immediatamente la connessione del caso al sistema di tutela; del resto, in sintonia con il pensiero di Rosario Ferrara (v. R. FERRARA, Modelli e tecniche della tutela dell’ambiente: il valore dei principi e la forza della prassi, in Foro amministrativo, Tar, 2009, fasc. 6, 1945).
Un’ispirazione sottostante, e più forte, dunque, ci dev’essere e così viene la prima domanda:
L’ambiente -e il Volume- a quale criterio di ispirazione risponde?
R. FERRARA I casi sono stati scelti sia pensando ai temi in sé stessi sia all’utilità per i lettori: studenti e operatori (funzionari, avvocati, magistrati). Nel libro, è presente anche un richiamo alla giurisprudenza oltre confine, per segnalare che l’ambiente pone questioni che postulano soluzioni transnazionali.
Per ogni tipo di analisi di un settore giuridico si deve partire necessariamente dai principi, e il diritto dell’ambiente, in tema di principi, è ancora più rilevante [“Principi” è la prima sezione del volume- n.d.r.- nel suo discorso orale l’autore si diffonde anche sulle altre tre sezioni del libro- “Competenze”, “Procedimenti amministrativi in materia ambientale”, “Voci dall’Europa”].
Ad esempio, tra i principi del diritto dell’ambiente, vi è il principio di precauzione, che nasce in altro settore, ma, dopo essere stato sancito in materia ambientale, nell’Atto unico europeo, è stato esteso a molti altri settori. Condivido l’opinione di Federico Spantigati, che ha definito il diritto dell’ambiente come un “diritto sonda”. A mio parere il diritto dell’ambiente può definirsi come “il salotto buono del diritto pubblico”, nel quale nascono temi e istituti che, in seguito, tracimano in altri settori.
Per esempio, in tema di giustizia, fondamentale è stato il ruolo delle associazioni ambientaliste e delle associazioni consumeristiche, che hanno avuto il merito di aver portato ad evidenziare la necessità di innovare il sistema della giustizia amministrativa, configurato rigidamente, come hanno rilevato Franco Scoca e Alberto Romano, in funzione della tutela di situazioni individualistiche. Nell’attuale situazione di crisi della politica, e della legittimità dei tradizionali collettori degli interessi di tipo generale, come ha evidenziato Giorgio Berti, il movimento delle associazioni ambientaliste ha avuto un ruolo molto importante nel riconoscimento della tutela degli interessi sovraindividuali e nella elaborazione di nuovi istituti e concetti giuridici. Mi riferisco, ad esempio, al criterio della vicinitas, riconosciuto dalla “sentenza del chiunque” del Consiglio di Stato - con la nota straordinariamente attuale di Enrico Gucciardi - circa la legge ponte urbanistica, in base alla quale “chiunque … può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia…”; e, poi, la successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria del 1979, che ha approfondito il tema, confermando tale criterio. La vicinitas è un criterio nuovo, di conio giurisprudenziale. La legittimazione che deriva dalla previa qualificazione di un interesse viene costruita, infatti, non sulla base della qualificazione normativa, ma sulla base della qualificazione fattuale, che è data dal radicamento sul territorio di un certo soggetto collettivo.
Sempre in tema di principi, è necessario segnalare una importante lacuna del Testo unico ambientale: vi sono enunciati i principi di prevenzione, precauzione, chi inquina paga, ma non il principio di integrazione, che è fondamentale. È necessario anche ricordare che i Trattati europei, che sono la Costituzione di fatto dell’Unione europea e quindi degli Stati membri, impongono la tutela dell’ambiente, soprattutto, in forza del principio di integrazione, in base al quale le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono portare a riprocessare tutte le altre politiche [n.d.r. – per il discorso svolto nel testo sugli sviluppi del principio di integrazione v. anche R. FERRARA, La tutela dell’ambiente e il principio di integrazione: tra mito e realtà, in Riv.giur.urb., 2021, 12 ss.]. Ciò rende pertanto in qualche modo superflua la riforma costituzionale. Occorre tuttavia evidenziare che, a seguito della modifica degli artt. 9 e 41 della Costituzione, la Corte costituzionale, a mio parere, non potrà più affermare che gli interessi all’attività di impresa e alla tutela della salute e dell’ambiente sono pariordinati, come per esempio nella sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013. Sotto tale profilo la riforma può considerarsi, pertanto, condivisibile.
A. CIOFFI Quest’ultimo punto, il rapporto con la riforma costituzionale, costituisce un aggancio immediato alla seconda domanda. In particolare, riprendo un passo della prima risposta, che cade in taglio con la domanda che avevo in mente: il diritto dell’ambiente – si diceva- è “il salotto buono del diritto pubblico”; del resto, il Volume inaugura la Collana Casi e materiali di diritto pubblico (sotto la direzione di Ferrara stesso e di R. Cavallo Perin) e, non a caso, nell’introduzione si legge che il diritto dell’ambiente risponde ad una certa “unitarietà del diritto pubblico”, inteso senza limiti e senza ulteriori aggettivi.
Viene dunque una domanda che solo in apparenza è retorica, perché non è limitata la risposta che ne può venire, se è messa nella luce della riforma- dunque:
Il diritto dell’ambiente è diritto pubblico?
R. FERRARA Diceva Pellegrino Rossi, nell’800, che le “teste di capitolo” di tutte le branche del diritto si ritrovano nel diritto costituzionale; oggi potremmo dire che esse si trovano nel diritto originario e derivato dell’UE, che va studiato con una attenzione speciale. Tutti i processi decisionali passano, infatti, per il diritto dell’UE.
Ma il diritto pubblico è fondamentalmente unitario: questo è un fatto autoevidente che non necessita di essere dimostrato. È solo a causa delle necessità della didattica e dell’ampiezza assoluta della materia che esso viene distinto in varie materie (anche il diritto penale, ad esempio, rientra nel diritto pubblico). E il diritto pubblico, nel suo insieme, ha ad oggetto lo Stato, il funzionamento delle istituzioni pubbliche e i rapporti tra le istituzioni e le persone. Non a caso, ai suoi massimi livelli, esso costituisce una sorta di dottrina generale dello Stato.
Il diritto amministrativo, dal canto suo, è certamente un diritto “tecnico-funzionalizzato” (come sostiene la dottrina tedesca), ma è anche e soprattutto il vero diritto costituzionale. È per questo che lo storico Fioravanti ha affermato che gli amministrativisti sono i veri costituzionalisti, perché studiano il potere. Il diritto amministrativo è in realtà una importantissima dottrina dello Stato.
In questa luce, il diritto costituzionale ci interessa come diritto positivo ed è tanto più interessante quando ha un ancoraggio in un settore specifico (per esempio, Predieri, il territorio; Amato, il diritto dell’economia; Pizzetti, il diritto degli enti locali).
Al di fuori di questi ambiti, il diritto costituzionale esce dall’ambito del diritto positivo e diventa un discorso alto, di politica del diritto. Non è un caso che Alexis de Tocqueville, il teorico del pensiero costituzionale moderno, fosse un consigliere della Corte dei conti, un amministrativista puro. Per questa ragione, fu mandato a studiare il federalismo americano. Il suo saggio (“L’ancien régime e la rivoluzione”) è tutto costruito sulla base dei documenti amministrativi e dimostra, negli atti amministrativi, la tracimazione dell’Ancient régime, che sopravvive, anzi passa, attraverso la rivoluzione.
La lente dell’amministrativista, dunque, è quella che consente di comprendere il vero funzionamento delle pubbliche istituzioni. È per questo che oltre ai casi giurisprudenziali il libro dovrebbe forse contenere anche dei materiali, ovvero la dottrina, che pure concorre alla elaborazione del diritto pubblico.
In conclusione: non c’è alcun elemento di contrarietà all’esigenza di unitarietà del diritto pubblico.
A. CIOFFI La sensazione del lettore contemporaneo è che nel diritto dell’ambiente scorra un sottinteso o meglio una necessità: l’esigenza di giustizia. Dopo aver udito quest’ultima risposta, l’esigenza sembra trovare conferma. Dunque:
La giustizia climatica è la giustizia del futuro?
R. FERRARA Il clima è il fondamentale problema dell’ambiente, in quanto è la cartina di tornasole dello stato di salute dell’ambiente. L’espressione “giustizia climatica” è forse una espressione enfatica, ma in ogni caso la realtà è che si tratta del comparto più sensibile in cui il tema delle minacce e dei danni all’ambiente trova il suo elemento di esemplificazione più importante. Sia sotto l’aspetto dell’ambiente sano (come afferma la Costituzione belga, cioè un ambiente tutelato in sé stesso), sia sotto l’aspetto dell’ambiente salubre (che viene cioè in considerazione quando ci sia un danno arrecato al diritto alla salute, ovvero come una evoluzione del diritto alla salute).
Ha perfettamente ragione Fracchia, nel suo saggio sullo sviluppo sostenibile [v. F. FRACCHIA, I doveri intergenerazionali…cit. supra -n.d.r.], quando sostiene che l’ambiente deve essere considerato fondamentalmente come dovere e non solo come diritto. Il mutamento del clima e gli inquinamenti da CO2 portano conseguenze epocali sull’ambiente, che fanno sì che vi siano molte controversie giudiziali sul tema.
Tuttavia, il processo non deve essere il terreno elettivo in cui si risolvono questi problemi, in quanto la controversia giudiziale deve essere la risposta terminale a fenomeni di degrado assoluto, ma se si vuole salvare il pianeta si deve agire prima, a livello politico - di Stati e di istituzioni- e di cittadini e di imprese, per realizzare “politiche ambientalmente sostenibili”; del resto, la formula “sviluppo sostenibile”, è solo uno “slogan fortunato”, mentre sembra preferibile l’espressione “futuro sostenibile” [n.d.r.- espressione da inserire – dice Ferrara- anche nel patto globale per l’ambiente- v. R. FERRARA, Ambiente e salute. Brevi note su due “concetti giuridici indeterminati” in via di determinazione: il ruolo giocato dal “patto globale per l’ambiente”, Diritto e società, 2019, 281].
Il problema insolubile, in relazione alla questione climatica, è dato dal conflitto tra le ragioni del lavoro e quelle dell’ambiente - pensiamo al caso ILVA. Tuttavia, va segnalato che in occasione della Cop 21, a Parigi, il segretario generale dei sindacati europei, anziché difendere le ragioni del lavoro, disse: “non ci sono posti da difendere in un Pianeta morto”.
Ha perfettamente ragione. Il conflitto tra lavoro e ambiente non può essere risolto trovando una sintesi, perché non ci si può esimere da politiche severe, non oltranziste ma severe, di tutela ambientale. Bisogna ragionare in un’ottica intergenerazionale, di solidarietà nei confronti delle generazioni future. Su questo punto la riforma costituzionale appare debole, almeno rispetto alla Costituzione tedesca, che afferma che lo Stato assume la responsabilità nei confronti delle generazioni future, anche dal punto di vista civile e risarcitorio.
Sicuramente, ci sarà un contenzioso che potrà avere carattere alluvionale riguardo ai danni all’ambiente e ai danni alle persone causate dal degrado ambientale. Sarebbe importante che questo contenzioso non si limitasse alla tutela delle situazioni soggettive individuali, ma si occupasse di contestare le scelte sbagliate fatte a livello politico o amministrativo.
A. CIOFFI Un’ultima domanda, inaspettata e veramente conclusiva.
Colpisce molto quest’ultima risposta e specie il finale sulle “scelte sbagliate” e la giurisdizione; mi permetto quindi una domanda inattesa e un’ultima provocazione:
La giurisdizione amministrativa sulle scelte ambientali è giurisdizione oggettiva o soggettiva?
R. FERRARA Sul danno ambientale sarebbe stato molto meglio mantenere una giurisdizione di diritto oggettivo, di competenza della Corte dei conti. In ogni caso, l’oggetto della giurisdizione amministrativa, come insegnava Guicciardi e come sostiene Alberto Romano, è ad oggetto misto. Nessuno può contestare la tutela di situazioni giuridiche soggettive della persona, ma certamente la tutela ha un suo contenuto di oggettività. E certamente in alcuni casi l’interesse che qualifica la legittimazione al ricorso non è tanto la situazione soggettiva individuale ma l’obiettiva legalità dell’azione amministrativa. Spesso l’evoluzione del diritto passa attraverso “finzioni giuridiche”. È il caso delle associazioni ambientalistiche. È chiaro, infatti, che non è la previsione nello statuto della tutela ambientale che vale a differenziare l’interesse fatto valere, ma il fatto che l’associazione semplicemente agisce nell’interesse della legalità.
Al riguardo Scoca scriveva: si tutelano gli interessi superindividuali camuffandoli da interessi legittimi. Ma – come diceva Alberto Romano- la dilatazione eccessiva dell’interesse legittimo porta allo svuotamento della categoria.
Le comunità per minorenni devianti: efficace alternativa alla istituzionalizzazione?
di Santo Di Nuovo, Claudia Avanzato e Rossana Smeriglio
Sommario: 1. Premessa - 2. Alcuni dati sul collocamento in comunità - 3. Cosa si può fare in comunità? - 4. Quando una comunità è efficace? - 5. Prospettive future.
1. Premessa
Le comunità, ministeriali e del privato sociale, accolgono minori sottoposti alla misura cautelare prevista dall’art. 22 del D.P.R.448/88. L’ingresso in comunità può essere disposto anche nell’ambito di un provvedimento di messa alla prova o di concessione di una misura alternativa alla detenzione o di applicazione delle misure di sicurezza, che assumono per i minori di età carattere di residualità, lasciando spazio a percorsi sanzionatori alternativi.
Negli ultimi anni si sta assistendo ad una sempre maggiore applicazione del collocamento nelle comunità - che possono ospitare anche ultradiciottenni[1] - in cui è possibile contemperare le esigenze contenitive e di controllo con quelle educative, assumendo dimensioni strutturali e organizzative connotate da una forte apertura all’ambiente esterno.
Esistono contrastanti opinioni sulla effettiva validità della soluzione comunitaria, considerate da alcuni l’unica valida alternativa alla detenzione, da altri una soluzione di ripiego in mancanza di altre opportunità, contestandone la reale alternatività alla istituzionalizzazione.
Scopo di questo articolo è valutare quanto è diffuso il collocamento in comunità, con quali modalità organizzative e per quale tipologia di utenti. E presentare alcune riflessioni sulle condizioni alle quali può essere efficace.
2. Alcuni dati sul collocamento in comunità
Le statistiche forniscono un quadro, sintetico e aggiornato al 2021[2], dei minorenni e giovani adulti (fino ai venticinque anni) che, per provvedimenti di natura penale, sono presenti all’interno di comunità sia ministeriali che private.
Dai dati emerge anzitutto una netta differenza nella distribuzione delle comunità per natura giuridica. Si contano infatti 61 collocamenti in comunità ministeriali, con una media di presenze di 14,6 al giorno, contro 1707 collocamenti in comunità private con 952 presenze medie giornaliere.
Le comunità private si trovano in tutte le regioni italiane, il maggior numero in Lombardia (473), seguita dalla Sicilia con 202; le poche comunità ministeriali sono collocate in Emilia (36) e Calabria (25).
I collocamenti presso le comunità variano significativamente in relazione all’età, al sesso, ed alla nazionalità, nonché al motivo del provvedimento.
Il numero di collocamenti cresce in relazione all’aumentare dell’età: solo 2 ragazzi infraquattordicenni, 61 quattordicenni, fino a 518 di 17 anni. Gli ultradiciottenni sono 328.
Su 1480 collocati in totale, gli italiani sono 966: 896 maschi e 70 femmine; 496 di essi (51%) in seguito a misura cautelare, 232 (24%) per messa alla prova.
Gli stranieri sono 514 (480 maschi e 34 femmine), anche in questo caso circa la metà (49%) per misura cautelare, il 18% per messa alla prova. I ragazzi stranieri sono per lo più di nazionalità africana, le ragazze provengono dai paesi dell’area dell’ex Jugoslavia e dalla Romania.
Si registra una prevalenza dei reati contro il patrimonio e, in particolare, furti e rapine. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie.
I collocamenti in comunità presentano negli ultimi anni un andamento discontinuo, illustrato nella figura 1, con una diminuzione dovuto all’effetto della recente pandemia.
Figura 1 - Collocamenti in Comunità negli anni dal 2007 al 2020, secondo la nazionalità.
In continua crescita invece – tranne un calo nel recente periodo di pandemia - le presenze medie giornaliere, sia degli italiani che degli stranieri (fig. 2).
Fig. 2 - Presenza media giornaliera nelle Comunità (2007- 2020), secondo la nazionalità.
Una considerazione merita lo scarso investimento del pubblico, lasciando quasi totalmente campo ai privati convenzionati, che hanno ovviamente aspetti organizzativi, metodi educativi e background socio-culturale spesso profondamente diversi anche nello stesso territorio.
Vero che esistono dettagliate “linee guida” su come gestire le comunità[3] ma esse riguardano soprattutto aspetti burocratici. Pochi studi riportano in dettaglio le tipologie di intervento psicologico effettivamente seguite nelle diverse strutture.
3. Cosa si può fare in comunità?
Al di là dei dati statistici, la tecnica “narrativa” – metodologia in uso nella ricerca qualitativa[4] - può dire molto sul lavoro che viene svolto in comunità rieducative.
Raccontare le comunità per minori significa attraversare luoghi dominati da “passioni tristi” (come le definiva Spinoza), di identità in ombra e confinate in uno stato di attesa di un cambiamento non voluto e spesso temuto. Cambiamento, spesso radicale, che va compiuto in tempi brevi e con azioni programmate e finalizzate da altri.
La legge n. 184/1983, art. 2, c. 2, sancisce la temporaneità di un percorso comunitario, eppure, sempre più spesso, accade che il passaporto identitario in ingresso di ogni giovane abitante la comunità, racconta di storie scritte “a più mani”, autografate da più servizi, e che attendono di essere riscritte in uscita.
Il minore in comunità diventa serbatoio su cui canalizzare risorse e attenzioni degli operatori, oscurando l’importanza di un lavoro sociale a rete; che invece non guarda alla persona “con il problema” in quanto tale e non opera unilinearmente su di essa (in senso clinico, educativo, assistenziale), ma considera invece il problema come se questo fosse sempre “ripartito” all’interno di una rete di relazioni e pensa sempre come se la soluzione dovesse emergere ed essere concretamente praticata attraverso la stessa rete o parte di essa o attraverso una nuova rete potenziata alla quale l’operatore si relaziona[5]. Si torna insomma ad un primato delle relazioni: ma quali relazioni?
La comunità, luogo di confine tra appartenenze identitarie e costellazioni emotive è, per chi la abita, un territorio a cui non si vuole appartenere, è un tempo di vita imposto che ha scadenza quando il cambiamento voluto e desiderato da altri diventa realtà, è un’organizzazione ibrida che ha a che fare con compiti e obiettivi non sempre chiari e con uno strumento, la relazione educativa, spesso difficile da gestire e verificare.
Citiamo qualche esempio concreto.
G., giovane collocato nella comunità, chiede tempo: “In comunità mi trovo bene, credo nel ruolo dell’educatore che vuole aiutarci, però voi dovete darci tempo, tempo per “sistemarci”…
Tempo per sentirsi cambiati, tempo per sistemare i significati emotivi della propria storia, proiettati in uno spazio condiviso, estraneo e a tratti pericoloso definito comunità.
«Il senso del tempo e dei tempi (quelli per crescere) è un concetto distorto dall’esperienza di momenti affannosi e senza pensiero: perché per un bambino è difficile pensare su se stesso e sul proprio tempo di vita e può imparare a farlo solo se c’è qualcuno che pensa per lui, che prepara per lui un immagine di adolescente e di uomo con la quale lui stesso possa scontrarsi, adattarsi e, in fondo, confrontarsi»[6]
Ancora G. dice: “Mi sento come se avessi sempre il cellulare quasi scarico e devo decidere quale ultima chiamata fare. Sento di non avere più tempo…”
I percorsi comunitari per il minore sono narrazioni da riscrivere attraversando una lettura consapevole, dolorosa e molte volte agita della propria storia.
Per molti minori, il tempo trascorso nel silenzio dell’abbandono ha aspettato a lungo il suono di una sveglia che non è mai arrivato, riconoscendo nei propri vissuti laceri di rabbia l’ingannevole e bugiarda salvezza partorita dall’abbandono.
La comunità costruisce processi di rielaborazione delle esperienze negative che non avviene con la loro cancellazione, ma con la loro rivisitazione in un ambiente protetto in un’ideale continuità tra il passato, il presente e il futuro[7].
«L’idea di comunità come ambiente terapeutico globale dove ciò che svolge una funzione terapeutica è la vita quotidiana da intendersi come luogo “pensato” nella sua globalità per realizzare l’intervento riparativo e terapeutico stesso»[8] si scontra con l’immagine riflessa all’esterno di luogo di residenza distaccato dai luoghi/servizi di tutela e cura, a cui ogni minore è puntualmente chiamato a relazionare quanto accaduto, ignorando l’importanza della costruzione quotidiana di nuovi significati identitari dentro spazi di vita vissuti investiti da aspettative ed emozioni ambivalenti.
La comunità diventa ponte che segna il passaggio dall’intenzione al processo di cambiamento, che non è garantito dalla sola permanenza da “scontare” in una comunità, ma dal cammino che ogni minore intraprende attraversando fasi di costruzione e di ricostruzione, di pace e di tormenti.
Non è un percorso lineare, di inizio e fine, ma ciclico, dove ogni inizio (costruzione) può ricongiungersi ad un’altra fine (distruzione), ed è in questo continuo percorso tra estremi in conflitto, che la comunità diventa anello di congiunzione nelle rotture evolutive deputata a « […] saper valorizzare le aurorali diversificazioni di prospettiva nella lettura dei propri vissuti emotivi come vettori della costruzione di un significato mentale che si riverbera nelle modalità interattive nel modo esterno»[9]
Quali appartenenze identitarie la comunità consente di rielaborare?
Le appartenenze identitarie dei giovani abitanti la comunità sono solchi affettivi primitivi, sono vulcani quiescenti dalla natura primitiva e automatizzata, che segnano e tracciano il passaggio ai nuovi significati vissuti, perturbando la costruzione di nuove traiettorie esperienziali.
Agli occhi di un giovane abitante la comunità, non esiste nient’altro e nient’altro viene immaginato come alternativa, “l’appartenenza non si può cancellare”[10].
È difficile provare a levarsi, dal corpo e dalla mente, i primi contenuti affettivi ricevuti: creano solchi su cui scorre ogni nuova esperienza, cosicché tutto può essere ordinato e interpretato secondo un solo senso e significato. Fino a quando i solchi affettivi canalizzeranno entro lo stesso percorso tutte le esperienze di vita, ogni storia affettiva, relazionale e sociale porterà con sé sempre lo stesso copione emotivo.
Ed ecco che la scena si ripete, inceppandosi sempre allo stesso punto.
“Ma cosa pretendete? Che io cambi? A crescere con urla e coltelli lanciati addosso da una madre, come si fa a cambiare?” G. quei solchi li sente fin sotto la pelle e non gli è restato altro che auto-medicarsi con strumenti e mezzi trovati per caso sul suo cammino.
Il percorso di cambiamento comunitario, auspicato e progettato, si attrezza di strumenti per sorreggere il passaggio da una fase di elaborazione di esperienze e legami dolorosi a quella conseguente di vuoto, di mancanza, di assenza e la successiva di ricostruzione attraversando le difese dei momenti di resistenza al cambiamento.
La comunità chiede di cambiare legami e relazioni, e questo spaventa e fa fuggire molti giovani abitanti la comunità.
«L’alternativa è la distanza protettiva affermata a tutti i costi, grazie alla quale, probabilmente, alcuni di loro sono ancora vivi o sopravvissuti alle catastrofi che hanno attraversato»[11].
Ed ecco che la comunità diventa “altro” e significativo solco affettivo e relazionale, quando svolge una funzione protettiva e perturbativa al tempo stesso, quando gli educatori, svolgendo le funzioni di adulti coinvolti in una dimensione relazionale significativa con il minore, riescono a modificarne i modelli operativi interni. Nella consapevolezza non solo della storia di cui è portatore il minore, ma anche dei significati attribuiti dallo stesso alle figure protagoniste del suo percorso di crescita, si può avviare un processo di analisi introspettiva, degli incastri funzionali o disfunzionali che potrebbero generarsi tra narrazioni di vita, al fine di costruire nuovi canali interpretativi e nuovi copioni socio-emotivi trasformati in obiettivi (ri)educativi.
In definitiva, la comunità è il luogo in cui ci prende cura dei legami: ripensandoli e ristrutturandoli all’interno di un contesto istituzionale “diverso” da quello in cui essi erano stati vissuti e che avevano portato alla soluzione di vita deviante.
“Facciamo uno sforzo, cerchiamo di comprendere di più dei disagi e delle derive andando oltre le maschere, le maschere dei mostri e dei folli. […]. Le istituzioni hanno tempi lenti per il cambiamento: uscire dalle logiche difensive sia come servizi che come professionisti non è sempre facile e, se i minori e i giovani adulti che attraversano i nostri ambiti di intervento sono sempre meno comprensibili e le loro sofferenze meno decifrabili, è evidente che i nostri codici di riferimento e le nostre procedure operative siano messe in crisi. […] E' utile recuperare il significato dell'atto violento all'interno del suo contesto d'insorgenza, coglierne l'eco di rimando. Al contempo, riconsiderare la famiglia, il territorio e la comunità sociale quali risorse atte ad attivare percorsi inclusivi e riparativi. Ad aver cura dei legami»[12].
La domanda essenziale è: quale tipo di organizzazione relazionale la comunità deve attuare perché questo percorso di ri-significazione dei legami sia efficace?
4. Quando una comunità è efficace?
Se cerchiamo dati sperimentali sull’efficacia del collocamento in comunità, troviamo poche ricerche recenti specifiche.
In uno studio sulle comunità lombarde[13] la percezione dell’efficacia dell’intervento è risultata influenzata dalla percezione di un clima positivo all’interno della comunità, più che dal livello di problematicità antisociale dei minorenni coinvolti. Veniva però rilevato che “in quattro casi su cinque, il motivo del collocamento è l’applicazione di una misura cautelare. Le esigenze alla base di questi inserimenti sono dunque legate a motivi di sicurezza sociale o di natura giuridico procedurale, prima ancora che a valutazioni psicoeducative. Gli inserimenti d’urgenza, effettuati senza la possibilità di adeguata preparazione e spesso in assenza di una reale adesione dei ragazzi, comportano un elevato rischio di fughe” (p. 215).
Per ulteriori verifiche possiamo ricorrere agli studi relativi alla messa alla prova, per la parte che è attuata in comunità, circa un quarto dei casi[14]. I dati relativi all’ultimo decennio, fino al 2019, testimoniano che l’esito positivo si mantiene intorno all’80%, mentre il tasso di revoca oscilla fra il 6 e l’8%. In una ricerca sulle recidive è emerso che tra i minori messi alla prova il tasso di recidività a 6 anni è del 20% nei minori messi alla prova, contro il 31% di chi non aveva usufruito di questo provvedimento[15]. La situazione nei diversi contesti regionali appare profondamente diversa, sin dalle prime applicazioni dell’istituto[16].
Circa un decennio fa venne compiuta una ricerca[17] finalizzata a valutare l’efficacia dell’applicazione dell’istituto della messa alla prova, attraverso l’analisi di 115 progetti attuati nelle regioni Sicilia, Calabria, Basilicata. Risultò allora che la permanenza in comunità era applicata poco (19%) ed era riservata per lo più ai recidivi, agli autori di reati più gravi e ai casi particolarmente complessi per l’assenza di un contesto familiare adeguato. Gli operatori delle strutture coinvolte indicavano il peso incisivo delle modalità organizzative della comunità sulle esigenze educative: talvolta la comunità è in grado di “contenere” gli specifici bisogni dei ragazzi, talvolta risulta invece un’organizzazione poco flessibile per gli specifici scopi educativi. Registravano, inoltre, le difficoltà di moti adolescenti ad accettare restrizioni dentro una struttura di tipo comunitario. I magistrati minorili a loro volta osservavano dentro le comunità condizioni di ipo- o iper-controllo, che incidono fortemente sulla capacità di auto-regolamentazione del ragazzo, alimentando la sua dipendenza o le sue resistenze.
L’uso “residuale” della comunità per i casi non altrimenti gestibili, esita in una maggiore difficoltà nella gestione delle attività rieducative, ed impedisce una corretta valutazione comparativa fra l’efficacia del collocamento in comunità ed altre misure, applicati con casi meno “gravi”.
La ricerca clinica con metodi qualitativi può dirci di più sull’efficacia del lavoro di comunità di recupero. Essa è maggiore quando riesce a rielaborare e modificare il tipo di legami tipici della realtà esistenziale deviante, come si è visto nel paragrafo precedente. Ma questo va fatto contrapponendosi al tempo stesso al modello di rieducazione tipico delle “istituzioni totali” come il carcere, di cui in effetti deve costituire l’alternativa.
L’Istituzione totale, secondo Goffman[18], si appropria, in modo globale, del tempo e degli interessi di coloro che vi si trovino a vivere e offre loro in cambio un tipo particolare di vita sociale e di soddisfazione dei bisogni. Questo carattere totalizzante è indotto soprattutto dalla scomparsa della separazione abitualmente esistente tra le diverse sfere di vita della vita quotidiana: lavorare, instaurare e mantenere relazioni esterne, svagarsi, dormire. Tutto si svolge sotto lo stesso tetto e sempre con le stesse persone, altri ospiti o operatori che siano.
L’aspetto comune a queste istituzioni è manipolare i bisogni obbligando tutti a fare le stesse cose nel medesimo luogo, secondo ritmi prestabiliti e sotto la sorveglianza di addetti, al fine di garantire che venga perseguito il piano razionalmente designato per adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.
L’ospite è costretto ad alcuni cambiamenti radicali nella propria esistenza consistenti nel progressivo mutare della percezione soggettiva di sé, dell’immagine di sé e del giudizio degli altri che gli sono vicini. Gli ospiti dell’istituzione sono indotti a modificare la loro identità pregressa. “Spogliati dai propri ruoli sociali, dalle proprie abitudini e dai tipici modi di interagire con gli altri; sottoposti ad una contaminazione continua della propria sfera privata; rotta la relazione significativa con i propri atti e gesti; predefiniti i tempi e le modalità di soddisfazione dei bisogni individuali; al fine di poter resistere al processo di destrutturazione del Sé, i ricoverati non possono che adattarsi al sistema di vita dell’istituto e riconoscersi nelle definizioni altrui”[19]. Così acquisiranno una serie di “adattamenti secondari”, per mezzo dei quali tenteranno di procurarsi quei sostegni e quelle gratificazioni che possano consentire di pensare di essere ancora padroni della propria vita, capaci cioè di comportamenti autonomi. Prove di autonomia che però vengono spesso frustrate dalla organizzazione, e questo per condizione strutturale, al di là della buona volontà di chi gestisce la contingenza del ‘ricovero’. Ci possono essere situazioni estreme in cui la istituzione si comporta come un lager e trascura le minime garanzie di sicurezza anche fisica; e queste sono ‘devianze’, certamente da reprimere, che però non alterano la sostanza delle condizioni strutturalmente predeterminate.
In realtà la struttura organizzativa di una istituzione totalizzante rispecchia – per necessità intrinseca – una dinamica psicologica e sociale che è quella definita “costruzione sociale della realtà” nell’omonimo saggio di Berger e Luckmann[20]. Concetti ripresi anche nella psicologia sociale italiana che le ha applicate a diverse situazioni di istituzionalizzazione per minori[21]. Secondo questa analisi, ‘istituzionalizzati’ sono i rapporti umani – a prescindere dal contesto o dalla struttura in cui vengono realizzati – caratterizzati da una forte stereotipia dei ruoli e della percezione di ruolo, in cui i significati possibili di un “incontro” tra persone sono rigidamente predefiniti, insieme agli spazi e ai tempi i cui essi si verificano. Logico che le strutture totalizzanti per loro natura siano un luogo ‘concentrato’ di rapporti istituzionalizzati, e costruiscano una realtà come quella descritta da Goffman, a prescindere spesso dalla volontà degli operatori che vi lavorano.
Il rischio è che questa condizione di relazioni istituzionalizzate si riproduca anche fuori dalle istituzioni totali tradizionali (come il carcere) e finisca per permeare anche le organizzazioni comunitarie [22]. Il rischio è ancora più grave se in comunità vengono concentrati i casi più “difficili” per i quali non si trovano alternative di altro tipo.
Questo ostacolerebbe, anziché favorire, la rimodulazione dei contenuti di vita del giovane deviante e la scoperta di una prospettiva di vita genuinamente diversa, con legami e relazioni oggetto di una nuova narrazione.
5. Prospettive future
Degli aspetti citati bisognerebbe tener conto nel valutare l’efficacia rieducativa della comunità, al fine di implementare gli interventi sfruttandone al meglio le potenzialità realmente alternative alla istituzionalizzazione detentiva, e realizzare la ri-significazione della propria identità, e l’esperienza emozionale correttiva che costituiscono l’essenza del lavoro realizzabile nella dimensione contenitiva della comunità proposta da Bion[23].
Estendere il numero delle comunità per minorenni devianti, ampliando l’offerta di quelle pubbliche, finora troppo poche in relazione al fabbisogno; in modo da non considerarle il collocamento in comunità solo come opportunità residuale per i casi senza alternativa.
Formulare delle linee guida degli interventi psico-sociali da svolgere, rendendoli omogenei e scientificamente fondati, basati sulle buone pratiche verificate empiricamente.
Assicurare una formazione continua a tutti gli operatori e possibilmente inserire figure esperte nel campo delle relazioni umane per gestire le micro-conflittualità frequenti in questo tipo di strutture residenziali con utenti particolarmente “difficili”[24].
Sono alcuni dei provvedimenti utili per valorizzare appieno la risorsa comunitaria per l’intervento psicosociale sulla devianza minorile.
Gli autori:
Santo Di Nuovo – professore emerito di psicologia, docente di “Psicologia Giuridica e Criminologica” nell’università di Catania, presidente della Associazione Italiana di Psicologia
Claudia Avanzato – psicologa e psicoterapeuta nella Comunità alloggio per minori “Il Favo” di Caltagirone
Rossana Smeriglio – dottoranda di ricerca nell’Università di Catania, cultrice della materia “Psicologia giuridica e criminologica”
[1] “Le misure cautelari, le misure penali di comunità, le altre misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell'esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di età, sempre che, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative ovvero quando le predette finalità non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto. L'esecuzione rimane affidata al personale dei servizi minorili. Queste disposizioni si applicano anche quando l'esecuzione ha inizio dopo il compimento del diciottesimo anno di età (art. 24 D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 272, come modificato dall’art.5, comma 1, D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n 117, e, successivamente, dall'art. 9, comma 1, D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121).
[2] Dati acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM) riferiti alla situazione ed alla data del 15 dicembre 2021
[3] https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/Circ1_2013_VADEMECUM__comunita_privato_sociale.pdf; https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=4_48&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS62353#
[4] Riessman, C.K. Narrative Methods for the Human Sciences. Sage, Newbury Park 2008; Andrews M., Squire C., M. Tamboukou M., Doing Narrative Research, Sage, Newbury Park, 2013.
[5] Folgheraiter F. Interventi di rete e comunità locali. La prospettiva relazionale nel lavoro sociale, Erickson, Trento 1994.
[6] Bastianoni P., Taurino A. (a cura di), Le comunità per minori: Modelli di formazione e supervisione clinica, Milano, Unicopli 2009, p. 62.
[7] Secchi G., Lavorare con le famiglie nelle comunità per minori, Trento, Erickson, 2010..
[8] Winnicott D.W. The maturational process and the facilitating environment. Studies in theory of emotional development, International University Press, New York 1965.
[9] Carcano D., Il trattamento dei minori sottoposti a messa alla prova: griglia per i servizi psico-sociali, Cassazione Penale, 2012 n. 5.
[10] Secchi G., op. cit., p. 45.
[11] Bastianoni P., Taurino A. op. cit., p. 63.
[12] Pirrò V., Muglia L., Rupil M., La crisi della famiglia e le nuove forme di devianza minorile: oltre la maschera. GiustiziaInsieme, 21/04/2020.
[13] Castelli M., Di Lorenzo M., Maggiolini A., Ricci L., L’efficacia delle comunità di accoglienza, MinoriGiustizia, 2016, 4, 214-222.
[14] Nel 2019 la prescrizione di permanere in una comunità per tutto il periodo di prova o per una parte di esso, è stata disposta in 989 provvedimenti, circa il 25% del totale (https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/map_2019_18032020m.pdf)
[15] Aa. Vv., I numeri pensati – La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato, Quaderni dell’Osservatorio sulla devianza minorile in Europa, Gangemi Editore, 2013.
[16] Mestitz A. (a cura di), Messa alla prova: tra innovazione e routine, Carocci, Roma 2007.
[17] Di Nuovo S., Castorina M.G., Coppolino P., Malara M. e Taibi T., L’efficacia della messa alla prova quale procedimento educativo e socializzante, Minori Giustizia, 2013, 23, 1, 110-118.
[18] Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, tr. it. Einaudi, Torino 1968.
[19] Goffman E., op. cit., p. 212.
[20] Berger P.L., Luckmann T. La costruzione sociale della realtà. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1969 (ed. or. 1966)
[21] Carugati F., Casadio G., Lenzi M., Palmonari A., Ricci Bitti P.E. Gli orfani dell’assistenza, Il Mulino, Bologna 1973.
[22] Una riflessione sulla necessità di de-istituzionalizzare non solo le organizzazioni per natura “totali” (carceri, caserme, luoghi di cura fisica e mentale, ecc.), ma anche le strutture comunitarie formalmente “aperte” ma con relazioni interne istituzionalizzate, è presentata in una raccolta di articoli e saggi composti a partire dagli anni ’70: Di Nuovo S., Lamartina G., Palermo D., Piccini P.A., Dall’utopia al quotidiano: 40 anni di Prospettiva in Sicilia, ed. Cooperativa Prospettiva, Catania 2021.
[23] Gius E., Cipolletta S. Per una politica d’intervento con i minori in difficoltà, Carocci Roma 2004 (pp. 171-173).
[24] Di Nuovo, Castorina e al., op.cit., p. 118.
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