L’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea: qualche breve valutazione sulla legittimità, sulla proporzionalità della misura e sui suoi effetti non discriminatori
di Beatrice Rossilli
Sommario: 1. Il caso. Breve ricognizione dei sette quesiti rivolti alla Corte di Giustizia Europea dal giudice del lavoro di Padova. – 2. L’autorizzazione condizionata della Commissione Europea alla messa in commercio dei vaccini anti COVID-19 e la procedura accelerata prevista dal Regolamento (CE) 507/2006. Il potrei ma non voglio del Tribunale a sospendere gli effetti di un atto europeo. – 3. La compatibilità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 con il principio generale di proporzionalità… - 4.…e il principio di non discriminazione – 5. Valutazioni conclusive alla luce degli ultimi aggiornamenti normativi.
1. Il caso. Breve ricognizione dei sette quesiti rivolti alla Corte di Giustizia Europea dal giudice del lavoro di Padova.
L’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia in commento è stata disposta il 7 dicembre 2021 dal giudice del lavoro di Padova, nell’ambito del giudizio promosso ex art. 700 c.p.c. da un’infermiera che, essendosi sottratta alla somministrazione del vaccino anti COVID-19 aveva subito la sospensione dall’Albo professionale e la sospensione del rapporto di lavoro intrattenuto con la struttura sanitaria presso la quale risultava occupata, ai sensi e per l’effetto dell’art. 4 d.l. n. 44/2021.
È oramai notorio che il legislatore, con l’art. 4 del d.l. n. 44/2021 - convertito con modificazioni dalla L. n. 76/2021 - ha introdotto nell’ordinamento l’obbligo vaccinale[1] gravante nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario attuando, in questo modo, la rigorosa riserva di legge contenuta nell’art. 32 Cost. in materia di trattamenti sanitari obbligatori[2].
L’effetto che la legge riconduce all’inadempimento dell’obbligo vaccinale è la sospensione dall’esercizio della professione e il venir meno del diritto del lavoratore a ricevere la retribuzione o qualunque altro compenso o emolumento.
Il datore di lavoro, nel caso di specie, preso atto dell’inosservanza di tale obbligo e valutata l’impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni, anche inferiori, predisponeva nei suoi confronti il provvedimento di sospensione. Sul punto, è bene chiarire che nella versione originaria dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 – applicabile ratione temporis ai fatti in causa - diversamente dalla disposizione attualmente in vigore, il legislatore prevedeva al comma 8[3] una particolare ipotesi di ius variandi verticale in pejus (ulteriore rispetto a quelle già previste dai commi 2 e 4 dell’art. 2103 del c.c.), successivamente eliminata dal d.l. n. 172/2021 che con l’art. 1 comma 1 lett. b) ha sostituito l’art. 4[4]. Evidentemente, lo ius variandi sarebbe stato strumentale alla possibilità per il lavoratore di proseguire lo svolgimento della prestazione, deputandolo a mansioni che non implicassero contatti interpersonali o, comunque, il rischio di diffusione del contagio.
La facoltà del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse o inferiori, lascia intendere che, in un primo momento, l’intenzione del legislatore dovesse essere quella di limitare “ove possibile” l’ipotesi di sospensione del rapporto contrattuale (e della retribuzione) a casi limite.
Ritenendo illegittimamente sospeso il suo rapporto di lavoro, la lavoratrice impugnava il provvedimento di sospensione dinanzi al Tribunale chiedendo di essere riammessa in servizio e invocando, a sostegno del proprio ricorso, argomenti sia in fatto che in diritto.
Il giudice di prime cure, riservandosi di decidere, sospende il procedimento e rinvia gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sottoponendole ben sette quesiti.
Com’è noto, la competenza pregiudiziale di cui è titolare la CGUE si erge lungo due direttrici, vale a dire che i giudici nazionali possono porre alla Corte tanto questioni di interpretazione che questioni di validità del diritto dell’Unione[5]. In questo secondo caso il controllo di validità in sede pregiudiziale viene esercitato sugli atti posti in essere dalle Istituzioni europee.
Nell’ordinanza in commento, si riscontrano entrambe le tipologie di rinvio (rinvio di interpretazione/rinvio di invalidità).
Guardando ai quesiti trasmessi dal g.l. di Padova, si evince che la maggior parte di essi sono connessi al quesito “madre” avente ad oggetto il dubbio di validità dell’atto attraverso il quale la Commissione europea ha autorizzato la messa in commercio dei vaccini anti COVID-19.
Tuttavia, rinviando al prossimo paragrafo il doveroso approfondimento su quanto appena accennato, è ora opportuno passare al vaglio i quesiti contenuti nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale.
Il Tribunale chiede alla Corte di Giustizia di chiarire: 1) se l’autorizzazione condizionata emessa su parere favorevole EMA in relazione ai vaccini in commercio possa ancora essere considerata valida alla luce dell’art. 4, Regolamento n. 507/2006; 2) se possa ritenersi sussistente una deroga all’obbligo vaccinale valida nei confronti di quegli operatori sanitari guariti dal Covid-19 e, pertanto, divenuti immuni; 3) se, in ragione della condizionalità dell’autorizzazione dei vaccini, i sanitari obbligati possano opporsi all’inoculazione fintantoché non sarà accertato che non vi siano controindicazioni e che i benefici siano superiori a quelli di altri farmaci anti-COVID-19 oggi in commercio; 4) se sia legittima la sospensione dal posto di lavoro senza diritto alla retribuzione per il sanitario non vaccinato, o se sia necessario prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie, in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità; 5) se la verifica della possibilità di utilizzazione in forma alternativa del lavoratore debba avvenire nel rispetto del contraddittorio e, quando ciò non avvenga, se ai sensi dell’art. 41 della Carta di Nizza si configuri il diritto al risarcimento del danno.
Il giudice ha poi posto due ulteriori quesiti:
6) se la normativa interna che da un lato, permette al personale sanitario dichiarato esente dall’obbligo vaccinale di esercitare la propria attività purché nel rispetto dei presidi di sicurezza, e dall’altro, prevede la sospensione automatica senza retribuzione del sanitario che - divenuto immune a seguito del contagio - non voglia sottoporsi al vaccino senza indagini mediche, possa ritenersi compatibile con il principio di non discriminazione, il cui rispetto è imposto dal Regolamento n. 953/2021[6].
7) se la normativa nazionale che obbliga alla vaccinazione anche il personale sanitario che, sebbene proveniente da altro stato membro, si trovi nel territorio italiano ai fini dell’esercizio della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento, possa ritenersi rispettosa del Regolamento n. 953/2021.
2. L’autorizzazione condizionata della Commissione Europea alla messa in commercio dei vaccini anti COVID-19. Il potrei (?) ma non voglio del Tribunale a sospendere gli effetti di un atto europeo.
Una volta presentati i quesiti posti dal Tribunale è possibile riprendere le fila del discorso di sopra solo accennato. Ebbene, si è testé rilevato che la maggioranza dei quesiti possono ritenersi connessi al primo tra quelli elencati nel paragrafo precedente.
In effetti, il quesito relativo alla questione di validità dell’atto autorizzatorio emanato dalla Commissione, attraverso il quale essa ha abilitato la messa in commercio dei vaccini, appare essere la barriera da valicare, e la soluzione affermativa eventualmente predisposta dalla Corte di Giustizia in sede di competenza pregiudiziale configura, a tutti gli effetti, la fondamentale premessa per poter rispondere a molti degli altri successivi quesiti.
Detto in altre parole, se la Corte di Giustizia riterrà illegittima l’autorizzazione della Commissione, i quesiti connessi a tale questione di validità, saranno inevitabilmente assorbiti.
È bene ora soffermarsi sull’autorizzazione della Commissione e su quali siano le argomentazioni giuridiche sulle quali risultano essersi diramati i dubbi di validità avanzati dal giudice del lavoro di Padova.
Ai sensi dell’art. 3 del Regolamento (CE) n. 726[7] del 31 marzo 2004 si legge, al primo comma “Nessun medicinale (…) può essere immesso in commercio nella Comunità senza un'autorizzazione rilasciata dalla Comunità secondo il disposto del presente regolamento”.
Ciò significa che, alla luce della normativa europea sul punto, qualunque azienda farmaceutica desideri commercializzare un vaccino nel territorio dell’UE dovrà richiedere ex ante l’autorizzazione all’agenzia europea del farmaco (EMA), competente a valutare la sicurezza, l'efficacia e la qualità dello stesso[8].
Se l'EMA formula un parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione, allora la Commissione può procedere alla commercializzazione del vaccino sul mercato dell'UE.
Tuttavia, l’ordinamento sovranazionale si è dotato di uno strumento normativo, azionabile al verificarsi di particolari situazioni d’emergenza, che permette vengano rapidamente messi a disposizione - in tutto il territorio unionale - medicinali in grado di fronteggiarle.
Si tratta della procedura di autorizzazione condizionata all’immissione in commercio, contenuta nel Regolamento (CE) n. 506 del 29 marzo 2006.
Si badi bene, non si tratta di una procedura più asciutta o scarna rispetto alla procedura ordinaria, al contrario, si tratta di uno strumento la cui cifra è senza dubbio quella della celerità – funzionale a domare la circostanza emergenziale che ne presuppone e giustifica l’impiego[9] – ma dove gli ulteriori passaggi si realizzano in un secondo momento, vale a dire ex post rispetto all’effettiva diffusione del medicinale.
In circostanze di questo tipo, comunque, l’EMA svolge un esame accurato ed approfondito di tutte le prove fornite dalle aziende farmaceutiche istanti.
Malgrado non siano stati forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale,
l’art. 4 del presente Regolamento definisce le condizioni da rispettare affinché possa essere rilasciata l’autorizzazione all’immissione in commercio: a) il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulta positivo; b) è probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi; c) il medicinale risponde ad esigenze mediche insoddisfatte; d) i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superano il rischio inerente al fatto che occorrano ancora dati supplementari.
Allo stato, sono molteplici i vaccini per i quali risulta che la Commissione abbia autorizzato la loro immissione in commercio condizionata[10] per fronteggiare l’epidemia.
Nell’ordinanza in commento si evince che il nocciolo sul quale si fonda il dubbio di validità delle autorizzazioni vaccinali emesse dalla Commissione nutrito dal Tribunale di Padova e su cui dovrà pronunciarsi in sede pregiudiziale la Corte di Giustizia, insiste proprio su questo punto, vale a dire, l’effettivo perfezionamento delle condizioni previste ex art. 2 par. 1 del Regolamento n. 506/2006.
Per il giudice il maggior grado di incertezza si concentrerebbe sulla condizione di cui alla lettera c).
A fondamento delle sue perplessità menziona la presenza di cure alternative[11] rispetto a quelle vaccinali, già allora disponibili in ambienti ospedalieri, meno pericolose e aventi anch’esse un’alta efficacia di prevenzione.
Tra le condizioni contemplate dall’art. 4 del Regolamento, secondo la ricostruzione del giudice, questo tassello andrebbe a compromettere il verificarsi di quella che ammette il rilascio dell’autorizzazione solo in quanto il medicinale “risponde ad esigenze mediche insoddisfatte”. Per ciò deve intendersi, come spiega lo stesso Regolamento al par. 2, “una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o trattamento autorizzato nella Comunità”.
Tale dato, pertanto, andrebbe a minare la legittimità dell’autorizzazione condizionata e, secondo il Tribunale, ciò comporterebbe l’invalidità dell’atto di diritto dell’Unione Europea in questione ritenendo perciò necessario l’intervento della CGUE.
È bene chiarire che, in queste poche pagine, non si ha nemmeno l’ambizione di tentare di sciogliere questioni afferenti ad un dibattito complesso che neppure il Tribunale ha inteso fronteggiare. Un’operazione di questo tipo, infatti, merita evidentemente un’ampia conoscenza tecnica medico-scientifica e una confacente capacità critica che non possono essere eluse. Rimanendo, però, nel campo giuridico è possibile fare qualche considerazione in merito all’ordinanza di rinvio in commento.
La prima considerazione che si intende offrire concerne la scelta del giudice del lavoro di Padova di richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di potere cautelare riconosciuto ai giudici nazionali, e quale significato è possibile attribuirle alla luce del caso di specie.
Il Tribunale, infatti, prima di porre il primo quesito da rinviare alla CGUE, riconosce di non essere competente a dichiarare l’invalidità degli atti delle istituzioni comunitarie, salva la possibilità per il giudice nazionale di ordinare la sospensione cautelare fino a che la Corte non abbia statuito sulla questione di validità.
È utile forse ricordare, infatti, che quando viene operato un rinvio pregiudiziale e in attesa della pronuncia della Corte, questa riconosce alle giurisdizioni degli Stati membri il potere di sospendere non solo l’efficacia di provvedimenti nazionali fondati su atti dell’Unione[12] di cui la validità è incerta, ma anche il potere di sospendere l’efficacia di leggi ed atti dell’Unione[13] della cui legittimità comunitaria venga investita la Corte in via pregiudiziale.
Ebbene, si è detto più volte che la Commissione ha accordato l’immissione in commercio di tutti i vaccini tramite autorizzazione, ed effettivamente, tale atto ha natura di decisione.
Quale valore dare, dunque, alla scelta di richiamare tale giurisprudenza della CGUE?
Effettivamente, sebbene la mossa giocata dal Tribunale desti un po’ di curiosità, il motivo sembrerebbe essere uno e uno soltanto. Se – come emerge dalla citata giurisprudenza comunitaria - la condizione affinché il giudice nazionale attribuisca la tutela cautelare è che egli ravvisi dei seri dubbi di validità dell’atto comunitario, probabilmente, tale presupposto non risulta essersi realmente verificato.
È plausibile sostenere, infatti, che, proprio per questo, il giudice abbia voluto “passare la palla” direttamente alla Corte di Giustizia, informando che sebbene egli avrebbe potuto sospendere l’efficacia dell’atto, ha voluto comunque lasciare alla Corte la “responsabilità” di una scelta di questo tipo, rimandando tutti gli effetti del caso (giuridici e non solo) al momento in cui, semmai, essa dovesse pronunciarsi rispetto all’ invalidità dell’atto stesso.
A latere, un altro aspetto su cui riflettere è poi connesso all’effettiva capacità del giudice nazionale di sospendere l’efficacia di una decisione emessa dalla Commissione che, sebbene sia da qualificarsi come diritto europeo derivato, non ha natura di atto legislativo[14].
La seconda considerazione che qui si propone insiste, invece, sul dubbio di validità che aleggia sulla decisione della Commissione di autorizzare l’immissione in commercio dei farmaci attraverso la procedura condizionata.
Ora, staremo a vedere come si pronuncerà sul punto la Corte di Giustizia ma non può sottacersi il valore determinante che assume, nel caso di specie, l’ultimo capoverso del par. 1 dell’art. 4 del Regolamento n. 726/2004:“nelle situazioni di emergenza di cui all’articolo 2, paragrafo 2, può essere rilasciata un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata anche in assenza di dati farmaceutici o preclinici completi purché siano rispettate le condizioni di cui alle lettere da a) a d) del presente paragrafo.”
Ebbene, anche quindi volendo aderire alla posizione assunta dal giudice del lavoro di Padova rispetto alla mancata configurazione della condizione di cui alla lett. c) dell’art. 4, è anche vero che lo stesso Regolamento sembra prevedere una sorta di rimedio ulteriore finalizzato a fronteggiare emergenze sanitarie, quale evento determinante un grave rischio per la salute pubblica. Il par. 2 prevede la possibilità di rilasciare l’autorizzazione a patto che si verifichino almeno due essenziali condizioni (lett. a; lett. d) a fronte delle quattro elencate nell’articolo.
La presenza di queste due condizioni sarebbero sufficienti, pertanto, al rilascio dell’autorizzazione e nell’ordinanza di rinvio nulla viene eccepito sul punto dal Tribunale.
3. La compatibilità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 con il principio generale di proporzionalità…
Lo spazio a disposizione impone necessariamente di circoscrivere l’indagine sull’ordinanza di rinvio in commento e, pertanto, nel corso dei paragrafi successivi ci si soffermerà solamente su almeno altri due dei quesiti rivolti dal Tribunale di Padova alla Corte di Lussemburgo.
Come già indicato precedentemente, il giudice di Padova si è così rivolto: “Dica la Corte di Giustizia se, nel caso del vaccino autorizzato dalla Commissione in forma condizionata, l’eventuale non assoggettamento al medesimo da parte del personale medico sanitario nei cui confronti la legge dello Stato impone obbligatoriamente il vaccino, possa comportare automaticamente la sospensione dal posto di lavoro senza retribuzione o se si debba prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità”.
È forse doveroso, dapprima, svolgere qualche considerazione di ordine formale rispetto al quesito così rivolto alla Corte di Giustizia.
Quando quest’ultima viene adita in funzione della sua competenza pregiudiziale, essa è chiamata a fornire al giudice nazionale a quo, unicamente, la propria interpretazione sulle norme del diritto europeo[15] (norme dei Trattati; atti di diritto derivato; accordi stipulati dall’UE; principi generali del diritto dell’UE).
In altre parole, ciò significa che la Corte non può pronunciarsi sull’interpretazione di una norma del diritto interno né può pronunciarsi direttamente sulla compatibilità di una norma nazionale con il diritto dell’Unione, sebbene, tuttavia, sia oramai sdoganato anche un uso alternativo della competenza pregiudiziale.
Spesso, infatti, la Corte si è dichiarata competente a decidere questioni che sebbene formalmente vertessero sulla portata di un principio o di una disposizione del diritto dell’Unione, permettevano comunque di “mettere in discussione” una norma di diritto interno di cui si dubitava la conformità a quel diritto.
Sembra, tuttavia, che in questo caso il giudice di Padova si sia spinto un po’ oltre, ritenendo di potersi rivolgere alla Corte chiedendo che si pronunciasse direttamente sulla compatibilità di una norma interna con il principio generale di proporzionalità.
Ad ogni modo, non c’è dubbio che spetti esclusivamente alla Corte l’apprezzamento circa la ricevibilità o meno di tale quesito.
In questa sede, comunque, è utile svolgere qualche riflessione rispetto all’ipotizzato dubbio di compatibilità della disposizione in questione con il principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria.
Nell’ordinamento sovranazionale tale principio trova specifica espressione nell’art. 5 par. 4 TUE volto a stabilire che, in virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. In altre parole, i mezzi impiegati devono essere adeguati per il raggiungimento del fine voluto.
Occorre distinguere, tuttavia, il principio di proporzionalità ex art. 5 par. 4 TUE e il principio generale avente lo stesso nome, individuato dalla giurisprudenza e riconosciuto quale principio generale del diritto comunitario[16]. Da un lato, infatti, si ha il principio di cui all’art. 5 par. 4 che riguarda – come riportato- il rapporto tra le competenze comunitarie e quelle degli Stati membri. Dall’altro, invece, si ha il principio generale, affermatosi quale strumento di protezione dei singoli nei confronti delle istituzioni o delle autorità degli Stati membri, quando queste agiscono in un settore rientrante nel campo d’applicazione dei Trattati.
Più che differenziare questi due principi, si potrebbe dire, piuttosto, che il principio di proporzionalità enunciato ai sensi dell’art. 5 par. 4 sia una specifica applicazione del principio generale di uguale denominazione.
In tema di principio di proporzionalità è doveroso, inoltre, dare conto di un’ulteriore disposizione, contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la c.d. Carta di Nizza), l’art. 52 par. 1, la quale precisa che qualunque limitazione apportata all’esercizio dei diritti e delle libertà sanciti dalla stessa Carta, possa essere imposta esclusivamente solo laddove si mostri quale misura necessaria al raggiungimento di una “finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.
La giurisprudenza unionale[17] ha declinato il principio di proporzionalità attraverso tre passaggi: 1) il controllo sulla verifica dell’idoneità dei mezzi perseguiti rispetto allo scopo prefissato; 2) il controllo sulla necessarietà della misura (al presentarsi di due o più misure ugualmente idonee al raggiungimento dello scopo, è necessario ricorrere alla misura meno restrittiva); 3) il controllo sulla proporzionalità in senso stretto (si deve accertare che il sacrificio subito dalla posizione individuale giuridicamente tutelata sia proporzionata all’interesse pubblico perseguito dall’autorità).
Il principio esige, pertanto, che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposti ai singoli non eccedano quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici da perseguire e, in particolare che siano idonei e necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui.
Nel caso di specie, si potrebbe dire che il diritto su cui l’art. 4 del d.l. n. 44/2021 pone una limitazione è il diritto a svolgere le prestazioni o mansioni che “implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”[18].
Nel suo apprezzamento circa l’effettiva violazione del principio di proporzionalità perpetrata dal legislatore italiano, la Corte di Giustizia, pertanto, orienterà il proprio giudizio sulla base delle valutazioni sopraesposte.
Non vi sono dubbi che la questione in oggetto sia particolarmente delicata, come dimostra anche l’ampio contenzioso[19] che la norma ha ingenerato sin dalla sua entrata in vigore.
D’altronde, si tratta di valutazioni che la Corte dovrà effettuare non potendo esimersi dal confrontarsi anche con i dati e le informazioni di natura medico-scientifica, necessari per potersi esprimere in tema di idoneità e adeguatezza della misura (l’obbligo vaccinale) per il raggiungimento dell’interesse pubblico perseguito (la cessazione dello stato di emergenza sanitaria).
Bisogna evidenziare, inoltre, che il giudice fa riferimento al principio di proporzionalità relativamente alla misura sospensiva dell’operatore sanitario non vaccinato, qualificando quest’ultima come misura sanzionatoria e ipotizzando l’assenza di adeguatezza della sospensione proprio alla luce di una maggiore gradualità della misura sanzionatoria che, alla luce del quesito rivolto alla Corte ha ritenuto si potesse assicurare, a fronte del mancato rispetto dell’obbligo vaccinale.
Ebbene, tuttavia, sembrerebbe comunque scorretto riferirsi alla gradualità della sanzione disciplinare in quanto si ricordi che, proprio sul tema della qualificazione della sospensione quale misura sanzionatoria, il Governo –chiarendolo, poi, in modo ancora più esplicito nel d.l. n. 172/2021[20]– specifica che la sospensione dal lavoro debba intendersi quale conseguenza discendente dal mancato configurarsi del requisito essenziale per l’esercizio della professione.
Come si evince dalla lettura della norma, la sospensione si determina quale effetto legale del mancato adempimento all’obbligo vaccinale e non si assiste a nessun intervento disciplinare da parte del datore di lavoro.
4. …E il principio di non discriminazione.
Il terzo quesito che si intende analizzare è stato sollevato d’ufficio dal Tribunale di Padova. Sebbene il giudice ammetta nell’ordinanza che nessuna delle parti abbia invocato il Regolamento n. 953/2021[21], egli ritiene che tale atto normativo assuma, invero, un certo rilievo nella controversia e, difatti, chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sull’ipotetico contrasto tra l’art. 4 comma 11 del d.l. n. 44/2021 e il Regolamento (UE) n. 953/2021.
Il considerando n. 36 del citato Regolamento recita: “È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate”.
Il comma 11 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021[22], riconosce la possibilità, ai libero-professionisti nei confronti dei quali - per comprovate “specifiche condizioni cliniche” - è prevista ex lege un’eccezione all’obbligo vaccinale (“la vaccinazione non è obbligatoria e può essere omessa o differita”), di proseguire l’esercizio dell’attività lavorativa osservando le misure di prevenzione igienico sanitarie contenute nel Protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali.
Secondo il giudice di Padova, pertanto, il trattamento discriminatorio si consumerebbe proprio in questa previsione.
Da un lato, si ha il lavoratore non vaccinato poiché renitente alla somministrazione del vaccino; dall’altro, si ha il lavoratore non vaccinato in ragione di accertati pericoli di salute.
Sebbene in via astratta entrambi i lavoratori risultano essere sprovvisti del requisito essenziale per l’espletamento della propria attività professionale[23], il legislatore fa discendere due diversi trattamenti: la sospensione dal rapporto di lavoro e della relativa retribuzione al primo, l’adibizione a diverse mansioni – confacenti a scongiurare la diffusione del rischio di diffusione del contagio – e l’adozione delle misure igienico-sanitarie indicate dal Protocollo di sicurezza, al secondo.
In attesa di apprendere il responso della Corte di Giustizia circa l’effettiva violazione della norma europea e dovendo necessariamente escludere dalle riflessioni che di seguito si cercherà di sviluppare, le questioni afferenti il conflitto tra norme nazionali e sovranazionali, si vuole provare di seguito ad avanzare qualche valutazione sul caso di specie, non potendo esimersi dal ricorrere all’aiuto-guida della giurisprudenza della Corte di Giustizia.
A prescindere dal considerando di cui al Regolamento citato nell’ordinanza in commento, si ricorda che il principio di non discriminazione è uno dei principi generali dell’ordinamento sovranazionale, sancito dall’art. 21 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[24] che la Corte di Lussemburgo ha più volte riconosciuto quale diritto soggettivo direttamente invocabile dai privati[25].
In altre parole, ciò significa che per la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio di non discriminazione ha efficacia diretta nei confronti dei singoli e, pertanto, abilita il giudice nazionale a disapplicare una norma nazionale che si ponga in contrasto con tale principio[26].
Ora, anzitutto, oltre a cercare di individuare la natura della discriminazione generata dalla disposizione di cui al comma 11 art. 4, d.l. 44/2021, è bene anche indagare rispetto a quale sia il motivo su cui la discriminazione si fonderebbe.
Relativamente a quest’ultimo punto, la questione non è semplice: il Regolamento n. 953/2021 prescrive che è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta a svantaggio delle persone non vaccinate “per esempio per motivi medici” o “perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate”.
Dalla lettera della disposizione, tuttavia, si evince che il legislatore europeo abbia richiamato solo in via esemplificativa alcuni dei motivi posti alla base della mancata vaccinazione, lasciando ciò intendere che è possibile configurarne ulteriori.
Si pensi ad esempio a tutti coloro che hanno assunto preoccupanti posizioni di obiezione e di contrasto alla campagna vaccinale, mossi da uno scetticismo generalizzato nei confronti degli studi scientifici che negli ultimi anni sono stati promossi al fine di fronteggiare la pandemia da Covid-19, che hanno condotto alla diffusione dei vaccini.
Oppure, senza spingersi a tali estremismi, si pensi a tutti coloro che hanno scelto di non sottoporsi alla somministrazione del vaccino perché spaventati dagli effetti collaterali che si sarebbero potuti registrare, ad esempio – come è avvenuto nel caso di specie- nel caso in cui si fosse già stati contagiati dal virus.
Generalizzando, può dirsi che in via astratta il fil rouge che lega queste diverse posizioni assunte da soggetti privi dello status di vaccinato è una convinzione personale che, ai sensi dell’art. 21 par. 1 della Carta di Nizza, configura una delle cause di discriminazione per cui è prevista una tutela.
In materia di discriminazione fondate anche sulle convinzioni personali per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro vi è la direttiva 2000/78/CE[27] che fornisce la nozione di discriminazione diretta e indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della stessa direttiva.
Nel caso del citato comma 11 art. 4, in via astratta, potrebbe individuarsi una sorta di discriminazione indiretta, la quale si ritiene sussistere quando “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano (una determinata religione o) ideologia di altra natura (…)”.
È bene segnalare che il giudice di Padova non sembra tenere in conto che il comma 11 art. 4, limiti il trattamento più favorevole agli operatori sanitari esenti dall’obbligo per ragioni mediche, a coloro che prestino la loro attività in regime di lavoro autonomo.
La norma non si riferisce, pertanto, a coloro che svolgono la loro prestazione in regime di subordinazione: il decreto prevede, infatti, per i sanitari impiegati per i quali la vaccinazione è omessa o differita, il cambio di mansioni (ius variandi orizzontale) senza decurtazione della retribuzione.
Ad ogni modo, in via astratta, è possibile rinvenire un trattamento meno favorevole nei confronti di coloro che volontariamente decidono di non adempiere all’obbligo vaccinale, a maggior ragione se si pensa che nella versione definitiva dell’art. 4 è stato espunto il comma che prevedeva la possibilità di modifica delle mansioni, anche inferiori, per i sanitari reticenti al vaccino.
Provando a seguire il ragionamento del giudice ed esemplificando, può dirsi che il trattamento presumibilmente discriminatorio consisterebbe nel fatto che, sebbene il medico che non voglia vaccinarsi e il medico che non possa vaccinarsi costituiscano entrambi lo stesso rischio di promanazione del virus, la norma preveda per quest’ultimo un trattamento sicuramente più svantaggioso (come visto, una volta accertata l’inosservanza dell’obbligo si verifica “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”).
Bisogna segnalare, tuttavia, che guardando alla direttiva 2000/78, l’art. 2, par. 2, lett. b), dispone che la disposizione, il criterio o la prassi che pongono in una posizione di particolare svantaggio “le persone che professano una determinata (…) ideologia (…)” non determinano una discriminazione indiretta se “siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
Come chiarito e precisato nel d.l. n. 44/2021, lo scopo primario dell’imposizione della somministrazione del vaccino nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario è quello di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.
Se dunque, da un lato, può ritenersi sussistere l’oggettiva giustificazione e la legittima finalità della disposizione, dall’altro, sul giudizio relativo alla proporzionalità delle misure impiegate per il conseguimento della stessa, invece, può concludersi dicendo che tale quesito rivolto alla CGUE viene in parte assorbito dal quesito - già analizzato nelle pagine precedenti - in tema di conformità della norma interna al principio di proporzionalità. Dovrà attendersi, pertanto, la pronuncia della Corte di Giustizia.
5. Valutazioni conclusive alla luce degli ultimi aggiornamenti normativi.
Come più volte indicato precedentemente, l’art. 4 è stato più volte aggiornato.
Come è noto, sulla scorta di tale disposizione, ne sono state emanate altre[28] – tutte concorrenti a raggiungere il medesimo scopo di tutela della sicurezza pubblica – che hanno ampliato il perimetro soggettivo della platea degli obbligati a sottoporsi alla vaccinazione.
Il d.l. n. 24 emanato il 24 marzo 2022 ha apportato alcune modifiche all’art. 4: ha, da un lato, prorogato il termine ultimo entro il quale vige l’obbligo vaccinale nei confronti degli operatori sanitari[29] e, dall’altro, sembrerebbe delineare un’ipotesi di eccezione alla sospensione del rapporto di lavoro e relativa retribuzione dell’operatore sanitario non vaccinato.
La disposizione, infatti, chiarisce che un soggetto non vaccinato che abbia contratto il virus, una volta guarito, possa porre istanza all’Ordine professionale territorialmente competente, il quale dovrà disporre la cessazione della sospensione “sino alla scadenza del termine in cui la vaccinazione è differita in base alle indicazioni contenute nelle circolari del Ministero della salute”[30].
Si tratta, sicuramente, di una novità rilevante che sembra tuttavia generare qualche contraddizione con la disposizione di cui al primo comma, quando il legislatore assurge il vaccino quale “requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative”.
Il sanitario non vaccinato, contagiato e poi guarito, infatti, non può più essere sospeso e potrà proseguire la sua attività lavorativa benché in difetto di quel requisito di cui, ora, la stessa norma sembrerebbe metterne in discussione l’imprescindibilità.
Ovviamente non è dato, allo stato, prevedere come la Corte di Giustizia si esprimerà su questi e sugli ulteriori quesiti rivolti dal giudice del lavoro di Padova. Non ci sono dubbi, tuttavia, che il suo intervento configurerà una fondamentale direttrice per i giudici nazionali che dovranno fronteggiare l’ampio contenzioso che, rispetto a questo tema, inevitabilmente, si potenzierà.
[1] In generale, in tema di obbligo vaccinale previsto per gli operatori sanitari si rinvia a: P. Pascucci e C. Lazzari, Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n. 44, in Dir. sic. lav., 2021, 1, p. 153; C. Pisani, Vaccino anti-covid: oneri e obblighi del lavoratore alla luce del decreto per gli operatori sanitari, in Mass. giur. lav., 2021, 1, p. 151; V.A. Poso, Dei vaccini e delle «pene» per gli operatori sanitari. Prime osservazioni sul D.L. 1° aprile 2021, n. 44 (G.U. n. 79 del 1° aprile 2021), in Labor, 10 aprile 2021; F. Scarpelli, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi. Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021, promosse e coordinate da V.A. Poso, 3 aprile 2021, p. 6. Ancora, su questa Rivista v. le interessanti posizioni emerse in M. Basilico, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale? Intervista di M. Basilico a F. Amendola, R. De Luca Tamajo e V. A. Poso, 30 marzo 2021.
[2] Tra la dottrina costituzionalista che si espressa sul tema, si rinvia per tutti a F. Grandi, L’art. 32 nella pandemia: sbilanciamento di un diritto o “recrudescenza” di un dovere?, Costituzionalismo.it, 1, 2021; v. anche l’intervista a Sabino Cassese comparsa sul quotidiano il Mattino, il 30.12.2020, quando il dibattito circa l’opportunità dell’obbligo vaccinale iniziava poco a poco ad accendersi: “la Costituzione prevede trattamenti sanitari obbligatori, purché siano disposti con legge e rispettino la persona umana”.
[3] La versione originaria del comma 8, art. 4 d.l. n. 44/2021 recitava: “(…) il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.” Si noti che il discrimine rispetto alla disciplina generale del demansionamento consisteva nel fatto che in tale speciale ipotesi non si rinveniva il diritto alla conservazione del livello di inquadramento. Come detto in precedenza, nella versione attualmente in vigore dell’art. 4, è stata eliminata la possibilità di modificare le mansioni, anche in pejus, dell’operatore sanitario che violi l’obbligo vaccinale. L’unica ipotesi di ius variandi è attualmente prevista per coloro nei confronti dei quali non vige l’obbligo di vaccinazione per ragioni di salute ex art. 4 comma 7 del d.l. n. 44/2021, così come modificato dal d.l. n. 172/2021: “Per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”. In dottrina, sul punto, v. anche M. Verzaro, Ecce lex! L’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, LDE, 2, 2021, 12.
[4] Il legislatore è intervenuto più volte sul testo dell’art. 4, d.l. n. 44/2021: dapprima in sede di conversione, la l. n. 76/2021 ha disposto, con l’art. 1 comma 1, la modifica dei commi 1,3,5,6, e 8. Successivamente, il Governo in funzione delegata ha sostituito per intero la disposizione con l’art. 1 comma 1 lett. b del d.l. n. 172/2021. In sede di conversione, la l. n. 3/2022 ha disposto l’introduzione del comma 1-bis dell’art. 4 e la modifica dei commi 2,3,4,5, e 6.
[5] In generale, si rinvia a G. Tesauro, Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di Giustizia nell’evoluzione dell’Unione Europea, DUE., 3, 2013, 483 ss.; L. Garofalo, Sulla competenza a titolo pregiudiziale della Corte di Giustizia secondo l’art. 68 del Trattato CE, DUE, 4, 2000, 805 ss.
[6] Cfr. Regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno “su un quadro per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell'UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19”.
[7] Cfr. “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 che istituisce procedure comunitarie per l'autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, nonché istituisce l'agenzia europea per i medicinali (EMA)”.
[8] Cfr. Capo I, artt. 55 e ss. del Reg. (CE) n. 726/2004.
[9] Cfr. i considerando del Reg. n. 726/2004. Cfr. il considerando n. 2: “Nel caso di determinate categorie di medicinali, al fine di rispondere a necessità mediche insoddisfatte dei pazienti e nell’interesse della salute pubblica, può tuttavia risultare necessario concedere autorizzazioni all’immissione in commercio basate su dati meno completi di quelli normalmente richiesti e subordinate ad obblighi specifici (…) Le categorie interessate sono (…)i medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità o dalla Comunità nel quadro della decisione n. 2119/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 settembre 1998, che istituisce una rete di sorveglianza epidemiologica e di controllo delle malattie trasmissibili nella Comunità (…). E ancora, cfr. lo stesso art. 2 che nel definire il campo di applicazione del Regolamento, dispone che “si applica ai medicinali per uso umano di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, del regolamento (CE) n. 726/2004” purché appartenenti alle categorie specificate ai numeri successivi. Al numero 2 si legge: “medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica, debitamente riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità ovvero dalla Comunità nel contesto della decisione n. 2119/98/CE”. La situazione d’emergenza, pertanto, deve essere tale da configurare una minaccia alla salute pubblica. Ebbene, risulterà forse ultroneo rammentare che, il 30 gennaio 2020, l’epidemia da COVID-19 è stata dichiarata dall’OMS un’emergenza sanitaria. Risulta perfezionato, pertanto, il presupposto contestuale che giustifica il ricorso a tale procedura condizionata.
[10] Il vaccino Comirnaty di Pfizer-BioNtech è stato il primo vaccino ad essere stato autorizzato in Unione Europea: il 21 dicembre 2020 dall'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e il 22 dicembre dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Il vaccino Spikevax (Moderna) è stato autorizzato dall'EMA il 6 gennaio 2021 e il 7 gennaio 2021 dall'AIFA.
Vaccino Vaxzevria di AstraZeneca - il 29 gennaio è stato autorizzato dall’EMA e il 30 gennaio dall’AIFA.
Vaccino Janssen (Johnson & Johnson) - l'11 marzo è stato autorizzato dall'EMA e il 12 marzo 2021 dall'AIFA
Vaccino Nuvaxovid (Novavax) - il 20 dicembre è stato autorizzato dall’EMA e il 22 dicembre dall'AIFA. La lista dei vaccini attualmente autorizzati è consultabile al seguente link vaccini COVID-19 | Agenzia europea per i medicinali (europa.eu).
[11] Il riferimento è alle cure degli anticorpi monoclonali e alle cure antivirali orali. Per approfondimenti si rinvia al sito dell’AIFA, Emergenza COVID-19 | Agenzia Italiana del Farmaco (aifa.gov.it).
[12] Cfr. CGUE, 19.06.1990, n. 213, Foro it. 1992, IV,498, cfr. anche, forse la più nota, sentenza Simmenthal, CGUE, 9.03.1978, n. 106, DeJure.it, e cfr. la più recente CGUE, 13.03.2007, n.432, RDint. 2007, 4, 1196.
[13] Cfr. punto n. 20 della sentenza Zuckerfabrik “La tutela cautelare garantita dal diritto comunitario ai singoli dinanzi ai giudici nazionali non può variare a seconda che essi contestino la compatibilità delle norme nazionali con il diritto comunitario oppure la validità di norme del diritto comunitario derivato, vertendo la contestazione, in entrambi i casi, sul diritto comunitario medesimo.”
[14] Si noti, infatti, che le sentenze riportate dal Tribunale nell’ordinanza di rinvio in tema di sospensione dell’efficacia di atti da parte dei giudici nazionali, avevano tutti ad oggetto atti aventi natura normativa.
[15] Cfr. art. 267 TFUE
[16] Cfr. diffusamente, L. Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Giuffrè Editore, 2020, o ancora, cfr. dello stesso A., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e Trattato di Lisbona, DUE, 2008, 4, 655-659.
[17] Cfr. CGUE, 07.09.2006, n. 310, DeJure.it; CGUE, 16.10.1991, n. 24, DeJure.it; CGUE, 11.03.1987, nn. 279, 280, 285, 286, DeJure.it.
[18] Cfr. il comma 6 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 nella sua formulazione originaria.
[19] Per una rassegna della giurisprudenza in tema di obbligo vaccinale per le professioni sanitarie si rinvia ad A. De Matteis, Dal Tribunale di Belluno al Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045. Uno sguardo sulla giurisprudenza in tema di obbligo di vaccino, Labor, 5 novembre 2021. Un interessante commento alla sentenza del CdS dell’ottobre 2021 è fornita da F. Gambardella, Obbligo di vaccinazione e principi di precauzione e solidarietà (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045), su questa Rivista, 30 novembre 2021. Si segnala, inoltre, l’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale del 22 marzo 2022, n. 351, del Consiglio di Giustizia amministrativo per la regione Sicilia in tema di legittimità dell’obbligo vaccinale, inedita a quanto consta.
[20] Come detto in precedenza, l’art. 4 d.l. n. 44/2021 è stato sostituito integralmente dal d.l. n. 172/2021. L’ art. 1 lett. b) modifica, tra gli altri, anche il comma 4 e chiarisce: “L'atto di accertamento dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale è adottato da parte dell'Ordine professionale territorialmente competente, all'esito delle verifiche di cui al comma 3, ha natura dichiarativa e non disciplinare, determina l'immediata sospensione dall'esercizio delle professioni sanitarie ed è annotato nel relativo Albo professionale”.
[21] Cfr. REGOLAMENTO (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2021 su un quadro per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell'UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19.
[22] Nella formula attualmente vigente dell’art. 4, questa disposizione è contenuta nel comma 8.
[23] Cfr. art. 4 comma 1, d.l. n. 44/2021: “La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
[24] Cfr. art. 21, par. 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
[25] Cfr. CGUE, 15.01.2014, n.176, in DRI, 2014, 4 , 1178, nt. Corti; CGUE, 19 aprile 2016, n. 44, DeJure.it; CGUE 17 aprile 2019, n. 414, DeJure.it; CGUE, 14 marzo 2017, n. 157, DeJure.it; CGUE, 11 settembre 2018, n. 68, DeJure.it.
[26] Cfr. in generale, più di recente, sul tema, M. Barbera, S. Borelli, “Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione”, CSDLE.It, 451/2022.
[27] Nel nostro ordinamento, la direttiva 2000/78/CE è stata attuata dal d.lgs n. 216/2003.
[28] Cfr. art. 4-bis; 4-ter; 4 ter.1; 4 ter.2; 4 quater, d.l. n. 44/2022.
[29] Cfr. art. 8, comma 1, lett. a), d.l. n. 24/2022. Allo stato, il termine è il 31 dicembre 2022.
[30] Cfr. art. 8, comma 1, lett. b), punto 2, d.l. n. 24/2022.